Salta al contenuto principale



Libia: la tragedia di Derna in un paese devastato dalla guerra


A Derna, in Libia, i morti causati dalle inondazioni potrebbero arrivare a 20 mila. Una tragedia causata dal cambiamento climatico e amplificata dalla guerra L'articolo Libia: la tragedia di Derna in un paese devastato dalla guerra proviene da Pagine Est

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

di Marco Santopadre

Pagine Esteri, 15 settembre 2023 – Aumenta di ora in ora il triste bilancio delle inondazioniche hanno colpito la Libia. Secondo i conteggi più aggiornati, almeno 8000 persone sono morte solo nella città costiera di Derna, nel nord-est del paese, a causa del cedimento di due dighe causato dal ciclone subtropicale “Daniel” che ha spazzato la zona durante la notte tra il 10 e l’11 settembre. Le due dighe costruite dalla ditta jugoslava Hidrotehnika-Hidroenergetika tra il 1973 e il 1979 sono state investite da raffiche di vento fino a 180 km orari, accompagnate da intensissime pioggie, liberando con il loro crollo milioni di litri cubi di acqua che si sono abbattute con violenza inaudite sulle abitazioni cancellando interi quartieri.

Il bilancio sarebbe destinato a crescereancora molto visto che, secondo alcune fonti locali, i dispersi sarebbero almeno altri 10 mila mentre nella città devastata si contano circa 20 mila sfollati. Le squadre della Mezzaluna Rossa continuano a recuperare centinaia di corpi sulla spiaggia della città. Il sindaco di Derna ha affermato ad alcune agenzie di stampa di temere che la città possa ora essere colpita da un’epidemia «a causa del gran numero di corpi che giacciono sotto le macerie e nell’acqua». Nell’area stanno lavorando senza soste squadre di soccorso locali e altre arrivate dall’estero, in particolare da Egitto, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Qatar. A rendere più difficili i soccorsi sono le condizioni di molte strade che sono state letteralmente spazzate via rendendo inaccessibili molte aree.

Polemiche e accuse
Intanto però monta la polemica per le eventuali responsabilità nella tragedia.
Ieri il capo dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) Petteri Taalas ha affermato che la maggior parte delle vittime delle inondazionisi sarebbero potute evitate se il paese avesse avuto un servizio meteorologico funzionante in grado di emettere un avviso di allerta con alcune ore di anticipo, permettendo un’evaquazione anticipata dei cittadini che avrebbe salvato molte vite. Secondo varie fonti, però, gli allarmi sarebbero stati emessi, ma sarebbe mancato un intervento tempestivo da parte delle autorità.
Mohamed al-Menfi, capo del consiglio formato da tre membri che funge da presidenza del governo libico riconosciuto a livello internazionale ha informato che l’organismo da lui presieduto ha chiesto al procuratore generale di indagare sul disastro.

9285032
Khalifa Haftar e Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh

La Libia, uno stato fallito
Ma le divisioni del paese in almeno tre semistati – la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan – formatisi in seguito all’intervento militare della Nato, alla guerra civile e alla forte ingerenza di almeno una decina di potenze straniere, rendono la Libia uno “stato fallito” ormai da più di un decennio. Se queste divisioni e le costanti tensioni politiche e militari hanno impedito che si potesse evitare la tragedia, ora stanno avendo ripercussioni negative sulle operazioni di salvataggio dei superstiti e sull’accertamento delle responsabilità.

Dopo la rivolta contro il regime di Muammar Gheddafi del 2011 e l’intervento militare di vari paesi aderenti all’Alleanza Atlantica – in particolare Francia e Stati Uniti, ma anche l’Italia – e la deflagrazione del paese, la città di Derna è stata a lungo in preda al caos. Nel 2015 venne occupata da milizie jihadiste in guerra tra loro e con quelle di altre regioni; ad un certo punto ad affermarsi furono i miliziani dello Stato Islamico, che avevano a lungo combattuto sia in Siria sia in Iraq prima di tornare in patria accompagnati da commilitoni di vari paesi in cerca di gloria e bottino. Nel 2018 il cosiddetto governo della Cirenaica, diretto dal generale Khalifa Haftar, decise di prendere il controllo sulla zona, obiettivo che raggiunse solo dopo lunghi e aspri combattimenti contro le milizie del cosiddetto Califfato insediato proprio a Derna.

Secondo varie denunce alcune ore prima del disastro l’amministrazione locale avrebbe richiesto l’evaquazione della popolazione alle autorità.
Il giorno prima che arrivasse la tempesta Daniel, l’ufficio del capo del governo della Cirenaica, Osama Hamad, avrebbe emesso un’allerta rivolta ai cittadini di Derna e delle città vicine, cosa che aveva già fatto anche il ministero dell’Interno del governo di unità nazionale di Tripoli.

Ma l’uomo forte della Cirenaica Haftar e il suo “Libyan Nation Army” avrebbero invitato la popolazione a restare in casa, amplificando la tragedia. Ma il portavoce dell’Esercito nazionale libico, il generale Ahmed al-Mismari, respinge ogni accusa di negligenza, affermando di aver fatto tutto quanto in suo potere per limitare i danni.
Ad Al Jazeera, intanto, il vicesindaco di Derna Ahmed Madroud ha denunciato che le due dighe crollate non erano oggetto di lavori di manutenzione ormai dal 2002.

Ovviamente il cosiddetto Governo di Unità Nazionale che regna a Tripoli ma è riconosciuto (e puntellato) da varie potenze occidentali, arabe e dalla Turchia, guidato dal primo ministro Abdul Hamid Dbeibah, cercherà di sfruttare la tragedia per screditare i rivali della Cirenaica, sostenuti invece dall’Egitto e dalla Russia che nella regione ha inviato ormai alcuni anni fa i mercenari della compagnia militare privata “Wagner”.

Le colpe della Nato e della competizione globale tra potenze
Ma le responsabilità per il crollo della struttura statale libica, oltre che per la tragedia di Derna, vanno equamente distribuite tra i signori della guerra locali e le diplomazie che dal 2011 si spartiscono le spoglie di un paese ricco di petrolio e di gas ma che si è trasformato in una trappola mortale per i suoi 7 milioni di abitanti residui, in preda agli scontri etnici e religiosi, alla corruzione, all’arbitrio del più forte, alla devastazione del territorio e ora anche del cambiamento climatico.

L’intervento della Nato e gli appetiti delle potenze in competizione hanno letteralmente demolito uno dei paesi che, retto sì da un regime autoritario e repressivo, nel 2010 manteneva secondo la Banca Mondiale «alti livelli di crescita economica» e vantava «alti indicatori di sviluppo umano».
Oggi i regimi repressivi si sono moltiplicati almeno per tre – quanti sono i governi che si contendono il paese – senza contare le centinaia di milizie che a livello locale fanno il bello e il cattivo tempo, al servizio delle compagnie petrolifere e dei governi stranieri che alle popolazioni locali regalano solo insicurezza e rovine. – Pagine Esteri

9285034* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo Libia: la tragedia di Derna in un paese devastato dalla guerra proviene da Pagine Esteri.



PRIVACYDAILY


N. 161/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Più di 100 professori universitari da tutta Europa e non solo, chiedono alle istituzioni europee di inserire nel futuro regolamento sull’Intelligenza artificiale (AI Act) l’obbligo di valutare l’impatto sui diritti fondamentali (FRIA). La proposta del Parlamento europeo va già in questa direzione ma rischia di uscire indebolita dal... Continue reading →


Idee draghiane di competitivà


Ieri, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel corso della relazione sullo stato dell’Unione del 2023, ha comunicato di aver chiesto all’ex presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, un report sulla competitività. “Tre sfid

Ieri, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel corso della relazione sullo stato dell’Unione del 2023, ha comunicato di aver chiesto all’ex presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, un report sulla competitività. “Tre sfide – lavoro, inflazione e ambiente commerciale – arrivano in un momento in cui chiediamo anche all’industria di guidare la transizione pulita. Dobbiamo quindi guardare avanti e stabilire come rimanere competitivi mentre lo facciamo. Per questo motivo – ha detto Ursula – ho chiesto a Mario Draghi, una delle grandi menti economiche europee, di preparare un rapporto sul futuro della competitività europea”. Qui di seguito alcune chicche del pensiero draghiano sulla competitività. E su cosa significhi, per la politica, lavorare per avere un mondo dominato da più innovazione, più integrazione europea e più concorrenza.

L’area dell’euro si è basata fortemente sull’idea che il processo di integrazione stesso avrebbe creato gli incentivi per perseguire politiche solide. In presenza di una maggiore concorrenza attraverso il mercato unico e dell’impossibilità di svalutazioni, i governi sarebbero stati costretti ad affrontare i problemi strutturali di lungo periodo e ad assicurare la sostenibilità del bilancio. Se questo non è avvenuto è in parte perché il processo di realizzazione del mercato unico si è arrestato. Ma anche perché mancavano istituzioni fondamentali a livello di area dell’euro. Non avevamo un sistema comune di vigilanza bancaria per monitorare i flussi finanziari, situazione che in alcuni paesi ha consentito di celare le sempre maggiori perdite di competitività con una crescita non sostenibile trainata dal settore finanziario. E per le politiche economiche e di bilancio avevamo solo un processo decisionale comune debole. Sono stati compiuti molti passi importanti per porre rimedio a queste difficoltà, in particolare la realizzazione dell’unione bancaria”.

“Il mercato unico è visto non di rado come una semplice trasposizione del processo di globalizzazione a cui nel tempo è stata tolta persino la flessibilità dei cambi. Non è così. La globalizzazione ha complessivamente accresciuto il benessere in tutte le economie, soprattutto di quelle emergenti, ma è oggi chiaro che le regole che ne hanno accompagnato la diffusione non sono state sufficienti a impedirne profonde distorsioni”.

“L’apertura dei mercati, senza regole, ha accresciuto la percezione di insicurezza delle persone particolarmente esposte alla più forte concorrenza, ha accentuato in esse il senso di essere state lasciate indietro in un mondo in cui le grandi ricchezze prodotte si concentravano in poche mani. Il mercato interno, invece, sin dall’inizio è stato concepito come un progetto in cui l’obiettivo di cogliere i frutti dell’apertura delle economie era strettamente legato a quello di attutirne i costi per i più deboli, di promuovere la crescita, ma proteggendo i cittadini europei dalle ingiustizie del libero mercato. Questa era senza dubbio anche la visione di Delors, l’architetto del mercato interno”.

“Gli ostacoli agli investimenti in Italia risiedono anche nella complessità e nella lentezza della Giustizia. Quest’ultimo aspetto mina la competitività delle imprese e la propensione a investire nel paese: il suo superamento impone azioni decise per aumentare la trasparenza e la prevedibilità della durata dei procedimenti civili e penali. La lentezza dei processi, seppur ridottasi, è ancora eccessiva e deve essere maggiormente contenuta con interventi di riforma processuale e ordinamentale. A questi fini è necessario anche potenziare le risorse umane e le dotazioni strumentali e tecnologiche dell’intero sistema giudiziario”.

“Basso numero di ricercatori e perdita di talenti. Una barriera importante allo sviluppo e alla competitività del sistema economico è rappresentata dalla limitata disponibilità di competenze, con un numero di ricercatori pubblici e privati più basso rispetto alla media degli altri paesi avanzati (il numero di ricercatori per persone attive occupate dalle imprese è pari solo alla metà della media Ue: 2,3 per cento contro 4,3 per cento nel 2017). Diventa, pertanto, necessario frenare la perdita, consistente e duratura, di talento scientifico tecnico, soprattutto giovani, recuperando il ritardo rispetto alle performance di altri paesi”.

“Un fattore essenziale per la crescita economica e l’equità è la promozione e la tutela della concorrenza. La concorrenza non risponde solo alla logica del mercato, ma può anche contribuire ad una maggiore giustizia sociale. La Commissione europea e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nella loro indipendenza istituzionale, svolgono un ruolo efficace nell’accertare e nel sanzionare cartelli tra imprese, abusi di posizione dominante e fusioni o acquisizioni di controllo che ostacolano sensibilmente il gioco competitivo. Il governo s’impegna a presentare in Parlamento il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza e ad approvare norme che possano agevolare l’attività d’impresa in settori strategici, come le reti digitali, l’energia e i porti. Il governo si impegna inoltre a mitigare gli effetti negativi prodotti da queste misure e a rafforzare i meccanismi di regolamentazione. Quanto più si incoraggia la concorrenza, tanto più occorre rafforzare la protezione sociale”.

“La tutela e la promozione della concorrenza – principi-cardine dell’ordinamento dell’Unione europea – sono fattori essenziali per favorire l’efficienza e la crescita economica e per garantire la ripresa dopo la pandemia. Possono anche contribuire a una maggiore giustizia sociale. La concorrenza è idonea ad abbassare i prezzi e ad aumentare la qualità dei beni e dei servizi: quando interviene in mercati come quelli dei farmaci o dei trasporti pubblici, i suoi effetti sono idonei a favorire una più consistente eguaglianza sostanziale e una più solida coesione sociale”.

“Protagonisti della tutela e della promozione della concorrenza sono la Commissione europea e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Ma la concorrenza si tutela e si promuove anche con la revisione di norme di legge o di regolamento che ostacolano il gioco competitivo. Sotto quest’ultimo profilo, si rende necessaria una continuativa e sistematica opera di abrogazione e/o modifica di norme anticoncorrenziali. Questo è il fine della legge annuale per il mercato e la concorrenza”.

“Le misure che accrescono il grado di concorrenza nei mercati favoriscono maggiori investimenti e maggiore competitività tra le imprese. Attrarre investimenti e rendere i mercati più concorrenziali significa innanzitutto mettere le imprese in condizione di competere in termini di qualità dei prodotti, ma anche in termini di costi, spesso motivo rilevante di delocalizzazione. Un secondo effetto è incentivare la creazione di nuove imprese grazie ad un ambiente economico più attrattivo. Il grado di concorrenza può essere sinteticamente misurato dell’Indice di regolamentazione del mercato dei prodotti (Pmr) sviluppato dall’Ocse47. Sulla base di questo indicatore, l’Italia ha una qualità della regolamentazione in linea con la media dei Paesi Ocse, ma risulta meno competitiva se confrontata con Spagna e Germania, due dei principali concorrenti del paese sui mercati. Miglioramenti del Pmr, quindi maggiori livelli di concorrenza, sono correlati ad una più efficiente allocazione delle risorse, minori margini di profitto (quindi prezzi più bassi per i prodotti consumati dalle famiglie) e maggiori investimenti”.

“In Italia, la riforma della concorrenza serve a promuovere la crescita, ridurre le rendite, favorire investimenti e occupazione. Con questo spirito abbiamo approvato norme per rimuovere gli ostacoli all’apertura dei mercati, alla tutela dei consumatori. La riforma tocca i servizi pubblici locali, inclusi i taxi, e le concessioni di beni e servizi, comprese le concessioni balneari. Il disegno di legge deve essere approvato prima della pausa estiva, per consentire entro la fine dell’anno l’ulteriore approvazione dei decreti delegati, come previsto dal Pnrr. Ora c’è bisogno di un sostegno convinto all’azione dell’esecutivo – non di un sostegno a proteste non autorizzate, e talvolta violente, contro la maggioranza di governo”.

“Il progresso dell’efficienza è ostacolato da una struttura sbilanciata nella dimensione d’impresa, poco compatibile con i nuovi paradigmi tecnologici e competitivi. Vi si associa una specializzazione settoriale ancora eccessivamente orientata alle produzioni più tradizionali. Rimuovere gli ostacoli alla crescita delle imprese è condizione necessaria per cogliere le occasioni offerte dalla globalizzazione dei mercati e per stimolare una diffusione ampia e sistematica di innovazioni nell’organizzazione aziendale, nei processi produttivi, nella gamma dei prodotti. E’ questa la via per recuperare competitività internazionale e rilanciare lo sviluppo”.

“La difesa della competitività, in Europa, attraverso la svalutazione del cambio, che peraltro alleviava solo temporaneamente gli effetti di un differenziale di produttività, è divenuta impossibile. Non vi è alternativa se non tra l’incremento del prodotto per ora lavorata e il contenimento dei redditi nominali. Alla lunga solo il progresso della produttività genera benessere economico”.

“Dalla metà dello scorso decennio la produttività del lavoro aumenta in Italia di un punto percentuale l’anno meno che nella media dei paesi dell’Ocse. Questo fenomeno è alla radice della crisi di crescita e di competitività che il paese vive. Il rapido aumento dell’occupazione degli ultimi anni, favorito dalla moderazione salariale, dalla legalizzazione di parte dell’immigrazione, dalle riforme del mercato del lavoro, ha portato a un fisiologico e atteso rallentamento nella dinamica della produttività”.

“L’intensificazione della concorrenza, l’ampliamento dello spazio per l’esplicarsi dei meccanismi di mercato sono necessari al rilancio produttivo e complementari a scelte di equità. La concorrenza costituisce il miglior agente di giustizia sociale in un’economia, in una società, come quella italiana, nella cui storia è ricorrente il privilegio di pochi fondato sulla protezione dello stato”.

Il Foglio

L'articolo Idee draghiane di competitivà proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



New EU-US data transfer deal also faces criticism in Germany


French lawmaker Philippe Latombe's latest lawsuit at the EU's top court, which could derail the new EU-US data transfer deal, has found support in Germany, where the two-month-old agreement is already facing widespread criticism.


euractiv.com/section/data-prot…




Israele prolunga ancora l’arresto di Khaled El Qaisi


Il giovane stava attraversando il valico di Allenby con moglie e figlio dopo aver trascorso le vacanze a Betlemme. La procura continua a non formalizzare alcuna accusa L'articolo Israele prolunga ancora l’arresto di Khaled El Qaisi proviene da Pagine Est

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

AGGIORNAMENTO 14 settembre ore 16

Si è conclusa la udienza prevista oggi 14 settembre. I giudici israeliani hanno prolugato la custodia cautelare per altri 7 giorni accogliendo solo in parte la richiesta di 11 giorni fatta dalla procura che non ha ancora avanzato alcuna accusa. Lo riferisce Francesca Antinucci, moglie di Khaled El Qaisi. A quanto si apprende oggi il giovane ricercatore universitario italo-palestinese ha potuto finalmente parlare al suo avvocato. Al termine dell’udienza è stato portato al Centro di detenzione di Petah Tikva.

——————————————————————————————————————————–

CONFERMATO L’ARRESTO DI KHALED EL QAISI

Pagine Esteri, 8 settembre 2023 – Khaled El Qaisi sta “abbastanza bene”. Così le poche persone autorizzate ad assistere all’udienza ieri al tribunale di Rishon Lezion hanno descritto le condizioni del ricercatore italo-palestinese arrestato il 31 agosto dalla polizia di frontiera israeliana al valico di Allenby mentre era con la moglie e il figlio. I giudici hanno prolungato l’arresto di Khaled fino al 14 settembre ma i motivi del fermo restano oscuri e tenuti sotto uno stretto riserbo, come ha spiegato l’avvocato del giovane.

———————————————————————————————————————————-

della redazione

Pagine Esteri, 3 settembre 2023 – Lo scorso 31 agosto il giovane ricercatore italo-palestinese Khaled El Qaisi è stato arrestato dalle autorità israeliane al valico di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania. Ne danno notizia la moglie del ricercatore Francesca Antinucci e la madre Lucia Marchetti.

El Qaisi, di doppia nazionalità, italiana e palestinese, la scorsa settimana, diretto ad Amman, stava attraversando il valico di Allenby con moglie e figlio dopo aver trascorso le vacanze con la propria famiglia a Betlemme. Al controllo dei bagagli e dei documenti è stato ammanettato sotto lo sguardo del figlio di 4 anni, e della moglie.

Antinucci spiega che alle richieste di delucidazioni sui motivi del fermo, non è seguita risposta alcuna da parte degli agenti di frontiera israeliani. Invece le sono state sottoposte domande per poi essere allontanata col figlio verso il territorio giordano, senza telefono, senza contanti né contatti, in un paese straniero. Solo nel tardo pomeriggio la moglie e il bambino sono riusciti a raggiungere l’Ambasciata italiana ad Amman grazie all’aiuto di alcune persone.

Khaled El Qaisi, aggiungono la madre e la moglie, ancora non ha potuto incontrare il suo avvocato. Si è solo saputo che affronterà un’udienza davanti a giudici israeliani domani, 7 settembre, presso il tribunale di Rishon Lezion.

Traduttore e studente di Lingue e Civiltà Orientali all’Università La Sapienza di Roma, stimato per il suo impegno nella raccolta, divulgazione e traduzione di materiale storico, è tra i fondatori del Centro Documentazione Palestinese, associazione che mira a promuovere la cultura palestinese in Italia.

A sostegno di Khaled El Qaisi, l’intergruppo parlamentare per la Pace tra Palestina e Israele ha inviato una lettera-appello al ministro degli esteri Antonio Tajani, per sollecitare un intervento delle autorità di governo italiane su quelle israeliane.

«In quella che ancora viene spacciata come la ‘sola democrazia mediorientale’ è detenuto dal 31 agosto scorso un cittadino italo palestinese, stimato ricercatore universitario in Italia, colpevole di sostenere i diritti del suo popolo» denuncia Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, coordinamento di Unione Popolare, che a nome della sua formazione politica chiede che «L’Italia ritiri l’ambasciatore se il governo israeliano non rilascerà il nostro connazionale. Così come ci siamo mobilitati – aggiunge – per la liberazione dello studente Patrick Zaki con la stessa determinazione bisogna farlo perché Khaled possa tornare presto al proprio lavoro e dai propri cari». Pagine Esteri

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo Israele prolunga ancora l’arresto di Khaled El Qaisi proviene da Pagine Esteri.



Loredana Fraleone*   Sta iniziando un nuovo anno scolastico e il termine “nuovo” ha solo un portato negativo. Niente risorse destinate ai bisogni


Il caso Ustica tra politica, giustizia e verità. L’opinione del gen. Tricarico


Nel calvario di Enzo Tortora i magistrati che ne chiesero la condanna si chiamavano Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, nella tragedia di Ustica Rosario Priore. Nel caso di Tortora – lo ricordiamo tutti – l’impianto accusatorio si liquefece impietosamente

Nel calvario di Enzo Tortora i magistrati che ne chiesero la condanna si chiamavano Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, nella tragedia di Ustica Rosario Priore.

Nel caso di Tortora – lo ricordiamo tutti – l’impianto accusatorio si liquefece impietosamente al primo serio vaglio, non resse al confronto in aula e dopo quattro anni di gogna Tortora fu assolto.

Nella vicenda giudiziaria di Ustica è successa la stessa cosa: le tesi precostituite di Priore vennero in evidenza come tali e, seppur più faticosamente, furono demolite in giudizio dopo 272 udienze e con l’escussione di circa 4mila testimoni. In una ineccepibile sentenza della Corte di Assise di Appello di Roma, poi confermata nel 2007 in Cassazione.
Mentre però Tortora, dopo essere stato gettato in pasto ai media e umiliato in manette a reti unificate, venne assolto con pari – semmai maggior evidenza – anche agli occhi dell’opinione pubblica, nel caso Ustica si continua ancora oggi, a distanza di 18 anni dalla sentenza assolutoria, a spacciare come buone le ipotesi infondate di Priore. E, continuando nel calzante parallelo, è come se ancora oggi venissero spacciate e prese per buone le accuse infamanti dei due camorristi Pasquale Barra e Giovanni Pandico.

Oggi in altre parole, in una pertinente trasposizione concettuale, chi afferma che quel DC9 fu abbattuto da un missile, continuerebbe a tenere Tortora in carcere fino all’estinzione della pena, indossando senza vergogna i panni degli irriducibili Barra e Pandico.

Ma allora, come mai due casi pienamente sovrapponibili nell’iter giudiziario hanno subito una sorte così divaricata nel sentire comune? Assolti dalla legge, assolti anche dal cittadino nel caso Tortora, lapidati senza sosta e motivo nella vicenda di Ustica.

La risposta è semplice. La differenza la ha fatta la politica, quella con la “p” minuscola, quella collocata in un ben definito perimetro, in un campo veramente largo, accompagnata passo passo da una stampa asservita a più padroni: alla parte politica di riferimento, ad interessi personali, all’accattonaggio delle copie da vendere. E a distanza di anni, se si dovesse individuare un portabandiera di questo vero e proprio disfacimento del sistema, non vi è dubbio che Giuliano Amato svetterebbe senza rivali.

Un personaggio a cui lo Stato non ha lesinato alcunché, gratificandolo con incarichi prestigiosi e ricambiato da comportamenti incomprensibili, di cui si fa fatica a capire la vera ragione.
Possibile che un giurista, presidente emerito della Corte costituzionale, si getti senza paracadute nella mischia mediatica senza aver letto le carte del processo e in particolare la sentenza penale, confermata in Cassazione? O peggio ancora, se la sentenza l’avesse letta o ne conoscesse i contenuti, perché divulgare tante falsità, tutte – veramente tutte – confutate nelle lunghe e numerose udienze dibattimentali e ivi bollate come “fantascienza”?

Confesso che molti di noi si sono chiesti, a ragion veduta, se Amato non stesse accusando l’incalzare degli anni, ma dopo averlo ascoltato in conferenza stampa l’ipotesi è venuta meno. Il quesito quindi rimane, così come rimangono le perplessità sui motivi dello tsunami mediatico totalmente inaspettato ed immotivato. E per Amato con l’aggravante, collaterale ma forse addirittura centrale, che il suo unirsi al coro dei depistatori darà un contributo non da poco a rendere ancora più difficoltosa l’affermazione della verità su una tragedia italiana rimasta senza colpevoli.

In questo marasma, così come spesso accade in Italia, la Giustizia resta l’ultimo baluardo. La sola Procura di Roma, formalmente chiamata in causa anche dalla nostra Associazione (Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica – Avdau) potrebbe, ascoltando Amato, chiarire il perché della sua tardiva, estemporanea e inusitatamente grave sortita.

Ponendogli naturalmente le giuste domande, a cominciare dal disallineamento delle dichiarazioni pubbliche di oggi rispetto a quelle da lui rilasciate sotto giuramento nel dicembre del 2001. Se questo non accadrà, allora anche l’ultimo baluardo comincerà a scricchiolare e le speranze per venire a capo dell’attentato di Ustica si affievoliranno ulteriormente.


formiche.net/2023/09/tragedia-…



Si apre domani a Cuba il G77 + la Cina, il vertice dei Paesi del sud del mondo


L'impegno sarà rafforzare la solidarietà tra le nazioni del Sud e facilitare risposte adeguate alle sfide che il mondo in via di sviluppo deve affrontare. L'articolo Si apre domani a Cuba il G77 + la Cina, il vertice dei Paesi del sud del mondo proviene

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

della redazione

Pagine Esteri, 14 Settembre 2023 – Il vertice del Gruppo dei 77 + la Cina che si apre domani all’Avana intende rafforzare la solidarietà tra le nazioni del Sud e a facilitare risposte adeguate alle sfide che il mondo in via di sviluppo deve affrontare. Sono queste le intenzioni annunciate dagli Stati che prenderanno parte al summit a Cuba, il 15 e 16 settembre, e al quale parteciperà anche l’alto funzionario cinese Li Xi, rappresentante speciale del presidente Xi Jinping e capo della struttura anti-corruzione della Cina.

Il presidente cubano Miguel Díaz-Canel Bermúdez, nella sua qualità di presidente pro tempore del G-77 + Cina, e il primo ministro Manuel Marrero Cruz si preparano ad accogliere all’ “Aeroporto Internazionale José Martí” il segretario generale dell’Onu, Antonio Gutterres, i presidenti Luiz Inácio Lula da Silva del Brasile, Alberto Fernández dell’Argentina, Xiomara Castro dell’Honduras, Luis Arce della Bolivia, Gustavo Petro della Colombia e leader e rappresentanti dell’Iran, dell’Iraq e di molti altri Stati.

La partecipazione ad alto livello della Cina – scrivono i media del colosso asiatico – sottolinea l’importanza che Pechino assegna a una diplomazia internazionale che rifiuti gli scontri tra blocchi e la mentalità da Guerra fredda.

Fondato nel 1964, il Gruppo dei 77 include oggi oltre 130 paesi in via di sviluppo di Asia, Africa e America centrale e meridionale. Tra i punti del suo storico programma c’è la richiesta che gli Stati ricchi cedano lo 0,75% del loro Pil ad un fondo per aiutare le economie dei Paesi in via di sviluppo. Pagine Esteri

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo Si apre domani a Cuba il G77 + la Cina, il vertice dei Paesi del sud del mondo proviene da Pagine Esteri.




Il numero di persone approdate a Lampedusa, in fuga soprattutto dal regime tunisino, con cui l'UE e l'Italia hanno stretto accordi scellerati, ha abbondantement


Lisa Beat and the Liars - Sheena Is A Beat Rocker


Fate vostro questo disco e suonatelo quando - disgraziatamente - cambieranno l'ora, farà freddo ed alle cinque del pomeriggio sarà buio, chissà forse potrebbe farvi tornare ai fasti dell'estate o quantomeno mettervi allegria facendovi intravvedere un raggio di sole. @Musica Agorà

iyezine.com/lisa-beat-and-the-…

Musica Agorà reshared this.



India, Medio oriente, Europa. Un “corridoio economico” poco economico e molto geopolitico


Il progetto esclude Iran, Iraq, Egitto, Turchia e il Nordafrica e punta con più decisione alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e una serie di Paesi e a ridimensionare i BRICS. L'articolo India, Medio oriente, Europa. Un “corridoio economico”

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

di Abdelbari AtwanRaialyoum.com

Pagine Esteri, 14 settembre 2023 – Il più grande successo del vertice del G20 dello scorso fine settimana nella capitale indiana, guidato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden e dal primo ministro indiano Narendra Modi, è stato l’annuncio di un progetto di “Corridoio economico” che collegherà l’India con il Medio Oriente e l’Europa. Questo progetto è il seme di una nuova alleanza economica che mira a uccidere i BRICS nella loro culla, cementare la normalizzazione tra Israele e gli stati del Golfo (o la maggior parte di essi), marginalizzare il Canale di Suez come rotta commerciale globale tra l’Est e l’Ovest e potenzialmente compromettere la Via della Seta cinese (nota come Belt and Road Initiative).

9254539
Abdelbari Atwan

Queste enormi conseguenze economiche e politiche sono premeditate dal presidente degli Stati Uniti e dai suoi vecchi e nuovi alleati per servire gli interessi degli Stati Uniti e per cercare di salvare o arrestare il declino delle sue prospettive di leadership globale, frenare l’ascesa della Cina su tutti i fronti e mobilitare un fronte allargato contro la Russia nel conflitto in Ucraina.

L’assenza del presidente cinese Xi Jinping e del presidente russo Vladimir Putin dal vertice è stata una mossa calcolata. Se avessero partecipato, ciò avrebbe significato incoronare Biden presidente per un secondo mandato alle prossime elezioni presidenziali e rafforzare la leadership statunitense dell’ordine mondiale unipolare, che si è eroso negli ultimi anni a favore del duo cinese/russo.

Escludere Iraq, Siria, Egitto, Turchia e Iran dai paesi attraversati dal corridoio economico non è stata una decisione arbitraria. Sono stati omessi intenzionalmente perché la maggior parte di loro è più strettamente allineata con l’asse cinese/russo e ha una profonda storia di avversione verso l’Occidente a causa della religione musulmana e di un’esperienza secolare con le eredità imperiali. È logico escludere tutti questi paesi dal corridoio economico e includere Israele che non è più grande di una provincia dell’Egitto, della Turchia o dell’Iraq? Soprattutto in un momento in cui è governato dal governo più intransigente e razzista del mondo?

Il presidente Biden aveva ragione nel definire l’accordo per costruire questo corridoio un punto di svolta perché creerà linee ferroviarie, collegherà i porti marittimi per rafforzare il commercio, faciliterà la circolazione delle merci e sosterrà gli sforzi di sviluppo dell’energia pulita. Ma ciò che Biden non ha detto è che incoronerà Israele come leader del Medio Oriente e lo districherà da tutte le sue crisi attuali e future.

Benyamin Netanyahu non ha nascosto la sua gioia per questo grande risultato che Biden gli ha assicurato. Ha postato su X (ex Twitter): “Sono lieto di annunciare la buona notizia ai cittadini dello Stato di Israele che il nostro Paese sarà uno snodo centrale in questo corridoio economico. Le ferrovie e i porti israeliani apriranno una nuova porta dall’India attraverso il Medio Oriente fino all’Europa, e ritorno, cambiando il volto del Medio Oriente. Questo è il più grande progetto di cooperazione nella storia di Israele”.

A nostro avviso, l’India diventerà ora lo strumento più potente degli Stati Uniti contro le superpotenze russa e cinese. Nei prossimi anni, potremmo vederlo incoronato leader del Golfo e del Medio Oriente insieme a Israele, con la benedizione degli Stati Uniti e dell’Europa, e minare i BRIC dall’interno.

Questo progetto statunitense presentato al recente vertice del G20 cambierà davvero le regole del gioco e il volto del mondo? La sua intenzione implicita è quella di espandere ulteriormente la NATO sul fronte politico, economico e forse anche militare. Il volume degli scambi tra India ed Europa, che questo corridoio è apparentemente destinato a servire, ammonta a 88 miliardi di dollari. Vale la pena spendere centinaia, se non migliaia, di miliardi di dollari per costruire un corridoio?

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, messo da parte al recente vertice del G20, al suo ritorno ha dichiarato: “La Turchia è la rotta più adatta da est a ovest per un progetto di corridoio economico che colleghi l’India con il Medio Oriente e l’Europa”. Questo tardivo riconoscimento del pericolo di questo progetto potrebbe spiegare il suo caloroso incontro con il presidente egiziano Abdelfattah as-Sisi a margine del vertice.

L’Egitto e la maggior parte dei paesi del Medio Oriente e dell’Unione del Maghreb, e in particolare l’Algeria, per non parlare del popolo palestinese, subiranno i maggiori danni da questo nuovo blocco politico/economico guidato dagli Stati Uniti in coordinamento con Israele.

Il Canale di Suez, che genera più di 10 miliardi di dollari all’anno per il tesoro egiziano, sarà la vittima più grande, perdendo il 22% del suo volume commerciale dal giorno del lancio del progetto, che correrà a nord verso il porto di Haifa.

Sebbene alcuni abbiano riserve sulla sua presidenza, il defunto presidente egiziano Gamal Abdel Nasser aveva la visione giusta quando fece dell’India un alleato arabo strategico nella lotta contro il colonialismo occidentale prima che i suoi alleati la respingessero, trasformandola in uno stato amico di Israele, sia attraverso gli Accordi di Camp David o i traditori Accordi di Oslo, il cui trentesimo anniversario sembra che sarà domani, 13 settembre.

Non crediamo che la Cina, la Russia e tutti i paesi presi di mira da questo nuovo progetto statunitense rimarranno a guardare mentre procede, ma questa è un’altra questione. Solo il tempo lo dirà. Pagine Esteru

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo India, Medio oriente, Europa. Un “corridoio economico” poco economico e molto geopolitico proviene da Pagine Esteri.



Oggi, giovedì 14 settembre, presso la Sala “Aldo Moro” del Ministero dell’Istruzione e del Merito, si terrà la presentazione del Programma Nazionale 2021-2027 Scuola e Competenze.

Potete seguire la diretta qui dalle 10.45 ▶ youtube.



La Difesa polacca punta al 4%. Opportunità da Varsavia per Perego di Cremnago


La Polonia è avviata in un processo di robusto rafforzamento della propria componente militare. Il Paese è indirizzato convintamente all’aumento dei budget da destinare alla Difesa, con l’obiettivo di fondo di arrivare al 4% del Pil, il doppio di quanto p

La Polonia è avviata in un processo di robusto rafforzamento della propria componente militare. Il Paese è indirizzato convintamente all’aumento dei budget da destinare alla Difesa, con l’obiettivo di fondo di arrivare al 4% del Pil, il doppio di quanto previsto in sede dell’Alleanza Atlantica. In questo quadro, l’Italia può fornire il suo supporto, come già dimostrato dalle collaborazioni con Leonardo, dall’addestratore M-346, agli elicotteri AW101 e AW149, fino alle opportunità per l’Eurofighter Typhoon. Ne abbiamo parlato con Matteo Perego di Cremnago, sottosegretario alla Difesa, tornato di recente dalla visita in Poloni alla International Defence Industry Exhibition, la principale fiera del settore dell’Europa centrale. Il nostro Paese è stato protagonista, con Leonardo e MBDA Italia in prima linea.

Che tipo di collaborazioni industriali auspica possano evolversi tra il nostro Paese e Varsavia?

La Polonia rappresenta un Paese strategico per l’industria nazionale ed in particolare per Leonardo, considerati gli importanti investimenti effettuati recentemente dall’Azienda nel Paese, tra cui l’acquisizione della compagnia elicotteristica PZL Swidnik e la costituzione della società Leonardo Polonia. Ci sono già numerosi contratti acquisiti da Leonardo in Polonia negli ultimi anni, tra cui velivoli M-346 per l’Aeronautica Militare; elicotteri AW101 per la Marina Militare; elicotteri multiruolo AW149. E altre opportunità commerciali che riguardano gli aerei Eurofighter Typhoon, ad esempio, in relazione alla sempre più pressante necessità della Polonia di acquisire velivoli per l’Air Superiority, Elicotteri da addestramento: l’Aeronautica Militare polacca deve sostituire i suoi vecchi elicotteri da addestramento SW-4 e Mi-2. Incontrando le autorità locali, su delega del ministro Crosetto, ho avuto modo di esprimere la volontà italiana di una più stretta collaborazione con la Polonia nel settore della difesa, sicurezza e aerospazio, confermando il supporto alle esigenze di rinnovamento delle Forze armate polacche, attraverso attività di collaborazione con trasferimenti tecnologici e ricadute occupazionali nel Paese.

La Polonia sta rafforzando significativamente il proprio strumento militare, un’esigenza resa più urgente dall’invasione russa dell’Ucraina. In che modo l’Italia può supportare questo potenziamento, sia dal punto di vista industriale che operativo?

Come ho detto prima il supporto di natura industriale è di mutuo interesse per lo sviluppo capacitivo polacco e per le nostre aziende nazionali della Difesa. Operativamente lo Stato Maggiore della Difesa Italiano sta concludendo la preparazione operativa per l’impiego di velivoli F-35A per il rafforzamento della difesa aerea della Polonia durante il periodo della campagna elettorale e delle elezioni, tra settembre e ottobre. E dal mese di dicembre e per i successivi otto mesi l’Aeronautica Militare italiana svolgerà attività di Air Policing nei cieli della Polonia, sia con F-35A che con Eurofighter F2000. Vi è anche la possibilità di incrementare le attività addestrative congiunte tra le rispettive Forze Armate con l’impiego del poligono di Drawsko per le forze terrestri; la possibilità di nostra presenza navale strutturata nel Baltico e anche la possibilità addestramento congiunto per i piloti degli F35.

Varsavia ha aumentato del 16% il proprio budget per la Difesa, raggiungendo il 3% del Pil. Un punto in più rispetto a quanto chiesto dalla Nato. In Italia, intanto, ancora si dibatte sulla necessità di raggiungere il 2%, perché?

Sono undici i Paesi che raggiungeranno la soglia del 2% del Pil quest’anno, e diventeranno diciannove nel 2024, l’Italia, al momento, è 24esima tra i Paesi Nato in una ipotetica graduatoria, può però ascriversi il merito di aver impedito la richiesta di molti alleati della Nato di porre la spesa del 2% del Pil come un obbligo, infatti nel comunicato finale del vertice di Vilnius, di qualche mese fa, si parla di impegno a spendere il 2%, senza obblighi temporali che per l’Italia potrebbe essere il 2028. Vi è, ovviamente, il timore che il nostro Paese possa essere l’ultimo a raggiungere l’obiettivo, ma la composizione della spesa nel bilancio non è di diretta influenza del dicastero Difesa che può proporre, ma non decide. L’obiettivo non va assolutamente accantonato in quanto importante per la difesa dell’Italia stessa oltre che degli alleati, dei livelli adeguati nella capacità di difesa nazionale verranno raggiunti proprio attraverso il perseguimento degli standard Nato al di là di quelli decisi internamente. La libertà del Paese, la sua sicurezza, la sua Difesa hanno un costo, quello che si investe in questo settore torna in modo esponenziale in termini di difesa dei nostri interessi nazionali, l’impegno del 2% di spesa dedicata alla Difesa in rapporto al Pil va mantenuto seriamente, in un percorso certo graduale e senza ipotecare scelte di finanza pubblica nell’immediato futuro, deve essere un obiettivo del nostro governo per il bene del Paese.

La necessità di modernizzare le proprie Forze armate sta spingendo la Polonia a preferire mezzi già disponibili off-the-shelf. È il caso dei carri armati Abrams e dei 96 elicotteri Apache, questi ultimi parte dell’accordo più consistente dell’export Usa per il 2023. Questo trend non rischia di essere un problema per la progettata industria europea della Difesa?

La Defence security cooperation agency (Dsca) degli Stati Uniti ha reso noto che il dipartimento di Stato ha approvato e notificato al Congresso la vendita di 96 elicotteri da combattimento Boeing AH-64E Apache alla Polonia al costo di circa dodici miliardi di dollari. Gli Apache, prodotti finora in 2.700 esemplari, sono stati chiesti da Varsavia per rimpiazzare la flotta di elicotteri da attacco di tipo russo/sovietico Mil Mi-24 composta da 18 esemplari di cui almeno dodici già ceduti all’Ucraina. La componente elicotteristica da combattimento polacca verrà quindi non solo ammodernata ma ampliata di cinque volte. Si percepisce inoltre come la Polonia punti al 4% del Pil (il doppio di quanto richiesto dalla Nato) entro breve tempo. Varsavia punta su un rafforzamento dei legami industriali con gli Stati Uniti e con la Corea del Sud, a breve però si terranno le elezioni politiche che definiranno il futuro orientamento della Polonia verso il progetto europeo, anche nei suoi aspetti di difesa.


formiche.net/2023/09/difesa-po…



InPremier


I dati che abbiamo esaminato ieri non sono allarmanti in sé, ma hanno un aspetto sinistro: l’economia europea rallenta il ritmo di crescita, ma è previsto che l’anno prossimo torni ad accelerare, mentre l’Italia rallenta e c’è il timore che l’anno prossim

I dati che abbiamo esaminato ieri non sono allarmanti in sé, ma hanno un aspetto sinistro: l’economia europea rallenta il ritmo di crescita, ma è previsto che l’anno prossimo torni ad accelerare, mentre l’Italia rallenta e c’è il timore che l’anno prossimo continui a rallentare. Spiegare la diminuita produzione industriale con la recessione in cui ora si trova la Germania – che influisce – toglie argomenti per spiegare perché l’economia tedesca si prevede corra nel 2024, mentre la nostra assai meno. Le cause sono interne e riguardano il mercato, la concorrenza, l’amministrazione pubblica, la giustizia, la scuola… Per fare le riforme e adottare i provvedimenti utili è necessario che il presidente del Consiglio abbia maggiori poteri o che sia eletto direttamente e indipendentemente dai partiti?

È fondato il timore che sia una discussione inutile, una perdita di tempo. La questione non è – come s’è singolarmente sostenuto – tenere in equilibrio i poteri del Presidente della Repubblica: al Quirinale abitava il papa, che era anche re, poi ha preso dimora il re e ora è la sede della nostra Presidenza. L’istituzione non appartiene a nessuno e il palazzo alla Repubblica. La questione è che il rafforzamento illusorio di un potere genera una pericolosissima fragilità, che anziché consolidarlo lo sbriciola.

Meloni non ha i pieni poteri – che nessuno ha mai, in uno Stato di diritto – ma è nella pienezza del suo potere: ha una maggioranza parlamentare assoluta in entrambi i rami del Parlamento e guida il partito che ha preso più del doppio dei voti degli alleati. Per giunta, complice l’ignoranza e la solo sventolata anglofobia, hanno preso tutti a chiamarla “premier”, che dà il segno della cecità istituzionale e il comico di volere introdurre il premierato in un Paese ove ci sarebbe già un premier. La vulnerabilità di Meloni – e non soltanto sua – non è nel dettato costituzionale, ma nel costume politico: chiamiamo maggioranza la somma delle minoranze che si alleano, salvo poi avere ciascuna il potere di distruggere la maggioranza. Se si cementificasse il capo del governo avremmo queste conseguenze: a. ai livelli attuali il maggiore potere sarebbe in capo a chi prende meno di un terzo dei voti espressi (che già sono pochi); b. poi, per governare veramente, o diventa trasformista il presidente o lo diventa chi lo sostiene o lo divengono entrambi. Sempre la solita zuppa.

Non è un caso che il capo del potere esecutivo non si elegga direttamente in nessuna democrazia, salvo Israele. Dove funziona male. Gli Usa sono uno Stato federale, in Francia si elegge il Presidente della Repubblica, in nessuna democrazia europea il capo del governo. Non si fa perché non funziona. Non consolida, irrigidisce. E le cose rigide si spezzano. La Repubblica è nata dopo una guerra civile, la cui radiazione fossile non è estinta e ancora inquina la vita collettiva.

La smania premierista nasce da una falsificazione storica, ovvero l’essersi raccontati che i governi italiani sono sempre stati tutti instabili e brevi. Falso. Dal 1948 al 1992 abbiamo avuto, nella sostanza, quattro governi: centrismo, centrosinistra, solidarietà nazionale e pentapartito. E i partiti di governo hanno sempre vinto le elezioni, senza trasformismo. Dal 1994 chi governa non vince mai le elezioni e impera il trasformismo. Vero che taluni governi duravano pochi mesi, ma in quello successivo tornavano gli stessi partiti e anche le stesse persone. Quel che conta è il costume: in Germania chi cambia idee e casacca è un inaffidabile, in Italia un furbo.

Eppure dei rafforzamenti sarebbero utili. Ad esempio: la possibilità di revocare i ministri, sottoponendo al voto di fiducia soltanto il neonominato; la non emendabilità dei decreti legge (così si eviterebbe l’imbarazzante sceneggiata del decreto sulle banche); la sfiducia costruttiva, ovvero dover indicare il nuovo esecutivo per far cadere il vecchio. Nulla a che vedere con quello che si chiama grossolanamente “premierato” o con la smargiassata impotente dell’elezione diretta.

La Ragione

L'articolo InPremier proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



In Cina e in Asia – La Cina primo Paese a nominare un ambasciatore in Afghanistan


In Cina e in Asia – La Cina primo Paese a nominare un ambasciatore in Afghanistan afghanistan
I titoli di oggi:

La Cina primo Paese a nominare un ambasciatore in Afghanistan
La Cina presenta la sua proposta per regolare l’AI a livello internazionale
Pechino risponde all'indagine dell'Ue sui veicoli elettrici
La Cina svela un piano di integrazione con Taiwan
Hong Kong ha il sostegno di Pechino per un ambiente imprenditoriale libero
Innalzate le relazioni tra Cina e Venezuela
Il cardinale Zuppi a Pechino vedrà l’inviato speciale cinese per gli affari eurasiatici
Squadra del governo rinnovata per il premier giapponese Kishida

L'articolo In Cina e in Asia – La Cina primo Paese a nominare un ambasciatore in Afghanistan proviene da China Files.



Kim in Russia, Zuppi a Pechino: tra "guerra santa” e vie di pace cresce il grano


Kim in Russia, Zuppi a Pechino: tra 9253079
Mentre il leader supremo della Corea del nord incontra Putin, a Pechino arriva l'inviato di Papa Francesco. A Vladivostok accordo sul grano tra Cina e Russia

L'articolo Kim in Russia, Zuppi a Pechino: tra “guerra santa” e vie di pace cresce il grano proviene da China Files.



“STATI GENERALI DELLA COMUNICAZIONE PER LA SALUTE”


A partite dalle ore 10.00 avrò il piacere di partecipare agli STATI GENERALI DELLA COMUNICAZIONE PER LA SALUTE organizzati da Federsanità per parlare di storytelling ed uso dei testimonial Qui il programma completo federsanita.it/2023/08/05/pnrr…


guidoscorza.it/stati-generali-…



PRIVACYDAILY


N. 160/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: L’allenatore dei Columbus Blue Jackets Mike Babcock e il capitano Boone Jenner negano le accuse secondo cui Babcock avrebbe agito in modo inappropriato e violato la privacy dei giocatori chiedendo di vedere le foto sui loro cellulari.L’ex giocatore della NHL Paul Bissonnette ha dichiarato nell’edizione di martedì del... Continue reading →


Come le app mobili condividono illegalmente i vostri dati personali Alcune app mobili condividono i vostri dati personali subito dopo l'apertura. Questo non è conforme alle leggi sulla privacy dell'UE Mobile Apps Header


noyb.eu/it/how-mobile-apps-ill…



Navigating Cross-Border Data Transfers in the Asia-Pacific region (APAC): Analyzing Legal Developments from 2021 to 2023


Today, the Future of Privacy Forum (FPF) published an Issue Brief comparatively analyzing cross-border data transfer provisions in new data protection laws in the Asia-Pacific. Titled Navigating Cross-Border Data Transfers in the Asia-Pacific region (APAC

Today, the Future of Privacy Forum (FPF) published an Issue Brief comparatively analyzing cross-border data transfer provisions in new data protection laws in the Asia-Pacific. Titled Navigating Cross-Border Data Transfers in the Asia-Pacific region (APAC): Analyzing Legal Developments from 2021 to 2023, the Issue Brief outlines key developments in cross-border data transfers in the Asia-Pacific in the last few years, and explores the potential impact on businesses operating in the APAC region.

DOWNLOAD THE ISSUE BRIEF

Today, cross-border data transfers are pivotal in enabling the global digital economy and facilitating digital trade. These transfers allow businesses to provide services globally, while allowing individuals access to a wide range of digital services and platforms. Yet, cross-border data transfers also raise legitimate concerns regarding the protection of individuals’ privacy and security.

Amidst this tension, data protection laws attempt to strike a balance by requiring organizations to satisfy certain conditions to ensure that personal data is appropriately protected when it is transferred out of jurisdiction, absent special circumstances. Common conditions include:

  • Assessment of the level of personal data protection in the destination jurisdiction (also known as “adequacy”);
  • Adoption of safeguards, such as legally binding agreements or certifications or rules approved by a regulator;
  • Consent from data subjects; and
  • Necessity for various, specifically defined purposes.

The APAC region has seen a significant acceleration in data protection regulatory activity in recent years, including the enactment of new data protection laws. In particular, since 2021, China, Indonesia, Japan, South Korea, Thailand, and Vietnam have newly enacted or amended their data protection laws and regulations.

An analysis of the data protection laws and regulations in these six jurisdictions indicates that there is a degree of alignment between Indonesia, Japan, South Korea, and Thailand regarding legal bases for cross-border data transfers, but China and Vietnam appear to be outliers with their own unique requirements. Notably:

  • Indonesia, Japan, South Korea, and Thailand all recognize adequacy and consent as valid legal bases for cross-border data transfers. There is also some alignment on the recognition of certification schemes.
  • However, given that these laws were enacted or amended recently, there remains uncertainty on which jurisdictions might be recognized as mutually adequate, or which certification schemes will be ultimately recognized.
  • China and Vietnam differ substantially from the other jurisdictions studied. Both jurisdictions impose unique conditions for transferring personal data, such as requiring transferring organizations to file detailed assessments with the relevant regulator.
  • Vietnam also only recognizes a single legal basis for transferring personal data abroad, while China recognizes three.

These divergences to regulating cross-border data transfers likely reflect the different policy considerations in every jurisdiction, the tension between enabling cross-border data transfers to facilitate digital trade, and national considerations, such as protecting national security and sovereignty. These divergences could complicate efforts by organizations operating in multiple jurisdictions to align their regional compliance programs. Nonetheless, there are promising avenues for increasing interoperability in the region, such as standardized or model contractual clauses, the growing recognition of regional certification schemes such as the APEC Cross Border Privacy Rules and Privacy Recognition for Processors systems, and to a more limited extent, the possibility that some jurisdictions may obtain adequacy decisions from the European Union in future.

For deeper analysis of these points and of the cross-border data transfer provisions for each of the six jurisdictions covered, download the Issue Brief here.

For inquiries about this Issue Brief, please contact Josh Lee Kok Thong, Managing Director (APAC), at jlee@fpf.org, or Dominic Paulger, Policy Manager (APAC), at dpaulger@fpf.org.

FPF is grateful to the following contributors for their assistance in ensuring the accuracy of this report:

  • Kemeng Cai (In-house Privacy Counsel, China)
  • Iqsan Sirie (Partner, TMT, Assegaf Hamzah & Partners) and Daniar Supriyadi (Associate, Capital Markets, M&A, Assegaf Hamzah & Partners)
  • Takeshige Sugimoto (Managing Director and Partner, S&K Brussels LPC; Senior Fellow, Future of Privacy Forum)
  • Thitirat Thipsamritkul (Lecturer, Faculty of Law, Thammasat University)
  • Kwang Bae Park (Partner, Head of TMT, Lee & Ko)
  • Kat MH Hille (General Counsel, OceanCDR.Tech)

Please note that nothing in this Issue Brief should be construed as legal advice.
Further reading: In November 2022, FPF’s APAC office concluded a year-long project on consent and alternative legal bases for processing data in APAC that culminated in a reportcomparing relevant requirements in 14 APAC jurisdictions.


fpf.org/blog/navigating-cross-…



La notizia di un nuovo incidente alla Sabino Esplodenti con tre morti mi riempie di indignazione e rabbia. Dopo circa un mese dall’esplosione del 21 dicembre


Elogio del capitalismo


L’intellettuale americano Noam Chomsky, uno dei maggiori critici del capitalismo, ha scritto che «la vera concentrazione di potere sta nelle mani dell’un per cento più ricco» della popolazione: «Ottengono quello che vogliono, perché in pratica gestiscono

L’intellettuale americano Noam Chomsky, uno dei maggiori critici del capitalismo, ha scritto che «la vera concentrazione di potere sta nelle mani dell’un per cento più ricco» della popolazione: «Ottengono quello che vogliono, perché in pratica gestiscono tutto loro». Secondo un sondaggio internazionale compiuto in 34 paesi da Ipsos MORI, i cui risultati sono stati illustrati nel mio libro Elogio del capitalismo, la maggior parte delle persone ritiene che i ricchi, all’interno di un sistema capitalista, detengono il potere.

Vorrei controbattere a questa percezione con tre argomenti. Primo: i ricchi esercitano effettivamente un potere di natura politica, ma non del tipo che viene rappresentato dai media, dai film hollywoodiani e da alcuni intellettuali anticapitalisti. Secondo: il fatto che i ricchi concorrano nel definire l’agenda politica, ad esempio attraverso pratiche lobbistiche, non è solo legittimo in una democrazia pluralistica, ma è anche importante. Inoltre, quelle leggi che attirano l’attenzione dei ricchi, spesso arrecano benefici anche i membri più poveri della società (ad esempio, tagli fiscali e deregolamentazione). Terzo: chiunque pensi che i ricchi esercitino troppa influenza sulla politica, dovrebbe essere a favore di meno intervento pubblico, ovvero più capitalismo. Dopotutto, più lo Stato interviene nell’economia (mediante investimenti, sussidi e regolamentazioni), più influenza può essere esercitata dai lobbisti.

Gli Stati Uniti sono generalmente considerati un paese in cui i ricchi esercitano un’influenza particolarmente rilevante sugli sviluppi politici. Nonostante ciò, non è solo il denaro lo strumento atto a comprare il potere politico, altrimenti Donald Trump non avrebbe mai vinto la candidatura repubblicana per le elezioni presidenziali del 2016. Avrebbe invece vinto Jeb Bush, che aveva raccolto molte più donazioni. Perfino Benjamin I. Page e Martin Giles, due scienziati politici e fra i più importanti sostenitori della tesi secondo cui la politica degli Stati Uniti sia trainata dai ricchi, hanno riconosciuto che «la maggior parte dei grandi donatori e la maggior parte dei think-tank, così come il vertice del partito repubblicano supportavano altri candidati». Inoltre: «Le posizioni di Trump andavano direttamente contro le opinioni dei donatori e degli americani ricchi».

Oltretutto, se i soldi determinassero i risultati politici, Trump non avrebbe vinto le elezioni del 2016. Secondo la Commissione elettorale federale, Hilary Clinton, il Partito Democratico e i comitati che la sostenevano, hanno raccolto più di 1,2 miliardi di dollari per l’intero ciclo elettorale. Trump e i suoi alleati ne hanno raccolti seicento milioni. E se solo i soldi potessero comprare il potere politico, neanche Joe Biden avrebbe potuto diventare presidente. Invece, la Casa Bianca sarebbe stata affidata al ricco imprenditore Michael Bloomberg, che ai tempi della sua candidatura per i democratici era l’ottavo uomo più ricco al mondo, con un patrimonio stimato di 61,9 miliardi di dollari. Molto probabilmente, nessuno ha mai speso più soldi di lui, e in così poco tempo, per una campagna elettorale, ovvero 1 miliardo di dollari in neanche tre mesi.

Lo scienziato politico americano Larry M. Bartels ha analizzato l’effetto delle spese elettorali dei singoli candidati in 16 elezioni presidenziali degli Stati Uniti, dal 1952 al 2012. Per Bartels, solo in due elezioni, cioè quelle vinte da Richard Nixon nel 1968 e da George W. Bush nel 2000, i candidati repubblicani hanno riportato la vittoria grazie al maggior denaro speso.

Cosa dire poi del fatto che la maggior parte dei membri del Congresso statunitense sia composto da persone facoltose? Martin Gilens, che in generale critica l’influenza dei ricchi sulla politica degli Stati Uniti, ha ammesso che non c’è nessuna prova che collega la ricchezza personale con le decisioni politiche dei membri del Congresso.

Molte persone associano il concetto di “capitalismo” con quello di “corruzione”. La visione secondo la quale la corruzione sia particolarmente diffusa nei paesi capitalisti è sbagliata; ciò è stato confermato confrontando l’Indice di percezione della corruzione (CPI) di Transparency International con l’Indice della libertà economica. I paesi con i livelli di corruzione più bassi sono gli stessi paesi che hanno i livelli di libertà economica più alti. E più i governi intervengono nella vita economica, più opportunità ci saranno per corrompere politici o dipendenti pubblici. Quindi, chiunque voglia limitare l’influenza immorale o criminale dei cittadini ricchi sulla politica, dovrebbe essere a favore di una limitazione del ruolo dello Stato.

Linkiesta.it

L'articolo Elogio del capitalismo proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



di Ezio Locatelli* - Prepariamoci ad un autunno militante. Salario minimo a 10 euro, no alla cancellazione del reddito di cittadinanza, contrarietà ad ogni


Tutti i passi avanti fatti sul Gcap alla fiera di Londra


“Un programma industriale e tecnologico, ma soprattutto una scelta politica per la sicurezza dell’area che va dall’Atlantico all’Indo-Pacifico”. Così Guido Crosetto, ministro della Difesa, ha definito oggi il Global Combat Air Programme, progetto lanciato

“Un programma industriale e tecnologico, ma soprattutto una scelta politica per la sicurezza dell’area che va dall’Atlantico all’Indo-Pacifico”. Così Guido Crosetto, ministro della Difesa, ha definito oggi il Global Combat Air Programme, progetto lanciato da Italia, Regno Unito e Giappone per lo sviluppo dell’aereo da caccia di nuova generazione entro il 2035, al termine di un incontro trilaterale a Londra a cui hanno preso parte anche James Roger Cartlidge, minister (sottosegretario) con delega al procurement della Difesa del Regno Unito, e Kiyoshi Serizawa, viceministro della Difesa del Giappone. L’incontro a Lancaster House ha rappresentato l’occasione per fare il punto della situazione e decidere i nuovi passi da intraprendere per l’attuazione del progetto stesso. Vanno “definiti gli accordi che riescano a far ottenere a tutti e tre i Paesi lo stesso ritorno in termini di crescita tecnologica e di impatto sulla produzione industriale”, ha commento Crosetto.

Ieri, primo giorno della fiera Dsei a Londra, Leonardo, Bae Systems e Mitsubishi Heavy Industries avevano annunciato la definizione dei termini della collaborazione trilaterale per soddisfare i requisiti della fase concettuale del sistema di difesa aerea di nuova generazione nell’ambito del Global Combat Air Programme. Oggi, invece, al salone londinese è stata l’occasione della firma dell’accordo di collaborazione sottoscritto da Mbda Italia ed Mbda UK per lavorare sul dominio effetti, come parte del programma, insieme a Mitsubishi Electric Corporation. “Sfruttando logiche di combattimento innovative, in contesti multi-dominio, dove la digitalizzazione, l’integrazione e l’interoperabilità tra i vari sistemi sarà un must, Mbda è pronta a mettere in campo tutte le sue risorse più avanzate per sviluppare e integrare sistemi di armamento evoluti e sistemi per la gestione degli effectors che rispondano a questi requisiti, anche in un’ottica di efficientamento di tempi e costi”, ha spiegato Giovanni Soccodato, executive group director sales and business development di Mbda e managing director di Mbda Italia a margine della cerimonia.

A ciò si aggiunge l’annuncio di un assetto congiunto tra Leonardo UK per il Regno Unito, Mitsubishi Electric per il Giappone e Leonardo ed Elt Group in rappresentanza dell’Italia per la realizzazione del progetto Gcap nel settore Isanke & Ics (Integrated sensing and non-kinetic effects & integrated communications systems), cioè l’elettronica avanzata a bordo del velivolo da combattimento.

Il ministro Crosetto non ha incontrato il nuovo omologo, Grant Shapps. Il successore di Ben Wallace ha subito un grave lutto familiare che l’ha costretto a cancellare il bilaterale e la sua partecipazione alla trilaterale.


formiche.net/2023/09/gcap-tril…



Laura Tussi Giochi Preziosi ha lanciato una linea di zaini scolastici con il brand dell'esercito e accompagnata da una serie di claim ispirati alla cultura b



Invece di mandare portaerei nel Mare della Cina e armi all'Ucraina dovremmo essere in prima fila nei soccorsi alle popolazioni in Marocco e Libia per costruire


Questa mattina il Ministro Giuseppe Valditara, in raccordo con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), ha inaugurato una targa in memoria degli espulsi dalla scuola italiana vittime della persecuzione antiebraica e dell’applicazione delle l…


ResoConto


Dall’ordine pubblico alle riforme costituzionali s’usa dire che il governo spara annunci allo scopo di distrarre dall’importante, vale a dire l’economia. Non condivido questa osservazione. Si può – come qui cerchiamo di fare – discutere nel merito le misu

Dall’ordine pubblico alle riforme costituzionali s’usa dire che il governo spara annunci allo scopo di distrarre dall’importante, vale a dire l’economia. Non condivido questa osservazione. Si può – come qui cerchiamo di fare – discutere nel merito le misure proposte e le intenzioni annunciate, ma non è vero che l’importanza di un problema cancelli gli altri.

I governanti odierni – che già ripetutamente e lungamente governarono in passato – al loro debutto, in consonanza con gli odierni oppositori, usano il tema economico dando per scontata la drammaticità del presente. Sbagliano. L’Italia viene da un triennio di crescita imponente, quanta non se ne vedeva da lustri. Quest’idea che il solo modo per dimostrarsi consci della situazione consista nel descriverla come catastrofica è fuori dalla realtà e non tiene in alcun conto la crescita della ricchezza, delle esportazioni e anche dell’occupazione.

Le previsioni della Commissione europea, rese note ieri, mettono in conto un rallentamento della crescita, ma non una recessione. Il Prodotto interno lordo Ue dovrebbe crescere dello 0.8% (rispetto all’1% prima previsto), per poi accelerare all’1.4% nel 2024. Il Pil dell’area dell’euro è previsto in crescita di un eguale 0.8% (rispetto all’1.1%). L’Italia, prevede la stessa fonte, anche quest’anno crescerà (poco) più della media, con uno 0.9% (rispetto all’1.2%). Andiamo negativamente in controtendenza nel 2024, crescendo dello 0.8%, quindi rallentando ulteriormente. Sempre ieri sono arrivati i dati Istat che segnalano, dopo il calo dell’occupazione, un decremento della produzione industriale pari a -2.1% su base annua. Il problema non è quel che si è trovato, ma quel che è maturato. Non sono i fatti a tradire il governo Meloni, sono le parole della propaganda di ieri a tradire la realtà. E vince la realtà.

Possiamo pure fare finta che tutto dipenda dall’umore di Paolo Gentiloni, ma per crederci si deve essere o molto ignoranti o molto sciocchi. Se taluni governanti (Salvini) lo attaccano è per rendere più difficile il lavoro di Meloni e Giorgetti. Se Meloni si allinea a quegli attacchi (in realtà ha provato ad annacquarli, senza riuscirci, poi rincarando con Ita, che c’entra nulla e le cose stanno diversamente) significa una cosa temibile: non quadrano i conti e ci si arrende alla verità del resoconto.

Si deve uscire dalla lagna perpetua dei mantenuti che reclamano sostegni e ristori e prendere ad occuparsi dell’Italia produttiva. Che c’è e regge la baracca. Dice il ministro dell’Economia, Giorgetti: <<Se badiamo solo alla domanda e insistiamo a far fare allo Stato la parte del Re Sole che distribuisce prebende, sussidi e sovvenzioni, non andiamo lontani>>. Esatto, ma diverso da quanto promesso. La non-novità è che sfondare deficit e debito ci costerebbe più di quel che se ne potrebbe elargire.

Condizione drammatica? No. Perché se ragionassimo degli interessi italiani e non dei governanti che aspirano ai voti corresponsabili degli italiani, il debito pubblico dovremmo provare a farlo calare il doppio e il triplo di quel che la Commissione europea (senza troppo crederci) indica. Avremmo interesse ad essere digitalizzati il quadruplo, a far funzionare la giustizia il quintuplo, ad avere una scuola formativa e selettiva il decuplo. Che non significa buttare i soldi pubblici nella ditta che fa il sito governativo ridicolo e non funzionante. Appaltiamo ai gestori dei siti porno. Non significa pagare di più senza cambiare nulla, ma cambiare il necessario affinché si possa pagare meno ed ottenere di più. E questa non è una condizione deprecabile, ma uno sforzo auspicabile.

Solo che comporta la capacità di reinterpretare le forze politiche non come i colori cangianti della rancida zuppa sempre uguale, fatta di elemosine, risarcimenti, condoni e protezioni delle rendite parassitarie, ma come la tavolozza da usarsi per dipingere un futuro prossimo in cui il più popolare non sia quello che usa meglio il nero per promettere a tutti il soldo.

La Ragione

L'articolo ResoConto proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



PODCAST OSLO. Le testimonianze del fallimento


Nel racconto dei palestinesi Fabian Odeh e Fidaa Abu Hamdiyyeh, della già presidente dell'Europarlamento Luisa Morgantini e del direttore di Pagine Esteri Michele Giorgio, le speranze iniziali e le delusioni successive di intese che dovevano sfociare nell

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

Pagine Esteri, 13 settembre 2023. Pagine Esteri ha raccolto le voci di palestinesi e italiani che hanno vissuto il periodo degli accordi di Oslo o che oggi vivono le conseguenze delle intese firmate il 13 settembre 1993 dal premier israeliano Rabin e dal leader palestinese Arafat.
widget.spreaker.com/player?epi…

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo PODCAST OSLO. Le testimonianze del fallimento proviene da Pagine Esteri.



Weekly Chronicles #45


IA contro l'evasione fiscale, auto che ti spiano mentre fai sesso, Privacy Week 2023. Meme e quote della settimana.

Scroll down for the english version

L’IRS non si accontenta


Non devono essere sembrati sufficienti gli 87.000 nuovi dipendenti che l’agenzia fiscale statunitense conta di assumere nel corso dei prossimi, dato che hanno annunciato di voler ricorrere a strumenti d’intelligenza artificiale per stringere la morsa sull’evasione fiscale.

L’agenzia dice che agli algoritmi di machine learning saranno dati in pasto quei casi troppo complessi per l’essere umano, nella speranza di cavare qualche ragno dal buco:

“[…] to target the wealthiest Americans and tackle the kinds of cases that had become too complex and cumbersome for the beleaguered agency to handle.

The agency’s new funding is supposed to help the I.R.S. raise more federal revenue by cracking down on tax cheats and others who use sophisticated accounting maneuvers to avoid paying what they owe.”


La soluzione sembra a portata di mano: se è troppo complicato, usiamo l’intelligenza artificiale. Forse però i predatori dell’IRS non sanno che gli algoritmi sono fallibili e spesso danno vita ad elevati tassi d’errore. O magari fanno finta di non saperlo.

Il problema però è grave: se i casi sono talmente complessi da non essere intelligibili da menti umane, chi sarà in grado di verificare che l’intelligenza artificiale non abbia commesso errori? Quale avvocato potrà mai difendere i suoi clienti dalle oscure illazioni di un algoritmo troppo complesso da comprendere? Quale giudice potrà mai decidere nel merito?

Poco importa, d’altronde quando si tratta di fisco siamo tutti colpevoli fino a prova contraria. L’algoritmo t’incastra, l’impiegato IRS ti porta via la casa. O ti spara. O magari entrambe.

Subscribe now

9239681
BitcoinVoucherBot è un servizio semplice, sicuro e privacy friendly per acquistare Bitcoin. Niente siti web, niente tracking IP, nessun documento richiesto. Solo Telegram. Clicca qui per iniziare a usarlo! Annuncio sponsorizzato.

Quando compri un’auto nuova, considera anche la privacy


Lo sappiamo. Le auto nuove sono computer con le ruote: wi-fi, bluetooth, sistemi operativi che si aggiornano in automatico, sensori di ogni tipo, assistenti vocali e così via. Un incubo per la privacy. E se non lo sai, ti consiglio di leggere questo articolo sul funzionamento delle nuove auto intelligenti e il futuro distopico che ci aspetta.

Sarebbe quindi buona abitudine quando acquistiamo un’auto nuova, valutare anche il modo in cui trattano i nostri dati (e quali dati) oltre al motore e agli optional. Non è facile: dovremmo leggere decine di lunghe privacy policy scritte in legalese e valutare con attenzione le possibili conseguenze.

Fortunatamente i ricercatori di Mozilla ci danno una mano. Col loro progetto “Privacy Not Included” hanno recensito diversi produttori automobilistici per valutare chi fosse il peggiore in termini di privacy. E beh… se hai una Nissan, ho cattive notizie per te.

La loro privacy policy afferma che l’auto può acquisire e inferire dati di ogni tipo, comprese preferenze e abitudini sessuali. I dati vengono poi rivenduti a broker di vario tipo e finiscono così nel vortice infinito dell’advertising e della profilazione. Fidati, meglio fare sesso nel caro e vecchio letto. A meno che tu non abbia Alexa in camera…

Privacy Chronicles is a reader-supported publication. To receive new posts and support my work, consider becoming a free or paid subscriber.

Privacy Chronicles is a reader-supported publication. To receive new posts and support my work, consider becoming a free or paid subscriber.

Subscribe now

Privacy Chronicles is a reader-supported publication. To receive new posts and support my work, consider becoming a free or paid subscriber.

Meno di due settimane alla Privacy Week 2023!


Manca pochissimo al festival dell’anno per appassionati di privacy e tecnologia!

Se non l’hai ancora fatto ti consiglio di seguire la pagina Instagram e iscriverti alla newsletter per non perdere nessun aggiornamento.

Come già anticipato la maggior parte degli eventi saranno trasmessi in streaming su www.privacyweek.it, ma ci sono alcuni momenti d’incontro dal vivo con ingresso libero (previa registrazione sul sito):

  • Giovedì 28 settembre, dalle ore 20:30 presso Phyd, Via Tortona 31, (Milano) in cui si terrà la Privacy Night con Diego Passoni di Radio Deejay
  • Venerdì 29 settembre, dalle ore 14: presso 21 House of Stories, Via Enrico Nöe 24, Città Studi (Milano) in cui si terrà l’intervista a Max Schrems e anche Bitcoin Beach, un workshop dal vivo per imparare a usare Bitcoin nel tuo esercizio commerciale (o per fare acquisti), a cura di Milano Trustless
    232136


Weekly memes


232137


9239683


232138


Weekly quote

“Wikipedia is the best thing ever. Anyone in the world can write anything they want about any subject. So you know you are getting the best possible information.”

Michael Scott

Support Privacy Chronicles!


One way to support Privacy Chronicles is to share this article with your friends and acquaintances and leave a like or a comment! Another way is to subscribe (with Bitcoin as well) for the equivalent of a monthly breakfast.

Or, you can make a voluntary donation in sats by scanning this QR Code:

9239685
Scan the QR Code or click here!

English Version

The IRS isn't satisfied


The 87,000 new employees that the United States tax agency plans to hire in the coming years must not have seemed sufficient, as they have announced their intention to leverage artificial intelligence tools to tighten the grip on tax evasion.

The agency states that machine learning algorithms will be tasked with handling cases that are too complex for humans, hoping to uncover hidden tax frauds:

"[...] to target the wealthiest Americans and tackle the kinds of cases that had become too complex and cumbersome for the beleaguered agency to handle.

The agency’s new funding is supposed to help the I.R.S. raise more federal revenue by cracking down on tax cheats and others who use sophisticated accounting maneuvers to avoid paying what they owe."


The solution seems within reach: if it's too complicated, just use artificial intelligence.

However, perhaps the IRS predators are unaware that algorithms are fallible and often lead to high error rates. Or maybe they pretend not to know.

The problem, however, is significant: if cases are so complex that they are incomprehensible to human minds, who will be able to verify that the artificial intelligence has not made errors? Which lawyer can defend their clients against the obscure speculations of an algorithm too complex to understand? Which judge can make a fair decision?

It doesn't matter much, after all, when it comes to taxes; we are all guilty until proven innocent. The algorithm frames you, and the IRS employee takes away your home. Or perhaps he’ll shoot you. Or maybe both.

When you buy a new car, keep in mind your privacy too


We know it. New cars are computers on wheels: Wi-Fi, Bluetooth, automatically updating operating systems, all kinds of sensors, voice assistants, and so on. A privacy nightmare.

So, it would be a good practice when buying a new car to evaluate how they handle your data (and what data) in addition to the engine and other features. It's not easy: you would have to read dozens of lengthy privacy policies written in legal jargon and carefully consider the possible consequences.

Fortunately, Mozilla researchers are here to help. With their "Privacy Not Included" project, they have reviewed various car manufacturers to determine who is the worst in terms of privacy. Well... if you have a Nissan, I have bad news for you.

Their privacy policy states that the car can acquire and infer all kinds of data, including sexual preferences and habits. The data is then sold to various brokers and ends up in the endless vortex of advertising and profiling. Trust me, it's better to have sex in your good old bed. Unless you have Alexa in the bedroom...

Less than two weeks until Privacy Week 2023!


The year's festival for privacy and technology enthusiasts is just around the corner!

If you haven't already, I recommend following the Instagram page and subscribing to the newsletter to stay updated.

As previously mentioned, most events will be streamed on www.privacyweek.it, but there are some in-person meetings with free entry (registration required on the website):

  • Thursday, September 28, starting at 8:30 PM at Phyd, Via Tortona 31, Milan, where the Privacy Night with Diego Passoni of Radio Deejay will be held.
  • Friday, September 29, starting at 2:00 PM at 21 House of Stories, Via Enrico Nöe 24, Città Studi, Milan, where the interview with Max Schrems and Bitcoin Beach, a live workshop to learn how to use Bitcoin in your business (or for shopping), will take place, curated by Milano Trustless.

privacychronicles.it/p/weekly-…



Breyer: Von der Leyen has simply not understood the digital age


Today, EU Commission President Ursula von der Leyen delivered her annual State of the European Union address to the EU Parliament in Strasbourg. In her speech, she hailed adopted (Digital Services …

Today, EU Commission President Ursula von der Leyen delivered her annual State of the European Union address to the EU Parliament in Strasbourg. In her speech, she hailed adopted (Digital Services Act, Digital Markets Act) and planned digital laws (AI Act) and announced the formation of an expert group on Artificial Intelligence (AI). Pirate Party MEP and digital expert Patrick Breyer counters:

“Ms. von der Leyen is the conservative Commission president whose term of office must soon finally come to an end, but who will have done plenty of mischief by then: because she uncritically cheers digitization, wants to burn our data in the profit interest of industry, and simply did not understand the digital age.

„The von der Leyen Commission regularly proves with its unethical legislative proposals that it is trampling on the fundamental rights of EU citizens. With the Digital Services Act, von der Leyen has virtually given her blessing to the surveillance capitalism of the tech industry. The fact that she now wants to let representatives of these corporations help shape Europe’s future in the area of Artificial Intelligence fits in well with the picture. With her proposal for an AI Act, she wants to open the door to biometric mass surveillance in public.

“On the one hand, Ms. von der Leyen keeps official text messages with the head of Pfizer about billion-dollar deals secret bypassing all rules, but on the other hand she wants to have our private messages indiscriminatly scanned by unreliable suspicion machines via #ChatControl and destroy the digital secrecy of correspondence. She is the conservative commission president whose appointment we Pirates have rejected from the start.

„Ms. von der Leyen is remembered by many young Germans as ‘Zensursula’. With an emotional fear campaign, she tried years ago to push through an ineffective and harmful Internet censorship law, ignoring mass protests and criticism from academia. In 2015, she voted in the Bundestag to reintroduce blanket data retention, even though the European Court of Justice had ruled it disproportionate. Nothing at all comes from her on curbing lobbying, more transparency and genuine citizen participation. The Pirate Party demands for all these reasons that she finally leave next year.”

Breyer concludes by referring to a tweet by Edward Snowden a few weeks ago about the planned chat control: “It seems that in just ten years, the EU institutions have transformed from ‘our best hope for a sincere guarantor of global human rights’ into ‘an authoritarian cabal that vigorously advocates the global, machine-enforced restriction of basic human freedoms.'”


patrick-breyer.de/en/breyer-vo…



“ASCOLTARE I DATI AL TEMPO DELLA PRIVACY: RISCHI E OPPORTUNITÀ DEL SOCIAL LISTENING”


Oggi a partire dalle 11.00 avrò il piacere di partecipare al Digital Talk “ASCOLTARE I DATI AL TEMPO DELLA PRIVACY: RISCHI E OPPORTUNITÀ DEL SOCIAL LISTENING” organizzato da organizzato da Istat in collaborazione con FPA Qui il link al programma completo istat.it/it/archivio/287805#:~…


guidoscorza.it/ascoltare-i-dat…



In Cina e Asia – Putin riceve Kim: focus su razzi e satelliti


In Cina e Asia – Putin riceve Kim: focus su razzi e satelliti kim
I titoli di oggi:
Cina, nuove multe per frenare i tutor privati illegali
Cina, top 500 delle aziende private contro i dubbi sulla crescita economica
Taiwan, la Cina lancia grande esercitazione in risposta alle manovre Usa
Cina, che fine ha fatto il ministro della Difesa?
Sicurezza alimentare, Russia e Cina costruiranno un sito di stoccaggio per il grano
Cina, i media statali si autocensurano per una citazione classica "rischiosa"
Cina, livestreamer sotto accusa per aver umiliato un follower
Indonesia, stop alle vendite sui social
Cambogia, restituiti 33 manufatti archeologici

L'articolo In Cina e Asia – Putin riceve Kim: focus su razzi e satelliti proviene da China Files.



30 ANNI ACCORDO OSLO. “Un disastro per i palestinesi con danni andati oltre ogni previsione”


Intervista all'analista Mouin Rabbani: "Quelle intese hanno distrutto il movimento nazionale palestinese e reso un inferno la vita quotidiana degli abitanti dei Territori occupati da Israele nel 1967" L'articolo 30 ANNI ACCORDO OSLO. “Un disastro per i p

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

a cura della rivista Jadaliyya

(foto di Vince Musi / The White House, Clinton Presidential Materials Project.)

Il 13 settembre 1993 il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Yasser Arafat firmarono gli accordi di Oslo durante una cerimonia alla Casa Bianca officiata dal presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. In occasione del trentesimo anniversario di questo accordo e per fare il punto sugli sviluppi durante i decenni successivi e le loro implicazioni per il futuro, Jadaliyya ha intervistato il condirettore della rivista e analista Mouin Rabbani.

9239267
Mouin Rabbani

Qual è stata la tua reazione quando hai saputo per la prima volta degli Accordi di Oslo?

Verso la fine di luglio/inizio agosto 1993 cominciarono ad emergere notizie secondo cui Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) avevano concluso con successo i colloqui segreti a Oslo. Alla fine di agosto i contorni generali di questo accordo erano chiari, ed era immediatamente evidente che si trattava di un disastro assoluto e globale. La natura sbilanciata di questi accordi è, a mio avviso, meglio riflessa nelle lettere di riconoscimento scambiate tra il leader palestinese Yasir Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin che accompagnavano l’accordo di Oslo. Nella sua lettera Arafat, a nome dell’OLP, scriveva “riconosco il diritto dello Stato di Israele ad esistere in pace e sicurezza”; “accetto le risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”; si impegnava a risolvere tutte le “questioni in sospeso” con Israele esclusivamente “attraverso negoziati”; “rinuncia” alla forza e alle armi e “si assumeva la responsabilità su tutti gli elementi e il personale dell’OLP per garantire il rispetto (delle intese)”; e dichiarava che quegli “articoli” e “disposizioni” del Patto Nazionale Palestinese del 1968 “incoerenti con gli impegni di questa lettera sono ora inoperanti e non più validi”. Arafat ha indirizzato una seconda lettera al ministro degli Esteri norvegese Johan Jorgen Holst, che aveva convocato i negoziati segreti israelo-palestinesi. La lettera di Rabin è molto più breve. Si afferma integralmente: In risposta alla tua lettera [di Arafat] del 9 settembre 1993, desidero confermarti che, alla luce degli impegni dell’OLP inclusi nella tua lettera, il governo di Israele ha deciso di riconoscere l’OLP come rappresentante del popolo palestinese e avviare negoziati con l’OLP nell’ambito del processo di pace in Medio Oriente. A differenza della lettera di Arafat, il testo di Rabin non fa alcun riferimento ai diritti dei palestinesi, né limita in alcun modo le opzioni israeliane nei suoi futuri rapporti con i palestinesi. In altre parole, in cambio di una serie di concessioni strategiche palestinesi, Israele ha magnanimamente accettato di negoziare i termini di resa dell’OLP.

La Dichiarazione di Principi sugli Accordi di Autogoverno Provvisori, come viene formalmente chiamato l’Accordo di Oslo, è lungo solo poche pagine ed è in gran parte privo di gergo tecnico, e vale la pena leggerlo per coloro che non lo hanno fatto. Non contiene un solo riferimento a “occupazione”, “autodeterminazione”, “Stato” o qualcosa del genere. Piuttosto, i palestinesi dovevano esercitare un’autonomia limitata, all’interno di aree limitate dei territori occupati (esclusa Gerusalemme Est), da cui le forze israeliane si sarebbero “ridispiegate” anziché ritirarsi. Non avendo termini di riferimento chiari per quello che chiama un accordo sullo “status permanente”, né chiarezza sulla sua sostanza o forma, né meccanismi significativi di risoluzione delle controversie, Oslo in pratica ha trasformato i territori occupati in territori contesi. In questo quadro, le rivendicazioni israeliane e i diritti palestinesi dovevano essere trattati come ugualmente validi, e subordinare l’intero processo a negoziati bilaterali significava che Israele acquisiva potere di veto sui diritti dei palestinesi. Come se non bastasse, il processo sarebbe stato supervisionato dagli Stati Uniti, per decenni alleati strategici e sponsor geopolitici di Israele, e che ufficialmente designavano l’OLP come un’organizzazione terroristica proscritta.

Su questa base, consideravo Oslo un disastro assoluto e ho espresso costantemente questo punto di vista dal 1993. All’epoca, le questioni che ebbero il maggiore impatto furono l’effettivo abbandono dei profughi, che costituiscono la maggioranza del popolo palestinese, da parte dei palestinesi; la frammentazione politico-istituzionale del popolo palestinese; la sospensione a tempo indeterminato dell’agenda nazionale in cambio di una ricostruzione economica che difficilmente si sarebbe concretizzata (così com’è, l’economia palestinese non è oggi che l’ombra di ciò che era nel 1993); e la trasformazione del movimento nazionale in un’autorità locale.

Anche se non mi sono mai fatto illusioni su Oslo e fin dall’inizio lo ho visto come un accordo inteso a ristrutturare e consolidare il dominio israeliano sui palestinesi piuttosto che a porvi fine, allo stesso tempo non sono riuscito ad anticipare la portata della catastrofe che ha prodotto. Le cose sono andate molto peggio di quanto i critici più accaniti di Oslo avrebbero potuto immaginare, in particolare nella Striscia di Gaza e nella Valle del Giordano. Sospetto che anche (il professore e intellettuale palestinese) Edward Said, scomparso vent’anni fa questo mese, rimarrebbe sbalordito dalla realtà attuale.

Spiega le politiche e pratiche israeliane rese possibili da Oslo.

Ci sono politiche e pratiche israeliane rese possibili da Oslo. Penso che la politica di Israele di assassinare i leader palestinesi dove e quando possibile abbia giocato un ruolo importante. Nel 1993 i principali alleati di Arafat e potenziali contrappesi nel movimento Fatah, come Khalil al-Wazir (Abu Jihad) e Salah Khalaf (Abu Iyad), per citarne solo due, erano stati tutti eliminati. All’interno dell’OLP altre organizzazioni, come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) e il Fronte democratico per la liberazione della Palestina (DFLP), furono molto ridotte o indebolite da scismi interni. La corrente islamista, rappresentata principalmente da Hamas e dalla Jihad islamica, allora come oggi operava indipendentemente dall’OLP e non aveva alcuna influenza sulle sue decisioni. Di conseguenza, Arafat ottenne un controllo incontrastato e senza restrizioni sul movimento nazionale. Ciò gli ha permesso di impegnare Fatah e l’OLP a Oslo senza serie sfide interne. La situazione era così terribile che persone come Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Ahmad Qurai (Abu Alaa) sono passati dalla relativa oscurità e insignificanza politica a posizioni di leadership nazionale. Nel 2004 Arafat stesso fu quasi certamente assassinato da Israele, a mio avviso come parte di un’iniziativa premeditata per catapultare Abbas alla leadership dopo che Arafat aveva interrotto con successo la presidenza di Abbas del 2003 che gli era stata imposta dagli Stati Uniti e da Israele con la L’Unione europea come sempre al seguito.

Un’altra è stata l’incessante campagna di violenza condotta da Israele in tutti i Territori occupati, e nella Striscia di Gaza in particolare, per reprimere la rivolta del 1987-1993. Non ebbe successo ma gettò le basi per una diffusa acquiescenza palestinese, e un certo entusiasmo, in questi territori per le false promesse di Oslo.

In termini di ciò che Oslo ha reso possibile, l’espansione esponenziale delle colonie israeliane a partire dal 1993 è il fenomeno più evidente. La colonizzazione, ovviamente, iniziò immediatamente dopo che Israele occupò e avviò la “strisciante annessione” della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel giugno 1967, ma Oslo fu comunque un punto di svolta fondamentale. Sebbene l’impresa degli insediamenti costituisca una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e un crimine di guerra ai sensi dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (che è la ragione principale per cui Israele ha rifiutato di ratificarla), gli Accordi di Oslo come una questione di progettazione non riferimento al diritto internazionale. Inoltre, lo sponsor del processo di Oslo, gli Stati Uniti, non ha risparmiato alcuno sforzo per garantire che il diritto internazionale non venga applicato alla condotta israeliana nei confronti dei palestinesi oltre i confini di Oslo, che non sia ritenuto responsabile delle sue azioni e che possono continuare ad agire con illimitata impunità. In altre parole, gli Stati Uniti hanno assicurato che gli accordi di Oslo venissero attuati oltre l’ambito delle norme e delle regole dalla legge internazionale.

Gli accordi di Oslo non autorizzano l’espansione degli insediamenti. Ma, cosa ancora più importante, non lo vietano esplicitamente. Chiunque abbia una vaga familiarità con la politica israeliana ha immediatamente capito che i suoi leader avrebbero trattato l’assenza di un divieto esplicito come una licenza per continuare, ed è esattamente ciò che hanno fatto negli ultimi tre decenni.

La risposta di Israele al massacro della Moschea Ibrahimi di Hebron del 1994 da parte di un fanatico colono israeliano-americano (Baruch Goldstein, ndt), strumentalizzato per rafforzare ulteriormente il suo controllo su Hebron e sulla moschea piuttosto che affrontare i coloni, ha fornito una prima e definitiva indicazione a questo riguardo. Vale la pena ricordare che questa risposta è stata guidata da Rabin, dal suo collega premio Nobel per la pace Shimon Peres e dal loro comandante militare Ehud Barak, non da Binyamin Netanyahu o Itamar Ben-Gvir.

Di almeno uguale significato è il fatto che il processo di Oslo ha fornito all’espansione degli insediamenti una foglia di fico politica cruciale. Ogni volta che Israele si impegnava in un nuovo atto di colonizzazione, come la costruzione dell’insediamento di Har Homa a Jabal Abu Ghnaim nel 1997 (tra Gerusalemme e Betlemme), veniva tollerato con il pretesto di mantenere vivo il processo – l’amministrazione Clinton ricorse a questo argomento quando pose il veto su diversi Progetti di risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condannavano Har Homa. In effetti, praticamente ogni azione israeliana sul terreno, in particolare durante gli anni ’90, è stata di fatto ignorata in nome della preservazione del processo. Più in generale, si diffuse l’atteggiamento secondo cui l’espansione degli insediamenti non era particolarmente importante perché – secondo un altro sviluppo introdotto durante Oslo – Israele avrebbe mantenuto permanentemente i principali blocchi di insediamenti in qualsiasi accordo di pace, mentre quelli di un’eventuale entità palestinese sarebbero stati smantellati o assorbiti da altri gruppi. La conseguenza pratica di questo concetto fu ovviamente che ogni anno che passava sempre più territorio palestinese diventava idoneo all’annessione israeliana permanente.

Se, per amor di discussione, prendiamo sul serio l’affermazione secondo cui Oslo avrebbe dovuto concludere con uno Stato palestinese, ignorare la realtà sul campo con il pretesto di preservare il processo diplomatico ha contribuito a garantirne il fallimento. Più precisamente, l’illimitata indulgenza verso l’insaziabile appetito di Israele per la terra palestinese ha definito il ruolo di Washington.

Una seconda politica chiave israeliana resa possibile da Oslo è la frammentazione palestinese. Anche se ha cominciato a prendere forma già all’inizio degli anni ’90, è stata istituzionalizzata dal regime di Oslo. La Cisgiordania e la Striscia di Gaza furono isolate l’una dall’altra, Gerusalemme Est fu separata dal resto della Cisgiordania, e da allora in poi la Cisgiordania e la Striscia di Gaza furono frammentate in cantoni circondati che potevano, e spesso erano, isolati l’uno dall’altro. Viaggiare fuori dalla Striscia di Gaza, verso Gerusalemme Est, e spesso all’interno della Cisgiordania e (fino al 2005) anche all’interno della Striscia di Gaza, è diventato praticamente impossibile. E ovviamente anche i palestinesi all’interno della Linea Verde, nei territori occupati e nella diaspora erano isolati gli uni dagli altri. Tutto ciò esisteva prima della costruzione del muro in Cisgiordania che imponeva ulteriori restrizioni. prima del blocco israelo-egiziano della Striscia di Gaza che si avvicina al suo terzo decennio, e prima dello scisma Fatah-Hamas che ha una chiara dimensione territoriale. C’è una ragione per cui i sudafricani che hanno visitato la Palestina hanno osservato che le restrizioni israeliane superano di gran lunga le misure imposte dal precedente regime della minoranza bianca nel loro paese.

Più in generale, Israele è riuscito a trasformare la fase transitoria di Oslo in un accordo permanente , trasformando così l’Autorità Palestinese (AP) in una filiale locale dello Stato israeliano. I sostenitori e i sostenitori di Oslo hanno prestato attenzione alla scadenza del periodo provvisorio nel 1999 tanto quanto alla conclusione formale del mandato presidenziale di Abbas nel 2009.

I costi operativi dell’Autorità Palestinese – i fondi necessari per mantenere a galla le sue istituzioni e dotate di personale adeguato in modo che le sue forze di sicurezza possano mantenere i palestinesi impotenti a resistere a Israele e ai suoi coloni ausiliari, e le sue agenzie civili possano prevenire il collasso sociale – sono finanziati dai contribuenti palestinesi e dai paesi occidentali. governi, senza alcun costo per Israele. E una parte sostanziale degli acquisti di ANP vengono ovviamente effettuati in Israele, in gran parte a causa delle importazioni e di altre restrizioni. Attraverso il Protocollo Israele-OLP sulle relazioni economiche del 1994, o Protocollo di Parigi, e l’Accordo ad interim del 1995 sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza, meglio noto come Oslo II, il mercato comune imposto da Israele a partire dal 1967 è stato perpetuato.

Oslo II contiene anche quella che considero la clausola più significativa di tutta questa serie di accordi. Ai sensi dell’articolo XX di questo documento, l’Autorità Palestinese ha accettato di assumersi la piena responsabilità finanziaria per le rivendicazioni accolte dai palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza contro Israele, o qualsiasi agenzia o società israeliana, davanti a un tribunale israeliano “per quanto riguarda atti o omissioni avvenuti prima” di Oslo II (XX.1.a.). Nello specifico, “Nel caso in cui una corte o tribunale [israeliano] venga emesso un lodo contro Israele in relazione a tale richiesta, il Consiglio [cioè l’Autorità Palestinese] rimborserà immediatamente a Israele l’intero importo del lodo” (XX.1. e.). L’accordo obbligava inoltre l’Autorità Palestinese a promulgare “una legislazione, al fine di garantire che tali rivendicazioni da parte dei palestinesi… siano portate solo davanti alle corti e ai tribunali palestinesi… e non siano portate davanti o ascoltate dalle corti o dai tribunali israeliani” (XX.2.a).

In altre parole, se un palestinese della Cisgiordania o della Striscia di Gaza cerca di avanzare un reclamo contro Israele per un atto commesso tra il 1967 e il 1995, diciamo contro l’esercito israeliano per uso illegale della forza nel 1976 o durante la rivolta del 1987-1993. che ha reso il ricorrente tetraplegico, l’Autorità Palestinese ha l’obbligo di garantire che il ricorrente porti il ​​caso davanti a un tribunale palestinese anziché israeliano e che qualsiasi sentenza finanziaria di tale tribunale a favore del ricorrente sia pagata dall’Autorità Palestinese anziché da Israele. Se il ricorrente, nonostante quanto sopra, porta il caso davanti a un tribunale israeliano, e un giudice israeliano si pronuncia a favore del ricorrente, a causa di azioni illegali da parte dell’esercito israeliano anni prima che l’Autorità Palestinese esistesse, l’ANP è tenuta a rimborsare immediatamente a Israele l’intero importo del risarcimento concesso al palestinese dal tribunale israeliano. L’Articolo XX incapsula perfettamente la natura assolutamente sbilanciata di Oslo, lo squilibrio di potere che ha codificato, l’insistenza di Israele nel raggiungere l’impunità retroattiva e la sua determinazione a ritenere le sue vittime responsabili dei crimini commessi contro di loro. A mio avviso, niente di meglio dimostra che si tratta di un conflitto tra occupante e occupato e nient’altro.

Per quanto riguarda i benefici economici, un ulteriore sviluppo che viene spesso trascurato ma che deve essere preso in considerazione è l’enorme guadagno economico che Israele ha ricavato dagli Accordi di Oslo e dalla sua integrazione nell’economia globale. Soprattutto, ha portato la Lega Araba a rinunciare al boicottaggio di Israele e, soprattutto, delle aziende che intrattengono rapporti commerciali con Israele. Nonostante tutti i suoi difetti, questo boicottaggio è stato esponenzialmente più efficace dell’attuale movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), e ha, ad esempio, tenuto le principali aziende giapponesi e sudcoreane fuori da Israele e parecchie aziende occidentali fuori dal mondo arabo. Spesso si dimentica che durante gli anni ’70 e ’80 Israele era una sorta di paria internazionale, ma sulla scia della conferenza diplomatica sul Medio Oriente di Madrid del 1991 e successivamente di Oslo, fu possibile normalizzare le relazioni con gran parte dell’Africa, dell’Asia meridionale e del Sud-est asiatico. L’unica eccezione è il Sud America, dove Israele ha goduto di forti relazioni sin dalla sua fondazione, in particolare con i suoi regimi terroristici, ma che sono diminuite quando una combinazione di governi di sinistra e democratici più critici nei confronti di Israele ha preso il potere negli ultimi decenni.

All’interno della regione, Israele ha ovviamente rapporti formali con l’Egitto dalla fine degli anni ’70 e legami segreti con un certo numero di Stati arabi, ma sulla scia di Oslo e in gran parte grazie ad esso questi legami informali sono cresciuti in modo sostanziale. Inoltre, nel 1994 sono state stabilite relazioni diplomatiche formali con la Giordania e, più recentemente, con il Bahrein, il Marocco e gli Emirati. La leadership palestinese sperava di sfruttare la normalizzazione arabo-israeliana per raggiungere gli obiettivi nazionali palestinesi, ma in pratica Oslo ha consentito la normalizzazione ed è diventato uno strumento per emarginare i palestinesi e legittimare il Grande Israele.

Mentre Oslo prometteva lo sviluppo economico palestinese in cambio della paralisi politica, la crescita si materializzò solo temporaneamente rispetto alla discontinua linea di base su cui si trovava nel 1993, al termine di una rivolta prolungata. Negli anni precedenti allo scoppio dell’Intifada di Al-Aqsa nel 2000, a causa della politica israeliana, si è infatti verificata una brusca inversione di rotta e da allora questo deterioramento è continuato a un ritmo accelerato. Ciò che Oslo ha ottenuto è stato catapultare Israele nei ranghi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), di cui è membro a pieno titolo dal 2010. È praticamente inconcepibile che Israele avrebbe acquisito questo status senza Oslo.

Come si sono organizzati e resistito i palestinesi nell’era di Oslo?

Il movimento nazionale così come esisteva nei decenni precedenti a Oslo è oggi in uno stato avanzato di disintegrazione. L’OLP è stata ridotta a tutti gli effetti ad un ufficio ausiliario all’interno dell’Autorità palestinese, anche se quest’ultima è stata istituita nel 1994 come agenzia amministrativa sussidiaria della prima. Personificata da Abbas, la leadership dell’Autorità Palestinese è dal canto suo completamente disconnessa dal suo popolo, vista come illegittima praticamente da ogni palestinese che non ne fa parte e più legata alle agende di Israele e degli Stati Uniti che agli interessi nazionali palestinesi. In questo contesto, i movimenti nati e operanti al di fuori di questo quadro hanno acquisito importanza. Ovviamente Hamas e la Jihad islamica, ma anche un numero crescente di gruppi più piccoli, spesso di natura locale, che non sono affiliati o incorporano membri di diverse organizzazioni o – come i resti delle Brigate dei Martiri di Fatah Al-Aqsa – cercano per rilanciare programmi a cui hanno rinunciato e sconfessati dai loro leader.

È una realtà molto diversa da quella dell’OLP come esisteva prima di Oslo, in cui movimenti diversi e rivali operavano sotto un ombrello comune con unità almeno nominale di intenti e partecipazione collettiva a istituzioni unificate e organi decisionali. Guardando al di là dell’OLP, Fatah e Hamas possono essere stati accaniti rivali durante la prima Intifada del 1987-1993, ma nessuno dei due era impegnato nello sradicamento dell’altro né ha formato una partnership con Israele a tal fine. Se la rivolta del 1987 contro l’occupazione è stata caratterizzata da un movimento popolare organizzato per molti anni dalle varie fazioni palestinesi, e la seconda Intifada del 2000-2004 da una leadership (Arafat) che ha fornito un appoggio quantomeno tacito, la realtà odierna vede l’ANP pienamente impegnata a sradicare la resistenza a Israele e ai suoi insediamenti coloniali. Questi fattori rendono le condizioni impegnative, complicate e difficili per gli attivisti non affiliati che lavorano a livello popolare, dove in netto contrasto con le epoche precedenti una crescente maggioranza di palestinesi sono indipendenti o solo vagamente affiliati a un’organizzazione specifica.

Piuttosto che essere nutriti da un movimento e da una leadership nazionale, essi sono, come sostiene il sociologo Jamil Hilal, visti con sospetto dai leader rivali di Ramallah e Gaza che temono che il loro attivismo possa essere diretto o utilizzato contro di loro. L’adesione di Abbas alla “resistenza popolare” è un esempio calzante; lo ha fatto solo per delegittimare la resistenza armata, non ha fatto nulla per sostenere e anzi piuttosto minare le forme di resistenza che affermava di difendere, e ha semplicemente smesso di farvi riferimento una volta che ha sentito di aver acquisito il controllo sulle formazioni armate.

Allo stesso modo, nella Striscia di Gaza Hamas ha frenato le manifestazioni di massa al confine con Israele al fine di preservare i suoi taciti accordi con Israele e mantenere il suo dominio su quel territorio. Come notato dal politologo George Giacaman, Hamas non è stato in grado di risolvere la contraddizione fondamentale tra l’essere un’autorità di governo all’interno del paradigma di Oslo e un movimento di resistenza contro di esso.

Nonostante quanto sopra, i palestinesi, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, in Israele, nel suo sistema carcerario o nella diaspora, si sono organizzati e hanno resistito in una miriade di modi. Ancora più importante, nonostante la massiccia e sistematica violenza e repressione statale e il tradimento da parte dei loro stessi leader e dei governi arabi, hanno rifiutato di arrendersi, mettendo in pratica “il potere di rifiuto” sostenuto da Said. In tal modo i palestinesi hanno mantenuto lo schiacciante sostegno della comunità internazionale, e anche in Occidente l’opinione pubblica riconosce sempre più che Israele è uno stato coloniale strutturalmente razzista. Tuttavia, la cruda realtà che deve essere riconosciuta e compresa è che i palestinesi non stanno mantenendo terreno, ma lo stanno perdendo.

Come vedi il futuro?

È estremamente difficile prevedere come sarà la situazione tra cinque, dieci o quindici anni. Dalla fine della seconda Intifada Israele è stato impegnato in una determinata campagna per liquidare una volta per tutte la questione palestinese, cercando di ridurre i palestinesi a una realtà demografica frammentata e politicamente irrilevante piuttosto che a un popolo unito capace di promuovere i propri diritti nazionali, in modo organizzato. Ciò è particolarmente evidente con le politiche dell’attuale governo israeliano. Questo si tradurrà in una seconda Nakba e nel riconoscimento internazionale del Grande Israele o in una nuova rivolta o conflitto armato che indebolirà Israele? Il trionfalismo dell’establishment israeliano indebolirà lo Stato dall’interno? Come si evolverà la mappa politica regionale e globale nei prossimi anni? L’unica lezione che possiamo trarre dal secolo scorso è che i palestinesi non si arrenderanno e continueranno a trovare modi per affermare e promuovere i propri diritti collettivi e individuali indipendentemente dall’intensità del continuo attacco israeliano. Quanto saranno efficaci nel farlo è una questione completamente diversa che in questo momento è difficile da determinare, perché anche la politica palestinese si trova in un periodo di transizione. Uno sviluppo positivo è che i palestinesi sembrano impegnati, con un certo successo, nello sforzo di superare la loro frammentazione come popolo e di perseguire agende nazionali anziché locali. L’insieme delle prove suggerisce che l’Intifada dell’Unità del 2021 è stata un presagio piuttosto che un’anomalia.

Una volta che Abbas sarà uscito di scena, cosa che a mio avviso non potrà avvenire abbastanza presto, e dato che Israele non vede più la necessità che una controparte palestinese firmi uno strumento di resa, e dato che la maggior parte dei palestinesi vede l’Autorità Palestinese come un’estensione del occupazione piuttosto che legittima rappresentanza dei propri interessi, sembra improbabile che l’Autorità Palestinese possa sopravvivere in una forma riconoscibile nonostante i migliori sforzi di Stati Uniti e Unione Europea per preservarla per ragioni proprie.

Da diversi anni sostengo che quando inizierà la successione Israele probabilmente promuoverà un modello in cui le diverse concentrazioni di popolazione palestinese – Hebron-Betlemme, Ramallah, Gerico, Nablus-Salfit-Jenin, Qalqilya-Tulkarm – saranno amministrate da una serie di capi locali, persone come Muhammad Dahlan, su cui si può fare affidamento per eseguire i suoi ordini ma che hanno la capacità di creare sostegno locale. In assenza di alternative praticabili e con la frammentazione come priorità, Gaza rimarrebbe sotto il dominio di Hamas. Eppure, anche questo modello, una versione regionale delle fallite Leghe di Villaggio degli anni ’80, potrebbe rivelarsi sgradevole ai pazzi che attualmente gestiscono il manicomio israeliano. Si tratta di forze che si agitano per un’annessione formale e totale e anche di più, e che grazie all’inesorabile spostamento a destra della società israeliana,

Ma Israele è solo un fattore, certamente molto potente e centrale, nell’equazione. Inutile dire che la sua agenda sarà strenuamente contrastata, non solo dai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e non solo dai palestinesi. Ciò apre nuove possibilità e opportunità, ma presenta anche nuovi pericoli. Il fatto che siamo arrivati ​​a questo punto è l’eredità di tre decenni di Oslo. Pagine Esteri

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo 30 ANNI ACCORDO OSLO. “Un disastro per i palestinesi con danni andati oltre ogni previsione” proviene da Pagine Esteri.



PRIVACYDAILY


N. 159/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Il vice commissario per la protezione dei dati ha incontrato la Football Association of Ireland in merito alle preoccupazioni sulla registrazione dei dati dei passaporti e delle foto dei bambini. Alcune società calcistiche hanno dichiarato di non essere soddisfatte del nuovo sistema di registrazione dei giocatori introdotto in... Continue reading →


Non basta che il numero dei morti in mare abbia superato quello catastrofico del 2017, non basta che fra questi almeno 300 siano bambini, non basta che in più


How Data Protection Authorities are De Facto Regulating Generative AI


The Istanbul Bar Association IT Law Commission published Dr. Gabriela Zanfir-Fortuna’s article, “How Data Protection Authorities are De Facto Regulating Generative AI,” in their August monthly AI Working Group Bulletin, “Law in the Age of Artificial Intel

The Istanbul Bar Association IT Law Commission published Dr. Gabriela Zanfir-Fortuna’s article, “How Data Protection Authorities are De Facto Regulating Generative AI,” in their August monthly AI Working Group Bulletin, “Law in the Age of Artificial Intelligence” (Yapay Zekâ Çağinda Hukuk).

Generative AI took the world by storm in the past year, with services like ChatGPT becoming “the fastest growing consumer application in history.” For generative AI applications to be trained and function immense amounts of data, including personal data, are necessary. It should be no surprise that Data Protection Authorities (‘DPAs’) were the first regulators around the world to take action, from opening investigations to actually issuing orders imposing suspension of the services where they found breaches of data protection law.

Their concerns span from the lack of a justification (a lawful ground) for processing personal data used for training the AI models, lack of transparency about the personal data used for training, and about how the personal data collected while users are interacting with the AI service is used, lack of avenues to exercise data subject rights such as access, erasure, and objection, impossibility to exercise the right of correcting inaccurate personal data when it comes to the output generated by such AI services, insufficient data security measures, unlawfully processing sensitive personal data and children’s data, to not applying data protection by design and by default.

Global Overview of DPA Investigations into Generative AI

Defined broadly, DPAs are supervisory authorities vested with the power to enforce comprehensive data protection law in their jurisdictions. In the past six months, as the popularity of generative AI was growing among consumers and businesses around the world, DPAs started opening investigations into how the providers of such services are complying with legal obligations related to how personal data are collected and used, as provided in their respective national data protection law. Their efforts are focusing currently on OpenAI as the provider of ChatGPT. Only two of the investigations have resulted until now in official enforcement action, be it preliminary, in Italy and South Korea. Here is a list of known open investigations, their timeline, and key concerns:

  • The Italian DPA (Garante) issued an emergency order on 30 March 2023, to block OpenAI from processing personal data of people in Italy. The Garante laid out several potential violations of provisions of the General Data Protection Regulation (‘GDPR’), including lawfulness, transparency, rights of the data subject, processing personal data of children, and data protection by design and by default. It lifted the prohibition a month later, after OpenAI announced changes as required by the DPA. An investigation on substance is still ongoing.
  • In the aftermath of the Italian order, the European Data Protection Board created a task force to “foster cooperation and exchange information” in relation to handling complaints and investigations into OpenAI and ChatGPT at EU level, on 13 April 2023.
  • The Federal Office of the Privacy Commissioner (OPC) of Canada announced on 4 April 2023, that it has launched an investigation into ChatGPT following a complaint that the service is processing personal data without consent. On 25 May, the OPC announced that it will investigate ChatGPT jointly with the provincial privacy authorities of British Columbia, Quebec, and Alberta, expanding the investigation to also look into whether OpenAI has respected obligations related to openness and transparency, access, accuracy, and accountability, as well as purpose limitation.
  • The Ibero-American Network of DPAs, reuniting supervisory authorities from 21 Spanish and Portuguese-speaking countries in Latin America and Europe, announced on 8 May 2023 that it initiated a coordinated action in relation to ChatGPT.
  • Japan’s Personal Information Protection Commission (PPC) published a warning issued to OpenAI on 1 June 2023 which highlighted it should not collect sensitive personal data from users of ChatGPT or other persons without obtaining consent, and it should give notice in Japanese about the purpose for which it collects personal data from users and non-users.
  • The Brazilian DPA announced on 27 July 2023 that it has started an investigation into how ChatGPT is complying with the Lei Geral de Proteção de Dados (LGPD) after receiving a complaint, and after reports in the media arguing that the service as provided is not compliant with the country’s comprehensive data protection law.
  • The US Federal Trade Commission (FTC) has opened an investigation into ChatGPT in July 2023 to see whether its provider has engaged in “unfair or deceptive privacy or data security practices or engaged in unfair or deceptive practices relating to risks of harm to consumers” in violation of Section 5 of the FTC Act.
  • The South Korean Personal Information Protection Commission (PIPC) announced on 27 July 2023 that it imposed an administrative fine of 3.6 million KRW (approximately 3,000 USD) against OpenAI for failure to notify a data breach in relation to its payment procedure. At the same time, the PIPC issued a list of instances of non-compliance with the country’s Personal Information Protection Act related to transparency, lawful grounds for processing (absence of consent), lack of clarity related to the controller-processor relationship, and issues related to the absence of parental consent for children younger than 14. The PIPC gave OpenAI a month and a half, until 15 September 2023, to bring the processing of personal data into compliance.

This survey of investigations into how a generative AI service provider is complying with data protection law in jurisdictions around the world reveals significant commonalities among their legal obligations and how they are applicable to processing of personal data through this new technology. There is also overlap among concerns that DPAs have about generative AI’s impact on the rights of people in relation to their personal data. This provides good ground for collaboration and coordination among supervisory authorities as regulators of generative AI.

G7 DPAs Issue Statement on Generative AI, Distilling Key Data Protection Concerns Across Jurisdictions

In this spirit, the DPAs of the G7 members adopted in Tokyo, on 21 June 2023, a Statement on generative AI which lays out their key areas of concern related to how the technology processes personal data. The Commissioners started their statement by acknowledging that “there are growing concerns that generative AI may present risks and potential harms to privacy, data protection, and other fundamental human rights if not properly developed and regulated.”

The key areas of concern highlighted in the Statement considered the use of personal data at various stages of developing and deploying AI systems, including a focus on datasets used to train, validate, and test generative AI models, the interactions of individuals with generative AI tools and also the content generated by them. For each of these stages, the issue of a lawful ground for processing was raised. Security safeguards against inverting a generative AI model to extract or reproduce personal data originally processed in data sets used to train the model were also added as a key area of concern, as well as putting in place mitigation and monitoring measures to ensure personal data generated through such tools are accurate, complete and up-to-date, free from discriminatory, unlawful, or otherwise unjustifiable effects.

Other areas of concern mentioned were transparency to promote openness and explainability; production of technical documentation across the AI development lifecycle; technical and organizational measures in the application of the rights of individuals such as access, erasure, correction, and the right not to be subject to solely automated decision-making that has a significant effect on the individual; accountability measures to ensure appropriate levels of responsibility across the AI supply chain; and limiting collection of personal data to what is necessary to fulfill a specified task.

A key recommendation spelled out in the Statement, but also emerging from the investigations above, is for developers and providers to embed privacy in the design, conception, operation, and management of new products and services that use generative AI technologies, and to document their choices in a Data Protection Impact Assessment.


fpf.org/blog/how-data-protecti…