Primo Levi – Se questo è un uomo
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La forza della legalità e del senso del dovere
La Camera Civile di Firenze ha organizzato, in condivisione con la Fondazione per la Formazione Forense, il Comune di Firenze, l’Ordine degli Avvocati di Firenze, Fondazione Spadolini, Fondazione Luigi Einaudi, e con il patrocinio della Federazione delle Camere Civili, UNCC e Università degli Studi di Firenze, un interessante convegno dal titolo “La forza della legalità e del senso del dovere”, coordinato dal Prof. Pier Francesco Lotito e con illustri partecipanti, tra cui la Presidente della Corte di Cassazione Dott.ssa Margherita Cassano, l’Avv. Umberto Ambrosoli e il nostro Direttore degli affari europei Avv. Prof. Marco Mariani
Programma
Dario Nardella – Sindaco di Firenze
Avv. Sergio Paparo – Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Firenze
Avv. Francesca Cappellini – Presidente Camera Civile di Firenze e Federazione delle Camere Civili della Toscana
Prof.ssa Irene Stolzi – Direttore Dipartimento Scienze Giuridiche Università di Firenze
Avv. Prof. Marco Mariani – Direttore degli affari europei della Fondazione Luigi Einaudi
Prof. Cosimo Ceccuti – Presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia
Introduce e coordina
Prof. Pier Francesco Lotito Università degli Studi di Firenze
Relatori
Dott.ssa Margherita Cassano – Presidente della Suprema Corte di Cassazione
Dott. Ettore Squillace Greco – Procuratore Generale della Corte di Appello di Firenze
Avv. Umberto Ambrosoli – Foro di Milano
Avv. Gaetano Viciconte – Vice Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze
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Guerra. Voci da Gaza (parte terza)
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(Traduzione a cura di Federica Riccardi)
insaniyyat.org/voices-from-gaz…
Insaniyyat, Society of Palestinian Anthropologists
Pagine Esteri, 5 dicembre 2023. Dall’inizio della guerra israeliana contro la popolazione di Gaza, familiari e amici, compresi i membri della nostra comunità Insaniyyat, hanno cercato con ansia di avere notizie dei propri cari in tutta Gaza. Di seguito sono riportate le trascrizioni di messaggi di testo personali, note vocali e post sui social media che gli amici e i cari di Gaza sono riusciti a inviare in risposta; messaggi intermittenti composti nel bel mezzo dei bombardamenti e della distruzione, mentre erano sopraffatti dalle notizie di continue morti, anche di amici e parenti, senza elettricità, cibo, acqua, rifugio sicuro e speranza.
Andaleeb Adwan, femminista, scrittrice ed educatrice.
Andaleeb Adwan è un’attivista di lunga data per i diritti delle donne e la democrazia a Gaza. È fondatrice e direttrice del Community Development and Media Center di Gaza City, che lavora con giovani e donne per promuovere lo spazio democratico e l’espressione di sé attraverso i media cittadini socialmente consapevoli. Si veda il suo post dalla guerra israeliana del 2021 su Gaza qui e un’intervista del 2012 qui.
I seguenti sono i messaggi Whatsapp che Andaleeb ha potuto inviare tra l’8 e il 17 ottobre 2023.
Mercoledì 1 novembre
Buongiorno
La rete è stata interrotta ieri sera fino a un’ora fa
Hanno distrutto il campo di Jabaliya ieri e oggi
Non so più come preoccuparmi o rassicurarmi.
Questo torpore non è normale
Niente mi interessa davvero
Martedì 7 novembre
Buongiorno
Dall’inizio della guerra, esattamente trenta giorni fa, ho evitato di scrivere degli orrori che stiamo subendo all’istante e ininterrottamente a Gaza. Ho persino evitato di parlare con i giornalisti stranieri e locali che mi hanno contattata, alcuni dei quali sono vecchi amici o amici di amici. Mi sono sottratta usando vari pretesti e giustificazioni, tra cui il frastuono dei tanti bambini che mi circondano e il mio stare in agguato delle loro piccole guerre, cercando di prevenirle prima che scoppino o di spegnerle appena iniziano. E io sono la nonna che cerca di essere ferma ed equa tra i suoi nipoti e i tanti altri bambini che si trovano qui, dove abbiamo trovato rifugio da Gaza City, da cui siamo fuggiti due volte con la famiglia e i parenti di mia nuora; prima fuggendo in due diversi alberghi, poi di nuovo fuggendo dai miei parenti qui nel campo di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.
I miei tentativi spesso sono falliti, perché i bambini sono andati totalmente e incredibilmente fuori controllo e si sono riempiti di violenza e ferocia usando le mani, i piedi e i denti per attaccarsi l’un l’altro. Alcuni di loro non piangono o urlano più durante i litigi, né mentre colpiscono né mentre vengono colpiti. A volte ci accorgiamoche sta scoppiando una rissa dal rumore degli schiaffi o da qualcosa che cade accanto a loro. Salma, [mia nipote] che ha esattamente due anni e mezzo, cammina e prende a pugni gli altri, grandi e piccoli, a destra e a manca, senza preavviso. Sono svuotata da queste battaglie, dal tentativo di prevenirle o di porvi fine o di calmare i miei pensieri quando finiscono. E mi sono convinta di essere impegnata in questa grande missione che mi ha distratta da interviste alla stampa che non mi avrebbero nutrito né placato la mia fame. Poiché ciò che è proibito e ciò che è lecito sono ovvi, e chi non riesce a vedere attraverso il proprio filtro [morale] che i palestinesi hanno una giusta causa è cieco, e non vedrà e non capirà mai nulla, né dalle interviste alla stampa né da altro… Inoltre, le stazioni televisive trasmettono in diretta il bombardamento dei quartieri e delle case affollate e degli edifici che cadono sulle teste dei loro residenti; il bombardamento degli ospedali con i loro feriti, e delle scuole e delle chiese con le loro migliaia di sfollati. Quindi, cosa possono aggiungere le mie parole a questo mondo sordo e cieco? Niente…
Oltre al compito di prevenire le guerre tra bambini, ho un altro compito, non meno importante, che è quello di gestire le scorte alimentari. Si tratta di cucinare e poi distribuire le razioni tra uomini, donne e bambini, di ricevere il pane e conservarlo attraverso l’essiccazione, nascondendolo al vecchio gatto bianco che ogni notte entra dalla finestra in cerca di cibo. A questi compiti segue la supervisione dello smaltimento della spazzatura che si accumula ogni giorno, in modo che il gatto non la trovi e la sparpagli per tutta la casa mentre noi dormiamo… Ti prego, non sottovalutare questi miei compiti, perché sono molto più importanti delle chiacchiere con la stampa, molto più facili dell’uso di Internet, che è intermittente e instabile, e più comodi per me che parlare in inglese, di cui non mi è rimasto nulla in testa… E per essere ancora più onesta, non sono nemmeno in grado di parlare in arabo con scioltezza, anzi mi ci vuole tempo per ricordare un sacco di significati, parole, nomi ed espressioni… Questo stato mi fa sentire come se mi fossi appena svegliata dal sonno o da un coma…
Concordiamo quindi sul fatto che svolgo preziose missioni sul campo nei luoghi di sfollamento in cui ci siamo rifugiati. Infatti, mio nipote di 44 anni mi ha conferito il titolo di Ministro della Nutrizione e dell’Approvvigionamento, di cui sono molto felice. La mia soddisfazione è solo guastata dai rumori dei bombardamenti vicini e lontani, e dal rumore dei generatori a gas, cherosene e benzina usati per portare l’acqua sui tetti, pesanti di cisterne, legna da ardere, scarpe vecchie, tappeti logori, bottiglie di plastica vuote e rottami vari; oltre al filo per lavare i panni lavati a mano e ancora intrisi d’acqua perché le mani stanche delle donne non sono riuscite a strizzarli a sufficienza. Soprattutto perché la maggior parte di loro sono donne molto giovani che non hanno mai dovuto lavare i panni a mano nel breve arco della loro vita, tra una guerra e l’altra, negli ultimi 15 anni… Sì, in questi anni abbiamo sofferto di regolari interruzioni di corrente, ma la maggior parte delle donne è stata in grado di continuare a lavare il bucato in lavatrice programmandole in funzione di quando l’elettricità era disponibile, nelle guerre precedenti l’elettricità non è mai stata tagliata in maniera così totale, continua e completa come in questa guerra…
Ma torniamo alle mie preoccupazioni quotidiane che mi hanno distratta dal parlare e scrivere di questa guerra. Come accertarmi quotidianamente di come stanno i miei colleghi e colleghe di lavoro e rispondere alle amiche che ci contattano costantemente per sapere come stiamo. Questo è uno dei compiti che svolgo, sia che siapossibile chiamare con il cellulare o scrivere un messaggio di gruppo su WhatsApp, a seconda di ciò che èreso disponibile dalla rete [di comunicazione].
Seguo anche le notizie delle lotte quotidiane tra gli sfollati sovraffollati, decine di loro che vivono l’uno sull’altro in piccole case stipate l’una accanto all’altra lungo gli stretti vicoli del campo, anche questa è una delle mie preoccupazioni… Oh Dio, quanta gente è stressata, spaventata e nervosa… Saranno necessari anni di cure per liberarci della situazione in cui ci troviamo, se non saremo già stati liberati dalla vita prima di allora… Saranno necessari anni di ricostruzione per compensare ciò che è stato distrutto, e saranno necessari altri anni per documentare e registrare gli orrori che stiamo vivendo, orrori che non sappiamo quando finiranno. E non sappiamo se saremo qui ad assistere alla loro fine o se assisteremo alla nostra di fine?
Questo accade notte dopo notte a Rafah. Sto scrivendo e sono piena di una grande paura. Che Dio ci protegga.
È stata la nostra notte più dura a Rafah.
Mercoledì 8 novembre
Ieri ho saputo che la nostra casa [a Gaza City] è stata distrutta, così come l’intero quartiere.
Sono molto preoccupata per le nostre cose personali
Ci sono ladri a Gaza
Rubano negli edifici distrutti
Non sono preoccupata per le cose che possono essere sostituite
Sono preoccupata per i nostri album fotografici
I ricordi
Comunque, sono fortunata ad essere viva
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LIBRI. Amin Maalouf: da Tsushima a Gaza, il crepuscolo dell’Illuminismo?
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Di Antoine Courban – lorientlejour.com
(traduzione a cura della redazione)
La guerra di Gaza che si svolge davanti ai nostri occhi sembra essere il naturale epilogo del saggio di Amin Maalouf, “Il labirinto dei perduti. L’Occidente e i suoi avversari”. L’opera si apre con la sconfitta militare russa nel 1905 contro il Giappone, di fronte all’isola di Tsushima. Si conclude con angoscianti interrogativi sulla guerra ucraina, sul futuro dell’Occidente e del mondo, che ricordano i lamenti di Teodoro Metochita (1270-1332). Un secolo prima della caduta di Costantinopoli, quest’ultimo scriveva nel suo Threnes sul declino dell’Impero Romano: “Un’immensa tristezza mi attanaglia quando penso alle prove passate (…) Ma è soprattutto del futuro che mi aspetta Mi è doloroso parlare: come potranno questi innumerevoli sconvolgimenti e il destino inesorabile portare alle prove future e al naufragio finale? “. Per Maalouf, la confusione inizia quando “un leader si chiede se ha ragione a considerarsi offeso e a voler punire i suoi avversari” (p. 434) invece di affermare militarmente il proprio interesse.
La guerra di Gaza rivela il fallimento morale dei principi apparentemente universali che l’Occidente ha condiviso con tutti i membri dell’unica famiglia umana. Chiudendo il libro ci troviamo a chiederci: “Gaza sarà la tomba dell’Aufklärung e della supremazia occidentale? » L’Illuminismo tramonta oggi nel crepuscolo di una modernità performante, inebriato dall’odio identitario, avendo esaurito le risorse spirituali che avrebbero potuto servire da filo di Arianna per coloro che si sono persi nel labirinto della storia.
Nelle 437 pagine del suo saggio, Amin Maalouf mostra un affresco monumentale della civiltà più brillante, efficiente ed eccezionale della storia umana. Puoi amare o odiare l’Occidente. Tuttavia, la sua civiltà e cultura sono servite da ideale e modello da seguire per cinque secoli. Lodiamo i suoi progressi senza precedenti nella scienza. Lo ammiriamo per i suoi successi che hanno migliorato le nostre condizioni di vita. È temuto per il suo potere. Amin Maalouf ci fornisce delle tappe precise che ci permettono di confrontare l’impresa luminosa, intellettuale e tecnica dell’Occidente con il suo lato oscuro, quello che lo precipita nella peggiore trappola della natura umana: l'”eccesso”, questa formidabile arroganza, faustiana e prometeica. tentazione allo stesso tempo. È tradizionalmente espresso dall’ottimismo storico e personificato dal concetto di progresso che ha entusiasmato i popoli del mondo con la sua utopia di poter raggiungere il paradiso in terra, attraverso la sola volontà dell’uomo. Ottimismo storico significa che abbiamo tutta la verità e che “non contiamo su niente e nessuno se non su noi stessi e sulla lotta” (E. Roudinesco). Ahimè, nessuno aveva pensato che l’eccesso avrebbe influito sul progresso stesso. Il 21° secolo ne è un sanguinoso esempio.
Amin Maalouf ripercorre cinque secoli di ascesa verso le vette dell’arroganza. Mostra come l’ottimismo storico occidentale sia diventato, attraverso la mimica, universale. Tre esempi storici illustrano questa evoluzione: il Giappone, la Russia, la Cina, prima di avvicinarsi agli Stati Uniti d’America, punto finale e fortezza dell’Occidente.
Tutti i paesi volevano imitare il modello per aumentare il proprio benessere ma soprattutto la propria politica di potere. Purtroppo, l’assolutismo morale occidentale non ha mancato di umiliare i suoi imitatori che, a loro volta, hanno fatto lo stesso. Il Giappone Meiji si occidentalizzò ma presto cominciò a umiliare la sua vecchia nutrice, la Cina. Quando lo squadrone russo fu distrutto nel 1905 dalla flotta giapponese, il mondo intero si rallegrò. Il nemico del Giappone, il cinese Sun Yat Sen, ha dichiarato: “Abbiamo visto la sconfitta della Russia da parte del Giappone come la sconfitta dell’Occidente da parte dell’Oriente. » Stessa storia con l’indiano Jawaharlal Nehru.
Il saggio di Maalouf apre la strada a una serie di interrogativi sul dispiegamento di questa hybris, chiaramente percepita fin dagli albori del pensiero greco, divenuta oggi paradigma globalizzato. Eschilo la chiama figlia dell’Empietà. Per Ovidio è figlia della Notte. Esopo la vede come un’inseparabile compagna di guerra. È arroganza scandalosa, fiducia sproporzionata in se stessi e nelle proprie capacità, presunzione volontaristica, convinzione di superiorità di valore, fede aggressiva in una sorta di messianismo secolarizzato. Oscura la coscienza morale, acceca ogni visione a lungo termine, in breve acceca la sua vittima e la fa perdere nel labirinto. L’uomo di questo modello è coraggioso, inventivo, audace fino all’incoscienza, persino sfacciato. Pensa di dominare la Natura anziché Dio, grazie alla sua tecnoscienza. Resta segnato dal pregiudizio inestirpabile dell’assolutismo morale. È convinto della sua invincibilità, che lo autorizza a umiliare gli altri.
Tutti questi tratti potrebbero essere riassunti in quella che Evagrio Pontico (345-399 d.C.) chiama Philautia, la prima, più grave e formidabile malattia della mente. Philautia è un’autoindulgenza viziosa e smodata. Va ben oltre il volgare narcisismo psicopatologico o l’egoismo ombelicale, perché è soprattutto consapevole e razionale. Sfrutta le facoltà più nobili della mente: intelligenza e volontà. Il male non può nulla senza il libero arbitrio dell’uomo. L’antropologia culturale riconosce nella versione occidentale della Philautia una cieca adesione alla cosiddetta Ragione universale ma che è, in ultima analisi, “giudice e parte, sentenza senza appello e memoria vincolante, carica di implicite minacce” (L. Poliakov). L’Hubris rimane inseparabile dal suo alter ego, Nemesis o vendetta che si scatena contro chiunque superi i limiti di ciò che è umanamente possibile. La cacofonia bellicosa e immorale del mondo lo dimostra.
Per raccontare l’aspetto politico e conquistatore di questo eccesso prometeico, Amin Maalouf comincia con la visita del commodoro Matthew Perry (1794-1858) in Giappone, a capo di un grande squadrone, allo scopo di forzare la mano alle autorità per concludere un trattato commerciale. Calpestando le usanze del protocollo giapponese, si presentò a Edo (Tokyo), sede dello Shogun e non a Nagasaki, unico porto dove potevano attraccare gli stranieri. Perry aveva valutato attentamente la sua sfrontatezza. “Doveva dare l’impressione di totale fiducia in se stesso, come se non temesse nulla. » (pag. 30). I giapponesi non punivano gli insolenti ma temporeggiavano. Iniziò così l’era Meiji, durante la quale il Giappone si modernizzò fino a distruggere la flotta russa nel 1905.
Ma come è emersa l’arroganza della modernità? Un’antologia di storia delle idee potrebbe spiegarlo. C’è sicuramente il Rinascimento, la Riforma protestante, la nascita della scienza moderna ma soprattutto la secolarizzazione del cristianesimo. L’idea prometeica del progresso sarebbe “come un’altra formula del peccato originale perché, gustare il frutto dell’albero della conoscenza, è sapere tutto di tutto, in altre parole, ancora una volta, eguagliare Dio” (Michel Onfray) . Questa inversione dell’idea cristiana della caduta implica una salvezza senza salvatore, opera dell’uomo; presuppone un’escatologia realizzata quaggiù. La modernità ha rivelato un confronto bellicoso tra un “Io umano” e un “Sé divino”, una sorta di guerra metafisica che non cessa di produrre i suoi effetti devastanti su ciascuno di noi. Ha generato ideologie che hanno divinizzato la società. Le ideologie oggi sono morte; permangono conflitti di identità. “Ogni crisi d’identità è una crisi messianica e la storia delle utopie ci mostra che nelle fasi di disgregazione sociale c’è sempre stato messianismo». (F. Thual) Questo tratto è iscritto nel Cristianesimo fin dalla Tarda Antichità. L’Occidente cristiano è segnato da due dottrine eterodosse: il pelagianesimo prometeico che proclama la salvezza attraverso le opere dell’uomo; e lo gnosticismo faustiano che insegna la salvezza attraverso la conoscenza. Il movimento gnostico occidentale più influente è il Gioachimismo, studiato magistralmente da Henri de Lubac (La posterità spirituale di Joachim de Flore). Pelagianesimo e gnosticismo gioachimita sono proprio i due pericoli della modernità contro cui l’attuale papa Francesco conduce la lotta in nome di una riconciliazione dell’uomo con la natura e con se stesso. La lettera Placuit Deo (2018) e l’esortazione Gaudete et Exultate (2018) spiegano i rischi dell’arroganza. Philautia richiede intelletto e volontà per produrre i suoi effetti distruttivi.
Dopo cinque secoli di supremazia occidentale, ora che le ideologie sono morte, il mondo si ritrova travolto dalle turbolenze di un presunto conflitto di valori. Da un lato, l’Occidente ebbro delle proprie utopie e dell’ondata di wokismo che è il culmine della smaterializzazione gnostica della realtà. Di fronte, il campo dell’ordine e del potere coercitivo, in nome dei valori tradizionali, soprattutto religiosi. In mezzo a questo caos, migliaia di persone innocenti muoiono in Ucraina e nella terra dove è nato Cristo.
Quale rimedio contro Philautia? Senza dubbio la Dichiarazione di Abu-Dhabi sulla Fraternità Umana (2019). Ma questa è solo una dichiarazione di intenzioni. Come possiamo tradurre politicamente questo documento in relazione a Gaza? Ora che abbiamo spente le lampade dell’illuminazione, la fraternità potrebbe convincerci, come Paolo di Tarso, che «anche se parlo tutte le lingue degli uomini e degli angeli, se non ho carità, mi manca l’amore, sono solo un ottone risonante, un cembalo tintinnante”. (1 Corinzi 13:1).
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In Cina e Asia – Hong Kong: la polizia condanna la fuga in Canada dell’attivista Agnes Chow
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L’impatto delle forzature di bilancio tedesche sulle nuove regole Ue
Il governo tedesco sembrava aver assecondato il noto motto di Henry Kissinger: “Le cose illegali le facciamo subito, per quelle incostituzionali ci mettiamo un po’ di più”. Tuttavia, dopo che proprio la Corte di Karisruhe ha smontato l’utilizzo abusivo dei “fondi speciali” extra bilancio, Berlino deve cercare di quadrare i bilanci 2023 e 2024 entro poche settimane, con soluzioni che inevitabilmente avranno conseguenze anche sul contemporaneo negoziato sulle nuove regole fiscali europee.
La sentenza della Corte ha reso inutilizzabili 60 miliardi di fondi per spese già programmate, un ammontare che pone Berlino di fronte a un problema politico più che finanziario. Nel 2023, infatti, le spese verranno coperte in gran parte con l’aumento del fabbisogno federale. In tal modo però il disavanzo 2023 supererà i limiti del “freno al debito”, la norma costituzionale del 2009 con cui la Germania si è autoimposta un tetto dell’indebitamento federale pari allo 0,35% del Pil (più un fattore ciclico). Per poterlo fare, il cancelliere Scholz ha deciso di invocare “la clausola di emergenza” che sospenderebbe il “freno” anche quest’anno.
La Cdu, il maggior partito di opposizione, ha assicurato che non contesterà la legittimità di questa iniziativa. Diverso il caso in cui Scholz evocasse la clausola di emergenza per il 2024, una tentazione cullata alla cancelleria a fronte di un buco ancora più ampio, legato a un altro “fondo speciale”, e che è quasi impossibile calcolare. Il governo stima un buco di 17 miliardi ma c’è chi calcola sia almeno doppio. La Cdu però si opporrebbe di fronte alla Corte perché ritiene possibile tagliare spese federali per 125 miliardi senza conseguenze recessive se “solo” si riducesse la burocrazia che frena la spesa per investimenti già a bilancio. Una tentazione del governo è allora di ricorrere ai prestiti del programma Next Gen Eu che Berlino non ha richiesto finora, limitandosi ai trasferimenti “gratuiti”. Si tratterebbe di una mossa di rilevante significato per l’Europa, perché accentuerebbe l’importanza di fondi finanziati da debito comune anche per un Paese che può finanziarsi sul mercato a tassi inferiori a quelli dell’Ue.
Più complessa è la questione se la Germania riconoscerà l’evidenza dei problemi causati da una regola rigida, economicamente e giuridicamente, quale il “freno al debito”. Il governo ritiene che una revisione della norma sia augurabile, ma per attuarla è necessario il voto favorevole di due terzi del Parlamento e deve quindi ottenere il consenso dell’opposizione. L’opzione del governo è di escludere dal calcolo del disavanzo le spese per investimenti in settori come la transizione ambientale e quella digitale. Oppure di classificare tali settori come rilevanti ai fini costituzionali, consentendo la creazione di “fondi speciali” extra bilancio (come è già successo per la Difesa). Anche questa opzione avrebbe conseguenze nel confronto europeo perché legittimerebbe deroghe simili in altri Paesi, o addirittura potrebbe essere trasposta in fondi speciali comuni a carico del bilancio comunitario con vaste implicazioni politiche perché la responsabilità delle scelte farebbe poi capo alla Commissione Ue. Decisiva è la posizione della Cdu che si oppone ala revisione del “freno” a livello federale, sostenendo che esso sia già flessibile grazie al fattore ciclico che quest’anno, per esempio, autorizzerebbe un disavanzo ulteriore di circa 20 miliardi.
La Cdu è invece possibilista nel caso di una riforma del “freno”, ancora più rigido, applicato ai Länder, ai quali è richiesto un pareggio di bilancio senza attenuazioni cicliche. Fonti della Cdu si dicono infine contrarie a eccezioni per le spese per clima ed energia. Un compromesso nel corso del 2024, tuttavia, non è da escludere. La Cdu, infatti, riconosce ora il problema dei Länder perché è al governo in alcuni di essi. Potrebbe avvertire il problema anche a livello federale qualora, come previsione generale, vincesse le elezioni del 2025. In quel caso, inoltre, dovrebbe formare una coalizione di governo con un altro partito dell’attuale coalizione e negoziare un accordo offrirebbe il pretesto per “concedere” la riforma del “freno”.
L’opposizione è invece contraria alla creazione di nuovi “fondi speciali” a livello europeo. La questione si porrà a breve con il finanziamento dei fondi per l’Ucraina, di cui anche la Cdu riconosce l’irrinunciabilità. Secondo la Cdu, istituire un veicolo ad hoc (appunto un fondo speciale europeo) incorrerebbe in problemi di compatibilità giuridica di fronte alla
Corte tedesca. I fondi, quindi, dovrebbero provenire dal bilancio degli Stati, ma qui sorge un altro problema: informalmente Berlino sta trattando non solo per evitare un aumento, ma addirittura per ottenere la riduzione di un terzo del contributo tedesco alle casse comunitarie. Intanto il negoziato sulle regole europee si sta avvicinando a una conclusione. Tutti i governi sono convinti che il Consiglio Ue debba trovare l’accordo entro fine anno. Proprio la ristrettezza dei tempi renderà ancora più confuso un negoziato in cui si combinano interessi molto diversi: a fronte della richiesta tedesca di inserire nella proposta di riforma della Commissione due clausole di salvaguardia (la riduzione del rapporto debito-Pil di un punto percentuale ogni anno e un calo del disavanzo strutturale di mezzo punto, valide per tutti), si negozierà un approccio più flessibile nella valutazione delle condizioni eccezionali che giustifichino le deroghe, nonché una maggiore flessibilità nell’utilizzo dei fondi di Next Generation-Eu o di altre risorse.
La Repubblica
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La crescita dei budget premia l’Europa. Ecco i dati Sipri sulle spese militari
Nonostante l’aumento della richiesta dovuto alle rinnovate esigenze di difesa e deterrenza (e, anzi, in parte proprio a causa delle difficoltà nell’incontrare la crescita di domanda) il fatturato delle prime cento aziende della difesa su scala globale è diminuito. Sono i dati riportati dall’autorevole Stockholm international peace research institute (Sipri), che prende in considerazione le vendite nel settore difesa dei primi cento produttori al mondo. Secondo i dati dell’istituto svedese, rispetto all’anno scorso il fatturato è sceso del 3,5 punti percentuali su base annua, raggiungendo i 597 miliardi di dollari. Le vendite militari globali nel 2021, per fare un paragone, avevano registrato una crescita dell’1,9% rispetto al 2020, raggiungendo quota 592 miliardi di dollari. La novità è l’inversione di tendenza rispetto alla crescita degli anni precedenti. Il 2021, per esempio, è stato il settimo anno consecutivo a registrare un aumento.
Frenano gli Usa
L’interruzione di questo trend colpisce in particolare se lo si mette a paragone con il clima di crescente necessità globale di dotarsi di sistemi di difesa e deterrenza. Il cambio di paradigma globale iniziato il 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina, infatti, ha aumentato in tutto il mondo la richiesta di strumenti militari, con un parallelo aumento dei budget allocati per la Difesa. A contrarre in particolare i numeri è stato – sorprendentemente – il dato degli Stati Uniti, dove si registra un calo del 7,9%. Negli States si concentrano 42 delle prime cento aziende della difesa prese in considerazione da Sipri, e gli Usa coprono comunque il 51% dell’intera quota di ricavi ottenuti dal settore.
Il peso della domanda globale
A causare la flessione nei ricavi statunitensi, dice l’istituto di Stoccolma, è stata una combinazione di carenza di manodopera e incremento dei costi di fronte alla necessità di soddisfare immediatamente la crescente domanda internazionale. Gli Usa, del resto, sono il principale fornitore di sistemi d’arma per la difesa ucraina, per fare solo un esempio, e si sono dovuti immediatamente addossare la responsabilità maggiore nel rifornire il Paese invaso degli strumenti indispensabili per la propria difesa. A questa crescita di richiesta da Kiev (concentrata in particolare nel settore delle munizioni d’artiglieria e dei sistemi di difesa aerea) non ha fatto però da contrappeso una diminuzione di richieste da altre regioni, anzi. Numerosi Paesi europei si sono dovuti rivolgere all’alleato Usa per potenziare le proprie difese nel breve termine (per citarne solo due, la Germania con gli F-35 e la Polonia con i carri Abrams).
Cresce l’Europa
L’aumento dei budget allocati dagli Stati e la possibilità di concentrarsi maggiormente sulle necessità domestiche sembrano invece aver favorito le realtà europee (26 delle Top100). Nel Vecchio continente è confluito il 20% circa degli investimenti globali, con un aumento delle vendite che ha premiato in particolare i consorzi transeuropei, quelle realtà, definite da Sipri, le cui strutture proprietarie e di controllo sono situate in più di un Paese europeo. Per loro la crescita è stata di quasi dieci punti percentuale (per fare un esempio, Airbus ha aumentato dell’17%). A beneficiare delle crescite sono state soprattutto le realtà di quei Paesi che hanno visto l’aumento più consistente dei propri budget per la Difesa, in particolare Germania e Polonia.
Il resto del mondo
Il principio generale di aumento dei ricavi dovuto a un aumento della richiesta di fronte al facilitarsi dello scenario di sicurezza si ripete anche in altre regioni del globo. I dati del rapporto Sipri, riferendosi all’anno passato, non hanno preso in considerazione l’acuirsi del conflitto tra Israele e Hamas, tuttavia le tensioni registrate nella regione anche prima del 7 ottobre, hanno portato a una crescita dei ricavi per le realtà mediorientali, che hanno visto l’aumento maggiore su scala globale, in particolare in Turchia (+22%) e Israele (+6,5%). Anche nell’Indo-Pacifico la situazione è simile, con tutti i principali attori della regione, Cina, India, Giappone e Taiwan, le cui aziende hanno beneficiato degli aumenti dei budget per la Difesa.
La situazione in Italia
Nonostante l’ottimo posizionamento delle realtà italiane, con Leonardo al 13esimo posto a livello globale (confermandosi la prima realtà dell’Unione europea e la seconda in Europa dopo BAE Systems) e di Fincantieri (salita di due posizioni al 46esimo posto), il fatturato complessivo delle realtà italiane è diminuito del 5,6%. Con un fatturato di 12 miliardi di dollari e mezzo, un calo del 7%, la società di Piazza Monte Grappa è stata penalizzata, secondo il Sipri, in particolare dall’inflazione. Infatti i ricavi complessivi delle vendite di sistemi militari sono cresciuti in termini nominale. Gli effetti dell’inflazione e della riduzione dei ricavi dovuta alla diminuzione delle consegne di Eurofighter al Kuwait, secondo l’istituto di Stoccolma, non sono stati compensati abbastanza dai buoni risultati in altri settori.
Gli Usa pianificano il nuovo ecosistema dell’industria della difesa. Come sarà
Nelle prossime settimane il governo degli Stati Uniti rilascerà per la prima volta un documento di recente concezione, la National Defense Industrial Strategy. Si tratta di una chiara tabella di marcia per la definizione delle priorità e dell’ammodernamento della base industriale militare degli Stati Uniti, così da rendere tutto adatto e adattabile a fronteggiare le sfide del nuovo millennio. “Una strategia che intende catalizzare un cambiamento generazionale che guiderà l’attenzione del dipartimento, lo sviluppo delle politiche, i programmi e gli investimenti nella base industriale per i prossimi tre-cinque anni” secondo Laura D. Taylor-Kale, assistente del segretario alla Difesa per la politica della base industriale (che a sua volta è, dal marzo di quest’anno, la prima ad occupare questa posizione di recente istituzione, a dimostrazione del rinnovato interesse del governo verso questo aspetto determinante per il raggiungimento degli obiettivi strategici).
In attesa della sua presentazione ufficiale da parte del sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione e il sostentamento William LaPlante, il documento già circola tra gli addetti ai lavori sotto forma di bozza. I resoconti, tutt’altro che ottimistici, spiegano il perché Washington ha prioritarizzato il tema.
Secondo quanto riportato nell’elaborato infatti, la base industriale statunitense “non possiede la capacità, l’abilità, la reattività o la resilienza necessarie per soddisfare l’intera gamma di esigenze di produzione militare in velocità e su scala” e che “in modo altrettanto significativo, i tradizionali appaltatori della difesa si troverebbero a dover rispondere ai conflitti moderni con la velocità, la scala e la flessibilità necessarie per soddisfare i requisiti dinamici di un conflitto moderno di grande portata”.
Le conseguenze di tali momentanee deficienze industriali sono facili da intuire. “Questo disallineamento rappresenta un rischio strategico crescente, in quanto gli Stati Uniti si trovano ad affrontare l’imperativo di sostenere le operazioni di combattimento attive e allo stesso tempo di scoraggiare la minaccia più grande e tecnicamente più avanzata che incombe nell’Indo Pacifico” si legge nel documento, per sottolineare come nel suo attuale stato l’apparato militare-industriale nazionale non sia in grado di soddisfare i requisiti posti da un sistema internazionale in costante e relativamente rapida evoluzione.
Per questo Washington pianifica un ammodernamento profondo.
La fusione delle aziende nel periodo post-guerra fredda ha causato una contrazione dell’apparato della difesa, mentre nello stesso lasso di tempo la Repubblica Popolare Cinese è diventata un centro industriale globale, specialmente nella costruzione navale, nei minerali critici e nella microelettronica. L’industria cinese, dice il draft disponibile, “supera di gran lunga la capacità non solo degli Stati Uniti, ma anche la produzione combinata dei nostri principali alleati europei e asiatici”. Con la pandemia da Covid-19, l’invasione russa dell’Ucraina, e da ultimo l’attacco di Hamas che hanno fatto emergere le inefficienze e le criticità nel sistema logistico e nel sistema produttivo statunitense, che si è ritrovato a dover produrre una quantità di materiale estremamente superiore rispetto a quanto preventivato. Evitare la risposta emergenziale è parte della pianificazione.
All’interno di un intervento al Reagan National Defense Forum, LaPlante ha asserito che la strategia elaborata sarà eseguita a stretto contatto con l’industria: il Pentagono presenterà chiaramente le sue future esigenze di acquisto, permettendo alle aziende partner di modulare adeguatamente i propri investimenti in nuove fabbriche e in ricerca e sviluppo. La strategia prevede inoltre uno sviluppo “di catene di approvvigionamento più resistenti e innovative”, l’investimento nelle piccole imprese e un maggior focus sull’innovazione. Guardando anche fuori dai confini nazionali: “Dobbiamo sollecitare operatori di tutti i tipi, grandi e piccoli, nazionali e stranieri, e quelli che non hanno mai avuto a che fare con il Dipartimento della Difesa o con la produzione della difesa”.
Milei, un punto nero in America Latina
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di Tiziano Ferri –
Pagine Esteri, 4 dicembre 2023. Il neoeletto presidente argentino Javier Milei non è solo un iperliberista, come in America Latina se ne sono visti in diverse ondate, dagli anni ‘90 in poi. L’ideologia anarcocapitalista che Milei fonda sulla “guerra alla casta” (con cui in passato ha collaborato come consulente governativo) si permea anche di autoritarismo rispetto al conflitto sociale, di revisionismo sulla repressione militare ai tempi del golpe civico-militare, e di fanatismo religioso. Con la vicepresidente eletta Victoria Villarruel, ultra-cattolica, figlia di un generale dei tempi di Videla, Milei è contrario all’aborto e mette in dubbio i 30.000 desaparecidos. Criticando l’argentino papa Francesco, sostiene che la giustizia sociale è il male della società, un furto, perché consiste nel “rubare il frutto del lavoro di una persona per darlo ad un’altra”. Nel caso in cui il mercato non risponda proprio a tutti i bisogni, Milei ha messo in chiaro la sera della vittoria che l’eventuale opposizione sociale dovrà rispettare un principio generale: “Dentro alla legge, tutto, fuori dalla legge, niente”.
In un subcontinente dove buona parte dei presidenti vengono da storie di opposizione ai regimi militari, esaltano la solidarietà e l’intervento statale come elemento cardine delle politiche sociali, seguono multilateralismo e difesa dei diritti umani in politica estera, l’elezione di chi vuole tagliare i ministeri sociali, punta alla dollarizzazione del peso, e sostiene l’intervento israeliano a Gaza, può creare qualche squilibrio. O un riequilibrio. Ciò che gli Stati uniti (e Israele) hanno perso con l’elezione di Gustavo Petro in Colombia, per decenni avamposto politico e militare dell’impero in America Latina, potrebbe essere bilanciato con il nuovo corso in Argentina. A partire dalla mancata adesione del paese ai Brics, programmata dal gennaio 2024, e già sconfessata dalla neo nominata ministro degli esteri Diana Mondino: “Non entreremo nei Brics”. E anche l’appartenenza al Mercosur (Argentina, Bolivia, Brasile, Paraguay e Uruguay), considerato una zona economica stagnante, vacilla. Milei sostiene che non sono gli stati a dover promuovere gli accordi economici, perché il mercato si regola da sé, e se i produttori dovessero rinunciare agli accordi con Brasile e Cina (90% dell’export di 5 province argentine), i prodotti si venderebbero a qualche altro paese.
I rapporti coi vicini di casa, però, partono col piede sbagliato. Quando il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador dichiarò il suo sostegno a Petro per le presidenziali colombiane del 2022, Milei lo considerò “patetico, pietoso, ripugnante”. Colse l’occasione per allargare il giudizio negativo a tutti i membri del “nefasto” Gruppo Puebla, un forum che riunisce personalità progressiste di alto livello del mondo iberoamericano. L’allora deputato argentino mise in guardia colombiani e altri popoli latinoamericani sul fatto che “la libertà, quando si perde per mano di questi assassini, è molto difficile da recuperare”. Di questo gruppo fanno parte gli attuali governanti di Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Cuba, Guatemala, Honduras, Messico, Panama e Venezuela, oltreché lo spagnolo Sánchez. A fronte di un cospicuo numero di stati che cercano di limitare le disparità indotte dal neoliberismo, l’Argentina di Milei troverà sicuramente degli alleati nell’Ecuador e nel Paraguay dei multimilionari Daniel Noboa e Santiago Peña, nell’Uruguay del conservatore Luis Lacalle Pou, e nel Perù della golpista Dina Boluarte. Con l’aggancio del peso argentino al dollaro, inoltre, si stringeranno i rapporti con Washington, con cui il presidente liberal libertario, come si autodefinisce, vuole sviluppare una partnership strategica. Allontanandosi dagli accordi regionali e dal multilateralismo, quella che il nuovo presidente argentino cerca di far passare come una posizione di ritrovata autonomia, è in realtà una ricollocazione del paese a fianco di Usa e Israele. Non per caso, ha deciso di fare il primo viaggio da presidente eletto negli Stati uniti, sia per rapportarsi col Fondo monetario internazionale sulla gestione del debito argentino, sia per incontrare esponenti filosionisti della comunità ebraica newyorkese. Ciò è coerente con la dichiarata volontà di convertirsi al giudaismo, spostare l’ambasciata argentina da Tel Aviv a Gerusalemme, ed effettuare presto una visita in Israele per appoggiare l’operato di Netanyahu. Anche questo collide con la posizione di molti paesi latinoamericani critici con la politica israeliana, tanto da aver interrotto le relazioni o richiamato gli ambasciatori dallo stato ebraico.
Visti gli esigui numeri a disposizione nel congresso, il nuovo capo dello stato si è affrettato a stringere un’alleanza con la formazione del conservatore Mauricio Macri, già presidente dal 2015 al 2019. Sebbene Milei ne abbia duramente criticato la gestione, è innegabile il ruolo determinante di Macri, sia nel recente ballottaggio che per la vita del prossimo governo. Questo potrebbe in parte ridimensionare le posizioni più estreme di Milei, come l’eliminazione della banca centrale e la liberalizzazione della vendita di organi. Rientra in questo quadro il ritiro di due ministri già designati da Milei, e riassegnati al partito di Macri, a cui andranno gli importanti dicasteri della sicurezza e dell’economia. Quando il fumo della campagna elettorale, condotta da Milei brandendo una motosega con gli occhi spiritati, svanirà, probabilmente apparirà una riedizione della politica di Macri, maggiormente liberista, repressiva e allineata a Washington. Pagine Esteri
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Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: lezione del prof. Mario Trimarchi sul tema “La proprietà e le proprietà”
Undicesimo appuntamento dell’edizione 2023 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e la Fondazione Bonino-Pulejo. Il corso, giunto alla sua tredicesima edizione, si articolerà in 15 lezioni, che si svolgeranno sia in presenza che in modalità telematica, dedicate alle opere degli autori più rappresentativi del pensiero liberale.
La undicesima lezione si svolgerà lunedì 4 dicembre, dalle ore 17 alle ore 18.30, presso l’Aula n. 6 del Dipartimento “COSPECS” (ex Magistero) dell’Università di Messina (sito in via Concezione n. 6, Messina); dell’incontro sarà altresì realizzata una diretta streaming sulla piattaforma ZOOM.
La lezione sarà tenuta dal prof. Mario Trimarchi (Ordinario di Diritto Privato e di Diritto Civile presso l’Università di Messina), che relazionerà sul tema “La proprietà e le proprietà in Salvatore Pugliatti”.
La partecipazione all’incontro è valida ai fini del riconoscimento di 0,25 CFU per gli studenti dell’Università di Messina.
Come da delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina e della Commissione “Accreditamento per la formazione” di AIGA, è previsto il riconoscimento di n. 12 crediti formativi ordinari in favore degli avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Messina per la partecipazione all’intero corso.
Per ulteriori informazioni riguardanti la Scuola di Liberalismo di Messina, è possibile contattare lo staff organizzativo all’indirizzo mail SDLMESSINA@GMAIL.COM
Pippo Rao Direttore Generale della Scuola di Liberalismo di Messina
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Come sta cambiando la scuola – Gazzetta del Sud
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Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: lezione del prof. Francesco Pira sul tema “Etica dell’intelligenza artificiale”
Decimo appuntamento dell’edizione 2023 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e la Fondazione Bonino-Pulejo. Il corso, giunto alla sua tredicesima edizione, si articolerà in 15 lezioni, che si svolgeranno sia in presenza che in modalità telematica, dedicate alle opere degli autori più rappresentativi del pensiero liberale.
La decima lezione si svolgerà giovedì 30 novembre, dalle ore 17 alle ore 18.30, presso l’Aula n. 6 del Dipartimento “COSPECS” (ex Magistero) dell’Università di Messina (sito in via Concezione n. 6, Messina); dell’incontro sarà altresì realizzata una diretta streaming sulla piattaforma ZOOM.
La lezione sarà tenuta dal prof. Francesco Pira (Associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Messina), che relazionerà sull’opera “Etica dell’intelligenza artificiale” di Luciano Floridi.
La partecipazione all’incontro è valida ai fini del riconoscimento di 0,25 CFU per gli studenti dell’Università di Messina.
Come da delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina e della Commissione “Accreditamento per la formazione” di AIGA, è previsto il riconoscimento di n. 12 crediti formativi ordinari in favore degli avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Messina per la partecipazione all’intero corso.
Per ulteriori informazioni riguardanti la Scuola di Liberalismo di Messina, è possibile contattare lo staff organizzativo all’indirizzo mail SDLMESSINA@GMAIL.COM
Pippo Rao Direttore Generale della Scuola di Liberalismo di Messina
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Ben(e)detto del 2 dicembre 2023
noyb fa causa a CRIF e AZ Direct per trattamento illegale e segreto dei dati
@noyb.eu ha intentato una causa contro l'agenzia di riferimento del credito CRIF GmbH e il rivenditore di indirizzi AZ Direct. Le aziende scambiano segretamente i dati degli indirizzi di quasi tutti gli adulti in Austria.
In questo modo CRIF ottiene informazioni che sono state effettivamente raccolte a fini pubblicitari, al fine di calcolare la solvibilità. Come confermato in due decisioni dall’autorità austriaca per la protezione dei dati , ciò viola il #GDPR. noyb ora, tra le altre cose, sta facendo causa per provvedimenti ingiuntivi e danni.
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Kim Bo young, la scrittrice coreana regina del genere sci-fi: "La fantascienza è un genere globale. L’Italia? L’ho amata”
Creazionismo ed evoluzionismo, scienza e teologia, passato e presente. Nei racconti di L’origine delle specie, Kim Bo-Young, voce di spicco della letteratura sci-fi coreana, mostra al lettore il mondo da prospettive inconsuete e lo fa riflettere su quesiti di portata esistenziale. Dopo la recensione della sua ultima opera, China Files le ha fatto qualche domanda per provare a conoscerla meglio e comprendere il suo successo
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In Cina e Asia – Cop28, la Cina annuncerà nuovi obiettivi
Cop28, la Cina annuncerà nuovi obiettivi
L’Ucraina fa esplodere i collegamenti ferroviari tra Russia e Cina
Xi chiede alla guardia costiera di difendere la sovranità cinese, mentre le Filippine rafforzano al sorveglianza sul Mar cinese meridionale
Cina, consigliere di stato esorta al pagamento dei salari arretrati
Cina, report evidenzia i problemi finanziari per i troppi dipendenti pubblici
Cina, cresce il debito personale
Aukus, i ministri della Difesa si impegnano a sviluppare nuove tecnologie in ambito militare
Filippine: l'IS rivendica attentato a Marawi
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INTERVISTA: “L’attacco contro Gaza e i suoi civili va avanti perché lo vogliono Usa e Europa”
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di Michele Giorgio
(questa intervista è stata pubblicata in origine da forumalternativo.ch)
(foto Wafa)
Pagine Esteri, 4 novembre 2023 – La posizione dell’Occidente è stata e resta decisiva per il consenso alla guerra di Israele contro Gaza e il movimento islamico Hamas. Il governo guidato da Benyamin Netanyahu ha più volte fatto riferimento a questo appoggio per accreditare la legittimità dell’ offensiva militare che ha fatto oltre 15mila morti tra i palestinesi. Sull’atteggiamento di Stati Uniti ed Unione europea verso Gaza e sulla sua possibile evoluzione abbiamo intervistato l’analista Mouin Rabbani, tra gli esperti principali di affari palestinesi e in passato all’International Crisis Group.
Mouin Rabbani
Mouin Rabbani, lei è uno degli analisti internazionali più assidui nel commentare gli sviluppi della guerra di Gaza e le sue gravi conseguenze in termini di vite umane e distruzioni. Quando finirà, a suo avviso, l’offensiva di Israele?
Molto dipenderà dall’atteggiamento che avranno i governi occidentali al momento tutti schierati con Israele e l’avanzata delle sue forze armate contro Gaza. C’è una convinzione che esista un livello di morte, distruzione e sofferenza oltre il quale i governi occidentali cesseranno o ridurranno significativamente la loro partecipazione di fatto alla guerra di Israele. Tuttavia, questa supposizione riflette un malinteso fondamentale sul modo in cui tali governi formulano le loro politiche. Finora, Israele ha imposto un assedio globale alla Striscia di Gaza, privando milioni di persone di tutte le forniture essenziali tranne l’ossigeno; sta radendo al suolo intere città e quartieri; ha ucciso molte migliaia di civili, tra i quali tanti bambini. Lo ha fatto come parte di una campagna di bombardamenti il cui scopo trasparente è la vendetta, la distruzione fisica e la punizione di un’intera società. Né la campagna di bombardamenti ha ridotto in modo significativo le capacità militari di Hamas e delle organizzazioni palestinesi nella Striscia di Gaza. Se il volume delle morti, delle distruzioni e delle sofferenze palestinesi avesse un peso nei calcoli dei governi occidentali, ebbene lo avrebbe già fatto sentire. Non è così e, indipendentemente da altri sviluppi, non lo farà. Mentre le forze israeliane bombardano scuole, ospedali, colonne di rifugiati, strutture delle Nazioni unite, zone autoproclamate sicure e tutte le forme di infrastrutture civili, la maggior parte dei governi occidentali continua a schierarsi in piena solidarietà con il governo israeliano. Papa Francesco è praticamente l’unico leader occidentale a non aver compiuto il pellegrinaggio da Netanyahu. I governi Usa ed europei inquadrano loro politica attorno al “diritto di Israele a difendersi”. È un diritto che non hanno mai concesso al popolo palestinese in una sola occasione.
Sta dicendo che non dobbiamo aspettarci una conclusione in tempi brevi delle offensive militari israeliane?
Fare previsioni è un azzardo in queste circostanze. Allo stesso tempo sono convinto che potrà causare un cambiamento nella politica occidentale solo il fallimento militare israeliano. Per questo l’Amministrazione Biden prova a convincere Israele a formulare obiettivi più raggiungibili della cosiddetta distruzione di Hamas che gran parte degli osservatori ritiene un traguardo irrealistico. La storia ci corre in soccorso. Nel 2006, il Segretario di Stato Condoleeza Rice accolse con entusiasmo la guerra di Israele contro Hezbollah e il Libano come “i dolori del parto di un nuovo Medio Oriente”. Fiduciosi che Israele stesse polverizzando Hezbollah, gli Stati uniti respinsero per settimane gli sforzi volti a raggiungere la cessazione delle ostilità. Quando si accorsero che l’avanzata israeliana sta andando incontro al fallimento nel sud del Libano, cambiarono tono e fecero pressioni sul Consiglio di Sicurezza dell’Onu affinché adottasse una risoluzione di cessate il fuoco. In altre parole, finché gli Usa e altri governi occidentali rifiutano una tregua a Gaza e si concentrano su oscenità senza senso come le “pause umanitarie”, significa che credono ancora che Israele riuscirà o potrà avere un successo militare completo. Se invece cominceranno a pronunciare omelie sulla sofferenza dei civili palestinesi e ad allestire una vetrina di buoni sentimenti, vuol dire che hanno capito che Israele ha fallito.
Esiste uno scenario alternativo in cui Usa e Europa costringeranno il gabinetto di guerra israeliano a fermarsi?
Dovrebbero capire che la loro condotta e quella di Israele producono non solo sofferenze terribili a milioni di civili palestinesi ma anche una minaccia significativa ai loro interessi. Ciò potrebbe assumere la forma di una crescente instabilità nella regione e di minacce ai regimi arabi alleati oltre alla prospettiva di una guerra in tutta la regione che richiederebbe un intervento diretto che gli Stati uniti non vogliono.
Dopo l’attacco di Hamas al sud di Israele che ha ucciso circa 1200 civili e soldati e ha visto la presa in ostaggio di 200 israeliani e cittadini stranieri, il premier Netanyahu ha accusato il movimento islamico di essere come l’Isis e di voler massacrare tutti gli ebrei. Una lettura dell’accaduto largamente condivisa in Occidente.
La falsificazione storica e politica non è cominciata con questa guerra. E ancora una volta chiama in causa il doppio standard dei Paesi occidentali. Qualche mese fa il leader dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha rilasciato una serie di dichiarazioni sugli ebrei d’Europa e sull’Olocausto che hanno suscitato una genuina indignazione europea. Naturalmente è giusto che la falsificazione storica venga condannata e sconfessata. Tuttavia, perché dovrei considerare le condanne europee di Abbas, quando l’affermazione fatta tempo fa da Netanyahu secondo cui l’Olocausto attuato dai nazisti e da Adolf Hitler sarebbe stato ispirato addirittura dal Mufti di Gerusalemme, Hajj Amin al-Husseini, è passata praticamente sotto silenzio? O quando il più alto funzionario dell’Unione europea, Ursula Von Der Leyen, raggiunge l’orgasmo nel suo messaggio per il 75esimo compleanno di Israele? Secondo Von Der Leyen, Israele è “una vivace democrazia nel cuore del Medio Oriente” che “ha letteralmente fatto fiorire il deserto”. Una terra senza popolo affinché un popolo senza terra continui a vivere. È forse storia vera questa?
L’Europa potrà mai svolgere un ruolo costruttivo nella questione palestinese?
Rispondo con due aneddoti. Negli anni ’90 ero amico di un diplomatico olandese distaccato a Bruxelles. Mi raccontava che i suoi sforzi per promuovere la corretta etichettatura, non con il “Made in Israel”, delle merci prodotte negli insediamenti coloniali israeliani nei Territori palestinesi occupati, sia nei Paesi Bassi che a Bruxelles, sono stati combattuti con le unghie e con i denti. Non da gruppi di pressione israeliani, ma dai suoi colleghi e superiori. È un dibattito che va avanti da decenni nonostante si tratti di una questione ampiamente chiarita e definita dal diritto internazionale dai regolamenti dell’Ue. Quindi perché dovremmo prendere sul serio l’Europa? Anni dopo ho partecipato a una cena presso l’ambasciata olandese ad Amman con deputati della commissione parlamentare dei Paesi Bassi per gli affari esteri. Il suo presidente disse che non avrebbero avuto contatti con Hamas fino a quando quest’ultimo rifiuterà l’esistenza di Israele. Quando gli chiesi se gli stessi criteri si applicassero anche all’estremista di destra Avigdor Lieberman, all’epoca astro nascente della politica israeliana, mi rispose che, a differenza di Hamas, Lieberman non faceva parte del governo israeliano. Eppure, quando Lieberman divenne ministro, è stato un partner per i governi europei pur proclamando la sua totale opposizione ai diritti dei palestinesi. Mi è capitato di trovarmi a Cipro quando il ministro degli esteri ha dato un caloroso benvenuto a Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza e tra i leader della destra israeliana più radicale e antipalestinese. Non ho dubbi che sia solo questione di tempo prima che anche Ben-Gvir venga normalizzato dalla democratica Europa. Perché i palestinesi dovrebbero prendere sul serio gli europei se si concentrano principalmente sui libri di testo palestinesi e sulla loro criminalizzazione con definizioni distorte di antisemitismo? Si è mai saputo di indagini svolte in Europa sui libri di testo israeliani che negano la storia e i diritti dei palestinesi nella loro terra?
Usa e Ue continuano a sostenere la soluzione a Due Stati, quindi la nascita di uno Stato palestinese, e manifestano sostegno a Mahmoud Abbas nel momento in cui Netanyahu lo proclama irrilevante ed esclude l’Anp da un possibile governo futuro di Gaza.
Non ho alcuna obiezione in linea di principio né alla soluzione a Due Stati né al suo appoggio da parte dell’Europa. Allo stesso tempo occorre andare oltre dichiarazioni scontate e ripetitive e guardare la realtà sul terreno. Chiedete a qualsiasi palestinese e ti dirà che l’Anp ormai serve solo gli interessi di Israele, di Usa e Europa. E più di tutto Usa e Ue dovrebbero domandarsi con obiettività se trent’anni di Accordi di Oslo (nel 1993, tra Israele e Olp, ndr) abbiano avvicinato o allontanato l’obiettivo della nascita dello Stato palestinese e la realizzazione del diritto internazionale in Medio Oriente. Data l’ovvia risposta a questa domanda, chiedo: non è forse giunto il momento di adottare un approccio diverso, in cui ci si concentri non sul dare ulteriore vita a un negoziato marcio, ma piuttosto ad avviare politiche per mettere fine al conflitto sulla base del diritto internazionale? Non credo che ciò possa avvenire nei prossimi anni. Perciò i palestinesi devono cambiare la natura del loro impegno soprattutto con l’Europa. Non devono considerare più l’Europa come un potenziale contrappeso agli Stati Uniti alleati di Israele, ma come un robusto pilastro nell’architettura dell’espropriazione palestinese. Pagine Esteri
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L'articolo INTERVISTA: “L’attacco contro Gaza e i suoi civili va avanti perché lo vogliono Usa e Europa” proviene da Pagine Esteri.
noyb cita in giudizio CRIF e AZ Direct per trattamento illegale e segreto dei dati noyb ha fatto causa per ottenere, tra le altre cose, provvedimenti ingiuntivi e danni.
La NATO dovrebbe prepararsi ad accogliere le “cattive notizie” dall'Ucraina, avverte Stoltenberg
@Politica interna, europea e internazionale
"Le guerre si sviluppano in fasi", ha detto Stoltenberg in un'intervista sabato all'emittente tedesca ARD. "Dobbiamo sostenere l'Ucraina sia nei momenti buoni che in quelli cattivi", ha detto.
"Dovremmo essere preparati anche alle cattive notizie", ha aggiunto Stoltenberg, senza essere più specifico.
politico.eu/article/nato-boss-…
NATO should be ready for ‘bad news’ from Ukraine, Stoltenberg warns
‘We have to support Ukraine in both good and bad times,’ NATO chief says in ARD interview.Bjarke Smith-Meyer (POLITICO)
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Uno sguardo fediverso all'ultima tornata di sovvenzioni di NLnet
NLNet ha annunciato 55 nuovi progetti a cui viene assegnata una sovvenzione NGI Zero. NGI Zero è il programma Next Generation Internet della Commissione Europea, che finanzia progetti che lavorano su quella che chiamano Internet di prossima generazione . Per maggiori informazioni su NLnet e NGI Zero, dai un'occhiata a questa intervista che ho fatto con NLnet quest'estate. L’ultima tornata di sovvenzioni prevede diversi progetti che si collegano in qualche modo al fediverso.
I finanziamenti riguardano i seguenti progetti:
- NodeBB
- fedidevs.com
- Bonfire
- GoToSocial
- Mobilizon
- PeerTube
- Commune, un progetto che però, a differenza dei precedenti, è basato su Matrix
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Speriamo che non ci siano prese di potere dovute al fatto che ci ha messo i soldi.
Preferirei che il modello cinese non si sviluppasse cosi tanto in occidente.
Abbiamo visto cosa si sono fidati di fare con il Chat Control, immagina quindi simili iniziative se non peggiori per i prossimi anni.
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Pechino ci vuole divisi, ma la nostra forza è nelle alleanze. Austin su Cina e Usa
È la terza volta che il generale quattro stelle dell’Esercito americano Lloyd Austin parla al Reagan National Defense Forum da capo del Pentagono. Ma stavolta il discorso (che ha tenuto sabato 2 dicembre) diventa un manifesto politico, l’eredità sua personale e in largo dell’amministrazione Biden sulla strategia militare americana. È così per il momento internazionale – le guerre in corso in Ucraina e Israele, le tensioni in altri hotspot in alte parti del mondo – e quello interno: tra un anno l’America sceglierà il suo prossimo presidente, e parte delle decisioni passeranno anche da come i candidati gestiranno certe sfide.
Seppur maggiormente orientati alle questioni nazionali, certe situazioni attirano le attenzioni dell’elettorato, e tra i dossier di politica internazionale ce n’è uno che più di tutti caratterizza l’attuale fase storica: il confronto con la Cina. È un tema bipartisan, su cui la linea competitiva è un rarissimo punto di contatto nelle polarizzazioni tra Democratici e Repubblicani. E assume tale valore anche perché gli elettori ne percepiscono gli effetti a ricaduta interna. Se Washington non manterrà il vantaggio su Pechino – sia esso economico, tecnologico, politico-valoriale, finanche militare – la prosperità americane potrebbe ridursi in futuro. Ed è a quello che le collettività statunitensi guardano.
Ragion per cui registrare quel che dice Austin nel discorso/manifesto dalla Reagan Presidential Library Simi Valley è utile anche per valutare le traiettorie future della politica e della strategia degli Usa. “La nostra Strategia di Difesa Nazionale descrive la Repubblica Popolare Cinese come ‘il più importante concorrente strategico dell’America e la sfida più importante per il Dipartimento della Difesa’. La Repubblica Popolare Cinese è il nostro unico rivale con l’intenzione e, sempre più spesso, la capacità di rimodellare l’ordine internazionale”, dice il segretario alla Difesa.
Austin spiega che Pechino “spera che gli Stati Uniti inciampino e diventino isolati all’estero e divisi in patria. Ma insieme possiamo evitare questo destino. Insieme ai nostri alleati e partner, abbiamo compiuto progressi straordinari nell’affrontare la sfida della Cina e nel forgiare un Indo Pacifico più sicuro”. E aggiunge: “In questo decennio decisivo, il 2023 sarà ricordato come un anno determinante per l’attuazione della strategia di difesa degli Stati Uniti in Asia”.
Gli Stati più Uniti che mai
Il Pentagono ha effettivamente compiuto evoluzioni nel rendere la posizione di forza statunitense nella regione “molto più distribuita, mobile e resiliente”, per usare la formula canonicamente utilizzata da Washington. Un lavoro che passa dalla presenza diretta all’aiuto ai partner a sviluppare le loro capacità di difesa (“Quest’anno ho fatto quattro viaggi nell’Indo Pacifico e ad ogni viaggio abbiamo fatto ancora più progressi”.
A febbraio, a Manila, gli Stati Uniti hanno annunciato l’espansione dell’accordo di cooperazione rafforzata in materia di difesa con le Filippine per consentire l’accesso degli Stati Uniti ad altre quattro strutture filippine. A maggio, il segretario era a a Tokyo per modernizzare ulteriormente l’alleanza con il Giappone, che ha raddoppiato il suo bilancio per la difesa. A luglio, Austin è stato il primo segretario alla Difesa a visitare la Papua Nuova Guinea, concordando un accordo di cooperazione in materia di difesa Chen a rafforzato la posizione americana tra le isole del Pacifico. Sempre quest’estate, a Nuova Delhi, è stata presentata una nuova tabella di marcia per la cooperazione industriale nel settore della difesa con l’India, strategia rafforzata anche nel recente “2+2” da cui esce una volontà congiunta di rafforzare la capacità militare – anche a livello produttivo – del Subcontinente. Sempre quest’estate, Usa, Corea del Sud e Giappone hanno stretto legami di sangue tramite i “Camp David Principles”. Infine, continua l’implementazione di quella che Austin definisce “la nostra storica partnership”, l’Aukus Australia e Regno Unito.
“Tutto questo si basa su una cruda realtà militare: alleati e partner ci aiutano a proiettare il potere e a condividere il peso della nostra sicurezza comune. Ma non prendetelo da me. Prendete esempio dal presidente Ronald Reagan, che ha detto che ‘la nostra sicurezza si basa in ultima analisi’ sulla ‘fiducia e la coesione’ del nostro sistema di alleanze”, ha aggiunto Austin. Un messaggio diretto a Pechino, che punterebbe a dividere e per quanto possibile isolare l’America, che invece con l’amministrazione Biden ha dimostrato di avere la capacità di ricreare il collante necessario per ricostruire con maggiore vigore alleanze e partnership che l’atteggiamento America First – più nazionalista, quasi isolazionista – di Donald Trump aveva messo in difficoltà. “Tuttavia, la nostra forza all’estero è radicata nella nostra forza in patria”, ricorda Austin – probabilmente pensando anche a Usa2024.
Ministero dell'Istruzione
Oggi, #3dicembre è la Giornata internazionale delle persone con disabilità, indetta nel 1992 dalle Nazioni Unite.Telegram
Uniamoci per affrontare questo momento. L’eredità di Austin sulla strategia Usa
Stiamo vivendo tempi difficili. Tra questi, i conflitti più importanti che stanno affrontando le nostre democrazie, Israele e Ucraina, le prepotenze e le coercizioni di una Cina sempre più assertiva e la battaglia mondiale tra democrazia e autocrazia.
Sono quindi tempi in cui sia i nostri amici che i nostri rivali guardano all’America. Sono tempi in cui il popolo americano conta che i suoi leader si uniscano. E questi sono i tempi in cui la sicurezza globale si basa sull’unità e sulla forza americana.
Il Presidente Biden lo definisce “un punto di svolta nella storia del mondo”. Con la sua leadership, abbiamo riunito i nostri alleati e partner per difendere l’ordine internazionale basato sulle regole.
Ora, so che questa frase non fa battere il cuore a tutti. Ma l’ordine internazionale basato sulle regole è fondamentale per la nostra sicurezza a lungo termine.
È la struttura delle istituzioni internazionali, delle alleanze, delle leggi e delle norme costruite con la leadership americana dopo le sconcertanti perdite della Seconda Guerra Mondiale. E queste regole aiutano a garantire che nulla di simile alla Seconda Guerra Mondiale possa mai più accadere.
Aiutano a sostenere la sovranità e a rispettare i confini.
Aiutano a garantire che i civili siano protetti e non presi di mira.
E contribuiscono a punire le aggressioni e a tenere sotto controllo i prepotenti.
Dal 1945, l’ordine internazionale basato sulle regole ha contribuito a dare al nostro Paese – e al mondo intero – un periodo di pace e prosperità senza precedenti.
Ma la pace non è auto-esecutiva. L’ordine non si conserva da solo. E la sicurezza non fiorisce da sola.
Il mondo costruito dalla leadership americana può essere mantenuto solo dalla leadership americana.
Come ha detto il Presidente Biden, “la leadership americana è ciò che tiene insieme il mondo”.
Dalla Russia alla Cina, da Hamas all’Iran, i nostri rivali e nemici vogliono dividere e indebolire gli Stati Uniti e separarci dai nostri alleati e partner. Pertanto, in questo momento storico, l’America non deve vacillare.
La leadership americana raduna i nostri alleati e partner per sostenere la nostra sicurezza comune. E ispira la gente comune di tutto il mondo a lavorare insieme per un futuro più luminoso.
Ma i problemi del nostro tempo non potranno che aggravarsi senza una leadership americana forte e costante che difenda l’ordine internazionale basato sulle regole che ci tiene al sicuro.
E se perdiamo la nostra posizione di responsabilità, i nostri rivali e i nostri nemici saranno lieti di riempire il vuoto.
In ogni generazione, alcuni americani preferiscono l’isolamento all’impegno e cercano di alzare il ponte levatoio. Tentano di smantellare la pietra angolare della leadership americana. E cercano di minare l’architettura di sicurezza che ha prodotto decenni di prosperità senza guerre tra grandi potenze.
E si sentirà qualcuno cercare di bollare un ritiro americano dalle responsabilità come una nuova e coraggiosa leadership.
Quando lo sentirete dire, non fatevi illusioni: non è audace. Non è nuova. E non è una leadership.
Come dice il vecchio detto, se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza. E se pensate che la leadership americana sia costosa, considerate il prezzo della ritirata americana.
Nel corso della lunga storia americana, il costo del coraggio è sempre stato inferiore a quello della codardia.
E il costo dell’abdicazione ha sempre superato di gran lunga il costo della leadership.
Il mondo diventerà sempre più pericoloso se i tiranni e i terroristi crederanno di poterla fare franca con aggressioni e massacri di massa.
E l’America diventerà meno sicura se i dittatori crederanno di poter cancellare una democrazia dalla carta geografica.
E gli Stati Uniti pagheranno un prezzo più alto se autocrati e fanatici crederanno di poter costringere persone libere a vivere nella paura.
Questa intuizione fondamentale è all’opera nel nostro approccio a tre sfide molto diverse: la crisi in Medio Oriente, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e la sfida strategica della Repubblica Popolare Cinese. […]
L’Ucraina ricorda al mondo la forza morale di un popolo libero che lotta per difendere il proprio territorio sovrano, la propria democrazia e il proprio futuro.
E come americani, non dobbiamo fare di meno.
Uniamoci quindi per rendere la nostra unione più perfetta, il nostro Paese più sicuro e il nostro mondo più giusto.
Uniamoci per riunire le nazioni di buona volontà alla causa della libertà umana.
E uniamoci per affrontare questo momento.
Grazie e che Dio continui a benedire gli Stati Uniti d’America.
Qui il discorso integrale
Giustizia non politica
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L'articolo Giustizia non politica proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Tutte le contraddizioni sulla riforma dell’industria della difesa europea. L’analisi di Del Monte
L’Unione europea vorrebbe “copiare” gli Stati Uniti per facilitare l’industria AD&S del vecchio continente nella vendita di armi all’estero, rafforzando la propria competitività su un mercato complesso, introducendo una sorta di Foreign Military Sales (Fms) sul modello di quello attuato dal governo di Washington.
L’Fms è un programma attraverso il quale gli Stati Uniti vendono materiali d’armamento ed annessi servizi a Paesi e organizzazioni internazionali. La sua particolarità è che il programma è attivabile quando il presidente decida che la vendita di armi ad un dato Paese costituisca un rafforzamento della sicurezza nazionale americana. Sotto Fms, l’esecutivo statunitense e quello “cliente” stipulano un accordo da governo a governo, chiamato Lettera di offerta e accettazione (Loa). Il Dipartimento di Stato individua quali siano i Paesi da poter inserire nel programma ed al Dipartimento della Difesa spetta poi l’attuazione concreta, con il trasferimento delle armi vendute.
Questo tipo di accordo, che supera le pastoie burocratiche che, invece, rallentano i processi di vendita in Europa, favorisce il comparto industriale statunitense, sfruttando il “peso determinante” geopolitico di Washington. Inoltre, l’FMS viene finanziato direttamente con fondi del governo, che vanno a sommarsi ai tanti sussidi che vengono erogati al comparto industriale dell’aerospazio-difesa-sicurezza.
Industrie europee come Airbus, Leonardo e Thales oggi non vengono sostenute da un meccanismo equivalente. Le ultime iniziative di Bruxelles vanno in direzione di un maggiore supporto alla produzione industriale ma ancora non affrontano gli scogli burocratici che incatenano il sistema produttivo e dell’export. La bozza di documento che l’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Joseph Borrell, presenterà agli Stati membri per la riforma del meccanismo di sostegno all’industria della difesa prevede che anche in Europa si possano fornire incentivi importanti al comparto, ma non è detto che questo incontri il favore di tutti i Paesi.
Il caso della fornitura di munizioni all’Ucraina da parte dei Paesi europei è la cartina di tornasole di un sistema che è inefficiente nel suo complesso e che necessita di una riforma quantomai rapida. L’obiettivo di consegnare entro marzo del prossimo anno un milione di munizioni all’Ucraina non potrà essere raggiunto neanche facendo leva sulle forniture provenienti da Paesi extracomunitari. Finora sono state consegnate solo 300.000 munizioni ed è evidente la difficoltà con cui il comparto industriale europeo stia tentando di passare dai livelli produttivi imposti dalla “illusione post-storica” a quelli che il nuovo contesto di guerra impone.
Del resto, non è una novità che il sistema industriale europeo della difesa sia rimasto indietro rispetto alle controparti statunitensi, cinesi e russe, e sia costretto a recuperare rapidamente terreno non solo con i programmi di sostegno agli ucraini, ma anche per ripianare le proprie scorte di magazzino – invero fin troppo esigue già prima dell’invasione russa dell’Ucraina – e garantirsi una capacità di difesa minima.
La tenuta complessiva del sistema industriale russo e la “messa a regime” produttiva di Mosca, in grado di rifornire ormai con una certa costanza le proprie truppe al fronte, ha fatto nuovamente trasparire, assieme al fallimento della controffensiva estivo-autunnale ucraina, tutti i limiti del comparto industriale-militare del vecchio continente o, meglio, delle norme che ne regolano la produzione e pongono seri limiti alla sua espansione. Ci sono strumenti come gli Eurobond che potrebbero anche essere utilizzati per sostenere l’industria della difesa, settore lasciato scoperto dai finanziamenti comunitari con una certa miopia da parte di Bruxelles.
Ma è proprio nel sistema di sostegno alla produttività che va a scontrarsi ogni ipotesi di introduzione del modello FMS in Europa. La questione è, essenzialmente, politica. Se la proposta può anche sembrare allettante, a mancare sono le basi produttive e di sostegno alla produzione. Perché, se il meccanismo degli accordi governo-governo del Foreign Military Sales funziona, tanto da spingere molti Paesi ad acquistare armi e sistemi da Washington, è anche perché l’industria AD&S statunitense riesce a colmare il gap tra aspettative politiche del governo e livelli di produttività. Volontà politica e risposta industriale sono, quindi, interconnesse.
Ma, in questo caso, la volontà politica deve essere espressa dall’UE nel suo complesso o dai singoli Stati nazionali? Alla domanda non è stata finora data risposta, ma si tratta di un “collo di bottiglia” dal quale prima o poi si dovrà passare.
C’è, inoltre, un rischio concreto legato alla riforma delle politiche industriali d’armamento in Europa che non può essere sottovalutato e che riguarda anche l’idea di FMS europeo: il meccanismo concorrenziale. Borrell al Figaro ha spiegato che l’obiettivo di qualunque progetto di riforma sia l’introduzione di una sorta di “primazia” degli Stati europei per la vendita e l’acquisto di armi tra Paesi comunitari. Una dichiarazione che risponde tanto al cruccio di Parigi di un “Europe first” (tradotto “La France d’abord”) su produzione e vendita di armi e sistemi d’arma, quanto ai timori recentemente espressi dal condirettore generale di Leonardo, Lorenzo Mariani, sull’acquisto ancora maggioritario di piattaforme estere.
I timori sono legati, quindi, alla tenuta ed alla sicurezza della catena di forniture. Ma il problema non è sic et simpliciterquello di come debba lavorare l’industria AD&S e di quale know-how abbia, quanto quello di rendere attrattiva per i compratori esteri – che oggi si rivolgono primariamente agli Stati Uniti se in orbita occidentale o vicini ad essa, o a Cina e Russia – l’Europa. Solo alimentando le esportazioni, creandone, cioè, il presupposto politico, si può pensare di sostenere la produzione. E se non si semplifica la normativa sulle esportazioni di materiali d’armamento – ed in Italia, per fortuna, se ne sta parlando – non si può riformare la politica industriale di settore nel suo complesso.
Se non si risolve questa contraddizione, non potrà esserci mai un Fms europeo.
Israele vuole creare una “zona cuscinetto” a sud di Gaza
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della redazione
Pagine Esteri, 2 dicembre 2023 – Israele vuole costituire una “zona cuscinetto” sul lato palestinese del confine tra Gaza e l’Egitto allo scopo, afferma, di prevenire “futuri attacchi di Hamas”. E ha informato delle sue intenzioni alcuni dei Paesi arabi con cui ha relazioni – in particolare l’Egitto e la Giordania – oltre all’Arabia saudita con cui intende normalizzare i rapporti e la Turchia. L’iniziativa non lascia intravedere una fine imminente dell’offensiva israeliana contro la Striscia di Gaza – ripresa ieri e che ha ucciso in 24 ore 240 palestinesi, dopo una tregua di sette giorni –, però indica che Israele vuole “modellare il dopoguerra” dopo circa due mesi di bombardamenti e di attacchi di terra che hanno provocato 15mila morti e 35mila feriti tra i palestinesi, tra i quali migliaia di bambini e donne, oltre ad aver raso al suolo intere aree urbane.
Sino ad oggi nessuno Stato arabo si è detto pronto a “sorvegliare” o “amministrare” Gaza che in futuro, secondo i piani del gabinetto di guerra israeliano, sarà “senza Hamas” responsabile lo scorso 7 ottobre di un attacco nel sud di Israele che ha fatto circa 1200 morti civili e militari e 5mila feriti.
“Israele vuole questa zona cuscinetto tra Gaza e Israele, da nord a sud, per impedire a Hamas o ad altri militanti di infiltrarsi o attaccare Israele”, ha detto all’agenzia di stampa Reuters un funzionario mon meglio precisato della “sicurezza regionale”. Interpellato sui piani per una zona cuscinetto, Ophir Falk, consigliere per la politica estera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha detto alla Reuters: “Il piano è più dettagliato di quanto è emerso. Si basa su un processo a tre livelli per il giorno dopo Hamas”. Ha aggiunto che i tre livelli implicano “la distruzione di Hamas, la smilitarizzazione di Gaza e la deradicalizzazione dell’enclave”. Più parti hanno ripetuto in queste settimane che è impossibile l’obiettivo di Israele di annientare Hamas che è qualcosa di più di una semplice forza militare e rappresenta una struttura complessa da un punto di vista ideologico, religioso e sociale.
Una fonte della sicurezza israeliana ha detto che l’idea della “zona cuscinetto” è “in fase di esame”, aggiungendo: “Non è chiaro al momento quanto sarà profonda, potrebbe essere 1 km o 2 km o centinaia di metri (all’interno di Gaza)… in questo modo Hamas non potrà organizzare capacità militari vicino al confine”.
Se questa “zona cuscinetto” sarà realizzata 2,3 milioni di palestinesi si ritroveranno in un territorio ancora più piccolo. Gaza è lunga appena 40 km e larga tra circa 5 km e 12 km. Un lembo di terra inferiore a 400 kmq e con una delle densità più alte al mondo.
Già in passato Israele ha pianificato di costituire una “zona cuscinetto” all’interno di Gaza da cui ha ritirato le sue truppe e i suoi coloni nel 2005, nel quadro del “piano di ridispiegamento” formulato dall’ex premier Ariel Sharon. Secondo la Reuters gli Stati uniti restano contrari a qualsiasi progetto volto a ridurre le dimensioni di Gaza. Da parte loro Giordania e Egitto mettono in guardia dall’intenzione di Israele di cacciare i palestinesi da Gaza, ripetendo la Nakba (catastrofe) del 1948, quando centinaia di migliaia di abitanti della Palestina furono cacciati via o furono costretti a scappare nei Paesi arabi vicini sotto la minaccia delle forze armate del nascente Stato di Israele.
Nelle scorse settimane era già emersa l’idea di Israele di creare una zona cuscinetto nel nord di Gaza. Gli Stati arabi non si oppongono a una barriera di sicurezza tra le due parti ma c’è disaccordo su dove sarà collocata. E’ da sottolineare che nessuna parte, da Israele agli Stati arabi fino ai Paesi occidentali, ritiene di coinvolgere gli abitanti palestinesi in queste discussioni sul “futuro” di Gaza e del resto dei Territori occupati. Pagine Esteri
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Guarda “Il cielo di Sabra e Chatila” – documentario di Pagine Esteri
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Il documentario, a 40 anni dal massacro dei campi profughi palestinesi di Beirut, Sabra e Chatila, raccoglie testimonianze dei sopravvissuti e storie dei più giovani. Oltre a realizzare una ricostruzione storica delle fasi che portarono al massacro di centinaia, forse migliaia di palestinesi, soprattutto donne anziani e bambini, il lavoro pone uno sguardo sulla condizione dei profughi palestinesi oggi in Libano, sulle loro aspirazioni, raccontando come il sogno del rientro nella loro terra di origine si scontri con la difficile realtà libanese e la netta chiusura di Israele al “diritto al ritorno”.
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Chinoiserie – Lao Xie Xie, a Milano nella mostra fotografica "Uncensored” la trasgressione della Gen Z di Shanghai
Il volto trasgressivo di una Gen Z cinese senza filtri viene catturato attraverso gli scatti di un milanese dall’identità virtuale misteriosa. China Files ha incontrato l’artista che si cela dietro il nome di Lao XieXie in occasione di UNCENSORED, la sua prima personale a Milano presso la galleria Lungolinea. Chinoiserie, la rubrica sull’arte cinese a cura di Camilla Fatticcioni In ...
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informapirata ⁂
in reply to Andrea Russo • • •dichiarazioni irresponsabili
@politica
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El Salvador
in reply to informapirata ⁂ • • •“The more we support Ukraine, the faster the war will end."
Sicuramente. 🤐☠️
informapirata ⁂
in reply to El Salvador • • •Irrersponsabili ("We should also be prepared for bad news”), fallaci (“The more we support the Ukraine, the faster the war will end.") e dannose (“We’re not able to work as closely together as we should”).
Questo ennesimo scarto del laburismo mercantilista europeo (è una via di mezzo tra Prodi e D'Alema) si dimostra un segretario generale NATO scadente (oltre che scaduto: ilpost.it/2023/07/05/jens-stol…)
Il mandato di Jens Stoltenberg come segretario generale della NATO è stato prorogato fino allottobre del 2024
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