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[ebook] Confini di classe


Autrice: Lea Ypi
Titolo: Confini di classe – Diseguaglianze, migrazione e cittadinanza nello stato capitalista
Editore: Feltrinelli
Altro: ISBN ebook 9788858863008; ISBN carta 9788807091957; ebook: 284KB; traduzione di Eleonora Marchiafava; I ed. digitale 2025; genere: saggistica, filosofia politica; ebook: 6,99€; carta: 10,00€

Voto: 7/10

Il piccolo volumetto comprende tre saggi sul tema immigrazione. Questa la mia reazione alla fine della lettura.

Spoilerando un po’ e semplificando molto, la tesi di Ypi è che sul problema dell’immigrazione stiamo prendendo tutti un abbaglio, ma soprattutto la sinistra ha perso completamente la bussola. L’immigrazione non porterebbe un problema culturale invalicabile e nemmeno toglierebbe risorse allo Stato ospitante (è di solito vero il contrario), ma evidenzierebbe le disuguaglianze e le ingiustizie dello Stato capitalista. Mentre la destra fa di tutto per rendere queste ingiustizie filosoficamente accettabili, la sinistra segue filosofie di multiculturalismo e di solidarietà internazionale che non fanno altro che alimentare queste ingiustizie. Gli elettori hanno paura di perdere i propri privilegi, nessuno li guida per estenderli e renderli più solidi, la sinistra perde voti. La soluzione sarebbe tornare alla lotta di classe. Gli oppressi si devono unire indipendentemente dalla loro origine, cultura e nazionalità e reclamare un mondo migliore. Qualcosa si muove (i movimenti ambientalisti sono su questa linea, hanno una visione svincolata dall’appartenenza a etnie, culture e nazionalità), ma manca ancora una massa critica.

Se questa cosa vi ricorda Marx, non siete fuori strada. È molto citato nel breve saggio e, fra le altre cose, Ypi insegna la sua filosofia politica alla London School of Economics.

#confiniDiClasse #filosofia #filosofiaPolitica #immigrazione #leaYpi #libro #politica #recensione #sinistra


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presente pignanza con aggiornamenti stellari ci porta al futuro sempre più conifero (aggiornamenti Pignio)


Nonostante il corrente clima della mia terra ormai sia talmente tanto seccante da portare quasi difficoltà a respirare, figurarsi esistere (…nonostante sia un clima umido, che assurdo paradosso), stranamente in questo agosto non sto scadendo troppo nel rotting… e, infatti, piano piano il Pignio (che, manco a farlo apposta, sotto sotto in questo periodo dell’anno ci sta benissimo, ricordando le pinete a mare insomma) sta ancora crescendo, e ad ora credo sia tipo in quello stato perfettamente a metà tra la goduria infinita data dall’idea passata del primo rilascio, e la cristallizzazione definitiva come prevista da una versione finale più futura che inglobi tutto quello che deve essere necessario per godere non solo infinitamente, ma sul serio… 😤

Quindi eh eh… ehh boh. Nonostante io non abbia ancora completamente sistemato le robe di multi-utente, e in generale mancano ancora diverse cose relative ad un uso più da social network (per copiare Pinterest proprio per benino, insomma), le funzioni generali sono già di livello pazzo: feed Atom (in uscita) messo a punto, OCR automatico per le immagini tramite Tesseract (…nonostante faccia assolutamente schifo su foto con font strani o colori merdosi, purtroppo, ed è tutto dire che sia comunque la libreria open-source di OCR che funziona meglio al mondo), il salvataggio dei video che ora funziona benewow… (Ci sono poi anche miglioramenti generali sull’interfaccia, tipo che ho migliorato ancora un po’ le pagine di gestione e visualizzazione, oltre ad aver aggiunto la localizzazione in italiano oltre che in inglese… ma queste cose puntualmente quando ci sono non vengono apprezzate, e quando mancano invece arrivano i reclami, di utenti per giunta mai paganti…) 😻

Però, il pezzo proprio grosso ora sono i nuovi tipi di elementi supportati, perché con questi si passa davvero da “ma che è, Pinterest senza glitch?” a “wow, o’ Pign!!!“… perché per foto e video sono bravi tutti, ma i file audio molti se li dimenticano, i post di puro testo ma con immagini di sfondo non esistono da nessuna parte (…se non su Facebook, dal quale ancora non ho finito di copiare cose), i documenti (PDF) nessuno sa come visualizzarli, e i modelli 3D sono praticamente inconcepibili… e invece il Pignio ha già tutto ciò, ora!!! (E le faville arriveranno a breve.) Non ho finito finito, c’è ancora lavoro da fare per perfezionare queste categorie, ma intanto io delivero (…e solo per stavolta risparmio il mondo dal raccontare l’irreale trafila dell’orrore che renderizzare testo potenzialmente non-ASCII sotto forma di immagini lato server implica, ma il README ne fa indirettamente accenno). 💣
Schermata Pignio con i nuovi tipi di post visibili, e schermata creazione/modifica risistemata
Ecco però, a proposito di cose fatte a metà… Per questi nuovi elementi, che potrebbero in alcuni casi non avere proprio una miniatura visiva (come molti file audio), o per cui comunque non ho ancora potuto aggiungere una generazione automatica, ho aggiunto semplici emoji come icone segnaposto nell’interfaccia, che comunque è basata su queste liste a griglia e su elementi che hanno una certa presenza fisica visuale… e il fatto tremendo è che ho accidentalmente scatenato delle vibe che mi sembrano irrealmente buffe. Non tanto il foglio di carta per indicare i documenti, che non è nulla di strano, e nemmeno le scatole per indicare modelli 3D, che non è troppo una forzatura nonostante faccia ridere pensare che quella è una scatola che contiene l’oggetto 3D, che quindi si apre cliccandoci, rivelando l’oggetto… quanto le note musicali per i file audio, e qui ormai capisco che sono completamente da buttare. 🤧
Schermata musica come descritta
Io giuro che, per qualche motivo evidentemente inspiegabile, pure a distanza di 2 giorni, ancora mi viene assolutamente da ridere a guardare (ma anche solo ad immaginare, poverannuj!!!) questa schermata. Semplicemente i controlli di riproduzione sotto, e l’emoji della nota musicale sopra che funge da icona… non c’è una ceppa di buffo, non c’è un cazzo da ridere, eppure il mio cervello non ne vuole sapere! E non è nemmeno il brano del caso che magari è meme o che; è proprio che la pura idea di questo fatto mi fa pisciare. Boh, o sarà il pacchetto emoji di Windows 10 che è particolarmente buffo a vedersi, o altrimenti ormai è ufficiale che anche il mio senso dell’umorismo, così come altri tratti della mia personalità, si è corrotto… ma ormai l’unica cosa importante è che non si corrompa l’archivio del mio Pignio!!! (E pure se succede, di quello ho frequenti backup.) 🤗

#Dev #devlog #Pignio

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asemics & voice : en ‘tan-cam-pan-te’, revista de poesía sonora, n. 3, 2017: “la palabra enrevesada”


El discurso asémico, el discurso glosolálicoarchive.org/details/TANCAMPANT…

#asemic #JuanAngelItaliano #laPalabraEnrevesada #poesiaSonora #revista #scritturaAsemica #TanCamPanTe

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Astrocampania organizza una visita guidata su prenotazione presso l’Osservatorio Astronomico S. Di Giacomo in Agerola, un viaggio tra le nebulose della Via Lattea nel cielo dell’alta costiera amalfitana.

Un coinvolgente spettacolo al Planetario per scoprire i segreti delle stelle, emozionanti osservazioni delle zone di formazione stellare della Via Lattea con l’ausilio di un potente telescopio da campo, il tutto sotto la guida esperta dei divulgatori di Astrocampania.

[…]

oasdg.astrocampania.it/2025/08…


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‘bit’ n. 2, maggio 1967 (con un intervento di gastone novelli)


archive.org/embed/bit-1

“bit” n. 2, mag. 1967
archive.org/details/bit-1/mode…

Gastone Novelli, sul linguaggio:

“[…] Ha un senso fare uso di certi gruppi di immagini, o di segni conosciuti quando sono necessari al proprio linguaggio, del resto ogni forma (segno, immagine) cambia significato secondo il sistema in cui si trova integrata. Ecco perchè credo che l’esprimersi sia esplorazione-rappresentazione, anche recupero di frammenti di civiltà (i frammenti sono fruibili per la estrema facilità di equivocare i loro significati), recupero di segni, di lettere, suoni e colori, e organizzazione di tutti questi elementi secondo una regola interna ad un proprio sistema. Un continuo, per così dire, processo di erezione (gioco) che non dipende da nessun rapporto esterno individuabile, nè dalla quantità o qualità dei fruitori delle opere che si vanno compiendo.
[…]
La geometria stessa non è attendibile quando i suoi aspetti perdono funzioni e significati se li si trasferisce in un diverso contesto. Questa indeterminatezza conta, giustifica il viaggio”.

(p. 4)


n.b.: nei dati di archiviazione su archive.org il numero di “bit” viene indicato come “3”, cifra che campeggia nella prima pagina visibile sopra, tuttavia il colophon dichiara che si tratta del n. 2:

colophon della rivista "bit", n. 2, maggio 1967

#1967 #colori #frammenti #GastoneNovelli #gioco #gruppiDiImmagini #Lettere #linguaggio #segni #segniConosciuti #segno #sulLinguaggio #suoni

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elementi da una retrospettiva di marina apollonio


youtu.be/cOrIwMJ3WF4?si=AVhk3O…

#art #arte #arteCinetica #ArteOptical #cerchio #cineticArt #MACOFilm #MariannaGelussi #MarinaApollonio #mostra #opticalArt #PeggyGuggenheim #PeggyGuggenheimCollection #retrospettiva

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Gaza, non basta più l’indignazione


Le notizie che giungono dalla Striscia di Gaza sono sempre più drammatiche. Prosegue l’occupazione dell’esercito israeliano, ma si muore anche di fame, visto il blocco degli aiuti umanitari.

Non ci si deve abituare a tutto ciò, non si deve accettare che non ci siano alternative.

I Catanesi Solidali con il Popolo Palestinese non rinunciano alla denuncia e alla mobilitazione. Immediato […]

Leggi il resto: argocatania.it/2025/08/13/gaza…

#Catania #Gaza #manifestazioneDiSolidarietà #Palestina


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UFC e Paramount: più soldi nei bonus, incognite sui pay-per-view (prime indiscrezioni di Dana White)


Il nuovo accordo da 7,7 miliardi di dollari tra UFC e Paramount non ha ancora un quadro chiaro su quanto farà guadagnare realmente i fighter, ma Dana White ha confermato almeno un punto: i bonus aumenteranno. “Non ho ancora commenti definitivi, dobbiamo

Il nuovo accordo da 7,7 miliardi di dollari tra UFC e Paramount non ha ancora un quadro chiaro su quanto farà guadagnare realmente i fighter, ma Dana White ha confermato almeno un punto: i bonus aumenteranno.

“Non ho ancora commenti definitivi, dobbiamo ancora metterci al tavolo e definire tutto,” ha detto martedì dopo DanaWhiteContenderSeries 77. “È agosto, abbiamo tempo fino a gennaio per sistemare le cose. Ma la risposta facile? I bonus saliranno. E sarà grosso. Solo la cifra che i bonus portano a un fighter, complessivamente, vale milioni di dollari.”


White non ha indicato di quanto cresceranno i premi, ma il nuovo schema entrerà in vigore dal primo evento di gennaio 2026.
Dal 2013, i quattro “performance bonus” assegnati a ogni evento UFC sono rimasti fissi a 50.000 dollari l’uno, con rarissime eccezioni.

Mi fa un po’ ridere che “i bonus varranno milioni”… quando ha appena chiuso un accordo da Miliardi.


Il nodo pay-per-view points


Tradizionalmente, i campioni UFC hanno incassato una percentuale delle vendite pay-per-view.
Con la fine del modello PPV nell’era Paramount, resta aperta la domanda su cosa accadrà a queste quote, soprattutto per le stelle maggiori.

White assicura che non sarà una rivoluzione caotica:

“Non è una ristrutturazione massiccia. In UFC abbiamo persone sveglie nella contabilità che sapranno far funzionare tutto. È un bene per i fighter. Paramount ha fatto un investimento enorme ed è completamente dentro al progetto.”


Il presidente UFC sottolinea anche la spinta promozionale che arriverà dal gruppo:

“I fighter avranno un’enorme esposizione grazie alle reti che Paramount possiede. Gente aggressiva e intelligente che costruirà una grande media company.”


Sono sicuro che una piattaforma del genera sia di grande esposizione ma quando potranno goderne i fghter se poi non possono avere gli sponsor che vogliono sul ring?

Questa voce è stata modificata (1 mese fa)

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Anthony Hernandez vola a Chicago… ma non sa bene perché


Il mistero si infittisce: Anthony Hernandez (15-2 MMA, 9-2 UFC) non ha ancora capito quali siano le vere intenzioni della UFC nel mandarlo a Chicago questa settimana. Sabato scorso, all’UFC on ESPN 72 al UFC Apex di Las Vegas, Hernandez ha messo in scena

Il mistero si infittisce: Anthony Hernandez (15-2 MMA, 9-2 UFC) non ha ancora capito quali siano le vere intenzioni della UFC nel mandarlo a Chicago questa settimana.

Sabato scorso, all’UFC on ESPN 72 al UFC Apex di Las Vegas, Hernandez ha messo in scena una vittoria netta, chiudendo Roman Dolidze (15-4 MMA, 9-4 UFC) con una sottomissione dominante nel main eventi.

A fine match, ha svelato che l’organizzazione lo farà volare fino allo United Center per assistere all’UFC 319 di questo sabato: il match per il titolo pesi medi tra il campione Dricus du Plessis (23-2 MMA, 9-0 UFC) e l’imbattuto Khamzat Chimaev (14-0 MMA, 8-0 UFC).

Il quadro della divisione è affollato: Nassourdine Imavov affronterà – FORSE, vedi questo articolo recente – Caio Borralho il 6 settembre a Parigi, mentre Reinier de Ridder ha superato Robert Whittaker lo scorso mese all’UFC on ABC 9. Insomma, ci sono diversi nomi in corsa per la prossima title shot.

Ma allora, perché Hernandez è stato invitato?

«Non ne ho la minima idea, ma lo scoprirò. Spero sia qualcosa di buono. Essere lì, a ridosso del match, credo sia un buon segnale».



UFC 319 – Borralho in allerta: “Qualcosa non torna con du Plessis o Chimaev”


Caio Borralho doveva pensare solo a UFC Paris, dove il 6 settembre affronterà Nassourdine Imavov.
Invece, si è ritrovato su un volo per Chicago, pronto a fare il peso e diventare backup per il main event di UFC 319: Dricus du Plessis vs Khamzat Chimaev.

Lui stesso ammette di essere perplesso:

“All’inizio avevano detto che non ci sarebbe stato un backup. Poi, all’improvviso, mi hanno chiamato. Non hanno detto chi dei due potesse avere un problema. Non so cosa stia succedendo, ma qualcosa c’è.”

Il sospetto Chimaev


Secondo Borralho, la logica porterebbe a pensare a Chimaev:

“Ha saltato match in passato, si allena come un matto e si fa male spesso. Però di recente ho sentito che sta bene, senza infortuni seri. Du Plessis? Non so, non posta quasi nulla sui social.”

Due pesi in tre settimane


Borralho si trova in una situazione insolita: fare il taglio peso per l’ottagono di Chicago, e rifarlo tre settimane dopo per Parigi.

“Di solito arrivo a fight week sui 220 lb (99 kg). Ora sto già intorno alle 205 lb (93 kg), e oggi dopo l’allenamento ero 198 lb (90 kg). Meglio stare più leggero.”


Il vantaggio? Avrà la sua squadra al completo: Carlos Prates, Karine Silva e Michal Oleksiejczuk combatteranno tutti a UFC 319.


Obiettivo chiaro: la cintura


“Il mio sogno è diventare campione del mondo. Se devo rischiare e fare due tagli peso in tre settimane, lo faccio. Non sono qui per essere uno qualunque. Voglio il titolo, e voglio una storia da raccontare ai miei figli e ai miei nipoti.”


Per ora, resta a disposizione. Chicago potrebbe vederlo nell’ottagono sabato sera… o semplicemente seduto a bordo gabbia, pronto a saltare dentro se qualcosa va storto.



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Meteorite caduto in Niger venduto all’asta per 4,3 milioni di US$.


[:it]Il pezzo di roccia al centro di una controversia internazionale.[:]

Nei giorni scorsi ha destato stupore la notizia della vendita all’asta di un grosso meteorite marziano caduto in Niger e finito, chissà come, negli USA


Il 16 luglio, la casa d’aste Sotheby’s ha attirato l’attenzione internazionale con la vendita di un meteorite marziano per la somma straordinaria di 4,3 milioni di dollari. Questo pezzo astronomico, noto come NWA 16788, pesa 24,7 chili, misura quasi 40 centimetri e rappresenta il più grande frammento di Marte mai scoperto sulla Terra. Tuttavia, la vendita ha sollevato interrogativi legittimi riguardo alla sua provenienza e alle modalità attraverso cui è giunto a New York, specialmente considerando il fatto che il meteorite è stato trovato nel 2023 in Niger.
Meteorite marziano trovato in NigerMeteorite marziano trovato in Niger
Il governo nigerino ha prontamente avviato un’indagine per determinare se il meteorite sia stato esportato illegalmente. Nonostante le rassicurazioni di Sotheby’s sulla regolarità della documentazione, la questione rimane complessa. Il Niger, parte della vasta regione del Sahara, è noto per essere un terreno fertile per i “cacciatori di meteoriti”, attirando collezionisti e commercianti, a causa delle sue condizioni ambientali favorevoli alla conservazione di rocce extraterrestri.

Nella storia dei meteoriti, solo circa 400 esemplari su oltre 77.000 scoperti hanno avuto origine da Marte. La loro estrazione dalla superficie marziana è un processo affascinante; questi corpi celesti si sono staccati dal pianeta rosso a causa di impatti significativi da parte di comete o asteroidi. La successiva caduta sulla Terra porta con sé questioni di proprietà e cultura che sono tutt’altro che risolte.

La mancanza di leggi internazionali chiare sulla proprietà dei meteoriti crea zone grigie in cui la legalità del commercio può essere ambigua. Gli esperti, come il paleontologo statunitense Paul Sereno, hanno messo in guardia riguardo a possibili violazioni delle leggi sul patrimonio culturale e naturale. Infatti, la legislazione varia notevolmente da paese a paese: mentre in alcune nazioni i meteoriti trovati appartengono al primo scopritore, in altre sono considerati beni pubblici.

Nel caso specifico del Niger, il governo ha riconosciuto l’assenza di leggi precise sui meteoriti, citando precedenti come quello del Marocco, che ha richiesto la restituzione di meteoriti trovati nel suo territorio. La problematica viene ulteriormente complicata dall’interesse commerciale crescente verso i meteoriti, che sfida non solo le normative nazionali ma anche quelle internazionali.

La discussione sui diritti di proprietà dei meteoriti si estende a storie recenti, come quella di due geologi svedesi che, dopo aver trovato un meteorite, lo hanno donato a un museo per evitare il trasferimento nel mercato nero. Tuttavia, un discendente di una famiglia nobiliare ha contestato la decisione sostenendo diritti di proprietà preesistenti sul terreno in cui il meteorite era stato rinvenuto, vincendo in appello.

In questo contesto, il caso del meteorite NWA 16788 non rappresenta solo un’eccezionale transazione commerciale, ma evidenzia anche una rete complessa di questioni legali e morali che circondano il collezionismo di reperti extraterrestri. Mentre Sotheby’s sostiene di aver agito secondo procedure standard, l’appello del Niger e le dichiarazioni di esperti sollevano interrogativi sulla legittimità del commercio di materiali così significativi per l’identità culturale e scientifica di una nazione.

In conclusione, la vendita di questo meteorite non è solo un evento commerciale di valore inestimabile, ma una rappresentazione tangibile delle sfide globali legate alla proprietà, alla cultura e all’etica nell’era della scoperta spaziale. La questione della restituzione di reperti provenienti da territori sovrani rimarrà cruciale nella discussione sulle norme internazionali riguardanti il patrimonio culturale e naturalistico.

Fonte: ilpost.it
Questa voce è stata modificata (3 settimane fa)

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Craig Jone Invitational 2: Tutto quello che avreste voluto sapere ma non avete osato chiedere


Il Craig Jones Invitational (CJI) è una competizione di Brazilian Jiu-Jitsu che riunisce alcuni tra i migliori grappler del pianeta, con in palio un montepremi da 1 milione di dollari per categoria. L’edizione 2025 si terrà il 30 e 31 agosto a Las Vegas,

Il Craig Jones Invitational (CJI) è una competizione di Brazilian Jiu-Jitsu che riunisce alcuni tra i migliori grappler del pianeta, con in palio un montepremi da 1 milione di dollari per categoria.

L’edizione 2025 si terrà il 30 e 31 agosto a Las Vegas, Nevada, presso il Thomas & Mack Center. L’evento porta la firma di Craig Jones, membro del B-Team Jiu-Jitsu e ormai figura centrale nel BJJ moderno.

Informazioni principali


  • Quando:
    • Giorno 1 – Sabato 30 agosto 2025
    • Giorno 2 – Domenica 31 agosto 2025
      (Gli orari precisi verranno annunciati a breve)


  • Dove: Thomas & Mack Center, Las Vegas (Nevada, USA)
  • Biglietti:
    • Da 75$ per il pubblico USA [link acquisto USA]
    • Vendita internazionale [link acquisto fuori USA]


  • Diretta streaming: Canale YouTube del B-Team Jiu-Jitsu (gratuito) a partire dal 30 agosto.


Dove Vederlo?


Su Youtube, Su Facebook.

Formato e squadre CJI 2


L’evento seguirà un formato a squadre con otto team, ciascuno composto da cinque atleti divisi per categoria di peso.

New Wave / Kingsway Jiu-Jitsu


Coach: John Danaher

-66kg: Dorian Olivarez

-77kg: Mica Galvao

-88kg: Giancarlo Bodoni

-99kg: Luke Griffith

+99kg: Dan Manasoiu

B-Team Jiu-Jitsu


Coach: Nicky Ryan

-66kg: Ethan Crelinsten

-77kg: Jozef Chen

-88kg: Chris Wojcik

-99kg: Nicky Rodriguez

+99kg: Victor Hugo

10th Planet


Coach: Eddie Bravo

-66kg: Geo Martinez

-77kg: Alan Sanchez

-88kg: PJ Barch

-99kg: Ryan Aitken

+99kg: Kyle Boehm

ATOS Jiu-Jitsu


Coach: Andre Galvao

-66kg: Diego ‘Pato’ Oliveira

-77kg: Ronaldo Junior

-88kg: Lucas ‘Hulk’ Barbosa

-99kg: Kaynan Duarte

+99kg: Felipe Pena

Pedigo Submission Fighting


Coach: Heath Pedigo

-66kg: Max Hanson

-77kg: Dante Leon

-88kg: Jacob Couch

-99kg: Michael Pixley

+99kg: Brandon Reed

Team Misfits Australasia


Coach: Lachlan Giles

-66kg: Fabricio Andrey

-77kg: Kenta Iwamoto

-88kg: Lucas Kanard

-99kg: Declan Moody

+99kg: Belal Etiabari

Team Misfits Europe


Coach: Faris Ben-Lamkadem

-66kg: Owen Jones

-77kg: Pawel Jaworski

-88kg: Paul Ardila

-99kg: Charles Negromonte

+99kg: Marcin Maciulewicz

Team Misfits Americas


Coach: Greg Souders

-66kg: Gavin Corbe

-77kg: Deandre Corbe

-88kg: Elijah Dorsey

-99kg: Taylor Pearman

+99kg: Pat Downey

CJI 1 Torneo Femminile


CJI 2 inaugura la prima divisione femminile: un tabellone open-weight (nessuna categoria) a quattro atlete, con un premio da 100.000?$ per la vincitrice.

  • Adele Fornarino
  • Helena Crevar
  • Ana?Carolina?Vieira
  • Sarah Galvão


SuperFight


Superfight: Craig Jones vs Gable Stevenson (oro olimpico di wrestling)

Regolamento CJI


Il format del CJI punta a incentivare azione e tentativi di sottomissione, differenziandosi dalle competizioni BJJ più tradizionali (come l’ADCC).

AspettoDettagli
Durata match3×5 min (round regolari), 5×5 min (finali), 1 min di pausa
Sistema punteggio10-point must system, round-by-round
SottomissioneChiude il match immediatamente
Tecniche legaliTutte le strangolamenti (eccetto tracheali), tutte le leve, “can opener”, Twister, Full Nelson
SlamConsentito solo per uscire da una sottomissione
Tecniche vietateNiente spiking, colpi, gouging, tirare capelli, ecc.
Criteri giudizioAggressività, azione e tentativi di submission prioritari
Area di garaPit in stile Karate Combat

Risultati CJI 1 (2024)


  • +80 kg: Nicky Rodriguez (B-Team) – 1M $ – Tutti i match vinti per rear naked choke.
    Finale contro Felipe Andrew.
  • -80 kg: Kade Ruotolo (Atos) – 1M $ – Finale contro Levi Jones-Leary.
    La semifinale Kade Ruotolo vs Andrew Tackett è considerata “uno dei miglior match di grappling di sempre”.
  • Partecipanti: 16 per categoria, 10K $ garantiti a tutti solo per competere.
  • Visualizzazioni: oltre 3,5 milioni su YouTube (Day 1 + Day 2).

Link per vedere tutto lo streaming:


Origini e filosofia


Craig Jones ha creato il CJI per offrire più opportunità economiche agli atleti di BJJ.
A confronto:

  • Vincitore ADCC = 10K $
  • Partecipante CJI = 10K $ solo per entrare sul tatami

L’evento ha sfidato direttamente l’ADCC, persino organizzandosi lo stesso weekend e sottraendo atleti e pubblico.

Il CJI è gestito come evento non profit tramite la Fair Fight Foundation, che promuove il jiu-jitsu in comunità svantaggiate.

Sul podcast di Joe Rogan, Craig ha rivelato che il finanziamento iniziale di 3M $ è arrivato da un benefattore anonimo. Le voci spaziano da crypto casino a Mark Zuckerberg — mai confermate.


Opinione


Il CJI è più di una competizione: è spettacolo, marketing e provocazione strategica.
Craig Jones si conferma non solo atleta d’élite, ma anche imprenditore del grappling.

La domanda aperta resta:

  • Questa formula “show + prize pool gigante” farà crescere il BJJ o rischia di snaturarlo?
Questa voce è stata modificata (1 mese fa)

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Partigiani stranieri in Val Taleggio


Uno scorcio di Val Taleggio (BG) – Fonte: Mapio.net

Nei primi mesi del 1944 l’iniziativa più rilevante in Val Taleggio è rappresentata dal sorgere di una nuova formazione [partigiana] composta di ex prigionieri. Essa è capeggiata da un serbo, Zaric Boislau, e nelle fonti archivistiche viene indicata col nome di “Legione Straniera”. La formazione è collegata agli organismi clandestini lecchesi, si occupa di organizzare il transito degli ex prigionieri, degli ebrei e dei politici verso la Svizzera, ma soprattutto tenta di prendere contatto e di coordinare i gruppi di ex prigionieri dislocati nella bergamasca. La documentazione esistente lascia l’impressione che il gruppo, pur riconoscendo la necessità di uno stretto collegamento con i centri resistenziali italiani, volesse garantire agli stranieri rimasti in zona un’ampia autonomia di movimento.
In marzo, aprile la “Legione Straniera” aveva un suo distaccamento a Pizzino (15/20 uomini) ed era collegata con tutti gruppi di ex prigionieri esistenti in valle (a Vedeseta, Olda, ecc.). Non pare di dover sottovalutare l’importanza della “Legione Straniera”; essa infatti riscuoteva la fiducia degli alleati al punto che il 3 aprile poté ricevere un primo aviolancio (parzialmente intercettato dai fascisti) e più tardi, ai primi di maggio, accolse la missione “Emanuele” (2 maggio) accompagnata da un lancio di armi, munizioni e generi di equipaggiamento.
La formazione inoltre era temuta dai fascisti che già dal gennaio/febbraio 1944 cercano di indebolirla e, di screditarne l’operato presso i valligiani. Organizzano una banda di falsi partigiani, la “Banda Thoinsovich”, col compito di snidare ex prigionieri, renitenti e disertori traendoli in inganno. L’iniziativa ottiene qualche risultato nella zona della Val Brembana, ma non è in grado di incidere in modo profondo in Val Taleggio. Qui la “Legione straniera” raccoglie il consenso anche di alcuni giovani del luogo, che in precedenza erano collegati ai gruppi di “Penna Nera”. L’espansione del gruppo raggiunge il culmine a maggio, dopo il lancio della missione alleata. In questa fase i collegamenti con i centri resistenziali lecchesi e milanesi sembrano più organici e si cominciano a progettare azioni a vasto respiro probabilmente ben collegate anche con i comandi alleati. E’ quando i vari progetti di intervento cominciano ad essere elaborati che i fascisti scoprono la rete e decidono di reprimerla con la massima decisione. Quello che temono è la possibilità che essa sfrutti a proprio vantaggio una particolare situazione creatasi allora nella bergamasca dopo l’annuncio dell’apparizione della Madonna alle Ghiaie di Bonate; anzi paventano una stretta connessione tra questo episodio che provoca lo spostamento di enormi masse di cittadini verso Bonate (e verso Ponte S. Pietro dove c’è un campo d’aviazione), e la notizia di un’azione combinata tra partigiani ed alleati volta a colpire in profondità le retrovie nazifasciste. (11)
Si badi che è proprio di quei giorni la ripresa dell’iniziativa angloamericana sulla linea Gustav, con il superamento di Cassino e con il successivo inizio dell’offensiva sul fronte di Nettuno. Così per la terza volta (se si escludono le provocazioni della “Banda Thonsovich”) la Val Taleggio deve registrare la brutale presenza delle truppe nazifasciste. L’azione è preceduta da un’accurata opera di infiltrazione che favorisce l’esito positivo dell’azione repressiva nazifascista. Il 19 maggio i tedeschi riescono a mettere le mani sull’organizzazione. Arrestati i capi ed un buon numero di esponenti del movimento, la “Legione Straniera” si sbanda e la rete clandestina subisce gravi contraccolpi specie nel lecchese. Nuovamente le forze nazifasciste riescono a colpire con estrema tempestività togliendo di mezzo un’organizzazione che trovava ampi consensi, ancor prima che essa cominci a diventare davvero pericolosa.
Ancora una volta la repressione nazifascista richiama la popolazione della Val Taleggio ai suoi calcoli, alle preoccupazioni, al timore di essere coinvolta direttamente, di vedersi intaccati i miseri mezzi di sopravvivenza, alla cautela nell’elargire la propria generosa solidarietà. Di quello che era stata la “Legione Straniera” a fine maggio resta ben poco. C’è chi (Cleto Baroni) assume temporaneamente la guida dei gruppi sparsi nelle baite e si sforza di tenerli collegati. Ma siamo a fine maggio e molte cose stanno cambiando.
Gli alleati avanzano e la convinzione che s’avvicini la fine delle ostilità dilaga. Il 25 maggio scade il bando di richiamo alle armi rivolto a tutte le classi fino a quel momento precettate, con risultati penosi. I giovani invece di rispondere alla chiamata di Salò prendono la via della montagna. Roma non tarderà a cadere. Nel mondo fascista l’aria che tira è quella della disfatta.
Nella provincia di Bergamo sia le organizzazioni clandestine centrali che quelle periferiche riprendono fiato, ma il CLN non è ancora in grado di esercitare un’influenza diretta sulle formazioni partigiane che vanno riorganizzandosi rapidamente. Chi vuol combattere o comunque organizzarsi a volte si sente frenato dall’esclusivismo di talune formazioni politiche clandestine altre volte esprime riserve preconcette contro ogni forma di presenza politica nella lotta di liberazione, ma non pertanto rinuncia a muoversi. Faticosamente si apre la strada il processo unitario.
Tra marzo e maggio si stabiliscono scambi fruttiferi tra “Penna Nera” (scomparso dalla scena nell’inverno) e gli uomini che promuoveranno nella zona di Villa d’Almè la costituzione di gruppi destinati ad aderire all’organizzazione delle Fiamme Verdi. Non è poi impossibile che, mentre in Val Taleggio si consuma l’esperienza della “Legione straniera”, Penna Nera tenga vivi i contatti con il gruppetto dei suoi fedelissimi guidati da Guglielmo (G. Locatelli). A fine maggio comunque questo gruppetto e lo stesso Penna Nera diventano in Val Taleggio il nuovo punto di aggregazione. Cleto e i superstiti della “Legione Straniera” si uniscono agli uomini di “Penna Nera”; quest’ultimo si impegna a provvedere ai loro rifornimenti e all’armamento ottenendo un lancio degli alleati ed inviando un comandante all’altezza della situazione.
All’inizio di giugno, in previsione del lancio, gli organizzatori delle Fiamme Verdi di Villa d’Almè (don Milesi e N. Mazzolà che però è su posizioni abbastanza differenziate da quelle del primo), d’accordo con Penna Nera, inviano in Val Taleggio Rino (G. Locatelli): dovrà ricevere il lancio e prendere il comando dei gruppi della Val Taleggio, cui si unirà con i suoi 15 (circa) uomini. Non a caso dunque il nuovo raggruppamento viene talvolta individuato col nome di “Fiamme Verdi della Val Taleggio”, ma si deve osservare che i tre gruppi fino al lancio tendono a conservare la loro autonomia; Cleto e gli ex prigionieri, Guglielmo e i valligiani, Rino e le sue Fiamme Verdi sono per ora uniti quasi
esclusivamente dalla previsione del lancio. Penna Nera d’altro canto non si sforza di favorire un processo di reale fusione dei gruppi. La sua visione, improntata ad un’estrema cautela, lo porta a non prendere in seria considerazione l’ipotesi di creare una vera e propria unità operativa partigiana. Egli vanta di essere stato riconosciuto dal comando superiore delle Fiamme Verdi quale comandante delle forze operanti in Valle Imagna, Brembilla e Taleggio, ma, tutto sommato, è convinto che le “bande della montagna” non possano svolgere che un ruolo subalterno nella resistenza: quello di procacciare armi allestendo e proteggendo i campi di lancio e quello di costituire una sorta di retrofronte sicuro per altri partigiani costretti ad allontanarsi dalla loro zona di operazioni. Dalle sue memorie poi traspare una concezione militare della lotta partigiana che non tien conto delle esigenze della guerriglia, ma piuttosto di quelle di una guerra di posizione. Se non esclude di portare gli uomini al combattimento, però ritiene che prima sia necessario attrezzare di adeguate difese la valle e di dotare i reparti di un armamento che li renda in grado di sopportare ogni
attacco e di difendere i paesi. Prepararsi dunque, ma intanto aspettare, è questa la sua linea di condotta ed è anche la ragione per la quale, dopo l’aviolancio del 13 giugno, egli verrà progressivamente emarginato. L’uomo che invece assume dopo il suo arrivo in valle, una posizione di primo piano, per la sua capacità d’iniziativa e per la sua dinamicità, è Rino (G. Locatelli). Egli di fatto si troverà a svolgere la funzione di comandante effettivo di un raggruppamento di uomini che si aggirava ai primi di giugno sulle 30/40 unità.

[NOTA](11) Archivio privato Micheletti – Brescia notiziari GNR. 3/6/1944: “Nella notte di venerdì 19 maggio, aerei nemici avrebbero lanciato, per mezzo di paracadute, armi pesanti, mitragliatrici e mortai con relative munizioni in località Pizzino, Vedeseta, Olda, Taleggio G [….] nelle giornate di domenica 21 e 22 sarebbero stati lanciati paracadutisti col compito di costruire una testa di ponte, dopo aver occupato di forza il campo d’aviazione di Ponte S. Pietro nelle vicinanze di Bergamo; (…) i gruppi di Pizzino, Vedeseta, Olda e Taleggio dovevano, in concomitanza, agire a viva forza su Lecco, impadronirsene ed accorrere su Bergamo in contatto con Ponte S. Pietro. L’azione principale, cioè quella dell’occupazione del campo d’aviazione di Ponte S. Pietro, sarebbe stata facilitata da un avvenimento che si ha ragione di credere diabolicamente escogitato. Infatti, nella città di Bergamo e nella provincia si era diffusa la voce di una miracolosa bambina, la quale, nelle vicinanze di Ponte S. Pietro, aveva avuto una visione celestiale con l’apparizione della Madonna che le indirizzava sul campo un raggio solare. Si può immaginare con quanta rapidità questa notizia passò di bocca in bocca e l’impressione dei bergamaschi notoriamente attaccati alla chiesa. La notizia dell’apparizione della Madonna assunse infatti proporzioni enormi e, dopo i primi annunci di miracoli avvenuti per guarigioni improvvise il concorso della gente sul posto divenne plebiscitario. La prima apparizione sarebbe avvenuta il 19 e, a detta della bambina, si sarebbe ripetuta nei giorni 20, 21 e 22. Specie nella giornata del 21 si sarebbe improvvisamente oscurato il cielo e sarebbe apparsa la Madonna col raggio di sole. La strana coincidenza delle date ha indotto le SS ad agire immediatamente, poiché erano state intuite le precise intenzioni dell’avversario, il quale, artatamente aveva manifestato intenzioni di operazioni con paracadutisti verso Premeno (Como) al fine di indirizzare colà le forze e permettere quindi ai gruppi di Vedeseta, Olda, Taleggio e Pizzino di agire su Lecco, mentre i paracadutisti avrebbero agito sul campo di aviazione di Ponte S. Pietro. Bisognava quindi prevenire e stroncare sul nascere la azione con rapidità fulminea, altrimenti il nemico sarebbe riuscito nel suo intento, perché l’affluenza della popolazione nelle adiacenze del campo di aviazione di Ponte S. Pietro era enorme, si calcola circa 100.000 persone. Se si pensa alla congestione delle strade principali e secondarie, si ha un’idea delle difficoltà che avrebbero incontrato le eventuali forze inviate a rintuzzare un lancio di paracadutisti i quali, invece, avrebbero avuto tutta la possibilità di attestarsi […..]
Maria Grazia Calderoli, Aspetti politici e militari della Resistenza taleggina. Luglio 1944-aprile 1945, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1975-1976 qui ripresa da Associazione Culturale Banlieu

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Di tragedia in tragedia


Una riflessione di Francisco Soriano: l’unica forma di poesia che ci è concessa è la tragedia

Si purificano facendosi lordi d’altro sangue, come se uno messo il piede nella mota con la mota si volesse ripulire. Ma balordo egli parrebbe ad una persona che s’avvedesse che così agisce. E poi anche rivolgono preghiere a questi simulacri, come se uno stesse con edifici a chiacchiera, non conoscendo egli affatto dèi né eroi chi sono essi davvero[1].

Profeta, enigmatico, navigatore di coscienze, veggente, viaggiatore del vuoto, immenso stratega delle luci e delle ombre, mai come oggi questo suo frammento racconta la tragedia del mondo. Le parole di Eraclito sono il paradigma dell’insensato fare degli uomini, tramortiti dal potere, accecati dall’odio, atti a perpetrare la vendetta. Sovrana è la sua poesia per frammenti, e come potrebbe essere se non frazione, divisione, allegoria, metafora e, infine, unità del tutto. In lui gli opposti si toccano, inneggiano alla forza del pensiero, laconico, pessimista, atto ultimo di salvezza e perdizione, mentre i demoni scorrazzano nelle anime degli uomini, all’impazzata, legati solo dal comune denominatore del male incarnato. Eppure bagliori fuoriescono dal labirinto architettato come l’interno di una conchiglia esamine e roteante sulla sabbia durante la risacca della vita.

Altezzoso è il pensiero quando vi è consapevolezza che l’assoluto risiede nella parte più lontana e nascosta di ogni persona: prodigiosa è la domanda perché ricerca, ottemperanza di un fine e di una morte, ma presagio forse di una vita nuova. L’intelligenza infatti è solo nel mistero e chi vuole vivere nella semplicità dei gesti quotidiani lo faccia pure, ritenendo che uno vale uno. Meschina l’esistenza dell’adagiarsi pigramente in due o tre idee fatte apposta per non soffrire di saggia perlustrazione nella realtà dell’insondato.

L’unica forma di poesia che ci è concessa è la tragedia. Il volto mai immune della sofferenza sulla bianca pietra delle città nobili del Mediterraneo, dove mai sarà sepolta l’anima di un barbaro o di un bestemmiatore contro dio. Non vi è certezza, vi è certezza, vi è la fine, è tutto perpetuo, ma fra la luce e il buio pesto esistono le ombre e in quello gli uomini definiscono la loro scelta. La tragedia si avvera, è fra di noi, dal pulpito i laidi assassini manutengoli del potere, unica vera forza del male, si accaniscono sui figli dei figli. Ascoltateli mentre uccidono, stuprano, sventrano, scannano, invocare il dio in nome della morte, cercando di purificarsi, meschini, dei loro crimini e alimentandosi delle urla di dolore e delle pene degli altri. Quanta selvaggia ossessione per la morte e il buio attanaglia questi esseri privi di un qualsiasi afflato di umana compassione, di grazia, della forza del perdono, della deflagrazione incontenibile dell’amore. Ascoltateli, quando lordi di sangue si appellano agli avi, vantandosi del gesto ancora con la lama insanguinata, elogiati e sublimati dalla vendetta che alla morte ha già condotto tutti insieme nell’inferno del mondo. Ascoltateli, da una parte e dall’altra, le loro risate, che questi balordi ci appaiono pazzi, ma così non sono se non insani animali, «come se uno messo il piede nella mota con la mota si volesse ripulire».

Nessun futuro è concesso agli aguzzini se non rotolarsi nel loro male. La tragedia illumina, chiarisce, guarda all’orizzonte e delucida i nostri quesiti. Chi è nel giusto non lo è più, chi aveva sbagliato continua a farlo nella cieca consapevolezza di essere stato partorito da una feroce bestia e da un’altra bestia ancora. Si permettono, macchiati del sangue fino alle viscere, di pregare verso un santuario che non può essere più lo stesso, perché addirittura in nome suo gli eccidi sono stati materializzati: così infangato e infangatisi loro stessi ancor più, sperano di ascendere a un paradiso che è solo l’inferno più bieco del mondo. Non è infatti il fango purificatore dei riti nobili di un tempo, ma quello intriso di sangue incolpevole. Eccoli a inneggiare dio come eroi, di ritorno da una battaglia sleale, infimi mostri dalle forme oscene come insetti sopraggiunti dalle viscere della terra che non sanno che un dio o un eroe ha il volto e le mani intonse dell’amore.

Che sia questa abiura al tempo della vita e l’avamposto della fine? Siamo parte di un unico corpo e in questo, forse, periremo tutti insieme.

Per Codice Rosso, Francisco Soriano

[1] I Presocratici, Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, a cura di Alessandro Lami, Rizzoli, Milano 2008, p. 201.

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the psychiatrist in roy andersson’s “you, the living” (2007)


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UFC 319 – Borralho in allerta: “Qualcosa non torna con du Plessis o Chimaev”


Caio Borralho doveva pensare solo a UFC Paris, dove il 6 settembre affronterà Nassourdine Imavov.Invece, si è ritrovato su un volo per Chicago, pronto a fare il peso e diventare backup per il main event di UFC 319: Dricus du Plessis vs Khamzat Chimaev. L

Caio Borralho doveva pensare solo a UFC Paris, dove il 6 settembre affronterà Nassourdine Imavov.
Invece, si è ritrovato su un volo per Chicago, pronto a fare il peso e diventare backup per il main event di UFC 319: Dricus du Plessis vs Khamzat Chimaev.

Lui stesso ammette di essere perplesso:

“All’inizio avevano detto che non ci sarebbe stato un backup. Poi, all’improvviso, mi hanno chiamato. Non hanno detto chi dei due potesse avere un problema. Non so cosa stia succedendo, ma qualcosa c’è.”

Il sospetto Chimaev


Secondo Borralho, la logica porterebbe a pensare a Chimaev:

“Ha saltato match in passato, si allena come un matto e si fa male spesso. Però di recente ho sentito che sta bene, senza infortuni seri. Du Plessis? Non so, non posta quasi nulla sui social.”

Due pesi in tre settimane


Borralho si trova in una situazione insolita: fare il taglio peso per l’ottagono di Chicago, e rifarlo tre settimane dopo per Parigi.

“Di solito arrivo a fight week sui 220 lb (99 kg). Ora sto già intorno alle 205 lb (93 kg), e oggi dopo l’allenamento ero 198 lb (90 kg). Meglio stare più leggero.”


Il vantaggio? Avrà la sua squadra al completo: Carlos Prates, Karine Silva e Michal Oleksiejczuk combatteranno tutti a UFC 319.


Obiettivo chiaro: la cintura


“Il mio sogno è diventare campione del mondo. Se devo rischiare e fare due tagli peso in tre settimane, lo faccio. Non sono qui per essere uno qualunque. Voglio il titolo, e voglio una storia da raccontare ai miei figli e ai miei nipoti.”


Per ora, resta a disposizione. Chicago potrebbe vederlo nell’ottagono sabato sera… o semplicemente seduto a bordo gabbia, pronto a saltare dentro se qualcosa va storto.


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more from/about the 1978 nova convention


youtu.be/ThRFmwUsJc0?si=offGLQ…

William S. Burroughs delivering his keynote address on December 1st, the first night at New York City’s Entermedia Theatre, during the sold-out, three-day Nova Convention, held on November 30, December 1, and 2, 1978.

Excerpt from NOVA ’78 Directed by Aaron Brookner and Rodrigo Areias.
Produced by Pinball London and Bando a Parte.

Premiere Locarno 78 – August 2025 –

Archive Copyright Pinball London Ltd. All rights reserved.

*


youtu.be/Ed9dj4BC-Dc?si=HQq_5r…

In this the legendary 1978 Nova Convention, we hear interviews with organizer/poet John Giorno, followed by the uncut Nova Convention panel discussion unheard for decades. Moderator Les Levine masterfully guides panelists William S. Burroughs, Robert Anton Wilson, Timothy Leary and Brion Gysin. Listen to them re-imagining science fiction and foreseeing a culture yet to come.

The Nova Convention was a three-day event, taking place in New York City on November 30, December 1 and December 2, 1978. Intended as a homage to William S. Burroughs, the “convention” included seminars, music performances, readings and more. Attending were an odd mixture of academics, publishers, writers, artists, punk rockers and counterculture disciples. The event had a small hitch. The organizers had announced Keith Richards’ attendance, which made the event a sellout. Richards’ last minute cancellation, however, gave the event an antagonistic oscillation between performer and audience.

The series was originally produced by Giorno Poetry Systems for WBAI radio. The 2013 restoration comes from John Giorno’s private tapes. The effort is to restore, as completely as possible, the entire three-day event for for broadcast by the Clocktower Gallery radio station: https://clocktower.org/show/nova-convention-1978-the-third-mind

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“nova ’78”, a documentary on william burroughs, at the locarno film festival


cineuropa.org/en/newsdetail/48…

Aaron Brookner and Rodrigo Areias take us back in time to a convention where leading intellectuals and artists gathered to celebrate William S Burroughs

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“nova ’78”, a documentary on william burroughs, at the locarno film festival


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Il Tar Campania annulla le zone rosse del Prefetto di Napoli


Commento dell’Avvocata Stella Arena e comunicato stampa del Coordinamento No Zone Rosse

Il Tar Campania ha annullato l’ordinanza del Prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle cosidette “zone rosse” della città.

Abbiamo chiesto un breve commento a caldo all’Avvocata Stella Arena del Foro di Napoli che vi proponiamo insieme al comunicato del Coordinamento No Zone Rosse che ha promosso l’iniziativa.

  • C’è soddisfazione per questa decisione del TAR?

C’è grande soddisfazione da parte mia e del ricercatore Andrea Chiappetta che con me ha lavorato alla stesura dell’atto.

C’è soddisfazione anche da parte delle associazioni Asgi, A buon diritto ma soprattutto ci tengo a ribadire che è una vittoria che parte dal basso, dalle associazioni che vivono e lavorano su Napoli per la tutela dei soggetti più fragili.

Nel ringraziare naturalmente i giudici che si confermano baluardo di democrazia, perchè è proprio questo su cui la sentenza ha centrato il suo dispositivo riportando tutto sotto il dettato costituzionale, c’è piena soddisfazione e ci auguriamo che il rispetto dell’ordinamento sia sempre il fulcro centrale su cui le leggi ed anche le ordinanze prefettizie vengano emanate.

  • Di fronte alla gravità di quello che è sotteso al Disegno di Legge Sicurezza queste che possono sembrare piccole vittorie sono però tasselli fondamentali di opposizione perchè riproducibili?

Sono tasselli fondamentali perchè ci dicono che lo stato di diritto ha dei parametri dentro cui deve muoversi perchè se si va fuori da quei parametri, se le leggi non seguono l’orientamento costituzionale, i giudici successivamente riporteranno tutto sotto il parametro e l’ombrello della Costituzione. Ci auguriamo che anche per tutto quello che riguarda il Decreto Sicurezza i giudici ben presto agiranno in modo conforme alla costituzione.

  • COMUNICATO STAMPA – Il TAR CAMPANIA ANNULLA LE ZONE ROSSE DEL PREFETTO DI NAPOLI

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza del Prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle cosiddette “zone rosse” cittadine. Una misura ispirata dalla direttiva del Ministro Piantedosi di dicembre. Il TAR ha giudicato l’esercizio del potere prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. La sentenza dichiara apertamente che non vi era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova, idonea a giustificare l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Un richiamo forte e definitivo alla legalità costituzionale, contro ogni tentativo di trasformare l’eccezione in prassi.

«È una vittoria dello Stato di diritto. Il TAR ha riconosciuto che le ordinanze del Prefetto erano illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente». Lo dichiara in una nota congiunta il team legale composto da Andrea Chiappetta e Stella Arena i quali sottolineano come la decisione «ristabilisca il primato della Costituzione sull’arbitrio amministrativo».

Le associazioni hanno ribadito che il l TAR ha affermato ciò che non avrebbe mai dovuto essere messo in discussione: le libertà personali non si comprimono per ordinanza. Nessuna direttiva ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza, legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità. È una sentenza che difende la democrazia.

Chiara Capretti e Pino De Stasio, consiglieri municipali ricorrenti, parlano di «una bocciatura senza appello per chi ha usato lo stato di emergenza come pretesto per aggirare il confronto democratico e marginalizzare le istituzioni locali. Il TAR restituisce parola al diritto e visibilità ai territori».

La decisione del Tribunale rappresenta una sconfitta politica diretta per il Ministero dell’Interno e per la sua strategia securitaria fondata sulla stabilizzazione del potere eccezionale, senza limiti né controlli.
Il principio di temporaneità è stato svuotato, la motivazione era apodittica. Il potere pubblico si è spinto oltre ogni legittimità.
Il diritto vince quando resiste. E oggi ha resistito, riaffermando che la Costituzione non ammette scorciatoie né zone franche.

Coordinamento No Zone Rosse

Vedi il servizio TGR Campania

Coordinamento No Zone Rosse in Instagram

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Pronuncia della CGUE sui “paesi sicuri”: uno stop al protocollo Italia/Albania


Commento dell’Avvocata Margherita D’Andrea

Sulla sentenza del 1 agosto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in merito alla designazion di un paese terzo come “paese d’origine sicura” proponiamo un commento dell’Avvocata Margherita D’Andrea dell’esecutivo dei Giuristi Democratici. Il pronunciamento nasce da due domande di pronuncia pregiudiziale sollevate dal Tribunale ordinario di Roma relative a due cittadini della Repubblica popolare del Bangladesh che hanno richiesto protezione internazionale dopo essere stati soccorsi in mare dalle autorità italiane e condotti in un Centro di permanenza in Albania.

  • Perché c’è soddisfazione per la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 1 agosto?

Perché sottolinea un principio essenziale per una tutela effettiva dei diritti umani e cioè che il rischio che correrebbero persone richiedenti asilo di essere uccise, o torturate, o ridotte in schiavitù, se rimpatriate, non può essere negato in astratto, solo perché il Paese è stato definito sicuro attraverso un atto legislativo.

Al contrario, la designazione da parte di uno Stato membro di un Paese terzo come di origine sicuro deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale, con una valutazione in concreto di tutti gli elementi del caso, sia legati alla storia individuale, sia legati alla situazione geopolitica e sociale del territorio. Questo, indipendentemente dall’inclusione dello stesso nella lista stilata dal legislatore, che deve poter essere discussa e contestata nel processo, garantendo al giudice e alle parti l’accessibilità delle fonti di informazione su cui si basa la designazione di “Paese di origine sicuro”. Se quindi la norma nazionale sarà ritenuta in contrasto con quella europea, il giudice avrà un potere di disapplicazione, nel pieno rispetto del principio della separazione dei poteri.

In più, la Corte conferma che uno Stato membro non può designare un Paese come sicuro, se le condizioni di sicurezza non siano garantite a tutta la popolazione. E’ un principio chiaro. Con la fine del nazifascismo gli Stati si sono impegnati a garantire i diritti umani a livello universale e non solo ai propri cittadini, auto-limitando la sovranità nazionale con la sottoscrizione di convenzioni internazionali come quella di Ginevra. Dichiarare quindi come ha fatto il governo che questa pronuncia viola la sovranità nazionale è giuridicamente scorretto.

  • Cosa cambia per i migranti?

La pronuncia è di fatto uno stop al modello Albania, che consentiva sotto la giurisdizione italiana il trasferimento accelerato di richiedenti asilo soccorsi in mare verso l’ex base militare di Gjadër, basandolo sulla presunzione di sicurezza di alcuni Paesi terzi come Tunisia, Egitto, Bangladesh.

E’ la logica colonialista dei “carichi residuali” di Piantedosi, e infatti parliamo di persone messe scientemente in una condizione di inferiorità giuridica, senza un controllo giudiziario, senza trasparenza e senza un’accessibilità effettiva alla documentazione, con la violazione palese del diritto di difesa.

La Corte ha stabilito che questo modello è incompatibile con il diritto dell’Unione Europea. Peraltro, dopo le prime mancate convalide da parte dell’autorità giudiziaria, il Protocollo Italia-Albania prevederebbe ora il trasferimento forzato di persone trattenute nei CPR italiani, che aspettano cioè di essere espulse. Ma è chiaro che la pronuncia della Corte di Giustizia ha di fatto bloccato ogni possibilità di attuazione pratica. Almeno per il momento.

  • Esponenti politici del governo affermano che questa sentenza avrà una breve durata perché poi ci sarà il nuovo regolamento europeo in materia di asilo… Cosa vuol dire?

E’ vero che il sistema europeo comune di asilo cambierà radicalmente nel corso del prossimo anno, quando avremo la piena applicazione del nuovo Patto su migrazione e asilo. La riforma produrrà una trasformazione profonda del quadro giuridico, con il rischio di comprimere ancora la protezione internazionale.

In un saggio di quest’anno che ho scritto in un collettaneo sul tema, curato da Adele del Guercio e Francesca Rondine, ho provato a evidenziare il paradosso apparente di un diritto che diventa da una parte sempre più iper-semplificato, con la rimozione progressiva nel campo dell’economia di regole che limitano la libertà di azione degli individui (basti pensare alla speculazione immobiliare e al “modello Milano” di questi giorni); e dall’altra, nel campo dei diritti fondamentali, iper-regolamentato, ma attraverso riforme sempre più caotiche e contraddittorie, con enormi difficoltà per avvocate e operatori del diritto di stare al passo.

Questo “diritto eccessivo” sui diritti fondamentali riguarda non solo l’Italia ma anche l’Europa, sempre più chiusa e votata alla difesa dei confini. Il nuovo regolamento europeo sta purtroppo in questo solco. Un obiettivo principale è la diminuzione drastica delle possibilità per i richiedenti di alcuni paesi di ottenere una forma di protezione internazionale, attraverso un esame compiuto di merito. Quindi la Corte deve precisare che il principio per cui uno Stato membro non può designare come paese di origine sicuro un paese terzo che non soddisfi, per alcune categorie di persone, le condizioni sostanziali della designazione, vale fino alla piena applicazione del nuovo Patto, che conterrà alcune eccezioni per categorie di persone chiaramente identificabili. In ogni caso, uno stato di diritto non può prescindere dal rispetto del regime dei diritti umani. Dunque, la battaglia sul diritto e per i diritti non finisce certo nel 2026.

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androidastica sparizione delle icone dei ragni (glitch per cui le scorciatoie web spariscono dal launcher)


Tutte le volte che penso, presumo, ritengo di odiare tremendamente Android… puntualmente scopro che il mio odio è sempre più basso di quello che davvero dovrebbe essere per questo sistema oberativo letteralmente bacato, infestato dai problemi, introgolato di merda che porca puttana… SPARISCONO LE FOTTUTE SCORCIATOIE SULLA SCHERMATA HOME!!! Una roba così pestifera non è mai successa nemmeno su Windows, o qualunque altro sistema che notoriamente non funziona mai bene… Sarà forse questo, la sparizione delle icone, che i fanboy segretamente intendono quando dicono che “su Android tutto è possibile“…??? 😫

Più di preciso, qualche settimana fa mi stavo (ri)lamentando di questo problema per cui a volte, a caso, quando gli piace a lui, stranamente non sempre (insomma, non è manco un bug ricreabile al 100%), dopo un riavvio del sistema mi spariscono tutte (zio totalitario…) le scorciatoie ai siti, sia normali che PWA, appunto dalla home… ma mai nessuna scorciatoia ad app native. A quel punto però avevo preso atto della merdata, avevo imputato immediatamente tutta la colpa al launcher di MIUI (dato che non ricordo questa cosa succedere su altri dispositivi o altre ROM), e avevo quindi installato Lawnchair (usando il terminale per superare il blocco di cambio launcher), e perdendo così 20 crediti sociali… 💔

Peccato che stamattina è successo di nuovo, dopo che ho dovuto riavviare il telefono perché dal nulla mentre lo stavo usando aveva preso a glitcharsi, con la app che avevo in foreground che era crashata e la home che mostrava una schermata nera anziché caricare il launcher… e quindi, sotto sotto, la colpa non era di Xiaomi, e quindi ancora una volta la deduzione dei miei crediti sociali si rivela giustificata. In effetti, cercando un po’ meglio dell’altra volta, ho trovato sul web delle segnalazioni di questo preciso glitch… e in effetti la cosa non pare legata per niente a Xiaomi: https://memos.octt.eu.org/m/SQDwd8ooQ33odfEgoWr6iT. 🙀

Mi verrebbe da pensare che non ho mai notato questa rogna nel lontano passato solo perché non usavo così tante webapp… ma sul tablet attualmente ho più o meno la stessa quantità di scorciatoie del telefono, eppure rimozioni coatte lì non ne ho ancora (ancora…) mai (mai!!!) viste. Comunque sia, un fatto rimane, e cioè che questo è un fottuto problema, perché le scorciatoie alle webapp MI SERVONO! E il perché lo dice il nome stesso: sono short-cuts, servono a tagliare corto, cosa che è specialmente necessaria su un dispositivo che già è laggante… ma poi perché le webapp vanno per forza installate sulla home per fungere da PWA, quindi avere la loro scheda nella schermata multitasking e non avere l’interfaccia del browser in alto a rubare spazio. 😵

La cosa più strana è che, a questo punto, non riesco a comprendere a cosa sia quindi dovuto il problema. Tolti launcher e ROM, penserei al browser stesso (o parte di esso, in caso di fork), nonostante una app Android di per sé non abbia alcun modo di far sparire le sue stesse scorciatoie… ma, nonostante buona parte delle volte le icone che spariscono sono quelle di Mulch (Chromium), sono abbastanza sicura di aver visto anche quelle poche di Firefox che ancora avevo in giro venir spedite al regno delle ombre, una (1) volta quella settimana passata in cui cringiavo con i launcher e mi si era inspiegabilmente resettato il predefinito da Lawnchair a quello MIUI dopo un riavvio. La stringa di Intent per le scorciatoie di Chromium è perfettamente identica a qualsiasi di deep link per qualsiasi app nativa, se non per il fatto che il nome interno è un UUID anziché il nome della Activity ripetuto, quindi perché cazzo spariscono??? 🌋

Un telefono con la mela stampata dietro, ovviamente, non posso permettermelo, nonostante (almeno, penso, poi che la mia aura sia capace di far spuntare sempre bug in tutto è un’altra storia) lì le icone non prendano a fottutamente sparire da un momento all’altro dalla home… quindi, che cazzo si fa??? Non lo so. A parte magari provare Edge (sigh) anche sul telefono oltre che sul tablet, perché hanno cambiato talmente tanta roba in quel robo che forse il bug non c’è… potrei solo rispolverare l’idea del browserocto, quel browserino minimale fatto principalmente per le webapp che non fu mai completato… Ma comunque CHE PALLE, sia mai che le cose funzionino! 😭

#Android #launcher #scorciatoie #shortcuts #webapp #webapps

Questa voce è stata modificata (1 mese fa)
in reply to minioctt

Avendoci riflettuto un attimo, mi sa che il bug sta nel componente ShortcutManager di Android… altrimenti non si spiega

Nello schema di Intent DEEP_SHORTCUT, usato da questi collegamenti, le webapp di Chromium hanno un UUID strano che sembra generato al momento, non direttamente riconducibile all’URL del sito, e quindi conservato da qualche parte per tenere l’associazione… questa qualche parte sarà il DB dello ShortcutManager stesso che appunto prende e si rompe quando gli va

Ora, la soluzione potrebbe essere usare un launcher che fa impostare scorciatoie internamente, quindi Intent che sono puri e non di tipo …launcher3.DEEP_SHORTCUT che funzionano solo tramite ShortcutManager… problema è che, mentre Firefox sembra aprire le webapp come PWA anche solo con un normale Intent alla Activity dedicata, per Chromium n o n (non si capisce dai miei test pratici, dovrò cercare nel codice sorgente)


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La Osoppo e il MACI sono da ritenersi le principali strutture segrete anticomuniste a carattere armato sorte in Italia prima del 1956


Se il compito essenziale di Gladio era quello di attuare: “attività di informazione, infiltrazione/esfiltrazione, propaganda, guerriglia, sabotaggio in parti del territorio occupate dal nemico” <16, siamo oggi in possesso di numerosi documenti che testimoniano come fin dal 1945 nel territorio italiano nacquero una molteplicità di organizzazioni che si erano fatte carico degli stessi identici compiti che in quel 1956 vennero assegnati a Gladio. Il 26 novembre 1956 (giorno del varo ufficiale della Stay Behind italiana) in sostanza, non segnò la data di nascita di un servizio parallelo a quello ufficiale quale mai l’Italia aveva conosciuto, ma di una sorta di riorganizzazione di tutte quelle strutture nate per essere in grado di reagire ad una aggressione straniera ed operanti fin dall’immediato dopoguerra.
In base ai documenti oggi disponibili è inoltre possibile dimostrare che le radici profonde di tali strutture risalgono ad un momento storico ancora precedente e precisamente al periodo che fece seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943. Fu infatti durante le settimane successive a tale data che i neonati servizi segreti del governo di Brindisi ritennero che, nell’ottica della guerra all’invasore nazista, costituisse un supporto di grande importanza riuscire a creare una rete clandestina in grado di operare al di là del fronte nemico e capace di porsi in sinergia con le nascenti formazioni partigiane. Alcuni degli uomini che in quegli anni operarono all’interno dei servizi segreti del governo Badoglio, adoperandosi nel sostenere la guerra dietro le linee dell’esercito di invasione nazista, li ritroveremo poi nel dopoguerra tra gli artefici della creazione di strutture paramilitari occulte in funzione anticomunista ed infine anche dentro la stessa Gladio.
Nell’indagare sulle origini di Gladio si dovrà perciò partire dai convulsi e concitati giorni post-armistizio, quando la nuova intelligence al servizio del Governo del Sud, valutò positivamente l’idea secondo la quale, accanto alle Forze Armate regolari, dovessero operare bande di “irregolari”, capaci di agire contro il nemico mettendo in atto forme di guerriglia e sabotaggio. L’attenzione dovrà poi essere rivolta al cruciale momento del passaggio dalle prime strutture segrete sorte in funzione antinazista a quelle che, nell’immediato dopoguerra, cominciarono ad operare in funzione anticomunista e per far questo sarà necessario soffermarsi in modo particolare su quanto accadde in una precisa regione geografica, il Friuli Venezia Giulia. E’ qui infatti che si possono trovare i presupposti, tanto politico-ideologici quanto operativi, delle formazioni Stay Behind anticomuniste, le cui radici affondano nel drammatico ed insanabile contrasto che, a partire dall’autunno del 1944, si venne a creare dentro alla Resistenza friulana fra i partigiani comunisti filo-titini delle Brigate Garibaldi e i “partigiani bianchi” che militavano nella Brigata cattolica Osoppo.
Queste primordiali strutture, nate in modo pressoché spontaneo fin dai primi giorni dell’estate del 1945 per volontà di quegli osovani che erano decisi a difendere il Friuli dal pericolo di aggressione titina, ricevettero ben presto un decisivo supporto “istituzionale” da parte dei massimi vertici politici e militari della nuova Italia democratica, i quali garantirono agli osovani finanziamenti, armi, nonché la possibilità di essere addestrati alla tecniche di guerriglia e sabotaggio sotto l’egida di ufficiali dell’Esercito americano. Ad inizio 1947 così, una volta aumentata la consistenza numerica ed affinato l’addestramento, da queste embrionali organizzazioni segrete potè nascere la più importante struttura di tipo Stay Behind sorta in Italia prima del 1956, ovvero la “Osoppo-Organizzazione O”, la cui vicenda dovrà essere seguita con particolare attenzione, poiché essa a tutti gli effetti può essere considerata la vera e propria progenitrice di Gladio, all’interno della quale andò a costituire la branca principale.
Se il Friuli fu indiscutibilmente il “laboratorio” in cui vennero sperimentate e portate a compimento le principali entità prodromiche a Gladio, nel corso degli anni quaranta anche in altre zone dell’Italia settentrionale numerosi partigiani cattolici e liberali, una volta conclusa la lotta contro il nazifascismo, rimasero in armi ed entrarono a far parte di strutture segrete create in funzione anticomunista. Di assoluta rilevanza da questo punto di vista fu il ruolo giocato nell’area lombarda da una organizzazione denominata: “Movimento Avanguardista Cattolico Italiano” (MACI), originariamente fondata nel 1919 per iniziativa dell’allora arcivescovo di Milano, Monsignor Andrea Ferrari. Sotto il fascismo però, il MACI era stato costretto a sciogliersi e soltanto nel novembre 1945, per espressa volontà del cardinale Ildefonso Schuster e della curia milanese, esso rivide la luce. Ufficialmente si trattava di una organizzazione impegnata nella difesa del cattolicesimo e dei valori cristiani e che alle elezioni politiche dell’aprile 1948, di concerto con i “celebri” Comitati Civici di Luigi Gedda, si distinse per il grande zelo propagandistico profuso in favore dei candidati democristiani in Lombardia e Piemonte. Accanto a questo suo ruolo pubblico tuttavia, il MACI fin dai primi anni post-bellici aveva sviluppato una vera e propria attività sotterranea attraverso la creazione di una struttura segreta, che fu posta sotto il “comando” di un ex partigiano bianco di nome Pietro Cattaneo ed i cui compiti essenziali erano quelli di sorvegliare il “nemico comunista”, cercare di scoprirne eventuali piani insurrezionali per essere pronti a reagire qualora fossero stati messi in atto. A Milano vi era il “comando centrale” di tale struttura, alla quale facevano capo numerose cellule dislocate in quasi tutte le provincie lombarde le quali, disponendo di infiltrati sia nelle sezioni comuniste, sia in vari luoghi di lavoro, tenevano costantemente informato Cattaneo su ogni possibile “azione sovversiva” dei comunisti. Il MACI non può essere “tout court” definito una organizzazione di tipo Stay Behind, poiché le sue caratteristiche erano più consone a quelle di una sorta di servizio segreto parallelo capace di avere un capillare controllo del territorio al fine di prevenire eventuali atti ostili del “nemico”. Tuttavia, anch’esso disponeva di una dimensione prettamente militare e la assoluta maggioranza dei suoi componenti erano ex partigiani anticomunisti pronti a riprendere le armi (molte delle quali vennero occultate anche nelle sacrestie) qualora ciò servisse ad impedire che in Italia si affermasse un regime di tipo sovietico. Rispetto a quella della “Osoppo-Organizzazione O” e di Gladio, la vicenda del MACI è molto meno nota, eppure la sua importanza deve essere considerata assoluta in quanto tale struttura, come si vedrà, aveva come diretti referenti sia la Democrazia Cristiana, sia le più alte autorità ecclesiastiche. Di enorme interesse da questo punto di vista appare una missiva riservata che nel 1948 l’allora segretario provinciale della DC milanese, Vincenzo Sangalli, inviò a Pietro Cattaneo, e nella quale era scritto che la DC riconosceva proprio il MACI quale unica organizzazione armata legittimata ad agire in suo nome.
Per consistenza numerica e diffusione nel territorio, la Osoppo e il MACI sono da ritenersi le principali strutture segrete anticomuniste a carattere armato sorte in Italia prima del 1956. Se della Osoppo è certa la continuità con Gladio, la stessa cosa non la si può affermare con sicurezza per quanto riguarda il MACI, anche se non sembra essere un caso che gli ultimi documenti in cui si parla dell’esistenza di tale rete militare cattolica siano risalenti alla metà degli anni cinquanta. Dal 1956 in poi infatti, della organizzazione militare del MACI non si hanno più notizie ed è perciò verosimile ipotizzare che anch’essa, come la Osoppo, sia stata sciolta all’atto della nascita di Stay Behind, avvenuta nel novembre di quell’anno.
Nella ricostruzione della storia di Gladio e delle strutture ad essa prodromiche c’è infine un altro importante aspetto che deve essere affrontato ed è quello relativo ai supposti “misteri” ed alle presunte trame oscure che ancora oggi graverebbero intorno all’esistenza di tali entità. Sebbene infatti Stay Behind in sede giudiziaria sia stata assolta, è oggettivamente da riconoscere, senza per questo fare della facile dietrologia, che la sua vicenda presenta ancora svariati nodi da sciogliere. Si renderà quindi necessario cercare di rispondere anche ad alcuni cruciali quesiti quali, tra gli altri, quello relativo alle eventuali collusioni fra le suddette strutture e il neofascismo, sui possibili sconfinamenti nell’illegalità di cui alcuni elementi ad esse organici potrebbero essersi resi responsabili, nonché all’interrogativo, che come vedremo è verosimilmente quello di maggiore rilevanza, se davvero oggi conosciamo per intero la storia delle organizzazioni Stay Behind o se in realtà non vi sia un altro livello, parallelo alla stessa Gladio, che non è ancora venuto alla luce. Al tempo stesso però, allorchè verranno affrontate tali questioni, sarà fondamentale ricordare che Gladio (così come le organizzazioni ad essa affini) è uscita totalmente assolta da ogni procedimento penale. Se è quindi pur vero che permangono zone d’ombra ed aspetti non ancora perfettamente chiariti, è tuttavia imprescindibile avere presente quella che è ad oggi la verità giudiziaria. Questo non significa ovviamente che essa sia di riflesso una verità in senso assoluto, ma non si può non tenere conto che, secondo la magistratura, una prova concreta ed inconfutabile di un coinvolgimento di Gladio in atti di tipo eversivo non è mai emersa.
Fino a questo momento si è avuto modo di parlare di strutture anticomuniste, ma c’è un altro tema la cui conoscenza si deve considerare una integrazione essenziale ai fini di redigere una ricostruzione realmente completa della storia delle organizzazioni segrete a carattere paramilitare presenti sul territorio italiano dal dopoguerra in poi. Se è infatti indiscutibile che fin dal 1945 in Italia nacquero una molteplicità di formazioni armate “nemiche” del PCI e la cui esistenza era ignota non solo all’opinione pubblica, ma anche a gran parte del Parlamento, è oggi altrettanto dimostrato che in quegli stessi anni anche il Partito Comunista Italiano possedeva una sua organizzazione militare segreta.
Si trattava di quella che, con una dicitura impropria ma divenuta ormai di uso comune, è stata chiamata “la Gladio Rossa” <17. Questo termine fu usato per la prima volta nel maggio 1991 in una inchiesta del settimanale l’Europeo firmata dai giornalisti Romano Cantore e Vittorio Scutti, i quali, basandosi in gran parte su quanto loro dichiarato da un ex dirigente toscano del PCI di nome Siro Cocchi, “rivelarono” che per anni, a partire dal 1945, era esistito un apparato militare facente capo al PCI e che di fatto avrebbe costituito una sorta di “contraltare” di Gladio. La “Gladio Rossa” sarebbe infatti stata una specie di quinta colonna dei paesi comunisti dislocata in Italia ed essa, in caso di invasione del territorio italiano da parte di truppe sovietiche, avrebbe dovuto operare in loro favore, agendo attraverso forme di guerriglia da attuare contro gli Eserciti Alleati. Sebbene la descrizione che la suddetta inchiesta giornalistica fornì di tale struttura armata fosse oggettivamente piuttosto generica, quell’articolo dell’Europeo ebbe un effetto dirompente, poiché pochi giorni dopo la sua pubblicazione, la Procura di Roma decise di aprire un fascicolo di indagine in relazione alla presunta esistenza di una organizzazione paramilitare organica al PCI, sui suoi possibili collegamenti coi paesi del blocco sovietico e su suoi eventuali piani insurrezionali. Fu così che ebbe inizio l’inchiesta su quella che da quel momento si cominciò a chiamare convenzionalmente “la Gladio Rossa”. Dopo che nei mesi precedenti il dibattito politico era stato in gran parte monopolizzato dal caso di Stay Behind e dalle dure invettive che “da sinistra” vennero rivolte alla Democrazia Cristiana, colpevole, si disse, di aver dato copertura ad una struttura eversiva, nelle settimane seguenti a quel maggio 1991, a finire sul “banco degli imputati” furono gli ex comunisti, a loro volta accusati di aver strumentalmente utilizzato l’esistenza di Gladio per dare una falsa immagine della storia d’Italia. Proprio la vicenda della “Gladio Rossa”, fu allora detto, dimostrava quanto fossero fasulle le ricostruzioni storiche che fino a quel momento erano comparse nella “stampa progressista” e che avevano descritto il PCI quale partito che mai deflettè dal rispetto della Costituzione e dei valori democratici, cui dall’altra parte si sarebbe invece opposta una DC asservita agli interessi americani e con loro complice di qualunque artificio pur di non mandare al potere i comunisti <18.

[NOTE]16 SRACS, Relazione Andreotti, cit., pag. 5.
17 Ovviamente la struttura militare del PCI non si chiamò mai Gladio Rossa, che è solo un nome che si cominciò ad usare nei primi anni novanta (quando uscirono i primi documenti attestanti l’esistenza di tale struttura) per analogia con l’altra Gladio, quella anticomunista.
18 A distinguersi in modo particolare in questa campagna di stampa tesa a “rivalutare” Gladio e ad accusare i post-comunisti di strumentalità politica, fu soprattutto il Giornale all’epoca diretto da Indro Montanelli. Rievocando quei giorni, Montanelli ha scritto: “Gladio divenne un’arma preziosa per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dallo sfascio dell’ideologia e dei partiti comunisti e per avvalorare la tesi che l’Italia fosse vissuta in una falsa democrazia, viziata da presenze poliziesche, autoritarie e golpiste (….) con il risultato che unico partito rispettabile, in tanto sfascio, rimaneva il PCI poi divenuto PDS, sconfitto dalla storia recente; ma che si pretese fosse rivalutato, grazie ad un’abile operazione trasformistica (…)” (I. Montanelli, M.Cervi, L’Italia degli anni di piombo, in Storia d’Italia, Vol. XI, RCS Libri, Milano 2004, pag. 39).
Giacomo Pacini, Le organizzazioni paramilitari segrete nell’Italia Repubblicana (1945-1991), Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2005-2006

Nel 2001 Gianni Donno, docente di storia contemporanea all’Università di Lecce e consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi, ha pubblicato una corposa raccolta di documenti, corredata da brevi commenti, riguardanti la cosiddetta «Gladio rossa», ossia la presunta struttura paramilitare del Pci che avrebbe avuto non scopi difensivi, ma rivoluzionari ed offensivi in vista del ribaltamento dello Stato democratico [cfr. G. Donno, La Gladio rossa del Pci (1945-1967), Rubbettino, Soveria Mannelli 2001]. La credibilità dell’impianto del volume, stante anche l’impostazione fieramente anticomunista dell’autore (che giunge a suggerire dei fili di collegamento non solo culturale e politico ma persino organizzativo tra il Pci e le Brigate rosse), è tuttavia, a mio avviso, piuttosto dubbia. Donno, infatti, si basa su pochi documenti, spesso provenienti dal Sifar o da altre fonti informative – non meglio identificate – del ministero dell’Interno: gli stessi estensori delle relazioni, del resto, usano il tempo condizionale nei loro scritti, incerti dell’attendibilità delle fonti e, in almeno un caso, è lo stesso ministro Tambroni a commentare la nota come generica e quindi inutile. Per non parlare, poi, della ventilata esistenza di un «archivio segreto del Pci», di cui Donno parla per pagine senza avere prove (Ivi, pp. 67-72).
Ilenia Rossini, Conflittualità sociale, violenza politica e collettiva e gestione dell’ordine pubblico a Roma (luglio 1948-luglio 1960), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Anno Accademico 2014-2015

Sono necessarie due premesse: la prima nel merito e la seconda nel metodo. Innanzitutto è verosimile che il Pci disponesse di una solida tradizione in attività di intelligence, variamente definite come riservate o addirittura paramilitari, volte a tutelare il partito nel teso clima del secondo dopoguerra <1222.
1222 Maurizio Caprara, Lavoro riservato: i cassetti segreti del Pci, Feltrinelli, Milano 1997. Si veda anche il lavoro storico, ma attraversato dalle ragioni della polemica politica, di Carmelo Giovanni Donno, La “Gladio rossa” del Pci 1945-1967, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001.
Andrea Tanturli, La parabola di Prima linea. Violenza politica e lotta armata nella crisi italiana (1974-1979), Tesi di dottorato, Università degli studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno Accademico 2016-2017

Praticamente una fotografia della situazione italiana in quegli anni con un partito Comunista cosciente di essere destinato ad un’eterna opposizione per le probabili conseguenze golpiste di un’eventuale salita al potere, come anche del diffuso e sottaciuto italico sentimento di indipendenza dall’Occidente e dall’Oriente che avrebbe impedito o reso difficile qualunque invasione. Infatti anche la famosa “Gladio Rossa”, che avrebbe teoricamente contato su migliaia di individui, è ampiamente infiltrata dai servizi segreti delle Forze Armate <272.
272 Pelizzaro G.P., Gladio Rossa, edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1997
F. Marco Valli, Strategia, strateghi e pop culture nella guerra fredda: da Hiroshima alla Luna (1945-1969), Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno Accademico 2020-2021

#1945 #1946 #1956 #1991 #AndreaTanturli #anticomunismo #DC #FMarcoValli #Friui #GiacomoPacini #Gladio #IleniaRossini #Jugoslavia #MACI #milano #O #organizzazioni #Osoppo #paramilitari #PCI #Rossa #segrete #StayBehind #URSS #USA


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UFC accordo da 7,7 miliardi di Dollari con Paramount. Addio al pay-per-view


Pochi giorni dopo aver chiuso la fusione con Skydance, Paramount piazza il primo colpo: si è aggiudicata i diritti USA della UFC (gruppo TKO) per 7 anni a partire dal 2026.Il prezzo? Una media di 1,1 miliardi l’anno, per un totale di 7,7 miliardi di dolla

Pochi giorni dopo aver chiuso la fusione con Skydance, Paramount piazza il primo colpo: si è aggiudicata i diritti USA della UFC (gruppo TKO) per 7 anni a partire dal 2026.
Il prezzo? Una media di 1,1 miliardi l’anno, per un totale di 7,7 miliardi di dollari.

L’accordo copre tutti i 43 eventi live della stagione UFC:

  • 13 marquee events (i “numerati”)
  • 30 Fight Nights

Tutto in esclusiva su Paramount+, con alcune card trasmesse anche su CBS.

Update:


Dana White ha anche promesso 4 eventi speciali (come potrebbe essere quello alla casa bianca)

Fine del pay-per-view


La vera novità è l’eliminazione del modello PPV che ESPN usava per i grandi eventi: su Paramount+ non ci saranno costi extra. Con un abbonamento mensile da 12,99 dollari ci si porta a casa l’intero pacchetto UFC.

Mark Shapiro, presidente e COO di TKO, non l’ha girata troppo per il sottile:

“Il pay-per-view è un modello antiquato. Boxing? Film su DirecTV? Ormai è superato. Noi vogliamo un unico punto d’accesso, soprattutto per i fan più giovani.”


Per confronto: ESPN pagava circa 500 milioni l’anno per i diritti UFC (accordo in scadenza a fine 2025).

Trattativa-lampo


Inizialmente TKO voleva vendere a Paramount solo le Fight Nights, tenendo i numerati per un altro partner. Ma quando l’acquisizione Skydance-Paramount si è chiusa giovedì, il nuovo CEO David Ellison ha spinto per un pacchetto completo. Accordo chiuso in 48 ore.

Ellison ha definito la UFC un “asset unico, che si presenta sul mercato una volta ogni decennio”, citando la scarsità di diritti sportivi disponibili nei prossimi anni:

  • Formula 1 probabile verso Apple
  • MLB bloccata fino al 2028


Perché la UFC è così appetibile per lo streaming


  • Eventi tutto l’anno ? fidelizzazione continua degli abbonati, meno cancellazioni stagionali
  • 43 eventi live = oltre 350 ore di programmazione annuale
  • Brand globale: match in oltre 210 Paesi

Paramount punta anche ai diritti internazionali UFC, che si rinnovano a rotazione. Per ogni Paese, avrà una finestra di trattativa esclusiva di 30 giorni quando i diritti scadranno.

Shapiro riassume:

“Noi ci prendiamo il brand e la portata, loro avranno i nuovi fan. Win-win.”

E in Italia?


In Italia invece non cambia nulla: UFC si vedrà su Discovery+ e su Eurosport, che da gennaio 2025 è l’emittente di UFC nel nostro paese. L’accordo è pluriennale quindi dormite tranquilli.


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Nel carcere di San Gimignano c’è stata tortura di stato – Intervista con l’Avv. Simonetta Crisci


Continuiamo gli approfondimenti dedicati alle violenze nelle carceri.

Continuiamo gli approfondimenti dedicati alle violenze nelle carceri. Dopo l’intervista con l’Avv. Luigi Romano sul complesso iter giudiziario a seguito delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, proponiamo un approfondimento con l’Avv. Simonetta Crisci sul processo seguito alle violenze del 2018 nel carcere di San Gimignano.

Si tratta del primo processo in cui con la sentenza in primo grado a Siena nel 2023 e in appello a Firenze nel 2025 è stato riconosciuto il reato di tortura di stato, previsto dall’art. 613 bis co. 2 c.p., contro agenti penitenziari per violenze contro detenuti.

  • L’episodio di cui ci occupiamo è avvenuto nel carcere di San Gimignano. Di che carcere si tratta?

Il carcere di San Gimignano è in Toscana, vicino Firenze. Non è tra i carceri più nominati ma ha delle criticità molto forti: sovraffollamento e la presenza di un reparto “speciale” per il regime di isolamento di triste nomea. L’episodio di cui ci occupiamo non è una rarità. Analoghe situazione avvengono purtroppo in tanti altri carceri come a Cuneo nel 2023 o a Modena e Santa Maria Capua Vetere dove si cercò di giustificare le violenze con il clima di tensione del periodo del Covid. Si tratta di sintomi gravissimi della crisi strutturale della concezione del carcere come luogo di pena invece che come luogo di riabilitazione, come luogo della cultura del controllo dove è più facile che avvengano simili fatti.

  • Cosa è successo nel carcere di San Gimignano nell’ottobre 2018?

Tutto è cominciato quando è stato organizzato il trasferimento di un detenuto fisicamente molto labile e debole da una cella a un’altra. Nel processo gli agenti, che sono stati incriminati, hanno detto che siccome dovevano trasferirlo da una cella all’altra sono andati a prenderlo. Peccato che un semplice trasferimento sia diventato un’operazione organizzata di 15-16 persone tra dirigenti e guardie semplici che sono andate nella cella di questo ragazzo, già inserito illegittimamente per volontà di un sorvegliante nel reparto di massima sicurezza e isolamento, senza una decisione del Consiglio di disciplina. Non c’era ragione che stesse lì, poverino, isolato, senza parlare con nessuno ed infatti voleva tornare in un reparto normale e si lamentava. Per fare questa operazione di trasferimento hanno messo degli uomini a controllare le telecamere, ma non ci sono riusciti visto che il filmato di quanto è avvenuto è stato fondamentale assieme alle testimonianze per far emerger la verità su quello che è successo. Il processo nasce dalle denunce di altri detenuti che hanno visto picchiare il ragazzo nei corridoi, hanno visto che lo trascinavano per terra togliendogli addirittura i vestiti, che l’hanno sbattuto in un’altra cella dove poi sono entrate degli agenti. I detenuti delle altre celle hanno sentito i colpi delle violenze esercitate contro il ragazzo e ne hanno sentito i lamenti. Probabilmente non era la prima volta che succedevano cose del genere. Alcuni detenuti fanno denuncia, ne parlano con personale non militare nel carcere e chiedono l’intervento di varie Autorità e di Associazioni, come Yahrahya, che ho rappresentato in qualità di una delle Parti Civili nel processo. Così è nata l’inchiesta a cui è seguito il procedimento dinanzi il Tribunale di Siena, dove si è costituito anche il Garante delle persone detenute.

  • Praticamente il ragazzo è stato picchiato mentre lo trasferivano da una cella all’altra, altri detenuti se ne sono accorti e non sono stati zitti.

Uno dei detenuti ha anche urlato “basta, smettetela” ma le guardie gli hanno dato un pugno in faccia. La versione delle guardie è che il detenuto avrebbe sputato contro di loro e perciò avrebbero messo una mano sullo spioncino per coprirsi dallo spunto. La versione non ha retto e sono stati condannati anche per questo episodio. La prima a sapere della denuncia dei detenuti è stata la psicologa del carcere, che ne ha parlato al direttore. A questo punto vengono fatte delle relazioni di servizio non solo in ritardo ma anche scritte in maniera tale da cercare di occultare l’accaduto.

  • A questo punto è partito il procedimento?

Sono stati interrogati tutti quelli che potevano sapere qualcosa compresi i detenuti che hanno fatto la denuncia. Si è aperto così il procedimento che poi è andato avanti. Sono stati acquisiti i filmati delle telecamere da cui si vedeva chiaramente cosa era successo. La difesa degli agenti di custodia che hanno cercato di sostenere che si erano organizzati per il trasferimento perchè quel detenuto era” un po’ pericoloso”, non ha ovviamente spiegato che cosa questo significasse. Al detenuto, intanto trasferito in un altro carcere dove avrebbe dovuto essere curato non per i traumi subiti nell’aggressione ma in generale, per il trauma subito è stato riconosciuto dai giudici, secondo l’articolo 613 bis, che l’aggravamento del suo stato psichico dipendeva proprio da quanto gli era successo a San Gimignano.

  • Fermiamoci proprio sull’articolo 613 bis co. 2 c.p., riconosciuto in questo processo. Puoi dirci la sua specificità?

E’ l’articolo di tortura di stato. Una forma autonoma di reato che è stato aggiunto a quello generico che dice che chiunque punisce, con violenza o minacce gravi o con crudeltà , una persona non in grado di difendersi, viene condannato. Nella specificazione di tortura di stato uno dei criteri basilare è proprio la qualità della persona che esercita la violenza. In questo caso l’agente penitenziario in quanto pubblico ufficiale. La qualità della persona che attua con più condotte un trattamento inumano, degradante, contro la dignità di una persona privata della libertà, qualifica la tortura di stato, unita al disdoro che produce nei confronti della Pubblica Aministrazione.

  • Torniamo al caso di San Gimignano. La Procura decide di avviare il procedimento usando proprio il reato di tortura di Stato, ci sono anche costituzioni di parte civile?

Sì,come ho già accennato, io partecipo al processo perchè ho curato la costituzione di parte civile dell’Associazione Yairaiha Onlus, la prima che ha mandato in Procura un esposto. Per cui riassumendo: i detenuti denunciano, altre associazioni appoggiano, costituendosi parte civile oltre al Garante e si avvia il processo sulla base dei filmati e delle testimonianze. I giudici hanno analizzato tutte le specificità proprie del reato di tortura di stato. In altri processi essere un Pubblico Ufficiale potrebbe essere un’aggravante ma qui è alla base del reato contestato. La tortura di Stato viene individuata proprio con l’elemento che è il pubblico ufficiale che usa, abusa dei poteri in violazione dei doveri di persona che rappresenta lo Stato. Si viene condannati anche per il fatto di aver creato un pregiudizio verso la pubblica amministrazione: chi sente che un pubblico ufficiale picchia la gente, tra l’altro detenuta quindi impossibilitata a difendersi, vede nello stato un nemico, vede riflessa una immagine negativa dello Stato.

  • Quanti sono gli agenti penitenziari coinvolti?

In tutto circa una quindicina ma alcuni hanno fatto rito abbreviato e sono stati condannati con pene minori, dai tre ai quattro anni. Cinque sono rimasti nel processo.

  • Come è andato l’iter processuale?

Presso il Tribunale di Siena nel marzo 2023 in primo grado c’è stata la condanna di circa sei anni per ciascuno degli agenti imputati. Nell’aprile 2025 c’è stata la conferma della condanna nel processo d’Appello presso la Corte di Firenze e le motivazioni sono state depositate pochi giorni fa. Nella sentenza d’Appello c’è stata l’applicazione di attenuanti.

  • Attenuanti in Appello?

Nell’Appello c’è stata la richiesta del Procuratore Generale di attenuanti generiche prevalenti che sono state applicate. Sinceramente non abbiamo capito le motivazioni. Un conto è chiedere le attenuanti perchè ad esempio una guardia è stata obbligata a fare una certa cosa dal suo superiore che lo ha ricattato minacciandolo di trasferimento o altro o promettendogli un avanzamento di carriera, ma in questo caso nessuno ha parlato di situazioni simili. Tutti hanno partecipato volontariamente: sono stati chiamati e sono andati, nessuno è stato minacciato da un superiore.

  • La cosa importante è che anche in Appello è stato riconosciuto il reato di tortura di stato.

Sì, questa è la prima condanna in cui è stato applicato il reato di tortura di stato, prima a Siena e adesso nell’appello a Firenze che l’ha confermato. E’ una cosa importante perchè in altri casi, come mi pare a Cuneo, sono state riconosciute lesioni gravi ma è stata tolta la tortura. Spesso succede che i giudici derubricano il reato di tortura che invece va riconosciuto in questi casi proprio per la qualifica come Pubblico Ufficiale di chi commette il reato contro persone detenute.

C’è un nesso tra l’alto tasso di suicidi nelle carceri e le condizioni di detenzione. Questo nesso è dato anche da comportamenti come quelli messi in atto a San Gimignano. C’è un costante divario tra episodi di questo tipo e l’articolo 27 della nostra Costituzione che dice che la pena deve tendere alla riabilitazione del condannato. La cultura del controllo, fatta di sovraffollamento, la tolleranza zero e numerosi episodi di violenza creano una condizione di fatto insostenibile che porta drammaticamente all’aumento dei suicidi. L’istituzione totale leva la dignità della vita.


La mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere – Con l’Avv, Luigi Romano approfondiamo la complessità dell’attuale iter giudiziario.


A quasi cinque anni da quello che successe nel carcere di Santa Maria Capua Vetere mentre i riflettori mediatici si sono abbondantemente spenti sulla vicenda. Nelle aule di tribunale si sta ancora combattendo con costanza una battaglia legale non solo perché la verità storica venga riconosciuta ma anche perché non avvengano più mattanze come quella operata tra le quattro mura di quella assolata prigione alle porte di Napoli.

Ci sembra importante proprio all’indomani dell’approvazione del Decreto, ora Legge Sicurezza tornare su questa vicenda, ricostruirla e affrontarne i nodi giuridici che ne fanno oggi una storia emblematica su cui contribuire collettivamente ad andare controcorrente.

Abbiamo chiesto all’Avvocato Luigi Romano del Foro di Benevento, attivista di Antigone, che fin dall’inizio ha seguito tutti i fatti di aiutarci a capire. Ringraziamo Luigi che con precisione ed in maniera approfondita ci ha aiutato con l’intervista a far il punto della situazione in modo che sia possibile condividere per associazioni, realtà di base, avvocati e giuristi cosa c’è in gioco nelle varie inchieste che riguardano l’accaduto.

L’intervista affronta la genesi della vicenda e l’iter giudiziario: l’indagine della Procura che ha portato al processo in corso oggi in Corte d’Assise 105 imputati, tra personale di polizia interno al carcere, medici che hanno operato in istituto e alti dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria. Una seconda inchiesta si è conclusa per 32 imputati, agenti esterni all’istituto che hanno eseguito le operazioni violente del 6 aprile 2020. I reati contestati sono diversi ed articolati e vanno dalla tortura al depistaggio, all’omicidio colposo al falso.

L’intera vicenda rappresenta una radiografia cruda delle forme del potere dell’istituzione carceraria di oggi.

Approfondire la complessità dell’iter giudiziario che ha segnato l’intera vicenda può portare un contributo significativo nella battaglia per affrontare il diritto come campo di contesa per i diritti umani e la convivenza civile, proprio in un momento in cui le tensioni securitarie e retrive cercano con ferocia di avanzare.

L’Avv. Luigi Romano è autore del libro “La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane”, uscito per Edizioni Cavalcavia nell’ottobre 2021, in cui si ricostruisce a fondo la mattanza del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

INTERVISTA CON L’AVV. LUIGI ROMANO – Foro di Benevento – Antigone

  • Partiamo dall’inizio. Eravamo nell’anno del Covid. Brevemente contestualizziamo cosa stava avvenendo nelle carceri.

Nel 2020 si è verificato nel nostro sistema penitenziario un vero e proprio collasso di tutto il mondo dell’esecuzione penale.

Tutto è iniziato nel marzo con due proteste importanti nel carcere di Salerno e di Poggioreale, ambedue in Campania. Proteste vibranti di detenuti comuni. Sottolineo questo aspetto perché per la ricostruzione dei fatti c’è stata una inchiesta successiva del Ministero e si paventava all’inizio una narrazione tossica secondo cui i detenuti dell’Alta sicurezza avessero in qualche modo diretto le proteste dei comuni. In realtà non è stato così, come sapevamo bene noi che fin dall’inizio abbiamo seguito la vicenda.

A Salerno i detenuti avevano preso in mano il reparto e anche a Poggioreale c’è stato uno scontro quasi corpo a corpo. A cascata sono seguite proteste in altri penitenziari. Sono state circa 70 le prigioni in tutta Italia che sono insorte durante le prime settimane dell’emergenza.

Cosa era successo? Ci fu un espediente gestito in male modo dall’Amministrazione Penitenziaria che aveva determinato la mutazione del quotidiano nei reparti e cioè l’improvvisa interruzione dei colloqui visivi con i familiari. Questa decisione è apparsa priva di ragionevolezza rispetto alla situazione che si viveva all’interno degli istituti. Non c’erano dispositivi di sicurezza, non c’era la possibilità di tracciare il virus all’interno delle carceri con un monitoraggio capillare.

Di fatto, è stata una decisione che ha determinato l’irriproducibilità della vita quotidiana carceraria. L’istituzione collassò all’unisono.

  • E’ importante capire il momento in cui tutto inizia. Se torniamo con la mente a quei giorni, tutti vivevamo una situazione di totale incertezza, isolati l’uno dall’altro. Possiamo solo immaginare come si stava nelle carceri, già sovraffollate e ben poco curate dal punto di vista dei servizi. Stiamo parlando di una istituzione totale che proprio per la sua natura avrebbe avuto bisogno di attenzioni maggiori per chi vi si trovava ma invece non si è stati in grado, non c’è stata la volontà politica di affrontare complessivamente l’emergenza per la popolazione detenuta. Cosa stava succedendo?

Possiamo dire che in generale l’impatto dell’emergenza del virus ha così fortemente sollecitato l’istituzione carcere, già fortemente compromessa per le enormi contraddizioni che affollano il mondo penitenziario da anni, da determinarne l’implosione del tessuto istituzionale. L’istituzione penitenziaria è estremamente rigida, incapace di prevedere qualsiasi tipo di modifica strutturale e soprattutto completamente presa da miliardi di antinomie, inagibile proprio dal punto di vista concreto. In quel periodo, giocarono un ruolo decisivo la paura del contagio, il sovraffollamento, e le carenze organizzative dell’Amministrazione.

Cosa si è scatenato a marzo 2020? Nel carcere Sant’Anna di Modena 9 persone detenute sono decedute nel corso delle operazioni di polizia durante le proteste, ma anche a Poggioreale, Salerno, c’è stato proprio il contendersi dello spazio con la violenza fisica dei reparti di polizia penitenziaria, in una situazioni dove c’è stata una rottura interna dell’ordine.

  • In questo contesto generale arriviamo a quello che è successo in particolare ad aprile 2020 a Santa Maria Capua Vetere. Cosa è avvenuto?

Prima di passare alla cronaca bisogna spendere due parole su questo carcere. Santa Maria Capua a Vetere è un carcere molto particolare. Nasce in una periferia urbana, a ridosso dell’interporto di Teverola, una zona che era a vocazione agricola prima ma successivamente viene completamente disarticolata rispetto alla destinazione iniziale. Nella stessa Terra di Lavoro oggi c’è il più grande interporto logistico dell’Europa meridionale. Qui nasce questo casermone contenitivo in mezzo “al nulla”, per sopperire al carico dei detenuti negli anni ‘90 dei processi per camorra, per gestire la pressione in ingresso di Poggioreale, un carcere da sempre ipertrofico dal punto di vista della crescita numerica interna.

Da marzo 2020, quando c’era stata l’interruzione effettiva dei colloqui, le proteste erano continuate sia per la paura del virus che per la questione di come riuscire a gestire i colloqui interni.

Nell’aprile 2020 i detenuti entrano in agitazione perché dal telegiornale conoscono le condizioni dell’Alta sicurezza, dove c’è un detenuto che ha contratto il virus: il covid è entrato nel carcere.

Ad entrare in uno stato di agitazione è sempre la detenzione comune, che raccoglie il sottoproletariato urbano delle metropoli, chi non ha categoria per leggere la complessità del penitenziario e paracadute per sopperire alle necessità minime. Una composizione marginalizzata prima e reclusa dopo. Perché dico questo? Perché i profili detentivi dell’Alta sicurezza hanno uno spessore criminale diverso, riescono in qualche modo ancora adesso anche se profondamente trasformati ad avere un’idea di quello che accade rispetto al percorso di vita e alle scelte intraprese. La detenzione comune non è così. In molti casi sono detenuti con doppia diagnosi, che hanno percorsi di tossicodipendenza lunghi. In gran parte soggetti ai margini della società, per certi versi già espulsi. Sono loro ad insorgere in maniera quasi irrazionale, si potrebbe dire.

A Santa Maria Capua a Vetere si inizia con una protesta assolutamente pacifica, una battitura. I detenuti prendono il reparto e chiedono di parlare con il Magistrato di sorveglianza. Per ottenere il colloquio si rifiutano di entrare in cella dopo l’orario di chiusura, praticando così una sorta di contesa dello spazio. Dopo questa iniziativa, raggiunta la mediazione, la protesta rientra. Il giorno successivo viene convocato il Magistrato di sorveglianza che parla con i detenuti, l’intento è di rasserenare un attimo gli animi. I detenuti sono molto spaventati, non ci sono le mascherine, non ci sono i tracciamenti, non c’è la possibilità di fare i test per capire dove il virus cammina e in quale zona del reparto corre. Nella sostanza la situazione di tensione rientra.

Ma cosa avviene di particolare a Santa Maria Capua a Vetere di diverso dalla violenza che si scatena per esempio nel carcere di Modena, dove ci sono stati molti decessi?

Una risposta politica da parte del personale penitenziario. Si organizza una rappresaglia a freddo e la si chiama ‘perquisizione straordinaria’.

Una rappresaglia che, dal punto di vista burocratico, acquista la terminologia di straordinarietà. Ricordiamoci che operazione straordinaria era stata anche quella orchestrata nella scuola Diaz nelle giornate delle proteste a Genova contro il G8 del 2001 e che anche in quel caso fu usata la dinamica della perquisizione per trovare le famose armi dei black bloc per giustificare il successivo massacro.

A Santa Maria Capua a Vetere nell’aprile 2020 il personale di polizia doveva organizzare una perquisizione per trovare le armi dei detenuti che erano insorti la sera prima. Questo il pretesto istituzionale ma la perquisizione straordinaria aveva altri obiettivi.

L’operazione si realizza al reparto Nilo, in tutte e quattro le sezioni. Nel carcere sammaritano i reparti hanno i nomi di vari fiumi.

All’operazione partecipano 300 poliziotti carcerari in tenuta antisommossa. Quest’ultimo aspetto è oggetto di accertamento in dibattimento: chi dà l’ordine di entrare armati? Dal dibattimento finora sembra che la decisione di schierare con tenuta armata i poliziotti sia stata condivisa da tutta la catena di comando del penitenziario, dal personale “civile” e da quello in divisa.

Si aspetta la conclusione del colloquio del Magistrato di sorveglianza e poi scatta l’operazione già ampiamente preparata.

Tutta l’operazione è condotta dalla polizia penitenziaria. Vi partecipano reparti misti sia personale interno che da altre carceri oltre al personale del GIR, il Gruppo di Intervento Rapido, che il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria aveva istituito in Campania per sopperire a tutta una serie di disfunzioni. Per capirci durante il Covid il personale per paura di infettarsi aveva cercato di sottrarsi al lavoro e di fronte alla necessità di garantire quantomeno la copertura del personale in servizio, il Provveditore inventa il GIR cioè un gruppo misto tra tutti gli agenti di polizia penitenziaria in Campania. Questo gruppo insieme a altro personale esterno e al Nucleo traduzioni viene chiamato alla bisogna. L’interazione del personale e i momenti della cd. ‘chiamata alle armi’ si intende molto bene nelle chat oggetto di perizia.

Comunque, il gruppone di poliziotti entra a Santa Maria Capua a Vetere armato e ha in sostanza l’ordine ufficioso, come si vede chiaramente nei video, di compiere una rappresaglia a freddo colpendo violentemente i detenuti del Nilo. Tutti i detenuti vengono fatti passare in corridoi umani composte dagli agenti in tenuta antisommossa dove vengono picchiati. Tutto si vede molto bene nelle riprese dei circuiti di videosorveglianza interni.

I poliziotti erano dovunque, in tutti i piani. I detenuti dopo essere stati colpiti ripetutamente, vengono spostati alcuni nella sala della socialità e altri vengono portati nelle zone dei passeggi. L’operazione dura circa 4 ore, all’esito vengono riportati nelle celle, dove scopriranno, come raccontano nelle loro testimonianze, che le celle erano state distrutte: pacchi di pasta riversati per terra, vestiti sparpagliati ovunque, olio versato sul pavimento… Non c’è modo di sfuggire alla violenza.

Inoltre, il personale che ha operato il 6 aveva anche l’obiettivo di individuare 15 detenuti considerati gli agitatori delle proteste del giorno precedente. I testimoni riferiscono che alcuni agenti avevano in mano delle schede segnaletiche, probabilmente erano agenti esterni che non conoscevano personalmente i detenuti. I 15 detenuti vengono picchiati duramente. prelevati e messi nella sezione di isolamento al Danubio, piano terra sinistro.

Sappiamo dai casi che seguiamo che dopo le percosse segue quasi immediatamente il trasferimento ma il ‘piano straordinario’ previsto per il carcere Sammaritano si inceppa: nessuno si può muovere dal carcere a causa del Covid e quindi i 15 restato nel reparto Danubio in attesa di un possibile trasferimento.

Questa rappresenta un ulteriore aspetto della vicenda che coinvolge in particolar la catena di comando civile, impegnata a ‘giustificare’ dal punto di vista normativo il trasferimento e la permanenza dei detenuti nei reparti di isolamento. Tali condotte secondo la Procura hanno dato vita ad una serie di ‘falsi’.

Ad ogni modo, i 15 se ne dovevano andare, perché secondo il personale in divisa sono degli agitatori, rompiscatole del reparto. Bisogna eliminare il fastidio.

Finora sembra emergere con chiarezza l’obiettivo della operazione, il vero senso della rappresaglia: il personale è stanco. C’è una richiesta del personale, bisogna dare un segnale forte a tutto il reparto. Questo è l’obiettivo politico.

Come in una guerra bisognava rinsaldare le file ripristinando i rapporti di forza: la perquisizione straordinaria ha una finalità politica perché deve far capire chi comanda.

  • Se andiamo con la memoria a quelle settimane il messaggio che bisognava riportare ordine nelle carceri era veicolato con forza anche all’esterno.

Certo. Basti pensare al Ministro di allora, Buonafede che per prima cosa pubblicamente offre solidarietà al personale di polizia penitenziaria. Traspare la preoccupazione sulla gestione di questo spazio di guerra da parte dei “soldati al fronte”.

  • Torniamo a quanto è accaduto. Abbiamo visto tutti le immagini del massacro in cui si vedono i poliziotti penitenziari accanirsi sui detenuti. Quelle immagini parlano da sole e hanno dato un contribuito fondamentale a costringere l’avvio delle indagini. Come è nata l’intera indagine?

Come al solito ci sono svariate interpretazioni del perché ci troviamo quelle immagini. È un caso fortuito: qualcuno ha detto ai colleghi di disattivare le telecamere, ma anziché disattivarle vengono spenti solo i monitor e quindi le telecamere continuano a registrare.

Dal punto di vista istruttorio ci si confronta con un dato oggettivo molto chiaro.

Tuttavia, ricordo che in quei giorni, mentre le immagini giravano, uscì un articolo di Adriano Sofri che sottolineava l’importanza di riflettere sulla mattanza di Santa Maria Capua a Vetere non solo per quello che ricostruiamo nell’istituto casertano ma, soprattutto, per quello che non possiamo vedere e non abbiamo visto in tutti gli altri istituti di pena.

Oltre ai video c’è un altro aspetto che è stato importante per dare un impulso alle indagini e all’istruttoria: c’è un Magistrato di sorveglianza che capì che qualcosa non quadrava. La magistratura di sorveglianza nel nostro ordinamento dal 1975 in poi ha non solo giurisdizione sull’esecuzione della pena ma ha anche il diritto/dovere di vigilanza. Ricordiamo che nel 1975 la Riforma penitenziaria, frutto delle lotte dentro e fuori al carcere, aveva archiviato l’esperienza normativa fascista dei penitenziari. Il legislatore aveva immaginato che in un conflitto interno di forze servisse attribuire il potere di controllo al giudice, terzo rispetto alle parti. Tale funzione a mia memoria non è mai stata esercitata.

Il Magistrato di sorveglianza, a differenza del Pubblico ministero e del Giudice con funzione giudicante, può ispezionare il proprio istituto all’improvviso. Nel caso di Santa Maria Capua a Vetere il Magistrato di sorveglianza effettuò dei colloqui successivamente alle proteste del 5 aprile. Non riuscendo a parlare con tutti i detenuti, segna i nominativi degli altri. Nei giorni successivi, il giudice chiese al personale di polizia di fare dei colloqui con queste persone, ma alcuni di questi erano stati massacrati e portati in isolamento per cui con una scusa o con l’altra gli fu impedito di incontrarli.

Mentre succede questo iniziano a circolare notizie sull’accaduto grazie soprattutto ai familiari che hanno visto in video chiamata i loro cari con i segni delle violenze e hanno avvertito anche noi di Antigone. Le voci arrivano al Magistrato di sorveglianza. Qualcosa non quadra e quindi decise di recarsi personalmente in istituto e scoprì il massacro.

I familiari presenteranno esposti sull’accaduto, alcuni detenuti tra i 300 comuni picchiati escono per fine pena ancora con i segni delle percorse. Queste persone denunceranno in prima persona quanto accaduto. C’è la denuncia del Garante nazionale Mauro Palma, e di quello regionale. Antigone e altre associazioni prendono posizione con altri esposti.

Tra queste fonti c’è una relazione che il Magistrato di sorveglianza inoltra ai colleghi della Procura della Repubblica. Questa informativa ha un peso notevole su tutta l’inchiesta.

Ricordo un elemento singolare che testimonia la tensione durante le fasi investigative. Una delle prime cose che viene fatta è il sequestro della videosorveglianza. Arrivano i carabinieri nel carcere per procedere al sequestro delle immagini della videosorveglianza. Non c’è collaborazione tra polizia penitenziaria e i carabinieri. Quest’ultimi hanno dovuto materialmente sradicare cioè portarsi via tutta la strumentazione di videosorveglianza del reparto: l’intera macchina!

Le immagini sono chiare.

Tuttavia, non ci sono invece registrazioni su quanto avviene al Danubio, il reparto punitivo in cui sono in isolamento punitivo i 15 detenuti.

  • Si arriva così al processo tutt’ora in corso. Come è iniziato e chi sono gli imputati?

Il processo in Corte d’Assisi parte nel 2021.

Si sfilano all’inizio due imputati, due poliziotti che sono stati assolti non perché il fatto non sussiste anzi questo viene riconosciuto nella sentenza di assoluzione in cui il Giudice di primo grado dà delle fortissime responsabilità al comandante della polizia penitenziaria ma assolve i due per un’inaffidabilità dei riconoscimenti. Problema enorme questo dei riconoscimenti.

Comunque, al di là della vicenda dei due assolti con queste particolarità gli imputati oggi davanti alla Corte d’Assisi sono 105.

Si è iniziato con l’udienza preliminare, poi c’è stato l’abbreviato per i due di cui parlavamo che sono stati assolti. I Pubblici ministeri hanno impugnato la sentenza di assoluzione e lo abbiamo fatto anche noi come associazioni. Andremo a discutere l’appello a settembre di quest’anno chiedendo la revisione della sentenza, cioè la riqualificazione non del fatto perché questo sussiste ma ci sono una serie di questioni rispetto al concorso morale che per noi sono molto importanti, oltre alla questione dei riconoscimenti che va rivista.

Il troncone grosso del processo è ancora in dibattimento.

Nella storia repubblicana, questo rappresenta il più grande processo svolto contro le catene di comando della polizia della polizia penitenziaria e dell’amministrazione penitenziara. I reati per cui è richiesto l’accertamento della Corte di Assise vanno dal falso, al depistaggio, alla tortura contestata nella forma aggravata di aver cagionato la morte di un detenuto, Hakimi Lamine.

La storia di Hakimi è quella degli ultimi della terra: arriva in Italia dall’Algeria su un barcone, cerca di lavorare ma non riesce a trovare nulla e entra nel circuito della “delinquenza comune”. Inizia così la sua vicenda carceraria, gira vari istituti, tra le carte che lo riguardano si intravede l’esistenza di una doppia diagnosi da parte del personale sanitario (psichiatrica e affetto da dipendenze), non si sa se si ammala di schizofrenia in carcere o se già prima presentasse delle sintomatologie. Hakimi era uno dei 15, presenta delle grandi fragilità che non vengono assolutamente tenute in considerazione: picchiato duramente e sbattuto in isolamento. Fatto sta che in isolamento le sue condizioni si aggravano sempre di più fino a quando morirà forse per una intossicazione da farmaci.

Il Magistrato di sorveglianza era riuscito ad incontrarlo in isolamento, trovandolo con gli stessi indumenti del 6 aprile strappati e sudici. Non aveva nulla altro.

  • A che punto siamo arrivati nel processo in dibattimento davanti alla Corte d’assise?

Stiamo esaurendo la lista dei testimoni dei Pubblici ministeri.

E’ stata un’istruttoria molto complessa. Finora abbiamo sentito tutte le persone offese, il personale di polizia giudiziaria, i consulenti tecnici e ne dobbiamo sentire ancora altri per quanto riguarda le trascrizioni delle chat tra gli agenti.

Il 30 di giugno 2025 inizierà una fase importante: inizieremo l’esame degli imputati.

A grandi linee è già emersa quale sarà la strategia della difesa: chi si è macchiato delle violenze peggiori sono gli agenti del personale esterno e non quello di Santa Maria. Inoltre, si vuole sostenere che le denunce fatte dai detenuti sono pretestuose: una sorta di ripicca nei confronti del personale interno.

C’è da registrare una sorte di rottura tra il personale civile e quello in divisa rispetto all’interpretazione di quanto successo.

Emblematica è la testimonianza del capo Dap. di allora, Basentini che ha rivendicato la legittimità dell’operazione. C’erano i presupposti per agire in tenuta antisommossa, dando un’interpretazione interessante sotto il profilo giuridico. Secondo il dirigente non si trattò di un’operazione di polizia giudiziaria per rinvenire materiale pericoloso ma un’operazione di ordine pubblico. Sono due operazioni diverse dal punto di vista tecnico e Basentini, in linea con il Provveditore imputato per tortura in questo processo, afferma che si è trattò di ordine pubblico: l’operazione era legittima, il personale al fronte la ha interpretata come un massacro.

E’ un po’ come la giustificazione del massacro compiuto dalle compagnie della XVI^ SS Panzergrenadier-Division, comandata da Max Simon e dai fascisti della Repubblica Sociale a Sant’Anna di Stazzema. Gli alti comandi delle SS hanno sempre difeso la legittimità dell’operazione di rappresaglia secondo il diritto di guerra. Il massacro è stato compiuto dai soldati.

  • Soffermiamoci su questa parte e cioè la questione del personale esterno della polizia carceraria implicato nelle violenze. Cosa è successo?

Sono stati individuati 32 agenti ed è partito un nuovo filone investigativo. Si sono chiuse da poco le indagini e vedremo le scelte della Procura in relazione anche alle evidenze difensive. In questo caso come in altri che seguiamo ci si rende conto dell’importanza per l’identificazione in generale degli agenti, del numero identificativo che potrebbe dare una mano nella fase istruttoria.

  • In ogni caso è veramente grave che non si sia arrivati velocemente ad identificare gli agenti esterni implicati, visto che non sono certo arrivati a Santa Maria Capua Vetere per caso, ma ci saranno stati ordini di servizio, trasporti organizzati, come si usa in una struttura militare. Non si sta parlando di una rissa in un bar ma di un’operazione che riguarda pubblici ufficiali, per cui tutto dovrebbe essere leggibile e trasparente ma invece, come per molti altri casi, c’è l’omertà generale dei partecipanti e della catena di comando.

C’è un tratto in questa storia che ricorda, ovviamente con le dovute proporzioni, quello che è successo in America Latina con le dittature. Ne ho parlato poco tempo fa partecipando ad un seminario sulla tortura in Argentina. Gli studenti denunciavano il patto del silenzio dei militari che hanno operato sotto Videla, silenzio che non ha permesso di scoprire tutti i colpevoli dei massacri.

Una sorta di patto del silenzio lo stiamo vedendo in Italia sui fatti di Santa Maria Capua Vetere.

Con le mie compagne e miei compagni di Antigone e di Napoli Monitor stiamo riflettendo proprio sull’osservazione attenta processo (e degli altri procedimenti per tortura) perché offre la possibilità di capire quando la violenza diventa strumento per ripristinare lo spazio penitenziario.

Poco ci importa la posizione del singolo, invece riteniamo necessario riflettere sulla violenza istituzionale, sull’uso della tortura e sulla forza.

Questo discorso vale anche per i medici che non hanno riferito niente sulle lesioni ai detenuti, eppure la loro deontologia lo prevederebbe, per gli agenti che non hanno picchiato personalmente i detenuti ma che l’indomani non sono andati alla Procura della Repubblica a dire “guardate è successa una cosa strana, eccezionale”.

L’istituzione riesce quasi sempre a muoversi in modo armonico, condivide nei propri segmenti interni una linea di intervento in situazioni di pericolo, magari non ufficiale ma ufficiosa. Un istinto animale di autoconservazione.

  • Si può dire che se il processo in corso, il troncone con i 105 imputati, è importante e che anche il secondo che si aprirà potrebbe servire ancora di più ad aprire la discussione sulla valenza politica complessiva della rappresaglia alla base delle violenze a Santa Maria Capua a Vetere?

Sarà anche importante vedere come finisce con i due agenti assolti su cui abbiamo proposto appello, perché anche in quel caso il tema è quello dell’identificazione. Una rilettura delle identificazioni potrebbe essere d’aiuto nel processo contro i 32 agenti esterni.

Noi come Antigone ci siamo costituiti come parte civile insieme a ACAD, Yarahia Onlus…

Per valorizzare la presenza della società civile all’interno del processo sarebbe importante che a costituirsi fossero ancora più associazioni.

Seguire direttamente questo processo in modo militante ci dà l’opportunità di accendere i riflettori su questo laboratorio del potere, sulla violenza che emerge e viene organizzata dall’autorità costituita.

Il Decreto sicurezza, ora Legge, sappiamo che è molto complesso e prende di mira tutte le forme di organizzazione e di protesta. Per quanto riguarda il carcere risponde alla necessità di tutelarsi da vicende come quella di cui stiamo parlando perché è come se cambiasse le regole di ingaggio. L’approvazione del Decreto Sicurezza quanto peserà sulle vicende interne alle carceri?

Il decreto riscrive anche lo spazio penitenziario. Basti pensare che definiscono il concetto di rivolta (assolutamente non chiaro dal punto di vista giuridico) anche condotte passive.

Stiamo parlando delle normali dinamiche finora in carcere come espressione dei detenuti. Per restare sul caso di Santa Maria Capua a Vetere alcuni detenuti sono stati sentiti in merito alle proteste del 5 aprile, hanno dichiarato che si rifiutarono di tornare in cella, ammettendo di aver compiuto la resistenza ad un ordine; tuttavia, la Corte non ha trasmesso gli atti in Procura perché non individuati gli estremi della resistenza così come è conosciuta nel codice penale e ha continuato a sentire quelle persone come testimoni semplici. La nuova legge incrimina in modo esplicito anche queste condotte pacifiche.

  • Oltre a questo aspetto di snaturamento della fattispecie della resistenza passiva va anche segnalata la pericolosità delle norme sulle forze dell’ordine ad iniziare dalla questione della loro tutela legale. Insomma un insieme di misure particolarmente pericolose. Cosa ne pensi?

La riflessione deve essere ampia, provo solo a porre dei punti iniziali a partire dalla vicenda di Santa Maria Capua a Vetere.

Partendo dalla mia personale convinzione dell’idea di giustizia come riproduzione degli apparati di dominio, ritengo che il reato di tortura, imperfetto e poco chiaro, sia stato utile per accendere un riflettore sul potere. Il legislatore con la legge di conversione dell’11 aprile 2025, n. 48, offre un aiuto sostanziale alle forze dell’ordine proprio in relazione ai procedimenti in cui sono coinvolte. Il capo III della legge titola esplicitamente: Misure in materia di tutela del personale delle Forze di polizia, delle Forze armate e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124.

Si sta legittimando una distinzione problematica tra società civile e personale in divisa con la previsione di facoltà e tutele differenti.

Anche in una società basata sul “diritto borghese”, si sta creando un’area di esclusività: è il segno di inizio di una nuova fase e la chiusura di un ciclo secolare di costruzione formale delle regole delle interazioni collettive.


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Le Forze Armate italiane nella NATO: dottrine e compiti


Prima ancora che la NATO adottasse ufficialmente la dottrina della “difesa avanzata”, le caratteristiche geostrategiche del fronte italiano resero obbligata la scelta di condurre la difesa aeroterrestre al Brennero e tra i fiumi Isonzo e Tagliamento, a ridosso del confine nordorientale, che appariva come il meglio difendibile: la sua estensione non superava i 70 km, dunque era ridotta, poggiava per gran parte sull’arco alpino o su terreno collinare adatto alla difesa, salvo che nella piana di Gorizia, la quale peraltro avrebbe potuto essere fortificata. Inoltre, i pochi assi di penetrazione percorribili dall’Ungheria, vale a dire dalla linea di attacco più prevedibile delle forze sovietiche e dei loro alleati, erano particolarmente vulnerabili all’offesa aerea e all’impiego di armi nucleari.
La scelta di soluzioni alternative, per contro, avrebbe comportato lo sbocco dell’aggressore nella pianura padana, dove la resistenza delle forze di difesa italiane si sarebbe rivelata ben più difficile. Infatti, nell’eventualità in cui fosse riuscito a stabilizzare una linea di difesa sull’Appennino e le Alpi occidentali, l’aggressore avrebbe rescisso il collegamento tra il fronte centrale e quello meridionale della NATO, si sarebbe impadronito di tre quarti del potenziale bellico nazionale (concentrato nel triangolo Milano-Torino-Genova) e avrebbe potuto creare un governo collaborazionista; ipotesi quest’ultima che, considerata la forza e il seguito del Partito comunista italiano, era tutt’altro che peregrina.
I perni della struttura difensiva italiana erano dunque il Brennero, il sistema Cadore-Carnia, la zona prealpina di Udine, la zona collinare e di pianura tra l’Isonzo e il Tagliamento, il Carso e Trieste, la Laguna veneta <84.
Per quanto concerne invece i compiti assegnati alle varie forze, essi erano i seguenti. Per l’Esercito, difendere soltanto con le proprie forze la frontiera orientale in attesa delle forze aeree statunitensi che avrebbero potuto raggiungere lo scacchiere orientale italiano, ad esempio decollando da portaerei in navigazione nel Mediterraneo. Questa capacità di resistenza avrebbe dovuto esercitarsi per tutto il tempo necessario a consentire la mobilitazione delle forze americane e di quelle NATO, una parte delle quali sarebbe stata destinata a supportare direttamente le truppe italiane sul fronte orientale della penisola. Oltre a questo compito prioritario, all’Esercito italiano era richiesto, come compito secondario, di tenere il controllo di tutto il Paese dal punto di vista dell’ordine pubblico. Per quanto concerne invece la Marina, ad essa era affidato l’incarico di operare come scorta dei convogli alleati nel Mediterraneo e di garantire la difesa costiera della penisola, oltre a supportare, in funzione comprensibilmente subalterna, il mantenimento del dominio navale alleato nell’area mediterranea e a consentire l’esplicazione del potere aeronavale alleato. L’Aeronautica, infine, dal momento che all’epoca era la Forza Armata più debole e antiquata di tutte, non avrebbe avuto altri compiti se non quello di concorrere, con mezzi limitati, all’azione delle altre forze <85.
Fu in questo periodo iniziale di partecipazione italiana all’Alleanza che si dimostrarono determinanti gli aiuti economici e militari statunitensi intesi ad accelerare la ricostruzione delle strumento militare italiano e, al tempo stesso, il suo ammodernamento <86.
Tutto questo sostegno non era ovviamente casuale, ma intendeva significare, in concreto, l’attenzione che gli Stati Uniti e, in subordine, la NATO attribuivano all’Italia quale caposaldo dello schieramento atlantico in Europa, un caposaldo che non intendevano assolutamente perdere e che anzi erano decisi a difendere dalle posizioni più avanzate possibili, in quanto perfettamente consapevoli del fatto che, se un’eventuale offensiva sovietica fosse riuscita a sfondare e a dilagare nella pianura padana, l’intero fianco Sud della NATO avrebbe rischiato di essere aggirato e la difesa occidentale sarebbe stata spinta all’indietro, fino alla penisola iberica, con conseguenza gravissime <87.
Su questo sfondo, resta ovviamente irrisolta la diatriba tra chi riteneva che l’allineamento atlantico del nostro Paese fosse una scelta determinata dalla volontà o imposta dalla necessità e chi riteneva invece che, pur partecipando allo schieramento atlantico, sarebbe stato preferibile, per l’Italia, adottare un atteggiamento meno passivamente prono agli interessi degli alleati e in particolar modo degli americani e più attento, per contro, alla tutela dell’interesse nazionale, senza peraltro dimenticare il fatto che, in quel periodo, non pareva chiaro né alla dirigenza politica né a quella militare quale fosse realmente il nostro interesse nazionale <88.
A livello dottrinale, vale a dire di elaborazione della dottrina operativa delle Forze Armate italiane <89, le prime pianificazioni postbelliche riguardarono l’organizzazione difensiva (1948), le operazioni combinate avioterrestri (1949), la difesa su ampi fronti (1950) e la cooperazione avioterrestre (1951).
La prima serie dottrinale dell’Esercito fu la 3000, elaborata a cavallo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, che fu anche l’ultima delle concezioni dottrinali ispirate a una visione del conflitto di tipo esclusivamente convenzionale <90.
La regolamentazione successiva, che risale al 1958-60 (circolari della serie dottrinale 600), rifletteva invece i principi della dottrina NATO della “rappresaglia massiccia”, adottata dall’Alleanza nel 1954. Si prevedeva infatti la costituzione di due posizioni difensive, poste a distanza di 50-90 km l’una dall’altra, il cui compito era quello di attirare le forze attaccanti nei punti più vulnerabili al fuoco nucleare. Non era prevista, peraltro, una manovra controffensiva su larga scala, il che la dice lunga su quello che era considerato il ruolo delle forze italiane, relegato di fatto a compiti di mera resistenza passiva, da esercitare fino a che non si sarebbe manifestato, sul terreno, il supporto militare alleato, soprattutto americano.
La serie dottrinale 600, approvata nell’aprile del 1958, fu comunque molto apprezzata, soprattutto negli USA, dove fu addirittura oggetto di studio e di insegnamento. Si trattava, infatti, della prima normativa di impiego elaborata da un esercito occidentale che prevedeva l’uso di armi atomiche e cercava di valutarne concretamente gli effetti tanto per chi difendeva quanto per chi attaccava <91. Come tale, era certamente ricca di spunti dottrinali di interesse non trascurabile, anche perché enormi erano gli interrogativi che gravavano sulla reale possibilità di condurre operazioni efficaci in ambiente pesantemente contaminato. Ogni contributo dottrinale in tal senso, quindi, era il benvenuto, anche se tutti parevano complessivamente alquanto ottimistici sul tema dell’operatività dei reparti dopo uno scambio di fuoco nucleare, in quanto era difficilissimo individuare l’entità delle distruzioni che avrebbero avuto luogo.

[NOTE]84 Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica…, cit., p. 79 sg.
85 Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975…, cit., p. 97.
86 Ibidem, p. 99 sg.
87 Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975…., cit., p. 118.
88 Ibidem, p. 150 sg.
89 La dottrina militare è una delle due diverse e fondamentali fonti della tattica militare (l’altra fonte sono gli ordini di operazione), fornisce gli orientamenti per l’impiego delle forze nei casi medi. È contenuta in circolari e pubblicazioni delle serie dottrinali, il cui aggiornamento consegue o ad una mutata visione strategica ovvero a profondi cambiamenti nell’organizzazione delle Forze Armate. Fonte: it.wikipedia.org/wiki/Tattica_…
90 Enea Cerquetti, Le Forze Armate italiane dal 1945 al 1975…, cit., p. 107.
91 Ibidem, p. 186 sgg.
Roberto Pistoia, L’Italia e la NATO dal 1949 al 1989, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013

Nelle prospettive della NATO, la flotta all’inizio era considerata una struttura di sostegno rispetto all’enfasi sulle forze di terra, impegnate a contrastare l’armata rossa per mantenerla quanto più possibile distante dalle regioni occidentali, alle quali si richiedeva di garantire le linee di comunicazione e l’azione di ricognizione.
Questo disegno strategico si fondava sul convincimento che il controllo delle regioni europee avrebbe determinato le sorti d’ogni conflitto con Mosca.
Perciò, la marina insisteva perché la linea di difesa si concretizzasse quanto più possibile ad est dei confini della cortina di ferro e la flotta costituisse una percentuale considerevole di tutta la forza militare degli Alleati; tuttavia, per rendere effettiva la deterrenza, si confermò la centralità del sistema difensivo terrestre, affiancato però da un consistente concentramento di forze aeree e navali.
La scelta indusse ad approfondire le strategie per coordinare meglio tutti i soggetti impegnati nel teatro, di conseguenza, si incominciò a considerare con maggiore attenzione il Mediterraneo e la sesta flotta, rimasta sempre sotto comando statunitense.
Alessia Cherillo, I rapporti tra l’Unione Europa e la NATO, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Anno Accademico 2011-2012

#1948 #1951 #1954 #1958 #Aeronautica #AlessiaCherillo #armate #dottrina #esercito #forze #Marina #militare #NATO #RobertoPistoia


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recensione alberghiaca con sorprese megapazzurde e stasi ottimalizzata!


A grandissimissima richiesta (…di ben 1 persona), quasi urgeva una recensione dell’albergo dove sono stata per poco più di metà della settimana scorsa… utile a non si sa chi o cosa, data la solita mia necessaria precauzionale omissione di dettagli altrimenti fondamentali, ma il piacere della storiella (o, come dice il caro Piero Angela, il piacere della scop..ta) è sempre altamente importante e necessario a non sprofondare ogni giorno sempre di più in quello stato dell’essere che ci (mi) vede... vabbè, scusate, basta cazzate. 🙁

Vediamo prima le cose strane, così togliamo il dente bizzarro e via il dolore causato dalla morbosa curiosità. A parte il non proprio spassoso incidente dell’ultima sera, che fa testo a sé, di cose curiose ce n’erano un bel po’ in questo hotel; queste altre, per fortuna, non avvilenti. La cosa che forse più colpiva, complessivamente e continuamente, è che… proprio all’ingresso, affianco alla reception, aveva un bar… che operava da normale bar, essendo in centro. In 4 giorni non ho visto nessuno andarci, però oh: per chi ha interesse, ci sta il bar. Anzi, ci sono due bar: c’era una sala interrata, che fungeva da sala colazione (e solo colazione, il resto del tempo era chiusa), e aveva un altro bancone/postazione bar. Addirittura, le pareti di questa erano affrescate con un tema apposta per l’hotel… ma non ho fotine mie ora, quindi ops. 👻

Passando alla camera… Altre cose strane sono che il rubinetto del lavandino si chiamava Cristina(e si, le marche delle robe idrauliche sono sempre stranamente assurde, maCristina non l’avevo mai vista)… mentre, la marca dell’area lavandino proprio, è un altro nome mai sentito, TECHNOVA, ma la cosa che mi ha lasciata confusa è che il font sembra uscito tipo da un anime… queste lettere un po’ rotonde con la O che è una stellina, insomma… E poi ancora, nell’armadio appendiabiti (non in bagno ovviamente), c’era il quadro elettrico della stanza, con un cartello che diceva tipo di non aprire se non autorizzati… ma la porticina di plastica era di suo mezza aperta, quindi il cartello nel contesto sembra una presa in giro. Boh, roba proprio strana si trova, mi sa, andando in giro con l’occhio clinico ben aperto. 👁️
Lavandino e rubinetto come descritti, con le frecce ad indicare bene
Temo di non essere proprio bbona a fare le recensioni dei posti, però, perché i tratti positivi di forte impatto che riesco a dire solo solo 2… però oh, son roba tosta. Come già detto, con la stanza solo per me le faville sono state sensibili: anzitutto perché il letto era a due posti, ma c’ero appunto soltanto io, quindi ho dormito alla grande, senza sentire i rumori molesti dei miei genitori — altrimenti succede puntualmente che loro fanno il roleplay della Russia (russano e invadono il mio sonno) e io quindi dell’Ucraina (sigh) — e perdendomi ampiamente in questo letto, gigante per i miei standard (0.5 posti più grande del mio solito, wow), stabilendo insomma per bene anche in trasferta il mio stato da principessa femcel marcia… ma poi, perché avevo il bagno solo per me… 😈

E il bagno, anche se era più piccolo di quello dei miei genitori — che, al contrario, avevano la parte principale della stanza più piccola di me, opsera stellare… da gaming, oserei dire. E il gaming è infatti avvenuto alla grande, la sera che avevo un po’ di tempo (si, proprio quella dell’incidente) e ho quindi deciso di provare la doccia che c’era. Il design era molto strano a prima vista, e certamente mi aspettavo qualcosa di insolito nel suo uso… ma non immaginavo che avesse letteralmente i LED blu (primo colore del gaming!!!) e dei display numerici per indicare la temperatura corrente dell’acqua e il tempo trascorso con essa accesa!!! In confronto alla roba normalissima che posso permettermi io a casa, questa doccia è stata super premium… tanto che, trasportata dal gaming, ho deciso di farmi anche lo shampoo, nonostante inizialmente volessi solo sciacquarmi. (Poi vabbè, lo shampoo ha causato altri problemi, ma quella è una condanna mia personale.) 😻

Ecco, del bagno in realtà non mi è assolutamente piaciuto che il sapone per le mani fosse in un dispenser automatico (non solo da me, anche dai miei era così)… A parte che si mimetizzava col muro, quindi inizialmente non lo notavo e mi chiedevo dove straminchia fosse il sapone per le mani, non essendoci saponette in giro, ma solo il flaconcino per la doccia… è semplicemente terribile il fatto che si attivi con un sensore di prossimità: se si appoggia qualcosa lì sotto per sbaglio, ecco che questa verrà sburrata immediatamente dal macchinario, senza se e senza ma… e anche banalmente per prendere il sapone, è scomodo, non si capisce mai come bisogna mettere e togliere la mano, e quindi ogni tanto va a cadere, sporcando la superficie attorno al lavandino. 😭

Però… in un certo senso, questo contrasto tra elementi di lusso e oggetti che vanno bene solo in un bagno pubblico ha una sua personalità… E quindi, comunque, tutto sommato, nice albergo da 3 stelle in provincia di Roma; non costato troppissimissimo, considerato che il totale con le due stanze è stato 800€ per 4 notti. Ci sarebbero ora foto da salvare riguardo il viaggio, ma, tra questo blog, il sito delle foto, Pixelfed, la BBS, ora anche Sharkey, oltre pure al semplice Pignio, non so manco dove mettere cosa, e allora zzz, circolare, non c’è null’altro da vedere qui… 🥴

#albergo #curiosità #hotel #recensione #stranezze #vacanza


pazzia alberghifera e si rimane a marcire (fuori dalla stanza non potendo entrare)


Non l’ho detto appena è successo, perché la solita scaramanzia è sempre d’obbligo, e quindi ho piuttosto aspettato di tornare a casa… e poi però mi seccai, quindi eccomi solo il giorno ancora dopo a raccontare il momento (assolutamente per nulla!) epico successomi in albergo, per fortuna solo una (1) volta e solo l’ultima sera, e non troppo tardi… menomale… (Magari può interessare alla 1 persona che mi legge che lavora in hotel, chissà.) 💣

Praticamente, tornavo in camera dopo che avevamo passato la prima parte della giornata fuori… e la porta non si apriva appoggiando la scheda. Ho provato per 2 minuti buoni a passarla in qualsiasi posizione sul lettore, ma ops, niente. Andando a chiedere in reception, quindi, si scopre l’assurdo: era zompato tutto!!! Cioè, se ho ben capito (o loro hanno ben spiegato), per un attimo gli risultava come sparito il mio profilo o qualcosa del genere (non ho ben capito, non ho idea di che robo ci giri su quei computer), poi pare di no, ma comunque in tutto ciò la scheda (una di quelle bianche classiche… con il numero della camera appiccicato con lo scotch, lol) comunque non ne voleva sapere di funzionare. (Spacc.) 💩

L’hanno riscritta un paio di volte e provata, ma niente. Quindi mi hanno dato temporaneamente un’altra tessera, che tenevano a giro… e poi un quarto d’ora dopo mi hanno ridato credo la stessa, e funzionava. Quindi mi chiedo cosa sia successo in quel lungo ma breve frangente di tempo… l’avranno completamente brasata e riflashata? Si sarà smagnetizzata o schifezze varie, pur stando giusto nel mio zaino, dove NON ho bombe ESD o atomiche? E chi lo sa… mi hanno detto che non era la prima volta che una stranezza simile succedeva in albergo, ma che era comunque alquanto rara (e ovviamente, stando io in una stanza diversa da quella dei miei genitori, quindi impattando solo me, i potery forty dovevano necessariamente farmela succedere). 🧭

La cosa veramente strana, però, è che i problemi non erano finiti qui! Con la scheda in sé in realtà si — e ripeto, menomale, soprattutto perché in questo hotel per qualche motivo non c’era neanche il turno continuato dei dipendenti, quindi non voglio nemmeno immaginare che bordello sarebbe stato dover rientrare alle 11 di sera ma avere la porta che non subisce la magia di apertura!!! — ma praticamente, proprio nel mezzo di questo casino con la tessera, era uscito pure un glitch con il condizionatore, o una merdata del genere. Lo avevo spento, con il tastino a muro, come avevo fatto le altre sere… e poi però non si accendeva più. Ho premuto tutti i tasti e modificato in ogni modo le classiche opzioni per nulla chiare… e non si smuoveva. Normalmente poi, togliendo la scheda dal muro per fare come per uscire, quindi aspettando un minutino, si accendeva comunque da solo per tenere la stanza a temperatura… e stavolta no. Prima che la stanza si riscaldasse davvero troppo, che in 10 minuti già stavo sudando, chiedo un’altra volta al tizio… e, magicamente, dal suo computer lo vedeva spento, nonostante io avessi poi premuto il tasto per farlo andare (ed è concettualmente assurdo ‘sto fatto che dal computer suo veda il condizionatore mio, quando il mio computer a casa mia non sa nemmeno che in camera mia c’è un condizionatore, ma lasciamo stare). Ha “riacceso” anche quello, in questo caso subito, ma a quel punto l’affaraccio non ho avuto il coraggio di toccarlo minimamente, e l’ho spento solo quando mi sono messa a fare lo suripu (durante il quale, per fortuna al contrario, è rimasto spento). 😨

L’hotel dei pazzi insomma, mamma mia!!! Anche se, comunque, non mi posso lamentare, perché la mia camera era comunque crazy (cioè, meglio di quella dei miei genitori)… e in questo tecnicamente lo staff ha mostrato la giusta riverenza, dando automaticamente a me la stanza top e ai miei quella più zzz, con la consegna delle chiavi al check-in, senza aver fatto domande. Purtroppo, gli spiriti malevoli mi seguono ovunque io vada, e portano come sempre le cose più strane a succedere ai miei danni; non è colpa degli umani, in questo caso. 🤥

#albergo #hotel #stanza


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in reply to minioctt

“dobbiamo denazificare—ehm volevo dire, demarcificare il sonno”

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In Italia gli anglicismi avanzano, mentre in Francia esplodono le denunce


Di Antonio Zoppetti

L’altro giorno leggevo che la Carta acquisti destinata alle fasce sociali deboli, ma più nota come “social card”, è stata reintrodotta con il nome di “Carta dedicata a te”, il che non impedisce ai giornalisti di “sintetizzare il concetto” attraverso l’inglese, anche quando cozza con l’immagine che raffigura una tessera in italiano, che comunque è messo in secondo piano, sfumato o semplicemente cancellato come se non esistesse.

Questo modo di dare le notizie, invece di produrre un effetto estraniante e suscitare delle reazioni infastidite, ha ormai subito un processo di normalizzazione, in una cultura – che ho definito appunto “coloniale” – dove sempre più concetti e oggetti si esprimono nella lingua superiore dell’anglosfera.

Perciò, davanti ai gatticidi – visto che i killer hanno sostituito gli assassini – si parla di un ipotetico serial killer dei gatti di Cogne che per essere catturato avrebbe bisogno di un profiler.

La lingua dei mezzi di informazione, che un tempo – quando le masse erano ancora in gran parte dialettofone – ha contribuito enormemente a unificare l’italiano, oggi lo sta invece anglicizzando. La conseguenza è che questo stilema linguistico anglomane normalizzato si estende, viene preso come modello, ripetuto e interiorizzato anche dalla gente in un processo di assuefazione. E così accade che qualcuno preferisca chiamare il proprio gatto con un nome in inglese – Joy – perché siamo ormai in presenza di una “diglossia lessicale” dove tutto ciò che suona in inglese è più solenne, moderno e preferibile a cominciare dal “profiler”.

L’insostituibile e innovativo concetto di profiler

Chi diamine è un “profiler”? Perché non parliamo di “profilatore”?

La premessa è che dal 2000 al 2006 è andata in onda sulla Rai una serie intitolata Profiler, affiancata da un’espressione italiana (Intuizioni mortali) secondo la logica che dagli anni Novanta si è imposta anche al cinema. Le multinazionali statunitensi esportano i propri prodotti con denominazioni inglesi intoccabili a partire dai titoli dei film (dunque siamo passati da Guerre stellari a Star Wars, dall’Uomo Ragno a Spiderman, dal Monopoli al Monopoly). Questa espansione dell’inglese dei mercati ha da tempo portato a utilizzare l’inglese per denominare qualunque ruolo professionale o carica lavorativa (dai manager sino ai pet sitter), in una più ampia anglicizzazione delle funzioni e dei processi del settore (outsourcing, joint venture, part time…). Dunque, lo psicologo criminale che ha il compito di individuare un profilo psicologico di chi commette un delitto diviene profiler, che inizialmente si introduce e diviene popolare attraverso l’intrattenimento televisivo, e poi si emula nella realtà attraverso una compiaciuta alberto-sordità che ci spinge a voler fare gli americani. Profiler finisce dunque per ricavarsi un significato tecnico legato alla criminologia assente nell’inglese (dove profiler è un generico disegnatore di profili oppure una macchina sagomatrice). In questo contesto, l’esperto “inviato da fuori” – cioè il deus ex machina che ci proviene dall’anglosfera – si esprime con i concetti di quella lingua, e guai a tradurli! Non avrebbero la stessa portata, e la prima cosa da fare, davanti all’inglese incipiente è quello di difenderne l’autonomia, nel tentativo di dimostrare che esprime qualcosa di diverso dall’italiano: profiler (sott. criminale) non è proprio come profilatore (criminale).

Per comprendere come agiscono i serial killer dell’italiano basta leggere il blog di un’università italiana che ci spiega come stanno le cose (e ci educa) in una guida pratica per diventare “profiler”:

Se sei uno studente appassionato di giustizia penale e sei affascinato dalla risoluzione di casi complessi, potresti aver sentito parlare della figura del profiler criminale. (…) È fondamentale distinguere tra profilo criminale strumento investigativo e la figura del criminologo. Il criminologo studia le cause sociali, psicologiche e culturali del crimine, mentre il profiler si concentra su raccogliere indizi sulla scena del crimine, le tracce forensi e la dinamica del reato per ricostruire il profilo psicologico dell’autore e orientare le indagini. (…) Diventare un profiler criminale richiede un percorso di specializzazione ben preciso. Tuttavia, è importante sottolineare che in Italia la figura del criminal profiler non è ancora inquadrata ufficialmente.

Da notare che non c’è alcuno sforzo di chiamare le cose in italiano, profiler è introdotto senza alternative, come qualcosa di necessario, e accanto alla forma ibrida (profiler criminale) viene introdotta anche la variante inglese completa con inversione sintattica (criminal profiler). Si chiama così. Punto.

Sarebbe però interessante avere un profiler linguistico che analizzi il profilo psicologico malato di chi concepisce certe idiozie che sembrano sgorgare dalla scrittura di un’intelligenza artificiale (denominata AI invece di IA, of course).

In Italia – si legge nell’articolo – il “criminal profiler” non è ancora una realtà, e dietro quell’ancora c’è una ben precisa visione di un’italietta arretrata rispetto a quella americana; ma verrà il giorno che anche noi primitivi ci evolveremo e finalmente anche da noi ci sarà un esercito di criminal profiler con le loro insostituibili competenze che derivano dal chiamare le cose in inglese.

Il paradosso comunicativo di una simile propaganda è che mentre il criminal profiler è venduto come un traguardo che comprende “pattern e motivazioni attraverso le tecniche del criminal profiling” e del “profiling psiologico” (“profilazione” non è una parola contemplata), non esiste una laurea specifica in criminal profiling, dunque non resta che intraprendere un percorso in “Laurea in Psicologia Forense o in Giurisprudenza” per poi specializzarsi “con master criminologia online, corso criminal profiling o master in criminologia.”

Insomma, tocca ancora ricorrere alle risorse italiane per aspirare a definirsi con un concetto in inglese.

Il pezzo si conclude con la spassosa indicazione di come diventare profiler dell’Fbi, uno sbocco occupazionale che – come è noto a tutti – rappresenta un’opportunità tra le più gettonate per gli studenti italiani formati a spese nostre che genereranno ricchezze per i Paesi che se li accaparreranno nella cosiddetta fuga dei cervelli.

Colpisce che una simile comunicazione di un ateneo italiano sia caratterizzata da queste baggianate. Colpisce soprattutto lo stile semplice e lineare nel formare il periodo, che ricorda molto quello dei pensierini dei bambini delle elementari, che assurge invece a esprimere qualcosa di più complesso solo attraverso i paroloni in inglese.

Questo comunque – che piaccia o meno – è il nuovo “italiano”.

L’anglicizzazione è un fenomeno mondiale

Tullio De Mauro – dopo aver passato una vita a negare che l’itanglese fosse un problema (cfr. “Gli anglicismi? No problem, my dear”) – nel 2016 si è dovuto ricredere davanti ai nuovi dati, e ha cambiato prospettiva arrivando ad ammettere che siamo ormai in presenza di un vero e proprio “tsunami anglicus” che sta travolgendo non solo l’italiano, visto che il fenomeno è planetario.

Gli anglicismi sono l’effetto collaterale della globalizzazione che esporta l’inglese come lingua internazionale dei mercati, come ho provato a ricostruire in un libro che analizza il caso italiano. Ma a colonizzare il mondo con la terminologia e il lessico d’oltreoceano non c’è in gioco solo il globalese delle multinazionali e la supremazia culturale, economica e sociale degli Stati Uniti. Queste enormi pressioni esterne si confrontano con le pressioni interne legate alle lingue locali che nei singoli Paesi arginano questo fenomeno.

In Italia purtroppo, le pressioni interne della nostra classe dirigente – dalla politica alla cultura, dalla scienza alla tecnica – puntano al prestigio dell’inglese e dunque agevolano questo processo, invece di frenarlo.

E noi cittadini cosa possiamo fare davanti a questo scempio, a parte brontolare? Niente. Siamo in balia di questa newlingua di classe, un ibrido traboccante di orgoglioso inglese con cui si educano i nuovi italiani, spesso dall’alto, e spesso in modo istituzionale, a partire dal governo, dalle Poste italiane, dalle Ferrovie dello stato, dagli atenei universitari…

Non possiamo che guardare questo scempio infastiditi e impotenti, mentre ci sono linguisti che invece di deprecare tutto ciò, negano che l’interferenza dell’inglese sia preoccupante senza addurre motivazioni plausibili, e brindano alla modernità di questo nuovo inglese coloniale, che chiamano internazionale, come si brindava sul Titanic.

In Francia, invece, esistono delle leggi che tutelano il francese e i francesi, e nel linguaggio istituzionale e ufficiale è vietato usare parole straniere (anche se queste si declinano quasi sempre con l’angloamericano). Naturalmente l’anglomania e gli anglicismi impazzano anche lì, ma il fenomeno è attenuato a partire dai giornali, mentre l’Académie française (come la Real Academia Española del resto) stigmatizza le parole inglesi e crea alternative autoctone che diffonde, e che spesso sono recepite anche dai giornali, in un contesto politico che tutela i cittadini e la trasparenza della comunicazione. E così esistono commissioni per l’arrecchimento del francese e banche terminologiche ufficiali che traducono ogni tecnicismo, per cui il ricorso all’inglese diventa una scelta espressiva sociolonguistica e non una necessità, come da noi.

Le oltre 90 denunce di Daniel De Poli e dell’associazione Francophonie Avenir

In Francia, davanti all’anglicizzazione è possibile intervenire da un punto di vista legale, e fare causa agli enti che non rispettano le leggi. Come fa Daniel De Poli che mi ha segnalato la sua nuova “rivoluzione francese” sul piano della lingua.

Membro dell’associazione per la difesa della lingua francese Francophonie Avenir, tra giugno e luglio scorsi, Daniel ha dato vita a una delle più massicce e sistematiche operazioni di denuncia mai realizzate, inoltrando ben 90 lettere destinate alle università, alla Corte di Cassazione, al consiglio di Stato e a tutti gli enti pubblici francesi – compreso trenitalia.fr – che utilizzano illegalmente gli anglicismi che sulla carta dovrebbero invece evitare. Chi vuol vedere quello che sta facendo, può consultare la pagine dell’associazione che raccoglie tutti i Ricorsi amichevoli presso università e collettività; ma decine e decine di altre lettere – mi scrive – sono in preparazione e a tutte queste seguiranno i ricorsi in tribunale veri e propri, se non sortiranno effetti.

“La cosa importante da ricordare è che solo un’azione legale può produrre risultati nella lotta contro gli anglicismi” mi ha spiegato. “Se si inviano semplici lettere di protesta, spesso non succede nulla. Ma davanti al rischio di un’azione legale, i lupi si fanno agnelli e di solito provvedono a eliminare gli anglicismi. Per gli altri che non si adeguano, invece, saranno i tribunali a imporre loro di conformarsi e a multarli.”

Questa linea sta funzionando, e Daniel è stato definito da Le Figaro “il cacciatore di anglicismi che è diventato il benevolo terrore della stampa francofona”. L’agguerrito contrattacco all’anglomania ha già portato a molte condanne, come quella dell’aeroporto di Metz-Nancy-Lorraine di cui ho già riferito in passato, o quella dell’Università di Bordeaux condannata lo scorso dicembre per l’uso di anglicismi nella sua segnaletica (un elenco di tutte altre condanne è disponibile sul sito di Francophonie Avenir).

Questi ricorsi legali non solo portano all’eliminazione dei singoli anglicismi illeciti, ma finiscono con il creare un clima culturale in antitesi a quello anglomane, in una stigmatizzazione del “franglais”, visto che il problema non sono i singoli anglicismi, ma l’anglomania da cui scaturiscono. Dunque in Francia davanti all’anglicizzazione esiste – ed è possibile – una resistenza, mentre in Italia ci sono solo i “collaborazionisti” – per riprendere le parole del filosofo francese Michel Serres – della dittatura dell’inglese; e l’itanglese prospera proprio a partire dal linguaggio istituzionale.

#anglicismiNelFrancese #anglicismiNellItaliano #francese #inglese #interferenzaLinguistica #itanglese #linguaItaliana #paroleInglesiNellItaliano #politicaLinguistica #rassegnaStampa


Alienazione linguistica e diglossia lessicale


Di Antonio Zoppetti

Provo a a riprendere e sviluppare qualche riflessione esposta in una lezione intitolata “L’italiano e i libri ieri e oggi: l’inglese tra le righe?” che ho tenuto la scorsa settimana presso l’Università di Heidelberg (Istituto Italiano di Cultura di Stoccarda) nell’ambito della XXIV Settimana della lingua italiana nel mondo.

La diglossia storica: il toscano e gli altri volgari

Alla fine del Trecento, in una corrispondenza privata con il toscano Francesco di Marco Datini di Prato, il lombardo Giovanni da Pessano si scusava per non essere un “bon scritore” e per non essere “achostumato” alla scrittura colta [Lorenzo Tomasin, “Sulla percezione medievale dello spazio linguistico romanzo”, in Medioevo romanzo, Dalerno editrice, Roma 2015, XXXIX / 2, p. 280].
A quei tempi, il volgare toscano si stava imponendo in tutta la nostra penisola come lingua colta della scrittura, ed era considerato di maggior prestigio rispetto agli altri volgari, soprattutto quelli del nord che erano percepiti come rozzi. In uno scritto di Dante sui volgari (il De vulgari eloquentia), le parlate di genovesi, milanesi e bergamaschi erano addirittura oggetto di scherno, e anche Machiavelli (nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, 1524 circa) non poteva accomunare l’idioma di Dante alla lingua di “Milano, Vinegia e Romagna, e tutte le bestemmie di Lombardia.”

Nel Cinquecento, in Italia regnava la diglossia, cioè un bilinguismo squilibrato per cui le masse perlopiù si esprimevano nei propri idiomi locali, ma la lingua “superiore” dei libri era diventata il toscano delle tre corone del Trecento (Dante, Petrarca e Boccaccio) elevato a modello grammaticale, o al massimo il fiorentino che era comunque abbastanza vicino a quel canone. Questa frattura è stata sancita da Pietro Bembo, il teorico del purismo che considerava il toscano trecentesco la perfezione. I suoi precetti e la sua grammatica si erano imposti come il modello vincente, orientando anche la nascita dell’accademia della Crusca e del suo vocabolario che legittimava solo il lessico e le varianti ortografiche toscane respingendo invece tutte le voci degli altri volgari, considerate indegne e da purgare.

Da quel momento in poi tutti gli altri volgari regredirono allo stato di “dialetti”, varietà “impure” dell’italiano-toscano elevato a lingua perfetta. E nella nostra storica diglossia, questo toscano prendeva il posto ed era destinato a soppiantare l’altra lingua superiore del passato, il latino della cultura e dei libri, che nei secoli successivi avrebbe perso sempre più terreno nella scienza, nella scuola, nelle leggi e in ogni altro ambito.

Il purismo, pur tra le accesissime polemiche, si impose nell’egemonia culturale con una forza schiacciante. Basta ricordare che il massimo poeta del Cinquecento, Ludovico Ariosto, che non era toscano ma emiliano, per adeguarsi a questi principi riscrisse per ben tre volte il suo Orlando furioso per modificare la sua lingua “impura” e intrisa di settentrionalismi: el diventava il (e in lo/la si trasformava in nello/nella), mentre le x erano riscritte con le s, e le forme verbali venivano uniformate (mostrerò invece di mostrarò o trassero invece di tràrro). In questo modo Ariosto fu incluso nel vocabolario, al contrario di Torquato Tasso, che davanti alle stroncature della Crusca, invece di inchinarsi al canone del toscano e “purgarsi” da solo aveva osato difendere la sua lingua della Gerusalemme liberata e dunque fu il grande escluso che non venne inserito tra gli autori del dizionario. Chi non pubblicava in toscano e non seguiva i precetti dei puristi non solo era biasimato, ma addirittura non veniva pubblicato o considerato.

Su questo sfondo, chi non era toscafono di nascita – dunque in grado di mettere in pratica quei precetti in modo quasi naturale e istintivo – faticava enormemente a scrivere in “italiano”. E davanti alla nuova diglossia a base toscana, invece che latina, l’atteggiamento dei letterati oscillava tra il riconoscimento della superiorità del toscano e il rivendicare invece la dignità degli altri volgari.

Il primo atteggiamento è stato quello vincente.

Il toscano era un buon collante in grado di superare le incomprensioni dialettali delle varie regioni, sin dal Quattrocento ammirato e imitato anche a Milano: Ludovico il Moro apprezzava gli scrittori toscani e guardava alla lingua fiorentina come modello. Aleggiava insomma un certo senso di inferiorità delle altre parlate rispetto ai modelli toscani, e alla fine del Quattrocento, Gaspare Visconti, un poeta alla corte degli Sforza, nella premessa ai suoi componimenti si scusava del suo “non molto polito naturale idioma milanese”, ma il chiedere venia per la propria lingua non toscana è un motivo ricorrente che si trova spesso negli scritti di chi voleva ricorrere al toscano senza che fosse la sua lingua naturale.

L’alienazione del proprio idioma in favore di un altro

Per imparare la lingua superiore, successivamente tra gli scrittori prese piede la consuetudine dei soggiorni toscani, e il veneziano Carlo Goldoni, nel Settecento, considerava fortunatissimo chi era nato a Firenze, perché quella lingua gli risultava spontanea, e consigliava per “un Uomo di lettere, trattenersi per qualche tempo a Firenze ad imparar dalle Balie e dalle Fantesche ciò che altrove si mendica dal Bembo, dal Boccaccio o dalla Crusca medesima.”
Emblema di questa prassi, e di questa difficoltà di apprendere la lingua pura, è il celebre “volli, volli, fortissimamente volli” dell’Alfieri, piemontese di nascita ma che decise di “parlare, udire, pensare e sognare in toscano” e si trasferì a Firenze per meglio padroneggiare “quella doviziosissima ed elegante lingua; prima indispensabile base per bene scriverla” (Vita scritta da esso). Allo stesso tempo l’autore lamentava tutta la difficoltà, per chi non era toscano, di padroneggiare quell’idioma (“Lettera a Ranieri de’ Calzabugi”) scrisse le proverbiali parole:

“Da quel giorno in poi (che fu in giugno del 75) volli, e volli sempre, e fortissimamente volli. Ma dovendo io scrivere in pura lingua toscana, di cui era presso che all’abbiccì, fu d’uopo per primo contravveleno astenermi affatto dalla lettura d’ogni qualunque libro francese, per non iscrivere poi in lingua barbarica: un poco di latino, ed il rimanente d’italiano fu dunque la mia sola lettura d’allora in poi; stante che di greco non so, né d’inglese.”

Era la stessa difficoltà e la stessa soluzione che avrebbe intrapreso il milanese Alessandro Manzoni, che nella tormentata revisione dei Promessi Sposi, si accorse che i dizionari non gli bastavano per toscanizzare nel giusto modo la sua lingua, e alla fine abbandonò quella soluzione per sciacquare i panni in Arno. La lingua delle precedenti stesure del suo capolavoro gli risultava troppo artificiale e libresca, proprio perché si basava sui dizionari, e quelli che aveva utilizzato erano soprattutto il monumentale vocabolario milanese-italiano di Cherubini e quello della cosiddetta “Crusca veronese” di Cesari, il massimo rappresentante del purismo Ottocentesco che aveva dato vita a un dizionario di taglio cruscante benché fosse appunto di Verona.
Ma questo non deve stupire, perché a prevalere nel nostro Paese caratterizzato da un’eterna diglossia è stata la compiaciuta alienazione linguistica. In altre parole, a parte gli scrittori toscani che avevano fatto la storia, i massimi difensori dell’italiano basato sul tosco-fiorentino furono spesso i non toscafoni.

Pietro Bembo era veneziano, ma oltre a imporsi come teorico del purismo fu autore di una grammatica che avrebbe fatto scuola; fu uno stretto collaboratore del tipografo-editore Aldo Manuzio, il più grande stampatore del Cinquecento di tutta l’Europa. Benché Venezia impiegasse il proprio volgare orgogliosamente come lingua ufficiale delle leggi e della cancelleria, che si estendeva anche come lingua-tetto in tutta l’area veneta, i libri nati dal sodalizio Manuzio-Bembo si basarono sulla norma del toscano, dunque contribuirono a diffonderlo e in tutto il Paese e a renderlo il canone della scrittura.

E così è prevalsa l’alienazione linguistica e i più intransigenti difensori del toscano erano spesso non toscani, come Bembo, Cesari, Alfieri e soprattutto come Manzoni.

I sostenitori della dignità delle altre lingue italiche, invece, furono sconfitti. Esisteva una letteratura parallela che si esprimeva in altre parlate, e uno dei più noti e agguerriti sostenitori di queste posizioni fu per esempio il milanese Carlo Porta, che contro il classicista Pietro Giordani (storpiato in “Giavan”) scriveva:

“Dunque senza sapere la lingua toscana non ci può essere morale né civiltà? (…) E noi, zoticoni di Milano, li andiamo a mozzar via senza pietà quelle frattaglie tanto preziose, quelli così fatti che sono il gran merito dell’abate Giavano?”

Accanto a simili posizioni c’erano poi gli scrittori “indifferenti” alla questione della lingua, quelli che scrivevano in modo istintivo senza preoccuparsi della forma, e avevano in mente una lingua che doveva farsi intendere, invece che seguire il purismo. Costoro scrivevano spesso trattati pratici, articoli di giornale, romanzi come quelli di Garibaldi… Ma ancora una volta questi componimenti non erano considerati un modello virtuoso.

Dalla diglossia a base toscana a quella a base inglese

La diglossia per cui il toscano era la lingua della scrittura mentre le masse erano dialettofone si è ricomposta soltanto nella seconda metà del Novecento, quando sono spuntate le prime generazioni italofone anche fuori dalle aree toscane e finalmente l’italiano è diventato una lingua unitaria. Parlare e scrivere hanno trovato la loro convergenza in un’osmosi in cui le differenze tra oralità e scrittura si sono sempre più attenuate in un italiano unitario dove erano confluiti anche altri elementi oltre a quelli tosco-fiorentini che costituivano lo zoccolo duro. Negli anni Sessanta Pasoliniaveva notato che questo nuovo italiano unitario era soprattutto tecnologico e arrivava prevalentemente dai centri industriali del nord, più che dal modello toscano letterario.
Se l’italiano standard nell’Ottocento indicava quello che si insegnava a scuola in opposizione alle varietà dialettofone, superata la diglossia lingua-dialetto il nuovo italiano unificato, nel diventare un nuovo standard inevitabilmente si livellava e alcuni vocaboli o costrutti un tempo considerati popolari e non ammessi nella lingua “alta” sono stati invece accettati non solo nel parlato, ma anche nella scrittura dei giornali, dei contesti istituzionali o universitari. Negli anni Ottanta questo italiano di tutti è stato definito dal linguista Gaetano Berruto come “neostandard” e da Francesco Sabatini come “italiano medio”.

Ma proprio quando sembrava che la diglossia fosse superata, ecco che nel nuovo millennio ne è emersa una nuova: la diglossia che fa dell’inglese la lingua superiore. E davanti alla quale l’italiano regredisce su tutti i fronti.

Se la lingua della scienza, sino al Seicento, era esclusivamente il latino, Galileo Galilei ha spezzato questa prassi fondando la prosa scientifica italiana, e costruendo un modello poi seguito da altri scienziati – da Redi a Vallisneri – che è sopravvissuta fino al Novecento, quando Enrico Fermi e i ragazzi di via Panisperna hanno diffuso un internazionalismo come neutrino.
Se l’italiano-toscano, nei secoli, ha sottratto al latino sempre più ambiti, come la lingua dell’insegnamento e delle leggi, oggi assistiamo alla sua regressione nei confronti dell’inglese, e sempre più atenei stanno puntando all’inglese come la lingua della formazione, con buona pace del diritto allo studio nella propria lingua madre. Intanto, l’inglese prende piede come lingua dell’Ue, benché non esista alcuna carta che sancisca la legittimità di questa prassi. E mentre l’inglese planetario – definito un po’ spregiativamente anche globalese o globish – si allarga in tutto il mondo, stiamo andando verso una nuova diglossia neomedioevale – come l’ha chiamata il linguista tedesco Jürgen Trabant – per cui l’inglese diviene la lingua della cultura alta, e gli idiomi nazionali rischiano di diventare i dialetti di un mondo che pensa e parla in inglese.

Gli anglicismi che penetrano in ogni idioma locale – e l’italiano è una delle lingue più coinvolte dal fenomeno – sono gli effetti collaterali di questa nuova situazione. Il loro numero è tale che in molti ambiti – si pensi all’informatica, all’economia, alle tecno-scienze, al lavoro… – l’italiano è ormai incapace di esprimere certi domini con le proprie parole. E mentre la lingua dei giornali e anche delle istituzioni si riempie di espressioni inglese, l’italiano regredisce, si ibrida e fondamentalmente viene meno lo storico prestigio basato sui suoni dell’italiano-toscano.
Come ai tempi dello sfaldamento del latino nascevano parole costruite sul sonus del latino – per esempio caballus invece di equus – oggi sul modello dell’inglese nascono pseudoanglicismi come footing, smart working, beauty case o baby gang. E se un tempo i non toscafoni cercavano di “toscaneggiare” e di approssimarsi al modello della lingua superiore, oggi si introducono le espressioni inglesi in modo voluto e compiaciuto: il nuovo modello cerca e riproduce i suoni inglesi, poco importa siano ortodossi o reinventati in modo maccheronico. Questo è il nuovo modello linguistico inseguito dalla nuova egemonia culturale, e questo italiano “newstandard” – o itanglese – è caratterizzato dalla sua “diglossia lessicale”. Nell’ambiente di lavoro, per esempio, non si può più usare l’italiano per esprimere certe cose, perché la lingua di prestigio è l’inglese, dunque bisogna usare questa terminologia “alienante” che il settore richiede e allo stesso tempo impone. E così nel mio settore non è più possibile evitare l’alienazione linguistica e parlare per esempio di revisioni editoriali, perché c’è solo l’editing, e sono costretto a presentarmi ai clienti come editor, altrimenti mi guardano male, sono percepito come un non addetto ai lavori che non sta usando la lingua che identifica il settore da un punto di vista sociolinguistico.

E chi non adegua il suo linguaggio, come aveva fatto Ariosto, viene fatto fuori come è accaduto a Tasso.

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Gli strumenti della CMC [1] sono, gira che ti rigira, gli stessi da sempre. Possono cambiare nome, migliorare il proprio aspetto grafico, aggiungere sempre nuove funzionalità (raramente utili) e godere di più o meno brevi momenti di gloria per poi finire nel dimenticatoio. Questi strumenti hanno però tutti una cosa in comune: sono inadatti, a livelli diversi, alle discussioni. Per […]

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tre tratti di un controsade


la borghesia coloniale di sade e sadici
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kkkolonialismo
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la contraddizione come confessione
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81° anniversario dell’Eccidio nazista della Romagna nel comune di San Giuliano Terme


Furono ben 69 i civili innocenti trucidati dalla ferocia nazista il giorno 11 agosto 1944

Il dovere della memoria storica, unico antidoto contro gli odierni rigurgiti nazi-fascisti

I lavori ed il podcast realizzati dagli studenti tramite il progetto

“Contemporanea..mente”

Il contesto storico

Durante la Seconda Guerra mondiale, nel corso dell’estate del 1944, gli alleati dopo la liberazione di Roma del 4 giugno, erano rapidamente avanzati verso nord, tant’é che a fine giugno-inizio luglio avevano già conquistato la parte più meridionale della provincia di Pisa. Tuttavia, nel corso del mese di luglio l’avanzata della V Armata statunitense, operante sul versante tirrenico della penisola, subì un brusco rallentamento, per essere poi fermata a sud dell’Arno dalla tenace resistenza tedesca.

La drammatica estate del 1944: l’Arno Stellung e il fronte bloccato sull’Arno

Il comando dell’esercito nazista in Italia aveva infatti predisposto una linea difensiva fortificata lungo la sponda settentrionale dell’Arno, denominata Arno Stellung (immagine 1), oltre ad aver abbattuto i ponti sullo stesso corso d’acqua, al fine di impedirne il superamento e il proseguimento dell’avanzata verso Nord. Ciò anche in considerazione della ben più imponente linea fortificata, la famosa linea gotica, edificata poco più a nord lungo lo spartiacque appenninico fra Carrara e Rimini.

Immagine 1: il bunker tedesco realizzato nel contesto dell’Arno Stellung sul monte retrostante il centro storico di San Giuliano Terme, all’imbocco dell’odierna galleria del Foro

Mentre i combattimenti fra i due eserciti nell’agosto del 1944 raggiunsero il loro apice di intensità, una formazione partigiana, la Nevilio Casarosa, operava nella zona del Monte Pisano sovrastante Asciano, mentre le azioni antipartigiane e i rastrellamenti tedeschi vessavano la popolazione civile che in parte era stata costretta a sfollare in varie zone dell’omonimo rilievo per sfuggire ai bombardamenti aerei e ai combattimenti.

L’Arno Stellung nella sezione occidentale del Monte Pisano era presidiata dalla famigerata 16esima SS-PanzerGranadier Division “Reichsfurher-SS”, comandata dal generale Max von Simon e insediata a Nozzano Castello in provincia di Lucca lungo la valle del Serchio, e dalla 65esima Infanterie-Division, anche nota come “Handgranate” (bomba a mano), la cui sede era stata stabilita presso villa Borri ad Asciano.

La valle del Serchio secondo il comando tedesco rivestiva, non a torto, un’importanza strategica fondamentale in quanto costituiva un passaggio naturale che consentiva di aggirare da ponente il Monte Pisano, In considerazione di ciò il suo presidio venne assegnato alla temibile 16esima SS-PanzerGranadier Division, la quale nel mese di luglio distrusse anche un tratto della ferrovia Pisa-Lucca ivi passante per impedire o quantomeno rallentare l’avanzata della V Armata statunitense.

In questo contesto bellico, l’estate del 1944 si rivelò per la popolazione locale particolarmente difficile, non solo per il rischio dei bombardamenti e la carenza di generi di prima necessità, ma soprattutto per le vessazioni a cui vennero sottoposti dai nazisti a seguito dei bandi emessi, il 17

giugno e il 1 luglio, dal Feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante in capo delle forze tedesche in Italia, inerenti l’inasprimento della repressione contro le organizzazioni partigiane e i civili.

Nell’agosto del 1944 per sfuggire a combattimenti e bombardamenti, molte famiglie, soprattutto locali ma anche provenienti dai territori limitrofi, erano sfollate in varie località del Monte Pisano subendo, tuttavia, continue incursioni da parte delle pattuglie tedesche.

Fino a che le forze naziste di occupazione insediate nel lungomonte pisano, il 31 luglio, emisero uno specifico bando che imponeva a tutti gli uomini, compresi gli sfollati, validi compresi fra i 15 e i 50 anni di età di presentarsi nell’arco di due giorni presso i comandi militari tedeschi di zona per l’arruolamento “volontario” nelle compagnie di lavoratori.

L’Eccidio della Romagna

Scaduto l’ultimatum, la notte fra il 6 e il 7 agosto la 16esima SS-PanzerGranadier Division SS, guidata a quanto riportato da fascisti non locali, compì un rastrellamento in località la Romagna, posta sul monte sovrastante Molina di Quosa, catturando circa 300 civili ivi sfollati.

A coloro venne anche aggregata una giovane insegnante, Livia Gereschi, la quale, conoscendo la lingua degli occupanti, aveva fatto da interprete durante i primi interrogatori dei rastrellati cercando vanamente di spiegare ai tedeschi che si trattava di semplici cittadini sfollati per sottrarsi alle attività belliche e che non avevano alcun legame con le formazioni partigiane.

I catturati, all’alba del 7 agosto furono incolonnati e trasferiti a piedi a Ripafratta, attraverso il sentiero successivamente denominato “della memoria”, dove vennero suddivisi fra chi era in condizioni di lavorare e chi viceversa si dichiarò inabile a tale scopo. Il primo, più numeroso, gruppo venne subito caricato sui camion e indirizzato verso i campi di lavoro nazisti, soprattutto nella realizzazione delle fortificazioni della retrostante Linea Gotica, mentre il secondo, composto prevalentemente da ultra quarantenni, venne trasferito, con Livia Gereschi in qualità di interprete, al comando di Nozzano.

La settantina di catturati furono imprigionati per quattro giorni in condizioni brutali nella scuola elementare del paese presso il comando tedesco, fino a che la mattina dell’11 agosto vennero suddivisi in piccoli drappelli e condotti in luoghi isolati della valle del Serchio e dell’area circostante il non distante monte Quiesa dove vennero barbaramente fucilati a sangue freddo, Livia Gereschi compresa.

I cadaveri ritrovati fra Ripafratta e Filettole portavano addosso dei cartelli infamanti sui quali i tedeschi avevano apposto la scritta “Questi banditi hanno sparato ai soldati tedeschi alle spalle”.

In totale furono ben 69 i civili innocenti trucidati dalla ferocia nazista con la ricostruzione dei fatti che è stata raccontata da Oreste Grassini, unico sopravvissuto alla strage. La mattina dell’11, infatti, il trentottenne Grassini ed altri suoi compagni di sventura vennero condotti lungo il Serchio fra Avane e Filettole nel comune di Vecchiano, dove vennero fucilati tramite mitragliatori. Colpito ad una gamba e miracolosamente sopravvissuto al colpo di grazia alla testa, il Grassini si finse morto e nottetempo riuscì a raggiungere l’acqua del Serchio dalla quale si dissetò e trovò sollievo, fino a che la mattina seguente venne trovato da un contadino, soccorso e trasferito all’ospedale di Lucca. Al Grassini venne amputata una gamba rimanendo gravemente menomato ma ciò non gli impedì di mantenere il suo posto di lavoro presso il comune di San Giuliano Terme.

Ricordo personale

Ho un ricordo vivido di quest’uomo che, negli anni ’60 durante la mia infanzia, andava a lavorare in Comune con uno “strana” bicicletta a tre ruote che gli consentiva di pedalare, senza perdere l’equilibrio, con una sola gamba superando anche la non agevole salita di via Niccolini che porta alla sede municipale. Chiedendo spiegazioni in merito ai miei genitori e ai miei nonni venni a conoscenza dell’orribile Eccidio della Romagna compiuto dai nazisti, nel quale rimase coinvolto anche il fratello di una mia cara zia acquistata, e dell’incredibile vicenda di Oreste Grassini, prezioso testimone storico suo malgrado.

Il tributo di sangue dei cittadini sangiulianesi

L’Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani (Anpi), fra le varie attività, ha anche redatto un elenco delle stragi compiute dai nazisti, dal quale emerge come nell’estate del 1944 i nazisti abbiano compiuto ben 5 stragi sul territorio del comune di San Giuliano Terme: il 20 giugno ad Agnano venne ucciso un civile, 2 vittime caddero il 6 luglio a Ghezzano, il 5 agosto ad Asciano furono uccisi in 5, il 19 agosto a Gello ben 19 e l’11 agosto in 69 nell’Eccidio della Romagna sopra descritto.

La trasmissione della memoria storica alle nuove generazioni

Nel corso dell’a.s. 2024/25 nell’ambito del progetto “Contemporanea..mente”, il sottoscritto ha organizzato un’attività di memoria storica legata alle vicende sopra riportate, e non solo, inerenti il nostro territorio durante la Seconda Guerra mondiale. A tale scopo ho approfittato della disponibilità e della competenza del caro amico e collega prof. Giovanni Ranieri Fascetti, cultore di storia locale e soprattutto autore di una ricerca storica sul campo relativa all’Arno Stellung (immagine 2) e alle vicende storiche legate a quel drammatico periodo in cui il fronte stette bloccato sulle sponde dell’Arno per circa 40 giorni, fino a quando il 2 settembre la V Armata statunitense riuscì a liberare Pisa, ad attraversare l’Arno sfruttando un guado formatosi nel fiume in secca all’altezza di Caprona nel comune di Vicopisano e, lo stesso giorno, anche San Giuliano Terme.

I tedeschi in ripiegamento ordinato continuarono a martellare con l’artiglieria dall’oltre Serchio vecchianese, anche per coprire la ritirata delle proprie truppe, con alcuni colpi che raggiunsero il centro storico di San Giuliano Terme, uccidendo dei civili (almeno 4) che erano scesi in piazza per festeggiare la liberazione dall’occupazione nazifascista, sancita dall’arrivo delle prime pattuglie statunitensi.

Il giorno seguente, il 12 agosto, la stessa, tristemente famosa, 16esima SS-PanzerGranadier Division SS, si rese protagonista, nell’Alta Versilia, di uno dei crimini più efferati compiuti in Italia nel corso dell’intero conflitto mondiale: la Strage di S. Anna di Stazzema durante la quale vennero trucidati ben 560 civili inermi, soprattutto anziani, donne e addirittura 130 bambini.

Immagine 2: la prima di copertina del libro del prof. Fascetti “Arno Stellung. Una linea di sangue attraverso la Toscana”, Campano edizioni, ottobre 2024.

Il giorno 25 ottobre 2024 il professor Fascetti ha pertanto gentilmente tenuto una lectio magistralis ai miei studenti della classe 1 A afm esponendo, con il supporto di suggestive slide con immagini d’epoca e dei ritrovamenti attuali, sia il contesto storico che struttura, finalità e vicende storiche legate all’Arno Stellung, compresa la strage nazista della Romagna (immagine 3).

Gli studenti hanno seguito con grande attenzione e partecipazione la dotta e coinvolgente lezione del professor Fascetti ponendo anche interessanti domande e come lavoro di rielaborazione domiciliare hanno realizzato delle relazioni scritte sui contenuti trattati in forma di articoli, i migliori dei quali sono stati pubblicati sul giornalino on line dell’Istituto Galilei-Pacinotti di Pisa, Rapsodia on line. E dei quali riportiamo di seguito titoli, autori e link:

  1. “Arnostellung: la linea fortificata tedesca a nord dell’Arno” di Diego Thomas Costanza

rapsodiaonline.it/?p=7504

  1. “L’Arno Stellung – Lezione con il professore Giovanni Ranieri Fascetti” di Greta Squillace

rapsodiaonline.it/?p=7499

  1. “Arno Stellung” di Aronne Agamennoni

rapsodiaonline.it/?p=7522

  1. “La linea difensiva Arnostellung” di Vincenzo di Noia

rapsodiaonline.it/?p=7501

In particolare lo studente Vincenzo di Noia, in quanto giovane cittadino sangiulianese, è rimasto particolarmente colpito dalle vicende storiche legate al nostro territorio magistralmente narrate dal prof. Fascetti, pertanto ha approfondito le tematiche trattate ed ha realizzato anche un apposita registrazione audio, grazie anche al montaggio del sig. Giuseppe Saverino, per il podcast ideato dagli ex studenti della 2 A afm del nostro istituto denominato anch’esso “Contemporanea..mente”, in quanto legato alle attività svolte nell’ambito del progetto in questione.

Vincenzo in circa 7 minuti è riuscito a raccontare con straordinaria puntualità e chiarezza sia le vicende legate all’Arno Stellung sia quelle relative all’Eccidio della Romagna, compiendo una meritoria opera, non solo di acquisizione personale della memoria storica del territorio, ma anche divulgativa, tramite strumenti accattivanti come i podcast, particolarmente utilizzati dalle giovani generazioni.

Immagine 3: il monumento eretto in località la Romagna in memoria delle 69 vittime innocenti della barbarie nazi-fascista

Per ascoltare il suggestivo e ben congegnato podcast realizzato da Vincenzo di Noia: giuliochinappi.wordpress.com/2…

Prof. Andrea Vento

9 agosto 2025

Fonti bibliografiche:

  1. “Arno Stellung. Una linea di sangue attraverso la Toscana” di Giovanni Ranieri Fascetti, Campano edizioni, Pisa ottobre 2024.
  2. “Dopoguerra in provincia. Microstorie pisane e lucchesi 1944-1948” di Carla Forti, Franco Angeli editore, Milano 2007.
  3. Testimonianze orali raccolte personalmente
  4. Siti internet:

it.wikipedia.org/wiki/Eccidio_…

toscananovecento.it/custom_typ…

regione.toscana.it/-/i-giorni-…

storiaminuta.altervista.org/ne…

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Porticciolo di Ognina: il sindaco si arrende, i privati all’attacco


C’era anche il sindaco quando, nel pomeriggio del 15 luglio, ad Ognina è stata affissa una targa del Fai, per ricordare che il Porticciolo è stato, nel 2025, il quinto ‘luogo del cuore’ più votato in Sicilia.

Dopo la cerimonia qualcuno ha nuovamente sollecitato Trantino a chiedere la concessione di questo luogo, amato dai catanesi e da essi considerato identitario, per evitare che […]

Leggi il resto: argocatania.it/2025/08/11/port…

#CGA #ComuneDiCatania #EnricoTrantino #Fai #portoDiOgnina #RegioneSiciliana #TAR #Tortuga

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‘l’erba voglio’, n. 24-25, feb.-mag. 1976


archive.org/embed/erbavoglio24

Radio Alice; e una Richmond di Nanni; e i disegni di Corrado…. ma molto altro.
questa “Erba voglio” di metà 1976 è tutta da leggere & godere.
fa anche però (un po’, di fatto, o molto) soffrire.

(“i disegni li ha fatti Corrado Costa al convegno Scrittura / Lettura di Orvieto (1-4 aprile ’76)”)

dn790004.ca.archive.org/0/item…

#1976 #AgenziaX #anarchia #anniSettanta #archivio #comune #comunismo #controcultura #convegno #CorradoCosta #documentazione #edicolaCheNonCè #elvioFacchinelli #erbaVoglio #fabbrica #LErbaVoglio #laComune #leComuni #LeaMelandri #Lettere #lettereOperaie #Milano #NanniBalestrini #Orvieto #psichiatria #psicologia #RadicalArchives #ScritturaLettura

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newsletter slowforward 22 giugno – 10 agosto 2025 + sostieni l’eroica opra ultraventennale del sito!!


poco fa ho spedito per mail – alle persone registrate – la newsletter (a)periodica di slowforward, con link a post pubblicati qui dal 22 giugno al 10 agosto. la newsletter non ha (ancora) un nome, e viene manualmente compilata da me. chi volesse riceverla, per leggere o rileggere informazioni e articoli che giocoforza sono recuperabili ma visivamente scomparsi oltre l’orizzonte degli eventi, può farmene richiesta scrivendo a slowforward.net/contact/

chi volesse sostenere il lavoro di slowforward, di mg / differx,
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mettiamola (daccapo) così: sono fermo a uno dei semafori della rete, e vi faccio cenno indicando il parabrezza… bon: se voi apprezzate e vi fa piacere che io da 22 anni quotidianamente vi aiuti a renderlo ben trasparente e sensibile a informazioni & notizie su #scritturadiricerca #scritturasperimentale #palestina #asemicwriting #scritturaasemica #antifascismo #prosa #prosabreve #prosainprosa #artecontemporanea #materialiverbovisivi #audio #podcast #video #presentazioni #criticaletteraria #teorialetteraria #letturepubbliche #progettiletterari, #archivi #anni70 … non avete da fare altro che offrirmi un caffè.

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(1) riceve – con posta tracciata – una copia del mio recente Prima dell’oggetto;
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(3) viene iscritto alla newsletter, nel caso non lo fosse già;
(4) entra a pieno titolo nel regesto dei benefattori magari non dell’umanità ma di slowforward sicuramente.

(n.b.: dopo il 30 settembre sarà sempre possibile – e da me auspicatissimo – sostenere mg, ovviamente, ma senza ricevere il libro).

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link e materiali per “prima dell’oggetto” (déclic, maggio 2025)


POST IN CONTINUO AGGIORNAMENTO


scheda editoriale:

copertina di "Prima dell'oggetto", di Marco Giovenale (déclic, 2025)
cliccare per accedere al sito dell’editore

Se c’è un libro che si è stufato sia della poesia sia del narrare usuale, e che va in senso opposto, è questo: si muove verso il senza verso e si interroga sulla fuga caotica delle cose e delle narrazioni, come alice che non capisce le corse del bianconiglio ma si secca pure di seguirlo. il lettore non deve però spaventarsi di questo smarrimento. potrà confidare in alcune chiavi, rammentando:

– che quasi tutto si svolge a roma, ossessivamente richiamata: e tanto il richiamare quanto il suo oggetto danno sul barocco, con conseguente eco lontana di erotía;
– che una sfumante prima parte del libro si abbandona al flusso fonico del discorso, toccando solo leggermente la sostanza di storie e microstorie;
– che detto flusso si cristallizza pian piano in quasi-racconto, e allora affiorano figure precise, anche se spesso poi si sfaldano, si dissipano;
– che a sfarinarsi è tanto il linguaggio quanto il reale già sotto scacco e fuori fuoco, come per un’apocalisse nascosta in ogni pixel del quadro.

PRIMA DELL’OGGETTO
di Marco Giovenale
déclic edizioni || libro in brossura con alette, cm 13,5 x 19 || pp. 128, ISBN 9791281406117 || uscita: 16 maggio 2025

READING, INCONTRI, REGISTRAZIONI, APPUNTI, IMMAGINI:

15 set. 2025:
il podcast ‘La Finestra di Antonio Syxty’ propone un dialogo sul libro con Niccolò Scaffai, open.spotify.com/episode/0mCWU… (cfr. anche slowforward.net/2025/09/15/fin…)

25 ago. 2025:
intervista su Prima dell’oggetto, e su “La scuola delle cose”, n. 19 (“scrittura di ricerca”): RadioTre Suite, 24 ago. 2025, h. 23:00-23:25, https://www.raiplaysound.it/audio/2025/08/Radio3-Suite—Magazine-del-24082025-aef7d6cc-546a-474c-bcbb-3db0019727f8.html e slowforward.net/2025/08/25/rad…

28 lug. 2025:
una pagina dal libro, riprendendo un post editoriale su fb
slowforward.net/2025/07/28/una…

19 giu. 2025:
notille da un social dopo il reading a Villa Lais del 28 mag. 2025
slowforward.net/2025/06/19/not…

17 giu. 2025
pod al popolo, #070: reading perinelli e giovenale @ studio campo boario, 17 giu. 2025
@ archive: archive.org/details/pap-070-pr…

16 giu. 2025:
registrazione del reading (con autoannotazioni) a Villa Lais, 28 mag. 2025
slowforward.net/2025/06/16/pap…

31 mag. 2025
pod al popolo, #069: lettura di mg (da Oggettistica e Prima dell’oggetto) @ ‘roma chiama poesia’, teatro basilica, 31 mag. 2025
@ archive; archive.org/details/pap069_Rom…


ANTEPRIME, ESTRATTI, FRAMMENTI:

un estratto qui

Quattro estratti/anteprime su fb (apr.-mag. 2025):
slowforward.net/2025/06/02/ant…

Alcuni materiali comparsi in altra forma sul Multiperso:

Scendi, 21 giu. 2023:
multiperso.wordpress.com/2023/…

L’importanza dell’ascolto, 16 lug. 2023:
multiperso.wordpress.com/2023/…

Stanza stanza, 24 lug. 2023:
multiperso.wordpress.com/2023/…

Pietra, 25 set. 2023:
multiperso.wordpress.com/2023/…

[Nest. Rest. Reset. Next], 4 ott. 2023:
multiperso.wordpress.com/2023/…

Videoripresa, 13 ott. 2023:
multiperso.wordpress.com/2023/…

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declicedizioni.it/prodotto/pri…

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