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Eppur si condivide


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Staccò la foto di Khamenei dal muro della classe, l’hanno ridotta allo stato vegetativo


Hasti, ha 16 anni, è curda e vive su una sedia a rotelle in stato semi vegetativo perché l’unico desiderio di Khamenei è quello di sedere per sempre sul suo trono di potere, esercitare la sua spietata misoginia e inasprire il regime di apartheid di genere

Hasti, ha 16 anni, è curda e vive su una sedia a rotelle in stato semi vegetativo perché l’unico desiderio di Khamenei è quello di sedere per sempre sul suo trono di potere, esercitare la sua spietata misoginia e inasprire il regime di apartheid di genere.

Hasti Hossein Panahi vive nella circoscrizione di Dehgolan, a est di Sanandaj, cuore del Kurdistan iraniano. Era un’adolescente intraprendente, una ribelle assieme alle sue compagne di Liceo con le quali esprimeva il rifiuto dell’obbligo dell’hijab irridendo la guida suprema Ali Khamenei e il grande ayatollah, Ruhollah Khomeini, facendosi fotografare mostrando il dito medio accanto ai ritratti dei mullah appesi alle pareti della loro classe. Sfidano così apertamente la regola dell’hijab le giovani donne iraniane e pubblicano in Rete le foto e i video delle loro performance per incoraggiare le loro coetanee alla ribellione.

Quel giorno di novembre del 2022, Hasti strappò dalla parete della sua classe le foto degli ayatollah. In quel momento irruppero nella scuola le forze paramilitari basij dei volontari dei pasdaran che aveva visionati i filmati delle telecamere di sorveglianza. Tutte le studentesse della scuola furono tradotte in un luogo sconosciuto e lì furono duramente picchiate da agenti in borghese e poi furono riportate a scuola.

Il 9 novembre 2022, fu convocata dal Dipartimento dell’Istruzione della città di Dehgolan e le fu detto che se non avesse collaborato con le forze di polizia facendo da delatrice avrebbero reso pubblico il video in cui lei strappava dalla parete della scuola le foto di Khomeini e di Khamenei e che ciò avrebbe determinato la sua espulsione dalla scuola.

Poco dopo la ragazza sarebbe entrata in coma. La polizia sostiene che avrebbe tentato il suicidio gettandosi da un’auto delle basij in movimento dopo aver lasciato il Dipartimento dell’Educazione. Lo stress mentale causato dalle richieste di cooperazione delle forze di sicurezza e dalla minaccia di espulsione dalla scuola, avrebbe spinto la giovane al suicidio e per questo sarebbe entrata in coma.

Hasti fu trasportata in elicottero all’ospedale Kausar di Sanandaj. Da allora non si è più completamente ripresa, il suo livello di coscienza è estremamente basso ed è costretta su una sedia a rotelle.

Solo da poco, in occasione della festività del Nowruz, il capodanno persiano appena trascorso, Hasti è stata dimessa dall’unità di terapia intensiva dell’ospedale di Sanandaj.

La famiglia della ragazza, così come un’insegnante ed altri testimoni oculari sostengono invece che Hasti sarebbe entrata in come subito dopo essere stata picchiata violentemente e che non sarebbe mai stata portata nel Dipartimento dell’Educazione delle basij. Sarebbe stata invece colpita più volte alla testa con un manganello subito dopo essere stata prelevata dalla scuola e portata in un luogo sconosciuto.

Simili atti che destano un profondo orrore non sono inusuali per le autorità pasdaran iraniane. Nei centri di detenzioni vi sono anche minori sottoposti a fustigazione, scosse elettriche e a violenza sessuale. Lo riferiscono nei loro rapporto molto dettagliati e documentati le organizzazioni umanitarie come quella curda Hengaw e Amnesty International.

Nei loro report denunciano che l’intelligence e le forze di sicurezza iraniane hanno commesso orribili atti di tortura con pestaggi, fustigazioni, scosse elettriche, stupri e altre violenze sessuali su minori manifestanti di appena 12 anni per reprimere il loro coinvolgimento nelle proteste in corso a livello nazionale.

Amnesty in uno dei suoi ultimi rapporto descrive la violenza inflitta ai bambini arrestati durante e dopo le proteste. La ricerca parla di metodi di tortura che le guardie rivoluzionarie, i basij, le milizie della cosiddetta di pubblica Sicurezza e altre milizie al servizio di Khamenei e delle forze di intelligence, usano contro ragazzi e ragazze in custodia per punirli e umiliarli ed estorcere loro “confessioni” forzate.

Gli agenti statali iraniani strappano i minori alle loro famiglie e li sottopongono a indescrivibili crudeltà, infliggendo gravi sofferenze e angoscia a loro e ai loro genitori, provocando su di loro gravi cicatrici fisiche e mentali.

La violenza contro i minori rivela una efferata e ben precisa e deliberata strategia per schiacciare lo spirito vibrante dei giovani del paese e impedire loro di chiedere libertà e diritti umani.

Il 70% della popolazione iraniana ha una età inferiore ai 30 anni e dunque per stroncare la rivoluzione l’obiettivo da colpire è rappresentato dai giovanissimi.

Minori con gli occhi bendati vengono trasferiti in centri di detenzione gestiti dalle guardie rivoluzionarie e dal Ministero dell’Intelligence. Dopo giorni o settimane di detenzione in isolamento i minori vengono trasferiti nei vari penitenziari.

Come avvengono i rapimenti dei manifestanti? Agenti in borghese con furgoni bianchi rapiscono i manifestanti che protestano per le strade, compresi i minori. Li traducono in luoghi non istituzionali, in genere in magazzini, dove li torturano prima di abbandonarli in luoghi remoti.

Non sono veri e propri arresti. Sono appunto rapimenti con lo scopo di punire il manifestante, di intimidirlo e dissuaderlo dal partecipare alle proteste. La tecnica è mutuata dalla organizzazioni criminali, dalla mafia o da organizzazioni terroristiche. Molti minori vengono trattenuti insieme ad adulti, contrariamente agli standard internazionali, e sottoposti agli stessi schemi di tortura e ad altri maltrattamenti.

Un ex detenuto ha raccontato ad Amnesty International che, in una provincia iraniana, miliziani Basij, hanno costretto diversi minori a stare in fila con le gambe divaricate accanto a detenuti adulti e hanno inferto loro scosse elettriche nelle zona genitale con dissuasori Taser.

La maggior parte dei minori arrestati negli ultimi sei mesi di proteste è stata rilasciata su cauzione in attesa di rinvii a giudizio. È un modo questo anche per finanziare la giustizia criminale iraniana.

Molti manifestanti, anche minori, vengono rilasciati solo dopo essere stati costretti a firmare lettere di “pentimento” e solo dopo aver promesso di astenersi da “attività politiche” e dal partecipare a manifestazioni filogovernative.

Prima di rilasciarli, gli agenti minacciato i minori dicendo loro che se avessero sporto denuncia sarebbero finiti impiccati e i loro parenti sarebbero stati arrestati.

Ma alcuni familiari, nonostante le minacce, hanno presentato denunce ufficiali alle autorità giudiziarie, ma nessuna di esse finora ha fatto adeguate indagini.

Una madre ha raccontato all’associazione per i diritti umani Hengaw che agenti basij avevano stuprato suo figlio con un tubo dopo che era stato rapito. Il ragazzo ha raccontato alla mamma: “Mamma, mi hanno sospeso per le braccia fin a quasi strapparmele e mi hanno violentato con un tubo costringendomi a confessare quello che volevano loro”.

Altri metodi di tortura consistono nella somministrazione forzata di pillole per alterare l’equilibrio psicologico della vittima e l’immersione in acqua della testa delle vittime. Diverse adolescenti sono state rapite solo per aver scritto su un muro lo slogan motto delle proteste, “Donna, vita, libertà”.

Le famiglie delle vittime hanno raccontato ad Amnesty International i metodi di tortura praticati dagli agenti della sicurezza tra i quali quello di sospendere per le braccia nel vuoto i malcapitati, costingendoli a subire atti umilianti. Giovani prigioniere vengono rinchiuse in celle senza servizi igienici e lavabi, senza cibo, senza acqua, esposti al freddo e in isolamento prolungato. Ai feriti spesso vengono negate le cure mediche necessarie.

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La prima vittima. Pace, guerra e poteri segreti. Il 4 maggio h.15, c/o l'Unipisa, avrà luogo il convegno con Stefania Maurizi e Nico Piro (grazie a M.C. Pievatolo e Daniela Tafani per la segnalazione)


Giovedì 4 maggio, alle ore 15.00, presso l'Aula Magna Nuova del Palazzo "La Sapienza", avrà luogo il convegno dal titolo "La prima vittima. Pace, guerra, poteri segreti", organizzato dal Dipartimento di Scienze politiche e dal Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace (CISP).

@Etica Digitale (Feddit)

A partire dal detto secondo cui la verità è la prima vittima della guerra, il convegno si propone di analizzare le strategie di controllo del discorso pubblico che accompagnano le guerre contemporanee.

I relatori sono Stefania Maurizi @stefania maurizi e Nico Piro @Nico Piro , due giornalisti di fama internazionale che hanno dedicato le loro inchieste e i loro libri a questi temi.
Ricordiamo, in particolare
- Stefania Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks (Chiarelettere, 2021)
- Nico Piro, Maledetti pacifisti. Come difendersi dal marketing della guerra (People, 2022).

È richiesta la prenotazione per partecipare. Prenota

La locandina

Questa voce è stata modificata (2 anni fa)


Quella sera, al Raphael, iniziò l’inverno della politica


In piena Tangentopoli, l’Italia si ribellò a una classe politica. Il 30 aprile 1993, il primo a pagare il conto della piazza fu il segretario del Psi. «Ero lì, dentro quella macchina bersagliata da una grandinata di odio». L’assalto delle “monetine” racco

In piena Tangentopoli, l’Italia si ribellò a una classe politica. Il 30 aprile 1993, il primo a pagare il conto della piazza fu il segretario del Psi. «Ero lì, dentro quella macchina bersagliata da una grandinata di odio». L’assalto delle “monetine” raccontato, per la prima volta, da chi era accanto al suo leader

La storia, quando decide di farsi, mica ti avverte. E spesso, manco te ne accorgi; soprattutto se ci sei dentro. Così è stato per quel 30 aprile del 1993: la sera delle “monetine al Raphaël”. Per anni, ben 30, ho letto racconti e testimonianze di quell’evento. Alcune precise e attente – tra tutte 30 aprile 1993 di Filippo Facci – e altre decisamente liriche e romanzate o semplicemente cialtrone. Come faccio a sostenerlo? Ero lì, dentro quella macchina bersagliata da una grandinata di odio; seduto alla sinistra di Craxi. Perché? Ero il segretario dei Giovani Socialisti; avevo 26 anni e oggi sono, probabilmente, il più giovane fossile vivente della “Prima Repubblica”.

Andiamo per ordine. Cosa stava accadendo? L’Italia, dimentica degli anni Settanta, quelli di piombo, voleva cancellare gli anni Ottanta, quelli dell’edonismo reaganiano, per ribellarsi a una classe politica che, si sosteneva, avesse impoverito e distrutto il Paese. In realtà, l’Italia era uscita da una drammatica crisi economica, passando, col Governo Craxi, dal 17° al 5° posto nel mondo. Aveva abbattuto l’inflazione a due cifre obbligando il futuro del suo esecutivo al successo del referendum sulla Scala mobile. Ma, si sostiene, il debito lievitò. In realtà, il Paese aveva in corpo tre metastasi: il terrorismo, l’inflazione e il debito. Si decise di aggredire le prime due confidando sul fatto che l’Italia, a differenza per esempio degli Usa, aveva il 90 per cento del proprio debito contratto con i suoi cittadini (padroni negli anni Ottanta, per il 70 per cento, delle loro case).

Ma torniamo all’insurrezione della “società civile”. Quest’ondata rivoluzionaria, in verità, non esplodeva solo in Italia, ma in Francia, Germania, Spagna, Belgio, Portogallo, Grecia; insomma, alla fine della Guerra Fredda venivano mandate a casa intere classi dirigenti con una modalità che il libro di Daniel Soulez Larivière chiamerà il «Circo mediatico giudiziario» (in Russia, per esempio, la si spiegava così: “Lo sai che differenza c’è tra un politico e una mosca? Nessuna, si ammazzano entrambi con un giornale”). Il clima non era dei migliori. Gianfranco Funari, nel 1992, su Italia Uno, faceva spot dal tono “Vai avanti Di Pietro!” – poi verrà con me ad Hammamet, ricredutosi su quella stagione, per incontrare Craxi – e ancora, negli anni successivi il più diffuso settimanale del tempo, TV Sorrisi e Canzoni, usciva con la copertina dedicata all’idolatria del magistrato di Montenero di Bisaccia (11 luglio 1992: Di Pietro facci sognare; 12 febbraio 1994: Di Pietro Bis). Silvio Berlusconi, editore del settimanale, intervistato in quei giorni sulle accuse rivolte a Craxi, se la cavò con un diplomatico «Ci saranno i processi», frase alla quale Craxi rispose, puntando il ditone verso il televisore di fronte a noi: «E i prossimi saranno i tuoi!» (in realtà gli voleva molto bene, ma non serviva Nostradamus per capire che sarebbe andata a finire proprio così).

Tangentopoli nasce per fatti consumatisi tra l’89 e il ’92 (dall’amnistia che aveva cancellato tutti i precedenti reati di finanziamento verificatisi prima del crollo del muro di Berlino fino alla caduta della “Prima Repubblica”). Con questo artificio, il finanziamento veniva definito lecito o illecito a seconda dell’epoca e nella stessa epoca a seconda dei partiti: oltre 4mila arresti, 42 suicidi, 25mila avvisi di garanzia, 1.069 parlamentari e uomini politici coinvolti. Questa è stata Tangentopoli. Non una guerra. Ma nemmeno una bella pace. Per questo Craxi, unico dei leader della politica italiana, andò a fissare alcuni concetti nel luogo deputato: alla Camera. In realtà lo fece in più appuntamenti tra il ’92 e quel ’93. Disse cose laceranti per i partiti che «hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale».

Attenzione non è il “tutti colpevoli, nessun colpevole”. No, è il tutti colpevoli e basta. Incassò un silenzio assordante. Sarebbe bastato che si fosse alzato uno dei presenti per fare, che so, una pernacchietta. Niente. Tutto costa, anche organizzare il proprio funerale, figuriamoci costruire e gestire un movimento politico. Il finanziamento illecito è drammaticamente sempre esistito. Per questo, in politica, chi è senza peccato s’informi dal proprio cassiere. O faccia leggi per scongiurare questo ricatto. E così, trent’anni dopo, ci ritroviamo tra contenziosi per scontrini, leader politici consulenti di sceicchi e combattive brigate per la difesa dell’indennità non riversata al partito. Ma se vi rileggete o ascoltate gli interventi di Craxi e poi li confrontate con quelli dei leader che sono seguiti, il sentimento più naturale da cui sarete pervasi è lo sconforto. Craxi, va riconosciuto, era assai odiato. Sarà per quella “x” sparata in mezzo al cognome, sarà per l’altezza e “quel suo guardarti
dall’alto in basso” (ma se era più di un metro e novanta che avrebbe dovuto fare? Accucciarsi?), sarà per quella vocazione a decidere in un Paese notoriamente indeciso a tutto, ma così era.

E c’è una parte di quelle sue denunce, dentro il Parlamento, che produsse mutismi ancora più rumorosi (o per chi è suggestionabile, inquietanti). Leggete qui cosa dirà, sempre in Parlamento, nel 1993, sui fatti più clamorosi di quei mesi: «Chi sono i criminali che hanno messo le bombe di fronte ai monumenti d’arte, basiliche, luoghi storici e che probabilmente tenteranno di metterne ancora? Chi sono gli assassini che hanno provocato stragi di cittadini innocenti e di servitori dello Stato? (…) C’è una strategia, una tempistica, degli obiettivi che vengono perseguiti con una violenta determinazione. Ritengo che, non da oggi, agisca nella crisi italiana una “mano invisibile”, che punta a esasperare tutti i fattori di rottura e per ottenere questo scopo non esita a ricorrere al classico metodo criminale del terrorismo. Terrorismo mercenario e professionista, non terrorismo ideologico».

Ma di che parlava quest’uomo, tutt’altro che suggestionabile, già presidente del Consiglio e incaricato per l’Onu per le politiche del debito? Il clima rimosso e mai esplorato di trent’anni fa annotava decine di strani furti in case di parlamentari, ministri e leader politici. Il 3 gennaio del 1990 venivano rubate al capo della Polizia, Vincenzo Parisi, le pistole di ordinanza dalla sua auto. Seguiranno sue denunce alla Commissioni stragi il 9 gennaio del 1991 («Vorrebbero fare dell’Italia una terra di nessuno») e una sua circolare, “Riservata”, ai Prefetti, datata 16marzo 1992 in merito a un piano per «destabilizzare l’Italia ». È incredibile che di quegli anni, per esempio, sia stato dimenticato il blackout di Palazzo Chigi seguito, immediatamente dopo, alle bombe di via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro a Roma nella notte tra martedì 27 luglio e mercoledì 28. Il Palazzo del Governo non venne isolato per un guasto della centralina interna, ma per un blackout indotto dall’esterno.

Torniamo alla vigilia di quel 30 aprile. Si votava l’autorizzazione a processare. Craxi e noi sapevamo che saremmo stati sconfitti (io ero seduto sulle tribune della Camera, alle sue spalle, non essendo parlamentare). Ma la votazione andò diversamente. I miracoli sono una cosa seria, e non si scomodano certo per vicende così mondane. Accadde solamente che diverse forze politiche, che avrebbero voluto gridare allo scandalo, votarono nel segreto dell’urna per salvare Craxi in aula. E poi scannarlo in piazza. E così andò. Siamo al 30 aprile. Con Craxi dividevamo un ufficio in via Boezio (il partito, come l’intera classe politica, si stava “onestizzando” e quindi non c’era più spazio in via del Corso per lui, e il sottoscritto, nella sede del Psi). L’ufficio verrà soprannominato dalla stampa “il covo di via Boezio” in ragione dei segretissimi dossier lì contenuti: per la maggior parte le cartelline dei miei articoli ritagliati (in verità molto ordinati). Si trovava nel palazzo accanto allo stabile in cui vivevano l’ex presidente Francesco Cossiga e l’allora sindaco di Roma, Francesco Rutelli, in via Quirino Visconti; sotto di noi, uno dei primi centri massaggi dalle prospettive equivoche (una volta, fuori Roma, vidi la notizia sul Televideo: «S’incendia l’ufficio di Craxi», ma in realtà, fortunatamente, era il centro massaggi, probabilmente in ragione dell’escandescenza di qualche focoso cliente). Quella mattina Serenella Carloni, la storica segretaria di Bettino, mi aveva confermato che lui non si sarebbe affacciato da noi.

Craxi decise quel giorno di non lasciare l’albergo. Viveva al Raphaël, di proprietà del suo fraterno amico, Spartaco Vannoni, ex comunista, mancato qualche anno prima. La sua stanza era un monolocale in cui tutto sembrava arredato con la cura dello studio di Geppetto nella balena di Collodi: libri, cimeli garibaldini, carte, quotidiani, riviste e poi ancora libri (e se cercavate gli anni Ottanta trovavate quelli del secolo precedente). Arredamento: ordinario disordinato. Il Raphaël si affaccia su Largo Febo; Febo, probabilmente, sta per Apollo, dio adottato da Augusto come difensore delle tecniche, scienze, bellezza e della luce. E qui il mito diventa strabico: Largo Febo è stretto e buio. Si trova a pochi metri da PiazzaNavona, ma non la vede (un po’ come stare al Louvre, a qualche metro dalla Gioconda, e avere la vista sui bagni). A spanne misurerà, a vantarsi, 200 metri quadri. Per ospitare coloro che giurano, in una sorta di proiezione isterica collettiva, di essersi ritrovati quella sera in quel luogo, a urlare o semplicemente a guardare, sarebbe servita una piazza un poco più grande di piazza Tienanmen. La facciata dell’albergo è la quinta scenica di questo teatrino e il nome rimanda, forse, a Raffaello che ha affrescato l’arco della cappella Chigi a Santa Maria della Pace alle sue spalle.

Intanto il tormentone, quotidiano, della mia risposta alla prima telefonata di Craxi: «Cosa bolle in pentola?» «Noi», quel giorno suonava meno ironico. La stampa strillava allo scandalo e alcuni quotidiani erano usciti in formato manganello etico (il giornale che, ripiegato più volte, offriva per tutta la lunghezza la scritta “Vergogna!” a caratteri cubitali, maiuscoli e in grassetto). L’unico appuntamento della giornata era l’intervista in diretta, in prima serata, con Giuliano Ferrara (presso gli studi di Canale 5). Di ora in ora, le forze dell’ordine modificavano il loro assetto con alternanza di corpi e mezzi; all’interno del Raphael molti i poliziotti; quelli in borghese si riconoscevano dal tintinnio delle manette appese alla cintura. Perché le manette? Per l’intera giornata feci la spola tra via Boezio e il Raphaël per incontrare quegli amici e collaboratori ancora storditi dall’imprevista notizia del giorno prima; in realtà ero furibondo per non essere riuscito ad armare un manipolo sufficiente a reagire a quel clima (il mio spirito cristiano si ferma a porgere la seconda guancia; oltre si può reagire).

Mi muovevo con lamia “moto blu”: un Peugeot Metropolis di terza mano, appunto blu, privo di diversi elementi funzionali e decorativi, così da renderlo, almeno fino al 1997, resistente al furto. Il rumore di quelle ore si era apparecchiato attraverso numerose giornate di silenzi; silenzi a pranzo, silenzi a cena. Non c’era nessuno, perché lui non voleva più vedere nessuno e perché molti avevano paura a farsi vedere con lui. Meno male che qualcuno veniva a trovarci nelle nostre case e nei nostri uffici. Solo che avveniva quando noi non c’eravamo. Craxi, la sua famiglia e il sottoscritto ricevemmo in quel periodo, in quelle abitazioni, 11 perquisizioni vestite da furti. Forse era per toglierci qualcosa, forse era permettercelo. Ma almeno ci tenevano vivi regalandoci un po’ di attenzione. Il Pds aveva deciso di organizzare a Piazza Navona, per il pomeriggio inoltrato, la manifestazione del suo popolo, così da urlare la sua indignazione e poi farla confluire nella piazzetta alle spalle. Per l’intera mattinata, le agenzie, radio e telegiornali avevano soffiato sul clima di rivolta nel Paese: fax, proteste, mancavano le processioni, ma il Paese “civile” stava reagendo (Gianfranco Fini, per esempio, annunciò iniziative esemplari e il Secolo d’Italia pubblicò il numero del Quirinale, così che i cittadini «potessero far pervenire alla Presidenza della Repubblica il loro sdegno»). A Roma si dice che «l’inventore della forca ci morì impiccato», conseguenza del «c’è sempre un puro più puro che ti epura», ma la predestinazione di zona era incline alla tipologia di spettacolo: Mastro Titta, il boia di Roma, esercitava la sua apprezzata professione qualche via più a nord, mentre poco più a sud fu arso vivo Giordano Bruno e un po’ più a sud ovest fu squartato Cola di Rienzo.

Insomma, quando Craxi, in Tunisia, mi ripeteva «in fondo, nella lotta politica, morire nel proprio letto è un privilegio», penso focalizzasse questi esercizi della creatività umana. Verso le otto della sera mi avverte che sta per scendere. Mi allontano dal poliziotto che mi marcava
per invitarmi a suggerire a Craxi un’uscita sul retro (decisamente allarmati per il disastro tattico che aveva consentito il crearsi di quell’assembramento di fronte all’albergo). Sceso nella hall, tutto si consumò velocemente. Craxi rivolse delle premurose scuse agli ospiti dello hotel, involontari spettatori di quel disordine, e quando il poliziotto mi pregò con gli occhi di anticipare la proposta di dipartita tattica, fu facile anticiparlo: «Glielo dica lei». Non credo che Craxi abbia nemmeno ascoltato l’invito. Continuò a marciare verso la porta principale e, controllato che ci fossimo tutti, sibilò: «Andiamo!». “Tutti” eravamo tre: Nicola Mansi, il fido “orso biondo”, la gigantesca ombra, autista e guardia del corpo, di Craxi; Umberto Cicconi, suo fotografo, una faccia da Hollywood pronta a farsi esplodere per Craxi, e il sottoscritto. E quindi andammo incontro all’onda. E la sera diventò giorno di flash. E non fu un disegno mediatico. Infatti, il giorno dopo nessun quotidiano racconterà quel fatto in prima pagina e quelle immagini, ripetute all’inverosimile, saranno il frutto della casuale presenza di una troupe (idem per quei pochi scatti fotografici rimasti).

L’auto blindata, una Thema, un cassone inguidabile e impacciato, veniva battuta da caschi e da ogni tipo di oggetto disponibile alla calca umana che usava la macchina come un tamburo. Nonostante la palese assurdità dell’accerchiamento – in quella stagione di bombe e attentati – non celebrai il rito scaramantico che si compiva a ogni entrata in auto: girare la mezzaluna interna alla carrozzeria blindata per infilare la canna della mia Colt Calibro 38. Avevo 26 anni, appunto, ma giravo armato – con regolare licenza – dopo la terza visita alla mia abitazione
nella quale mi era stato lasciato un proiettile sulla scrivania; io da quel giorno ricambiai i sopralluoghi indesiderati preparando una selezione
di carte che volevo i miei interlocutori approfondissero, insieme a un bicchiere d’acqua e un cioccolatino. Lassativo. Sul lunotto di quell’auto guardavamo intanto i volti stravolti da una ferocia e da un’eccitazione invasata. Capivamo che si stava consumando un rito espiatorio: il problema è che il capro eravamo noi. Quindi, in quella sera illuminata a forca, la macchina avanzò lentamente; sia Umberto che il sottoscritto eravamo stati feriti da qualche oggetto, ma l’imperativo che Craxi ripeteva, controllato e senza tradire emozione, era: sorridete. Non era un gesto provocatorio, ma l’ultima arma che ti rimane quando sei circondato dai fumi dell’irrazionale: ridergli addosso. L’inverno della politica stava sfumando, lasciando spazio alla primavera dell’antipolitica. Ovvero, la politica di qualcun altro.

Oggi

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Ecco i risultati degli investimenti Ue in Difesa. Il punto di Braghini


La Corte dei Conti europea (European court of auditors – Eca) ha emesso, come da prassi per tutte le iniziative finanziarie Ue, il primo rapporto speciale di monitoraggio sulla Azione preparatoria per la ricerca nella Difesa (Padr). Si tratta del primo pr

La Corte dei Conti europea (European court of auditors – Eca) ha emesso, come da prassi per tutte le iniziative finanziarie Ue, il primo rapporto speciale di monitoraggio sulla Azione preparatoria per la ricerca nella Difesa (Padr).

Si tratta del primo programma finanziato dal bilancio Ue a supporto dell’industria della Difesa e la politica per la Ricerca e sviluppo militari (90 milioni di euro per il periodo 2017-2019). Tale programma ha aperto la strada come precursore del Programma europeo di sviluppo industriale della difesa (Edidp) e del Fondo europeo di Difesa (Edf), e oggi del Rafforzamento dell’industria europea della difesa attraverso la legge sugli appalti pubblici (Edirpa).

L’analisi fornisce considerazioni e raccomandazioni che comprendono anche altri programmi di Difesa europei.

La Padr è considerata come un test circa la fattibilità e l’interesse degli stakeholders a cooperare in Ricerca e sviluppo militare. Un campo nuovo e sensibile per l’Unione europea e i Paesi membri, come dimostrato anche dalle difficoltà iniziali ad accettare la base legale – a fronte delle note restrizioni del Trattato Ue circa la Difesa – che fa riferimento alla promozione dell’industria, ma non ancora alle capacità militari europee.

L‘Ue si è trovata così ad affrontare, senza esperienza pregressa, un’area nuova con caratteristiche specifiche rispetto al settore civile. Perciò è andata avanti con la cosiddetta “ambiguità costruttiva” per trovare i giusti compromessi all’interno della complessa architettura, delle sue interrelazioni e dei meccanismi europei.

Le lezioni apprese del testbed Padr mostrano risultati limitati e una tempistica eccessivamente ridotta.

È interessante notare che le criticità individuate riguardano sì aspetti amministrativi e gestionali, con l’adozione ritardata di strumenti di analisi e pianificazione e tempi realizzativi eccessivi, ma anche la ridotta disponibilità di risorse umane qualificate dedicate ai programmi di Difesa.

Viene sottolineata la mancanza di una strategia di lungo termine, che la Commissione europea intende sviluppare per preparare il prossimo bilancio pluriennale Ue del 2027-2034.

Le osservazioni dell’Eca segnalano quindi che se la Padr ha consentito alla Commissione europea di testare diversi tipi di processi, è ora necessario un percorso per conseguire coerenza tra strumenti e tempistiche, e l’efficientamento dei meccanismi tra i diversi fondi per la Difesa.

Le osservazioni, unitamente alla sottolineatura che manca una politica di lungo termine, hanno il merito di fornire raccomandazioni per gli operatori e una spinta per i Governi affinché l’Edf realizzi una dinamica con obiettivi coerenti e di lungo termine che incentivi la tecnologia e rafforzi la Difesa europea.

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formiche.net/2023/04/primo-rap…



ConDivisioni


Se si guardasse di più alla sostanza ci si accorgerebbe di essere meno divisi di quel che si racconta. Se ci si occupasse di più della sostanza ci si accorgerebbe che condividere gli obiettivi non impedisce di dividersi fra maggioranza e opposizione, ma s

Se si guardasse di più alla sostanza ci si accorgerebbe di essere meno divisi di quel che si racconta. Se ci si occupasse di più della sostanza ci si accorgerebbe che condividere gli obiettivi non impedisce di dividersi fra maggioranza e opposizione, ma spinge a farlo con attenzione alle scelte anziché alle sceneggiate. Eppure la sostanza viene accuratamente evitata. Perché è imbarazzante, comporta approfondimento e la si considera noiosa. Per addetti ai lavori. Mentre gli addetti ai livori sembrano non accorgersi che se cresce il numero di quelli che non vanno a votare è anche perché non si sentono votati a partecipare alla zuffa sul nulla.

Prendiamo debiti e investimenti, due temi da cui dipende il futuro. E prendiamo il governo attuale, guidato dalla sola forza che si oppose al precedente, nonché il citato precedente, che comprendeva le forze che oggi si oppongono. In questo modo sarà facile vedere che, almeno a parole, tutti condividono la necessità di far diminuire il peso percentuale del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo. Che è una condivisione estendibile a molti altri governi del recente passato, a prescindere dal loro esserci riusciti e dalla coerenza fra proclami e azioni. La sola eccezione è il governo Conte 1, che fece garrire la bandiera del fare più debito per mostrarsi più sovrani, così riuscendo a far una figura sovranamente di palta e doversi rimpiattare dietro illusionismi contabili.

Sul lato investimenti – che il bilancio pubblico italiano ha praticamente cancellato da decenni, con governi di diverso colore e uguale dedizione alla spesa corrente – il ministro Fitto ha detto in Parlamento due cose: a. il governo intende spendere tutti i fondi europei di cui si dispone;
b. le modifiche delle quali si parla non sono relative alle mete ma alle tappe.
Sommando le forze che sostenevano Draghi a quelle che sostengono Meloni, convergenti sul medesimo Pnrr, si totalizza l’unanimità sulle mete.

Lo scopo di quegli investimenti non è quello di rendere moderna e competitiva la produzione industriale italiana, perché lo è di già (interessanti le considerazioni del professor Marco Fortis, su “Il Sole 24 Ore” di ieri); lo scopo è sanare gli squilibri strutturali (scuola, sanità, digitale, mobilità, pubblica amministrazione) e territoriali (Nord-Sud, ma anche i diversi Nord e i diversi Sud). L’Italia produttiva corre che è una bellezza, difatti facciamo numeri importanti nelle esportazioni; ma c’è un’Italia a rimorchio, addormentata dall’assistenzialismo, che va svegliata e vitalizzata nella dignità del lavoro.

Condividere queste cose non è affatto poco. Mettiamoci anche la condivisione – sempre con lo stesso metodo di calcolo e al netto delle incoerenze – della scelta occidentale, atlantica, Nato, europea nonché a favore dell’Ucraina e il quadro diventa fin troppo confortante.

Dopo di che, ovviamente e giustamente, ci si divide. Ma perché la cosa abbia un senso sarebbe sano dividersi fra chi governa e pensa di far bene le cose a modo proprio e chi si oppone, tallona e critica chi governa perché non riesce a far le cose che si erano condivise. Ed è qui che casca l’asino. Dal governo giungono voci diverse e a ruota libera sui piani Pnrr e sui fondi Ngeu, mentre il ministro della Giustizia va da una parte e i decreti sulla giustizia dall’altra. Dall’opposizione non si capisce se sono per la legge concorrenza senza la deprimente manfrina sui balneari, se ritengono giuste le parole di Nordio, quindi attaccando per l’incoerenza e così via. Anziché discutere di come far crescere il Pil per far scendere il debito e del nuovo (ipotizzato) patto di stabilità, si apre la gara sciocca fra chi indica gli ‘schiaffi’ europei e chi millanta di battere i ‘pugni’. Così declassando la politica a rissa alticcia. Cui la metà degli italiani si rifiuta di partecipare, con tristi ragioni, mentre i partiti puntano a chi prende più voti nell’altra metà, con meste conseguenze. La sostanza sarà pure noiosa, ma questa roba è mefitica.

La Ragione

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#laFLEalMassimo-episodio90- BTP e Sovranità Limitata


In apertura ribadisco la condanna da parte di questa rubrica dell’invasione operata dalla Russia ai danni del popolo Ucraino. Si continua a parlare di rischi di un possibile downgrade da parte delle agenzie di rating per il nostro paese, tuttavia i segnal

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In apertura ribadisco la condanna da parte di questa rubrica dell’invasione operata dalla Russia ai danni del popolo Ucraino.

Si continua a parlare di rischi di un possibile downgrade da parte delle agenzie di rating per il nostro paese, tuttavia i segnali sono contrastanti perché se Goldman sachs raccomanda posizioni corte, Standards & Poors ha recentemente confermato il giudizio sul nostro paese.

La verità è che è abbastanza indifferente il colore del governo in carica o il carattere più o meno populista del partito di maggioranza, contano il rispetto della disciplina di bilancio e il rispetto di impegni presi quali il PNRR e piani di sostenibilità

Questo non è edificante per la classe politica del paese, che oltre che poco credibile finisce per scadere nell’irrilevanza, ma può essere rassicurante per i risparmiatori e i cittadini del nostro paese

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A scuola non bevo quasi mai, quindi riempiendo una volta la borraccia (di metallo) posso potenzialmente finire con il non riempirla di nuovo per delle settimane intere, perché non la finisco nel frattempo...

Eh, forse ogni tanto però l'acqua sarebbe buona cosa cambiarla, volevo bere stamattina ma ho dovuto rinunciare, il sapore era terrificante (che significa: stavolta lo era molto molto di più di altre volte) e probabilmente ci stanno pure batteri sussati lì dentro 💀



L'intervento di Boscaino all'assemblea del 22 aprile 2023 alla Casa internazionale delle Donne. Ci apprestiamo, il 25 aprile, a celebrare la Resistenza, che


Dilettantismo a parte, per Emiliano Brancaccio, docente di Politica economica all’Università del Sannio, le iniziative del governo "sono preoccupanti". La


SUDAN. Epidemie e infezioni dilagano, occupato laboratorio con agenti patogeni ad alto potenziale


Il laboratorio di salute pubblica di Khartoum che contiene campioni di virus come il morbillo, la malaria, la poliomielite e il colera, è stato occupato da combattenti armati che non permettono l'ingresso del personale tecnico. L'articolo SUDAN. Epidemie

di Alessandra Mincone –

Pagine Esteri, 28 aprile 2023. Le 72 ore di cessate il fuoco tra l’esercito regolare e i miliziani in Sudan sta garantendo l’evacuazione alle centinaia di migliaia di persone dalla doppia nazionalità o già profughi di altre guerre, ma per i civili sudanesi non esiste ancora una nave che traghetti verso un destino migliore. L’Organizzazione mondiale della sanità ha gridato il suo allarme grave per la pericolosa occupazione del laboratorio di salute pubblica dove vi sarebbero conservati gli agenti patogeni isolati di malattie ad alto potenziale di contagio e di mortalità. Si parla di campioni di virus come il morbillo, la malaria, la poliomielite e il colera ed esiste l’alto rischio di un disastro biologico.

Solo all’inizio del marzo 2023, il Ministero della Salute di Khartoum denunciava la crescente infezione di malaria nella capitale. Dalla fine del mese di febbraio, l’indicatore dei vettori di infezione era aumentato di oltre il 7%, tant’è che si contano più di cinquemila nuovi casi solo nelle ultime settimane. Con un milione di persone infette da malaria, il servizio sanitario sudanese denunciava, dal 2021 al 2022, un aumento del 12% di contrazione del virus.

Ai casi di malaria si sono aggiunti contemporaneamente casi di febbre dengue, una febbre emorragica che, secondo le statistiche dell’OMS, risulta letale per almeno il 50% dei soggetti che la contraggono. Il direttore del dipartimento per le emergenze del ministero della salute sudanese, Mohamed el Tijani, a novembre 2022 dichiarava di osservare una delle peggiori epidemie di dengue dell’ultimo decennio. Mentre nel primo semestre del 2020 il virus aveva colpito quasi tremila persone, adesso i casi di dengue sembrano aumentare di diverse centinaia per settimana, con un aumento dell’incidenza emorragica che nelle ultime settimane ha provocato anche due morti.

Malattie come la malaria, la febbre di dengue e la chikungunya trovano in Sudan il terreno fertile per la diffusione del contagio di regione in regione in breve tempo. La vulnerabilità climatica del paese, attraverso un’alternanza di periodi di desertificazione e siccità con inondazioni e violente alluvioni, oltre a mettere in crisi le popolazioni provocando migliaia di sfollati interni e conseguenze disastrose per le risorse alimentari degli abitanti, riproduce un habitat perfetto per l’esacerbazione di ovuli di insetti i quali facilmente veicolano i virus ad alto tasso di contagio.

Il laboratorio di salute pubblica di Khartoum è attualmente occupato da combattenti armati che non permettono l’ingresso del personale tecnico. Le continue interruzioni di corrente mettono seriamente a rischio la conservazione dei campioni di materiale. Tutto ciò rappresenta una minaccia biologica dalle importanti ricadute sul tessuto sociale sudanese. Basti pensare che durante la pandemia di covid-19 i costi dell’assistenza sanitaria sudanese hanno subìto aumenti del 90% a causa dell’inflazione e che l’acquisto di medicinali e protezioni individuali era limitato a meno del 50% rispetto alle richieste della popolazione. Sempre nel 2020, secondo l’agenzia italiana di cooperazione allo sviluppo con sede a Khartoum, nel merito del programma di emergenza in favore delle popolazioni del Sudan colpite da disastri naturali e conflitti, le somministrazioni di vaccini per malattie come il morbillo erano drasticamente calate, lasciando oltre centomila bambini senza un’adeguata immunizzazione e con il consequenziale aumento della mortalità infantile.

In Sudan sono più di due milioni i bambini che soffrono di malnutrizione, e che nel 50% dei casi sono affetti da forme di diarrea contratte tramite infezioni per le degradanti condizioni igienico-sanitarie come l’impossibilità di accedere ad acqua potabile, specie per i minori immigrati che risiedono negli accampamenti transitori, come quelli che sono riusciti a fuggire per la guerra nel vicino Sud Sudan.

Save the children ha segnalato che dall’inizio del conflitto sono stati colpiti 32 siti di vaccinazione tra quelli finanziati direttamente, visto che l’interruzione di corrente ha inficiato le scorte di vaccini, insulina e diversi antibiotici riposti in strutture a basse temperature. L’associazione ha denunciato anche l’evacuazione di un ospedale pediatrico, notizia che fotografa nitidamente la guerra in corso tra due fazioni militari, ambedue lontane anche solo dall’immaginario di una “transizione per una democrazia” nascente.

Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore dell’Oms, definisce ormai deteriorate anche le scorte di sangue conservate in laboratorio, a fronte di un bilancio dello scontro che supera i quattromila feriti. Ma nonostante la drammaticità dei risvolti del conflitto, e di una crisi economica e sociale di certo non proprio recente, le Nazioni Unite hanno annunciato la sospensione temporanea dei programmi per il controllo e la trasmissione di malattie come dengue e malaria, e del Programma alimentare globale che, secondo le stime pianificate per il 2023, avrebbe dovuto sostenere 7,6 milioni di persone di cui cinquantamila bambini, mirando la destinazione degli aiuti verso le scuole, anche in funzione di un coinvolgimento di minori per il diritto all’istruzione. Ad ogni modo il numero di vittime di malnutrizione acuta in età infantile è di gran lunga superiore considerata la presenza di bambini e adolescenti nei campi profughi.

L’interruzione degli aiuti umanitari si prevede una scelta che probabilmente acuirà le violenze tra le fazioni militari e contro i civili per il saccheggio dei beni a disposizione. Nel frattempo è fresco di stampa il comunicato di otto organizzazioni sanitarie e per i diritti umani, scritto per invitare le forze militari del governo di transizione e le RSF “a impegnarsi per una cessazione immediata e permanente delle ostilità; la protezione dei civili; e un passaggio sicuro per il personale medico, le ambulanze e gli ospedali per garantire che i civili possano accedere ai servizi sanitari critici”.

Il Comitato preliminare del sindacato dei medici sudanesi riporta lo stato di salute in guerra al 26 aprile 2023: evacuazione di 19 ospedali tra la capitale e le aree limitrofe; 59 ospedali su 82 non più operativi; 6 ambulanze colpite dai bombardamenti; 12 operatori e studenti di medicina uccisi; tanti altri sono stati sequestrati o hanno visto i propri mezzi sequestrati, con l’impedimento di trasportare i feriti anche gravi.

Nel frattempo, su qualche sito web occidentale si scorge timidamente la domanda di un sudanese: “Se tutti scappano, perché non possiamo fuggire anche noi?” titola euronews, e riporta una nota di Othman Taj el-Dein, direttore del dipartimento che si occupa di insufficienza renale: “I pazienti dovrebbero fare la dialisi una volta ogni due giorni, ma ci sono alcuni pazienti che non l’hanno fatta per dieci giorni. Se non fa la dialisi ogni due o tre giorni, il paziente ha una probabilità dell’80% di morire”.

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Fonti:

dabangasudan.org/en/all-news/a…

wfp.org/news/wfp-warns-sudan-f…

reliefweb.int/report/sudan/sud…

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Perché quello tra privacy e informazione online è sempre un rapporto tanto difficile


Nuovo appuntamento con la rubrica Privacy weekly, tutti i venerdì su StartupItalia. Uno spazio dove potrete trovare tutte le principali notizie della settimana su privacy e dintorni. E se volete saperne di più potete leggere qui le news quotidiane di Privacy Daily o iscrivervi alla newsletter di #cosedagarante. Grazie a StartupItalia per l’ospitalità!


guidoscorza.it/perche-quello-t…



Dopo mesi di intense trattative, i membri del Parlamento europeo (MEP) hanno colmato le loro divergenze e raggiunto un accordo politico provvisorio sul primo regolamento sull’Intelligenza Artificiale al mondo. L’AI Act è una proposta legislativa volta a regolamentare l’Intelligenza Artificiale...

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BALCANI. Boicottaggio serbo in nord Kosovo, storico cambio della guardia in Montenegro


Come era previsto, la comunità serba ha disertato le urne nel voto municipale in Kosovo. A Podgorica finisce dopo 32 anni l'era di Milo Đukanović, il Paese passa all'europeista Jakov Milatović. Intervista all'analista Marco Siragusa L'articolo BALCANI. B

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 28 aprile 2023 – L’analista Marco Siragusa, di Meridiano 13, spiega le ragioni del boicottaggio serbo delle elezioni municipali nel nord Kosovo, e i rischi che comporta il perdurare della crisi tra la maggioranza kosovara e la minoranza serba. Riflettori puntati anche sul Montenegro, dove a inizio aprile si è registrata una svolta con l’uscita di scena di Milo Đukanović, leader per 32 anni. A sostituirlo sarà l’europeista Jakov Milatović che proverà a stringere i legami con Bruxelles.
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Nuovo disco dei Metallica


La carriera dei Metallica si può dividere in tre grandi blocchi. La prima parte, quella dell’ascesa e della consacrazione che va da “Kill’em All” (1983) a “Metallica” (1991). La fase in cui, forse già in crisi creativa, seguono i trend del mercato e infilano in ordine decrescente di qualità “Load” (1996) “ReLoad” (1997) e “St.Anger” (2003). E infine gli ultimi anni in cui fanno un qualcosa di apparentemente inspiegabile, con tre album assolutamente anonimi, uno ogni otto anni circa. Compreso ovviamente quest ultimo “72 Seasons”.
@Musica Agorà
iyezine.com/metallica-72-seaso…

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In Cina e Asia – Sullivan: "Usa e Ue allineati sulla strategia di de-risking”


In Cina e Asia – Sullivan: sullivan
I titoli di oggi:

Sullivan: "Usa e Ue allineati sulla strategia di de-risking"
Asia Centrale, Qin Gang incontra i rappresentanti in vista del summit di maggio
Italia-Cina, il report della Camera di commercio
Concluse le esercitazioni congiunte Usa-Filippine
Il valore geopolitico della ferrovia Cina-Pakistan
L’Argentina pagherà le importazioni cinesi in yuan

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PRIVACY DAILY 103/2023


Secondo i documenti ottenuti da NBC News, il Governatore del Montana ha proposto di modificare il testo di una legge che mira a vietare TikTok nello Stato. L’emendamento proposto dal governatore Greg Gianforte, riportato per la prima volta dal Wall Street Journal, elimina qualsiasi riferimento a TikTok o alla società madre di TikTok, ByteDance, e... Continue reading →


Scrivere in una #chat ha senso? Le parole scritte nelle chat sono destinate al peggiore degli oblii; indisponibili per tutti, tranne che #GAFAM e #IA. Di @calamarim su #medium. #cassandra


...oggi posso leggere le lettere di Manzoni o di Gramsci, che le hanno scritte su carta, ma non quelle dei pionieri dell’informatica, posso leggere il discorso mai letto della morte dei primi uomini sulla Luna, ma non molti dei pensieri di Aaron Swartz, riversati in rete, eppure per la massima parte scomparsi.

@Etica Digitale (Feddit)

«in futuro, forse poche email di valore sopravviveranno, e solo se ne avremo cura, ma tutte le parole ed i pensieri riversati nei social saranno persi per sempre. Usciranno dall’Infosfera della Cultura e finiranno in quella parte della Matrice più oscura, dove solo l’industria e la finanza potranno usarle, per poi gettarle via senza farsi domande non appena diventeranno voce passiva di un bilancio trimestrale»

Su Medium è disponibile il post completo di @Marco A. L. Calamari

Unknown parent

mastodon - Collegamento all'originale
Fabio Tavano
@Pare informazione digitalizzata però, al contrario di un libro, può essere duplicata infinite volte e addirittura conservata a norma (se merita). Progetti come archive.org vivono a questo scopo, personalmente ho recuperato versioni digitalizzate di manuali Commodore che in versione cartacea non avrei più ritrovato (o certo non a costi irrisori). Non direi che il media sia poi così dirimente, resta sempre il contenuto a fare il valore e quello prescinde dal contenitore (basta ricordare che anche Fabio Volo ha stampato libri cartacei…)
in reply to Informa Pirata

Scrivere in una chat può avere un senso, nei limiti strutturali di questo strumento.

Purtroppo oggi le chat sono diventate specie dominante nell'universo digitale, la mail è roba da vecchi, forum e newsgroups sono archeologia. Tutto viaggia sulle chat (per i giovani) e sui social (per i cinquantenni o giù di lì). Il trionfo dell'effimero e dello scrolling, il pensiero fatuo dominante, l'impressione del pensiero concentrato in poche parole sulle quali non ci si sofferma mai per srollare avanti. Considero questa bulimia dello scrolling come una droga pesante, bisogna imparare a starne alla larga.

La frammentazione del pensiero ha come effetto deleterio l'incapacità a soffermarsi, le persone sono disabituate al pensiero, prevalgono l'emozione, il like, la condivisione. Probabilmente è una forma di consumismo dell'informazione, portato del pensiero mainstream neoliberista che vuole esseri consumatori e non pensanti.

Gli insegnanti denunciano una difficoltà degli alunni a concentrarsi, ad affrontare la lettura di un libro che richiede allenamento. Trascorrere ore leggendo un libro costa fatica, servono allenamento e disciplina. Oggi il mondo va in tutt'altra direzione.

Ne risente anche la qualità dei rapporti interpersonali, si è sempre teoricamente vicini ma in realtà profondamente distanti. A volte si discute e litiga in chat scrivendo la replica ad un messaggio senza aver letto quello che ha scritto l'interlocutore, esattamente il contrario dell'empatia e della comprensione.

Cosa resterà di tutto questo scrivere nelle chat e sui social ? Nulla, il deserto, non solo digitale però ....



Si è appena conclusa presso il Tribunale di Bari l’udienza del processo contro alcuni esponenti di Casapound per l’aggressione perpetrata il 21.9.18 e per


ConCatenati


Attenzione a come sono concatenati fatti e scadenze, mettendo in relazione il debito pubblico (con tensioni annunciate), il Pnrr e le riforme in corso (o ferme). Presa visione del progetto di riforma del Patto di stabilità predisposto dalla Commissione eu

Attenzione a come sono concatenati fatti e scadenze, mettendo in relazione il debito pubblico (con tensioni annunciate), il Pnrr e le riforme in corso (o ferme). Presa visione del progetto di riforma del Patto di stabilità predisposto dalla Commissione europea, udita la relazione del ministro Fitto sulle difficoltà legate all’utilizzo dei fondi europei e osservato quel che si muove nei mercati e quel che non si muove in Parlamento, le preoccupazioni sono fondate. Qui non si gioca con le parole e 2+2 non fa “qualche cosa di prossimo al doppio”. Qui ci si gioca l’osso del collo italiano, non il decollo di qualche sondaggio o la (trascurabile) sorte di qualche (presunto) leader.

Sicurezza e coerenza dei conti necessitano che il peso percentuale del debito pubblico scenda. Fin qui dicono tutti di concordare e il governo si attiene. Per farlo si può tagliare la spesa (lallero), far crescere la ricchezza prodotta o combinare sapientemente le due cose. Il governo dice di puntare alla combinazione. Ci torniamo, intanto la Commissione Ue propone maggiore «elasticità» nel percorso di rientro, mentre la Germania obietta che qualche automaticità è sempre bene prevederla. L’elasticità suona bene alle orecchie degli spendaroli, ma quel che non hanno capito – anche perché nel dibattito politico neanche se ne parla (e già questa è una enormità) – è che comporta una contrattazione fra la Commissione e il singolo governo del Paese al di fuori dei parametri. Che forza contrattuale ha l’Italia ovvero il Paese con il debito più alto, la crescita più bassa, la conclamata incapacità a tagliare e ora il più beneficiato dai fondi Ngeu? Talmente bassa che vien voglia di guardare con meno pregiudizio alla proposta tedesca, tanto più che lascia maggiore autonomia ai governi nazionali. L’elasticità ci conviene, ma se contiamo di crescere. E qui arriva il Pnrr.

Se ogni mattina si annuncia al mondo che non si riuscirà a spendere tutti i fondi, che ci sono ritardi e che si vogliono modifiche che però manco si propongono, salvo poi, prima di sera, avere chiesto altri prestiti ai mercati, la deduzione è semplice: l’Italia non sa investire soldi regalati o prestati a un tasso di favore, ma ne chiede di più a un tasso più alto per pagare spese che non sa comprimere. Quindi la crescita diventa una chimera e la diminuzione del peso percentuale del debito la sua gemella. Ergo chi investe andrà corto sul debito italiano e chiederà tassi più alti. Non è una cattiveria, è una banalità.

Se hai un problema di natalità e hai a disposizione i fondi per fare molti, ma molti più asili e non riesci a usarli, se la Corte dei conti europea ti fa osservare che sei indietro con la digitalizzazione delle scuole, altra cosa che invoglierebbe a mandarci più pargoli, ma fai sapere che premierai con sgravi fiscali, rendendo ancora più dannato il tuo sistema, chi si deciderà a figliare, i prestatori hanno chiaro che non sai crescere, non sai riformare e sai solo fare spesa corrente. Sicché di prestiti te ne fanno meno e più cari. Inutile frignare, pestare i piedi, maledire Goldman Sachs o Moody’s, come l’incultura fasciocomunista ha insegnato a fare a generazioni di orecchianti, tanto non cambia nulla. Il pericolo non sono i cattivi speculatori, ma gli incapaci a investire.

Senza parlare delle riforme, con quella sulla concorrenza ferma a discettare di ambulanti e balneari (ma si può essere più ridicoli?). Posto che la concorrenza serve a far salire la qualità e a far scendere i prezzi, in una stagione in cui l’inflazione è tornata a essere un problema.

In gioco non c’è la sorte del governo di destra, che partito con il piglio della Nazione arriverebbe a consegnarci inerti nelle mani dei “burocrati di Bruxelles”, indispettendo tutti con capricci insensati, come sulla riforma del Mes. In gioco c’è l’osso del collo collettivo. C’è modo e (poco) tempo per uscirne bene. Ma serve una consapevolezza che al momento non si vede neanche all’opposizione. I politici sono tanti, l’Italia è una sola.

LA RAGIONE

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Il Processo a Julian Assange - Storia di una persecuzione.


«La persecuzione spietata a cui è stato sottoposto Julian Assange e il tradimento vergognoso della giustizia e dei diritti umani dimostrato da tutti i governi coinvolti sono più che indecenti: minano a fondo la credibilità, l’integrità e la sostenibilità della democrazia occidentale e dello Stato di diritto. La persecuzione di Assange stabilisce un precedente che non solo consentirà ai potenti di tenere segreti i loro crimini, ma renderà persino perseguibile per legge la rivelazione di quei crimini. Nel momento in cui dire la verità sarà diventato un crimine, vivremo tutti nella tirannia».
- Nils Melzer, ex relatore ONU sulla tortura

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Un patto autolesionista


« Intervenuta troppo tardi per fermare l’inflazione, la Fed ha usato l’arma dei tassi di interessi in modo esagerato, facendo come il cane da pastore che, per tenere a bada le pecore, le morde alla morte, fino alla recessione, per impedire che lo faccia i

«Intervenuta troppo tardi per fermare l’inflazione, la Fed ha usato l’arma dei tassi di interessi in modo esagerato, facendo come il cane da pastore che, per tenere a bada le pecore, le morde alla morte, fino alla recessione, per impedire che lo faccia il lupo-inflazione», denunciava tempo fa un economista belga critico della politica americana. Che peraltro poi la Bce ha ritenuto opportuno importare in Europa. Di pessimi esempi di ardori autolesionistici è costellata la storia trentennale del Patto di stabilità, che strada facendo si è fregiato anche della parola crescita ma in modo posticcio, non per una seria autocritica maturata sul campo. Eppure la grande crisi finanziar-debitoria del 2008-12, la risposta univoca del tripudio dell’ortodossia rigorista con addirittura l’ulteriore stretta delle regole del Patto, dell’iniziale politica restrittiva della Bce, del castigo recessivo senza paracadute per i reprobi dei conti pubblici dissestati, avrebbe dovuto poi consigliare qualche ripensamento.

Non foss’altro per l’impennata di euroscetticismi, populismi e nazionalismi che ne seguì per anni, per le bandiere naziste che, per la prima volta dal dopoguerra, invasero piazza Syntagma ad Atene. Per l’abisso di sfiducia reciproca che fagocitò l’eurozona e l’Europa intera, scavando un’insanabile lacerazione Nord-Sud. C’è voluto più di un decennio per rimarginarla ma non è guarita. Ci sono voluti Covid e aggressione russa all’Ucraina, due minacce esterne letali per la sua sicurezza personale, economica, geopolitica e militare, per recuperare l’Europa al consenso degli europei, riscoprirne meriti e valore aggiunto insostituibili e più necessari che mai per esistere nel cantiere del nuovo mondo: molto più gravido di incognite che di certezze, di scontri Est-Ovest che di stabilità geopolitiche, con il braccio di ferro in corso tra Stati Uniti e Cina.

Il doppio terremoto ha travolto idoli e ideologie che sembravano imperiture. Ha fatto scattare la rivoluzione del Next Generation Eu, il mega fondo per modernizzare e rendere più competitiva l’economia europea finanziandolo per la prima volta con l’emissione di debito comune. Poi politica industriale ed energetica comune, altri tabù prima intoccabili, per l’autonomia strategica tra rimpatrio delle catene del valore, investimenti e infrastrutture nell’innovazione di punta, chip in primis, nelle materie prime critiche, nelle rinnovabili, nel militare…. E ora la riforma del Patto di stabilità da chiudere, si spera, entro l’anno. E da completare poi con un bilancio Ue riformato per dargli la potenza di fuoco adeguata a maxi investimenti obbligati se davvero l’Europa vuole darsi i mezzi per vincere la sfida della palingenesi economica e del suo ritorno tra i Grandi del mondo.

Se prima era rigidità ora è resilienza. Se prima era solo stabilità, ora è anche crescita e investimenti «perché alto debito e crescita bassa non sono realtà cui l’economia europea può rassegnarsi» avverte il commissario Ue, Paolo Gentiloni. Le regole restano, per garantire la governance dell’euro e inquadrare i singoli piani nazionali, da negoziare con Bruxelles, di graduale rientro di debiti e deficit nei parametri di Maastricht (60 e 3%del Pil). Il percorso di riduzione, con base la dinamica della spesa pubblica netta da mantenere sotto quella del Pil potenziale, si snoderà su 4 anni, estensibili a 7 con riforme e investimenti mirati che procureranno maggior spazio fiscale al Paese allungandone i tempi dell’aggiustamento.

Paesi come l’Italia, con debito e deficit oltre le soglie, dovranno garantire il calo del primo a fine periodo e un aggiustamento annuo di bilancio dello 0,5% del Pil fino a che il deficit non andrà sotto il 3%. Sanzioni automatiche in caso di non rispetto degli impegni. Poche attenuanti. Niente regimi di favore per investimenti, verdi, militari o legati al Pnrr. In conclusione, flessibilità e rigore misurati a braccetto per poter investire in una crescita economica ricca di stabilità finanziaria. Che però non basta a Berlino & co. Dunque, sarà ancora battaglia Nord-Sud. Con una domanda: davvero gli equilibrismi del nuovo Patto permetteranno all’Europa di vincere le sue sfide globali quando, tra Ira e simili, Stati Uniti e Cina si auto inondano di investimenti enormi, immediati, senza paletti o troppe regole? Forse, con il suo forziere di risorse e un regime Ue di aiuti di Stato in libertà, la Germania pensa di farcela da sola: errore, come altri del passato.

Il Sole 24 Ore

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TURCHIA. Le guardie di frontiera torturano e uccidono indiscriminatamente i siriani


Human Rights Watch denuncia episodi eclatanti di violazioni dei diritti umani che rappresentano "un modello di brutalità da parte delle guardie di frontiera turche" L'articolo TURCHIA. Le guardie di frontiera torturano e uccidono indiscriminatamente i si

Pagine Esteri, 27 aprile 2023 – Le guardie turche uccidono e torturano i civili siriani che cercano di entrare nel Paese per fuggire dalla guerra. Human Rights Watch ha pubblicato oggi, 27 aprile, un rapporto in cui chiede al governo turco di intervenire, perseguire e punire le guardie di frontiera che si rendono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, comprese le uccisioni illegali.

Questo tipo di azioni avviene da molto tempo e l’organizzazione umanitaria si rivolge direttamente al governo turco, perché ponga fine all’impunità di lunga data per gli abusi contro i richiedenti asilo.

Human Rights Watch ha scritto ai ministri turchi della giustizia, degli interni e della difesa il 20 aprile 2023, chiedendo aggiornamenti su due casi in particolare: l’11 marzo 2023 le guardie di frontiera turche hanno brutalmente picchiato e torturato un gruppo di otto siriani che stava tentando di entrare irregolarmente in Turchia. Un uomo e un ragazzo sono morti durante la custodia turca, mentre gli altri sono rimasti gravemente feriti. Sei guardie sono sotto inchiesta da parte delle autorità turche per il loro presunto ruolo nell’attacco. Il 13 marzo, una guardia di frontiera turca ha sparato e ucciso un uomo siriano di 59 anni che stava arando la sua terra in un’area adiacente al confine.

“I gendarmi e le forze armate turche incaricati del controllo delle frontiere abusano regolarmente e sparano indiscriminatamente ai siriani lungo il confine siriano-turco, con centinaia di morti e feriti registrati negli ultimi anni”, ha dichiarato Hugh Williamson, direttore per l’Europa e l’Asia centrale di Human Rights Watch. “Le uccisioni arbitrarie di siriani sono particolarmente eclatanti e fanno parte di un modello di brutalità da parte delle guardie di frontiera turche che il governo non è riuscito a frenare o indagare in modo efficace”. Dall’inizio del 2023, l’Osservatorio siriano per i diritti umani ha registrato 11 morti e 20 feriti lungo il confine siriano/turco causati dalle guardie di frontiera turche. Pagine Esteri

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Beirut, chiedono giustizia parenti vittime dell’esplosione del 4 agosto 2020


I morti furono almeno 220, 6.500 i feriti oltre a distruzioni per miliardi di dollari L'articolo Beirut, chiedono giustizia parenti vittime dell’esplosione del 4 agosto 2020 proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it/2023/04/27/medioriente/beiru

della redazione

(foto di Michele Giorgio)

Pagine Esteri, 27 aprile 2023 – Parenti di civili e di vigili del fuoco morti nell’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020 si sono riuniti oggi davanti al Palazzo di Giustizia chiedendo alle autorità di continuare le indagini bloccate da mesi. “Volete crocifiggere la giustizia per seppellire la verità” hanno scandito alcuni dei presenti. “Non stiamo combattendo questa battaglia solo per noi ma perché è una causa nazionale, che sosteniamo per le generazioni future. Se questo crimine rimarrà impunito, rischiamo di vedere altre vittime”, ha spiegato un manifestante.

Il giudice incaricato delle indagini, Tarek Bitar, ha annunciato a gennaio che avrebbe ripreso il controllo dell’indagine in stallo dopo che era stata sospesa per più di un anno a causa di pressioni esercitate da personaggi politici convocati nell’inchiesta. Una delle persone che Bitar aveva incriminato a gennaio era Ghassan Oueidat, il procuratore generale del Libano. In risposta, Oueidat ha ordinato il rilascio di tutti i 17 sospetti nel caso, detenuti senza processo dall’esplosione del 2020 che ha provocato la morte di oltre 220 persone e il ferimento di altre 6.500, oltre a distruzioni per miliardi di dollari. Oueidat ha anche perseguito Bitar per “abuso di potere”.

Bitar quindi a febbraio ha rinviato sine die le udienze di ex ministri e funzionari militari implicati nel caso. “Coloro che sono stati rilasciati non sono immuni dalla giustizia. Saranno perseguiti all’altro mondo”, ha commentato oggi un manifestante, Nazih Adem.

Cecile Roukoz, sorella di una delle vittime, ha aggiunto che i parenti dei morti sono venuti a incontrare il presidente del Consiglio giudiziario Souhail Abboud per chiedergli di interrogare Tarek Bitar a seguito delle accuse di abuso di di potere lanciate contro di lui da Oueidat. “Se ritiene colpevole il giudice Bitar, dovrebbe ritirarsi dalle indagini, ma in caso contrario, dovrebbe essere autorizzato a continuare le sue indagini”, ha detto.

Già lo scorso 23 marzo, i familiari delle vittime dell’esplosione si era riuniti davanti al Palazzo di Giustizia, chiedendo alle autorità di continuare l’indagine.

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Un deepfake può farti assolvere, un deepfake può farti condannare. Il caso Elon Musk


Si rischia sempre di più che un colpevole la faccia franca in tribunale sostenendo che dichiarazioni o immagini che lo inchiodano non siano autentiche, oppure che un innocente venga processato dal tribunale dei social per un video, foto o audio che, falsamente, lo rappresenti come l’autore di chissà quali nefandezze. Se vuoi leggere il mio... Continue reading →

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di Ramon Mantovani - Sono ormai abbondantemente passati i 60 giorni che il governo spagnolo aveva per rispondere alle denunce fatte all’ONU dalla Segretari


La Norvegia vieta le importazioni dagli insediamenti israeliani


Stop di Oslo a beni e servizi provenienti dalle compagnie che "contribuiscono direttamente o indirettamente agli insediamenti illegali israeliani nei territori occupati, in quanto costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale". L'arti

Pagine Esteri, 27 aprile 2023. La Norvegia ha annunciato ieri, mercoledì 26 aprile, il divieto alle importazioni di beni e servizi delle compagnie che “contribuiscono direttamente o indirettamente agli insediamenti illegali israeliani nei territori occupati, in quanto costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale”.

La notizia segue l’annuncio, il giorno precedente (25 aprile), della città belga di Liegi, il cui consiglio ha votato per porre fine a tutti i legami con Israele, a causa del suo “regime di apartheid, colonizzazione e occupazione militare”. A febbraio la città di Barcellona aveva congelato i rapporti con Israele, interrompendo il gemellaggio con Tel Aviv: “Non possiamo più tacere di fronte alla violazione flagrante e sistematica dei diritti umani”, dichiarò in quell’occasione la sindaca Ada Colau.

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L’insediamento coloniale israeliano di Har Homa, nel sud-est di Gerusalemme (foto di Michele Giorgio)

La decisione di Oslo era già stata annunciata a giugno del 2022, quando fu stabilito di consentire l’etichetta “made in Israel” solo sui prodotti realizzati in Israele e non a quelli provenienti dai territori illegalmente occupati nel 1967: “I prodotti alimentari provenienti da aree occupate da Israele devono essere etichettati con l’area di provenienza e devono indicare che vengono da un insediamento israeliano”.

Il governo norvegese ha specificato che il divieto si applicherà ai territori occupati nelle alture del Golan e alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme est.

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Insediamento israeliano in costruzione a Betlemme

A dicembre del 2022 Oslo ha annunciato che intendeva rivedere i propri investimenti in Israele, dichiarando che avrebbe potuto decidere di interromperli del tutto, a causa del coinvolgimento delle banche israeliane nelle imprese presenti negli insediamenti illegali della Cisgiordania. Pagine Esteri

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