RiFormare
Una maggioranza s’insedia, un nuovo capo politico traccia per sé e la propria parte un tragitto di lungo futuro, proponendo di modificare la Costituzione. Non è la prima volta che capita. Non si può dire che porti fortuna.
A parte gli aggiustamenti e le integrazioni, due sono state le riforme costituzionali che sono giunte in porto: quella del 2001, che ha rivisto il Titolo V, e quella del 2019, che ha tagliato il numero dei parlamentari. La prima voluta con prepotenza dalla sinistra, la seconda avviata da Cinque Stelle e Lega, poi votata da quasi tutti. Due porcherie. Due premesse per le sconfitte elettorali. Al di là della malasorte, dietro i tentativi di riforma – compreso quello odierno – si cela un equivoco.
Dopo l’avventura distruttiva delle dittature, Germania (divisa) e Italia ricostruirono le loro democrazie con un ordito costituzionale che vedeva governi politicamente forti e istituzionalmente deboli. Comprensibile, visto il disastro e il disonore portato da uomini e regimi che si volevano istituzionalmente fortissimi. L’equivoco italiano consiste nella credenza superstiziosa che alla progressiva debolezza politica dei governi, resa enorme dall’avere voluto un sistema elettorale che premia le false coalizioni – di destra o di sinistra, non cambia – si possa rimediare dando loro forza istituzionale. Non funziona e non funzionerà mai.
Il tema non è quello del presidenzialismo, che alla Costituente fu sostenuto da forze della sinistra democratica (come il Partito d’Azione) e da chi antivide i rischi di quella che Maranini chiamò «partitocrazia». È un sistema più che legittimo, ma non consegna forza ai deboli. Non ha nulla a che vedere con i dispotismi, ma è il contrario dei personalismi. Può funzionare se si accompagna a un sistema elettorale maggioritario (il solo esempio europeo efficace è quello semipresidenziale francese, che utilizza il ballottaggio a doppio turno), che non serve a rendere forti le maggioranze ma a far governare la più forte delle minoranze. Se una parte politica è maggioranza assoluta può ben legiferare e governare con qualsiasi sistema. Il maggioritario serve quando non lo è. Il che comporta, però, il riconoscimento reciproco delle forze politiche, talché la vittoria di una non sia vissuta come la fine del sistema democratico. Guardatevi in giro e dite se è questa la condizione che ci circonda. Non da oggi, da decenni.
Nelle democrazie governare non è mai sinonimo di comandare. La democrazia è faticosa, comporta la continua costruzione del consenso nel mentre conserva come prezioso e indispensabile il dissenso. Nello stesso esempio francese, del resto, il presidente eletto a suffragio universale (dalla più forte minoranza, non dalla maggioranza) può essere da quello stesso suffragio battuto. A Macron è successo poche settimane dopo la rielezione.
Cambiare la Costituzione è possibile, è previsto, lo si è fatto. Nulla di scandaloso. Farlo dialogando con tutte le forze politiche, come Meloni intende fare, è saggio. Parlare fin da ora del referendum è stolto. Ma se il governo italiano è politicamente debole, perché frutto di minoranze disomogenee che diventano maggioranze parlamentari in modo artificiale e artefatto, non c’è verso alcuno di renderlo più solido. Semmai più rigido, propiziando il successivo spezzarsi. L’Italia funziona male non perché la democrazia sia faticosa e il parlamentarismo preveda l’arte del compromesso, ma perché le forze politiche preferiscono il compromesso al ribasso, la demagogia e il trasformismo in quanto evitano le sfide. Puoi pure eleggere un monarca (dopo Carlo III la voglia passa anche ai monarchici), ma il Paese resta fermo perché impastoiato nelle mancate riforme: dalla burocrazia alla concorrenza, dalla scuola alla giustizia.
Questo è l’equivoco. Al punto che si ha l’impressione, oggi come ieri, che parlare di riforme istituzionali serva, più che altro, a non parlare del resto. Riformare la Costituzione senza ri-formare la politica è un’illusione.
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Si chiama Europa l’ultima speranza degli Stati nazione
Sondaggi alla mano, eravamo, noi italiani, il popolo europeo più europeista finché le cose andavano bene; siamo diventati il meno europeista dal momento in cui, con la crisi finanziaria del 2008, le cose hanno cominciato ad andar male. Ora che le cose vanno così così, siamo nel mezzo della classifica degli Stati membri. È il segno che manca qualcosa. Manca qualcosa, per esempio lo spirito di sacrificio, a noi italiani. E manca qualcosa, per esempio il sentimento di un comune destino fondato su una reale comunanza politica, all’Europa.
Del resto, gli intellettuali lo sostengono da tempo. Ralph Dahrendorf nel 1994, ad esempio: “Oggi la Comunità europea è prevalentemente una Comunità di protezione di rami dell’economia un po’ depressi… è un parto della testa… non suscita e non sviluppa sentimenti di appartenenza”. E senza sentimenti nessuna identità politica è possibile.
Eppure, negli ultimi anni sono successe cose un tempo impensabili. L’aver fatto fronte comune sul Covid, l’aver impostato il Next generation Eu con stanziamenti a fondo perduto rappresentano non dei passi, ma dei balzi in avanti nella direzione di una Comunità realmente tale. E a quanti lamentano, sulla scorta di vecchie ideologie e ordinarie ossessioni, l’asservimento degli stati europei all’America nella crisi ucraina, va risposto che, posto che è evidentemente meglio trovarsi nello spazio geopolitico degli Stati Uniti piuttosto che in quello russo o cinese, l’alternativa è solo una: che l’Europa si dia una struttura istituzionale “politica” per poter poi darsi una difesa comune e di conseguenza poter avere una politica estera credibile ed effettivamente autonoma.
Del resto, non abbiamo alternative. In un mondo ormai globalizzato, nessuno Stato europeo può pensare di cavarsela da solo. Men che meno l’Italia, Stato strutturalmente fragile, per giunta da sempre ritenuto poco affidabile dalla comunità internazionale.
Anni fa chiesi a Francesco Cossiga, che allora era presidente della Repubblica, cosa spinse la classe dirigente italiana ad aderire a Maastricht. «La sfiducia nel carattere degli italiani – fu la risposta -. Cioè la consapevolezza che la virtù contabile non ci appartiene e che, pertanto, il male minore per l’Italia fosse quello d’essere obbligata alla moralità politica e alla morigeratezza economica da un vincolo esterno. Il vincolo europeo». Rabbrividii. Crescendo, e maturando esperienza, compresi che, per quanto amaro, quel ragionamento era fondato. E non valeva solo per l’Italia.
L’attuale conflitto politico-diplomatico tra l’Italia e la Francia, ad esempio, si presta a diverse letture, ma leggerlo alla luce della crisi degli Stati nazione aiuta, forse, a comprenderne meglio il senso più profondo. Osservate da questa prospettiva, infatti, le cose appaiono diverse. Meloni e Macron sembrano ammiragli nel pieno di un conflitto navale, sì, ma imbarcati sulla stessa barca. Una barca di cui si contendono la guida. È la barca dello Stato nazione. Una barca alla deriva.
Gli Stati nazionali hanno cominciato ad imbarcare acqua quarant’anni fa con l’avvio dei processi di finanziarizzazione dell’economia, di globalizzazione dei mercati, di cessione di sovranità ad organismi, autorità e istituzioni multinazionali, di migrazioni bibliche. È stato un crescendo. Ed è stato presto chiaro a molti quali effetti avrebbero avuto questi quattro colossali processi storici sulla tenuta di quella forma di ordine interno ed internazionale che ci rappresenta da un paio di secoli: lo Stato nazione, appunto.
Già negli anni Novanta a livello accademico il dibattito sembrava concluso con il generale riconoscimento di una verità di fondo: lo Stato nazione è in crisi. E si tratta di una crisi irreversibile. ”La fine dello Stato nazione” è il titolo, lapidario, di un saggio pubblicato nel 1995 dal politologo nippoamericano Kenichi Ohmae. Parlando delle élite politiche nazionali e locali, Ohmae la mise così: “Le aspettative crescenti degli elettori hanno in effetti modificato il loro ruolo: oggi essi sono soprattutto mercanti di denaro pubblico”. Cioè a dire che lo sviluppo del nuovo ordine nazionale ed internazionale lascia ai singoli governi i margini per dispensare qualche marchetta, non più quelli per impostare alcuna strategia.
Può non piacere, ma questa è la realtà. E in questa realtà si dibatte un Emmanuel Macron che finge di governare la Grande Francia e una Giorgia Meloni, che sembra aver capito quanto pensare di poter governare l’Italia contro l’Europa sia il proposito dei folli, ma che fatica ad affrancarsi dalla demagogia degli anni passati all’opposizione cavalcando tutte le onde “anti”: anche quella antieuropea incarnata da Marine Le Pen. Cosa che, con tutta evidenza, i francesi non le perdonano.
Perciò, essendo oggi la Giornata dell’Europa, è bene dare per acquisito che nessuno può fare a meno di coltivarne politicamente il sogno. Tanto meno noi italiani. È, dunque, bene aderire, e farlo anche con un certo entusiasmo, alle parole scritte nel lontano 1929 da Josè Ortega y Gasset ne “La ribellione delle masse”: «Se si facesse un’ideale esperimento di ridursi a vivere puramente con ciò che siamo, come “nazionali”, mediante un processo di pura immaginazione si estirpasse dell’uomo medio francese tutto quel che usa, pensa, sente per il tramite degli altri paesi continentali, sentirebbe terrore. Vedrebbe che non gli è possibile vivere di quello soltanto e che i quattro quinti del suo capitale intimo sono beni comuni europei».
Auguri di buon futuro all’Europa, la Patria dove risorge l’interesse nazionale.
Huffington Post
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Congo: i paesi dell’Africa Australe schierano un contingente contro i ribelli
di Redazione
Pagine Esteri, 9 maggio 2023 – I Paesi della Comunità economica dell’Africa australe (Sadc) hanno deciso di schierare un contingente di forze militari nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc) allo scopo di contrastare i gruppi ribelli.
La decisione è stata presa al termine di una riunione della troika – responsabile delle questioni di difesa e sicurezza dell’organizzazione regionale – che si è tenuta a Windhoek, in Namibia. Il vertice, ospitato dal presidente namibiano Hage Geingob, ha riunito il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, quello congolese Felix Tshisekedi e quello tanzaniano Samia Suluhu Hassan. Angola, Malawi e Zambia erano invece rappresentati dai rispettivi ministri degli Esteri.
«Il vertice ha preso atto con grande preoccupazione dell’instabilità e del deterioramento della situazione nell’est della Rdc e ha ribadito la sua ferma condanna per la recrudescenza dei conflitti e delle attività dei gruppi armati, compresi i ribelli dell’M23 (Movimento 23 marzo)» ha affermato l’organizzazione in un comunicato diffuso dopo una giornata di discussioni.
Il vertice di Windhoek ha anche chiesto «un approccio coordinato» in vista degli schieramenti esistenti «nell’ambito di accordi multilaterali e bilaterali» nella travagliata regione orientale della Rdc e invita il governo di Kinshasa a « mettere in atto le condizioni e le misure necessarie per garantire un coordinamento efficace».
Restano tuttavia ancora da definire diversi dettagli, come la data e le zone di schieramento delle truppe della coalizione di paesi. Dal dicembre scorso una forza militare regionale della Comunità dell’Africa orientale (Eac) è già dispiegata nella parte orientale della Rdc, principalmente in risposta alla minaccia rappresentata dal gruppo ribelle M23, che Kinshasasostiene sia appoggiato militarmente e finanziariamente dal Ruanda e, in misura minore, dall’Uganda.
I combattenti del movimento nei giorni scorsi hanno conquistato la città di Goma, capitale provinciale del Nord-Kivu, dopo che i soldati governativi si sono ritirati e le forze di pace delle Nazioni Unite hanno rinunciato a difenderla. Successivamente i miliziani dell’M23 hanno preso la vicina città di Sake.
La violenza ha costretto alla fuga più di 100.000 persone, più della metà delle quali sono bambini, secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia.
Intanto nei giorni scorsi quasi 400 persone sono morte nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc) a causa delle inondazioni provocate dalle forti piogge che hanno colpito il Paese. Giovedì, le forti piogge cadute nella regione di Kalehe, nel Sud Kivu, hanno causato lo straripamento dei fiumi, provocando frane che hanno inghiottito i villaggi di Bushushu e Nyamukubi. – Pagine Esteri
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Anche il Ministero si unisce alle celebrazioni con un evento che vedrà la partecipazione di 80 tra studenti e docenti in arrivo da tutta Italia, protagonisti di un laboratorio di tre giorni, che si concluderà proprio…
Buona Festa dell’Europa!
Nell’ambito del Maggio dei Libri, in occasione della Festa dell’Europa, Michele Gerace legge Alessandro Manzoni.
La lettura è tratta dall’Ode civile “Marzo 1821”, Alessandro Manzoni, Tutte le opere (Giunti Barbera, 1966)
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Festa dell’Europa 2023 – Michele Gerace legge Alessandro Manzoni
PAKISTAN. Arrestato l’ex premier Imran Khan
Pagine Esteri, 9 maggio 2023 – L’ex Primo Ministro pachistano, Imran Khan, è stato arrestato durante un’udienza nel tribunale di Islamabad.
La zona che circonda l’Alta Corte della capitale è stata occupata dai paramilitari, i Rangers pakistani. Fawad Chaudhry, membro del Movimento per la Giustizia del Pakistan, partito di Imran Khan, ha scritto in un tweet che gli avvocati della difesa sono stati “torturati” dai Rangers.
Former PM Imran Khan has been abducted from Court premises, scores of lawyers and general people have been tortured, Imran Khan has been whisked away by unknown people to an unknown location, CJ Islamabad HIgh Court has ordered Secy interior and IG police to appear within 15 min…— Ch Fawad Hussain (@fawadchaudhry) May 9, 2023
Khan era in udienza presso la Corte di Islamabad per un caso di corruzione del quale era imputato. Poco dopo l’ingresso dell’ex premier gli ingressi sono stati bloccati e l’edificio è stato circondato dai paramilitari. Khan è stato scortato all’esterno e caricato su una automobile.
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Andrea Pamparana – Tiffany
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MA.CA.BRO -MECHANÈ
Secondo disco per i Ma.Ca.Bro, al secolo il duo Stefano Danusso e Cristiano Lo Mele il chitarrista dei Pertubazione, intitolato Mechanè. I due musicisti vantano una lunga militanza sulla scena musicale italiana, e si sono incontrati all’inizio degli anni duemila grazie al musicista Totò Zingaro e da quel momento hanno cominciato a collaborare componendo colonne sonore molto valide come “La passione di Anna Magnani” di Enrico Cerasuolo, “Manuale di storie dei cinema” di Stefano D’Antuono e Bruno Ugioli,“Linfe” di Lucio Viglierchio, “Incontro con le macchine” di Alessandro Bernard,“Phonetrip” di Moomie. #elettronica #chitarre #minimalismo #colonnesonore #macabro #mechanè @icebergrecords
Ma.Ca.Bro -Mechanè 2023
Ma.Ca.Bro -Mechanè - Ma.Ca.Bro -Mechanè : Una raccolta molto interessante ed intrigante, un lavorio sonoro e mentale che non è facile da trovare di tale livello. - Ma.Ca.BroMassimo Argo (In Your Eyes ezine)
In Cina e Asia – Qin Gang incontra l’ambasciatore Usa in Cina
I titoli di oggi:
Qin Gang incontra l'ambasciatore Usa in Cina
Ottawa espelle il diplomatico cinese accusato di minacce verso un politico canadese
Cina, alla Commissione centrale Xi chiede attenzione su demografia e tecnologia
ChatGPT, in Cina la prima detenzione legata all'utilizzo del bot per produrre fake news
LinkedIn chiude la app pensata per il mercato cinese
Giappone, la Camera dei rappresentanti vota una controversa legge sui rifugiati
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Parola di Godfathers. L’Ai è più urgente del cambiamento climatico, ma meno pericolosa delle bombe atomiche
Geoffrey Hinton e Jurgen Schmidhuber sono d’accordo su un fatto: non è possibile fermare la corsa all’AI, ma bisogna preoccuparsi di governarla Se vuoi leggere il mio pezzo nella rubrica Governare il futuro su Huffington Post la trovi qui huffingtonpost.it/rubriche/gov…
Ora le opposizioni colgano l’occasione: non agguati, ma confronto serio e nel merito
Il Dubbio, 9 maggio 2023, pagina 4
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PRIVACY DAILY 111/2023
Attacco improvviso israeliano su Gaza, numerosi morti e feriti tra i palestinesi
della redazione
Pagine Esteri, 9 maggio 2023 – Almeno 12 palestinesi sono stati uccisi e altri 20 feriti nell’attacco improvviso lanciato nella notte da Israele contro la Striscia di Gaza. Tra i morti ci sono tre bambini e una o più donne. Obiettivo ufficiale dell’offensiva aerea denominata “Scudo e Freccia” sono stati alcuni leader di spicco del Jihad Islami colti di sorpresa nelle loro abitazioni ed uffici. Inizialmente il bombardamento condotto, pare, anche con droni killer, ha preso di mira Jihad al-Ghanam, Khalil al-Bahtini, membro del Consiglio militare e comandante della regione settentrionale nelle Brigate al-Quds (l’ala armata del Jihad) e Tariq Ezz al- Din e i suoi due figli, Ali e Mayar.
Tra gli uccisi figura anche il dottor Jamal Khaswan, direttore del consiglio di amministrazione dell’ospedale Al-Wafa.
Poi l’aviazione israeliana ha preso di mira numerosi obiettivi che il portavoce militare israeliano ha descritto come campo militari e siti per la fabbricazione di razzi ed esplosivi. Gli attacchi hanno provocato altre vittime, alcune delle quali civili. Il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha scritto su Twitter che “l’esercito e lo Shin Bet (intelligence, ndr) hanno svolto la loro missione con precisione, contro la leadership del Jihad islami nella Striscia di Gaza”. Non ha fatto alcun riferimento ai bambini e alle altre vittime civili.
In previsione di una probabile escalation, le autorità di Gaza hanno annunciato la chiusura degli istituti scolastici e il rinvio degli esami previsti per oggi fino a nuovo avviso. L’orario di lavoro nelle istituzioni governative è stato ridotto al minimo necessario. Anche l’Unrwa (Onu) ha annunciato che, al fine di garantire la sicurezza degli studenti e del personale docente e scolastico, le lezioni saranno sospese. Altrettanto avverrà nelle università.
A Gaza tutti si attendono una guerra ampia. Il Jihad, si prevede, lancerà i suoi razzi contro Israele in risposta agli attacchi subiti e alle uccisioni. Poi dovrebbe cominciare un attacco massiccio da parte di Israele che ha già avvertito la sua popolazione nei pressi di Gaza di restare in casa e nei rifugi. I media israeliani sostengono che il governo Netanyahu vorrebbe tenere fuori dal conflitto il movimento Hamas, la principale forza militare a Gaza. Ma il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha replicato che “il nemico ha fatto un errore nelle sue stime e pagherà il prezzo del suo crimine” e che “l’aggressione ha preso di mira tutto il nostro popolo e la resistenza è unita nell’affrontarla”. Pagine Esteri
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Gli Usa "arruolano” l’Asia-Pacifico, ma c’è chi protesta
In Australia manifestazione contro la base per sottomarini a propulsione nucleare Aukus. Nelle Filippine si contesta la reintroduzione dell'addestramento militare obbligatorio per gli studenti universitari. In Giappone e Corea del Sud malumori sul disgelo suggellato dal vertice tra Kishida e Yoon a Seul
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Pier Paolo Pasolini - Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia - 10/06/1974
2 giugno: sull'«Unità» in prima pagina c'è il titolo delle grandi occasioni e suona: «Viva la repubblica antifascista.»
Certo, viva la repubblica antifascista. Ma che senso reale ha questa frase? Cerchiamo di analizzarlo.
Essa in concreto nasce da due fatti, che la giustificano del resto pienamente: 1) La vittoria schiacciante del «no» il 12 maggio, 2) la strage fascista di Brescia del 28 dello stesso mese.
La vittoria del «no» è in realtà una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano, ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del partito comunista. Perché? Fanfani e il Vaticano hanno dimostrato di non aver capito niente di ciò che è successo nel nostro paese in questi ultimi dieci anni: il popolo italiano è risultato - in modo oggettivo e lampante - infinitamente più «progredito» di quanto essi pensassero, puntando ancora sul vecchio sanfedismo contadino e paleoindustriale.
Ma bisogna avere il coraggio intellettuale di dire che anche Berlinguer e il partito comunista italiano hanno dimostrato di non aver capito bene cos'è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni. Essi infatti non volevano il referendum; non volevano la «guerra di religione» ed erano estremamente timorosi sull'esito positivo delle votazioni. Anzi, su questo punto erano decisamente pessimisti. La «guerra di religione» è risultata invece poi un'astrusa, arcaica, superstiziosa previsione senza alcun fondamento.
Gli italiani si sono mostrati infinitamente più moderni di quanto il più ottimista dei comunisti fosse capace di immaginare. Sia il Vaticano che il Partito comunista hanno sbagliato la loro analisi sulla situazione «reale» dell'Italia.
Sia il Vaticano che il partito comunista hanno dimostrato di aver osservato male gli italiani e di non aver creduto alla loro possibilità di evolversi anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo possibile.
Ora il Vaticano piange sul proprio errore. Il pci invece, finge di non averlo commesso ed esulta per l'insperato trionfo.
Ma è stato proprio un vero trionfo?
Io ho delle buone ragioni per dubitarne. Ormai è passato quasi un mese da quel felice 12 maggio e posso perciò permettermi di esercitare la mia critica senza temere di fare del disfattismo inopportuno.
La mia opinione è che il cinquantanove per cento dei «no», non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progresso e della democrazia: niente affatto: esso sta a dimostrare invece due cose:
1) che i «ceti medi» sono radicalmente - direi antropologicamente - cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non «nominati») dell'ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. E' stato lo stesso Potere - attraverso lo «sviluppo» della produzione di beni superflui, l'imposizione della smania del consumo, la moda, l'informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) - a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo.
2) che l'Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c'è più, e al suo posto c'è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui sopra (modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante ecc.).
Il «no» è stato una vittoria, indubbiamente. Ma la reale indicazione che esso dà è quella di una «mutazione» della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista.
Se così stanno le cose, allora, che senso ha la «strage di Brescia» (come già quella di Milano)? Si tratta di una strage fascista, che implica dunque una indignazione antifascista? Se son le parole che contano, allora bisogna rispondere positivamente. Se sono i fatti allora la risposta non può essere che negativa; o per lo meno tale da rinnovare i vecchi termini del problema.
L'Italia non è mai stata capace di esprimere una grande Destra. E' questo, probabilmente, il fatto determinante di tutta la sua storia recente. Ma non si tratta di una causa, bensì di un effetto. L'Italia non ha avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla. Essa ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il fascismo. In tal senso il neo-fascismo parlamentare è la fedele continuazione del fascismo tradizionale. Senonché, nel frattempo, ogni forma di continuità storica si è spezzata. Lo «sviluppo», pragmaticamente voluto dal Potere, si è istituito storicamente in una specie di epoché, che ha radicalmente «trasformato», in pochi anni, il mondo italiano.
Tale salto «qualitativo» riguarda dunque sia i fascisti che gli antifascisti: si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un'organizzazione culturale arcaica, all'organizzazione moderna della «cultura di massa». La cosa, in realtà, è enorme: è un fenomeno, insisto, di «mutazione» antropologica. Soprattutto forse perché ciò ha mutato i caratteri necessari del Potere. La «cultura di massa», per esempio, non può essere una cultura ecclesiastica, moralistica e patriottica: essa è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare automaticamente un Potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbìe affini.
L'omologazione «culturale» che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c'è più dunque differenza apprezzabile - al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando - tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico non c'è niente che distingua - ripeto, al di fuori di un comizio o di un'azione politica - un fascista da un antifascista (di mezza età o giovane: i vecchi, in tal senso possono ancora esser distinti tra loro). Questo per quel che riguarda i fascisti e gli antifascisti medi. Per quel che riguarda gli estremisti, l'omologazione è ancor più radicale.
A compiere l'orrenda strage di Brescia sono stati dei fascisti. Ma approfondiamo questo loro fascismo. E' un fascismo che si fonda su Dio? Sulla Patria? Sulla Famiglia? Sul perbenismo tradizionale, sulla moralità intollerante, sull'ordine militaresco portato nella vita civile? O, se tale fascismo si autodefinisce ancora, pervicacemente, come fondato su tutte queste cose, si tratta di un'autodefinizione sincera? Il criminale Esposti - per fare un esempio - nel caso che in Italia fosse stato restaurato, a suon di bombe, il fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l'Italia della sua falsa e retorica nostalgia? L'Italia non consumistica, economa e eroica (come lui la credeva)? L'Italia scomoda e rustica? L'Italia senza televisione e senza benessere? L'Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio? L'Italia con le donne chiuse in casa e semi-velate? No: è evidente che anche il più fanatico dei fascisti considererebbe anacronistico rinunciare a tutte queste conquiste dello «sviluppo». Conquiste che vanificano, attraverso nient'altro che la loro letterale presenza -
divenuta totale e totalizzante - ogni misticismo e ogni moralismo del fascismo tradizionale.
Dunque il fascismo non è più il fascismo tradizionale. Che cos'è, allora?
I giovani dei campi fascisti, i giovani delle SAM, i giovani che sequestrano persone e mettono bombe sui treni, si chiamano e vengono chiamati «fascisti»: ma si tratta di una definizione puramente nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tutto identici all'enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente - ripeto - non c'è niente che li distingua. Li distingue solo una «decisione» astratta e aprioristica che, per essere conosciuta, deve essere detta. Si può parlare casualmente per ore con un giovane fascista dinamitardo e non accorgersi che è un fascista. Mentre solo fino a dieci anni fa bastava non dico una parola, ma uno sguardo, per distinguerlo e riconoscerlo.
Il contesto culturale da cui questi fascisti vengono fuori è enormemente diverso da quello tradizionale. Questi dieci anni di storia italiana che hanno portato gli italiani a votare «no» al referendum, hanno prodotto - attraverso lo stesso meccanismo profondo - questi nuovi fascisti la cui cultura è identica a quella di coloro che hanno votato «no» al referendum.
Essi sono del resto poche centinaia o migliaia: e, se il governo e la polizia l'avessero voluto, essi sarebbero scomparsi totalmente dalla scena già dal 1969.
Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza un'ideologia propria (perché vanificata dalla qualità di vita reale vissuta da quei fascisti), e, inoltre, artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che dopo aver liquidato, sempre pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la Chiesa (il clerico-fascismo che era effettivamente una realtà culturale italiana) ha poi deciso di mantenere in vita delle forze da opporre - secondo una strategia mafiosa e da Commissariato di Pubblica Sicurezza - all'eversione comunista. I veri responsabili delle stragi di Milano e di Brescia non sono i giovani mostri che hanno messo le bombe, né i loro sinistri mandanti e finanziatori. Quindi è inutile e retorico fingere di attribuire qualche reale responsabilità a questi giovani e al loro fascismo nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono e che contiene gli elementi per la loro follia pragmatica è, lo ripeto ancora una volta, la stessa dell'enorme maggioranza dei loro coetanei. Non procura solo a loro condizioni intollerabili di conformismo e di nevrosi, e quindi di estremismo (che è appunto la conflagrazione dovuta alla miscela di conformismo e nevrosi).
Se il loro fascismo dovesse prevalere, sarebbe il fascismo di Spinola, non quello di Caetano: cioè sarebbe un fascismo ancora peggiore di quello tradizionale, ma non sarebbe più precisamente fascismo. Sarebbe qualcosa che già in realtà viviamo, e che i fascisti vivono in modo esasperato e mostruoso: ma non senza ragione.
pubblicato sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974 con il titolo «Gli italiani non sono più quelli»
BETLEMME. Israele demolisce scuola palestinese co-finanziata dall’Unione Europea
Pagine Esteri, 8 maggio 2023. Frequentata da decine di bambini e bambine palestinesi, la scuola di Jubbet ab-Dib è stata demolita domenica dal governo israeliano che occupa la Cisgiordania.
L’abbattimento è stato reso esecutivo dopo la sentenza del tribunale distrettuale che si è espresso in merito a una petizione presentata dall’organizzazione Regavim, una ONG di destra di cui il ministro israeliano delle finanze, Bezazel Smotrich è cofondatore. In un tweet l’organizzazione ha festeggiato il risultato:
¹Following our petition, Civil Administration forces tore down an illegal Palestinian school, built in the Herodian Nature Reserve & Heritage Site in Gush Etzion. pic.twitter.com/9kmY71bRXE— Regavim (@RegavimEng) May 7, 2023
Costruita sei anni fa anche grazie ai fondi dell’Unione Europea, l’istituto scolastico accoglieva gli studenti e le studentesse di Jubbet ab-Dib come quelli di Beit Ta’mir.
Prima che venisse realizzata, le bambine e i bambini della scuola dovevano percorrere tre chilometri al giorno per raggiungere l’istituto più vicino. Gli abitanti, in segno di protesta, hanno allestito sulle macerie una tenda che continuerà ad ospitare le lezioni.
L’Unione Europea ha condannato la demolizione, definendola una violazione del diritto all’istruzione. Bruxelles era già intervenuta, chiedendo alle autorità israeliane di non distruggere l’istituto:
“L’Unione europea condanna la demolizione della scuola finanziata dall’UE a Jubbet Adh Dhib, nel territorio palestinese occupato, effettuata domenica mattina dalle forze di difesa israeliane. L’UE ha seguito da vicino questo caso e ha chiesto alle autorità israeliane di non effettuare la demolizione che colpisce direttamente 81 bambini e la loro istruzione.
#Palestinian pupils in #Bethlehem had their school demolished yesterday by Israeli forces. Another 57 schools are at risk across the #WestBank. It is nearly impossible for Palestinians to get permits to construct or rehabilitate structures. #StopDemolitions pic.twitter.com/yeiPijp8uS— OCHA oPt (Palestine) (@ochaopt) May 8, 2023
L’UE ricorda che le demolizioni sono illegali ai sensi del diritto internazionale e che il diritto dei bambini all’istruzione deve essere rispettato. L’UE invita Israele a fermare tutte le demolizioni e gli sgomberi, che non faranno che aumentare le sofferenze della popolazione palestinese e rischiano di infiammare le tensioni sul terreno.
Lo scorso anno sono state demolite o sequestrate dalle autorità di occupazione un totale di 954 strutture in tutta la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, il numero più alto registrato dal 2016. Più dell’80% delle strutture demolite (781) si trovava nell’Area C. In totale, 1.032 persone sono state sfollate a causa delle demolizioni. Quest’anno sta già seguendo una tendenza simile e preoccupante”. Pagine Esteri
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Nel Pd non c’è spazio per il merito e le idee liberali
Caro Direttore, nei prossimi giorni presenterò le mie dimissioni dal Senato che dovranno poi essere approvate dall’Aula. Non è stata una scelta facile e La ringrazio per l’opportunità di spiegarne le motivazioni. Lascio il Senato per andare a dirigere, a titolo gratuito, un nuovo Programma per l’Educazione nelle Scienze Economiche e Sociali rivolto agli studenti delle scuole superiori offerto dall’Università Cattolica di Milano. L’idea è di costituire un gruppo di esperti senior di alto livello che, pro bono, visiteranno le scuole per condividere con gli studenti le loro esperienze accumulate in una vita lavorativa. L’obiettivo è di svolgere circa 150 visite all’anno, forse di più. I temi trattati comprenderanno le tendenze di breve e lungo termine dell’economia italiana, le politiche monetarie e di bilancio, le tematiche strutturali soprattutto rispetto all’inserimento nel mondo del lavoro, la sostenibilità economica e ambientale, la finanza, l’interazione tra economia e diritto, la costituzione italiana e l’importanza della comunicazione per le politiche economiche e sociali. Le presentazioni non comporterebbero costi per le scuole coinvolte. Ci sarebbero poi presentazioni serali per centri culturali, circoli per gli anziani e così via.
Credo molto in questo progetto, anche perché penso sia importante che chi ha avuto tanto dalla vita e ha accumulato esperienze sia disposto a condividerle con giovani e altri. Rispetto alla mia attuale posizione al Senato, due cose hanno reso più facile accettare la proposta fattami dall’Università Cattolica. Primo, in questo momento storico mi sembra che nella vita parlamentare ci sia molta, troppa animosità. Spesso le posizioni sono espresse “per partito preso” e i dibattiti sono solo un’occasione per attaccare l’avversario. Non intendo criticare i miei colleghi. Una forte contrapposizione tra maggioranza e opposizione è probabilmente inevitabile in questo momento storico, ma i dibattiti estremizzati non sono nelle mie corde. Forse allora, nel mio piccolo, posso essere più utile al Paese tornando a commentare le politiche economiche dall’esterno, dicendo quello che penso senza il rischio di autocensurarmi. Secondo, è innegabile (basta vedere la composizione della nuova Segreteria) che l’elezione di Elly Schlein abbia spostato il Pd più lontano dalle idee liberaldemocratiche in cui credo. Ho grande stima di Elly Schlein e non credo sbagli a spostare il Pd verso sinistra. La scelta alle primarie è stata netta e i sondaggi la premiano. Un Pd più a sinistra può trasmettere un messaggio più chiaro agli elettori, cosa essenziale per un partito politico. Ciò detto, mi trovo ora a disagio su diversi temi.
Una questione chiave è il ruolo che il “merito” debba avere nella società. Il principio del merito era molto presente nel documento dei valori del Pd del 2008, l’ultimo disponibile quando decisi di candidarmi. Manca invece in quello approvato a gennaio 2023 e nella mozione Schlein per le primarie. A livello più specifico, di recente ci sono stati diversi casi in cui non ho condiviso le posizioni prese dal Pd, per esempio su aspetti del Jobs Act, sull’aumento delle accise sui carburanti, sul freno al Superbonus e sul compenso aggiuntivo per insegnanti che vivono in aree dove il costo della vita è alto, come suggerito da Valditara. Ho posizioni diverse da Elly Schlein anche sui termovalorizzatori, sull’utero in affitto e in parte anche sul nucleare. Qualcuno dice che, date queste differenze, dovrei cambiare gruppo parlamentare. Non sarebbe giusto, anche perché sono stato eletto col proporzionale e quindi senza una scelta diretta sul mio nome da parte degli elettori. Il primo dei non eletti mi sostituirà senza perdite di seggi per il Pd. Mi sembra la scelta più corretta. L’autore è senatore indipendente nel gruppo del Pd
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Giordania bombarda in Siria, uccide narcotrafficante con la moglie e sei figli
della redazione
Pagine Esteri, 8 maggio 2023 – Il ministero degli esteri giordano non conferma ma più fonti affermano che è da attribuire all’aviazione del regno hashemita l’attacco di ieri contro il villaggio di Al Shaab (Suwayda) nella Siria meridionale che ha ucciso Marai al Ramathan e la sua famiglia che comprendeva la moglie e sei figli.
Al Ramathan era considerato uno dei maggiori trafficanti di droga dal territorio siriano verso la Giordania e i Paesi del Golfo, specializzato nel contrabbando del Captagon (un anfetaminico). Da Amman si sono limitati a commentare che “Gli stupefacenti rappresentano una grande minaccia per il Regno hashemita, la regione e il mondo”. Al Ramathan era stato arrestato dalle autorità siriane lo scorso dicembre e poi rilasciato il 20 aprile.
Il Captagon, consumato particolarmente in Arabia saudita, crea una forte dipendenza e, secondo gli specialisti, sarebbe un “farmaco di transizione” per sostanze ancora più forti. L’Occidente e alcuni paesi arabi accusano le autorità siriane di non agire contro i narcotrafficanti se non addirittura di collaborare con loro. Damasco smentisce queste accuse. Pagine Esteri
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Presentazione del libro “Non diamoci del Tu – La separazione delle carriere” – 17 maggio 2023, Pescara
17 maggio 2023, ore 20:30
Ristorante Sea River – Da Michele, Via Valle Roveto, 37, Pescara
Interviene
Giampiero di Florio, Procuratore della Repubblica di Chieti
Sarà presente l’autore
Partecipazione su invito.
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La Siria riammessa nella Lega araba
Della redazione
Pagine Esteri, 8 maggio 2023 – La Siria torna nella Lega Araba dopo 12 anni. Lo hanno stabilito i ministri degli Esteri arabi nel corso di un vertice che si è tenuto al Cairo segnato da un acceso dibattito su questo tema. Il Qatar, sostenitore dei Fratelli musulmani nemici del presidente siriano Bashar Assad, si è opposto lungamente alla normalizzazione con Damasco.
La Siria era stata sospesa 12 anni fa dalla Lega araba all’inizio di una ampia protesta popolare contro Assad – nel periodo della “primavera araba” – trasformatasi in conflitto armato alimentato da potenze occidentali e arabe che ha causato la morte di quasi mezzo milione di persone e 10 milioni di profughi in Turchia, Libano e Giordania e di sfollati interni.
La riammissione della Siria giunge in una fase di riconciliazione diffusa nel mondo arabo e islamico che di recente ha visto, in modo particolare, la normalizzazione delle relazioni tra Iran e Arabia saudita e tra Siria e Arabia saudita. Pagine Esteri
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Ministero dell'Istruzione
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Leaked EU Council legal analysis: EU chat control plans for indiscriminately searching private messages doomed to failure
The Council’s official Legal Service opinion on the legality of the proposed Child Sexual Abuse Regulation (CSAR), also named “Chat control”, has been leaked. The Council legal experts advise EU governments that the EU Commission’s proposal of ordering e-mail, messaging and chat providers to search all private messages for allegedly illegal material and report them to the police (“detection orders”) likely fails to comply with fundamental rights, thus would probably be annulled by the European Court of Justice. The experts also voice concerns regarding generalised age verification for communications services.
Specifically the Council analysis states:
- “if the screening of communications metadata was judged by the Court proportionate only for the purpose of safeguarding national security, it is rather unlikely that similar screening of content of communications for the purpose of combating crime of child sexual abuse would be found proportionate” (par. 75).
- “There is a clear risk”, the analysis notes, “that in order to be effective, detection orders would have to be extended to other providers and lead de facto to a permanent surveillance of all interpersonal communications.” (par. 46)
- The Council analysis warns that by authorising generalised access to personal communications of citizens not even remotely connected with child sexual exploitation, “the right to confidentiality of correspondence would become ineffective and devoid of content” and the legislation risks compromising “the essence of the fundamental right to respect for private life” (par. 56).
- It points out that the proposed “detection orders” aimed at all users of a telephony, e-mail, messenger, chat service or of a “part or component” of a service “highly probably” constitute “general and indiscriminate” surveillance (par. 47) which the highest EU Court has consistently dismissed and annulled. It contradicts the EU Commission’s and the Parliament Rapporteur’s claims that such orders are “targeted”.
- The Council analysis advises: “If the Council were to decide to maintain interpersonal communications within the scope of the regime of the detection order, the regime should be targeted in such a way that it applies to persons in respect of whom there are reasonable grounds to believe that they are in some way involved in, committing or have committed a child sexual abuse offence…” (par. 79). This concurs with the recent assessment of the European Parliament’s research service (EPRS) for the Civil Liberties Committee. [2]
- Concerning the proposed age verification requirements for e-mail, messaging and chat services, the experts warn age verification “would necessarily add another layer of interference with the rights and freedoms of the users”. “Such process [age verification] would have to be done either by (i) mass profiling of the users or by (ii) biometric analysis of the user’s face and/or voice or by (iii) digital identification/certification system.”
Pirate Party Member of the European Parliament Patrick Breyer, shadow rapporteur (negotiator) for his group in the Civil Liberties Committee (LIBE) and long-time opponent of mass surveillance of private communications, comments:
“The EU Council’s services now confirm in crystal clear words what other legal experts, human rights defenders, law enforcement officials, abuse victims and child protection organisations have been warning about for a long time: obliging e-mail, messaging and chat providers to search all private messages for allegedly illegal material and report to the police destroys and violates the right to confidentiality of correspondence. A flood of mostly false reports would make criminal investigations more difficult, criminalise children en masse and fail to bring the abusers and producers of such material to justice. According to this expertise, searching private communications for potential child sexual exploitation material, known or unknown, is legally feasible only if the search provisions are targeted and limited to persons presumably involved in such criminal activity.
I call on EU governments to take a U-turn and stop the dystopian China-style chat control plans which they now know violate the fundamental rights of millions of citizens! No one is helping children with a regulation that will inevitably fail before the European Court of Justice. The Swedish government, currently holding the EU Council Presidency, must now immediately remove blanket chat control as well as generalised age verification from the proposed legislation. Governments of Europe, respect our fundamental right to confidential and anonymous correspondence now!
I have hopes that the wind may be changing regarding chat control. What children really need and want is a safe and empowering design of chat services as well as Europe-wide standards for effective prevention measures, victim support, counselling and criminal investigations.”
The legal analysis was discussed in the EU Council working group on 27 April, and could be discussed in mid-May at the level of the Member States’ representatives. The Swedish Council Precidency recently proposed to adopt the indiscriminate detection regime without changes. Even after hearing about the legal limits, some governments seem unwilling to align the proposal with fundamental rights requirements. In a leaked position paper circulated one day after the legal opinion was sent, 10 countries – including the upcoming EU presidency Spain – took the extreme position of supporting the Commission’s original proposal without substantial changes, including where it calls for backdooring secure end-to-end encryption.
La guerra e le spese militari nel mondo. L’opinione di Mastrolitto e Scanagatta
Papa Francesco parla spesso della grande vergogna della guerra e delle spese crescenti per gli armamenti. È una vergogna perché queste enormi risorse potrebbero, in spirito di solidarietà, essere destinate ai tantissimi Paesi che vivono al di sotto della soglia di povertà e sono nella miseria.
Non dimentichiamo che la nostra Costituzione all’articolo 11 stabilisce che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ci si chiede come questo dettato costituzionale possa andare d’accordo con l’impegno del nostro Paese con la Nato (North Atlantic Treaty Organisation) di portare al 2% le spese militari rispetto al prodotto interno lordo. Attualmente l’Italia ha un’incidenza delle spese militari sul prodotto interno lordo dell’1,22%. Va tuttavia ricordato che dei Paesi aderenti alla Nato, una parte significativa si colloca al di sotto della soglia del 2% delle spese militari rispetto al prodotto interno lordo.
Ma non è di questo che si vuole parlare, ma dei dati a livello mondiale delle spese crescenti per gli armamenti, anche in connessione con la guerra tra la Russia e l’Ucraina che coinvolge tutti i Paesi della Nato.
L’ultimo dato disponibile (anno 2021), indica che le spese militari a livello mondiale sono ammontate a 2.113 miliardi di dollari. Si tratta di un valore molto vicino al prodotto interno lordo dell’Italia e a più della metà del prodotto interno lordo della Germania.
Negli ultimi vent’anni, le spese militari mondiali sono raddoppiate, con un tasso di crescita medio annuo superiore al 3,5%.
La graduatoria dei Paesi in base al rapporto tra spese militari e prodotto interno lordo vede i primi posti l’Oman, l’Arabia Saudita, l’Algeria, gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait con valori che variano tra il 6 e il 9%. Considerando i Paesi più significativi, scendendo nella graduatoria, troviamo Israele con il 5%, Russia e Ucraina con il 3,9%, Stati Uniti d’America con il 3,42%, India con il 2,4%, Regno Unito con il 2,14%, Polonia con il 2%, Cina con l’1,9%, Turchia con l’1,89%, Francia con l’1,84%, Portogallo con l’1,52%, Brasile con l’1,5%, Germania con l’1,38%, Italia con l’1,22%. Molti Paesi Europei si collocano al di sotto della soglia del 2%, compresa l’Italia che occupa la novantaseiesima posizione della graduatoria.
Il quadro muta in modo sostanziale se guardiamo la graduatoria delle spese militari in valore assoluto. Al primo posto troviamo gli Stati Uniti d’America con 667 miliardi di dollari. In seconda posizione si colloca la Cina con 482 miliardi, in terza l’India con 227 e in quarta la Russia con 157 miliardi. Questi quattro Paesi coprono quasi tre quarti della spesa complessiva mondiale in armamenti. Indicazioni interessanti si colgono scendendo nella classifica nella spesa militare in valori assoluti. L’Arabia Saudita copre il quinto posto con 142 miliardi di dollari, seguita dal Regno Unito con 63 miliardi. La Germania e la Francia si collocano solo al settimo e all’ottavo posto, rispettivamente con 58 e 53 miliardi di dollari. In nona posizione troviamo il Brasile con 49 miliardi, seguito dalla Turchia con 41. L’Italia sta all’undicesimo posto con 28 miliardi di dollari, seguita dalla Polonia con 23.
È interessante confrontare i primi dodici Paesi per importo delle spesse militari che abbiamo sopra considerato, con l’aiuto economico ai Paesi poveri nella forma di donazioni sempre di dodici Paesi che risultano primi nella graduatoria a livello mondiale. Nelle prime tre posizioni per doni concessi troviamo gli Stati Uniti (23,5 miliardi di dollari), il Regno Unito (12,5) e il Giappone (11,2). Nelle ultime tre posizioni si collocano Spagna (3,8), Italia (3,6) e Norvegia (3,0). Il totale dei doni dei dodici Paesi considerati ammonta a 97,12 miliardi di dollari, pari al 4,6% delle spese militari a livello mondiale. Si tratta di una percentuale irrisoria rispetto alle risorse che tutti i Paesi del mondo destinano alle spese per gli armenti.
Un altro dato interessante riguarda il confronto tra le spese complessive per armenti a livello mondiale, cioè 2.113 miliardi di dollari, e la somma dei prodotti interni dei Paesi poveri che uguaglia il totale delle spese stesse. La somma dei prodotti interni dei 99 Paesi più poveri uguaglia l’ammontare delle spese militari effettuate in tutto in mondo. Si tratta quindi di oltre la metà di tutti i Paesi del mondo. Se, ipoteticamente, le suddette spese militari fossero tutte destinate a doni al centinaio di Paesi poveri, i loro prodotti interni lordi raddoppierebbero.
Possiamo trarre alcune conclusioni dai dati che abbiamo presentato. Per prima cosa si è visto che la stragrande maggioranza delle spese militari a livello mondiale è concentrata in quattro Paesi: Stati Uniti d’America, Cina, India e Russia. La teoria degli imperi rimane confermata rispetto alle democrazie di tipo liberale.
L’Europa si conferma il fanalino di coda, in mancanza di una politica comune di difesa e di una politica estera comune. Tale debolezza dell’Europa risulta ulteriormente confermata con riferimento alle spese militari dei Paesi che fanno parte della Nato.
Rispetto alla Nato c’è da osservare che non si tratta di un rapporto di tipo multilaterale tra i Paesi che ne fanno parte, ma di un rapporto bilaterale tra i singoli Paesi e gli Stati Uniti d’America perché sono questi ultimi a fornire indicazioni precise ad ogni Paese aderente sugli armamenti da acquistare e sulle linee di strategia militare da seguire.
Colpisce l’incidenza delle spese militari sul prodotto interno lordo dell’Ucraina, quasi il 4%. Una percentuale del tutto simile a quella della Russia. I Paesi dell’Europa orientale presentano incidenze delle spese militari sul prodotto interno lordo pari o superiori al 2%, mentre i Paesi dell’Europa occidentale si collocano al di sotto di tale soglia.
La dimensione delle spese per armamenti a livello mondiale è colossale ed è pari al reddito complessivo di più della metà dei Paesi nel mondo. I doni dei Paesi ricchi a favore di quelli poveri sono caduti ad un livello di autentica insignificanza, con valori inferiori al 5% delle spese militari mondiali. Anche se ai doni sarebbero preferibili gli investimenti diretti dei Paesi ricchi nei PVS, soprattutto a causa della loro instabilità economica e politica. Il valore della solidarietà è quasi scomparso e siamo alle prese con una guerra che si svolge certamente nel territorio di un solo Paese, ma che coinvolge anche tutti i Paesi della Nato.
Disponibile da oggi la nuova puntata del format “Il #MinistroRisponde” 📲
In questo terzo...
Disponibile da oggi la nuova puntata del format “Il #MinistroRisponde” 📲
In questo terzo appuntamento viene presentato il Piano triennale di semplificazione del Mim, un progetto volto a snellire la burocrazia, semplificare le procedure e, con l’au…
Ministero dell'Istruzione
Disponibile da oggi la nuova puntata del format “Il #MinistroRisponde” 📲 In questo terzo appuntamento viene presentato il Piano triennale di semplificazione del Mim, un progetto volto a snellire la burocrazia, semplificare le procedure e, con l’au…Telegram
Cent’anni fa il femminismo arabo: due centenari importanti per l’Egitto e non solo
di Patrizia Zanelli*
Pagine Esteri, 8 maggio 2023 – Il 16 marzo del 1923 nasceva al Cairo l’Unione Femminista Egiziana (UFE), formata da donne dell’alta borghesia e del ceto medio, musulmane e cristiane, e presieduta da Hoda Shaarawi (Hudā Sha‘rāwī, 1879-1947). È la più famosa delle undici fondatrici della neonata organizzazione – la prima del genere nella storia del femminismo arabo –, fondata proprio in quella data, per ricordare la sua partecipazione alla Rivoluzione del 1919. Era infatti il quarto anniversario del giorno in cui la stessa Shaarawi, abituata a vivere nell’harem, era uscita di casa per guidare quasi trecento altre donne dell’alta borghesia in una marcia di protesta contro il protettorato britannico sull’Egitto, che durava dal 1882. La micia dell’insurrezione popolare, esplosa il 9 marzo 1919, era stata la deportazione del parlamentare Saad Zaghlul (1858-1927) e di altri tre nazionalisti egiziani del neofondato Partito Wafd, ordinata dalle autorità coloniali.
Durante la marcia organizzata per l’appunto il 16 marzo di quell’anno, Shaarawi e le altre manifestanti erano completamente velate, secondo l’usanza ancora diffusa allora. Come spiega Margot Badran, in Feminists, Islam, and Nation [1], da secoli il velo, niqab, non era tanto un simbolo religioso quanto una tradizione patriarcale; lo portavano di fatto le musulmane, le cristiane e le ebree dei ceti medio-alti nelle città e nelle aree rurali. Lo indossavano anche le donne povere del proletariato urbano, che però erano più libere di muoversi proprio per ragioni economiche: non vivevano nell’harem, struttura tipica delle abitazioni signorili; uscivano di casa, per andare a lavorare e ottenere una retribuzione che serviva agli interessi degli uomini delle loro famiglie. Le contadine, invece, non lo portavano, perché incompatibile con il lavoro nei campi.
D’altro canto, nell’ambito del movimento di modernizzazione culturale, definito Nahḍa (Rinascita o Rinascimento), e talvolta Tanwīr (Illuminismo), sorto a metà Ottocento nell’area siro-libanese e in Egitto, si stava già cercando di abolire la segregazione femminile e l’uso del velo. Due proposte che rientravano nella promozione generale del potenziamento della posizione della donna nelle società arabe, visto come massimo indizio di modernità e passo fondamentale per la liberazione dalle tradizioni oscurantiste locali e dalla dominazione delle potenze imperialiste straniere dell’epoca.
Nel 1805, Muhammad Ali Pascià (1769-1849) aveva trasformato l’Egitto in una provincia autonoma dell’Impero Ottomano e poi avviato la modernizzazione del paese, destinato a diventare il centro della Nahḍa, anzitutto grazie all’introduzione della stampa moderna, nel 1820. Durante il regno dello stesso governatore o viceré, e precisamente nel 1832, fu aperto il primo istituto d’istruzione femminile; era specializzato nella formazione delle donne aiuto medico; le allieve appartenevano al ceto medio. Diverse scuole missionarie, soprattutto francesi e inglesi, per bambine furono istituite da allora in poi.
In quel periodo emerse la figura di un intellettuale modernista, considerato tra i principali promotori della parità di genere nel mondo arabo: Rifa‘a al-Tahtawi (1801-1873), pedagogo, scrittore e traduttore, pioniere della Nahḍa, che nel resoconto autobiografico, “Oro raffinato nel compendio di Parigi”, del 1834, esprime la propria ammirazione per lo stile di vita delle donne francesi, ritenendolo un modello di modernità da imitare e conforme ai principi dell’Islam. Fu anche il padre dell’egittologia moderna egiziana e della pedagogia faraonista; abbinò teorie egittologiche al geo-determinismo di Montesquieu per definire l’egizianità, diventando così il teorico primario del Faraonismo, forma di nazionalismo territoriale che assunse il passato faraonico come base per la definizione di un’identità nazionale in grado di unire una popolazione formata da una maggioranza musulmana, un’importante minoranza copto-cristiana e una piccola comunità ebraica. Nel suo ultimo libro, “La guida sicura per i ragazzi e le ragazze”, del 1972, al-Tahtawi riconosce a entrambi i sessi il diritto all’istruzione.
Altro pioniere della Nahḍa è il riformatore musulmano progressista Muhammad Abduh (1849-1905), che reinterpretò il racconto di Adamo ed Eva dell’Antico Testamento, confutando il dogma dell’inferiorità della donna, per smantellare i derivati pregiudizi sessisti. In qualità di mufti, emanò una serie di fatwa per promuovere la parità di genere, proponendo, solo per esempio, l’abrogazione della poligamia. Avendo lanciato la reinterpretazione modernista del Corano e delle altre fonti del diritto islamico, permise a uomini e donne appunto di reinterpretarle in tal senso.
Nasceranno discorsi filo-femministi maschili e femministi femminili. Gli uomini, nota Badran, partono da considerazioni astratte sull’arretrata condizione femminile, volte a spiegare l’arretratezza del loro paese. Le donne, invece, propongono riflessioni sulle proprie esperienze personali, per aiutare se stesse a vivere meglio ed emanciparsi. Badran rileva che l’avvocato copto Murqus Fahmi (1872-1955) imputava l’arretratezza dell’Egitto e della condizione femminile al sistema patriarcale, all’oppressione delle donne perpetrata dagli uomini delle loro famiglie, che le consideravano moralmente deboli e le segregavano in casa, col pretesto di difenderle dal disonore, per controllare non solo il loro onore ma anche il loro patrimonio. Ispirandosi a una tragedia avvenuta realmente, criticò duramente il patriarcato nell’opera teatrale “La donna dell’Est” (1894).
Abduh e Fahmi influenzeranno il giurista e scrittore Qasim Amin (1863-1908) che, in “La liberazione della donna” (1899) e “La nuova donna” (1900), denuncia l’arretratezza delle donne egiziane, considerando la loro condizione arretrata come un ostacolo al progresso della nazione. Le sue controverse teorie ‘femministe’, basate sul riformismo islamico e su argomentazioni secolari, sono ampiamente confutate, per esempio, da Leila Ahmed, in Women and Gender in Islam [2]. Secondo la studiosa, questo padre del ‘femminismo’ nazionale, abbagliato dall’ammirazione per la cultura occidentale, era un paternalista emulatore degli stereotipi sulle società musulmane inventati dal colonizzatore. Badran, invece, ricorda che Amin fu osteggiato da diversi conservatori suoi coevi per avere promosso l’abrogazione della poligamia, della segregazione femminile e dell’uso del velo, chiarendo che queste usanze non sono prescritte dall’Islam.
(foto di UN Women/Ryan Brown)
Nel frattempo, in seguito alla guerra civile interconfessionale esplosa nel Monte Libano, nel 1860, e diffusasi fino alla Siria, molti intellettuali libanesi e siriani, prevalentemente giornalisti cristiani, ma anche musulmani, sceglievano il Cairo o Alessandria come luogo d’esilio, unendo i loro sforzi di innovazione culturale a quelli egiziani.
Il femminismo arabo ha talune affinità con quello nato in Occidente e altrove nel mondo; nasce in ambienti borghesi, assumendo inizialmente la forma dell’associazionismo femminile filantropico. Per le donne il primo passo verso l’emancipazione è certamente l’istruzione; hanno bisogno di comunicare le loro idee, incontrandosi, o/e tramite la scrittura e la stampa. Le pioniere della Nahḍa iniziarono di fatto a pubblicare testi espressivi di una consapevolezza femminista poco dopo l’uscita dell’ultimo libro di al-Tahtawi, nel 1872. Le libanesi Maryam Nahhas (1856-1888) e Zaynab Fawwaz (1860-1914), entrambe immigrate in Egitto, e precisamente ad Alessandria, pubblicarono rispettivamente nel 1879 e nel 1894, i primi dizionari biografici di donne, compilati per dimostrare, spiega Badran, le loro capacità di svolgere un ruolo pubblico importante. Altra pioniera è l’aristocratica egiziana di origini turco-circasse, Aisha Esmat al-Taymuriyya (1840-1902), poetessa e scrittrice che per i suoi scritti coraggiosi è considerata la vera madre del femminismo arabo; in “Le conseguenze delle circostanze in parole e fatti” (1887), definisce l’harem come “una caverna di isolamento” e rivela di avere desiderato sin da bambina di imparare a leggere e scrivere, e non a ricamare. Nel libretto di 16 pagine, “Specchio contemplativo su alcune cose” (1892), invece, l’autrice reinterpreta il Corano, suggerendo che il Libro Sacro dell’Islam fosse meno patriarcale di quanto sostenuto dal conservatorismo islamico.
In seguito all’invasione britannica dell’Egitto del 1882, il femminismo si legò di più al nazionalismo, il che risultò in formulazioni espressive di una ricerca di affermazione dell’egizianità. Costretta dal marito poligamo a vivere a lungo isolata a casa sua nell’oasi del Fayyum, Malak Hifni Nasif (1886-1918), ex-docente di scuola e conferenziera universitaria del Cairo, combina anticolonialismo e anti-patriarcato nei suoi saggi e articoli, improntati al modernismo musulmano, pubblicati nel quotidiano al-Jarīda (Il giornale) e poi raccolti nel libro “Pezzi femministi” (1909). Benché riconoscesse i passi in avanti compiuti dalle donne europee, metteva in guardia dall’imitarle ciecamente, indicando le contadine egiziane non velate come un modello autoctono a cui ispirarsi. Nasif trovava inoltre conforto, tenendo una fitta corrispondenza con un’altra figura importante per il femminismo arabo, Mayy Ziyada (1886-1941), poetessa e scrittrice, nata a Nazareth da madre palestinese cristiana greco-ortodossa e padre libanese maronita, ma vissuta quasi sempre al Cairo, dove creò, nel 1912, un salone letterario frequentato da intellettuali di varia provenienza. La pedagoga e saggista Nabawiyya Musa (1886-1951) – futura attivista famosa dell’UFE –, invece, apparteneva a una famiglia musulmana del ceto medio della città di Zagazig; visse però sin dall’infanzia ad Alessandria. Dovette lottare strenuamente contro le convenzioni sociali conservatrici dell’epoca, per completare gli studi; fu la prima egiziana a ottenere un diploma d’istruzione superiore, nel 1908, ma non poté accedere all’università (accesso che sarebbe rimasto precluso alle donne fino al 1929). Divenuta una docente di scuola sempre ad Alessandria, nel 1909, smise di portare il niqab; per lei, lo stile di vita delle contadine egiziane che vivevano in simbiosi con i mariti era il modello da imitare.
Nell’autobiografia, “Le mie memorie”, pubblicata postuma in arabo nel 1981 e tradotta in inglese col titolo Harem Years: the Memoirs of an Egyptian Feminist [3], Shaarawi ricorda che sin dall’inizio della Rivoluzione del 1919 le donne avevano creato delle bandiere speciali, cucendo sul tessuto verde una mezzaluna che abbraccia una croce. Era un nuovo simbolo dell’unità nazionale egiziana, nato in risposta alla classica strategia divide et impera adottata dalle autorità britanniche, che cercavano di fomentare la guerra civile, asserendo che, in Egitto, la maggioranza musulmana stesse lottando contro le minoranze religiose. Furono soprattutto i copti, ricorda Shaarawi, a indignarsi per questa calunnia pericolosa per il movimento nazionalista e, perciò, subito smentita da varie dimostrazioni popolari di solidarietà interreligiosa: “Gli egiziani si riunivano nelle moschee, nelle chiese e nelle sinagoghe; imam camminavano a braccetto con preti e rabbini”.
Allora si era diffuso il Faraonismo, e molte femministe vedevano lo status sociale goduto dalle egizie come un modello autoctono a cui ispirarsi per il progresso del loro paese. Il pittore Muhammad Nagi (1888-1956) commemorò subito la Rivoluzione del 1919, nel dipinto faraonista, “La rinascita dell’Egitto”, in cui la nazione egiziana è simboleggiata da Iside.
Nel mondo arabo, in generale, femminismo e nazionalismo sono strettamente legati da sempre; ma le rivendicazioni femministe spesso rimangono in secondo piano rispetto alle cause nazionali. La situazione però varia da un paese all’altro. Un caso significativo è l’Algeria, dove, durante la lunga dominazione coloniale francese (1830-1960), i colonizzatori imposero un aggressivo processo di acculturazione ossia di francesizzazione. Il niqab, spiega Badran, divenne un simbolo identitario della cultura autoctona, e difenderlo una forma di resistenza anticolonialista. Le donne algerine lo portavano, privilegiando la lotta nazionalista alla loro emancipazione dal patriarcato. In Egitto, la situazione era diversa; il colonialismo britannico era soprattutto economico e non intaccò più di tanto la cultura autoctona. L’élite egiziana era in effetti francofona, e la scelta della francofonia una forma di resistenza culturale contro i colonizzatori inglesi. Nei primi due decenni del Novecento, le femministe continuarono a portare il niqab, non per la causa nazionale, bensì per ragioni tattiche; lo usavano come strumento per aiutare se stesse e altre donne dell’alta borghesia e del ceto medio ad agire nella società.
È per questo che Shaarawi, nel 1913, convinse l’allora quindicenne Sayza Nabarawi (1897-1987) – futura attivista dell’UFE e giornalista famosa – a indossare il velo, che si rifiutava di mettere, perché, avendo trascorso buona parte dell’infanzia a Parigi, non riusciva ad adattarsi allo stile di vita conservatore egiziano. Iniziò così a fare da mentore alla giovane, nipote e di fatto figlia adottiva di una sua amica che le aveva chiesto di aiutarla, sapendo che era una donna eloquente e aperta alla cultura occidentale. Shaarawi (nata Nur al-Hoda Sultan) era già madre di Bahna e di Muhammad; aveva maturato la propria consapevolezza femminista, al Cairo, dopo avere ottenuto nel 1892 il divorzio dal marito, l’allora cinquantatreenne Ali Shaarawi, che lei tredicenne era appena stata costretta a sposare; poi lo aveva risposato nel 1899. In quei sette anni di separazione, infatti, mentre continuava a studiare il Corano, l’arabo, l’inglese e il francese a casa, riceveva ospiti egiziane ed europee. Quindi, nonostante fosse vissuta nell’harem sin da quand’era nata, aveva una mentalità cosmopolita, nonché le capacità comunicative di una leader carismatica. Era inoltre una filantropa, fondatrice di un dispensario per donne povere e di una scuola per bambine, che aveva creato perché studiassero materie letterarie e scientifiche, non economia domestica. Per lei, il velo era il simbolo della segregazione femminile, ma bisognava smettere di portarlo, quando la società egiziana sarebbe stata pronta per un tale cambiamento, perché divenisse capillare.
Ci sono altri fatti storici legati alla nascita dell’UFE e quindi alla biografia di Shaarawi da ricordare. Nel novembre del 1918, suo marito era tra i fondatori e dirigenti del Wafd. Il 12 gennaio 1920, nacque il Comitato Centrale delle Donne Wafdiste (CCDW), formato da molte delle partecipanti alla marcia anticolonialista del 1919. Shaarawi ne fu eletta la presidente; lei e le altre attiviste non intendevano soltanto seguire l’agenda nazionalista del partito; volevano che la liberazione nazionale fosse accompagnata dall’emancipazione femminile. Su pressione dei rivoluzionari, il 22 febbraio del 1922, Londra rilasciò la Dichiarazione Unilaterale d’Indipendenza dell’Egitto, un atto puramente formale; il paese rimase sotto occupazione britannica. Nello stesso mese morì il marito di Shaarawi, che quindi sarà più libera di muoversi. Le condizioni poste dall’Inghilterra, accettate dal governo egiziano, non soddisfacevano il Wafd né il CCDW; volevano la piena indipendenza del paese; quindi, decisero di continuare la disobbedienza civica anche per promuovere le loro riforme sociali, che includevano la garanzia della parità di genere e l’abbandono del velo. Per mobilitare la società civile ritennero necessario formare un’associazione indipendente dal partito; fu perciò che le Wafdiste fondarono l’UFE nel marzo 1923. Il mese successivo fu varata la nuova Costituzione egiziana, che prevedeva pari diritti per tutti i cittadini, ma questa parità fu violata da lì a poco dalla legge elettorale che escludeva le donne dal diritto di voto.
Shaarawi, ormai vedova, Nabawiyya Musa e Sayza Nabarawi, altrettanto libere di muoversi perché nubili, partiranno in nave da Alessandria per andare in Italia a rappresentare l’Egitto al IX congresso dell’Alleanza Internazionale Pro Suffragio Femminile, nota come International Alliance of Women (IAW), organizzato a Roma, dal 12 al 19 maggio del 1923, il primo a ospitare delegazioni non provenienti dall’Occidente. Durante il soggiorno romano, le tre femministe egiziane, che erano sempre a volto scoperto, rimasero un po’ deluse dei lavori dei convegno, perché le sorelle americane ed europee si atteggiavano a salvatrici del Terzo Mondo, trattavano tutte le altre da pari soltanto per il loro genere, mostravano solidarietà femminile, ma si rifiutarono di condannare il colonialismo, pur sapendo che affliggeva soprattutto le donne dei paesi colonizzati. In sostanza, afferma Badran, l’imperialismo occidentale si rifletteva perfino nella sorellanza internazionale. In Occidente, inoltre, era il periodo dell’orientalismo e, in Italia, del fascismo; nei giornali italiani le fotografie di Shaarawi, che era a capo della delegazione egiziana, erano accompagnate da didascalie come “L’Oriente al Congresso Femminile” o “La femminilità musulmana”. Nessuna dicitura etnicista accompagnava le immagini delle rappresenti occidentali.
Al congresso partecipò per la prima volta anche l’Unione delle Donne Ebree della Palestina (sotto mandato britannico dal 1920), affiliata al sionismo internazionale, appena fondata a Tel Aviv, e che chiaramente escludeva le palestinesi autoctone. Nessun altro paese arabo, sottolinea Badran, aveva e avrebbe mai dovuto affrontare una simile duplice battaglia per l’indipendenza dal colonialismo e per la stessa sopravvivenza nazionale. Alcune palestinesi musulmane e cristiane di Gerusalemme, inoltre, avevano già fondato, nel 1920, l’Unione delle Donne della Palestina. Nello stesso anno avevano anche iniziato il loro attivismo nazionalista pubblico, partecipando a una manifestazione contro la minaccia sionista e il mandato britannico. A partire dal 1936, inizio della Grande Rivolta, nota sempre Badran, la difesa della Palestina sarà una delle principali missioni dell’UFE e del femminismo panarabo; le femministe egiziane, in coordinamento con le palestinesi, porteranno la questione all’attenzione delle associazioni pacifiste internazionali e della Lega delle Nazioni.
Per quanto riguarda i fatti del 1923, in Casting off the Veil [4], Sania Sharawi Lanfranchi, ricordando l’esperienza di vita di sua nonna Hoda, spiega che, alla fine dello stesso congresso IAW, Nabawiyya Musa rientrò subito in Egitto per preparare l’accoglienza delle altre due compagne attiviste, che poco dopo fecero insieme il viaggio di ritorno fino al Cairo. Mentre erano a bordo della nave, diretta ad Alessandra, affrontarono la questione del velo; Sayza aprì il discorso dicendo di non volerlo più indossare. Hoda, che si era ripromessa di liberarsene, concordò con la giovane amica, ritenendo che fosse giunto il momento opportuno per farlo. Poiché a Roma erano state sempre a volto scoperto, velarsi di nuovo, sarebbe stato un atto d’ipocrisia e di codardia, pensarono entrambe. Sarebbe stato un passo indietro per la loro causa femminista. Nabawiyya Musa aveva infatti informato la stampa del ritorno delle due attiviste dell’UFE in modo tale da renderlo un evento mediatico, perché ottenesse il massimo della pubblicità. Quindi, alla fine del viaggio, arrivate alla stazione centrale del Cairo, Hoda e Sayza scesero dal treno a volto scoperto: “Furono accolte da un momento di silenzio attonito, dopo il quale tutte le donne del loro circolo, che erano in attesa di accoglierle, si tolsero il velo. Fu una scena magnifica che in futuro sarebbe stata sempre raccontata con entusiasmo da coloro che l’avevano vista”, conclude Lanfranchi.
Proprio grazie alla copertura mediatica dell’evento, quel gesto coraggioso ispirerà molte altre donne del mondo arabo. Al rientro dall’esilio, nel settembre 1923, Zaghlul era a bordo della stessa nave su cui si trovava Shaarawi; il leader del Wafd era con la moglie, Safiya, che, vedendo l’amica a volto scoperto, si tolse il niqab prima di sbarcare ad Alessandria appunto accanto al marito, un eroe nazionale; fu un’ulteriore scelta ispiratrice. Verso la metà degli anni ’40, infatti, in Egitto e altri paesi arabi, nessuno tipo di velo si sarebbe quasi più usato; le donne studiavano all’università, lavoravano in vari settori; alcune erano accademiche e/o attiviste.
Hoda Shaarawi talvolta indossava l’hijab e talaltra non si copriva neppure la testa; continuerà l’attivismo; ma morirà, nel 1947, senza avere avuto la possibilità di votare. Con la Rivoluzione del 1952, di fatto un coup militare, l’Egitto da monarchia ereditaria diventerà una repubblica e raggiungerà la piena indipendenza dall’Inghilterra. Le donne egiziane otterranno finalmente il diritto di voto soltanto nel 1956, in base alla nuova Costituzione promulgata da Gamal Abdel Nasser (1918-1970). Dopo la morte del leader carismatico, simbolo del socialismo arabo, del panarabismo e del terzomondismo, però dittatore, il suo altrettanto autoritario successore, Anwar Sadat (1918-1981), islamista, neoliberista e filo-americano, con un passato filonazista, cercò subito di cambiare il volto dell’Egitto, dove, appunto negli anni ’70, insieme all’impoverimento del ceto medio, iniziò il ritorno del velo.
Questa è un’altra lunga storia, ma riassumibile, riferendo un concetto spesso ribadito da accademiche e altre intellettuali femministe internazionali, musulmane e non: le guerre e le forme subdole di colonialismo dell’era post-coloniale, nei paesi islamici, hanno avuto e continuano ad avere gravi conseguenze sociali, come sempre e ovunque nel mondo, soprattutto per le donne.
NOTE
[1] Margot Badran, Feminists, Islam, and Nation. Gender and the Making of Modern Egypt, American University in Cairo Press, 1996.
[2] Leila Ahmed, Women and Gender in Islam, Yale University Press, 1992.
[3] Hoda Shaarawi, Harem Years. The Memoirs of an Egyptian Feminist. Translated and Introduced by Margot Badran, American University in Cairo Press, 1986.
[4] Sania Sharawi Lanfranchi, Casting off the Veil. The Life of Hoda Shaarawi, Egypt’s First Feminist, Tauris, 2012/A volto scoperto. La vita di Huda Shaarawi, prima femminista d’Egitto, Rowayat, 2018.
*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui i romanzi Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e Atyàf: Fantasmi dell’Egitto e della Palestina (Ilisso, 2008) della scrittrice egiziana Radwa Ashur, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).
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