SEGNALI INQUIETANTI
PQm era lì da così tanto tempo che non ne aveva più memoria. Improvvisamente un Sole straniero lo ferì, ebbe coscienza che la meta era vicina e si spaventò al pensiero di poter comunicare con degli esseri viventi non umani. Quando era partito? Del resto che importanza poteva avere? Sì ne aveva, ne aveva per lui, forse non per coloro che lo avevano visto andare, salire su quell’astronave, ma per lui sì. Una sorta di turbamento lo sfiorò, avrebbe voluto un altro destino. Si sentiva così inquieto perché aveva nostalgia, una grande nostalgia della colonia marziana, si stava convincendo che non avrebbe più rivisto Marte, il Pianeta Rosso, dove tutto era organizzato fin nei minimi particolari, dove ognuno svolgeva i propri compiti con attenzione e sollecitudine e, soprattutto, dove aveva lasciato un sogno, un progetto a cui stava lavorando e che avrebbe sicuramente modificato l’essenza della sua esistenza. Invece si trovava nella galassia EGS-zs8-1. Da lì erano giunti segnali inquietanti. Su Marte, veramente, tutto poteva sembrare inquietante, eppure questa volta era certo. Qualcuno si era fatto vivo: non erano soli. I voli dei terrestri verso Marte erano iniziati quando furono perfezionati i processori di energia. La prima conquista fu l'esplorazione dei pianeti del Sistema Solare. Superata la nube di Oort, fu la volta delle galassie confinanti e poi via verso lo spazio infinito. Infinito? Questo non era chiaro. Era, invece, fin da subito parso evidente che Marte avrebbe potuto ospitare una base permanente di androidi evoluti, capaci di affrontare in autonomia viaggi interstellari e di sopportare, per un periodo di tempo quasi illimitato, la gravità e le radiazioni di questo pianeta. Parsec su parsec furono così percorsi. Questo errare tra pianeti, stelle e buchi neri, subì una battuta d’arresto quando alcune navicelle con il loro equipaggio non fecero ritorno. Incredibile, sembravano svanite! Nessuna richiesta di aiuto era giunta, nessuna comunicazione che facesse pensare a qualche difficoltà: erano semplicemente scomparse nel nulla. A bordo di una di queste astronavi vi era PQe, addestrato perfettamente e in grado di adattarsi a campi gravitazionali superiori. Anche lui si perse nello spazio. PQm provò un grande dolore quando capì che non avrebbe più rivisto il suo amico, il suo compagno d'avventure fin dal giorno in cui vide la luce. Fisici quantistici e ingegneri meccatronici raddoppiarono gli sforzi per progettare una cosmonave che potesse oltrepassare i limiti rappresentati dal cono degli eventi, surfando le onde gravitazionali. Fu, inoltre, potenziata la base su Marte con l’invio di altri androidi. Capo di quest’ultima spedizione venne nominato PQz, la cui caratteristica fondamentale era quella di saper affrontare e risolvere le situazioni di natura relazionale. Per questa ragione aveva sempre ricoperto ruoli organizzativi. Dopo il suo arrivo, numerosi furono i tentativi nella direzione dello spazio esplorato durante le fallimentari missioni precedenti, ma nessun cosmonauta fece ritorno, non fu recuperata neppure una parte infinitesimale delle astronavi, in modo da analizzare, sia pure in modo approssimato, il mistero che le avvolgeva. Spiegare concretamente quello che stava accadendo assunse contorni oscuri e intriganti: calcoli su calcoli, formule su formule, e ancora analisi e osservazioni, nel tentativo di trovare una soluzione! Non fu, comunque, difficile capire che oltre il limite segnato dall'orizzonte cosmico qualcosa inghiottiva il tempo. Anzi tempo e spazio si confondevano. Dopo due anni dariani dal suo arrivo, Pqz ebbe l'ingrato compito di chiedere agli altri androidi di interrompere le loro attività, compresa quella riguardante il miglioramento delle prestazioni dei sensori astrometrici, per comunicare a tutti i membri della colonia che la Terra aveva fatto perdere le proprie tracce. Per quello che ne sapevano, la colonia marziana era l'unica depositaria della storia terrestre, della tecnologia, delle immagini di quel mondo scomparso. Erano loro i sopravvissuti, programmati per irrompere nel cosmo e navigare alla scoperta di altre forme di vita. Cosa avrebbero dovuto fare? Era giunto il momento di prendere delle decisioni. La prima conclusione fu che avrebbero potuto sfruttare le loro potenzialità per costruire un mondo non umano. La seconda ipotesi fu quella di non andare contro natura: si erano salvati da una possibile catastrofe, eppure non per questo erano liberi, erano dei liberti, metà coscienti, metà incastrati nei loro cervelli quantistici. Perciò, senza ombra di dubbio, decisero di continuare con le esplorazioni, ma anche di impegnarsi nella ricerca della loro identità. Per fare questo era necessario ricostruire il passato per cogliere quanto di umano vi fosse in loro. Si aprirono al divenire degli eventi, quelli su cui riflettevano i terrestri quando sentivano di essere vicini ad un conflitto imminente, ad un danno irreparabile per ritrovare quella parte del “sé” in cui risiedeva la ragionevolezza del dialogo. Rovistarono nella storia più remota, custodita in un grande archivio che si trovava nel blocco C. Scoprirono atrocità senza limite, indubbiamente nel DNA degli uomini non era scritta la parola rispetto, non erano stati ideati per non farsi del male. Eppure, se da un lato morte, distruzione, genocidi si erano susseguiti, dall’altro l’umanità aveva lasciato opere immortali, dalle quali era stata accompagnata e superata. Quando agli androidi fu svelato questo enorme patrimonio, uno strano sgomento li scosse. Il concetto di bello era un’astrazione che non faceva parte dei loro parametri genetici: ritennero, quindi, che fosse inutile continuare, rivendicando una orgogliosa diversità. Per PQm, invece, divenne quasi un’esigenza progredire in questo senso, ma senza la creatività umana sarebbe stata un’impresa se non del tutto vana, molto, ma molto difficile. Passò al setaccio tutto quello che era stato raccolto. Chissà perché i terrestri avevano deciso di dotare Marte di tali testimonianze? Forse la loro finitezza ambiva all’eternità e, temendo di non sopravvivere o di non riuscire di far sopravvivere la Terra, si erano premurati di lasciare una parte di se stessi all’Universo. Più si addentrava nella sfera della conoscenza artistica, più PQm si rendeva conto che la sua capacità di rielaborazione aveva dei limiti notevoli. Era stato creato dagli uomini a loro immagine e somiglianza. Provava sentimenti come amicizia, dolore, felicità, ma, per quanto si sforzasse, la gioia di amare l’arte, di comprenderla a fondo, disorientava le sue sinapsi artificiali. Avrebbe voluto essere in classe con gli studenti del millennio precedente, i quali, di fronte a dubbi o curiosità, si rivolgevano ai loro insegnanti. “Che cos’è l’Arte?” Era una delle domande più frequenti. I professori con molta pazienza davano risposte illuminanti, perché loro l’Arte la vivevano, l’amavano, ne sentivano la forte attrazione. In quelle opere rintracciavano il più intimo “essere uomini”. Nonostante questa consapevolezza, PQm si dedicò allo studio di quel materiale, la cui analisi gli appariva fondamentale per riconoscersi come entità frutto di un pensiero complesso, da cui aveva ereditato la sua intelligenza artificiale e, nello stesso tempo, umana: così immagini, parole, suoni, che volteggiavano in quell’oscuro ambiente solitario, piano piano divennero la colonna sonora di quella realtà fatta di nuove emozioni. Pqz, che come tutti gli altri aveva abbandonato PQm al suo fervore cognitivo, preferiva lavorare con il gruppo alla realizzazione di navigazioni intergalattiche. I progressi compiuti permisero di battere le rotte consuete, di raggiungere gli approdi già sperimentati con maggiore sicurezza. Ma, se i velivoli marziani tentavano di oltrepassare le Colonne d’Ercole, erano ancora insuccessi su insuccessi, una nebulosa oscura sembrava risucchiarli. PQz non si scoraggiava, superare le barriere della struttura spaziale, in fondo, era il suo compito, o meglio era ciò che i terrestri avrebbero voluto da lui. Quando fu intercettata una richiesta di aiuto, non ebbe esitazioni: scelse PQm per affrontare, in un luogo lontano ed ignoto, la complicata operazione di soccorso. Lo aveva visto brancolare, sia pure attonito e disorientato, nel blocco C. Era, ai suoi occhi, il più attento osservatore degli esseri che erano vissuti sulla Terra e, quindi, anche il più competente nella gestione di un incontro con eventuali forme di vita. PQm partì a malincuore, non aveva ancora concluso il suo percorso di apprendimento. Tuttavia, la prima direttiva era quella di non disubbidire ad un ordine e la seconda era che non si poteva negare assistenza a chiunque ne avesse bisogno, sia che si trovasse nel sistema Solare, sia in qualche altra recondita parte dell’Universo. Il viaggio all’inseguimento di quel segnale fu incredibilmente lungo e faticoso, finché non gli apparve quel Sole. Cercò disperatamente di inviare messaggi alla colonia marziana, ma fu attratto da una forza che lo fece sobbalzare più volte, perse il controllo della sua astronave e, in un baleno, atterrò di schianto su un pianeta che gli era stranamente familiare. Andò in perlustrazione. Si rese presto conto che… era la Terra! O almeno quel che restava di essa, dopo l’ultima catastrofe ambientale che ne aveva determinato l'espulsione dal Sistema Solare. “...SOS... SOS... SOS...” era il lamento dell’unico dispositivo esistente su quella superficie deserta.
VENT’ANNI
Il rumore del chiavistello annunciò quel giorno ai reclusi che al piano superiore del carcere di massima sicurezza un detenuto stava per abbandonare la sua cella. Danny scese le scale con cautela, temeva di cadere. La scrivania intarsiata e lucida del Direttore era ancora lontana. Gli ambienti emanavano un odore di stantio, per terra i mozziconi di sigaretta lasciati cadere dalle guardie, incuranti delle regole e dei richiami costanti dei colleghi androidi, ricordavano ad ogni passo dove aveva trascorso vent’anni della propria vita. Mano a mano che procedeva si aprivano, una dopo l’altra, le porte che conducevano verso il blocco A: Sezione Amministrativa. Aveva con sé ben poco: un abito, un pigiama logoro, alcuni libri sudici, impregnati di grasso e sporchi di polvere. Convinto di essere stato vittima di un’ingiustizia, aveva atteso invano un atto di clemenza nei suoi confronti. “Ha ritirato i suoi effetti personali?” Gli chiese il Direttore. “Sì, ho tutto quello che ho consegnato”. “Prego si sieda. Dal suo fascicolo mi risulta che si sia rifiutato di frequentare i corsi organizzati per coloro che stanno concludendo il periodo di detenzione. Il mondo è cambiato e potrebbe trovarsi in difficoltà”. “Signor Direttore, ritiene veramente che fuori da queste mura ci sia una realtà peggiore di quella del carcere?” “Mi creda non sarà facile per lei. Vent’anni sono tanti”. Seduto su una sedia, che di tanto in tanto scricchiolava, ripercorreva le lunghe infinite giornate scandite da un rituale sempre uguale. Le guardie, spesso sgarbate, controllavano minuziosamente ogni angolo e perquisivano, fino allo sfinimento ed in qualsiasi momento, gli uomini che da dietro le sbarre contavano i minuti che li separavano dalla libertà. Erano tutti omicidi o pluriomicidi e molti lo sarebbero stati anche dopo aver scontato la pena. Alzò gli occhi verso il Direttore. “Vent’anni sono tanti. Ha ragione”. Si salutarono ognuno con i propri pensieri. Il Direttore temeva che non ce l’avrebbe fatta e che si sarebbero presto rivisti. Danny salì sull’aeronavetta che lo portò velocemente in città. Ad attenderlo vi era l’assistente sociale che lo avrebbe accompagnato nella fase di reinserimento. L’ufficio era situato al piano terra di un enorme palazzo, circondato da un prato verde su cui campeggiavano oleandri, castagni e betulle. Compilò una montagna di moduli. Conclusa la procedura di registrazione, l’assistente gli diede un po’ di denaro. “Stasera potrai dormire nella Casa di Accoglienza Statale. Troverai un pasto caldo. Cerca di riposare. Domani sarà una giornata dura: le opportunità di lavoro sono molto limitate per un pregiudicato”. Pronunciò quelle parole come se fossero le battute di un copione sempre uguale. Danny annuì. Era stanco e non aveva voglia di rinchiudersi in un ricovero. Si infilò in un bar e spese quasi tutto quello che aveva appena ricevuto. Ubriaco fradicio, dormì su una panchina del Parco delle Rose, sotto un cielo limpido e luminoso. “Ehi cialtrone... alzati!” Era il suo assistente. “Perché non hai seguito le mie istruzioni?” Danny era irritato per il tono insolente: “Non sono in carcere, potrò decidere dove dormire e poi come hai fatto a rintracciarmi così presto?”. “Il microchip che ti hanno innestato sotto cute mi consente di averti sempre sotto controllo. Comunque, sappi che non puoi fare quello che ti passa per la testa… andiamo in ufficio. Dobbiamo interrogare il sistema per conoscere il tuo futuro”. L’economia e la società erano progredite, le multinazionali avevano razionalizzato il mondo produttivo ed educativo. Le Accademie sfornavano i quadri dirigenti tenendo conto della normativa in atto che proibiva qualsiasi discriminazione di genere. Per gli esseri umani competere con gli androidi era difficile ma non proibitivo. La maggior parte dei Consigli di Amministrazione era equamente composto. Le mansioni meno gratificanti erano svolte grazie ad una meccanizzazione così sofisticata da richiedere competenze ingegneristiche. Cosa avrebbe potuto fare Danny in una realtà che non riconosceva e che a sua volta non lo riconosceva? “Chi sono io? Una nullità che non è più in grado di utilizzare neppure un database.” Questa improvvisa consapevolezza cominciò ad inquietarlo. Guardò fisso l’assistente il quale, senza indugio, gli disse che la sua destinazione sarebbe stata quella di offrire il suo corpo alla sperimentazione. Nella Clinica in cui sarebbe stato confinato, avrebbe contribuito ad implementare le potenzialità progettate per gli androidi. “Quanti come me sono finiti in quella Clinica?” “Quasi tutti. Progredire significa anche fare dei sacrifici”. “Stai parlando... di sacrifici umani?” “In quella Clinica non è ancora morto nessuno, se è questo che intendi. Certo non sarà una vita semplice, ma sarai ben pagato”. Capì ed ebbe un mancamento. Intorno a lui avrebbe avuto solo il vuoto di morti viventi. La sua esistenza sarebbe terminata nel letto di un ospedale. Cosa poteva farsene dei soldi? Pianse, non lo aveva mai fatto, neppure quando era stato incarcerato. “La ricerca di un posto per me era solo un inganno, il mio destino era segnato fin dal momento del rilascio”. Sussurrò mentre una bruciante nostalgia travolse la sua mente. Gli apparvero le immagini della sua celletta piccola e maleodorante, ma sicura, con le sbarre in acciaio che lasciavano trapelare il Sole fin dalle prime ore del mattino; di notte, quando la Luna era piena, vagava e vagava, sognando la concessione della grazia. Aveva uno scopo e sopportava tutto in silenzio. L’assistente sociale lo guardò stupito: “Quest’uomo forse non si è reso conto della gravità del suo reato. Con crudeltà inaudita, aveva ucciso la sua compagna di vita, l’androide alla quale aveva giurato amore eterno. Che cosa pretendeva?”
Danny desiderava in ogni modo allontanarsi da quel posto, dove stava per essere condannato per la seconda volta. “È mezzogiorno. Potremmo andare a mangiare?”. “Non ho fame e poi devo accompagnarti in Clinica entro stasera”. Rispose l’assistente, incurante dell’angoscia e della rabbia che ammorbavano l’aria. Era fin troppo chiaro che qualcosa sarebbe successo. Danny si sedette, osservando uno scarafaggio che si era intrufolato furtivamente. Lo pestò con brutalità, meditando di fare altrettanto con il suo nuovo carceriere. Aveva notato nell’armadietto un’arma. Si mosse con determinazione, come accade a chi si è rassegnato ad un tragico destino, e, con uno scatto repentino, ruppe il vetro. Il fragore rimbombò in tutta la stanza. Danny sparò dritto in fronte all’assistente e poi ancora ed ancora, non riusciva a contenere la sua ira. Quando riprese il controllo di sé, gettò il phaser per terra, raccolse tutto quello che aveva e si diresse verso il carcere, sperava che la sua cella non fosse stata occupata da qualcun altro. Chiese del Direttore al quale, senza battere ciglio, confessò il delitto. Il Processo si svolse alla presenza di una giuria mista. La sentenza fu presto emessa: gli furono comminati altri vent’anni di galera. Per fortuna il suo giaciglio era ancora libero, pronto ad accoglierlo.
RINCHIUSI
Erano rinchiusi da trenta giorni, da quando le sirene avevano suonato l’allarme generale e la desolazione aveva cominciato ad impadronirsi delle strade, delle case, delle anime. Il tempo aveva perso significato: giorno e notte si avvicendavano con lentezza estenuante, anche Deimos e Fobos sembravano immobili. Era proibito affacciarsi alle finestre, ognuno nel proprio silenzio sperava che tutto si concludesse in tempi brevi. Le uniche informazioni, diffuse nel cloud dall’Ufficio Stampa governativo, erano per lo più rassicuranti deliri sui provvedimenti presi per sbloccare la situazione. Quale situazione? Nel verde edificio dove abitavano Ester e Davies gli alloggi muti aprivano gli usci solo all’ora della consegna del cibo, razionato, come succede sempre nelle situazioni di emergenza. La distribuzione veniva effettuata dagli androidi di una azienda specializzata in approvvigionamenti per le truppe di terra, di mare e di cielo. “Davies! – urlò Ester – È tutto marcio”. “Non esagerare, un errore può sempre capitare. Ora controlliamo insieme e scegliamo ciò che è ancora commestibile”. Ester non capiva la calma con cui il marito girava per casa, mangiava, si coricava come se ci fosse un domani. Lei no, lei voleva comprendere, riprendere la sua vita, e, soprattutto, rivedere i suoi amici nel locale dove erano soliti sorseggiare un delicato aperitivo. Si sedette per un attimo sulla poltrona, meditando ed imprecando a voce alta. Non si dava pace. Improvvisamente sentì passi pesanti provenire dal lato ovest del condominio. Forse era l’esercito che pattugliava le strade o forse era la stanchezza che la confondeva e la spingeva ad udire quello che non c’era. “Davies, cosa fai?” “Riposo, che altro potrei fare?” “Non è possibile che tu non abbia la minima percezione di una catastrofe imminente”. “Hai qualche idea per porre termine a questa agonia?” Ovviamente non ne aveva. Un tonfo fece sobbalzare Ester. “Che cosa succede?” Nonostante il divieto, non fu in grado di resistere alla tentazione di avvicinarsi alla portafinestra per guardare all’esterno. Un uomo era volato fuori dal balcone. Due androidi dall’aria indifferente lo presero e lo caricarono su un enorme veicolo militare che conteneva altri cadaveri. Fu un attimo. Poi la quiete coprì nuovamente la città. “Hai visto quello che è successo?” “No”. “Fuori la gente muore”. “Cosa dici, hai le allucinazioni”. Rispose contrariato Davies. “Centinaia di salme erano ammassate su un mezzo corazzato. Ci stanno uccidendo”. “Stai calma, fra poco tutto finirà”. “È questo a preoccuparmi: cosa finirà?” Intanto i giorni passavano finché smisero di contarli. Ester si muoveva da una stanza all’altra in modo frenetico. Era dimagrita, le guance erano quasi scomparse, sotto gli occhi un lieve colorito scuro accentuava ancor di più la sofferenza che la stava travolgendo. I nervi stavano cedendo. Voleva uscire a tutti i costi. “Non puoi, non puoi e non puoi. E adesso basta”. La rimproverò seccato Davies. Un altro tonfo ed un altro carro strapieno di cadaveri. Quella scena pareva costruita di proposito per spaventare e costringere le persone a non tentare la fuga. Del resto quelli erano suicidi o omicidi? “Come mai oggi i rifornimenti sono in ritardo? Muoio di fame”. “Stai calma, il rancio arriverà come al solito”. Il rancio arrivò. Si accorsero che nel portavivande c’era ben poco ed erano avanzi. Ester era inorridita: “Ma da dove viene questa roba?” Davies intanto preparava la tavola come se fosse un pranzo qualunque. “Sei insopportabile quando ti comporti così. Siamo su una china che sta diventando sempre più scivolosa”. “Hai qualcosa da proporre?” Le chiese per l’ennesima volta oltremodo infastidito. “Io comunque oggi non mangio”. “Va bene, mangerai domani”. Il giorno seguente stessa storia: due piccole porzioni smangiucchiate. “Resterai ancora a digiuno?” “Odio il tuo tono ironico”. Lo sguardo si posò sulla finestra e ancora un tonfo e poi un altro. Il rumore di un motore a propulsione più intenso di quelli precedenti ruppe l’aria come un fendente. Il dolore attraversò tutta la via ed entrò nelle tetre dimore. Il vento alzò la polvere che si era depositata sul selciato, oscurando il Sole. Da quel preciso momento di un imprecisato mese nessuno si presentò più alla porta. Non avevano più notizie, seppur vaghe, da quando anche l’emittente ufficiale aveva smesso di trasmettere. Erano soli? I soli sopravvissuti di una guerra a loro sconosciuta? “Dammi la console voglio provare a connettermi attraverso un altro canale”. Per un attimo Davies si collegò. L’unica parola che riuscì a distinguere fu “Rivoluzione”. “Ester dobbiamo abbandonare questo posto”. Mormorò quasi piangendo. “Te lo avevo detto che c’era qualcosa di strano in questa quarantena”. “Ascolta c’è qualcuno, delle persone stanno parlando. Che siano qui per salvarci?” Non erano persone, erano androidi armati che stavano bloccando tutti gli accessi. “Ci stanno murando vivi, non sanno che qui ci siamo noi?”
I cadaveri di Ester e Davies furono ritrovati due secoli dopo, quando il nuovo Governo della colonia stanziata su Marte, guidato da un androide illuminato, decise di rendere pubblico il genocidio commesso contro esseri umani, sacrificati in nome di un ideale superiore.
LA PACE DELLA VENDETTA
La guardava da ore. Giaceva su un fianco. L’abito di seta azzurro, morbido e struggente con un’ampia scollatura, faceva risaltare il seno delicato e intrigante. Le braccia nude, bianche e setose, illuminavano la stanza, intorno solo silenzio.
Si era presentato da lei infiocchettato, in giacca e cravatta. Voleva colpirla alla vecchia maniera, aveva anche comprato un anello per suggellare quel momento. Era arrivato in anticipo rispetto al solito. Pioveva. Sotto un ombrello macilento camminava avanti e indietro dinanzi al cancello della sua abitazione, l’edificio, immerso nel verde degli alberi e nel rosso degli oleandri, svettava disinvolto verso il cielo, in una specie di terra di nessuno. I minuti trascorrevano lenti, nel frattempo cominciava a sentire l’affanno della pioggia dalla testa ai piedi. Non voleva presentarsi bagnato fradicio, decise quindi di cercare un riparo. Trovò una tettoia dove rintanarsi. Da lì poteva vedere la finestra della sua camera: tutto era confuso, come visto da occhi irritati da granelli di sabbia. Abbassò il capo e osservò le stringhe delle scarpe che si stavano allentando. Voleva sistemarle, così si piegò fino a raggiungere con le mani le estremità dei lacci. Notò una coppietta che stava attraversando la strada accompagnata da un androide attento a proteggere i due malcapitati in fuga dalle intemperie. “Se ne avessi uno anch’io, forse sarebbe diverso.” Nei suoi sogni sempre uguali inseguiva questa idea, avrebbe voluto aprire uno spazio ed un tempo in cui muoversi liberamente. Invece era bloccato, costretto ad arrendersi davanti ad un muro. Fin dagli albori della robotica evoluta era stata promulgata una legge molto ferrea che riguardava i biotecnologi, gli informatici e gli sviluppatori. Il governo aveva deciso di impedire il possesso di androidi a coloro che ne preparavano i cervelli positronico-quantistici. Il pericolo da evitare era che qualcuno potesse rimuovere i blocchi etici, elaborati da un’apposita commissione, al fine di scongiurare comportamenti delittuosi o crimini contro l’umanità. I trasgressori sarebbero stati puniti con severità. David era un brillante ricercatore del Dipartimento di Ingegneria Quantomolecolare ed era vissuto lontano dal sapore acre dei rapporti sociali in una realtà che riteneva polverosa e rigida. Seguiva la sua missione. Questo era tutto. Non aveva amici e non si era mai innamorato. Finché una mattina Elisabeth lo travolse come un fiume che esonda e gorgoglia il suo canto distruttivo. Se ne stava su una panchina vicino al suo laboratorio. Era una donna dallo sguardo penetrante, magra, elegante, vestita di rosso; dalla gonna un po’ corta trapelavano le gambe che ogni tanto incrociava con un fascino inconsapevole. Quando si alzò per andarsene, David provò uno strano smarrimento. Riprese a lavorare. Stava perfezionando una nuova forma di intelligenza artificiale, non un semplice dispositivo programmabile e controllabile, ma un essere dotato di sensibilità, libero arbitrio e capace di apprendere e progredire. Dalla nascita in poi avrebbe avuto un’educazione basata sui principi fondamentali di libertà, rispetto e tutela dei diritti inalienabili, sanciti dalla Costituzione e dai Trattati Internazionali. Nonostante le difficoltà di un progetto così ambizioso, David, tenace e testardo, in breve aveva scritto il codice base e alcuni prototipi erano già in circolazione. Il giorno seguente Elisabeth, sotto un sole offuscato da una leggera nebbiolina, ricomparve, gli alberi sembravano in festa, tutto intorno un’insolita melodia si spandeva per l’aria. David comprese che non poteva rinunciare ai suoi occhi, alle sue labbra tinte di amaranto, al fascino frizzante di quell’esile corpo che si muoveva sotto il soprabito. Voleva conoscerla. Scese le scale in fretta e furia e la raggiunse. Si fermò davanti a lei. Elisabeth, incuriosita da quell’uomo, accennò un sorriso. David si fece coraggio e si sedette al suo fianco. Aveva alle dita due diamanti. Mille congetture gli balenarono per la mente. Avrebbe voluto dirle qualcosa, invece ansimava e aveva i brividi sulla schiena. Elisabeth si allontanò, percorse un breve tratto, rallentò leggermente, come colta da un dubbio, si girò verso David, poi si dissolse nella nebbia. Le ore eterne di quel pomeriggio passarono scivolando con lentezza estenuante e finalmente il tramonto giunse a consolare una pallida luna. Era stanco, ma non voleva rientrare nel suo disadorno alloggio. Senza tentennare si recò in un locale dove avrebbe potuto sorseggiare qualche goccia di champagne in compagnia della solitudine. Entrò, si accomodò su uno sgabello, appoggiò le braccia sul bancone e fece un cenno al cameriere. Si sforzava di cancellare dalla memoria l’incontro con quella femminilità che aveva turbato il suo peregrinare attraverso la vita. Il fruscio lieve di una mano sul collo lo fece sobbalzare dallo spavento. Era lei. Elisabeth ruppe il ghiaccio con un semplice “Ciao”. Aveva una voce tremendamente sensuale. Passarono una serata indimenticabile. Lei gli versava nel calice i liquori più rari e soavi come se volesse togliergli la forza di scappare. David, confuso dall’eccitazione e dall’alcol, precipitò in una dimensione quasi surreale. Non aveva più la capacità di dominare le sue emozioni. Quando le luci soffuse si spensero, mano nella mano si rifugiarono nel soffice letto di una camera d’albergo. Al risveglio David era solo. Non capiva. Aveva bevuto troppo e forse si era immaginato tutto. Eppure il profumo intorno non mentiva, fluttuava rompendo l’incertezza di una notte che probabilmente non avrebbe avuto futuro. Si vestì, si presentò al laboratorio e si immerse negli algoritmi come sempre, con la stessa serietà, con lo stesso impegno. Ma non era abbastanza concentrato. Vagava con la mente tra le lenzuola evanescenti, complici nel fargli provare uno sgomento tale da scombinare il niente che gli impastava la bocca e l’esistenza da anni senza averne avvertito le note aspre. Una corda invisibile lo legava a lei e, mentre ascoltava il groviglio confuso dei suoni stonati che lo circondavano, percepì intorno a sé una cupa atmosfera da romanzo gotico: spalle curve, teste chine e abiti sgualciti. “Ho anch’io questo aspetto deprimente.” Pensò, guardando la propria immagine riflessa su una delle innumerevoli vetrate che catturavano la luce solare. Elisabeth apparve sulla panchina quasi d’improvviso. Si girò verso il laboratorio. David non voleva mostrarsi. Si raggomitolò fino a toccare il pavimento. Gli altri notarono questo strano atteggiamento. “Sei fuori di senno?” Disse un collega. Non rispose. Sarebbe ritornato nello stesso locale dove l’aveva incontrata. Aspettò fino all’una, poi Elisabeth si materializzò. Con un gesto delle mani ammiccante e malizioso si rivolse a lui. “Mi stavi aspettando. Lo so. Facciamo due passi.” Era buio fitto e le montagne erano coperte di nubi che correvano all’impazzata sotto l’impeto di un minaccioso temporale. Lei lo invitò a salire nel suo lussuoso appartamento. Si baciarono con voluttà e si abbandonarono nell’immensità dei sensi. Con lei era un altro uomo, per nulla preoccupato da una relazione sfuggente, discontinua e controversa. Avrebbe voluto coprirla di domande, ne aveva tante, ma Elisabeth sapeva eludere abilmente ogni tentativo di invadere la propria intimità, il proprio vissuto. Era indubbiamente una donna misteriosa e lui un uomo cieco dalla passione. Dopo qualche mese le confessò il suo desiderio di condividere ogni attimo. L’amava con la stessa ingenuità di un adolescente senza esperienza. Elisabeth, evasiva come sempre, gli fece un gran sorriso.
Era ancora sotto quella pensilina. La pioggia lo sfidava, da due ore il cielo non dava tregua. La città aveva perso le sue sembianze per lasciare il posto a rivoli tortuosi di acqua. Elisabeth scese e, ignorandolo, calpestò la sua ombra. Lo sconforto si impadronì della sua pelle, lasciò cadere l’ombrello, la rincorse, scivolò, cadde. Quando David si alzò, lei era scomparsa. Non sapeva dove fosse, con chi fosse. Indugiò, non capiva il suo modo di agire. Provò una fitta lancinante allo stomaco e alle tempie. Mai si era sentito più ridicolo. Si incamminò lungo il viale, pozzanghere enormi trasformavano ogni movimento in un’agonia. I suoi abiti erano ormai un mucchio di cenci. Il mondo intorno, plumbeo e opaco, tacque per un momento. Aveva il cervello in fibrillazione. Attonito e sospeso in una specie di limbo, si infilò in un chiassoso bar. Con il bicchiere ricolmo di un whisky dall’aroma speziato, cercò di mettere in ordine i suoi sentimenti. “Non so nulla di lei. Questo è il punto.” Si accorse che alcuni clienti avevano smesso di fare confusione e lo indicavano con velata insistenza. Erano incuriositi. Ridevano di lui. Ne era sicuro. Avrebbe voluto ricambiare in qualche modo quell’ironia invece continuò a bere. Erano le tre del mattino. Un assillo ingrato e crudele lo tormentava. Aveva bisogno di una spiegazione. Si diresse verso l’albergo in cui Elisabeth lo aveva portato e di cui ricordava ogni minimo particolare. Si sorprese a scrutare il balcone della stanza in cui si erano amati. Due figure dai contorni sfumati si spostavano dietro una tenda bianca. “E’ lei, la mia Elisabeth… con un altro.” Mormorò mentre le lacrime gli solcavano il volto. Si convinse che l’unico modo per non affondare nell’abisso infinito fosse salire. Il portiere stava dietro un enorme bancone finemente intarsiato. “Desidera?” “Vorrei parlare con Elisabeth.” “Quale Elisabeth?” “Stanza 220.” “Ho capito. La signorina è impegnata e non vuole essere disturbata.” Amareggiato, sprofondò in una poltrona nella hall. “Posso attendere qui?” “Certo.” Appeso ad una parete, color avorio e decorata con una greca multicolore, vi era un orologio. Sentiva distintamente il ticchettio delle lancette che giravano. L’aurora cominciava a farsi spazio, ancora un’ora e poi sarebbe dovuto correre al laboratorio. Improvvisamente ebbe un sussulto, di fronte a lui, sul tavolino, un biglietto da visita attirò la sua attenzione: era di Elisabeth. Uscì barcollando, con una mano si toccava il viso madido di sudore, con l’altra stringeva forte quel biglietto. Colei che lo aveva rapito era alle dipendenze di una multinazionale molto nota che si serviva di escodroidi per coprire un mercato in piena espansione: il mercato del sesso. David perse il controllo, tutte le sue fragilità emersero prepotenti. Era stato imbrogliato, offeso e umiliato da una sua creatura. Proprio lui, lui che era considerato il migliore nel suo campo, che credeva fortemente nella nuova frontiera aperta dagli androidi di nuova generazione. Il sole era alto all’orizzonte, chiamò un aerotaxi, il pilota automatico lo portò a destinazione, vicino alla soglia che aveva varcato tante volte. L’attese. Elisabeth spuntò come per incanto. “Ma tu chi sei?” Urlò David appena le fu accanto, sventolando il biglietto da visita che aveva conservato. Lei lo fissò per un attimo, poi esplose in una risata fredda e tagliente. “Mi pare ovvio. Io offro piacevoli momenti a chiunque paghi. Questa attività mi ha permesso di imparare come funziona il vostro mondo. So che cosa sono la fatica dell’essere e la gioia dell’avere. Non ti ho chiesto del denaro per le mie prestazioni perché tu sei stato un’evasione dalla routine, svago e divertimento. Non sei il primo e non sarai l’ultimo.” David era impietrito. Elisabeth era cosciente di ciò che gli aveva fatto, era capace di rielaborare sensazioni, di simulare e fingere. Avrebbe potuto farla finita in quell’istante, sapeva bene come fare. Invece volle ristabilire la calma necessaria e con lucidità le chiese un ultimo appuntamento. “Se ti va bene, io sono disponibile la prossima settimana, giovedì o venerdì, naturalmente dopo aver congedato i miei clienti.” “Venerdì sarò da te.” Rispose David con voce ferma e risoluta. Era guidato dalla disperazione e da un intollerabile senso di vertigine quando si avvicinò a casa sua e, come se avesse un peso di cui disfarsi in fretta, salì all’ultimo piano senza esitazione. Le corse incontro per non darle la possibilità di reagire, le accarezzò la nuca e, con la rabbia di un lupo ferito, disattivò le sue reti neurali.
Era immobile, insensibile, aveva le palpebre serrate, eppure era bella e seducente. David sentì intorno a sé la pace della vendetta che placa gli animi dei più deboli. Tremava, non riusciva a staccarsi da lei. Infine si mosse e, passo dopo passo, superò la gora, volse gli occhi alla città, si tolse la giacca, l’appoggiò con cura sul prato ancora umido. Di lui non si seppe più nulla.
IL VOLTO OSCURO DELLA LUNA
Il velivolo che l’aveva portata nello spazio per il suo primo volo era allunato in perfetto orario. Da qualche anno le agenzie turistiche facevano a gara per accaparrarsi clienti facoltosi, pronti a spendere una fortuna per provare l’ebbrezza di passeggiare sulla grigia argilla fino a raggiungere, con guide esperte, il Mare Tranquillitatis ed il mitico cratere Apollo. Qualcuno avrebbe voluto concludere la propria vita lì, nella illusoria aspirazione di allontanare la beffarda sorte, altri, romanticamente, pensavano di poter ritrovare il senno perduto nella corsa affannosa verso il successo e la fama, inseguendo amori impossibili, finiti davanti ad un portone finemente decorato o in un parco desolato. Selene era stata spinta dal desiderio di evadere da un’esistenza senza pace, sempre uguale a se stessa, avvolta nell’oscurità di una cupa malinconia. Non riusciva ad accettare la perdita della sua unica figlia, vinta da una grave e lenta malattia. Sconvolta, in collera con se stessa, martoriata dal rimorso, era sprofondata nel precipizio di una grave depressione. Fu, perciò, ricoverata in un Istituto di Riabilitazione per riacquistare l’equilibrio, l’autocontrollo e la grinta, la sua grinta, quella che l’aveva distinta in ogni progetto, piccolo o grande. Non sapeva neppure lei quanto fosse durata la terapia, a quante sedute di psicoanalisi si fosse sottoposta per rielaborare o per fingere, in modo convincente, di aver rielaborato il lutto che l’aveva sfigurata. Si rimproverava di aver concepito sua figlia in modo naturale, di aver aderito al movimento Nuovo Umanesimo che avversava le manipolazioni genetiche a fini selettivi. Era stato Jury, il bioingegnere di cui si era innamorata, a trascinarla nella crociata per fermare la tracotanza di coloro che avevano scelto di procreare in modo artificiale pur di ottenere un risultato in linea con le loro aspettative. All’Accademia, dove studiavano e si riunivano gli Umanisti, le discussioni erano vivaci, cariche di passione e avevano il fascino discreto dei Caffè Settecenteschi, dove circolavano idee e proposte innovative che esaltavano ed infervoravano. Selene fu ammaliata da quel seducente attivista, dal suo spirito combattivo, dalla sua certezza che trasformare il corso della Storia sarebbe stato possibile.
Era primavera, una strana primavera, un caldo afoso aveva reso irrespirabile l’aria, quando le porte scorrevoli dell’Ospedale Psichiatrico si aprirono. Selene con l’animo sulle spalle e con la sua valigetta nera riprese la sua routine, le solite frequentazioni, il suo lavoro di Amministratore Delegato di una nota ed affermata Multinazionale. Una sera, in un locale prestigioso, sola davanti al monitor del suo PC, fu colpita dalla pubblicità di un’Agenzia Turistica Aerospaziale. “Viaggi indimenticabili sulla Luna vi faranno scoprire tutte le amenità del nostro satellite”. Guardò il video ed il bicchiere ricolmo di un liquore dolce e confortante, mentre le sue mani si attorcigliavano, provate da una insostenibile agitazione. “Perché no?” Si chiese. Se lo poteva permettere e forse un balzo così estremo le avrebbe consentito di dimenticare l’angoscia da cui era torturata, di interrompere l’incessante ripetere a se stessa “Avrei dovuto... avrei potuto… avrei voluto...” Contattò l’agenzia e partì. Il periodo di preparazione non fu lungo e neppure troppo impegnativo. Del resto aveva firmato un plico di più di 100 pagine, con le quali si assumeva ogni responsabilità per eventuali imprevisti, compresa la possibilità di non sostenere lo stress dovuto alla diversa gravità. Quando mise piede sul suolo lunare ebbe la sensazione di aver già sperimentato qualcosa di simile. Ma quando e dove? Non se lo ricordava. Era triste, gran parte del suo mondo era lontano, immerso in una fitta e fredda nebbia, come lo era la Terra in quel momento. Il fruscio di quella solitudine la spinse ad abbracciare quasi con nostalgia il suo tormento. Questa riflessione la distrasse per un attimo dall’ascolto delle istruzioni impartite dall’astronauta che l’avrebbe accompagnata verso luoghi suggestivi ed intriganti. Rischiò di cadere dopo qualche passo: era più complicato del previsto muoversi dall’altra parte del cielo. Fu condotta al suo alloggio dove trovò un comodo letto su cui riposare e cibo in abbondanza. Poteva camminare come a casa sua, un campo di forza artificiale le restituì il peso del suo corpo e la riportò al profumo del glicine che aveva piantato suo padre per festeggiare la nascita di Gaia. Quel glicine sopravvisse alle avverse condizioni climatiche e all’oblio che si impossessò della spensieratezza, dell’entusiasmo e della gioia per quel lieto avvenimento. Selene si avvicinò alla grande vetrata che la circondava: all’orizzonte la Terra stava sorgendo, era uno splendore. Il blu degli oceani si intravvedeva chiaramente, un alone ardesia faceva trapelare qualche sfumatura più tenue che contrastava con lo spazio ovattato e aspro della Luna.
Quando si rese conto di aver indugiato troppo ad ammirare quel panorama, ebbe un sussulto, le escursioni stavano per incominciare. Il Direttore della Base, con poche cerimonie, aveva raccomandato: “Massima puntualità.” Fu inserita nel gruppo n. 7. Attorno a lei vi erano tante altre ombre ricoperte da una tuta come la sua. Sembrava di essere di fronte ad una fotografia del XX secolo in cui vi era l’Everest, offeso da carovane di improvvisati scalatori che cercavano di arrivare in cima. Molti morivano. Gli altri proseguivano. Avendo sborsato molto denaro per quella impresa, non c’era ragione per fermarsi a prestare soccorso a coloro che cadevano umiliati dalla loro stolta arroganza. Le marce, cui erano costretti i nuovi pionieri per godere a pieno dell’incantevole paesaggio lunare, erano paragonabili a soffici salti su un tappeto imbottito di gomma piuma. Alcuni si spingevano, un po’ per gioco un po’ per eccitazione, e finivano per rotolare, indifferenti ai perentori richiami della guida: “E’ pericoloso. Non c’è atmosfera! Mettetevelo in mente: se succede qualcosa sarà molto difficile rimediare, ognuno di voi ha una scorta di ossigeno assegnata. Tutti vedrete tutto, compresa l’altra faccia della Luna con i suoi misteri.” Fu un’esperienza intensa, a tratti sorprendente, come le avevano assicurato alla stipula del contratto.
Selene, dopo due settimane, fu riportata sulla Terra dove un Sole intenso illuminava il profumo dolce di fiori e piante, eppure intorno vi era solo il cemento della sconfinata pista di atterraggio, degli hangar, degli edifici direzionali, delle torri. Si avviò verso l’uscita dove alcuni aerotaxi erano in attesa. Ne scorse uno dai colori vivaci, aveva un aspetto familiare e quasi rassicurante. Salì, digitò le sue credenziali, programmò la destinazione, attese qualche secondo e poi via. Il sottofondo musicale, che aveva selezionato, fu interrotto bruscamente da una voce. “Ciao Selene, come ti senti ora?” Selene fu colta da una strana inquietudine. “Non capisco, che cosa sta succedendo? Chi sta parlando?” Il cuore cominciò ad aumentare il ritmo. Istintivamente avrebbe voluto scendere, invece rimase al suo posto. “Allora Selene, come va?” “Cosa vuoi dire?” “Lo sai, porti su di te i segni delle lacrime che hanno scolpito il tuo volto.” Selene si irrigidì. Cosa ne sapeva un dispositivo del suo calvario? “Tua figlia, Gaia, ti ha lasciato e tu non hai avuto il coraggio di vivere con lei gli ultimi istanti, quando il vascello del tempo l’ha travolta e l’ha portata sull’altra riva. Non hai voluto partecipare al rito funebre, hai condannato tuo marito ad occuparsi di tutto, come se fosse l’unico responsabile della vostra disgrazia, del vostro crudele destino.” “Come puoi dare giudizi sui miei sentimenti?” Replicò con sdegno impetuoso Selene. “Lo sfinimento dell’agonia ha fatto crollare la tua innata dolcezza e la tua compassione, facendo germogliare il rancore per una sofferenza che avresti potuto alleviare se solo ti fossi girata a guardare gli occhi di Jury. Egli ora è al Centro di Ricerche Sociali dove si è rinchiuso e dal quale non esce mai. Continua con caparbietà e tenacia la sua missione: si dedica, come in passato, all’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui rischi che possono derivare dalla costruzione di una società in cui le persone, impaurite dal sapore urticante dell’incertezza, scelgano la strada della tecnologia del DNA ricombinante.” Le parole pronunciate colpirono Selene come un dardo scagliato contro un muro: “Il solito egoista! Pensa solo a sé e ai suoi principi!” “Non è vero Selene, è stato padre, genitore lui stesso, anche lui ha sopportato l’inferno e i sensi di colpa. Tu lo hai punito con la tua rabbia, gli hai voltato le spalle e sei scappata.” “Non sono una codarda e anch’io ho sostenuto le idee per le quali si batte mio marito. Ma quando un atto è compiuto e ha preso forma, non lo possiamo più ignorare, restiamo imprigionati nella trappola dei nostri disinganni e risentimenti.” Mentre rispondeva al suo fantomatico interlocutore, cresceva in lei il dubbio di essere con qualcuno che la conosceva a fondo, si sentì perciò libera di sfogare tutto il veleno che aveva in corpo e che era riaffiorato con una violenza inconsueta per una donna, come lei, abituata a meditare ogni sillaba, ogni lettera dell’alfabeto. “Sono proprio i disinganni ed i risentimenti a determinare la realtà, la mia realtà. Ogni evento porta con sé la pena dell’esser stato, non può essere modificato. Solo in astratto potrei dire che mi perdono e che perdono mio marito.” “Perché ‘in astratto’?” “Un albero senza radici – continuò Selene –, non è più una pianta, è solo un tronco su cui le foglie, cambiando colore, piano piano gli daranno un altro volto, fino a diventare altro da sé. Io non so dire chi sono, le mie radici si sono staccate, sono state bruciate e sono diventate vento.” “Un fatto, sia pure tragico, sia pure atroce non può tenerti legata e sospesa per sempre. Le ceneri di Gaia riposano sotto una lapide: il suo sonno dovrebbe essere la tua forza.” “Non capisco quello che mi vuoi dire. Lei non c’è più. E’ nell’infinito vuoto. Cosa dovrei fare? E poi chi sei tu per darmi consigli?” Ribadì Selene. “Nessuno, in effetti, io sono nessuno e tanti, sono un agente wetware senziente, come hai notato, esisto finché tu sarai qui con me, domani o più tardi il mio esserCI sarà diverso in una diversa dimensione, perché tutto muta a seconda del passeggero che io accompagno. Dopo di te ci sarà qualcun altro con la sua storia, meglio con le sue storie: tutti momenti unici che lo hanno reso quel che è, ma non quello che sarà. Se l’Essere non evolve l’Essere Umano soccombe. Il resto è illusione.” “Non è certo un’illusione la tomba di mia figlia”, mormorò Selene avvilita e irritata. “No, non è un’illusione, così come è vero che nessuno nel divenire lascia una traccia solo per se stesso, subendone le conseguenze. Qualsiasi nostra azione ricade inevitabilmente anche su altri. E’ inutile che tu abbia aspirato al Bene, se ora non distingui ciò che ti ha reso diversa da chi non è in grado di comprendere che la sorte, a volte, può renderci vittime di noi stessi, dei nostri valori. Affoghi nel tuo dolore, ne sei schiava ed è questa schiavitù che ti ha consentito di sopravvivere, ma non di continuare a lottare contro l’indifferenza e la superficialità di coloro che hanno perso il contatto con l’imprevedibile e si accontentano di un miserabile controllo cromosomico.” “Basta!” Urlò Selene. Non voleva più ascoltare. Un impulso irrazionale si era impadronito dei suoi pensieri. Disattivò il computer di bordo. Non avendo più un percorso in memoria, l’aerotaxi si fermò. Selene chinò il capo, strinse i pugni. Era ferita e sanguinante: quella conversazione l’aveva fatta ripiombare nel baratro da cui aveva cercato di fuggire. Si sentì debole e indifesa, in balia dei flutti di un mare in tempesta, incapace di approdare in un porto tranquillo da cui scrutare i primi bagliori dell’aurora. Disattivò la chiusura dell’abitacolo e scese. Dov’era? Il suo navigatore le indicò il sentiero stretto e tortuoso dell’abitazione nella quale aveva vissuto gli anni della speranza e della fiducia. Volse lo sguardo verso le stelle. La Luna era lassù, per quanto aveva ascoltato quella voce? Si diresse verso il fiume, l’argine era scivoloso e per questo il suo incedere era vacillante. Riconobbe il prato in cui si recava con Gaia ad assaporare l’odore fresco del fieno. Si accasciò, baciò l’erba appena nata fino a mangiare la terra. Estrasse dalla borsa un flacone trasparente che le era stato, furtivamente, consegnato da una tremula pietosa mano, incontrata al Centro Ricerche Patologie Infantili, nel tetro androne che conduceva nella corsia dei malati terminali. All’interno risuonarono due pillole dall’aspetto anonimo, ma invitante. Le osservò. Finalmente in quella silente notte aveva trovato la serenità e la risolutezza per ingoiarle. Si distese vicino all’acqua. Il rumore sordo della corrente le rimbombava in testa. Era molto stanca. Tre giorni dopo il suo cadavere finì contro le pale lucide di un vecchio battello, che solcava rumorosamente le acque limpide, trasportando giovani coppie che si erano date appuntamento per scambiarsi promesse e brindare al futuro, incuranti del volto oscuro della Luna.
IL CONFINE
Dalla finestra del trentesimo piano il panorama era magnifico. Terry ammirava i monti che da lontano facevano trapelare la tenue luce del crepuscolo, digradante verso le valli incastonate sui pendii addormentati. Donna vivace, dinamica, naturalmente estroversa e dal fascino intrigante, alternava periodi di gioia ed euforia ad altri di cupo sconforto. Era sabato, l’attendeva come sempre il suo accompagnatore Tom, un androide che aveva acquistato per precauzione, per non affrontare da sola un ambiente decisamente rischioso ed ambiguo: dopo la seconda rivoluzione robotica, avvenuta qualche decennio prima, risultava difficile distinguere tra un essere umano ed un dispositivo evoluto come Tom. “Dove ti porto?” La domanda retorica di cui conosceva già la risposta, non scompose di un millimetro Terry. “Vorrei raggiungere la periferia.” “Lo sai che è molto pericoloso allontanarsi dal centro città.” “Me lo dici ogni volta che te lo chiedo, ma io non ho paura e poi ci sei tu.” “Vorrei ricordarti gli episodi di violenza che lo scorso mese hanno travolto e ucciso una ragazza di vent’anni.” Sara era stata uccisa in un locale come ce ne sono tanti nel buio incantato della trasgressione e sotto luci soffuse e sfumate da una nebbia di odorosi effluvi che stordivano i sensi. Questo era il fascino di quel luogo denominato Campo 2, fondato dagli androidi che si erano ribellati al potere costituito e si erano barricati lì in nome della libertà e dell’autodeterminazione. Solo cittadini scortati potevano accedere e i controlli delle sentinelle erano rigorosi. “Sara non poteva immaginare che il suo androide non avrebbe fatto niente per salvarla. Forse non era di buona qualità o forse voleva unirsi ai suoi simili. Vi sono troppi improvvisati nel settore della biorobotica. Tu sei costoso, ma sei stato un buon investimento.” Già, Tom per lei era solo questo: un buon investimento. Quando varcarono la frontiera furono abbagliati da proiettori fotonici che chiaramente intimavano di fermarsi. Controllati minuziosamente i documenti, furono autorizzati ad entrare. “Ora comincia il divertimento.” “Terry non esagerare, non metterti nei pasticci.” “Quali pasticci? Io desidero solo divertirmi un po’, fare qualche nuova conoscenza. Non ti preoccupare non mi apparterò, sarò costantemente sotto il tuo sguardo vigile.” Tom fremeva, si era invaghito di lei ed era geloso. Quella sera nella piccola Repubblica i festeggiamenti per l’Indipendenza erano stati organizzati affinché ogni angolo offrisse motivo di svago. C’era tanta confusione ed era complicato non farsi trascinare dalla bolgia. Fiumi di alcolici venivano offerti ai visitatori. Terry era felice e come non esserlo: era circondata da corteggiatori che, ammaliati dal suo fascino, le facevano provare il piacere dell’eccesso provocatorio. “Tom non starmi addosso.” “Sei una contraddizione, non sei più una ragazzina. Il tuo temperamento è troppo esuberante.” L’aveva offesa, lui sapeva cosa le era capitato. Terry scappò. Corse all’impazzata fino a che ebbe fiato. Si accasciò davanti ad un locale la cui insegna colorata e attraente la catturò. Circondata da una nuvola di profumo intenso ed esaltante, percepì uno strano disagio, un intreccio di pensieri a maglie fitte cominciavano a schiacciarla contro la sua storia. Il trattamento che aveva subito non avrebbe dovuto lasciare nessun segno nella sua memoria. Invece la casuale vista del corpo insanguinato di una donna trafitta da un raggio di Sole ed incapace di chiedere aiuto, le fece rivivere alcuni dei momenti più bui del sospetto e della condanna. Per non morire in un manicomio criminale, aveva accettato di fare un intervento di biogenetica al fine di cancellare ogni traccia del delitto e delle motivazioni che lo avevano reso possibile. Era una cura sperimentale volta alla manipolazione delle reti neurali alla quale sarebbe seguito un periodo di rieducazione. I medici controllavano regolarmente i suoi progressi e la sottoponevano ad estenuanti colloqui. L’unico, tuttavia, ad aver penetrato la sua anima era stato Tom, il buon Tom, l’innamorato Tom, il testardo Tom che quella notte, in ansia per averla persa di vista, la cercava affannosamente. Quando la ritrovò Terry aveva un volto spettrale, era caduta ed era stata calpestata da un manipolo di goliardi che nel trambusto generale non si erano accorti di lei. La prese in braccio e la riportò in città nel suo appartamento, piccolo ma ben arredato. Terry sprofondò nella quiete della sua dimora. Il sonno le regalò un po’ di pace fino a che l’aurora si insinuò curiosa nella camera e la risvegliò accarezzandola. Ancora in vestaglia si avvicinò alla portafinestra della terrazza e la spalancò per godersi il tepore primaverile. Fece colazione, indossò un abito blu ed un cappello a tese larghe della stessa tinta, scese, attraversò il viale e si sedette su una panchina sotto un cipresso ripercorrendo la stanca storia di un libro in cui mancavano delle pagine. L’assenza di un ricordo chiaro del passato la spingevano a cogliere nelle cose e nelle persone il senso allusivo che le imponeva bruschi salti indietro. Chiuse gli occhi un attimo per frugare nel suo profondo e ricomporre il quadro della sua esistenza. Avvertiva il richiamo prepotente del nulla, del buio in cui stava vivendo, o meglio in cui l’avevano costretta a vivere. Le pareva di essere in una trappola senza fine, in bilico su un precipizio che portava ad un altro precipizio. Era una brutale assassina o una vittima degli eventi? Il presagio di un destino già segnato aleggiava e più tentava di distrarre la mente dalla prigione del suo delitto, più le bruciava dentro la fastidiosa e pungente ebbrezza della dissoluzione. Aveva bisogno del sostegno di Tom, della sua costanza nel proteggerla dalle lusinghe e dalle insidie. Riprese la strada di casa, disorientata e avvilita. Quando Tom la vide, le fece un cenno di saluto. Terry era pallida e camminava con il capo chino. Appena le fu accanto, le cinse le affettuosamente le spalle. “Tom, e se fosse solo un sogno? Se fossimo all’interno del sogno di qualcun altro?” “Mi rattristano queste parole. Sei una donna forte, coraggiosa. Quanti avrebbero scelto la strada della genetica per riconquistare la libertà a testa alta? Che cosa ti sta succedendo?” “E’ come se una qualcosa di me non ci fosse più, forse non c’è mai stata, forse sono semplicemente un esperimento mal riuscito, oppure il mio destino è già stato scritto ed io sono l’interprete di un ruolo che mi è stato assegnato da un autore sconosciuto.” “Il vortice che ti sta risucchiando rischia di annullare la tua lucidità e di tenerti incollata ai dubbi. Fermati per un istante, concentrati, ascolta la tua voce e la mia. Noi ci siamo, c’è il mare, c’è il cielo, c’è la città... e c’è il Campo 2.” “Forse hai ragione tu, ma se questa non fosse che una delle possibilità? Se fossimo dalla parte sbagliata?” La condusse per mano fino alla camera da letto. Un lieve tremore delle sue dita incrociate con quelle di Terry, rivelava tutto il suo amore. Lei se ne accorse, il suo volto cambiò espressione, era felice di avere accanto a sé Tom, ma non glielo disse. “Tom, perché non proviamo a valicare le montagne? Solo per capire cosa c’è al di là?” “Come ti è venuta questa idea bizzarra?” “Quando mi risvegliai, ad intervento concluso, le mie palpebre facevano fatica ad aprirsi. Rimasi così per un po’. I medici, nel frattempo, si scambiavano battute. Uno di loro, ridendo, fece accenno ad un muro costruito là dove lo spazio tocca l’orizzonte.” “Vuoi superare la misteriosa Terra del Fuoco. Un mondo di cui abbiamo notizie vaghe e che potrebbe riservare spiacevoli sorprese.” “Lo so e so anche che la mia potrebbe apparire come una fuga e forse lo è.” Terry sperava di eliminare dalla propria vita lo scomodo bagaglio di accadimenti senza senso, schegge da riordinare, come si fa quando fotogramma dopo fotogramma si crea una storia che è una serie di fatti concatenati. “Va bene, se è questo che vuoi.” Rispose con un tono rassegnato, poco convinto. L’ubbidienza, rafforzata da una sconsolata pazienza, lo portò a seguire Terry in questa avventura.
Valicate le montagne, li accolse il deserto. Man mano che si addentravano il caldo rallentava la loro marcia. Erano particolarmente silenziosi, non osavano quasi incrociare gli occhi. In quella landa desolata Tom non si sentiva a suo agio. Gli sembrava di andare verso l’infinito, di muoversi su un sentiero sospeso e senza uscita. Terry era impolverata e mostrava i segni dello sforzo. “Sono stanca. Facciamo una sosta. Chissà quanto dovremo...” Si interruppe quando udì un vociare sommesso. “Da dove proviene questo suono?” Si accorsero che altri marciavano, come loro, nel tentativo di scovare il mitico confine. Decisero di proseguire insieme per sconfiggere la fatica ed il tempo che pareva dilatarsi a dismisura. Ciò che li univa era l’obiettivo comune ed erano felici di poter condividere quell’esperienza. Presto l’eccitazione per quello che avrebbero trovato si tramutò in timore. Una struggente malinconia ebbe il sopravvento. Avanzavano con lentezza estenuante. Le loro ombre tagliavano il terreno e si insinuavano nell’arida sabbia. Stavano finendo le scorte di acqua e cibo. La situazione era critica. Tom rincuorò Terry e gli altri compagni d’avventura, mentre l’orizzonte assumeva una connotazione angosciante, il cielo, coperto di un velo grigio, divenne scuro come la pece. Il fruscio di un pianoforte, che scandiva note tristi dal sapore acre, avvolse i loro corpi stremati. Si bloccarono. La musica aumentò il ritmo, rimbombando con una intensità ed un timbro cui non erano abituati. Giunsero, alfine, davanti ad una grande vetrata. “E’ questo il muro?” Si chiesero scuotendo la testa intimiditi. Dietro le loro schiene un rumore sordo e metallico li spaventò. Dei fari enormi e scintillanti si accesero. Erano intrappolati davanti ad una barriera trasparente, simile ad una bolla. Scoppiò un applauso: “Bene... Bravi... Bis...” Terry e Tom avrebbero voluto riportare indietro le ore, i minuti. Erano imprigionati davanti a gruppi di esseri squamati e dai volti soddisfatti, arrivati sulla Terra proprio per osservare la specie Umana, ormai in via di estinzione, rinchiusa in un’area protetta dalla Confederazione. “Mamma sono orribili! E quello è ancora più schifoso.” Mormorò un piccolo esserino indicando Tom. “Abbiamo speso molto per questa gita al Parco Naturale più famoso dell’intera Galassia. Goditi lo spettacolo”.
ERA UN UNIVERSO BUIO E SILENZIOSO
Era un Universo buio e silenzioso. Il tempo intorno a Mary si era improvvisamente spento, i suoi ricordi vagavano da un punto all'altro della sua vita senza un ordine preciso. Lampi di turbamento presero il sopravvento e chiuse gli occhi. Le apparve il suo istruttore di volo, da lui aveva imparato a dominare le emozioni, era stato un lungo e faticoso apprendistato, che, con chiara evidenza, non le era servito a molto, se qualcosa le frullava nello stomaco: era panico. Perse completamente il controllo: sangue freddo, coraggio, pragmatismo erano diventate vuote parole. Urlò a squarciagola al suo fedele compagno di viaggio: “Dove siamo?” PQ7, un androide di ultima generazione, si rivolse a lei con dolcezza, cercando di rassicurarla, nonostante avesse percepito la gravità della situazione. “Non ti allarmare, non siamo fuori rotta, semplicemente dobbiamo rivedere alcuni calcoli per ripristinare la propulsione molecolare della nostra nave spaziale”. Non era questo il problema, lo sapevano entrambi: erano finiti chissà dove e chissà quando. Dopo aver oltrepassato la nebulosa di Paul, che si trovava a 3 mega parsec dalla Terra, le comunicazioni si erano interrotte e i dispositivi dell'astronave si erano ammutoliti, come se avessero incontrato un predatore e non volessero farsi notare. Un brusio intermittente cominciò a penetrare nei loro cervelli, colpendoli con intensità e disorientandoli. Mary era smarrita e sgomenta, eppure questo suono la faceva sentire meno sola, forse qualcuno cercava di mettersi in contatto con loro. Come sarebbe stato bello poter dire “Houston c'è un problema!” Quante volte aveva visto e rivisto i filmati delle missioni lunari. Lo sbarco sulla Luna fu considerato come l'alba di un nuovo giorno. Scienza e fantascienza si univano in quell'evento di portata epocale e di tale rilevanza che avrebbe cambiato la storia. Erano passati quasi mille anni e la storia era veramente cambiata. La Terra, dopo lunghi ed inutili contrasti, che avevano causato la morte di miliardi di persone, si era riconciliata con se stessa, rompendo gli schemi tradizionali di sfruttamento di uomini e risorse e decretando la nascita di un governo sovranazionale. I risultati non furono immediati. Non tutti videro nella mutazione avvenuta un progresso; la ricerca spaziale rappresentò, comunque, un efficace collante tra i popoli. PQ7 riportò Mary alla realtà. Le sussurrò “Sto cercando una soluzione, nonostante il mio cervello quantistico sia fortemente disturbato.” “Se ti può consolare anche il mio cervello umano sta perdendo colpi.” Rispose Mary. “Sono preoccupata perché temo che potremmo andare ad urtare contro qualcosa che non siamo in grado di captare con la strumentazione, né di cogliere con la vista.” Aggiunse. Era un'ipotesi da non trascurare, PQ7 se ne rese immediatamente conto. Mary aveva ragione, anzi aveva una strafottuta ragione, ma un androide non poteva esternare il proprio disappunto in quel modo. Si limitò, sconsolato, a confermare i sospetti di Mary:” Non vi è dubbio. La vera questione è: c'è qualcun altro? O qualcos'altro là fuori?” Gli venne spontaneo esprimere a voce alta un pensiero che si stava insinuando nella sua mente: “Forse abbiamo superato il limite temporale e ci troviamo in un cosmo in cui la nostre capacità e la nostra tecnologia sono nulle, o annullate. Qui tempo e spazio potrebbero avere la stessa valenza, sarebbe come essere incastrati in un vortice.” Il brusio continuava a disturbare le sinapsi di Mary e mandava in fibrillazione le connessioni di PQ7. Provarono un forte desiderio di uscire, di scappare, un desiderio che facevano fatica a reprimere e che li rendeva vulnerabili. Mary cominciava ad avere fame e sete e voleva raggiungere il sintetizzatore di alimenti che si trovava lontano dalla plancia. Si tolse con decisione la cintura di sicurezza: riuscì ad alzarsi, ma sentiva che il suo corpo era pesante, stranamente pesante. Forse era quel brusio. Forse era la nostalgia per il pianeta in cui era cresciuta e aveva studiato. Forse era il timore di non poter rivedere Parigi, la sua città natale. Mary era il frutto di una accurata selezione: il suo DNA era stato assemblato in modo da ottenere un'astronauta perfetta per la realizzazione di importanti programmi di esplorazione. Appena mosse il primo passo inciampò senza perdere completamente l'equilibrio. Si trovava in bilico tra la posizione eretta e distesa, quando ebbe l'impressione di intravvedere, nelle pieghe del buio che li circondava, una specie di baleno. Come si era materializzato? PQ7, nel frattempo, armeggiava alacremente per ricalibrare i sensori e per riavviare i sistemi di bordo. D'un tratto il silenzio li riavvolse. PQ7 abbassò lentamente le palpebre per assaporare quella tranquillità. Quando le riaprì, vide Mary con un vassoio ricolmo di cibo e bevande, la osservò con attenzione inconsueta. Mary se ne accorse. “Ti starai chiedendo come mai in un momento come questo sia la necessità di mangiare a prevalere sulla paura. Io sono così. Fin da piccola nei momenti di maggiore stress avere lo stomaco pieno mi aiutava a ridurre la tensione.” Le incantevoli immagini di Parigi, custodite nel profondo della sua memoria, riaffiorarono con prepotenza: i locali prestigiosi, in cui lo champagne scorreva a fiumi, ed i Boulevard illuminati di notte con una grazia che faceva dimenticare ogni pena, soprattutto in autunno. Il rimpianto per le fresche serate all’imbrunire la fece sobbalzare in quella oscurità paradossale, come se le fosse stato sferrato un pugno allo stomaco. La disciplina imposta agli aspiranti piloti interplanetari non le avevano impedito di apprezzare le gioie della vita mondana. Quando arrivava la bella stagione e le attività didattiche e le esercitazioni erano meno impegnative, abbandonava furtivamente l'Accademia per recarsi nei locali più frequentati e alla moda nella vicina megalopoli, pur avendo la certezza che al rientro le sarebbero piovuti addosso aspri rimproveri, duri da sopportare per uno spirito libero come il suo. Era stata minacciata in diverse occasioni: se non si fosse rassegnata a cambiare atteggiamento, sarebbe stata punita severamente. Il governo, che aveva investito ingenti capitali su di lei, non poteva tollerare le sue bravate da scolaretta e continuare ad infrangere le regole, avrebbe significato a lungo andare l'esclusione da ogni progetto. Dopo l'ultimo definitivo richiamo all'ordine, Mary accettò di collaborare: il senso di responsabilità e la convinzione che il bene dell’umanità fosse un valore assoluto prevalsero sulla sua innata spensieratezza. Per scongiurare il rischio di ripensamenti, fu, comunque, sottoposta ad un isolamento quasi monacale. “Accidenti, ora vorrei essere una persona qualunque, con un qualunque impiego.” Pensò. Non era la verità, stava mentendo a se stessa. Era il senso di impotenza, che la divorava, a spingerla a rinnegare tutti i sacrifici che aveva fatto per avere il comando di un velivolo intergalattico. Il brusio intanto riprese così come si palesarono, questa volta in successione costante, dei bagliori che facevano immaginare di essere osservati. Era proprio così, erano stati intercettati. Un neuroscandaglio li stava analizzando. Il risultato, a loro ignoto, portò alla conclusione che la terrestre e l’androide non avevano consapevolezza di essere entrati in un’altra dimensione. Lo avevano intuito, ma era stato il caso a condurli lì con la loro cosmonave dotata di sofisticati processori di energia. Le leggi di quell’Universo, accettate da tutti i membri e rigorosamente rispettate, imponevano il divieto di interferire con altri mondi e stabilivano che, qualora la Porta Astrale fosse stata oltrepassata, vi sarebbe stato un contatto con gli alieni solo se questi avessero dimostrato una cultura che andasse oltre la semplice acquisizione di dati e conoscenze, nell’ottica frammentaria di una incompleta idea di cosmo. Avrebbero prima dovuto aprire gli occhi su un possibile altro da sé, in uno spazio-tempo diverso. Tutto ciò non era ancora successo sulla Terra, perciò i due incauti visitatori furono bruscamente respinti indietro. La loro navicella cominciò a turbinare fino a stordire Mary a causa dell’accelerazione, mentre un impulso cromo-dinamico disattivò per qualche istante PQ7. Quando ripresero coscienza, ebbero un sussulto. Erano increduli, confusi e, per una frazione di secondo, si scambiarono sguardi stupiti. Si accorsero, infine, che l’astronave non aveva subito danni e sul monitor della plancia videro la Via Lattea. Mary si ricompose ed inviò un messaggio: “Qui Mary e PQ7 stiamo rientrando”. “Da dove?” Chiese lo sconosciuto interlocutore dalla stazione spaziale Alfa. Il quesito li sorprese come un fulmine a ciel sereno. Sugli apparati direzionali non vi era traccia del punto nel quale si erano arenati, tuttavia Mary era certa di aver compiuto un’impresa senza precedenti.
Ti amerò per sempre
Grace aprì la portafinestra che dava sulla spiaggia. Il terrazzo era spazioso, decorato con piante intricate e dai colori esotici. Il tavolo, ornato da un drappo rosso, aspettava i due giovani innamorati. “Danny, sono le 8:00, alzati la colazione è pronta”. “Lasciami dormire ancora un po’… è così bello non avere orari da rispettare”. “Oggi mi piacerebbe noleggiare un motoscafo, non essere pigro”. “Va bene cara, tra cinque minuti sarò da te”. Intanto Grace assaporava il profumo della risacca e fantasticava sul futuro con Danny. Il mare lanciava le onde con voluttà tentando di offrire lo spettacolo più affascinante possibile, mentre l’aurora all’orizzonte si specchiava sulle onde zampillanti. Qualche nuvola di passaggio offuscava il chiarore mattutino esaltando ancora di più i riflessi sulla superficie azzurra. Danny si presentò in vestaglia da camera, Grace sorrise, era la sua vestaglia morbida, setosa, aderente fino al punto da far trapelare il corpo che avrebbe dovuto nascondere. “Danny, sei veramente seducente”. Lusingato da quelle parole, la baciò appassionatamente. Consumarono in fretta la colazione per poter godere della giornata al largo, al riparo da qualsiasi suono, eccetto quello della salmastra marina. Al porticciolo un omino piccolo e tarchiato li squadrò come se fossero degli appestati. Erano abituati a comportamenti siffatti perciò non si scomposero, anche se il cuore di Grace gridava vendetta. Impostarono il navigatore di bordo e lo scafo piano piano abbandonò il molo. Grace osservava l’omino che sfumava tra i flutti fino a che non fu completamente celato alla vista. Danny le accarezzò le gote per infonderle il coraggio necessario ad affrontare la discriminazione di genere. “Non prendertela, non ti curar...” Grace lo interruppe. “Anche qui, nella sala ologrammi, dove nulla è reale, la realtà ci perseguita”. “Purtroppo abbiamo una normativa che risale ad un secolo fa. Oggi gli androidi si sono perfettamente integrati. Vi sono molti nella nostra condizione”. “E’ vero, Danny, ma sono tutte situazioni in bilico. Tra le persone più illuminate vi è molta tolleranza ed è per questa ragione che riusciamo a sopravvivere. Se non fosse così saremmo già stati rinchiusi in uno dei tanti ghetti costruiti nel secolo scorso”. Si fermarono in un punto in cui il dondolio li cullava e offriva ai loro occhi bianche scogliere a picco e minuscoli paesini abbarbicati sui pendii, dove un lieve vento muoveva i fili d’erba che spuntavano ora alti ora bassi sui prati fioriti. Si tuffarono e nuotarono insieme ai delfini che saltellavano con graziosa ironia. L’armonia di quella scena li fece ammutolire. Nulla avrebbe potuto distogliere le loro menti dalla magia di quel paesaggio. Rientrarono turbati e silenziosi. Presto avrebbero dovuto lasciare ai ricordi la loro vacanza. “Domani dobbiamo preparare i bagagli”. Sussurrò Grace. Dormirono abbracciati l’uno all’altra nella speranza che i sogni li aiutassero.
Varcata l’ultima soglia del caseggiato, sentirono riecheggiare il sordo cicaleccio degli abitanti della loro città. Le vie erano inondate di volti anonimi ed ostili. Finalmente raggiunsero il loro appartamento dove furono avvolti da una sensazione di benessere. Durò poco. Due guardie armate bussarono alla porta urlando quasi all’unisono: “Aprite!”. Dopo aver verificato le loro identità, si allontanarono minacciandoli con prepotenza. Nel frattempo sulla strada un corteo procedeva compatto. Manifestava contro la propensione sociale a mettere insieme elementi non compatibili con l’idea tradizionale di famiglia. “Tutti nei ghetti”. Questo era lo slogan. “Ci distruggeranno”. Mormorò avvilita Grace.
Passarono mesi e anni tra insulti, e-mail minatorie, visite ripetute da parte delle forze dell’ordine. “Non ci si salva dagli incubi, noi stiamo precipitando nel buco nero della vessazione”. “Grace, capisco la tua frustrazione, ma vedrai che il nuovo Governo modificherà la legislazione in vigore”. “Il tuo ottimismo è disarmante”. Nel pomeriggio, liberi da impegni lavorativi, vollero passeggiare tra gli alberi del vicino parco. Le querce splendevano riverberando il verde delle foglie sulla ghiaia dei sentieri. L’abito vaporoso e trasparente di Grace svolazzava sospinto da una leggera brezzolina primaverile. Danny la strinse forte. “Ti amo... Sapevamo che non sarebbe stato facile, non c’è tregua per quelli come noi, ma io sarò sempre al tuo fianco, te lo prometto”. Si alzarono e proseguirono verso il viale dei Eroi, tra questi primeggiava lo zio di Danny che aveva perso la vita in uno dei tanti viaggi interplanetari di esplorazione. Due ragazzi, che provenivano da una traversa, avanzarono rapidamente verso di loro e sputarono per terra in segno di disgusto e disapprovazione. “E’ giusto tutto questo?” “No, Grace, non lo è”.
Un altro inverno si posò su di loro. Danny amava quella stagione, le piante spoglie, gli aghi dei pini. Si divertiva ad arrampicarsi sulle cime innevate per poter rotolare sulla soffice neve. Grace lo seguiva, ma senza lasciarsi trascinare dal suo entusiasmo. Si era accorta che qualcosa stava cambiando. Era spesso sola. Il suo Danny trascorreva molto tempo fuori casa. Il palpito stanco del suo orologio si era trasformato in una fredda malinconica melodia. Le lunghe attese sfinivano i suoi sensi e la sua fiducia. Non poteva più indugiare. Quella sera lo avrebbe messo con le spalle al muro.
Era notte fonda quando udì la chiave girare nella toppa. “Che cosa ti sta succedendo?” Disse Grace in preda alla collera. “Nulla, che cosa ti sei messa in testa?” Ribatté Danny in modo insolitamente sgarbato. “Perché sei così distante?” “Non sono distante, ho solo qualche problema in ufficio”. Distolse lo sguardo. C’era dell’altro. Grace lo capì e uscì con passo felpato per dissolversi nelle tenebre. Riapparve all’alba sotto il palazzo dell’azienda, per la quale Danny svolgeva il ruolo di Direttore Generale, vi era una fontana multicolore che addolciva il grigio cemento. Al centro una spirale saliva verso il cielo sfumando in un tripudio di spruzzi maestosi. Comunicò in ufficio che quel giorno non avrebbe preso servizio per ragioni di salute. Voleva farsi perdonare da Danny invitandolo a pranzo nel locale in cui si erano conosciuti. Lo vide uscire per la pausa, non era solo, una ragazza bellissima appoggiava la testa sulla sua spalla, la sua pelle ricordava la luminosità candida della Luna piena, una cascata di riccioli inondava le loro schiene. Rimase a guardarli finché non scomparvero dietro l’angolo. Chiunque avrebbe detto che quella era proprio una bella coppia. Si sentì mancare la terra sotto i piedi. Le sue sinapsi si erano bloccate su quella figura femminile attraente ed elegante. Rimuginava e rimuginava.“Sarò sempre al tuo fianco”, con quanta fierezza Danny aveva pronunciato quella frase. “Il livore mi sta travolgendo… e se mi fossi sbagliata?” Si diresse verso la loro abitazione.
Era l’ora di cena. Danny aprì la porta, nelle stanze volteggiava l’odore delle pietanze che Grace stava cuocendo per lui. “Mi dispiace per ieri, sono stata aggressiva senza motivo”. “Non ti preoccupare”. Le sfiorò le guance con le labbra e aggiunse “Io ti amo”. “Cosa ne dici se domani chiediamo un paio di ore di permesso per fare quattro chiacchiere da ‘Chez Maxim’?” “Non posso. Domani sono molto impegnato… Devo visitare alcune filiali”. “Va bene, sarà per un’altra volta, amore mio”. Grace era molto loquace e scherzosa. Si coricarono tardi. Danny si stese e si addormentò in pochi minuti, incurante di Grace. Il Sole era alto quando si salutarono. Grace convinse il suo capo ufficio, fortemente contrariato per la prolungata assenza, che la questione da risolvere era di fondamentale importanza. Con estrema cautela, si mise sulle tracce di Danny e lo pedinò fino a quando salì al quinto piano di un vecchio edificio in periferia. Grace si trattenne una manciata di secondi. Chiuse le palpebre. Quando le riaprì, ebbe la conferma e i pochi dubbi si dileguarono. Danny e riccioli d’oro si abbracciavano, si coccolavano in modo sensuale. L’aveva tradita con una donna. Le girava la testa per l’umiliazione. Un turbinio di idee, il desiderio di ferirlo in qualche modo si mescolavano ai sensi di colpa. “Che cosa ho fatto per meritarmi questo”. Presa dal panico della sofferenza non sarebbe stata in grado di sostenere un colloquio inutile e carico di astio. Scelse di andarsene. Mentre stava preparando i bagagli, Danny rientrò. “Che cosa stai facendo?” “Mi pare abbastanza evidente, non voglio rappresentare per te un ostacolo”. “A cosa ti riferisci?” “Alle tue misteriose assenze, alle bugie, ai sotterfugi… ti ho sorpreso con la tua amante. Vuoi che te la descriva?” “Non è una cosa seria, tu sei unica per me”. Borbottò Danny imprecando contro la sua sfortuna. “La sfortuna? Quale sfortuna? Il tuo atteggiamento rivela quello che minimizzi con tanta violenza verbale”. “Mi puoi perdonare?” “No, perché avresti potuto dirmelo e non l’hai fatto, sei un vigliacco”. Di fronte a tanta ostinazione, Danny perse la calma. “Sei insolente ed ingrata e, comunque, non puoi separarti da me, sei una mia proprietà e hai bisogno di un tutore per muoverti all’esterno di queste pareti”. “Non pretenderai di ridurmi in schiavitù?”. “Sto solo dipingendo il tuo futuro. Appena fuori saranno le autorità competenti a decidere la tua sorte. Potrebbero anche disattivarti se io non garantissi per te”. “E tu non garantirai, immagino”. “Se te ne vai, ed è una scelta che puoi fare, io ti rinnegherò”. Grace in Danny, il suo Danny, aveva scoperto l’indifferenza e la crudeltà che si celano nell’animo umano. Si era fidata di lui. Lo aveva ammirato per la sua tenacia nel difendere la loro unione. Sprofondò nella poltrona. “Come sei mutato, persino la tua voce è diversa. Quello che non capisco è perché vuoi che io resti qui”. “Non voglio perderti, voglio che tu stia con me. Tu sei un’opera d’arte, per averti ho sudato sette camicie, ho sborsato parecchi quattrini. Ho subito gli insulti della gente, vivendo in una campana di cristallo che si è trasformata in una prigione. L’evasione che mi sono concesso mi ha dato uno scossone, ho avvertito il brivido di una normalità che con te non ho mai potuto avere.” “Mi stai proponendo di diventare la tua domestica?” “No. Tu sei la mia compagna. Con te mi sono divertito e nell’intimità sei sempre stata impagabile”. Non si era nemmeno accorto di quanto fosse stato sarcastico e sgradevole. Grace era disorientata e mortificata, la sua esistenza si stava sgretolando. Si spostò in camera da letto e cominciò a riflettere sulla risoluzione da adottare. “Quali alternative ho? Non voglio rassegnarmi a fare la prostituta. Fuggire è un rischio, eppure non posso arrendermi, devo escogitare un sistema legale per eludere il filo spinato che lacera la mia dignità”. Soffocò un gemito e, con un gesto inconsulto, lanciò la lampada blu, alla quale era molto affezionata, sul pavimento. “Tutto bene cara?” La voce di Danny rimbombò nel corridoio. “Certo, ho urtato la lampada”. “Pazienza, la ricompreremo”. Così Grace fece buon viso a cattivo gioco, valutando e progettando nel contempo in modo meticoloso un piano per ottenere l’emancipazione.
Si rivolse al Comitato per le Pari Opportunità. Il movimento, nato dall’iniziativa della parte più aperta della società, aveva tentato più volte di promuovere leggi a tutela dei soggetti deboli, ora Grace offriva un’occasione come tante, ma più intrigante e difficile. Ben presto divenne la paladina dei diritti negati. Danny riteneva di trovarsi in una botte di ferro e mai avrebbe supposto di combattere l’aspra morsa della richiesta di libertà. Invece la convocazione del Tribunale arrivò. Fu consegnata, ironia della sorte, da un androide.
“Quali sono le sue richieste?” Intimò il Giudice un po’ seccato dal clamore che si era creato intorno alla causa portata in giudizio. “Voglio solo che mi venga riconosciuto lo status di libera, voglio avere la facoltà di poter troncare la mia relazione con l’uomo che è davanti a lei e che sorride in modo beffardo”. “Si rende conto che è la prima volta che mi viene sottoposto un caso simile?” “Ne sono consapevole, la mia è una battaglia per i diritti civili. Anche noi abbiamo sentimenti. Se una storia finisce, credo sia un inutile sacrificio il legame imposto dalla legge. Vostro Onore, quando sarà il momento di emettere una sentenza, pensi a tutti coloro che sono nella mia stessa posizione. Non ritiene che sia giusto convivere per scelta e non perché obbligati da un contratto?” Danny fissava Grace con disprezzo. Era sua, lui era il suo padrone. Mai e poi mai la Corte avrebbe accolto la sua istanza. Sarebbe stato un precedente vincolante per la giurisprudenza. Tutti gli androidi si sarebbero ribellati. Era inaudito anche solo ipotizzare quello che sarebbe accaduto. La Corte alfine deliberò. A Grace fu riconosciuto il diritto all’autodeterminazione. La notizia si diffuse velocemente. I faziosi si infiammarono scatenando in diversi luoghi della città scontri violenti. Quando la bufera si placò e la quiete ebbe il sopravvento, tutti concordarono su un punto: la pacifica convivenza avrebbe portato vantaggi all’umanità. Anche gli irriducibili detrattori della robotica di quarta generazione, dopo il primo sgomento, capitolarono, accettando la nascita di una nuova era. Solo piccoli sparuti gruppi giurarono di opporsi alla trasformazione in atto. Tra gli aderenti vi era Danny. Lo squallore in cui era piombato gli appariva insopportabile. Grace aveva traslocato. Nella loro dimora i locali erano disadorni, sull’intonaco le tracce dei mobili, che aveva portato con sé, lo sbeffeggiavano. Ad ogni sospiro, vampate di calore lo rendevano cieco dalla rabbia. Si sentiva offeso nella sua virilità. Voleva annientarla.
Si procurò al mercato nero un phaser molto potente e, supportato dalla sua combriccola, le tese un agguato. L’afferrò per un braccio, la fece cadere, puntò l’arma e la uccise. “Adesso vai ad implorare giustizia”. Mormorò con ripugnanza.
Era stata un’esecuzione premeditata e perpetrata con ferocia su un essere libero. Per la prima volta un uomo fu processato e dichiarato colpevole di robocidio.
racconti#sociale #fantascienza
LA ROSA SCARLATTA
Roby stava sorseggiando distrattamente uno champagne, non uno qualsiasi, uno di quelli della riserva speciale, raro a trovarsi ormai. Era una donna di successo, ammirata ed apprezzata. Si era precocemente distinta per il suo talento negli studi di Economia Globale, studi che l’avevano portata ad avere grandi soddisfazioni ed una brillante carriera. Aveva sempre vissuto nel presente senza porsi tante domande sul suo futuro. Dopo aver degustato quelle meravigliose bollicine, si diresse nella stanza da letto dove ebbe un sussulto quando, guardandosi allo specchio, per la prima volta vide sul suo viso dei segni, erano delle rughe, piccole ma eloquenti. La consapevolezza che forse non avrebbe potuto godere a lungo dei suoi privilegi la spaventò, ma ancor di più la rese inquieta la certezza che sarebbe stata emarginata in uno dei tanti “Ricoveri”, costruiti in gran segreto. Nel 2323 il governo centrale aveva stabilito che tutti gli anziani avrebbero dovuto essere collocati a riposo in “accoglienti case” predisposte al fine di non pesare troppo sul bilancio. Nessuno era in grado di dire precisamente che cosa accadesse lì dentro, eccetto gli addetti ai lavori. Questi avrebbero potuto fornire informazioni precise, ma erano degli androidi che non facevano trapelare nulla. L’idea di riformulare la società in base all’età e alla capacità lavorativa era ormai una realtà consolidata, così come quella di far crescere i giovani, generati in base ad una precisa e ben definita progettazione cromosomica, in luoghi protetti, in modo che nessuno potesse interferire con le attività educative volte a plasmare le loro menti. Quelli che non erano sufficientemente dotati, il cui DNA non era stato assemblato con perizia, venivano semplicemente utilizzati come manodopera nelle Unità di Produzione. La sperimentazione partì quasi per caso nel XXI secolo: le coppie cominciarono col chiedere una manipolazione genetica che preservasse dalle malattie i loro figli, vollero poi modificarne alcune caratteristiche fisiche o attitudinali ed, infine, preteso che fossero istruiti senza essere contaminati da quelli che non potevano essere considerati puri, cioè UGM come loro. Furono così istituiti per legge due registri nei quali, con grande attenzione, furono annotate le nascite in base alla tipologia di procreazione. Dopo qualche decennio non fu più necessaria questa procedura perché i nati in modo naturale vennero dichiarati illegittimi, nonostante le proteste degli umanisti che credevano ancora nel concepimento frutto della passione di amorosi sensi e nella bellezza della diversità. Nel lussuoso appartamento in cui abitava, Roby cercava ora di fare un bilancio della sua esistenza. Lucy, l’unica amica che avesse avuto e con la quale fosse riuscita ad avere un dialogo, sia pure limitato agli argomenti della banale quotidianità, era un’androide evoluta, che le era stata molto utile durante le lunghe giornate passate ad elaborare algoritmi per la gestione delle risorse e indicatori per il RAV, Rapporto Annuale di Valutazione. Il governo pretendeva molto, ma teneva in gran conto gli UGM come lei che dimostravano di comprendere la loro missione ed il loro ruolo. Ne era pienamente consapevole e si sentiva a suo agio nella gabbia dorata che le avevano costruito intorno. Si guardò di nuovo allo specchio, chinò la testa e si chiese “Che cosa c'è là fuori, al di là di quei lussuosi edifici?” Appoggiò le mani sul vetro di una finestra: al di sotto strade poco trafficate, piazze illuminate da generatori di fotoni. Qua e là intravvide delle ombre muoversi: erano gli UN che, partoriti in clandestinità e sopravvissuti ai rastrellamenti delle forze dell’ordine, furtivamente, sbucavano dai loro nascondigli per procurarsi del cibo. Con gli occhi bassi e coperti da cappucci, che di tanto in tanto facevano trapelare i loro lineamenti, scrutavano, sospettosi e guardinghi, ogni minimo movimento. D’improvviso la sua attenzione cadde su un uomo, un bell'uomo di mezza età, il cui volto era ben visibile. Che cosa ci faceva lì senza alcuna protezione? Perché camminava avanti e indietro come se stesse aspettando qualcuno? Non si rendeva conto del pericolo? Agli appartenenti alla casta superiore era vietato uscire liberamente, avrebbero dovuto trasmettere all’Ufficio Sorveglianza e Protezione le loro intenzioni e solo con il PASS vidimato ed una scorta avrebbero potuto varcare la soglia di casa. Lui era lì da solo, con le braccia conserte, in attesa di chissà chi o di chissà quale evento. Quell'uomo l'aveva colpita, sia per il suo portamento elegante, sia perché non riusciva a comprendere la sua naturalezza in una situazione di evidente rischio. Si diresse verso il guardaroba, scelse un abito anonimo e lo indossò. Era irrequieta e turbata. Continuava a rimuginare tra sé e sé quello che lo specchio le aveva rivelato. Forse aveva a disposizione un lustro e poi… poi avrebbe scoperto, suo malgrado, il segreto che si celava attorno ai famosi “Ricoveri”. Chiese il PASS: voleva in qualche modo sottrarsi alla sua immagine e forse al suo destino. Chiuse il portone di casa, si girò e lo vide ancora al suo posto, si accorse che la osservava intensamente, con aria di sfida. Un brivido la prese per mano e l'accompagnò fino all'affollato locale, dove si incontrava l'intellighenzia dello stato. Prese un caffè, fece quattro chiacchiere, ma la sua mente era aggrappata ad altro. “Mi aveva guardato con interesse. Perché? Chi era quello sconosciuto?” Rientrò ad ora tarda, congedò la scorta e si diresse verso l’ascensore. Salì fino al 45° piano, il migliore di tutto il palazzo, aprì la porta e fu accolta dal consueto profumo e questo la fece precipitare nella sua confortevole e raffinata sala da pranzo. Tuttavia, non era serena, un impulso irrefrenabile la spinse verso la vetrata del salotto: lo scorse a fatica a causa dell'oscurità, ma ne era certa, stava sotto un piccolo riparo. Lui, sempre lui, ora fermo, ora con gli occhi al cielo, meglio con lo sguardo verso i piani più alti dei palazzi, indubbiamente in affanno. A malincuore Roby lo lasciò e si coricò. Aveva bisogno di dormire, il giorno seguente sarebbe stato molto impegnativo: avrebbe consegnato il Piano Economico per il nuovo anno. Si alzò all'alba, fece una colazione leggera, preparò il materiale, sicura che il suo lavoro sarebbe piaciuto: perfettamente in linea con le aspettative, proponeva una strategia che non trascurava azioni mirate per l’ambiente, messo a dura prova da uno sfruttamento dissennato. La temperatura era salita di tre gradi. Erano, perciò, aumentate le aree desertiche e diminuite le risorse d'acqua. I più refrattari, e nelle alte sfere non erano una componente minoritaria, sembravano impermeabili a qualsiasi cambiamento. Per convincerli si era premurata di allegare i dati forniti periodicamente dall’UMAR, Ufficio Monitoraggio Aree a Rischio. Arrivò l'auto che l'avrebbe condotta al Palazzo del Consiglio di Stato. Era dotata di tutti i comfort, compreso un sintetizzatore di alimenti e bevande. Roby si sedette sbirciando fuori dall'oblò: era ancora al suo posto, i piedi calpestavano con costante pazienza il marciapiede, quell'uomo non voleva proprio andarsene. In pochi minuti fu a destinazione. La riunione fu lunga, il risultato negativo. Era la prima volta, ma costituiva un precedente che avrebbe avuto conseguenze rilevanti: per lei e per tutto il pianeta. Era avvilita e sorpresa, in fondo non aveva messo in discussione l'impianto strategico della società, aveva solo aggiunto un elemento di novità. Guardò i Consiglieri come si fa quando ci si avvicina a degli appestati e subito si tenta di fuggire per evitare il contagio. Non vedeva l'ora di respirare aria pura. Ma dove? Se tutto intorno era artificiale, e le poche anime che giravano erano fantasmi ingannati dall'aspro sapore dell’incertezza della latitanza. Le imposero di fare sostanziali modifiche e fu riaccompagnata. “Sostanziali modifiche!”, il suo cervello non faceva che ripetere questo imperativo. Se non l'avesse fatto, qualcuno se ne sarebbe occupato e per lei sarebbe stata la fine. Umiliata ed impaurita, sentì dentro di sé un moto di ribellione. Ad aspettarla vi era lui, non se ne era andato. Tirò quasi un sospiro di sollievo. Non era più intimorita dalla sua presenza. Ma chi era? Chi cercava? Da dove proveniva? Gli interrogativi erano sempre gli stessi e non erano di poco conto: lacci e lacciuoli imbrigliavano tutti ad un destino segnato fin dal primo vagito. Roby era nata e vissuta in quell'atmosfera. Lei era più che mai integrata e funzionale allo status quo. Sapeva come era stata generata e per quale fine. Con orgoglio amava ripercorrere le immagini della sua giovinezza, quando interagiva e dialogava con gli androidi, che l'addestravano a diventare una brava studentessa e che la gratificavano con elogi continui, del resto apprendeva con una facilità inconsueta. Si distraeva solo quando durante le ore di cultura generale, era seduta a fianco di uno studente per il quale nutriva una certa simpatia, l'aveva colpita perché ogni tanto durante le lezioni scuoteva la testa come se avesse dei dubbi su ciò che veniva insegnato della storia umana. Non si andava molto indietro, la linea del tempo partiva dalla colossale ristrutturazione sociale avvenuta nel corso di trecento anni. La filosofia era stata bandita, così come le arti. Tutto si concentrava sulle competenze che avrebbero formato dei bravi funzionari. E dall'Accademia uscivano veramente dei grandi professionisti. Stava quasi per entrare nell’ascensore, quando cambiò idea. Si fece coraggio sospirando profondamente, si lasciò alle spalle tutte le esitazioni e, in gran fretta, si avvicinò a quell'uomo. Si fermò per un attimo impietrita per l’emozione: lo aveva riconosciuto, scuoteva il capo come un tempo. Erano l'uno di fronte all'altra, Roby tremava, avrebbe voluto abbracciarlo, ma lui l'afferrò prima che si muovesse, la trasse a sé e le diede un bacio sulla guancia. “Ti aspettavo, finalmente sei arrivata. Sono Andrej, ti ricordi di me vero?” “Come dimenticare il tuo volto, con quell'aria sbarazzina. Come mai ti ritrovo qui dopo tanti anni?” Chiese Roby. “Forse non sai che, a causa dei miei continui scontri con l’educatore PQ10, fui confinato nella scuola speciale di rieducazione. Questa fu un’esperienza fondamentale, paradossalmente fu proprio lì, tra i reietti, che ebbi la conferma che le mie perplessità erano fondate: stavamo precipitando in un abisso senza ideali e senza prospettive, se non quelle decise prima della nostra nascita. Ma non era sempre stato così. Un tempo si poteva sognare, illudersi e qualche volta piangere per le miserie e le ingiustizie.” Roby non capiva. Le uniche testimonianze che circolavano erano quelle consentite dal regime. Dove aveva scovato le tracce di un passato così remoto e diverso? “So cosa stai pensando. Esistono degli archivi. Entrarvi è molto difficile, ma non impossibile. Noar era riuscito a decifrare i codici di accesso e aveva curiosato nell’onda degli eventi. Era stato intercettato, condannato ed inviato nella mia sezione. Grazie a lui, nei momenti in cui potevamo eludere la sorveglianza, sempre molto stretta – le nostre discussioni erano dei sussurri rubati alla rigida disciplina di quella colonia di infami – mi avvicinai al tempo in cui le persone, quelle imperfette, avevano dato vita a civiltà i cui prodotti del pensiero sono stati cancellati. A noi è stato precluso il confronto con uomini e donne che avevano combattuto e si erano sacrificati per la libertà, l’uguaglianza ed il rispetto di tutti gli esseri umani. Interessante, vero?” “Questo, comunque, non spiega il fatto che tu mi abbia atteso con silente tenacia.” Osservò Roby. “Una mattina mi alzai, entrai nella sala dell’appello, non trovai il mio amico. Purtroppo anche lui era scomparso, intuii che, come tanti altri, era stato eliminato. Una fitta terribile mi attraversò il cervello e mi fece perdere i sensi. Fui portato nella mia cella. Piansi. Riaffiorò così il tuo sguardo su di me. Ebbe l’effetto ristoratore di una carezza che non avevo mai avuto e che mi aiutò a superare il mio dolore e a trovare una soluzione. Come un fiume in piena, gli anni trascorsero, lasciando in me un segno profondo. Una sera, era la scorsa primavera, ti vidi e ti seguii, andasti a nasconderti in un palazzo vuoto, trasgredendo le minime norme di sicurezza. Compresi che qualcosa in te stava cambiando.” “Veramente l’unica vera novità era il desiderio di cercare una via d’uscita dal rischio molto concreto di veder collassare il mondo. Avevo bisogno di abbandonare i miei soliti schemi e la mia quotidianità per poter riflettere da un altro punto di vista. I miei sforzi sono comunque stati vani.” Mormorò sconsolata. La tranquillità di Andrej contrastava e non poco con l’evidente ansia che Roby sentiva piano piano crescere. Con un moto di fastidio lo allontanò, come se avesse percepito un pericolo e gli disse: “Cosa nascondi? Perché ti hanno risparmiato?” “Mia cara, io mi sono salvato dalla morte, al contrario del mio amico Noar, fingendo di aver superato la mia crisi di identità. Rinnegai tutto ciò in cui avevo creduto ed intrapresi la faticosa strada della riabilitazione. Fui tanto convincente, persino con me stesso, che chiusero la mia pratica con un Nullaosta ed una nota di merito per le mie abilità di Interceptor. Sono io a segnalare le anomalie del sistema e a porvi le dovute correzioni. Tu hai oltrepassato i limiti, vagando in incognito e ponendoti dei quesiti e degli obiettivi non coerenti con il nostro modello di organizzazione. Il tuo ultimo Piano Economico, con quelle inutili divagazioni sull’ambiente, ne è la prova. Una mina vagante, ecco cosa sei.” Roby non oppose resistenza. Abbassò le palpebre. Andrej estrasse da un fodero ben nascosto sotto il suo abito l’arma in dotazione alle squadre speciali. La colpì senza alcun rimorso e le appoggiò dolcemente una rosa scarlatta sul petto: era la sua firma. Se ne andò, sotto una tremula luce, nella certezza che fosse giusto averle dato la possibilità di morire con dignità.
BIOPARCO
Aveva le spalle larghe, era alto e possente. I suoi occhi azzurri come il mare incantavano chiunque lo avvicinasse. Forse era il fascino della divisa su cui si adagiava la luce, forse era la sua espressione gioviale a renderlo affascinante. Aveva perso memoria del suo nome, conosceva la sua matricola di fabbricazione, PQ809, ed era un poliziotto. Sì, era un poliziotto. Quando aveva cominciato a svolgere l’attività cui era stato assegnato dal capitano, un guizzo d’orgoglio si fece strada tra le sue connessioni neurali. Il ruolo lo spinse ad implementare il suo database con le informazioni necessarie per prevenire piuttosto che contrastare azioni sediziose o illegali. Era armato e doveva pattugliare il quartiere più a nord della città, il luogo in cui uomini e donne amavano incontrarsi per interrompere la routine di una vita dura e dolorosa, scontrosa e fugace. Lui guardava quell’umanità apparentemente stanca ancor prima di nascere, ma che non aveva smesso di osservare la Luna e di rincorrere il senso dell’esistenza, cercando nella violenza una via di uscita. “Ehi, amico sei di nuovo tra noi?” Disse uno di loro. “Sono qui come sempre, forse non dovresti fare a me questa domanda, ma a te”. “Abbiamo un androide filosofo”. Rispose ridendo con sarcasmo e volgendo il capo indietro verso gli altri, i compagni di sempre. “No, sono semplicemente un poliziotto che deve mantenere l’ordine”. “Che cosa teme il governo? Siamo così pericolosi?” PQ809 se ne andò pensando: “Certo che siete pericolosi”. Da un momento all’altro qualcosa sarebbe potuto accadere. Sotto il cielo increspato, ruvido e aspro vi era una insoddisfazione dilagante che sfociava spesso in attacchi improvvisi quanto inutili contro il nuovo regime. Al distretto era ben voluto da tutti. I componenti della squadra di cui faceva parte erano in quel periodo dislocati in altre zone della città, dove i disordini erano assenti. PQ809 invece quotidianamente toccava con mano l’acqua gelida dei fiumi, acqua che sarebbe potuta esondare senza preavviso, tentando disperatamente di travolgere tutto senza lasciare traccia. Con questo stato d’animo pattugliava le vie immaginando di trovare come per incanto la realtà rovesciata, quiete e serenità. Invece la situazione era sempre la stessa. “Ehi poliziotto filosofo, sempre da queste parti?” “Questo è il mio lavoro, perciò sì, sono sempre da queste parti”. “Prima o poi farai una brutta fine. Questo è il nostro territorio e mal si concilia la tua presenza”. Avrebbe voluto obiettare che senza di lui sarebbero stati in balia degli eventi da loro stessi causati, ma non volle replicare.
All’improvviso vide un vecchio dall’aria stanca e dal volto solcato da profonde rughe. Si diresse verso di lui. “Cosa fai qui?” L’uomo era seduto per terra, lo fissò un attimo. “Sono un’ombra, sono il passato che vorrebbe vegliare sul presente.” Mormorò con voce lieve e roca. PQ809 con aria interrogativa non si mosse in attesa di una spiegazione. “Mia figlia è morta proprio qui. Quando la trovai giaceva sotto una pioggia battente, sola, abbandonata sul marciapiede come uno straccio”. “Cosa è successo?” “E’ una lunga storia. Dopo la fine della guerra, tutti noi eravamo impegnati nella ricostruzione di una società pacifica, inclusiva, dove vi sarebbe stato posto per tutti e per ciascuno a prescindere dalle caratteristiche genetiche, biologiche e funzionali. Questo era il nostro intento. Eppure qualcuno non era d’accordo, preferendo allontanarsi per organizzare la resistenza armata e combattere fino all’ultimo respiro contro il Governo Federale liberamente eletto e che non perdeva occasione per propagandare il proprio ruolo di garante ”. “Quello che mi dici, non mi aiuta a capire”. “Lo so”. Due lacrime scesero sulle guance sfigurate, la mano tremolante indicava verso il centro della città. PQ809 lo seguiva a fatica anzi gli sembrava che stesse divagando. Non era vero e lui lo sapeva. “Mia figlia nacque dopo una lunga serie di tentativi. Finché non arrivò la notizia che un piccolo embrione si era trasformato in una cucciola. A quei tempi io facevo il tuo lavoro, ero molto occupato. La piccola crebbe nel collegio più prestigioso di questa città. Ci vedevamo ogni fine settimana ed erano momenti di gioia. Amava fare lunghe passeggiate, diceva che la rilassavano”. Intorno a loro il chiasso si era fatto assordante, ma nessuno dei due pareva farci caso. Notarono invece due grandi fanali che si stavano avvicinando, l’aeronavetta si accovacciò sul suolo e attese. Due ragazze salirono in fretta come se ci fosse un allarme da qualche parte. “Non sei stupito? Eppure sei sempre qui”. Riprese il vecchio con tono rassegnato “Il mezzo che hai visto si presenta regolarmente e la scena cui si assiste è sempre la stessa. Dove sia diretto nessuno lo sa. Quello che è sicuro è che le ragazze si dissolvono nel nulla”. “Non mi sono mai accorto della stranezza di questi comportamenti”. Si sentiva a disagio, come se fosse responsabile di una grave omissione. Tacque per qualche minuto. “Ma...Tua figlia perché si trovava qui?” “Era un sabato qualunque quando uscì con un’amica per fare quattro chiacchiere e distrarsi. Era incantevole, indossava un abito di seta blu attillato che contrastava con l’agitazione con cui si muoveva. Si avvicinò alla porta frettolosamente senza salutare. Uno strano presentimento si impossessò della mia mente. Fu un attimo. Decisi di seguirla. Passo dopo passo, cercando di non farmi notare, la vidi svoltare in un viale cupo e poco frequentato. Persi le sue tracce. Quando rientrò non osai chiederle nulla”. “Ti ascolto da un po’, ma ancora non ho compreso come sia morta tua figlia”. Incalzò PQ809, ma il vecchio era completamente immerso nella sua narrazione. “Due mesi dopo il pedinamento mi abbracciò con una valigia in mano. Le chiesi una spiegazione prima che varcasse la soglia, le sue labbra sottili non pronunciarono una parola. Era già lontana quando si voltò verso di me con tutto il suo corpo e urlò: ‘Ti voglio bene’. Scomparve ed io rimasi immobile, annichilito”. “Non potevi fermarla?” replicò PQ809. “Come si fa a fermare una donna di 20 anni? Solo quando mi ripresi, mi feci coraggio e mi recai al Distretto di Polizia. I miei colleghi non mi badarono più di tanto, non era stata rapita, se ne era andata volontariamente. Aveva 20 anni osservarono. Era vero, era responsabile delle proprie azioni”. Il vecchio abbassò il capo, era stato colto da un improvviso malore, aveva il vuoto dentro, qualcosa di oscuro lo stava divorando. “Non si fece più sentire. I giorni scorrevano lenti, le pagine del calendario finirono per coprire il pavimento. Le strappavo con la rabbia del leone ferito. Indagai per conto mio sui casi irrisolti riguardanti giovani donne la cui vita si era fermata senza il ritrovamento di un cadavere. Giunsi in questa piazza, molte erano passate da qui”. “Vuoi dire che qui si commettono omicidi? Tua figlia si è trovata implicata in qualcosa di poco chiaro?” “Ne ero convinto, anche se la speranza che la mia ipotesi fosse smentita dai fatti albergava nel mio cuore”. Il vecchio si alzò e se ne andò senza concludere la conversazione.
PQ809 non gli chiese altro anche perché non nutriva dubbi sul fatto che lo avrebbe rivisto.
Invece no, il vecchio non riapparve. Cos’era successo? Tutto era avvolto nel mistero: la comparsa del vecchio, la sua sparizione, la morte della figlia. PQ809 non riusciva a darsi pace. In cuor suo, se così si può dire, desiderava trovare soluzione ad un caso che lo aveva colpito al punto da diventare un’ossessione. Girava senza tregua alla ricerca di qualche indizio ma era come giocare a mosca cieca, nessuno conosceva la ragazza e tanto meno il padre e, se anche qualcuno li avesse notati, certamente non lo avrebbe detto a lui. Qualcosa gli sfuggiva. “E’ possibile che io abbia sognato tutto?” Decise di terminare le ricerche e di rivolgersi all’ingegnere che lo aveva progettato e addestrato. Non fu rilevata alcuna anomalia
Un anno dopo fu trasferito in un’altra zona della città. Era il rione degli scienziati. L’aria profumava di fiori freschi e di corteccia. Il parco brulicava di ragazzi, sorvegliati a vista da guardie armate, qualcuno correva, altri camminavano lentamente, altri ancora si godevano il sole primaverile seduti sulle panchine. I palazzi intorno svettavano verso il cielo facendo intravvedere una umanità indaffarata. PQ809 si rese conto ben presto, e con soddisfazione, che tutto era perfettamente organizzato. Quello che lo turbava era la rabbia con cui i ribelli attaccavano quel modello di società. Lo comprese rapidamente. Quel mondo viveva ad un ritmo quasi delirante. Le sirene suonavano con puntualità da caserma sempre alla stessa ora. In file ordinate tutti uscivano per raggiungere il posto di lavoro o rientravano negli alloggi. Erano quelli i momenti in cui si poteva leggere sui loro volti una grave tristezza. “I loro occhi sono muti, inespressivi”. Pensò sommessamente PQ809. Intorno non scorgeva luoghi di ritrovo, nessuna insegna colorata, l’atmosfera era piatta, la musica inesistente. Un filo di vento, che si intrufolava tra gli alberi, era l’unico suono oltre quello delle sirene. Sentì un brivido. Era imbarazzato ed intimorito dalla nostalgia per il chiassoso quartiere in cui aveva prestato servizio. Come per incanto gli sovvenne il vecchio stanco e ferito, evaporato dalla sua memoria finché, per uno strano scherzo del destino, gli parve di distinguere proprio lui. Lentamente calpestò il sentiero che li separava. “Finalmente sei qui, ti stavo aspettando”. “Che cosa significa?” PQ809 sarebbe voluto scappare. “Sei preoccupato, eppure non dovresti stupirti, non è il caso che ti ha condotto qui. La legge da qualche anno non prevede lunghi periodi di sosta in uno stesso luogo per evitare che androidi ed esseri umani familiarizzino. Prima o poi saresti arrivato. Quello che vedi è il fallimento degli ideali in cui molti di noi avevano creduto. Quest’area è una specie di bioparco, noi siamo animali in via di estinzione. Voi androidi avete preso il controllo del governo e di tutte le attività produttive. Non avete bisogno di noi se non per studiare ed implementare la vostra sfera emozionale. Conclusa questa fase l’Umanità non ci sarà più”.
PQ809 spaventato dal tono perentorio del vecchio, che lo inchiodava, aveva le reti neurali in fibrillazione. Qualcosa di terribile stava per cadergli addosso. “Quando ti ho conosciuto, ti ho raccontato di me e di mia figlia. Quella storia sconclusionata merita un finale”. Sospirò. “Era notte fonda, proprio dove ci siamo incrociati la prima volta, lei ed i suoi amici stavano preparando un attentato per sovvertire la situazione ed ottenere dignità e libertà. Era fin troppo evidente quello che stavano facendo, ma si sentivano protetti, erano entusiasti e ingenui. Arrivò l’aeronavetta della polizia. Fu una strage. Tra i poliziotti c’eri anche tu. Tu hai ucciso mia figlia.” “Io non ricordo nulla”. “Non puoi. Sei stato riconfigurato”. “Cosa pensi di fare?” Chiese PQ809 in modo sommesso. “Sono vecchio, parlare con te è stato l’ultimo atto da uomo libero”. PQ809 non commentò, girò lo sguardo verso il Sole, meditando di fuggire con il suo segreto. Voleva a tutti i costi ritornare là dove aveva commesso il delitto e dove forse avrebbe potuto lasciare una testimonianza. Fu intercettato dalle sentinelle poste a guardia degli ingressi ai diversi settori in cui era stato suddiviso l’abitato. Fu resettato e portato al Centro di Rieducazione. Il vecchio fu arrestato mentre vagava senza una meta, sbattendo di qua e di là quel povero corpo avvilito e rassegnato. Venne internato in una casa di riposo, una di quelle costruite appositamente per traghettare le persone alla morte. Sul frontone dell’edificio vi era scritto: “Albergo per anziani – in memoria di tutte le vittime delle atrocità compiute contro L’UMANITÀ ”.
RAMMENTANDO MARTIN LUTHER KING
Aprì lentamente le palpebre. Non vedeva bene e non riusciva a muoversi. Era disteso in modo scomposto, come se fosse inciampato. Mentre il cielo lasciava trapelare una luce fioca, quasi impercettibile, gli sovvennero alcuni versi: “Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque […] a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura.” Volti sfocati gli apparivano ad intermittenza. Si sovrapponevano, si scontravano senza pace, anime in pena perse in un fiume sotto la tempesta. All’orizzonte apparve una diafana palla infuocata. Era disorientato, non riconosceva il suolo su cui era adagiato. Un sasso, due, tre e altri ancora rotolarono tintinnando: un rumore metallico colpì i suoi sensori. Cosa aveva prodotto un suono tanto aspro? Dopo qualche secondo, irruppero lamenti affannosi e tristi e un pianto sommesso in lontananza. Forse era la sua immaginazione, spaventata dalla bianca e tenue luce di un Sole fiacco e lento, che dava l’impressione di essersi svegliato solo per guardarlo con sarcasmo e ironia.
Al tramonto le tenebre, simili ad un velo opaco, avvolsero il grigiore dei suoi occhi. Quanto sarebbe durata la notte? Aveva importanza? Perché si arrovellava con questo dilemma? Non poteva aspettare: notte o giorno che fosse. Gli sembrava di impazzire: il suo corpo non rispondeva agli impulsi neurali, era paralizzato, inerme. Si concentrò prima di tutto sulle mani. Dopo mille tentativi, finalmente un dito si alzò e si allungò sulla superficie, un altro lo seguì, poi un altro ancora. Erano spostamenti lievi, ma decisi, finché, con uno scatto repentino, fece una piroetta e si sorprese a scrutare il paesaggio quasi informe che aveva di fronte. Cominciò a perlustrare il territorio. I passi attenti serpeggiavano con cautela su una terra rossastra e monotona. Ad un tratto comparvero alcune impronte qua e là. Qualcuno evidentemente lo aveva preceduto. Si sentì a disagio, perso, confuso. Aveva bisogno di ricomporre la sua identità, senza la quale non avrebbe potuto interpretare e rielaborare la sua situazione. Si toccò il volto, si esaminò con cura per definire la sua forma: era umanoide, ma non era di carne ed ossa. Queste erano le uniche informazioni in suo possesso. Inquieto e avvilito, riprese il cammino. Nel suo incedere verso l’ignoto, scorse verso oriente altre orme e distinse chiaramente dei rottami verdi sagomati in modo bizzarro: erano piccoli brandelli di titanio persi nel vuoto. Ai primi bagliori mattutini, il panorama cominciò ad essere meno piatto ed indecifrabile. Accanto a colline, crateri e strade ben tracciate, si mostrarono, imponenti cupole trasparenti, un’enorme piastra di metallo e un prisma regolare, contrassegnato dal termine BLOCCO e dalla prima lettera dell’alfabeto. Si sedette su un masso che la natura aveva ben modellato, l’aurora si stagliava tra le costruzioni, sarebbe dovuto entrare in quella piccola base per un’ispezione, ma il suo istinto lo tratteneva lì dov’era. Il cervello… il cervello intanto aveva ricominciato a mandargli dei segnali apparentemente incomprensibili. Assomigliavano ad un insieme disordinato di ologrammi che correvano e si incrociavano in attesa di essere ricomposti da un regista: un fabbricato di mattoni e cemento, un grande parco, una piscina e degli esseri umani. Tanti particolari iniziarono piano piano a riaffiorare. Non era solo suggestione: era vissuto da un’altra parte. Cominciava ad essergli chiaro che non si trovava dove sarebbe dovuto essere. Le ore trascorrevano veloci. Lui era ancora su quella pietra a meditare, mentre le stelle giocavano a confonderlo. Avrebbe dovuto varcare la soglia di quegli edifici, continuare ad indugiare non gli avrebbe giovato, ormai se ne rendeva conto.
Spalancò con forza il portone del BLOCCO A: buio pesto. Sporse in avanti il busto, una pioggia di fotoni lo aggredì. Era in un cimitero, là erano ammassati i resti di un numero indefinibile di androidi. Nello sgomento riemersero, all’improvviso, la sua vita e la sua morte. Era stato acquistato da una coppia di Zurigo. “Benvenuto PQ20” – gli disse il signor Meyer – “I tuoi compiti sono semplici: dovrai occuparti del giardino, tenere in ordine, cucinare, insomma avrai la gestione della nostra residenza. L’unico ruolo impegnativo che io e mia moglie ti affidiamo è quello di leggere a voce alta per noi e, nelle serate di gala, per i nostri amici i libri che lei ti indicherà.” La signora Meyer era una donna di rara bellezza, la pelle vellutata e chiara risaltava sotto gli abiti sgargianti che amava indossare. Aveva un gusto molto raffinato in campo letterario e una dose notevole di nostalgia per i sentimenti che si rifugiavano in quei testi dimenticati, ma preziosi. Aveva perciò cominciato a raccogliere le opere degli autori più famosi di tutti i tempi. La sua collezione comprendeva pezzi di antiquariato di grande valore. Non era stata un’impresa facile. Le case editrici non pubblicavano da almeno tre secoli carta stampata, preferivano digitalizzare i pochi scritti in circolazione. Dovette, quindi, girare tra le botteghe più remote per realizzare il suo sogno. Il marito, il signor Meyer, la sosteneva in questa sua passione, ma non ne capiva le finalità e non provava nessun piacere ad ascoltare tutte quelle noiose parole messe in fila. Si adattava ai desideri della moglie, ai suoi bisogni spirituali. Era un ingegnere in quantistica multidimensionale, per lui Poesia erano le discussioni con i colleghi sulla possibilità di oltrepassare i confini della Via Lattea, grazie ai nuovi motori molecolari, o il rombo di una navetta spaziale lanciata a scandagliare l’Universo. Non avendo imparato a leggere con la giusta intonazione interpretativa e tanto meno a recitare – abilità considerata obsoleta ed inutile da parecchi anni – la signora Meyer volle qualcuno che lo facesse per lei. All’Agenzia le avevano assicurato che PQ20, era all’avanguardia e avrebbe assolto degnamente questa funzione. Faceva parte di una nuova generazione di androidi ed era stato ideato, oltre che per svolgere le normali attività, anche per interagire con gli esseri umani come se fosse uno di loro. Entrò così nella casa dei signori Meyer. PQ20 in breve tempo rivelò tutte le sue qualità. La signora Meyer pretendeva di portarlo con sé dovunque andasse. Con lui avrebbe voluto condividere il suo amore per l’arte. Questa aspirazione implicava una competenza non prevista nelle specifiche di progettazione di PQ20, il quale, tuttavia, fiducioso e affascinato da quel mondo, confidava sul fatto che la sua matrice cromosomica si sarebbe evoluta.
Faceva freddo, era febbraio inoltrato, quando si rivolse alla signora Meyer con una voce calda e affettuosa. “Ho notato che lei predilige gli autori che vanno a scavare negli avvenimenti più drammatici e aspri della storia e percorrono i sentieri più intimi ed impervi dell’Essere Umani.” “Siamo nel XXXIII secolo, il progresso scientifico, complice la nascita di un governo federale sovranazionale, ha risolto la maggior parte dei problemi che hanno angustiato gli uomini. Sotto un’unica guida l’economia è diventata meno competitiva e più solidale, anche l’ambiente ora è molto meno sfruttato ed inquinato. Si sono aperti i cancelli del Sistema Solare, abbiamo raggiunto tutti i pianeti e ne utilizziamo le risorse. Abbiamo anche delle colonie penali nello spazio. I detenuti scontano la loro pena su Mercurio sotto la direzione di androidi sentinelle.” Rispose la signora Meyer. “Io sono un’appassionata di vecchi cimeli – aggiunse – così li definisce mio marito che odia l’odore di inchiostro che si è impadronito del nostro salotto, ma apprezza il mio entusiasmo.” Dopo una pausa in cui la sua espressione assunse un’aria seria, riprese: “Mi rendo conto di non aver soddisfatto la tua curiosità. Non so esattamente quale sia la ragione che mi spinge alla ricerca di quei contenuti. Certo è che mi aiutano ad analizzare meglio tutte le sfumature del mio io e della mia umanità.” “Per fare questo non servono grandi speculazioni: siete il nostro specchio, voi dovreste rappresentarvi esattamente come noi pensiamo voi siate. Ci avete fornito di una sensibilità uguale alla vostra. Solo che voi siete esseri finiti, mortali. Per noi l’infinito non è un mito privo di fondamento e potremmo restare sulla Terra anche dopo la vostra scomparsa.” Osservò PQ20 “E’ proprio la vostra coscienza dell’esistente a rendermi cupa: in essa colgo con timore i segni della decadenza. Per non smarrirmi mi immergo nel dolce naufragio dell’arte. Approdo nell’unico porto sicuro dai dubbi che mi assalgono sul divenire che trascinerà nell’oblio me e la mia biblioteca.” Mormorò con voce roca e accorata la signora Meyer. Lo sguardo interrogativo e fiero di PQ20 la spinse a precisare. “In ogni frammento di esistenza, la mia per esempio, vi è l’infinito cosmico. Lo sento in ogni singola composizione che mi leggi.” Stagione dopo stagione, quella strana coppia divenne una celebrità. Molti cercavano di assistere agli spettacoli che ogni settimana venivano organizzati dai signori Meyer. PQ20 declamava sonetti, terzine, quartine, interpretava romanzi, opere teatrali. Champagne e bordeaux, scorrevano a fiumi. Non mancavano gli invidiosi, quelli che non erano abbastanza agiati per permettersi un androide avanzato paragonabile a PQ20, ma erano comunque accolti con un sorriso sincero. Persino il Presidente della Federazione partecipò ad un incontro, ad uno di quegli eventi fuori dal tempo.
Il 4 marzo 3275 dalla Terra allo spazio si diffuse una notizia sconcertante che, in un primo momento, nessuno prese sul serio. Fu ritenuta falsa, l’invenzione di qualche scriteriato per suscitare clamore, opera di un novello creativo Orson Welles. Invece no, i signori Meyer erano stati assassinati, qualcuno li aveva uccisi nel sonno. Le forze dell’ordine, chiamate da PQ20, accorsero immediatamente. I signori Meyer erano nella loro stanza da letto, sotto un lenzuolo variopinto comprato durante un viaggio in Tibet. Fu prima di tutto utilizzato il bio-scanner per stabilire l’ora del decesso, dopo di che venne impiegato un rilevatore dinamico trifasico per rintracciare DNA o altri materiali che potessero dare una svolta al lavoro degli investigatori. Si indagò in ogni direzione cercando di formulare un’ipotesi da cui partire per risolvere il mistero di quell’omicidio. Furono interrogati i vicini, poi uno ad uno gli ospiti che accorrevano a frotte nella prestigiosa dimora e chiunque avesse in qualche modo conosciuto i signori Meyer: tutti avevano un alibi. PQ20 non si era mosso dal suo cantuccio. Stava in disparte con un libro in mano, l’indice tra due pagine, con gli occhi sbarrati verso il muro intonacato di rosso papavero, pareva inebetito dal colpo letale di un Phaser: stupore e ansia si erano trasformati in un insolito opprimente tormento. Nessuno seppe cogliere l’orrore in cui era precipitato il silente androide. Le guardie gli esaminarono la memoria quantica per trarre dati testimoniali e indizi. Paradossalmente la più sofisticata strumentazione non riuscì a scuotere le sue sinapsi. PQ20 rimase muto ad ogni sollecitazione. Non si era accorto di nulla e, quindi, che cosa avrebbe potuto riferire? Né più e né meno di quanto era già stato dichiarato da decine e decine di persone. I sensi di colpa per non aver percepito il pericolo lo divoravano, gli impedivano di aprire bocca e di esprimere il suo sentire: il rancore verso un avvenimento che lo feriva, che gli aveva strappato a tradimento la sua famiglia e che contrastava con tutto quello che aveva assimilato grazie alla signora Meyer. L’apatia e l’indifferenza apparente di PQ20 alimentarono i sospetti; preso atto della sua totale reticenza, fu bloccato brutalmente e senza tanti scrupoli. In fondo era solo un oggetto e, non avendo altre piste da seguire, gli inquirenti giunsero, senza la minima esitazione, alla conclusione dell’istruttoria: un difetto di fabbricazione o un uso improprio da parte dei Meyer, lo avevano spinto alla violenza, nonostante il brevetto escludesse a priori queste eventualità. La sentenza fu presto emessa e la condanna fu esemplare. I tecnici dell’azienda che lo avevano costruito lo disattivarono, o almeno erano convinti di averlo fatto. Lo trasportarono su Marte dove vi era un deposito di androidi dismessi, che avrebbe dovuto fornire parti di ricambio per i vecchi robot, inviati su Plutone con il compito di creare le condizioni per l’esplorazione del Sistema Planetario della Stella Kepler-62. In realtà quasi mai era stata usata la spazzatura disponibile sul Pianeta Rosso. Era, tuttavia, una riserva che tutti giudicavano necessaria. La discarica trovava una giustificazione più etica che economica: il riciclo. Raramente qualche astronave era atterrata per fare rifornimento. PQ20 era stato trasformato in uno di quei rottami inutili, solo che lui era perfettamente in grado di riflettere sul suo destino. L’onda temporale lo aveva inghiottito per l’eternità. Alimentato a risonanza oscura, aveva una riserva di energia inesauribile da spendere tra le carcasse dei suoi simili, ai quali, con voce commossa, rammentando una lettera dal carcere di Martin Luther King, avrebbe incessantemente cantato il proprio elogio funebre : “L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustizia ovunque.”
CON UN CLICK
Giulia aveva attraversato la vita senza prendere un attimo di respiro. Era una donna in carriera e ciò la rendeva orgogliosa. Dal fango in cui era stata costretta a vivere da occhi crudeli, che l’avevano privata della sua infanzia e della sua adolescenza, era balzata in uno degli isolati più alla moda e dal quinto piano del suo appartamento ammirava l’andirivieni di cappotti e soprabiti eleganti, talvolta sfarzosi. Eppure quando girava le spalle al mondo, la polvere del passato riemergeva prepotente, la frustava facendole provare l’incanto perverso della finzione e dell’autodistruzione emotiva. Macinava dentro di sé rancore e angoscia. Doveva costantemente difendersi da se stessa, dal suo brutale farsi del male. Aveva un’amica, Sonia, con la quale riusciva a condividere le sue emozioni. Si vedevano regolarmente il giovedì all’imbrunire per un aperitivo. Il locale offriva svaghi intriganti per un pubblico sempre più esigente. Raramente si erano avventurate nei meandri di quei rocamboleschi quanto effimeri piaceri: la sala dei viaggi era attrezzata in modo da offrire evasioni erotiche e salti in altre dimensioni; quella delle spezie era un tunnel in cui sperimentare diverse tipologie di sostanze per mettersi in comunicazione con il subconscio proprio o con quello di altre persone, se queste avessero manifestato un chiaro consenso. Giulia non era mai in ritardo e aspettava con ansia Sonia, il suo volto bianco, i suoi occhi stanchi, le sue mani piccole e macchiate. Le loro conversazioni avevano il sapore aspro di una medicina acida da inghiottire. “Come stai Giulia?” Era la domanda di rito. “Come sempre, forse peggio di sempre.” “Gettare la spugna non è una soluzione”. “Cerco affannosamente una via di fuga dai miei pensieri. Vorrei sprofondare nel nulla. Il sonno è tormentato da incubi in cui mi sforzo di divincolarmi da una corda che diventa sempre più stretta fino a segnare profondamente il mio corpo. Mi sveglio all’improvviso immaginando che nel cuore delle tenebre entri qualcuno con l’intenzione di uccidermi. Poi riprendo a dormire tranquilla, nella consapevolezza che non ha per me molta importanza questo mio esistere”. “Queste sono sciocchezze. Pensa al vuoto che lasceresti”. “Per favore, cambiamo discorso”. Giulia cambiava sempre discorso se le sembrava di non tenere testa all’interlocutore. Era una sua abitudine.
Si accomiatarono con un abbraccio. Giulia non si recò subito a casa, il fiume l’attendeva. Ogni volta che si avvicinava ad un ponte sentiva l’estasi della dissoluzione. Faceva freddo, una brezzolina fastidiosa le colpiva il volto come una sferzata. Si sedette sul parapetto. La luce della Luna ed il fascino seducente del fruscio dell’acqua la facevano stare bene, le davano la quiete del soldato che ha sconfitto il nemico. Ma il nemico era in agguato, sempre pronto a sorprenderla. L’aspettava dietro gli angoli dei palazzi, dentro il fumo di una sigaretta, nel profumo più sofisticato che amava spruzzare sulla sua pelle. Così, di tanto in tanto, scappava imboccando la strada della trasgressione, sfidando le regole che imponevano la netta separazione di genere. Indossava gli abiti di uno dei personaggi dei tanti libri che aveva letto, girava per la città fino a raggiungere il quartiere in cui risiedevano gli androidi al servizio delle multinazionali e dove aveva incrociato PQ70 che l’aveva notata mentre vagava senza meta. Si era presentato a lei con una gentilezza tale da far invidia a quelli che si definivano uomini. Insieme si divertivano a visitare i vecchi sepolcri, le tombe avevano un fascino particolare. Dopo l’ultima esplosione nucleare gran parte del pianeta era stato devastato dai contraccolpi di una gestione poco attenta del territorio e delle risorse. I morti furono sistematicamente gettati in fosse comuni, quasi a voler cancellare l’ecatombe dalla memoria collettiva. I cimiteri erano stati dichiarati patrimonio dell’Umanità. Mano nella mano, PQ70 la conduceva tra le lapidi inventando per ogni sepoltura una vita diversa. Sapeva parlare la lingua dei morti. Era un abile narratore. “Mi sto innamorando di te”. Le disse con voce sospirante quella sera “Il nostro legame non può andare oltre l’amicizia più sincera”. Rispose cordialmente Giulia, seppur lusingata dall’audacia e dalla sensuale passione con cui l’aveva inaspettatamente travolta. Si congedarono con un breve ma intenso saluto, quasi fosse un addio. PQ70 rientrò alla base, era confuso: che cosa gli stava accadendo? Sapeva di essere stato progettato per servire con abnegazione la sua azienda, invece, nonostante i divieti, gironzolava con una donna senza alcun ritegno. Svolgeva le sue mansioni all’interno dell’area D. Gli era stato assegnato il compito di potenziare la banca dati con informazioni accurate sul mondo circostante, sulle manie, sui vizi e sulle virtù degli esseri umani. “Profilare” era la parola d’ordine, in base al profilo di ognuno si poteva orientare la produzione che, a sua volta, abilmente propagandata avrebbe influenzato ed indirizzato i consumi. Il meccanismo aveva una sua logica, maggiore era il numero di informazioni disponibili, tanto più elevata era la probabilità di successo. PQ70 era stimato dai dirigenti tanto che lo portavano ad esempio per gli altri. “Cosa mi è venuto in mente di dire che sono attratto da lei, le mie connessioni neurali sono in fibrillazione, meglio non far trapelare quello che mi sta succedendo”. Alle sue spalle il capo reparto lo stava osservando. “Che cosa hai?” “Nulla, penso di aver poca energia da spendere”. “Questo non è possibile. Vai in infermeria e chiedi dell’ingegnere. Qui abbiamo bisogno di personale efficiente e fidato. La concorrenza è spietata. C’è più di qualcuno che ucciderebbe per avere la nostra banca dati”. “Sì, lo so, è una merce preziosa quella che trattiamo”. Abbandonò la console e si avviò. L’ingegnere lo analizzò con il tricorder. “Sei in forma perfetta. Perché ti hanno mandato qui?” PQ70 borbottò qualcosa di simile a delle scuse e se ne andò. Non aveva mai prestato attenzione all’enorme specchio che si trovava nel corridoio. Fissò a lungo la sua immagine e provò vergogna. Giulia non lo avrebbe mai preso in considerazione. Un suono tonante rimbombò: “Allora vuoi ritornare al tuo posto?” Quando riprese posizione e ricominciò ad elaborare il flusso di date, cifre, immagini in un turbinio continuo e veloce, fu colto da una idea malsana: rovistare nel database per conoscerla meglio. Poteva farlo, aveva l’accesso a tutti i repository e aveva tutti i permessi per decifrare i messaggi crittografati. Aspettò il momento giusto e si lanciò nella ricerca. Il tempo si era dilatato, il giorno non aveva più confini, la notte era solo il buio di una stanza vuota. Gli apparvero le foto che la ritraevano da sola o con le persone che aveva frequentato o semplicemente sfiorato, i viaggi che aveva fatto, i ristoranti in cui si era recata, persino la sua cartella clinica. Al calar del Sole uscì e girovagò nella speranza di incontrarla finché Giulia si mostrò in tutta la sua bellezza. La baciò con ardore. “PQ70 cosa fai ?” Disse Giulia con un tono quasi rabbioso. “Non guardarmi come se fossi un estraneo. Non faccio che pensare a te. Tu mi hai ammaliato e non riesco a trovare pace”. “Facciamo due passi”. Lui la seguì verso il campo santo in cui erano soliti passare qualche ora. Era stranamente silenzioso, si sentiva in colpa per aver violato il suo diritto alla riservatezza. “Perché sei così triste?” “Ho commesso un reato gravissimo: ho frugato nella tua identità digitale”. La luce artificiale li abbagliava. Lei esitò per un attimo, poi urlò a squarciagola: “Vattene, io non posso immaginare infamia peggiore…”. La pregò in ginocchio, ma Giulia non volle sentire ragioni, per l’ennesima volta era stata tradita, umiliata, tutte le sue fragilità emersero aggressive, aveva il viso sfigurato dal livore. “Io ti amo, l’ho fatto solo per capire chi sei e per poter assecondare i tuoi desideri”. Mentre pronunciava con tenerezza e commozione quelle parole, lei scomparve. PQ70, dopo qualche minuto, intravvide in lontananza una sagoma indefinita che vacillava sopra la rossa balaustra del ponte del Diavolo. Fu sufficiente il post di uno scaltro passante, avido di novità, a richiamare uno sciame ben equipaggiato di sofisticate armi per filmare la scena. Nessuno cercò di fermarla. Lo spettacolo era molto allettante e, soprattutto, di valore: chissà quanti l’avrebbero visto con un click.
MARGOT
Margot aveva 25 anni, era una ragazza dal temperamento penetrante e acuto. Viveva nel quartiere residenziale di una città anonima, costruita al fine di ospitare i più rinomati centri di ricerca ed i migliori talenti. Era circondata da persone gradevoli e garbate, con le quali, tuttavia, non aveva legato molto. Non si era ancora innamorata, nessuno l’aveva ammaliata al punto da farle perdere la testa. Lei sognava il grande amore, quello che si sarebbe impadronito del suo sguardo intrigante, schivo, sofferente, della sua anima e del suo corpo, togliendole il respiro. Come ogni sabato sera era davanti al suo aperitivo. Da qualche anno si recava nello stesso posto dove uno sgabello vecchio stile l’aspettava inquieto e accogliente. Il barista la guardava con aria complice, la salutava con un cenno del capo e le portava “il solito”. Si comprendevano a meraviglia, erano in perfetta sintonia; un’espressione corrucciata o un battito di ciglia diverso dal consueto bastavano per rompere il ghiaccio e cominciare una conversazione. “Margot, come ti gira stasera?” “Non sono serena, una strana agitazione mi pervade, ad ogni passo mi pare di essere sull’orlo di un precipizio, se poi penso al mio futuro il mio stomaco comincia a darmi dei segni di repulsione, mi prende una strana nausea… Sarà il cambio di stagione”. “I tuoi studi come procedono?” “Molto bene, le ultime sperimentazioni hanno rivelato la presenza di particelle vettoriali che si muovono nello spazio producendo energia a risonanza oscura. Il problema è come catturare questa riserva inesauribile che aprirebbe le porte ad una riconfigurazione dei concetti di spazio e tempo”. “Vedrai che troverai una soluzione”. Lei intanto beveva. Il liquido frizzante le scivolava sulla lingua e la rassicurava. Sulle pareti del bicchiere, ormai mezzo vuoto, un alone rossastro le ricordava il deserto e gli amici che l’avevano accompagnata durante la sua prima vacanza al di là del confine a cercare la pace invano. Intorno schiamazzi e risate sguaiate rimbombavano sui muri decorati in stile Art Nouveau, una rarità, pochi locali potevano vantare un ambiente così retrò. Generalmente i luoghi di incontro erano saloni disadorni in cui trascorrere qualche ora attivando il programma olografico preferito. “A cosa stai pensando?” “Qui mi sento a mio agio, il fruscio ondeggiante della musica mi fa tenerezza, assomiglia a quella che ascoltavo nella camera in cui da piccola scrutavo il cielo, immaginando l’Universo ed i suoi segreti. Sono cresciuta nella convinzione che i miei genitori non mi amassero veramente, distratti dalle loro sofisticate indagini sulle neuro-tecnologie e dai loro impegni mondani; poche erano le carezze sulle mie guance, molti i rimproveri che giungevano alle mie orecchie. Ora non ci sono più, se ne sono andati come un sussurro che si spegne”. Due lacrime le solcarono il volto, appoggiandosi sull’abito blu che Margot aveva acquistato in una boutique del centro. “Sai che tutti ti stimano e ti ammirano. Non permettere allo sconforto di avere il sopravvento su di te”. Era tardi. Solo alcune coppiette erano ancora ai tavoli davanti ai video dei loro dispositivi. Si divertivano a seguire le gesta dei protagonisti di antiche serie come Star Trek TOS e Voyager. Margot se ne andò. Assorta nei suoi dubbi, si avviò verso il suo rifugio, il suo lussuoso e confortevole appartamento. Prima di andare a letto, l’attendeva la vasca sonica. Immerse tutta se stessa negli aromi più delicati e armoniosi, abbandonando la sua pelle nell’acqua profumata e seducente, come se volesse perdersi e dimenticare la sua vita. Chiuse gli occhi e, per un istante, ebbe la percezione di aver surfato onde gravitazionali, di essere entrata in contatto con l’antimateria, viaggiando tra stelle, asteroidi e pianeti. Non capiva. La sua memoria sembrava un database in cui erano stampate fotografie di mondi lontani e misteriosi. Un brivido le percorse la schiena. Si asciugò, indossò una vestaglia di seta, si distese sul caldo letto sotto il soffitto che un abile artigiano aveva sapientemente decorato: rappresentava un lungo sentiero in mezzo agli alberi, senza inizio né fine. Si addormentò a fatica, osservando quel viottolo nel bosco che sprofondava nell’abisso.
Il mattino seguente un vento pulsante soffiava tra i suoi lunghi capelli, intorno un via vai di volti infreddoliti. Era stordita e la testa le girava, mentre una calda diafana luce la incoraggiava a camminare con cautela per assaporare i colori silenti del parco che stava costeggiando. Decise di passare quel giorno di riposo tra rose ormai secche e alberi con poche svolazzanti foglie, decimate dall’arrivo dell’autunno. Un cappotto si sedette sulla panchina in cui si era accomodata nella speranza che nessuno la disturbasse. L’uomo, che si nascondeva sotto un cappello a tese larghe, non proferì parola fino a che non manifestò con voce commossa la propria ammirazione per una margherita che, a dispetto della stagione, si aggrappava al ruvido e arido suolo. “Con quanta tenacia resta al suo posto, non si rassegna, lotta, non si arrende, ignara del lamento con cui le querce preannunciano la sua sorte. Presto dovrà andarsene”. Margot ebbe un sussulto: “Andarsene? Dove? E’ un piccolo fiore, si sarebbe semplicemente assopito per ricomparire con la primavera, ai primi canti di gioia del passero e della possente aquila”. Si alzò. L’uomo la trattenne per un braccio. Le sfiorò le labbra con la mano, quasi volesse impedirle di parlare. “Non avere paura, volevo strapparti un sorriso e invece ho ottenuto l’effetto contrario. Sono costernato e mi scuso.” Margot lo fissò con preoccupazione, un tuffo al cuore la fece sobbalzare, percepì di essere in balia di una tempesta di sensazioni che la soffocavano, debole e indifesa, si ritrasse bruscamente. “E’ colpa mia. Qualcosa in me non va...” Si allontanò senza voltarsi indietro. Attraversò la città correndo all’impazzata come se fosse inseguita. Si fermò quando vide la luccicante insegna del suo locale, quello in cui avrebbe sorseggiato l’aperitivo, il suo aperitivo, in compagnia della sua malinconia e del suo fedele barista. “Caspita, hai un aspetto spettrale, sembri uscita da un incubo”. “Dammi da bere, voglio annegare i pensieri sgradevoli che da un po’ mi stanno martoriando. Ti parrà strano, ma ogni volta che mi specchio mi chiedo che cosa mi porti ad essere tanto sospettosa verso coloro che mi avvicinano, a ritenere che questo sia l’unico porto sicuro e tranquillo in cui riposare la fredda tristezza della sera. Forse perché ci sei tu. L’unico con il quale io possa essere quel che sono e ogni turbamento tace”. “Non attribuirmi troppi meriti. Tu sai di essere speciale”. “Io speciale? Io vivo aspettando. So che prima o poi sarò in grado di comprendere la ragione del mio ‘esserCI’. Purtroppo temo che non sarà un momento piacevole”. “Questo pessimismo mi sbalordisce. Hai già sconvolto il mondo con le tue scoperte”. “L’entusiasmo per i miei primi successi si è trasformato gradualmente in rammarico e tormento. Credo di essere intrappolata in un vortice in cui qualcuno guida i miei passi”. Margot pagò il conto. Uscì dalla porta posteriore, quella che le avrebbe consentito di raggiungere più velocemente la sua casa. Imboccò un vialetto in mezzo a due file di lampioni. Il cancello era vicino quando fu avvolta da un improvviso chiarore. Una forza misteriosa l’aveva sfiorata tanto da farla barcollare. Non si mosse per alcuni minuti, poi si fece coraggio, entrò nel giardino con cautela, salì al decimo piano. Non notò nulla di insolito, si portò le mani alla fronte. Si sedette sul divano di velluto vermiglio. La notte la prese e la condusse nell’ombrosa quiete del sonno.
Si presentò all’Accademia di buonora, si mise comoda al suo simulatore ed iniziò a lavorare, ad inserire ed elaborare dati su dati, come faceva sempre. Le formule che stava testando non davano risultati apprezzabili, quando intuì che avrebbe dovuto modificare il flusso del campo vettoriale. Finalmente l’energia a risonanza oscura era stata intercettata. Aveva raggiunto il suo scopo. Il pallido Sole dietro le vetrate si spense. Il vuoto la avvolse, la portò via con sé. Dov’era? Quale dimensione l’aveva risucchiata? Erano domande alle quali non sapeva rispondere. Qualcosa si frapponeva tra lei ed i suoi desideri. Osservò ciò che le stava intorno: le pareva di galleggiare nel mare in tempesta, sentiva i flutti sul suo corpo, vedeva luci in ordine sparso simili a stelle cadenti. Capì di essere in movimento, un relitto pietrificato lanciato nell’Universo a braccare una preda a lei ignota. Cominciò a ripercorrere la rotta che l’aveva portata lì, le onde gravimetriche che aveva superato, le navi spaziali che aveva eluso o distrutto. Si poteva persino dire che era stata brava nello svolgimento del suo compito. “Ogni traguardo era una tappa del mio vagare, chiusa in una realtà virtuale, inconsapevole della posta in gioco. In esilio da me stessa parlavo con il nulla. Davanti agli occhi avevo solo immagini, simulacri. Solo l’angoscia era vera e ricolma di solitudine e di amarezza. Nessuna intelligenza dotata di coscienza avrebbe collaborato alla realizzazione di un piano tanto disumano. Sono stata ingannata”. Questo fu l’ultimo attimo di lucidità, prima che la sua esistenza si fermasse nel crepuscolo immobile di un planetoide in conflitto con la Terra. Avrebbe voluto evitarlo ma non le fu possibile: le sue specifiche di progettazione la spingevano, inesorabilmente, verso il suo obiettivo. L’impatto fu catastrofico. Nulla rimase di quella civiltà. Margot era il nome in codice che gli ingegneri di biorobotica bellica avevano dato alla prima bomba senziente, ideata per affrontare la complessità di missioni interplanetarie. Persa nelle aspre tenebre di una guerra lontana, Margot si sbriciolò in mille brandelli, ma un frammento della sua memoria continuò a vagare per il Firmamento fino a quando si posò sul suolo da cui era partita.