Presidenzialismo, la malafede di chi grida allo scandalo
Il presidenzialismo, si sa, è una delle principali bandiere politiche di Giorgia Meloni: naturale voglia inastarla almeno parzialmente (si tratta di una riforma costituzionale, i tempi di approvazione saranno dunque lunghi) entro le elezioni europee della prossima primavera. Dell’elezione diretta del capo del governo e del rafforzamento dei suoi poteri si parla da ormai quarant’anni. Sono state costituite a questo scopo commissioni parlamentari mono e bicamerali che non hanno prodotto alcun risultato concreto, sono stati approvati disegni di legge costituzionali poi respinti dagli elettori al momento del relativo referendum confermativo. Quarant’anni di tentativi, quant’anni di fallimenti.
Al punto 3, quello dedicato alle riforme istituzionali, del programma elettorale del centrodestra presentato lo scorso agosto si parla di “elezione diretta del presidente della Repubblica”. Il presidenzialismo, dunque, è stato annunciato agli elettori e (anche) sull’impegno a realizzare una riforma presidenziale la coalizione di centrodestra ha vinto le elezioni. Diversi giornali, alcuni costituzionalisti e quasi tutti i partiti di opposizione hanno cominciato sin dall’inizio della legislatura a raccontare la riforma presidenziale ipotizzata da quella che nel frattempo era diventata la maggioranza di governo come un attacco quasi personale all’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella, di cui peraltro, ma ciò è costituzionalmente irrilevante, è nota la scarsa simpatia verso tale forma di governo sia in quanto costituzionalista sia un quanto uomo politico. Un’interpretazione priva di fondamento costituzionale, oltre che di senso politico. Come se ogni riforma costituzionale approvata a norma di Costituzione dovesse avere l’avallo di chi ricopre la funzione che verrà riformata…
Tuttavia, avendo interesse a mantenere buoni rapporti con l’attuale inquilino del Colle e a far approvare la riforma istituzionale dalla più ampia maggioranza parlamentare possibile, Giorgia Meloni ha tenuto conto di tali obiezioni. È chiaro da mesi, è ancor più chiaro oggi leggendo le prime bozze di riforma redatte dal ministro competente, Maria Elisabetta Casellati. L’ipotesi di eleggere direttamente il presidente della Repubblica è infatti scomparsa. Si parla di elezione diretta del presidente del Consiglio. Il quale, com’è ovvio, assorbirebbe alcuni dei poteri che la Costituzione attribuisce oggi al capo dello Stato, come la nomina e la revoca dei ministri e lo scioglimento delle Camere.
È il segno di una non scontata disponibilità alla mediazione da parte di Giorgia Meloni e del suo governo. Ma i giornali, i costituzionalisti e le forze politiche che menavano scandalo prima lo fanno anche oggi. Né più, né meno.
La realtà, evidentemente, non conta. Conta la rappresentazione della realtà. La realtà che, per come si sta delineando, la modifica della forma di governo che l’esecutivo presenterà al Parlamento non ha nulla di scandaloso: non è una forzatura istituzionale e non rappresenta un’umiliazione dell’attuale presidente della Repubblica. Si limita a dare forma giuridica alla retorica, ad oggi infondata, dell’elezione diretta del capo del governo e ad attribuirgli quei poteri minimi che gli consentono di non subire i ricatti dei partiti che compongono la sua maggioranza. Dunque di assumersi le responsabilità che la funzione presuppone e di durare quant’è politicamente naturale che duri. Si può, naturalmente, non condividere il merito della riforma. Ma chi grida allo scandalo è in malafede.
Formiche.net
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Il futuro dell'Europa, il ruolo dei liberali e il problema italiano. L'articolo di Piero Cecchinato
@Politica interna, europea e internazionale
Per avere voce in capitolo ed evitare che per formare una maggioranza si debba guardare anche a forze che intendono retrocedere nel processo di integrazione, è necessario che i liberali che si iscrivono in Europa nel gruppo di Renew Europe eleggano il maggior numero di deputati possibile.Renew Europe è il gruppo che al Parlamento europeo raccoglie i deputati eletti in partiti a loro volta iscritti ai gruppi politici dell’Alleanza dei liberali e democratici europei (Alde) e del Partito democratico europeo (PDE), che sono membri partner di Renew Europe.
Ebbene, per quanto riguarda l’Italia, gli ultimi sondaggi sono impietosi: oggi i liberaldemocratici non eleggerebbero alcun deputato.
Golpe in Gabon dopo le elezioni. I militari prendono il controllo
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Pagine Esteri, 30 agosto 2023. “Tutte le istituzioni della Repubblica sono sciolte: il governo, il Senato, l’Assemblea nazionale e la Corte costituzionale. Invitiamo la popolazione a rimanere calma e serena e riaffermiamo la volontà di rispettare gli impegni del Gabon nei confronti della comunità internazionale”, così i militari in un videomessaggio mandato in onda a ripetizione sulle reti televisive del Paese.
Dopo quattordici anni di potere, il presidente Ali Bongo Ondimba è stato riconfermato, il 26 agosto, dall’esito delle ultime elezioni, reso pubblico pochi minuti prima del colpo di stato. La coalizione avversaria, rappresentata da un unico candidato, ha denunciato brogli elettorali e manipolazione dei dati. I risultati ufficiali avevano visto Ali Bongo Ondimba ottenere il 64,27% dei voti e il suo sfidante, Albert Ondo Ossa, raggiungere il 30,77%.
Ali Bongo Ondimba
I dieci militari apparsi dinanzi alle telecamere si sono autoproclamati membri del “Comitato per la Transazione e il ripristino delle istituzioni” e hanno accusato il governo di Ali Bongo Ondimba di portare il Paese nel caos, di minare la coesione sociale in maniera irresponsabile.
Albert Ondo Ossa
Colpi di arma da fuoco sono stati uditi prima e dopo la dichiarazione ufficiale dei militari ma non giungono per il momento notizie di scontri. Anzi, sono stati diffusi sui social video di festeggiamenti, cortei di persone che sventolano le bandiere e intonano slogan celebrativi sulla “liberazione” del Paese. Il nascente Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni ha invitato la popolazione a mantenere la calma. Prima di Ali, salito al potere nel 2009, il governo è stato presieduto da suo padre Omar, al potere dal 1967.
Freedom in #Gabon pic.twitter.com/Q5Zc7qe4M2— African (@ali_naka) August 30, 2023
Il presidente Ali Bongo Ondimba e la sua famiglia sono stati arrestati ma non si trovano in regime di massima sicurezza: nel primo pomeriggio (ora italiana) di oggi, il presidente ha registrato un breve video in cui chiede in inglese agli “amici di ogni parte del mondo” di “fare rumore”. “Non so cosa accadrà, vi chiedo di fare rumore. Vi ringrazio”.
pagineesteri.it/wp-content/upl…
Le frontiere sono state chiuse. È presente, in Gabon, un contingente militare francese, Stato che più di tutti è interessato a mantenere rapporti stabili con il governo o chi per esso lo controlli. Il Gabon è particolarmente importante per i piani di politica estera francese all’interno del continente africano.
Il colpo di stato in Gabon è l’ottavo in tre anni nella zona dell’Africa centrale e occidentale. I militari hanno preso il potere, tra gli altri Paesi in Niger, Mali, Guinea, Burkina Faso e Ciad.
Ali Bongo Ondimba con il presidente francese Emmanuel Macron
La presenza italiana in Gabon
La presenza italiana più significativa in questo paese è rappresentata dal colosso energetico ENI: a partire del 2008 sono stati conclusi sei contratti di esplorazione e nell’estate 2014 è stata annunciata un’importante scoperta di gas e condensati a circa 13 chilometri di distanza dalla costa gabonese e a 50 chilometri dalla capitale Libreville. ENI, inoltre, vende in Gabon lubrificanti attraverso contratti di compravendita tramite le società DIESEL e ECIG.
Altre aziende di proprietà di gruppi economici italiani operano neli settori dello sfruttamento di legname, nella ristorazione, nelle costruzioni, nell’arredamento e nel turismo.
Il 17 febbraio 2023 il pattugliatore Foscari della #Marina militare italiana in sosta a #Libreville. A bordo ospitati il Segretario Generale della Difesa gabonese Dieudonné Pongui e il Capo di Stato Maggiore della Marina ammiraglio Charles Bekale Meyong
Il 17 febbraio 2023 il pattugliatore portaelicotteri “Foscari” della Marina Militare impegnato in operazioni antipirateria nel Golfo di Guinea aveva fatto sosta a Libreville. In quell’occasione l’ambasciatore d’Italia in Gabon, Gabriele Di Muzio, aveva accompagnato il Segretario Generale del Ministero della Difesa gabonese, Dieudonné Pongui, ed il Capo di Stato Maggiore della Marina gabonese, Charles Bekale Meyong, a visitare l’unità da guerra italiana. A bordo del “Foscari” il dottore Di Muzio ha consegnato al direttore dell’Ospedale di Akanda tre ventilatori polmonari donati dall’Italia.
Il pattugliatore portaelicotteri è stato il quarto vessillo militare che ha fatto tappa in Gabon: la prima visita ufficiale risale al novembre 2021 con la fregata “Marceglia”, a cui ha fatto seguito la fregata “Rizzo” nell’aprile 2022 ed il pattugliatore portaelicotteri “Borsini” nel novembre 2022. Per testimoniare “la stretta amicizia e la collaborazione tra Roma e Libreville”, sul “Borsini” erano stati ospitati il rappresentante del ministro della Difesa gabonese, generale Jude Ibrahim Rapontchombo, ed il vice capo di Stato maggiore della Marina gabonese, ammiraglio Roland Tombot Mayila.
Italia e Gabon hanno sottoscritto a Roma il 19 maggio 2011 un Accordo quadro di cooperazione nel settore della difesa, in attesa di ratifica da parte del Parlamento. Il Memorandum per la Cooperazione nel campo dei materiai della difesa, firmato nella stessa giornata, è invece entrato automaticamente in vigore. Pagine Esteri
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Ignoranza titolata
Anche qui si è fatto un sogno, visto che c’è la ricorrenza. Abbiamo sognato che un giovane diplomato, oramai maggiorenne, abbia deciso di portare in tribunale la scuola italiana. Abbiamo sognato le sue parole: signor giudice, mi hanno sempre promosso, mi hanno anche detto che ero bravino, ho passato la maturità con un ottimo voto, poi ho fatto i test Pisa ed è risultato che sono un analfabeta, incapace nel far di conto; quindi, signor giudice, sono stato truffato e chiedo giustizia.
I risvegli sono talora traumatici: sono i genitori a portare la scuola in tribunale, avverso le pochissime bocciature esistenti. Si lascia così agli atti quel che si chiede di avere: l’ignoranza titolata, detta anche: ignoranza di cittadinanza.
In questo modo gli svantaggiati restano tali e i protetti anche. Nessuna indignazione scalfisce l’indifferenza e la scuola resta un assumificio senza costrutto, ove si proclama il merito senza entrare nel merito. Poi non ci si chieda da dove arrivi la classe digerente.
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Golpe in Gabon dopo le elezioni. I militari prendono il controllo
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Pagine Esteri, 30 agosto 2023. “Tutte le istituzioni della Repubblica sono sciolte: il governo, il Senato, l’Assemblea nazionale e la Corte costituzionale. Invitiamo la popolazione a rimanere calma e serena e riaffermiamo la volontà di rispettare gli impegni del Gabon nei confronti della comunità internazionale”, così i militari in un videomessaggio mandato in onda a ripetizione sulle reti televisive del Paese.
Dopo quattordici anni di potere, il presidente Ali Bongo Ondimbaè stato riconfermato, il 26 agosto, dall’esito delle ultime elezioni. La coalizione avversaria, rappresentata da un unico candidato, ha denunciato brogli elettorali e manipolazione dei dati. I risultati ufficiali avevano visto Ali Bongo Ondimba ottenere il 64,27% dei voti e il suo sfidante, Albert Ondo Ossa, raggiungere il 30,77%.
Ali Bongo Ondimba
I dieci militari apparsi dinanzi alle telecamere si sono autoproclamati membri del “Comitato per la Transazione e il ripristino delle istituzioni” e hanno accusato il governo di Ali Bongo Ondimba di portare il Paese nel caos, di minare la coesione sociale in maniera irresponsabile.
Colpi di arma da fuoco sono stati uditi prima e dopo la dichiarazione ufficiale dei militari ma non giungono per il momento notizie di scontri. Il nascente Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni ha invitato la popolazione a mantenere la calma. Prima di Ali, salito al potere nel 2009, il governo è stato presieduto da suo padre Omar, al potere dal 1967.
Albert Ondo Ossa
Le frontiere sono state chiuse. È presente, in Gabon, un contingente militare francese, Stato che più di tutti è interessato a mantenere rapporti stabili con il governo o chi per esso lo controlli. Il Gabon è particolarmente importante per i piani di politica estera francese all’interno del continente Africano. Pagine Esteri
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STORIA. Il femminismo panarabo e l’identità palestinese (seconda parte)
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(Foto: Gerusalemme, alcune delle oltre 200 delegate palestinesi del primo Congresso delle Donne Arabe (1929) che organizzano una spettacolare manifestazione a bordo di una serie di automobili per farsi portare in giro per la città a consegnare le loro risoluzioni sulla causa nazionale a vari consolati stranieri, ovvero per chiedere l’indipendenza della Palestina).
di Patrizia Zanelli*
Pagine Esteri, 30 agosto 2023. I teorici primari della palestinesità percepirono la sacralità del territorio della Palestina come la quintessenza dell’identità culturale della loro stessa società palestinese in piena Nahḍa; sapevano che sin dal medioevo i palestinesi si erano sempre indicati come Ahl al-Arḍ al-Muqaddasa “La Gente della Terra Santa”. Sanbar precisa che non si sentivano degli eletti, bensì come i custodi e protettori, nonché proprietari dei luoghi sacri delle tre fedi monoteiste presenti nel loro paese, teatro delle scritture rivelate. Nella percezione di un’identità collettiva è insito un senso di possesso del territorio in cui si vive e fa parte della popolazione autoctona. Il primo significato del lemma ahl è “famiglia”; infatti, Masalha nota che i palestinesi si indicavano anche come Abnā‘ Filasṭīn, “I Figli della Palestina”; si identificavano con lei, la loro madre terra. In realtà, espressioni simili si usano da sempre nel mondo arabofono per indicare appunto la popolazione autoctona di un paese. Il lemma sha‘b, “popolo”, iniziò a essere usato soltanto nel ‘900 nel linguaggio politico dei vari nazionalismi arabi, nati per la liberazione dal colonialismo europeo o/e in certi casi dall’imperialismo ottomano.
Ogni cultura è frutto di un continuo processo di transculturazione, dunque è culturalmente ibrida; la lingua, quale mezzo espressivo ed elemento fondante della cultura stessa, cambia col tempo specialmente a livello lessicale; tali cambiamenti linguistici implicano talvolta una ridefinizione dell’identità culturale del gruppo umano costituito dalla comunità di parlanti che la parlano.
La questione identitaria fu al centro dei discorsi sia femministi che nazionalisti elaborati nell’ambito della Nahḍa, il che comportò la nascita di un lessico politico arabo moderno, nato soprattutto tramite le traduzioni arabe di testi di illuministi francesi: Montesquieu, Rousseau e Voltaire. Furono usati il lemma waṭan, “patria” o “casa”, per tradurre “patriottismo” (waṭaniyya), e il lemma qawm, “popolo, “razza” o “tribù”, per rendere “nazione” e, quindi, “nazionalismo” (qawmiyya). Al lemma umma, “comunità”, derivato da umm, “madre”, fu altresì conferita la nuova accezione di “nazione”.
Pur avendo chiaramente significati diversi, questi termini politici talvolta vengono interscambiati; è un’ambiguità terminologica che esiste in molte lingue e culture e può essere politicamente pericolosa. In epoca coloniale, infatti, il nazionalismo, concetto nato con la Rivoluzione francese, in più casi si fuse con il darwinismo sociale, degenerando in ultranazionalismi fondati sul razzismo, l’etnocentrismo e la xenofobia, componenti essenziali del colonialismo europeo e di altri imperialismi.
Il mondo arabo non è monolitico, bensì eterogeneo, il che vale anche per i discorsi femministi e nazionalisti elaborati nell’ambito della Nahḍa. Esistono infatti da sempre importanti differenze geo-climatiche, storico-politiche, socio-culturali e perfino linguistiche tra un paese e l’altro e una micro-area e l’altra del vasto dominio arabofono.
La sacralità del territorio della Palestina determinò le particolarità locali del proto-femminismo e del proto-nazionalismo territoriale, emersi a fine ‘800 nella società urbana palestinese, all’interno della quale il bilinguismo era ormai normale ed era piuttosto diffuso anche il poliglottismo. Tutte le città del paese erano cosmopolite specialmente grazie alla varietà della strutture scolastiche moderne che vi erano state create a partire dagli anni 1860. I dirigenti palestinesi ovviamente conoscevano i discorsi che circolavano nelle cancellerie delle maggiori potenze mondiali dell’epoca; infatti, avevano subito capito che la loro intera società rischiava di subire una sostituzione etnica. Come precisa Sanbar, sapevano anche che la prima ondata migratoria ebraica in Palestina, iniziata nel 1882, aveva uno scopo puramente religioso e temevano che le colonie fondate dai neoarrivati immigrati ashkenaziti scatenassero nel Vicino Oriente un antiebraismo, al quale loro stessi posero freno, tentando la via del dialogo a livello diplomatico.
Le femministe e i nazionalisti modernisti palestinesi volevano preservare la loro cultura autoctona, costituita dalle tradizioni delle tre fedi monoteiste e, dunque, ecumenica. Le stesse attiviste delle associazioni femminili lavoravano, però, autonomamente per la costruzione nazionale della Palestina, senza dipendere da organizzazioni maschili, e si sentivano come le vere responsabili del futuro della loro nazione.
In generale, le donne hanno sempre lavorato almeno tra le mura domestiche e, quindi, svolto un ruolo importante nella società, ma il loro lavoro non è riconosciuto né è conosciuta la loro Storia, perché è perlopiù esclusa dalla storiografia scritta e trasmessa oralmente. Gli studi post-coloniali sul femminismo arabo – che, come quello nato in Occidente, assunse inizialmente la forma dell’associazionismo filantropico femminile – si basano perciò in parte su testimonianze orali, particolarmente necessarie per il caso palestinese. Numerosi documenti furono infatti distrutti od occultati durante la Nakba; le molteplici implicazioni della catastrofe, replicata e aggravata dalla guerra lanciata da Israele nel ’67, per occupare la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e la striscia di Gaza, rendono difficile ricostruire la Storia della modernizzazione culturale della Palestina. È impossibile calcolare quante fonti storiche siano andate perdute per sempre; per via della diaspora palestinese, quelle sopravvissute sono sparse in giro per il mondo, e le informazioni reperite sono comunque frammentarie; lo afferma Fleischmann, precisando che l’apertura degli archivi militari israeliani e inglesi negli anni ’80 non fu sufficiente a colmare tale lacuna. Un altro fenomeno traumatizzante implicato dalla Nakba sta nel fatto che i palestinesi rimasti nella porzione del territorio della propria patria, appena divenuta Israele, dovettero rinunciare alla loro identità nazionale, diventando cittadini israeliani in effetti discriminati come gruppo umano; il governo del neo-fondato Stato ebraico applicò nei loro confronti una politica di apartheid che durò quasi vent’anni; poi fu allentata ma mai abolita.
Gerusalemme, 1906: Khalil al-Sakakini e la sorella Melia al-Sakakini, futura leader della Nahḍa femminile palestinese.
Generalmente, per le donne e gli uomini palestinesi d’ogni classe sociale che avevano lottato per l’indipendenza del loro paese, protestando contro il mandato britannico e il colonialismo d’insediamento sionista, la perdita della patria rimase una ferita mai rimarginata, e il ricordo della Palestina pre-1948 un dolore inconsolabile. Soffrirono a lungo e in molti casi per sempre di stress post-traumatico; quindi, raramente riuscivano a parlare del trauma che avevano vissuto e della loro vita precedente. È perciò difficile comprendere appieno le esperienze delle pioniere del femminismo palestinese; quasi tutte furono costrette a lasciare la patria nel ’48; di alcune non si conoscono neppure le date di nascita e/o morte.
Le leader più famose sono Sadhij Nassar (1900-1960) e Maryam al-Khalil di Haifa, Anisa Subhi al-Khadra (1897-1955) e la letterata Asma Tubi (1905-1983), entrambe attive ad Acri, Adele Shamat Azar (1886-1968) di Giaffa e Maryam Hashim di Nablus. La più politicizzate sono le attiviste dell’associazione femminile di Gerusalemme che svolsero un ruolo politico avanguardista nella lotta per l’indipendenza della Palestina nel periodo mandatario: Matiel Mughannam (1899-1992) – autrice di The Arab Woman and the Palestine Problem (1937) –, Zulaykha Ishaq al-Shihabi (1903-1993), Shahinda Duzdar (1906-1946), Zahiyya Nashashibi (1904-1973), Melia al-Sakakini (1890-1966), Ni’mati al-Alami (1895-?), Tarab ‘Abd al-Hadi (1910-1976) e altre ancora, come Fatima e Khadija al-Husayni, appartenenti all’aristocrazia gerosolimitana..
Per ricostruire la Storia del femminismo palestinese dell’epoca della Nahḍa, è però necessario esaminare i vari fattori sfociati nella Nakba e quindi fare un notevole salto indietro nel tempo.
Sanbar sottolinea l’importanza della posizione geografica della Palestina: epicentro regionale, punto d’incontro dei tre vecchi continenti, situato tra il Mediterraneo e il Mar Rosso e il fiume Giordano, attraversante il Mar Morto e il lago di Tiberiade, facilmente accessibile da ogni direzione e, sin dalla proto-storia, meta di migrazioni e oggetto di ambizioni straniere. A partire dalla conquista islamica del 638 d.C. è la Terra Santa delle tre fedi monoteiste, e “Gerusalemme è al centro di questa geografia sacra”. Com’è evidente, inoltre, pur essendo un paese piccolo, la Palestina storica è culturalmente un importante crocevia di civiltà.
La cultura autoctona palestinese è, perciò, frutto di molteplici processi di transculturazione; oltre a questa complessità, è soprattutto la sacralità del territorio in cui è nata a renderla unica; i teorici primari della palestinesità ne colsero subito l’essenza; si basarono su teorie storiografiche, geo-deterministe e socio-linguistiche e su studi folkloristici per definirla.
Uno di loro è il letterato, pedagogo e attivista gerosolimitano Khalil al-Sakakini (1878-1953) che, nel 1909, fondò a Gerusalemme la pionieristica Scuola Costituzionale in cui adottò un metodo educativo incentrato sulla psicologia dell’infanzia; infatti non venivano dati voti agli alunni delle tre fedi monoteiste che la frequentavano. Sua figlia Hala al-Sakakini (1924-2002), in un’intervista rilasciata a Fleischmann nel 1992, dichiarò “Perfino noi cristiani siamo culturalmente musulmani […] L’Islam è una cultura che ci unisce”. In questa dichiarazione, indicativa del pensiero delle femministe palestinesi dell’epoca della Nahḍa, proprio come la succitata Melia al-Sakakini – sorella di Khalil – [9], si nota l’influenza del panarabismo, facilmente accolta nella definizione dell’identità culturale palestinese, e ne conferma la complessità, dovuta anche a ragioni storico-linguistiche. L’arabo era infatti presente nella Palestina cristiano-bizantina sin dall’età preislamica (V-VI secolo d.C.), cioè prima che la nuova religione rivelata arrivasse nel paese, dove, come ai tempi della predicazione di Gesù di Nazareth, si parlava ancora l’aramaico, altra lingua semitica. Fu quindi facile l’arabizzazione della popolazione palestinese; e in quanto proseguimento dell’ebraismo e del cristianesimo, l’Islam divenne rapidamente la fede monoteista maggioritaria in Terra Santa.
Rashid Khalidi, invece, nel suo famoso saggio, Palestinian Identity, rileva la complessità delle teorie sul nazionalismo e la creazione di un’autocoscienza nazionale moderna [10]. Il senso di appartenenza a un paese, a una realtà territoriale, a una collettività, e non necessariamente a uno Stato-nazione, idea importata dall’Europa nel mondo arabo nell’Ottocento, è un fenomeno sociale molto più antico di quanto si pensi.
1946, l’intellettuale gerosolimitano Khalil al-Sakakini, con le figlie, Hala alla sua sinistra e Dumia a destra della foto, e la sorella Melia al-Sakakini – una delle prime femministe del Nahḍa femminile palestinese – in mezzo alle due nipoti; sono sul balcone di casa loro nel quartiere al-Qaṭamūn di Gerusalemme.
Come nota Sanbar, è storicamente documentato che nella Palestina medievale la società palestinese era già straordinariamente unita. Da allora in poi la gente del paese continuò a celebrare insieme tutte le festività delle tre fedi monoteiste; musulmani, cristiani ed ebrei condividevano perfino i luoghi di culto; pregavano indifferentemente in moschee, chiese e sinagoghe. Era una spiritualità condivisa, tipica del “carattere popolare palestinese”, ma non un sincretismo; ogni comunità religiosa seguiva la propria religione. I musulmani si facevano battezzare, perché volevano ricevere una benedizione di Dio; i preti si limitavano a immergere loro le mani nell’acqua. Il sufismo, dottrina e pratica della spiritualità islamica, prolungamento naturale della mistica ebraica e cristiana, non a caso si era diffuso subito in Palestina, dove sin dal medioevo vi era stata una fioritura di monasteri fondati da confraternite sufi, che avevano ispirato numerose conversioni all’Islam. A partire dal X secolo il paese fu oggetto di una serie di guerre di conquista compiute via via dagli eserciti dei Fatimidi, dei Selgiuchidi, delle crociate promosse dalla Chiesa di Roma, degli Ayyubidi, dei Mamelucchi e degli Ottomani. Ognuna di queste invasioni straniere era stata progettata dal rispettivo invasore per fattori legati alla geografia sacra della Palestina e specialmente all’importanza di Gerusalemme per le tre fedi monoteiste.
La società palestinese manifestò, invece, la tipica coesione interconfessionale anche mentre stava per sperimentare il passaggio dalla tradizione alla modernità. A tal riguardo Masalha spiega fatti interessanti avvenuti nel ‘700, rilevando che Zahir al-Umar apparteneva a una modesta famiglia musulmana di un villaggio della Galilea e non alla tradizionale signoria urbana e latifondista che dominava la Palestina e doveva la sua legittimità agli ottomani. I notabili, signori feudali, definiti a‘yān, ricevevano spesso per meriti militari il titolo onorifico turco aghà dal sultano di turno dell’Impero; erano in sostanza vassalli della Turchia. Da giovane al-Umar aveva ereditato dal padre la funzione di esattore delle tasse sui terreni agricoli da versare alla tesoreria ottomana; conosceva la vita difficile della sua gente. Aveva ricevuto una qualche forma d’istruzione, ma era più che altro un autodidatta; lavorando, maturò competenze politiche, diplomatiche e finanziarie. Intorno al 1730, si ribellò alla Porta riuscendo, con il sostegno popolare, a prendere il potere in Galilea e nel resto della Palestina per liberarla dalla dipendenza dagli ottomani che imponevano una tassazione eccessiva sulle proprietà fondiarie; vero leader carismatico, divenne subito un eroe per la stragrande maggioranza delle famiglie palestinesi. Lo stesso al-Umar sapeva di poter contare sulla tipica coesione interconfessionale della sua società, per realizzare i suoi grandi progetti per il futuro; voleva ridurre le forti sperequazioni socio-economiche esistenti nel paese, mettendo fine anzitutto allo sfruttamento dei contadini. Guidò in tempi non sospetti la prima lotta indipendentista palestinese nella Storia della Palestina che, come già detto, lui trasformò in un proto-Stato semi-indipendente. Da viceré, governò il paese, adottando politiche sociali e un nuovo sistema fiscale che gli permisero di ottenere una crescente popolarità; fu naturalmente sostenuto anche dall’importante comunità cristiana di Nazareth, donne incluse che fornivano cibo e cure alle sue truppe. Masalha precisa che al-Umar, con la sua esperienza di autogoverno davvero rivoluzionaria, creò le premesse per la Nahḍa ottocentesca palestinese [11].
[9] Melia al-Sakakini era una docente; aveva frequentato la Scuola Araba Ortodossa nella Città Vecchia di Gerusalemme e poi l’Istituto Femminile di Formazione Pedagogica di Beit Jala. Una volta diplomata, insegnò in varie scuole pubbliche e divenne preside di una scuola a Giaffa. Visse sempre con la famiglia del fratello Khalil al-Sakakini che l’aveva cresciuta dopo la morte di loro padre. Fu una delle prime attiviste del movimento femminile palestinese; nel 1920, guidò un corteo di donne gerosolomitane in una marcia di protesta contro la Dichiarazione Balfour e il mandato britannico. Durante la Nakba, l’intera famiglia di Khalil al-Sakakini – che, nel 1939, era rimasto vedovo della moglie Sultana, da cui aveva avuto il primogenito Sari, e due figlie, Hala e Dumia, – fu espulsa dalla propria casa nel quartiere al-Qaṭamūn nell’Ovest di Gerusalemme e costretta da paramilitari sionisti a fuggire dalla città, il 30 aprile 1948, cioè prima della fondazione d’Israele. L’intellettuale palestinese pensava di poterci tornare; ma, violando il diritto al ritorno dei profughi palestinesi sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu (11/12/1948), le autorità israeliane non glielo permisero. Perciò fu espropriato per sempre della sua casa e di tutto ciò che conteneva, inclusa la sua prestigiosa biblioteca privata. La famiglia visse poi a Ramallah. Si veda: Hala Sakakini, Jerusalem and I: A Personal Record, Economic Press, 1990.
[10] Rashid Khalidi, Palestinian Identity: the Construction of Modern National Consciousness, Columbia University Press, 1997.
[11] Nur Masalha, Palestine: a Four Thousand Year History, Zed Books, 2018.
______________
*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui i romanzi Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e Atyàf: Fantasmi dell’Egitto e della Palestina (Ilisso, 2008) della scrittrice egiziana Radwa Ashur, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).
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Weekly Chronicles #43
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Tor introduce la Proof of Work contro il DoS
Con la release 0.4.8 Tor introdurrà un meccanismo di Proof of Work (PoW) per dare priorità a traffico verificato e mitigare così l’impatto degli attacchi Denial of Service che interessano la rete Tor da ormai molto tempo.
Il meccanismo di protezione è semplice ma efficace: prima di accedere a un servizio onion il client deve dimostarre di aver risolto un piccolo puzzle matematico. All’aumentare delle richieste aumenterà anche il lavoro richiesto. Per un utente normale questo non dovrebbe richiedere più di qualche millisecondo, ma per chi invece indirizza numerose richieste verso lo stesso servizio (come le reti di bot che compiono attacchi DoS) il costo aumenta esponenzialmente, rendendo difficoltoso e costoso l’attacco (in termini di tempo, e quindi denaro).
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Il problema del DoS però non è altro che una sfaccettatura dell’annoso problema, ben più ampio, della distinzione tra umani e bot su Internet.
Essendo Tor un servizio nato per offuscare l’identità fisica e la posizione geografica degli utenti, la via per distinguere umani e bot non poteva certo essere quella del KYC — come proposto ad esempio da Sam Atman con il progetto “Worldcoin”.
Nei prossimi mesi e anni dovremo aspettarci sempre più pressione da parte di aziende, governi e organizzazioni per risolvere questo problema. Forse la community crypto (mi riferisco in particolare a Bitcoin e Monero) dovrebbe iniziare a pensare seriamente a modi per sfruttare questi network per dimostrare la propria umanità online senza cedere privacy.
Collari e guinzagli digitali per migranti illegali
Il governo inglese sta pensando a nuovi modi per gestire i migranti illegali che arrivano nel paese. La nuova legge in materia, l’Illegal Migration Act, prevede infatti il potere di trattenere e controllare ogni migrante irregolare e richiedente asilo.
L’idea è quella di attaccare al migrante di turno una targhetta GPS (immagino con una sorta di braccialetto elettronico non facilmente rimovibile) che permetta di tracciarli in tempo reale sul territorio.
Collari e guinzagli digitali per i nuovi schiavi del welfare. Qualcuno dovrà pur servire e lavorare per la gerontocrazia europea negli anni che verranno. Quale modo migliore per aprire una finestra di Overton sulla nuova schiavitù se non abituare le persone ad accettare collari e guinzagli digitali per il fatto di avere la pelle scura e venire da un altro continente? Vi ricorda niente?
La ri-educazione forzata di Jordan Peterson
Tre giudici della Ontario Divisional Court hanno deciso che Jordan Peterson, celebre psicologo canadese, sarà costretto a seguire un corso di rieducazione sulla “comunicazione professionale sui social” per non perdere la sua licenza.
La questione nasce da una causa portata vanti dal College of Psychologists of Ontario a seguito di alcune affermazioni di Peterson sul Joe Rogan Podcast e su X riguardo il movimento LGBTQ+, il cambiamento climatico e diverse dichiarazioni contro alcuni politici canadesi e Trudeau, che ha recentemente chiamato “lying climate-apocalypse mongers”.
Peterson ha commentato così su X la decisione dei giudici:
"So the Ontario Court of Appeal ruled that @CPOntario can pursue their prosecution. If you think that you have a right to free speech in Canada, you're delusional. I will make every aspect of this public. And we will see what happens when utter transparency is the rule. Bring it…"
I buoni ancora una volta si distinguono per ciò che sono: tirannici, violenti, e completamente intenti nel silenziare qualsiasi opinione divergente. Esprimere il tuo pensiero non è vietato, ma potrebbe essere poco carino. Meglio se stai zitto. E se proprio non ci riesci, ti aiutano loro. Magari con un bel campo di rieducazione forzata.
Sul silenzio forzato ne ho scritto proprio settimana scorsa…
Weekly memes
Weekly quote
The truth is something that burns. It burns off dead wood. And people don't like having the dead wood burnt off, often because they're 95 percent dead wood.
Jordan Peterson
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English version
Tor Introduces Proof of Work against DoS Attacks
With the release of version 0.4.8, Tor will introduce a Proof of Work mechanism to prioritize verified traffic and thereby mitigate the impact of Denial of Service (DoS) attacks that have been affecting the Tor network for a considerable amount of time.
The protection mechanism is simple yet effective: before accessing an onion service, the client must solve a small mathematical puzzle to demonstrate that they have performed the required "work." As the volume of requests increases, so does the required work. For a regular user, this should take no more than a few milliseconds. However, for those directing numerous requests to the same service (such as botnets), the cost increases exponentially, making the attack difficult and costly in terms of both time and money.
The issue of DoS is just one facet of the longstanding, broader problem of distinguishing between humans and bots on the Internet.
Given that Tor is a service designed to obscure users' physical identity and geographical location, the path forward could not involve Know Your Customer (KYC) measures – as proposed, for example, by Sam Atman with the "Worldcoin" project.
In the coming months and years, we should expect increasing pressure from companies, governments, and organizations to address this problem. Perhaps the crypto community (specifically referring to Bitcoin and Monero) should seriously start considering ways to leverage these networks to prove humanity online without compromising privacy.
Digital collars and leashes for illegal migrants
The UK government is considering new ways to better manage illegal migrants entering the country. The new legislation, the Illegal Migration Act, grants the power to detain and monitor every irregular migrant and asylum seeker.
The idea is to attach a GPS tag to each migrant, presumably in the form of an irremovable electronic bracelet, allowing real-time tracking within the territory.
Digital collars and leashes for the new slaves of the welfare system. Someone must certainly serve and work for the European gerontocracy in the years to come. What better way to push the Overton Window towards the concept of new slavery than to condition people to accept digital collars and leashes based on the color of their skin and their origin from another continent? Does this remind you of anything?
The forced re-education of Jordan Peterson
Three judges from the Ontario Divisional Court have ruled that Jordan Peterson, a renowned Canadian psychologist, will be compelled to undergo a re-education course on "professional communication on social media" to avoid losing his license.
The issue arises from a case brought by the College of Psychologists of Ontario following Peterson's statements on the Joe Rogan Podcast and on X regarding the LGBTQ+ movement, climate change, and various criticisms of Canadian politicians, including Trudeau, whom he recently referred to as "lying climate-apocalypse mongers."
Peterson responded to the judges' decision on X with the following comment:
"So the Ontario Court of Appeal ruled that @CPOntario can pursue their prosecution. If you think that you have a right to free speech in Canada, you're delusional. I will make every aspect of this public. And we will see what happens when utter transparency is the rule. Bring it…"
Once again, those who claim to be righteous reveal their true nature: authoritarian, violents, and entirely focused on silencing any dissenting opinions. Expressing one's thoughts might not be prohibited, but it could be unpleasant. It's better to stay quiet. And if you can't manage that, they'll help you. Perhaps with a nice dose of forced re-education.
metro.co.uk/2023/08/28/illegal…
blog.torproject.org/introducin…
nationalpost.com/news/canada/j…
Se l’Italia sale sul carro armato del futuro. Un modello virtuoso per l’Europa
Tra tutti i diversi sistemi d’arma, quello che più di altri rappresenta plasticamente lo stato di frammentazione del settore difesa europeo è il carro armato da battaglia (conosciuto anche con l’acronimo Mbt – Main battle tank). Attualmente, infatti, i circa seimila carri armati in servizio con le Forze armate dei Paesi europei appartengono a diciassette modelli diversi, senza contare le diverse varianti, spesso realizzate ad hoc per un singolo Paese. Addirittura, questo stato di proliferazione dei sistemi da combattimento terrestre avviene anche all’interno di numerosi Stati, con in servizio contemporaneamente modelli diversi di carro armato più o meno moderni (una condizione che caratterizza in particolare i Paesi dell’est Europa, dove sono impiegati anche apparecchi risalenti all’era sovietica). Per fare un rapido raffronto, i circa 2.500 carri degli Stati Uniti sono tutti un unico modello, l’M1 Abrams, sulla base del quale sono poi state realizzate le diverse varianti per rispondere alle necessità operative delle Forze Usa.
È su questo sfondo che va letta la proposta avanzata dalla Francia, e riportata dal quotidiano La Tribune, di invitare l’Italia, attraverso Leonardo, a partecipare alla realizzazione del Main ground combat system (Mgcs), il progetto per il carro armato di prossima generazione lanciato nel 2012 da Parigi e Berlino sviluppato in partnership dalla tedesca Rheinmetall e da Knds, joint venture nata nel 2015 dalla tedesca Krauss-Maffei Wegmann e la francese Nexter. Da quando è stato lanciato, tuttavia, il programma ha faticato a prendere slancio, funestato da una serie di ritardi e malumori sia tra i partner industriali, sia tra i governi di Francia e Germania. Indicativo il fatto che Parigi nel suo bilancio per la Difesa del 2023 non abbia inserito il programma Mgcs (né quello per il caccia di nuova generazione Fcas, realizzato sempre insieme a Berlino). L’urgenza dei Paesi europei di dotarsi di carri armati aggiornati alle sfide contemporanee, inoltre, mette a repentaglio il futuro del programma. Invece di attendere i decenni necessari a progettare e mettere in produzione i Mgcs, le capitali del Vecchio continente potrebbero scegliere di comprare immediatamente mezzi già disponibili. È il caso della Polonia, che l’anno scorso ha deciso di acquistare 250 carri americani Abrams M1A2.
Sempre secondo il quotidiano francese, l’ingresso italiano nel progetto è presentato come un ultimatum di Parigi a Berlino sul futuro del programma: “Prendere o lasciare”. Per La Tribune, si tratterebbe di un tentativo dei francesi di riequilibrare il rapporto con i partner tedeschi, in particolare con Rheinmetall, facendo leva su citati ottimi rapporti tra Parigi e Roma – con quest’ultima descritta come “il nuovo partner preferito” della Francia – basati sui progetti comuni come il missile Aster di Mbda, la partecipazione italiana ai missili franco-britannici Fman/Fmc e soprattutto l’aggiornamento di mezza vita di quattro Fremm, due francesi e due italiane (il Doria e il Duilio).
L’Italia, dal canto suo, può però vantare buoni rapporti anche con la controparte tedesca, in particolare nel settore terrestre, come dimostra la decisione del governo di acquistare i carri armati Leopard 2A8 a partire dal 2024, da affiancare ai 125 carri Ariete modernizzati in versione C2. Come spiegato dal generale Salvatore Farina, già capo di Stato maggiore dell’Esercito, l’obiettivo è arrivare ad avere circa 256 sistemi Mbt in grado di equipaggiare quattro reggimenti carri. La scelta di procedere lungo il doppio binario Ariete/Leopard risponde alla necessità di accelerare i tempi, con i primi due reggimenti dotati di C2 modernizzati già entro il 2028, anno in cui dovrebbero essere introdotti i primi Leopard, evitando gap operativi.
Ma la partita è tutt’altro che limitata a Francia, Germania e Italia, e potrebbe anzi rappresentare un modello virtuoso verso la deframmentazione della difesa europea. Un obbiettivo fondamentale non solo per le ambizioni di costruzione di una Difesa comune da parte dei Paesi del Vecchio continente, ma anche in chiave Nato, con il potenziamento delle capacità di deterrenza europee e una contemporanea riduzione delle risorse necessarie. L’avere in dotazione equipaggiamenti il più possibile uguali o simili, infatti, non solo facilita il loro impiego sul campo (con gli operatori di Paesi diversi in grado di lavorare immediatamente su apparecchi anche di nazionalità diversa), ma rende molto più semplice anche la catena logistica, dai pezzi di ricambio, alla manutenzione, al munizionamento. La possibilità, inoltre, di produrre la piattaforma contemporaneamente in più Paesi accelererebbe anche l’entrata in servizio dei singoli modelli mettendo a sistema le linee di produzione europee, senza l’aggravio economico di dover attivare ex-novo delle linee produttive all’interno di un singolo Paese.
La convergenza sul Mgcs potrebbe anche facilitare in futuro un avvicinamento dei programmi paralleli sul caccia di sesta generazione Fcas (franco-tedesco) e Gcap (con Italia, Giappone e Regno Unito). Anche qui i ritardi accumulati dal Fcas potrebbero portare Parigi e Berlino ad aprirsi a collaborazioni più estese, anche alla luce dello slancio che invece sta caratterizzando l’evoluzione del Gcap.
Paul Lieberman – Gangster Squad
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Taiwan Files – Gou (Foxconn) candidato presidente. Compromessi tra Lai, Usa e Pechino
Terry Gou candidato alle elezioni presidenziali taiwanesi: i motivi della scelta e gli scenari sul voto. Il viaggio del vicepresidente Lai Ching-te tra Usa e Paraguay, con la reazione di Pechino: entrambi di basso profilo. La rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
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BAHRAIN. Centinaia di prigionieri politici in sciopero della fame contro “Il lento omicidio”
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Di Urooba Jamal – Al Jazeera
Pagine Esteri, 29 agosto 2023 – Ebrahim Sharif ricorda ancora di aver visto sangue sui muri della prigione militare in cui era stato incarcerato, poco dopo aver manifestato durante le proteste della Primavera Araba del Bahrein del 2011. L’allora segretario generale del più grande partito politico di sinistra del paese del Golfo – National Democratic Action Society (Wa’ad) – fu arrestato insieme ad altri leader della protesta dell’epoca che vennero processati e incarcerati da tribunali militari.
Ebrahim Sharif
“Siamo stati torturati duramente”, racconta Sharif ad Al Jazeera, descrivendo le percosse e le molestie sessuali che ha subito, così come le elettrocuzioni a cui sono stati sottoposti alcuni dei suoi compagni. Poco dopo lo svolgimento di un’inchiesta indipendente, il leader dell’opposizione e altri che avevano preso parte alle massicce proteste a favore della democrazia, sono stati trasferiti nel sistema carcerario civile e solo allora la tortura è cessata.
Le cose sono andate decisamente meglio in queste prigioni per diversi anni, dice Sharif, con i prigionieri che potevano lasciare le celle durante il giorno per pregare nella moschea, usare la biblioteca o giocare a calcio all’aperto. Ma, aggiunge, le condizioni sono peggiorate dopo lo scoppio di una rivolta nel 2015.
Quasi un decennio dopo, secondo il centro per i diritti umani Bahrain Institute for Rights and Democracy (BIRD) di Londra, i prigionieri – molti dei quali languono nel sistema carcerario dal 2011 – sono confinati nelle loro celle fino a 23 ore al giorno, senza cure mediche e senza accesso all’istruzione. Istituto per i diritti e la democrazia (BIRD). Alcuni sono anche tenuti in isolamento.
A causa del peggioramento delle condizioni, dall’inizio di agosto più di 800 prigionieri politici hanno organizzato il più ampio sciopero della fame mai realizzato in Bahrein, molti dei quali sono detenuti nella prigione più grande del paese, il Centro di Riforma e Riabilitazione di Jau.
Anche le famiglie dei prigionieri sono scese in piazza per protestare, chiedendo il rilascio dei loro cari.
Lunedì, dopo 22 giorni di sciopero della fame, le autorità del Bahrein si sono incontrate con gruppi di pressione per discutere le riforme. Ma i prigionieri affermano che queste proposte difficilmente rispondono alle loro preoccupazioni e hanno affermato di voler continuare la protesta. “La rabbia per questa ingiustizia non è più confinata tra le mura delle prigioni. Questo ora è un problema nelle strade del Bahrein”, dice ad Al Jazeera il direttore dell’advocacy di BIRD, Sayed Ahmed Alwadaei.
Manifestazione a sostegno dei detenuti in sciopero della fame
“Un lento omicidio”
Mentre Sharif ha avuto la “fortuna” di non aver trascorso più di cinque anni e mezzo in prigione, altri sono stati condannati all’ergastolo. Tra loro c’è Abdulhadi al-Khawaja, candidato al Premio Nobel per la pace che Alwadaei definisce un “padre” del movimento per i diritti umani in Bahrein.
“La negazione delle cure mediche è un omicidio lento”, ha detto ad Al Jazeera Maryam al-Khawaja, la figlia di Abdulhadi, che ora vive in Danimarca. “Sì, lo sciopero della fame espone mio padre a un rischio maggiore di infarto. Ma era già a rischio perché gli stavano negando l’accesso a un cardiologo”.
Abdulhadi al-Khawaja non è estraneo agli scioperi della fame, il più lungo dei quali è durato 110 giorni nel 2012. Ora non sarebbe in grado di resistere così a lungo, ha detto Maryam, a causa del suo stato di salute, che comprende aritmia cardiaca, glaucoma e dolore cronico a causa delle placche metalliche nella mascella dopo numerose percosse da parte delle autorità carcerarie.
Le proteste, dice Alwadaei, hanno guadagnato slancio, con il numero di scioperanti della fame raddoppiato da quando lo sciopero è iniziato il 7 agosto. Secondo un elenco di scioperanti della fame compilato da BIRD e analizzato da Al Jazeera, attualmente vi prendono parte 804 prigionieri.
L’incontro di lunedì tra il governo e i gruppi di pressione ha fatto ben poco per mettere fine allo sciopero della fame.
Il ministro degli Interni, generale Shaikh Rashid bin Abdullah Al Khalifa, ha incontrato il presidente dell’Istituto nazionale per i diritti umani e il presidente della Commissione per i diritti dei prigionieri e dei detenuti. Si è discusso dei servizi sanitari per i detenuti, di una revisione dell’attuale sistema di visite e dell’aumento del tempo giornaliero all’aperto da un’ora a due ore. Al Khalifa ha inoltre sottolineato “la cooperazione in corso tra il Ministero dell’Interno e il Ministero dell’Istruzione nel fornire programmi e servizi educativi ai detenuti e nel facilitare il completamento dei loro studi a tutti i livelli”.
Ma Alwadaei ha detto che l’incontro è avvenuto “troppo tardi” e che il governo non è ancora riuscito a soddisfare le richieste fondamentali dei prigionieri.
“Sulla base delle conversazioni con i prigionieri seguite alla dichiarazione del Ministero dell’Interno, è chiaro che lo sciopero della fame continuerà finché il governo non affronterà le loro lamentele seriamente e in buona fede”, dice. “Finora non hanno preso sul serio nessuna delle richieste centrali dei detenuti in sciopero”.
“Il governo non dove sottovalutare la precaria condizione dei prigionieri e la rabbia nelle strade. Se un prigioniero muore, la situazione andrà fuori controllo”, aggiunge Alwadaei.
Al momento della pubblicazione di questo articolo, le autorità del Bahrein non avevano risposto alla richiesta di Al Jazeera di commentare le accuse di tortura e rifiuto di cure mediche ai detenuti.
Amnistia per i detenuti
Lo sciopero ha suscitato preoccupazione da parte dell’alleato del Bahrein, gli Stati Uniti, con un portavoce del Dipartimento di Stato americano che all’inizio di questo mese ha dichiarato di essere “consapevole e preoccupato per le notizie di questo sciopero della fame”. Secondo Maryam al-Khawaja, tuttavia, gli alleati occidentali del Bahrein, compresi gli Stati Uniti, hanno a lungo trascurato le violazioni dei diritti umani nel paese, sostenendo la nazione del Golfo e consentendo il verificarsi di tali abusi.
Maryam Al Khawaja
“Non saremmo dove siamo se… il governo non ricevesse il tipo di sostegno che riceve dall’Occidente – è come se fosse in grado di evitare qualsiasi tipo di reale responsabilità internazionale per i crimini che ha commesso”, afferma al Khawaya.
Maryam ricorda ancora quella volta nel 2011 in cui suo padre fu picchiato fino a perdere i sensi davanti a lei e alla sua famiglia quando è stato arrestato. La rivolta (in Bahrain) è avvenuta mentre la famiglia al-Khawaja viveva ancora in Bahrein, essendovi tornata nel 2001 dopo un periodo di esilio in Danimarca.
All’epoca poterono tornare perché il governo del Bahrein aveva concesso un’amnistia generale, liberando tutti i prigionieri e favorendo così il ritorno di molti esuli.
Maryam, che è stata detenuta e successivamente rilasciata dopo le pressioni internazionali quando ha tentato per l’ultima volta di visitare il Bahrein nel 2014, spera in un’altra amnistia generale per suo padre e gli altri prigionieri. Altrimenti, ha paura che possa morire in prigione.
Sono state le traversie di suo padre e l’attivismo per i diritti umani durato tutta la vita che l’hanno ispirata a diventare anche lei una attivista dei diritti umani, una storia simile per molti altri nella regione che lo avevano incontrato, ha detto. “Ho incontrato persone del Golfo che mi hanno detto che volevano impegnarsi nel campo dei diritti umani grazie a mio padre, perché lo hanno incontrato e lui le ha ispirate”, ha detto Maryam.
Anche Ebrahim Sharif, che per un periodo ha condiviso la cella con al-Khawaja, ha la preoccupazione che i prigionieri in sciopero della fame possano morire e continua a parlare apertamente contro le ingiustizie che lui stesso ha subito. “Hanno una scelta – afferma – possono mettermi in prigione o lasciarmi dire quello che penso. Non credo che vogliano mettermi in prigione, quindi parlo liberamente il più possibile”. Pagine Esteri
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Oltre il mistero. La morte di Prigozhin e il futuro della Wagner secondo Bertolotti
Fonti contrastanti menzionano sia un missile che un ordigno nascosto in una cassa di vino come possibili cause dello schianto di un Embraer Legacy Jet nella regione di Tver, avvenuto la scorsa settimana, che portava a bordo i vertici del gruppo Wagner. La veridicità dell’informazione riguardante la presenza e il decesso del leader dell’organizzazione Wagner, Yevgeny Prigozhin, e del suo braccio destro, Dmitrij Utkin, come dichiarato dalle autorità russe, rimane però ancora da stabilire e resta avvolta da un velo di mistero, dato che non è stato possibile per fonti indipendenti verificare accuratamente i fatti. Delle ambiguità che circondano l’incidente, del futuro della Wagner e del possibile nuovo capo, ne abbiamo parlato con Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight.
L’incidente aereo che ha coinvolto membri della Wagner è ancora circondato da ambiguità e speculazioni. Qual è la sua opinione sull’accaduto? Crede sia possibile trarre conclusioni chiare o ci saranno sempre aspetti non definitivamente risolti?
La morte di Prigozhin è circondata da un alone di mistero e tale resterà per molto tempo. La Russia, lo sappiamo bene, lascia trapelare le informazioni che ritiene opportune, e allo stesso tempo ne crea altre sulla base delle proprie priorità e in coerenza con quella che è la strategia comunicativa. Possiamo quindi fare soltanto delle speculazioni e immaginare che Prigozhin sia effettivamente scomparso e partire da questo assunto per fare alcune considerazioni pratiche. Rimane però un sospetto circa il fatto che Prigozhin e Utkin viaggiassero sullo stesso aereo poiché, almeno dal punto di vista procedurale, non avrebbero dovuto viaggiare insieme essendole teste dell’organizzazione: uno il capo, l’imprenditore, e l’altro il capo militare. Da un punto di vista operativo, essere entrambi a bordo dello stesso aereo va dunque contro ogni procedura di sicurezza.
Qual è dunque la condizione attuale del gruppo alla morte del leader e del suo braccio destro?
Il gruppo Wagner senza Prigozhin si può dire sostanzialmente inconsistente. Lui era l’imprenditore, padre e padrone di questa unità che aveva co-fondato con il suo vice e che è ora priva di una guida unitaria. Si è guardato infatti al gruppo Wagner come a un’unica entità fino al giorno dell’uscita di scena di Prigozhin; ma ad oggi, o meglio dal 24 giugno, cioè all’indomani del tentativo del cosiddetto colpo di Stato in Russia – che tale non fu – ai danni dell’immagine del Cremlino e di Putin, il gruppo Wagner ha subito una scomposizione e una progressiva diminuzione in termini di capacità operative. Una componente è stata assorbita dalle Forze armate della Federazione russa, un’altra è stata trasferita in Bielorussia a supporto delle forze di Lukashenko in attività di addestramento e affiancamento delle Forze armate nazionali bielorusse, mentre la parte più consistente e pregiata del gruppo Wagner è stata trasferita in Africa dove mai aveva cessato di operare e dove ha rappresentato, rappresenta e verosimilmente rappresenterà ancora – con forse un altro nome o in un’altra forma – quell’essenziale e strategicamente necessario strumento di politica estera non convenzionale di cui la Russia si è dotata e attraverso il quale è riuscita a porre sotto la propria sfera di influenza molti gruppi di potere, politici ed economici, e alcuni governi dell’Africa centrale. Ricoprendo un ruolo di primo piano a supporto di quei gruppi di opposizione armata e politica che hanno partecipato e realizzato colpi di Stato e golpe con conseguente rovesciamento dei governi.
Con la morte di Prigozhin, chi potrebbe essere il possibile nuovo leader del gruppo Wagner? Su cosa dovrà puntare questa figura per gestire l’organizzazione in un momento così delicato?
Anche su questo argomento possiamo solamente fare delle speculazioni basandoci sulle limitate informazioni a nostra disposizione e su quelle che saranno le priorità della politica estera russe. È verosimile immaginare che, esclusi i due capi storici fondatori Prigozhin e Utkin, almeno in una fase transitoria il gruppo Wagner possa essere gestito nelle sue diverse branche. In particolar modo la componente africana, essendo l’essenziale strumento di influenza della politica estera del Cremlino, potrebbe essere gestita temporaneamente dagli organi istituzionali della Federazione russa, quali il ministero della Difesa e i servizi, che potrebbero giocare un ruolo determinante ma non sul lungo periodo. Il gruppo Wagner è infatti un attore non statale che funziona fin quando rimane tale, perché non vi è alcuna affiliazione ufficiale alle istituzioni governative russe e, pertanto, qualunque azione condotta non avrebbe ripercussioni dirette sul piano delle relazioni internazionali e dei rapporti tra gli Stati o sul piano diplomatico in quanto strumento non statale, bensì privato. Sul medio periodo è verosimile quindi immaginare un uomo di fiducia di Putin e del Cremlino, che prenderà la guida del gruppo Wagner, di quello che rimarrà o comunque della sua componente essenziale in Africa. Quello che potremmo aspettarci in futuro potrebbe essere un ridimensionamento dell’organizzazione con una concentrazione dello sforzo principale proprio in Africa, e il proseguire in maniera coerente sulla linea già tracciata da Prigozhin (che poi di fatto seguiva le direttive dirette del Cremlino).
In che direzione si sta evolvendo la Wagner dopo gli ultimi avvenimenti?
Non è importante chi debba guidare la Wagner, l’importante è che qualcuno la guidi nel suo ruolo determinante: quello di servire gli interessi di politica estera russa in modo tale da poter condizionare, attraverso la sua presenza e il suo operato, i gruppi di potere e i governi di quei Paesi dove si concentrano i principali interessi russi, in particolar modo in Africa dove il ruolo della Wagner è stato determinante nel corso degli anni per imporre la visione russa e l’accesso russo alle risorse energetiche e minerarie. In tale contesto si deve guardare anche all’influenza di quei Paesi che, presenti all’interno dell’assemblea delle Nazioni unite, possono far pesare la loro vicinanza alla Russia attraverso i voti di astensione o di sostegno al Paese.
Non solo, la morte di Prigozhin arriva in un momento particolare per la Russia…
Dobbiamo considerare che alla fine di quest’estate entreremo nel vivo della campagna elettorale per le presidenziali. Dapprima con le elezioni a livello locale e a livello regionale, che saranno una prima cartina tornasole dell’operato e della capacità di tenuta della presidenza Putin, e poi entro marzo ci avvieremo a una campagna elettorale intensa per l’elezione del presidente che, con buona probabilità, potrebbe vedere riconfermato Putin. Una riconferma che sarebbe conseguenza dell’assenza di una vera opposizione e di un vero capo politico in grado di contrapporsi a Putin. L’unico soggetto indefinito che potrebbe effettivamente strappare consensi a svantaggio di Putin potrebbe essere un veterano, un eroe di guerra, chi si è sacrificato e ha partecipato alla guerra per la difesa della Russia (perché come tale viene presentata la guerra in Ucraina, cioè una guerra difensiva, chiamata operazione speciale). L’assenza di un soggetto forte e carismatico di questo tipo consegnerebbe con buona probabilità le chiavi del terzo mandato a Vladimir Putin e, tra i pochi che effettivamente avrebbero potuto incarnare questo soggetto alternativo c’era proprio lo scomparso Prigozhin.
L’Iran si prepara all’anniversario delle proteste: distrutte le tombe dei manifestanti uccisi
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 28 agosto 2023. Lapidi distrutte, tombe coperte di catrame e date alle fiamme: in Iran chi chiede giustizia viene perseguitato in vita e dopo la morte. Ci si prepara all’anniversario delle manifestazioni che lo scorso anno hanno sconvolto la Repubblica islamica, con un’eco che ha attraversato i confini nazionali, trovando sostegno e solidarietà in molte parti del mondo.
Dopo l’arresto e l’uccisione, sotto custodia, della giovane Mahsa Amini, portata via dagli agenti della “polizia morale” perché non indossava adeguatamente il velo, in migliaia sono scesi per le strade della capitale Teheran e di almeno altre 160 città iraniane. Le donne hanno protestato sui social togliendosi il velo o tagliandosi i capelli. Jin, Jîyan, Azadî!, il motto “Donna, vita, libertà”, è stato intonato dalle donne che chiedevano la fine dell’oppressione e la liberazione dalle leggi discriminatorie che non consentono una vita dignitosa.
Ma non solo. Le proteste cominciate per la morte di Mahsa Amini si sono trasformate in dimostrazioni rabbiose di insofferenza e ostilità nei confronti dei vertici di governo, per le riforme mancate, per la povertà diffusa, per la situazione economica. A centinaia sono stati uccisi, circa 20.000 gli arresti.
Mahsa Amini
Manifestanti, donne e uomini, ragazzi e ragazze perlopiù, sono stati fermati, torturati, uccisi durante le proteste o impiccati, in pubblica piazza, perché le loro morti fossero da esempio. Attivisti sono stati arrestati solo per aver espresso il proprio sostegno alle proteste via social. In molti casi, in prigione, sono stati sottoposti a pesanti torture per estorcere la confessione della propria colpa. Confessioni poi utilizzate per condannarli alla pena di morte. Nel 2022 le impiccagioni sono state 582, nel 2021 erano state 333. Nei primi quattro mesi del 2022 ne erano state 260. Ma i processi farsa e le uccisioni non hanno fermato le rivolte.
#Iran: “Civil and democratic space continued to be restricted,” @UNHumanRights deputy chief @NadaNashif told the Human Rights Council.More on the @UN Secretary-General’s report on the situation of human rights in the Islamic Republic of Iran ➡️t.co/0ZPQHOzW1H#HRC53 pic.twitter.com/mI3gvy6ri1
— United Nations Human Rights Council (@UN_HRC) June 21, 2023
Nei mesi successivi le famiglie dei manifestanti e delle manifestanti uccisi sono stati perseguitati, molti di loro, a migliaia, arrestati. Sparizioni forzate, processi farsa, fustigazioni e mutilazioni sono pratiche ancora oggi molto utilizzate.
Tra pochi giorni si celebrerà l’anniversario della morte di Mahsa Amini, avvenuto il 16 settembre 2022. In questo anno le famiglie delle vittime della repressione hanno spesso visitato la sua tomba, simbolo di unità e di forza per tanti. I familiari della ragazza uccisa hanno più volte denunciato i raid vandalici che distruggono le lapidi dei manifestanti e degli attivisti ammazzati durante le proteste. Di tutta risposta il governo ha fatto sapere che intende spostare la tomba di Mahsa Amini, con l’obiettivo dichiarato di limitarne le visite.
A questo scopo sono state brutalmente attaccate e cacciate le famiglie che commemoravano i propri cari morti durante le proteste. Gli stessi familiari hanno denunciato che le lapidi sono ripetutamente distrutte e le tombe, cosparse di catrame, vengono date alle fiamme. Alcune tombe sono state danneggiate durante la notte ma spesso i raid sono avvenuti di giorno, alla presenza dei familiari, che non hanno ricevuto alcun sostegno dalle autorità iraniane, le quali anzi, denunciano, hanno spesso minacciato ulteriori ripercussioni.
“Le autorità della Repubblica islamica mi hanno ucciso un figlio innocente, hanno imprigionato mio fratello e i suoi familiari e poi mi hanno convocata per il ‘reato’ di aver chiesto giustizia per mio figlio. I cittadini iraniani non hanno alcun diritto di protestare e ogni tentativo di chiedere libertà viene soppresso con estrema violenza”. Così ha scritto su twitter la madre di Artin Rahmani, un ragazzo di 16 anni ucciso dalla polizia.
La tomba di Majid Kazemi, prima e dopo gli atti vandalici
Amnesty International denuncia l’accanimento giudiziario nei confronti delle famiglie delle vittime, i cui membri vengono arrestati arbitrariamente e spesso torturati. La sorveglianza illegale è utilizzata per intimidirli. Il diritto alla salute dei detenuti non è rispettato e in carcere non si assicurano le cure necessarie alla sopravvivenza dei malati.
Le intimidazioni e le violenze sono aumentate in vista dell’anniversario delle proteste. Le autorità temono una nuova escalation che tentano di reprimere in maniera preventiva stringendo la morsa dei controlli sui familiari delle vittime e compiendo decine e decine di nuovi arresti tra attivisti e attiviste.
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Incontro a Roma tra ministri degli esteri di Libia e Israele. “Blitz” pianificato da Tajani?
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della redazione
(foto di archivio da marsad.ly)
Pagine Esteri, 28 agosto 2023 -Ha sollevato un polverone diplomatico l’incontro che, si è saputo solo ieri, hanno avuto a Roma il ministro degli Esteri di Israele, Eli Cohen, e Najla Mangoush, l’omologa del Governo di unità nazionale della Libia (riconosciuto a livello internazionale), il primo ufficiale tra i responsabili della diplomazia Stato ebraico e del Paese arabo nordafricano. Israele attraverso il suo ministero degli esteri riferisce con risalto del colloquio, lasciando intendere che si tratta di un passo verso la possibile normalizzazione dei rapporti con la Libia e, più in generale, con il mondo arabo. Ciò mentre prosegue l’occupazione militare dei Territori palestinesi, la questione che frena da anni la normalizzazione tra Israele e i Paesi arabi, con l’eccezione della firma nel 2020 degli Accordi di Abramo che hanno visto lo Stato ebraico allacciare rapporti con Emirati, Bahrain, Marocco e Sudan.
La ministra degli esteri libica Najla Mangoush- © Khaled Elfiqi/EPA/Newscom/MaxPPP
A Tripoli però si definisce “casuale e non preparato” l’incontro a Roma al quale ha partecipato il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani. Anzi, secondo un’ipotesi che circola, la riunione sarebbe stata frutto di un “blitz” pensato e realizzato proprio da Tajani, desideroso di “accelerare” la normalizzazione dei rapporti degli alleati israeliani con i Paesi arabi. La Libia in un comunicato spiega che si è trattato di un incontro nel quale non ci sarebbero state “discussioni, accordi o consultazioni”. E Manghoush, da parte sua, avrebbe rifiutato la possibilità di una normalizzazione “con l’entità sionista (Israele)” ribadendo il sostegno della Libia alla causa palestinese e a “Gerusalemme come capitale eterna della Palestina”.
La notizia dell’incontro in Italia ha suscitato immediate proteste a Tripoli dove, ieri sera, alcuni manifestanti hanno assaltato il ministero degli Esteri. E questa mattina, prima dell’alba, centinaia di manifestanti hanno dato fuoco o tentato di farlo, non è ancora ben chiaro, alla residenza del premier Abdulhamid Dabaiba. Oggi l’altro parlamento libico, quello di Tobruk, nell’est della Libia, si riunirà d’emergenza per discutere di ciò che definisce “un crimine contro il popolo libico”.
Di fronte alle proteste, la ministra Mangoush sarebbe partita qualche ora fa su di un jet privato per dirigersi in Turchia, dopo essere stata sospesa dal primo ministro il quale ha anche formato una commissione d’inchiesta che dovrà riferire sull’incontro a Roma. L’incarico ad interim di ministro degli Esteri è stato assegnato a Fattehalla Elzini.
È difficile, tuttavia, credere che Mangoush abbia accettato di parlare a Cohen senza chiedere l’autorizzazione del suo governo. Non pochi credono che l’incontro a Roma dovesse restare segreto e che sarebbe stato il governo Netanyahu a far trapelare la notizia, non resistendo alla tentazione di “far sapere” che Israele ha avviato contatti con un altro Paese arabo, oltre a quelli che ha in corso con l’Arabia saudita per una possibile normalizzazione dei rapporti. La stampa israeliana riferisce che Cohen ha definito l’incontro “storico” e un “primo passo” verso l’apertura di relazioni tra i paesi. Cohen, aggiungono i giornali israeliani, avrebbe discusso con l’omologa libica di tutela dei siti ebraici in Libia, di progetti nell’agricoltura e per le riserve idriche e dell’invio di aiuti umanitari israeliani.
Al di là delle rivelazioni della stampa, in passato si è parlato in diverse occasioni di contatti tra il figlio di Gheddafi, Saif al Islam, e funzionari israeliani. Nel gennaio del 2022, sarebbe avvenuto un incontro all’aeroporto di Tel Aviv tra funzionari del governo libico non riconosciuto che fa capo al generale Khalifa Haftar. E sono girate voci di un meeting segreto in Giordania tra il premier Abdulhamid Dabaiba e rappresentanti israeliani.
L’accaduto potrebbe interrompere la carriera politica di Najla Mangoush, la prima donna a ricoprire il ruolo di ministro degli Esteri della Libia. Originaria di Bengasi, Mangoush è una avvocata e docente universitaria e ha ottenuto riconoscimenti accademici internazionali. Vanta inoltre un dottorato in gestione dei conflitti e della pace presso la George Mason University. Pagine Esteri
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Tra città imperiali e isole contese. Reportage dal Vietnam centrale
Reportage dal Vietnam centrale, tra il museo delle isole Paracelso (contese con la Cina) di Da Nang e l'antica capitale imperiale di Hue, teatro di uno dei capitoli più sanguinosi della guerra con gli Usa. Qui, non lontano dall'antica zona demilitarizzata tra Vietnam del Nord e del Sud, c'è un'area che meglio di quasi chiunque altro ha conosciuto la devastazione "calda" durante la prima guerra fredda. Mentre a Hue e dintorni si spera di evitarne una seconda
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Qui l'intervento integrale del Ministro Giuseppe Valditara ieri al Meeting di Rimini.
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Ministero dell'Istruzione
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WeiboLeaks – Fukushima, il web cinese boicotta sushi e cosmetici
Per il web cinese il rilascio delle acque contaminate raccolte dopo il disastro di Fukushima equivale a un “atto terroristico”. Gli utenti invocano il boicottaggio dei prodotti giapponesi. Un atto terroristico di portata storica. Così il web della Repubblica popolare cinese ha definito la decisione da parte del Giappone di riversare nell’oceano Pacifico le acque di raffreddamento della centrale nucleare ...
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Miranda Rights, 57 anni dopo
Correva l’anno 1963, quando a Phoenix, in Arizona, un signore chiamato Ernesto Miranda fu arrestato dalla polizia. L’accusa era di aver rapito e stuprato una giovane donna, appena diciottenne. Durante l’interrogatorio, durato diverse ore, Ernesto confessò il delitto e la sua confessione fu usata in tribunale per condannarlo.
Il caso arrivò poi fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti. L’avvocato difensore impugnò l’ammissibilità della confessione in giudizio, poiché Ernesto Miranda non era stato informato dei suoi diritti costituzionali: il diritto di rimanere in silenzio e il diritto di essere assistito da un avvocato durante gli interrogatori.
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La Corte Suprema nel 1966 diede ragione a Miranda: le prove non erano ammissibili. Da questa sentenza storica venne così alla luce la famosa formula che chiunque guardi polizieschi americani conosce a memoria — i “Miranda Rights”:
"E' suo diritto rimanere in silenzio. Tutto ciò che dice può essere usato contro di lei in tribunale. Ha il diritto di avere un avvocato. Se non ne può permettere uno, uno le verrà fornito. Ha capito i diritti che le ho appena letto? Tenendo presente questi diritti, desidera parlare con me?"
Sono passati 57 anni dalla sentenza Miranda.
In questi 57 anni sono successe tante cose, ma soprattutto che ci siamo ritrovati a vivere in un mondo in cui tutto ciò che diciamo, scriviamo e facciamo — in sostanza, chi siamo — potrà essere usato contro di noi, fuori e dentro i tribunali, a prescindere da qualsiasi reato o indizio di colpevolezza.
Non dimenticare e parlane
Soltanto, bada bene a te stesso e guàrdati dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste, ed esse non ti escano dal cuore finché duri la tua vita. Anzi, falle sapere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli. Deuteronomio 4:9
L’imperativo di questo versetto del Deuteronomio non è tanto di richiamo alla fedeltà, ma al non dimenticare. Se si dimenticano le grandi opere che il Signore ha fatte, presto non si dà più molto valore alla sua Parola. E se nessuno racconta delle grandi opere che il Signore ha realizzato, come si può rimanere con il Signore?
Questo non dimenticare è una costante, iniziando proprio dal Deuteronomio, della fede di Israele. Un riconoscersi parte di un popolo, attraverso tante epoche, che il Signore ha scelto e con cui ha fatto un patto.
Come cristiani anche noi parliamo di un patto, di un nuovo patto in Gesù Cristo. Questo è come un’estensione di quello del Sinai, ma con persone e popoli di tutta la terra. Spesso però non abbiamo questa idea di popolo, di essere parte del popolo di Dio, e nemmeno questa idea di patto.
Da una parte perché ovviamente la fede è qualcosa di personale, individuale. E la fede non si insegna, ma al massimo la si testimonia, d’altra parte però questo individualismo ci porta a pensare che ognuno debba in fondo provvedere da sé. Non dimenticare conta però innanzitutto per noi, ma poi anche per gli altri a cui ne parleremo, e quindi per i figli, i figli dei figli e le generazioni che verranno...
pastore D'Archino - Non dimenticare e parlane
Il Deuteronomio nelle nostre Bibbia si chiama così, dalla antica traduzione greca che lo individuava come la “seconda legge”. In effetti le leggi e le prescrizioni che si trovano in Eso…pastore D'Archino
Perché il Digital Service Act è un rischio per la libertà di parola su internet | L'Indipendente
«Una parte dell’opinione pubblica identifica la legge come un modo per imporre una sorta di censura mascherata finalizzata ad evitare che si possano esprimere tesi e opinioni divergenti da quelle “dominanti”. La facoltà di vigilare sulla correttezza delle informazioni e dei contenuti, stabilendo, dunque, ciò che è vero e ciò che è falso è stata attribuita in primo luogo ad un organo politico: la Commissione Europea e, nello specifico, al Comitato europeo per i servizi digitali che vigilerà strettamente sulle società e sui contenuti. Un’architettura di controllo che ha portato diversi rappresentanti politici e dell’informazione a parlare di una minaccia per la democrazia.»
I Brics raddoppiano, tra integrazione e competizione
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 25 agosto 2023 – Il vertice iniziato martedì e conclusosi ieri a Johannesburg passerà alla storia. Il blocco composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica ha infatti deciso di ammettere, dal primo gennaio, altri sei paesi: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. I nuovi membri sono stati scelti all’interno di una lista composta da due dozzine di stati, tra i quali spiccano Algeria e Indonesia, che chiedono di poter entrare nell’organizzazione.
Ad annunciare il raddoppio, ieri, è stato il presidente sudafricano e presidente di turno dell’alleanza, Cyril Ramaphosa, che ha descritto i Bricscome un «gruppo eterogeneo di nazioni» e «un partenariato paritario tra paesi che hanno punti di vista diversi ma una visione condivisa per un mondo migliore».
Il presidente russo è stato assai più esplicito. «I Brics non competono con nessuno e non si oppongono a nessuno, ma è anche ovvio che il processo di creazione di un nuovo ordine mondiale ha ancora oppositori che cercano di rallentare questo percorso, per frenare la formazione di nuovi centri indipendenti di sviluppo e influenza nel mondo» ha spiegato Vladimir Putin nell’intervento realizzato in videoconferenza, visto che su di lui pende un mandato di cattura internazionale spiccato dal Tribunale Internazionale dell’Aia per crimini di guerra.
Nella giornata conclusiva il vertice ha approvato una dichiarazione, in ben 94 punti, incentrata sull’impegno a promuovere il cosiddetto “multilateralismo inclusivo”, l’integrazione, un contesto di pace e sviluppo, la crescita economica, lo sviluppo sostenibile.
Nel documento, come d’altronde durante il dibattito, poca attenzione è stata riservata alla crisi ucraina, per risolvere la quale i paesi membri auspicano lo sviluppo del negoziato. «Alcuni paesi promuovono la loro egemonia e le loro politiche con il colonialismo e il neocolonialismo» ha accusato il leader russo, secondo il quale l’aspirazione a preservare questa egemonia da parte degli Stati Uniti ha condotto alla guerra in Ucraina.
In generale, i leader riuniti a Johannesburg si dicono «preoccupati per i conflitti in corso in molte parti del mondo» (vengono citati in particolare quelli in corso in Sudan e Niger). Il documento esprime sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale della Libia, della Siria e dello Yemen, accoglie con favore il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran (mediato da Pechino) e chiede a «una soluzione a due Stati» per il conflitto israelo-palestinese.
I leader dei paesi Brics
I Brics vogliono un mondo multipolare
Ampio spazio è stato dedicato alla comune e impellente aspirazione alla costruzione di un nuovo ordine mondiale multilaterale, alternativo a quello imperniato sul dominio incontrastato degli Stati Uniti e delle potenze occidentali in generale.
Le cinque potenze rivendicano esplicitamente «una maggiore rappresentanza dei mercati emergenti e dei Paesi in via di sviluppo nelle organizzazioni internazionali e nei forum multilaterali» e si schierano contro “misure coercitive unilaterali” come gli embarghi e le sanzioni. Allo scopo, i Brics sostengono una riforma globale delle Nazioni Unite, Consiglio di Sicurezza compreso, nonché dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Sulla tutale dei diritti umani invocano invece un approccio «non selettivo, non politicizzato e costruttivo, senza doppi standard».
I Brics si impegnano ad affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico, chiedendo però «una transizione giusta, accessibile e sostenibile verso un’economia a basse emissioni di anidride carbonica», esortando i Paesi sviluppati a «onorare i loro impegni», anche in termini di finanziamenti, e opponendosi alle barriere commerciali imposte «col pretesto di affrontare il cambiamento climatico».
I Brics tra integrazione e competizione
Ad integrazione avvenuta i paesi dell’alleanza «rappresenteranno il 36% del Pil mondiale e il 47% della popolazione dell’intero pianeta» ha fatto notare con toni trionfalistici il presidente brasiliano Lula da Silva, tra i maggiori fautori dell’allargamento del blocco e dello sviluppo di una moneta alternativa al dollaro (e all’euro). Con l’allargamento, i Brics passeranno a produrre il 43% del petrolio estratto nel pianeta (contro il 20% attuale) e il 40% del grano.
Il gruppo dei Bric – acronimo coniato dall’economista Jim O’Neil di Goldman Sachs per indicare quattro paesi attraenti per gli investimenti – si è costituito nel 2006 a margine di un’assemblea delle Nazioni Unite. Nel 2010, poi, si aggiunse la ‘s” del Sudafrica, e l’alleanza si propose esplicitamente di «rafforzare il coordinamento tra i cinque principali paesi in via di sviluppo» e di «rendere più rappresentativo l’ordine mondiale» dominato da Washington e dalle altre potenze del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti), nei confronti del quale i cosiddetti «paesi non allineati» si pongono in aperta contrapposizione, in particolare dopo l’accelerazione della competizione globale innescata dall’invasione russa dell’Ucraina e dal coinvolgimento diretto della Nato nel conflitto.
Comparando Brics e G7 sulla base del Pil nominale, il primato di quest’ultimo è saldo, ma se invece si considera il dato a parità di potere d’acquisto il blocco alternativo all’occidente vale già il 32% del Pil globale (20 anni fa rappresentava solo il 15%), contro il 30% dei “sette grandi”.
Ora Washington teme l’ascesa di nuove potenze, molte delle quali fino a pochi anni fa erano docili pedine dei propri interessi economici, geopolitici e militari (si pensi ad Arabia Saudita ed Emirati). Ma paradossalmente la strategia di “contenimento” dei propri concorrenti messa in atto dagli Stati Uniti – sanzioni, guerra commerciale, tentativi di regime change riusciti o falliti, aumento della militarizzazione, creazione di nuovi patti regionali in funzione soprattutto anticinese in Asia e nell’Indo-Pacifico – ha paradossalmente costretto i Brics ad accelerare il processo di integrazione reciproca e di costruzione di una propria area di influenza.
Ma i Brics hanno ancora molta strada da percorrere, in condizioni di competizione internazionale sempre più dure.
All’interno della necessità di una maggiore integrazione economica e finanziaria, i paesi membri si sono impegnati a valutare un sistema di pagamenti in valute locali nel commercio internazionale e nelle transazioni finanziarie tra i Brics. All’interno dell’alleanza la dedollarizzazione è già avviata, e nel 2022 solo il 28,7% degli scambi è avvenuta utilizzando la moneta statunitense. Nel frattempo, però, il progetto di una valuta del blocco, complementare alle valute nazionali esistenti ma alternativa al dollaro, si è rivelato più complesso del previsto e realizzabile, forse, in tempi lunghi. Le economie dei paesi aderenti sono infatti molto diverse tra loro e l’allargamento da 5 a 11 membri non potrà che moltiplicare i punti di vista, le esigenze e quindi le contraddizioni.
Proprio mentre a Johannesburg si svolgeva il vertice dei Brics, nello spazio andava in scena uno dei tanti terreni di competizione interna al blocco, con l’India – paese ancora estremamente legato agli Stati Uniti e da sempre in contrasto con il grande vicino cinese – che metteva a segno un punto importante nella corsa alla Luna dopo il fallimento della Russia.
Salta agli occhi, inoltre, che il Pil della Repubblica Popolare Cinese da solo pesa molto di più di quelli di tutti gli altri partner messi insieme e, per quanto Pechino sia tra i maggiori promotori dell’integrazione e della crescita di un blocco internazionale indipendente da Washington e Bruxelles, è anche vero che una tale potenza mondiale non agisce certo sulla base di criteri filantropici.
La competizione con le potenze “occidentali” rimane il principale collante del progetto di integrazione dei Brics, che gli Stati Uniti cercano di contrarrestare accelerando sul piano dello scontro militare, sul quale sa di essere in vantaggio sui concorrenti mentre sul piano economico e politico continua a perdere colpi.
Ma paradossalmente, più questi paesi cresceranno economicamente, politicamente e militarmente, più si apriranno nel pianeta nuovi spazi di egemonia, più aumenterà la competizione interna alla galassia delle potenze emergenti, con quelle più sviluppate impegnate a tentare di piegare il nuovo schieramento internazionale per soddisfare i propri interessi e rafforzare la propria leadership.
Il nodo dell’Africa
Durante l’ultimo vertice, nonostante le dichiarazioni concilianti e altisonanti, è già emerso un terreno di forte contraddizione interna all’alleanza. Nel dibattito è stato dedicato ampio spazio al continente africano, nel quale l’egemonia di Cina e Russia continua ad ampliarsi a spese di Washington e delle vecchie potenze coloniali europee e in competizione con altri paesi (Emirati e Turchia, ad esempio).
In riferimenti ai conflitti in corso in Africa i Brics chiedono «soluzioni africane ai problemi africani». È però evidente che l’affollamento di potenze straniere è sempre maggiore e che la coabitazione tra diversi interessi e strategie, che finora ha funzionato in virtù del prevalere della comune contrapposizione alle potenze “occidentali”, potrebbe entrare in crisi generando uno scontro tra alleati.
Proprio ieri, a Johannesburg si è tenuto l’ennesimo summit Cina-Africa, con la partecipazione dei presidenti delle otto Comunità Economiche Regionali del continente e del presidente dell’Unione Africana.
Nel suo intervento, Xi Jinping ha rivendicato l’assistenza allo sviluppo fornita negli ultimi 10 anni, citando la costruzione di 6000 km di ferrovie, altrettanti di autostrade e 80 grandi impianti energetici, ma dimenticando di spiegare che la maggior parte delle infrastrutture realizzate erano funzionali allo sviluppo dell’economia di Pechino, all’espansione della sua egemonia e all’accaparramento di preziose risorse naturali.
Ma anche la Federazione Russa è “sinceramente” interessata ad approfondire i legami con il continente africano e per questo realizzerà progetti in vari campi, ha ricordato Vladimir Putin, che si è appena liberato dei vertici ribelli della Compagnia Militare Privata “Wagner” ma che ha bisogno dei suoi miliziani per conservare e rafforzare la presa di Mosca su numerosi paesi dell’area dove gioca una fondamentale partita a scacchi con competitori e alleati.
I rischi di un mondo multipolare
«Siamo tutti favorevoli alla formazione di un nuovo ordine mondiale multipolare che sia veramente equilibrato e tenga conto degli interessi sovrani della più ampia gamma possibile di Stati. Ciò aprirebbe la possibilità di attuare vari modelli di sviluppo, aiutando a preservare la diversità dei confini culturali nazionali» ha detto Putin, riproponendo un argomento alla base delle rivendicazioni dei paesi in via di sviluppo.
Al di là delle rappresentazioni idilliache però, in un contesto economico capitalistico, di competizione economica e geopolitica globale e di polarizzazione militare, un mondo formalmente multipolare – popolato da decine di potenze desiderose di imporre i propri interessi e la propria visione e portate a sviluppare un carattere non meno predatorio delle tradizionali potenze coloniali e neocoloniali – rischia di rappresentare l’anticamera di un feroce scontro bellico globale.
Solo le classi dirigenti e le oligarchie che governano i paesi che si aggrappano alla loro posizione egemonica residua possono continuare a difendere un mondo unipolare ingiusto e diseguale. Ma le aspirazioni dei paesi coinvolti dal progetto Brics riguardano principalmente il loro ruolo geopolitico nello scacchiere mondiale, e non certo lo sviluppo di un modello sociale, economico e di sviluppo alternativo a quello attualmente dominante.
L’indurimento della contrapposizione tra potenze non può che condurre ad un aumento della repressione e del controllo sociale, alla diffusione di sistemi politici autoritari sorretti da ideologie reazionarie, alla deviazione di sempre maggiori risorse economiche dalla spesa sociale agli apparati militari e coercitivi necessari alla pacificazione dei “fronti interni”.
Da questo punto di vista la denuncia del brasiliano Lula da Silva appare centrale: «È inaccettabile che la spesa militare mondiale superi in un solo anno i 2mila miliardi di dollari, mentre la Fao ci dice che 735 milioni di persone soffrono la fame ogni giorno». – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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I Brics si allargano, ma non sono ancora un’alleanza
Argentina, Arabia saudita, Emirati arabi uniti, Iran, Egitto ed Etiopia. Prevale la voglia cinese di espandere il gruppo. Più che raddoppiato il peso del gruppo sul fronte della produzione di petrolio
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15 ufficiali sostenuti dagli Stati Uniti coinvolti in 12 colpi di stato nell’Africa occidentale
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by Nick Turse – Responsible Statecraft
Pagine Esteri, 25 agosto 2023 – Gli uomini si riunirono in un cimitero nel cuore della notte. Indossavano giubbotti antiproiettile, stivali e portavano armi semiautomatiche. Il loro obiettivo si trovava a un miglio di distanza, la residenza ufficiale del presidente del Gambia, Yahya Jammeh, un ufficiale militare addestrato negli Stati Uniti che prese il potere nel 1994. Quelli nel cimitero avevano pianificato di estrometterlo ma nell’arco di poche ore erano o morti o in fuga.
Uno di quelli uccisi, ex capo della Guardia Presidenziale del Gambia, Lamin Sanneh, aveva ottenuto in precedenza una laurea magistrale presso l’Università di Difesa Nazionale del Pentagono a Washington, D.C.
Alcuni dei cospiratori furono alla fine condannati negli Stati Uniti “per il loro ruolo nella pianificazione e nell’esecuzione di un tentativo di colpo di stato fallito per rovesciare il governo del Gambia il 30 dicembre 2014”. Quattro si dichiararono colpevoli di accuse legate all’Atto di Neutralità, una legge federale che vieta agli americani di fare guerra contro nazioni amiche. Un quinto fu condannato nel marzo 2017 per l’acquisto ed esportazione di armi utilizzate nel colpo di stato fallito che mise di fronte due generazioni di ammutinati addestrati dagli Stati Uniti.
Il Dipartimento di Stato non sa nulla di tutto ciò, o non vuole saperne. Una semplice ricerca su Google rivela queste informazioni, ma quando Responsible Statecraft ha chiesto se Yahya Jammeh o Lamin Sanneh avessero ricevuto addestramento statunitense, un portavoce del Dipartimento di Stato ha risposto: “Attualmente non siamo in grado di fornire documenti per questi casi storici”. Alla domanda su altri allievi in altre nazioni che hanno subito sollevamenti militari, la risposta è stata la stessa.
Responsible Statecraft ha scoperto che almeno 15 ufficiali sostenuti dagli Stati Uniti sono stati coinvolti in 12 colpi di stato nell’Africa occidentale e nel Sahel durante la guerra al terrorismo. L’elenco include personale militare del Burkina Faso (2014, 2015 e due volte nel 2022); Ciad (2021); Gambia (2014); Guinea (2021); Mali (2012, 2020, 2021); Mauritania (2008); e Niger (2023). Almeno cinque leader dell’ultimo colpo di stato in Niger hanno ricevuto addestramento statunitense, secondo un funzionario americano. A loro volta, hanno nominato cinque membri delle forze di sicurezza nigerine addestrati dagli Stati Uniti per servire come governatori, secondo il Dipartimento di Stato.
Il numero totale di ammutinati addestrati dagli Stati Uniti in Africa dal 11 settembre potrebbe essere molto più alto di quanto si sappia, ma il Dipartimento di Stato, che tiene traccia dei dati sugli allievi statunitensi, è o riluttante o incapace di fornirli. Responsible Statecraft ha individuato oltre 20 altri nel personale militare africano coinvolto in colpi di stato che potrebbero aver ricevuto addestramento o assistenza statunitense. Ma quando è stata posta la domanda, il Dipartimento di Stato ha detto di non avere la “capacità” di fornire informazioni che pure possiede.
“Se stiamo addestrando individui che stanno mettendo in atto colpi di stato non democratici, dobbiamo porci più domande su come e perché ciò accade”, ha detto Elizabeth Shackelford, ricercatrice senior al Chicago Council on Global Affairs e autrice principale del rapporto appena pubblicato, “Meno è Meglio: Una Nuova Strategia per l’Assistenza alla Sicurezza degli Stati Uniti in Africa”. “Se nemmeno cerchiamo di arrivare in fondo a questo problema, ne facciamo parte. Questo non dovrebbe essere solo sulla nostra agenda, dovrebbe essere qualcosa che seguiamo intenzionalmente.”
Shackelford e i suoi colleghi sostengono che la propensione degli Stati Uniti a riversare denaro in eserciti abusivi dell’Africa invece di effettuare investimenti a lungo termine nel rafforzamento delle istituzioni democratiche, nella buona governance e nello stato di diritto, ha minato obiettivi più ampi.
Oltre all’addestramento di ammutinati militari in Africa, altri sforzi per la sicurezza degli Stati Uniti durante la guerra al terrorismo sono anch’essi naufragati e falliti. Le truppe ucraine addestrate dagli Usa e dai loro alleati stanno avendo difficoltà durante controffensiva lanciata mesi fa contro le forze russe, sollevando dubbi sull’utilità dell’addestramento.
Nel 2021, un esercito afghano creato, addestrato e armato dagli Stati Uniti per oltre 20 anni si è sciolto di fronte all’offensiva dei talebani. Nel 2015, un’operazione da 500 milioni di dollari del Pentagono per addestrare ed equipaggiare ribelli siriani, destinata a produrre 15.000 truppe, ne ha generate solo alcune dozzine prima di essere abbandonata. Un anno prima, un esercito iracheno costruito, addestrato e finanziato, per un costo di almeno 25 miliardi di dollari, dagli Stati Uniti è stato sconfitto dalle forze improvvisate dello Stato Islamico.
“La politica degli Stati Uniti in Africa ha troppo a lungo dato priorità alla sicurezza a breve termine a discapito della stabilità a lungo termine, privilegiando la fornitura di assistenza militare e di sicurezza”, scrive Shackelford nel nuovo rapporto del Chicago Council. “Le partnership e l’assistenza militare con paesi illiberali e non democratici hanno prodotto pochi, se non nessun miglioramento sostenibile della sicurezza, e in molti casi hanno promosso ulteriore instabilità e violenza aumentando la capacità di forze di sicurezza abusive”. Pagine Esteri
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Meta sta finalmente lanciando un'app Web molto più potente per Threads
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
Sarai in grado di pubblicare, interagire con altri post e guardare il tuo feed, dice a The Verge la portavoce Christine Pa
Da giovedì la versione web è online per tutti, ha detto in un post il capo di Instagram Adam Mosseri
PODCAST AUSTRALIA. Referendum per i diritti degli aborigeni. Cosa cambierà?
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di Daniela Volpecina –
Pagine Esteri, 23 agosto 2023. Un referendum per riconoscere i diritti degli aborigeni. L’annuncio del governo australiano, giunto al termine di un lungo e infuocato dibattito, sta già facendo discutere.
La popolazione su questo tema appare spaccata e i pareri contrari al momento sembrerebbero prevalere su quelli favorevoli. Ma che cosa cambierà per gli indigeni se i sì al quesito referendario, previsto presumibilmente entro fine anno, dovessero prevalere sui no?
Il prof. George Zillante
Ne abbiamo discusso con il professor George Zillante, già capo dipartimento della facoltà di Architettura dell’Università di Adelaide nel sud dell’Australia, oggi consulente dell’ateneo, e grande conoscitore della materia.
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Con l’emissione speciale del 18 agosto sono stati pagati gli stipendi dei supplenti brevi e saltuari per oltre 173 mila ratei contrattuali, per un totale di quasi 121 milioni di …
Fabio Tavano
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