Artico, Mediterraneo e non solo. Così il clima impatta sulla Difesa
Quando si parla di cambiamento climatico, la dimensione della difesa non è forse la prima che viene in mente. Tuttavia, gli impatti che l’incrementarsi delle modifiche all’ambiente terrestre hanno in tutti i livelli della sicurezza, da quello strategico fino al tattico, sono sempre più evidenti agli addetti ai lavori. Diffondere questa consapevolezza è stato l’obiettivo della conferenza “Le implicazione del cambiamento climatico sulle politiche di difesa e sicurezza” organizzato dal Centro studi militari aeronautici Giulio Douhet (Cesma) dell’Associazione arma aeronautica. Come registrato dal generale Luca Baione, rappresentante permanente d’Italia presso l’Organizzazione meteorologica mondiale, nella parte introduttiva del Concetto strategico della Nato approvato a giugno 2022 si legge: “Il cambiamento climatico è la sfida che definisce il nostro tempo, con impatti profondi sulla sicurezza alleata”. Come descritto nel documento, il cambiamento climatico ha impatti diretti anche sul modo in cui operano le forze armate, oltre che nello scenario globale. La conferenza è servita dunque ad analizzare questi impatti con una visione multidisciplinare attraverso le relazioni specialistiche del dottor Antonello Pasini, dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr, del dottor Matteo Paonni, del Joint research centre della Commissione europea, e del professor Alberto Pirri, della scuola superiore Sant’Anna di Pisa.
Secondo le previsioni, nel 2030 quasi un terzo degli otto miliardi e mezzo di umani vivrà in zone prive di accesso all’acqua. Si tratta di oltre due miliardi e mezzo di persone. Questa previsione lascia presagire le complessità che si svilupperanno da questa situazione, tra spinta alla migrazione e lotta per assicurarsi le risorse, fragilità che avranno effetti drammatici soprattutto il quadrante meridionale dello spazio euro-atlantico, con impatti profondi in tutta l’area del Mediterraneo. Dal mare nostrum all’Artico, il disgelo del Polo nord “consentirà l’avvicinamento di potenziali attori malevoli direttamente ai confini della Nato” ha sottolineato Baione, ricordando come anche sul versante tattico-operativo il clima avrà profonde conseguenze: “equipaggiamenti, sistemi e apparati soffriranno un maggiore stress dovuto al surriscaldamento delle aree d’operazione” e comporterà anche “l’esigenza di considerare dei periodi di permanenza dei contingenti militari perché sottoposti a condizioni di stress maggiori”.
Come sottolineato dal direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), l’ambasciatore Elisabetta Belloni, “il nesso fra cambiamento climatico, sicurezza e difesa ormai è un dato acquisito”, tuttavia, ha registrato l’ambasciatore, se “riflettere è certamente importante” è anche il momento di “cominciare a guardare agli strumenti che dobbiamo adottare per cercare di affrontarne le conseguenze”. “L’Intelligence – ha continuato Belloni – ha da tempo posto all’attenzione dei governi europei il tema” e già nel 2008 il rapporto dell’allora Alto rappresentante per la politica estera Javier Solana, sottolineava “l’impatto che il cambiamento climatico avrebbe avuto sulla sicurezza dei Paesi europei”. Naturalmente, l’effetto sui trend migratori è in cima alla lista di fragilità all’attenzione dei servizi di informazione, dato che il cambiamento climatico ha delle profonde implicazioni sulle condizioni di vita di numerose popolazioni che potrebbero costringerle a migrare. “Ma in realtà come Intelligence noi guardiamo moltissimo ad altri temi, ad esempio l’approvvigionamento energetico pulito” ha continuato Belloni, con “la transizione verso energie pulite [che] ci pone di fronte a dei rischi enormi, ad una competizione tecnologica che deve consentire al nostro Paese di essere al sicuro”.
“Sia come gestori della cosa pubblica, sia come gestori di aziende, abbiamo davanti un quadro dei rischi, e ci stiamo accorgendo che la dimensione geoclimatica si aggiunge come un fattore esasperante, perché quello che c’è di nuovo oggi è che i rischi si sovrappongono” ha detto il presidente dell’Ispi, Giampiero Massolo, registrando come ormai le relazioni e le interdipendenze tra Paesi non possano più basarsi esclusivamente sui confini di una cartina politica, ma “sono molto più immateriali di così, riguardano le grandi opere infrastrutturali, le grandi reti di comunicazione (come i cavi sottomarini), e le comunicazioni”. In questo quadro, il cambiamento climatico si inserisce esasperando i rischi. Allora, i Paesi europei si trovano in un momento nella necessità di mitigare i rischi del cambiamento climatico “in un momento in cui i nostri meccanismi tradizionali di meditazione stanno grippando” nel quale “il multilateralismo non è più visto come utile a risolvere le grandi crisi internazionali”. Per quanto riguarda il futuro, allora, “l’incorporazione della dimensione climatica nel discorso della difesa e sicurezza non può che rappresentare un obiettivo a cui tendere” ma rimane un discorso di lungo periodo “ci pensiamo, ma difficilmente a breve potremmo avere dei risultati concreti”.
Di quanto sia importante il ruolo del cambiamento climatico quale moltiplicatore di rischi anche a livello tattico, ne ha parlato il consigliere del ministro della Difesa, l’ambasciatore Francesco Maria Talò, prendendo in considerazione un elemento cruciale come il meteo, che sarà fortemente modificato dagli effetti della crisi ambientale: “Se n’è accorto Napoleone dopo la battaglia di Waterloo: se avesse avuto un buon servizio metereologico forse avrebbe organizzato in modo diverso la propria tattica quel giorno”. Come ricordato ancora Talò, “è stato menzionato il Concetto strategico della Nato. Nello stesso anno anche l’Unione europea ha redatto e approvato un altro documento, la Bussola strategica. Entrambi stabiliscano quanto sia cruciale tener conto del cambiamento climatico nelle nostre strategie di sicurezza”. Il fattore ambientale per la difesa non è solamente un aspetto geopolitico od operativo, ma rischia di mettere a repentaglio lo stesso strumento della difesa. “Senza difesa e sicurezza – ha ribadito Talò – la nostra crescita economica non è assicurata, [invece] sono il presupposto per la crescita nazionale e internazionale”. In questo senso bisogna investire in sicurezza, ma per farlo bisogna cominciare a tenere conto del quadro reso più complesso dal cambiamento climatico, soprattutto per quanto riguarda gli strumenti militari del futuro. “Un camion militare, un carro armato, un aereo militare, una nave” hanno un impatto maggiore rispetto a piattaforme civili “è evidente che ci sono dei costi ambientali, ma senza sicurezza non si va da nessuna parte”. Per questo, in queto quadro, “la politica deve contemperare l’agire con la saggezza”, investendo in maniera corretta, senza però lasciarsi frenare dalle complessità.
Quali sono, allora, i problemi che bisogna tenere a mente per preparare lo strumento militare a quelli che saranno i nuovi paradigmi della difesa e della sicurezza? A porre la domanda è stato il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, il generale Luca Goretti, concludendo la giornata. Alcuni esempi già esistono, come il biocarburante “per vedere se effettivamente siamo in grado di poter produrre carburante che inquini meno” consapevoli che “un aereo per andare per aria ha bisogno di un motore che gira, e per girare ha bisogno di qualche cosa che produca energia”. Altri esempi sono l’uso del fotovoltaico e di sistemi di produzione di energia pulita nelle basi militari, con l’obiettivo di “trasformare tutto il parco infrastrutturale delle Forze armate in un’infrastruttura ecosostenibile”. Quello che i militari possono fare è prepararsi “per consentire ai decisori politici e ai cittadini di essere certi che la difesa nel complesso c’è, e ci sarà anche in futuro, con strumenti utili che serviranno per poter continuare a difendere la nostra libertà”.
In Cina e Asia -Il Giappone non è più la terza economia mondiale
I titoli di oggi: Il Giappone non è più la terza economia mondiale Indonesia, Prabowo annuncia la vittoria Accuse incrociate tra Cina e Taiwan dopo la morte di due pescatori cinesi Capodanno lunare, boom di viaggi ma ancora pochi turisti stranieri India, la protesta degli agricoltori arriva a Nuova Delhi Volkswagen accusata per le operazioni in Xinjiang annuncia colloqui con ...
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Catania. La scuola pubblica in mimetica normalizza la guerra l Contropiano
"Oltre ad una scuola sempre più aziendalizzata, che plasma il mondo studentesco allo sfruttamento schiavista del lavoro e alla precarietà lavorativa, c’è anche una scuola sempre più militarizzata. Tutto questo si traduce con la normalizzazione della guerra, della militarizzazione dei territori, e delle spese militari senza limiti."
Africa. Cina a caccia di basi militari, Stati Uniti in allarme
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 15 febbraio 2024 – Nei mesi scorsi l’amministrazione Biden ha lanciato un’offensiva diplomatica ed economica nel continente africano allo scopo di controbilanciare la penetrazione cinese e russae di approfittare della ritirata francese per consolidare o guadagnare qualche posizione. Alla fine di gennaio il segretario di stato americano Antony Blinken ha compiuto il suo quarto tour africano visitando Capo Verde, l’Angola, la Costa d’Avorio e la Nigeria.
Pechino vuole estendere la presenza militare in Africa
I principali competitori geopolitici di Washington, però, non sono rimasti a guardare. Se la Russia ha scelto da tempo la carta militare per accreditarsi in Africa, sembra che ora anche la Cina voglia capitalizzare la sua enorme influenza economica per conquistare punti anche sul piano militare e dotarsi di infrastrutture stabili. Pechino è alla ricerca, in particolare, di approdi permanenti per la sua flotta da guerra nell’Africa Occidentale dopo averne ottenuto anni fa uno a Gibuti, sul Mar Rosso, cioè dall’altra parte del continente. Una strategia che, neanche a dirlo, impensierisce non poco gli Stati Uniti.
Nei giorni scorsi è stato il Wall Street Journala suonare l’allarme generando una vasta eco sui media d’oltreoceano. Un articolo del quotidiano ha riferito che nell’agosto del 2023 l’allora presidente del Gabon, Ali Bongo Ondimba (al potere dal 2009, succeduto al padre Omar Bongo) aveva confessato al vice consigliere alla Sicurezza Nazionale statunitense Jonathan Finer di aver promesso al leader cinese Xi Jinping la concessione di una postazione militare sulle coste del paese. Finer aveva ovviamente esposto la contrarietà del proprio governo al leader del Gabon che però, poche settimane dopo, era stato deposto da un colpo di stato militare.
La Cina punta su Gabon e Guinea Equatoriale. Le contromisure USA
Nei confronti della giunta golpista, nelle prime settimane, Washington aveva tenuto un atteggiamento prudente e conciliante per poi prendere le distanze dal nuovo regime, con cui le relazioni dei cinesi sono invece rimaste cordiali.
Ora, visto l’attivismo diplomatico, economico e politico di Xi Jinping nell’area, Washington teme che anche il regime militare sia possibilista rispetto alla concessione di una base militare sull’Atlantico alla marina militare cinese che gli Stati Uniti considerano una minaccia diretta alla propria sicurezza nazionale.
La Cina è già il principale partner commerciale del Gabon, paese che può contare sul terzo Pil per importanza dell’Africa grazie alle ingenti riserve petroliferee ai giacimenti di manganese, minerale esportato soprattutto a Pechino dopo il coinvolgimento di Libreville nella “Belt and Road Initiative” o Nuova Via della Seta.
Gli emissari dell’amministrazione Biden avrebbero aumentato le pressioni sui governi africani affinché oppongano un diniego alle richieste della Repubblica Popolare che intanto concentra i suoi sforzi sul Gabon e su un paese limitrofo che pure si affaccia sull’Oceano Atlantico. Le autorità della Guinea Equatoriale, paese in cui Pechino gestisce già un porto commerciale, hanno per ora affermato di non aver intenzione di concedere alla Marina da guerra cinese “l’utilizzo stabile” di una propria base.
Gli USA possono contare all’estero su 750 basi militari
Attualmente, la Cina possiede o gestisce porti e terminali commerciali in un centinaio di località in oltre 50 paesi distribuiti in tutti i continenti, ma a Xi Jinping non basta.
La Cina vuole aumentare le basi militari per difendere i suoi interessi economici e commerciali, per consolidare la sua influenza politica e per avere qualche chance di tener testa agli Stati Uniti in caso di conflitto. Nonostante la crescita del suo ruolo militare, la proiezione militare internazionale della Repubblica Popolare Cinese è ancora insignificante se si considera che Washington può contare su circa 750 infrastrutture militari all’estero tra permanenti e temporanee.
Comunque, secondo un rapporto del Pentagono del 2021, oltre che nel continente africano Pechino starebbe cercando di ottenere infrastrutture militari in Cambogia, Tailandia, Sri Lanka, Pakistan e Indonesia. Inoltre la Repubblica Popolare, negli ultimi anni, avrebbe notevolmente potenziato la propria capacità di realizzare navi da guerra.
Nel gennaio dell’anno da poco iniziato il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, ha visitato la Costa d’Avorio, l’Egitto, il Togo e la Tunisia, firmando nuovi accordi con i rispettivi governi, il Pentagono sta premendo sui governi del Ghana, della Costa d’Avorio e del Benin per la realizzazione di tre nuove basi militari nei rispettivi paesi, che dovrebbero ospitare altrettante squadriglie di droni ufficialmente destinati al contrasto dell’insorgenza islamista.
Manifestazione antifrancese in Niger
Mosca aumenta la cooperazione con i paesi del Sahel
Da parte sua la Russia ha aumentato la cooperazione con alcuni dei paesi del Sahel usciti dall’orbita francese dopo i colpi di stato militari degli anni scorsi che hanno destituito i leader vicini a Parigi. In particolare Mosca ha siglato una serie di accordi economici e militari con il Mali e poi con il Burkina Faso. In quest’ultimo paese Mosca si è impegnata a realizzare nei prossimi anni anche una centrale nucleare.
Mentre rafforzano i legami con la Federazione Russa, i regimi militari di Mali, Burkina Faso e Nigerintendono creare una moneta unica regionale. Lo ha annunciato nei giorni scorsi il leader della giunta “di transizione” del Niger, Abdourahamane Tchiani, in una dichiarazione televisiva. «La moneta è un passo fuori da questa colonizzazione» ed «un segnale di sovranità» ha detto il generale. I tre Paesi, che di recente hanno formato l’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes), «sono impegnati in un processo di recupero della loro sovranità totale» ha aggiunto, senza però fornire dettagli sulla possibile messa in circolazione di una futura moneta che dovrebbe sostituire il franco Cfa, tradizionale strumento dell’egemonia francese che attualmente costituisce la valuta comune degli otto Paesi membri dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa). Inizialmente l’Aes è nata come un patto di difesa tra i tre paesi che hanno deciso di unire le loro risorse militari per combattere i gruppi ribelli o jihadisti e bilanciare la presenza militare francese e statunitense nell’area.
Mali, Burkina Faso e Niger fuori dal franco CFA e dalla CEDEAO
Poi, a novembre, i ministri dell’Economia e delle Finanze dei tre stati hanno raccomandato la creazione di un fondo di stabilizzazione e di una banca di investimento comune. A fine gennaio, infine, Mali, Burkina Faso e Niger si sono già ritirati dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao o Ecowas), un’organizzazione regionale accusata di essere al servizio degli interessi di Parigi.
Dopo i colpi di stato la Cedeao, in evidente “coordinamento” con la Francia, ha imposto pesanti sanzioni economiche prima al Mali e poi al Niger, e nell’agosto del 2023 è giunta a minacciare un intervento militare contro Niamey per reinsediare il presidente Mohamed Bazoum, deposto e arrestato dai militari. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria
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GAZA. Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati
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di Eliana Riva
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024. Centinaia di persone provano a uscire dall’ospedale Nasser assediato, circondato dai cecchini, privato dell’elettricità, dei rifornimenti medici, del cibo e dell’acqua. Il più grande ospedale del sud di Gaza, a Khan Yunis, diventato rifugio per centinaia di palestinesi sfollati, sta per essere invaso dai militari israeliani che nelle ultime settimane hanno attaccato in diversi modi la struttura pur di costringere medici, pazienti e famiglie in fuga ad abbandonarla per andare chissà dove.
Sono stati lanciati volantini, poi si sono posizionati i cecchini che per giorni hanno sparato, senza far differenza tra donne, uomini e bambini, a chi cercava di entrare nell’ospedale o di uscirne. Sono numerosi i video diffusi dai giornalisti e dalle persone che si rifugiano nel Nasser o nelle scuole proprio di fronte, che mostrano le persone colpite e lasciate a terra. Una madre con suo figlio, lei morta e il bambino gravemente ferito, un ragazzino di cui non sono riusciti per ore a recuperare il cadavere, a causa dei fucili di precisione sistemati dai soldati sui tetti delle case sgomberate nei dintorni. Mentre il corpo era ancora sull’asfalto, proprio all’ingresso della struttura sanitaria, un piccolo drone è stato mandato dai soldati per ordinare a tutti con un messaggio vocale di andare via. I cecchini, denunciano i medici, hanno iniziato a colpire attraverso le finestre dell’ospedale le persone che si trovano al suo interno. Almeno due bambini sono stati così feriti, e un infermiere, mentre si trovava in sala operatoria.
Un video mostra un ferito che si trascina all’interno dell’ospedale, con il sangue che si rovescia copioso da una gamba. Un medico prova a strisciare sul pavimento per tirarlo lontano dalla porta. Un giornalista ha ripreso una dottoressa che coraggiosamente si sfila il cappotto per correre con più agilità, cercando di evitare i cecchini e attraversare la strada per portare soccorso a un uomo ferito dai militari.
Decine di persone sono state uccise e molte altre ferite. L’esercito ha ordinato all’amministrazione dell’ospedale di mandar via gli sfollati e trattenere pazienti e personale sanitario.
Il Ministero della Sanità denuncia che la situazione al Nasser di Khan Yunis è “sempre più catastrofica”, mentre l’esercito di occupazione ha ordinato di allontanare le centinaia di sfollati e di trattenere i pazienti, circa 450 persone, e il personale sanitario, 300 tra medici, paramedici e infermieri. Il Ministero della Sanità ha denunciato che i militari hanno sparato sulla folla che cercava di lasciare la struttura, causando diverse vittime.
Le macchine escavatrici dell’esercito hanno spostato e depositato terra e detriti tutto intorno, bloccando l’entrata nord. I palestinesi che erano rifugiati nell’0spedale stanno uscendo in fila, passando tra le colonne di mezzi, sotto il controllo dei militari armati e delle telecamere di riconoscimento facciale montate nel checkpoint allestito all’esterno. Questo significherà, dicono le persone che ci sono già passate in altri luoghi di Gaza ormai distrutti, centinaia di arresti, o “rapimenti”, come li chiamano i palestinesi, non avendo modo di sapere dove vengono portati i propri parenti fermati dall’esercito, né quali siano le accuse, senza garanzie sul trattamento che li attende. Quasi tutti gli arrestati che sono stati poi rilasciati hanno raccontato di aver subito torture, di essere rimasti legati, senza vestiti, di essere stati brutalmente picchiati. Un uomo che, fermato e liberato dall’esercito è riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia, ha spiegato che anche alle donne è riservato il trattamento peggiore: lasciate nude insieme agli uomini, ritornano dagli interrogatori spesso con i capelli tagliati e rasati.
Alcuni sfollati dell’ospedale Nasser sono arrivati a Rafah, dove l’esercito israeliano intende compiere una massiccia operazione militare.
Gli sfollati costretti a lasciare il Nasser sono stati fermati e trattenuti. Tra loro famiglie e numerosi bambini. Alcune persone hanno provato a ritornare nella struttura a causa degli spari e della situazione estremamente pericolosa trovata all’esterno. Altri sfollati sono già arrivati o si stanno dirigendo verso Rafah, secondo le indicazioni dell’esercito israeliano. L’ultima città di Gaza, schiacciata al confine con l’Egitto, con una popolazione pre-guerra di 280.000 abitanti, accoglie già circa 1,4 milioni di persone, per la maggior parte profughi costretti dai militari a spostarsi verso sud. Le persone, che vivono nelle tende o affollano le abitazioni ancora in piedi, sono terrorizzate dall’imminente attacco annunciato dal governo israeliano. Qualcuno ha provato a fuggire, disposto a cercare rifugio tra le rovine delle proprie abitazioni al centro e al nord della Striscia. Ma l’esercito intende fare qualsiasi cosa per evitare il ritorno dei profughi. Anzi, continua a mandare a Rafah anche i nuovi sfollati, in attesa che venga chiuso e approvato un “piano di evacuazione” per la popolazione civile che è la popolazione quasi dell’intera Striscia di Gaza. L’esercito ha presentato varie proposte al gabinetto di guerra: campi profughi lungo la costa, forse. O nelle zone già devastate dai bombardamenti e dalle demolizioni controllate. Una nuova trattativa con l’Egitto, magari. Non è chiaro neanche con quali forze immagina (e se lo immagina) Israele fornire assistenza a quasi 2 milioni di persone, soprattutto intendendo dichiaratamente liberarsi dell’UNRWA e dell’Onu in generale. Ma forse anche della Difesa civile e della Mezzaluna Rossa Palestinese. Con i coloni che sempre più numerosi si affollano ai valichi per impedire ai camion degli aiuti di entrare nella Striscia.
Intanto si è fatta sera e al Nasser sono rimasti solo pochi medici e i pazienti che non possono camminare sulle loro gambe o rinunciare all’ossigeno che rimane. I dottori sono pronti a tutto. E noi non sappiamo più se ci sarà qualcuno che potrà continuare a raccontarci cosa sta succedendo in quel buco nero fuori dal mondo e dalla legge che è diventato l’ospedale Nasser di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza.
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Scontri tra Israele e Hezbollah. Uccisi 13 libanesi e una israeliana
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di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024 – Alta tensione al confine tra Libano e Israele. Una militare israeliana è stata uccisa da razzi lanciati dal Libano che hanno colpito obiettivi nei pressi di una base dell’esercito a Safed, in Galilea. Altre otto persone sono rimaste ferite. L’attacco non è stato rivendicato ufficialmente da Hezbollah, ma si ritiene che sia stato lanciato dal movimento sciita libanese in risposta agli ultimi raid dell’aviazione israeliana in Libano del sud.
Poco dopo il lancio di razzi, jet da combattimento israeliani hanno martellato con bombe e missili, prendendo di mira il distretto meridionale di Nabatieh e le zone di Jubal Safi, Kfar Dunin, Basliya, Sawana e Adashit Al Qusayr. In meno di 24 ore almeno 9 civili libanesi sono stati uccisi oltre a quattro combattenti di Hezbollah tra cui Muhammad Alouya, il comandante per la regione di Maroun al-Ras.
In Israele ora si levano più alte le voci che chiedono una guerra aperta al Libano e ad Hezbollah. Il capo del Consiglio regionale di Mateh Asher, Moshe Davidovich, che è anche presidente di un forum delle città al confine settentrionale, ha chiesto al governo “di svegliarsi”. Senza sicurezza, non c’è il nord”, ha aggiunto.
Il capo del consiglio regionale di Merom HaGalil, Amit Sofer, ha invitato le forze armate a colpire con forza Hezbollah “dal confine fino al fiume Litani”. Secondo Sofer è necessario creare una zona smilitarizzata nel sud del Libano.
È stato perentorio il presidente del Comitato esecutivo di Hezbollah, Hashem Safieddin, quando ieri pomeriggio ha avvertito che gli attacchi israeliani «non rimarranno senza risposta». Secondo Safieddin «Alcuni immaginano di poter raggiungere obiettivi che non sono riusciti a raggiungere, né nel 2006, né tra il 2006 e il 2023». Ma, ha avvertito, «ancora una volta si sbagliano…il nemico non raggiungerà nessuno dei suoi obiettivi perché la Resistenza è e sarà presente, forte e pronta, su tutti i fronti». Si è riferito alle richieste fatte dal gabinetto di guerra israeliano e all’iniziativa francese per riportare la calma al confine tra il Libano e lo Stato ebraico. Tutto questo, spiegava ieri il quotidiano di Beirut, Al Akhbar, vicino a Hezbollah, nascerebbe dall’idea che Israele sia il vincitore del conflitto in corso e che, pertanto, il movimento sciita dovrà fare concessioni perché «sconfitto». Secondo il giornale, la Francia cerca di affermare un suo ruolo di mediazione tra Israele e Hezbollah. In realtà, aggiunge, non farebbe altro che rappresentare le condizioni poste da Tel Aviv.
Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri francese Stephane Sigourney è arrivato a Beirut, portando la proposta di Parigi. Il documento di due pagine dal titolo «Accordi di sicurezza tra Libano e Israele» punta, con un processo in tre fasi, all’applicazione della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiuse la guerra del 2006 tra Israele ed Hezbollah. In particolare, all’arretramento delle posizioni e delle armi del movimento sciita di 10 chilometri dalla Linea Blu, il confine tra i due paesi, assieme al dispiegamento di 15.000 soldati dell’esercito libanese in ogni zona a sud del fiume Litani. In cambio, Israele cesserebbe i suoi attacchi. Hezbollah vede questa proposta come una «resa totale» alle condizioni del suo nemico e rifiuta l’iniziativa francese e le altre, sostanzialmente simili, presentate da altri paesi occidentali. Pagine Esteri
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LIBIA. L’influenza di Erdogan su milizie locali e mercenari stranieri
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di Alessandra Mincone
Pagine Esteri, 15 febbraio 2024 – Il 7 febbraio, il ministro degli Esteri della Turchia Hakan Fidan si è recato a Tripoli per incontrare il Premier libico Abdul Hamid Dbeibeh e alte cariche del Consiglio Presidenziale, allo scopo di migliorare le relazioni con l’area orientale della Libia e favorire il processo di stabilità e unità della nazione. Il ministro ha colto occasione per far visita al Centro di Comando delle Forze Armate Turche nell’aereoporto di Mitiga, dove risiede anche la milizia di deterrenza Rada conosciuta come unità della polizia islamista e per aver ricevuto addestramenti militari dall’esercito di Erdogan. A pochi giorni dalla visita dell’esponente turco, il comandante della Rada, Abdul Rauf Kara, ha annunciato il ritiro delle truppe sia dall’aeroporto internazionale sia dal porto di Tripoli, nel rispetto della regolamentazione del governo in materia di sicurezza varata a gennaio 2024. Il quotidiano Libya Review ha descritto l’annuncio della milizia “un significativo incremento dell’influenza della Turchia in Libia”.
Fidan ha anche dichiarato che in un futuro non molto distante la Turchia riaprirà la sede del Consolato turco a Bengasi, città della Libia orientale sotto il controllo dell’esercito nazionale libanese di Haftar. Alcune agenzie di stampa libanesi hanno riferito della visita di Recep Tayyip Erdogan ieri al Cairo e subito dopo ad Abu Dhabi, nell’ottica di una normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Turchia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti a partire dalle divergenze legate proprio alla questione libica. L’agenzia di stampa turca Daily Sabah, ha previsto che “la riconciliazione con Bengasi per ripristinare le relazioni con la Tripoli occidentale, la rottura dello stallo politico nel Paese, la spinta verso elezioni volte a raggiungere l’unità così come la cooperazione e il dialogo tra ex avversari diventati partner, saranno elementi fondamentali per plasmare le future politiche della Turchia in Libia”.
Dall’accordo di Tripoli dell’agosto 2020, con cui la Turchia garantiva il sostegno economico e militare nella guerra civile all’allora Governo al-Serraj, si è assistito a un processo di trasformazione militare turco che ha visto repentinamente sostituiti l’aeroporto e il porto marittimo di Tripoli in favore di snodi strategici ammodernati. La base militare al-Watiya, sottratta nel 2020 all’esercito di Haftar e attuale roccaforte turca su suolo libico, è diventata la destinazione dei cargo C-130 e A400M con cui l’Aeronautica della Turchia rifornisce di armi il governo e dove potrebbero essere dispiegati anche F-16 turchi. Mentre la base navale di Kohms, oltre ad essere un centro di addestramento per attività subacquee, ospita unità navali da combattimento come una fregata Classe G.
Al di là dei proclami, le politiche di Ankara continuano a riprodursi con le stesse forme di soggiogamento militare sul territorio e sono mosse dagli stessi interessi rincorsi già nella Libia di Gheddafi, tra cui il posizionamento bellico strategico, lo sfruttamento delle risorse energetiche e la gestione dei flussi migratori verso l’UE.
Il 27 Gennaio l’Osservatorio per i diritti umani in Siria ha evidenziato il malcontento generale esploso tra i mercenari siriani destinati a partire per Tripoli per effettuare “un cambio della guardia”. In conseguenza al “processo di pace” del 2021 auspicato da Turchia e Russia, ai mercenari pagati da Erdogan è stata imposta una riduzione del salario di circa duecento dollari al mese. Anche il cambio turno, che sarebbe stato promesso ai soldati stranieri con una frequenza trimestrale, non è stato rispettato e ciò ha contribuito a esacerbare maggiore frustrazione in tanti soldati che sono stati costretti a restare in Libia oltre un anno, fino a che nel 2023 le stesse fonti siriane hanno denunciato la fuga di tremila mercenari siriani dalle basi militari turco-libiche, in cerca di un lavoro o di nuove rotte migratorie. I dati ufficiali parlano di altri quattromila mercenari siriani sul territorio della Libia occidentale, convinti a fidelizzarsi nelle operazioni militari sia attraverso una matrice religiosa sia per le condizioni di estrema fragilità economica vissute nella Siria del Nord. La riduzione dei costi dovuti alla fuga di quasi la metà dei mercenari ha consentito il ripristino degli stipendi contrattati con la Turchia, che oscillano tra i duemila e duemila e cinquecento dollari al mese.
Nelle ultime settimane il Governo di Ankara è tornato a sfruttare la disperazione dei mercenari organizzando la spedizione di un nuovo lotto di soldati siriani diretti non più nell’area occidentale libica, ma nell’entroterra del Niger. La prima operazione, a detta di una fonte interna alla milizia turca Sultan Murad, sarebbe avvenuta il 23 dicembre 2023. Il Sohr è riuscito a intervistare anche un comandante della fazione, che avrebbe fornito molti dati sulle condizioni contrattuali dei mercenari siriani inviati in Niger, come la durata semestrale e lo stipendio di mille e cinquecento dollari al mese. Inoltre “secondo il contratto ogni mercenario che subisce ferite durante le battaglie riceverà una somma di denaro che può raggiungere i 35.000 dollari, a seconda del grado di invalidità causato dalla ferita, mentre le famiglie dei mercenari uccisi prenderanno 60.000 dollari”.
Tale investimento da parte di Erdogan in territorio nigerino non è casuale, visto il crescente legame militare tra l’esercito di Haftar e l’esercito nigerino. La coalizione tra la Cirenaica e il Niger è stata approvata dalla Russia che ha sempre sostenuto l’esercito nazionale libico con il dispiegamento sul territorio dei mercenari Wagner, in cambio di un occhio militare sul mediterraneo; e che sta sviluppando nuove alleanze economiche e militari per consolidare un’influenza in tutto il nord africa, soprattutto alla luce del ritiro dall’Ecowas di Niger, Mali e Burkina Faso. La giunta militare del Niger, alla fine dell’anno 2023 ha revocato una legge contro l’immigrazione clandestina risalente al 2015: sembrerebbe che una delle sfide che ha richiamato subito l’interesse di Erdogan e Putin riguarderebbe proprio il controllo e la gestione dei flussi migratori, potenzialmente un’arma politica puntata alle porte dell’Europa.
Mentre la Turchia e la Russia continuano ad utilizzare soldati alla loro mercé, il primo ministro algerino, Nadhir Arbawi, è intervenuto al vertice di Brazzaville per conto del Presidente Abdelmadjid Tebboune, chiedendo il ritiro dei mercenari dalla Libia. Ha dichiarato che “le parti esterne interessate alla questione libica dovrebbero rispettare la sovranità della Libia, l’integrità territoriale e l’indipendenza delle sue decisioni” e che “la soluzione finale alla crisi potrà avvenire solo attraverso un percorso elettorale, che sancisca il principio della sovranità nazionale”. Le denunce algerine potrebbero far sospettare di un lento processo di allontanamento politico da Ankara e Mosca, che farebbe seguito soprattutto all’annullamento dell’Accordo di Algeri con il Mali, altro paese dove le mire espansionistiche turche e russe stanno via via accrescendo. Le complesse posizioni dell’Algeria, potrebbero risultare non congrue alla stabilità dell’intera area nordafricana da qualsiasi prospettiva le si guardi. Pagine Esteri
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Tecnologia microonde. La nuova arma con cui la Cina vuole cuocere Taiwan
La fantascienza arriva sui campi di battaglia. Gli scienziati cinesi dell’Istituto di tecnologia nucleare del Nord-Ovest di Xi’an e dell’Istituto di ingegneria elettrica dell’Accademia delle scienze cinese di Pechino hanno presentato una nuova ed innovativa arma, prima del suo genere: un sistema a microonde ad alta potenza alimentato da quattro motori Stirling a ciclo chiuso, compatti ed efficienti. Questi motori convertono efficacemente l’energia termica in energia meccanica, lavorando in sintonia come una pompa di calore inversa. La bobina superconduttrice genera un campo magnetico capace di raggiunge una forza fino a quattro tesla, campo che viene sfruttato per concentrare e guidare microonde abbastanza potenti da sopprimere droni, aerei militari e persino satelliti. L’intensità del suo campo magnetico continuo e stazionario dovrebbe essere 68.000 volte quella del campo magnetico terrestre, quasi la metà dell’intensità del campo magnetico del Large Hadron Collider (LHC) in Europa.
Fonti riportate dal South China Morning Post sostengono che il sistema d’arma, facilmente inseribile e trasportabile in un camion, vanta una significativa riduzione del consumo energetico per la generazione di un forte campo magnetico rispetto alle tecnologie esistenti. Secondo i test preliminari, Pechino sostiene che il sistema consuma solo un quinto dell’energia richiesta dai metodi attuali e può funzionare ininterrottamente per quattro ore. Un basso consumo di energia è essenziale per la produzione e l’uso su larga scala di armi a microonde.
Il sistema in questione sarebbe la prima arma a microonde basata sulla tecnologia del motore Stirling ad essere rivelata pubblicamente al mondo, segnando un salto significativo nella tecnologia della guerra a energia diretta. E la svolta degli scienziati cinesi sarebbe stata raggiunta anche grazie alle sanzioni avviate dall’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump: la decisione di vietare alle aziende occidentali di esportare in Cina determinati materiali nel tentativo di ostacolare i progressi hi-tech della Repubblica Popolare ha causato un’impennata nei prezzi per i fornitori locali, che hanno destinato i maggiori fondi guadagnati alla ricerca e allo sviluppo.
Non è però ancora chiaro quando questa nuova tecnologia sarà pronta per l’impiego effettivo sul campo di battaglia. Durante i test sarebbero emersi alcuni problemi che richiederebbero un ulteriore perfezionamento, tra cui una potenza di refrigerazione inferiore agli obiettivi iniziali e un notevole calo della stabilità del sistema oltre le quattro ore di funzionamento continuo.
“Sebbene soddisfi i requisiti di base, c’è ancora spazio per migliorare il sistema nel suo complesso e si può ottenere un’ulteriore miniaturizzazione all’interno della struttura attuale” si può leggere nel documento rilasciato dagli scienziati cinesi.
Secondo Jim Romeo gli armamenti a microonde possono essere impiegati per distruggere o danneggiare computer, componentistica elettronica e sensori senza intaccare le vite umane, una caratteristica che renderebbe queste tipologie di armi adatta agli scenari di guerra urbana che richiedono un basso numero di danni collaterali. Come potrebbe essere quello di Taiwan. Altri vantaggi sarebbero la grande capacità dei caricatori, la logistica semplificata, il costo trascurabile per colpo, l’ingaggio istantaneo e l’estrema precisione.
Un San Valentino che fece epoca
Era il 4 agosto 1983, primo governo Craxi, esecutivo che durò 1093 giorni e che terminò il primo agosto 1986. Perché le date sono importanti? Perché il decreto sulla scala mobile, il 14 febbraio 1984, si colloca proprio all’interno del primo governo a guida socialista. Sono andato a guardare attraverso Google per controllare i ricordi: Spadolini era alla Difesa, Visentini alle Finanze, Goria al Tesoro, Andreotti agli Esteri, Renato Altissimo all’Industria e Gianni De Michelis era al Ministero del Lavoro. Il passato si fa nitido, presente come certe immagini dell’infanzia: ero in vacanza in quei giorni a Malta, fui chiamato al telefono e Gianni De Michelis mi disse «Vieni, torna, anzi, scrivimi subito un po’ di programma». E il tema era secondo lui decisivo, una sorta di pietra d’angolo per l’idea di Italia che avevamo noi socialisti, e pietra d’inciampo per i comunisti: il tema insomma era quello della politica dei redditi, che era certo un argomento sin da allora dibattuto non solo accademicamente, ma era un tema di valenza, in quei tempi, cruciale e soprattutto divisiva.
La politica dei redditi in quegli anni veniva malamente e banalmente interpretata come politica di controllo e blocco dei salari, ai fini di disinflazione. L’intuizione alla quale io lavoravo il mio punto di riferimento teorico era Niklas Kaldor era di far diventare la politica dei redditi politica di sviluppo (quale distribuzione ottimale dei redditi per massimizzare la crescita) e non semplicemente politica di controllo dei salari. De Michelis aveva perfettamente compreso la novità di questa prospettiva. Intanto la realtà, insistentemente, ci provocava: dinamica dei prezzi a due cifre, crisi petrolifera, instabilità politica, terrorismo, anni di piombo, scorte… (…)
Non era facile bloccare la scala mobile, cancellare la scala mobile, manipolare la scala mobile. Ci aveva provato il ministro Enzo Scotti l’anno precedente, con scarsi risultati. Non era facile perché era una impresa contro intuitiva e assai impolitica: come dare meno soldi ai lavoratori, senza metterteli contro, per difendere i salari reali, contrastando l’illusione monetaria. Dall’altra parte il populismo alla Berlinguer: serio, strutturato, ma populismo, del tipo: «La scala mobile non si tocca!».
Eppure l’interpretazione che con Gianni abbiamo dato a quella stagione è stata proprio questa: non solo freezing (congelamento), blocco relativo dei salari e blocco (sempre relativo) dei prezzi, come facevano malamente e con esiti fallimentari su tutta la linea in altre parti di Europa. Quello che cercammo fu un accordo complessivo di politica dello sviluppo: come fare più crescita, più occupazione e meno inflazione. Più massa salariale, più salario reale. Dalla parte dei lavoratori. (…)
Arrivò dunque il 14 febbraio, ma nessuno aveva pensato che il cronoprogramma dell’accordo avrebbe avuto la sua scadenza proprio il giorno di San Valentino. (…) Mi ricorderò sempre la redazione di questo accordo (alla base del decreto), un documentone alto una spanna. A Palazzo Chigi non c’erano ancora i computer, si andava di piano in piano, chi scriveva le prime dieci, le seconde dieci, le terze dieci, le quarte dieci pagine, su e giù per controllare e poi mettere tutto insieme, perché poi bisognava mandare per motociclista il testo concordato a tutte le parti sociali, (datori di lavoro e lavoratori) per la firma. Ci fu consenso, tranne la Cgil comunista. Inizialmente furono bloccati nel decreto originario tutti e quattro i trimestri a 2 punti (non più di 2 scatti per trimestre era la dicitura esatta); poi bastò come detto bloccarne semplicemente due di trimestri, nelle reiterazioni del decreto, poiché la manovra d’anticipo aveva in sé la capacità di raffreddare i trimestri successivi (il terzo e il quarto, che non avrebbero avuto bisogno di blocco perché l’inflazione da salari veniva già ridotta). Fu un grande risultato che cambiò la storia di questo nostro Paese. Insomma, la predeterminazione di Modigliani e di Tarantelli funzionò. Mai teoria ricevette così palese e piena applicazione di successo, smontando nei fatti la propaganda degli avversari.
Si andò al referendum abrogativo voluto dal PCI, e qui il finale: spiegare ai lavoratori e chiedere il loro voto, parlando loro di illusione monetaria, quasi una follia. Non è stata cosa facile, né per un giovane professore come il sottoscritto, né per i ben più attrezzati di lui uomini del sindacato non comunista che si batterono nelle fabbriche e nelle piazze.
Il risultato fu 54,3% a 45,7%, un risultato straordinario, antipopulista ante litteram. Il quesito di fatto era: «Volete o non volete 400.000 lire in busta paga tutte e subito?» Il 54,3% del popolo italiano andò a votare il 77,9% degli aventi diritto disse di no, che non voleva circa 380-400.000 lire, per un miracolo di saggezza e maturità. Perché probabilmente aveva capito, non tanto l’illusione monetaria del giovane professor Brunetta, ma il senso di quella manovra e di quella strategia antipopulista, controcorrente, contropelo, che allora percosse il Partito comunista e il sindacato comunista, mentre tutte le altre forze politiche e sociali stavano dalla parte della ragione. Il nemico dei salari era l’inflazione a due cifre. E la scala mobile, con l’inflazione a due cifre, da cosa buona diventava cosa cattiva. I lavoratori e gli italiani lo capirono bene. Ecco, questo è il ricordo che ho io e, devo dire, è il ricordo di un Gianni che vedeva più lontano di tutti noi. Come ho detto anche prima, approfittando pure di qualche contributo tecnico-accademico che qualcuno gli portava, alla fine riusciva nell’impossibile. Da una parte sola, dalla parte dei lavoratori, come avrebbe detto Giacomo Brodolini, suo predecessore al Ministero del Lavoro, e padre dello Statuto dei lavoratori, socialista come noi. Su questo accordo fu determinante alla fine Bettino Craxi che, nella riunione del Consiglio dei ministri del 13 febbraio cercò l’alleanza con Visentini, che fece di buon grado lo scambio sulla parte fiscale, equo canone e altro. Perché il senso dell’accordo stava in uno scambio fiscale e non di compensazione di quelle 400.000 lire virtuali in meno con una serie di vantaggi per i lavoratori per «compensare» concretamente (blocco dell’equo canone, soprattutto) la populista illusione monetaria, cavalcata dal PCI e dalla CGIL comunista. Visentini capì, Spadolini no. La situazione si stava mettendo male e Spadolini pensando che l’accordo non si sarebbe fatto, uscì dal Consiglio dei ministri per andare a telefonare a «la Repubblica», dando il titolo di prima pagina, Accordo fallito. Solo che mentre lui usciva per telefonare a Scalfari, Craxi chiudeva finalmente con Bruno Visentini, e d’accordo con Gianni De Michelis, si passò al punto seguente dell’ordine del giorno di quel Consiglio dei ministri notturno. Tornò Spadolini, capì che il punto in discussione non c’era più, ma si era il punto successivo. Si fece spiegare, «no, guarda, l’accordo è passato» gli disse De Michelis, e lui «oddio!».
Ritornò fuori per dare il contrordine a «la Repubblica», a Scalfari. Almeno questo fu il racconto che mi fece Gianni di quel Consiglio dei ministri per tanti versi drammatico ma anche salvifico. E a pranzo dal «Bolognese», il giorno dopo, ancora morti di sonno e di fatica, ci ridemmo affettuosamente su, con lessi misti e uno straordinario Sassicaia. Ecco, questo è il ricordo di chi aveva vissuto quella stagione straordinaria, con uomini straordinari. Poi la scala mobile fu cambiata, fu cancellata, e la storia ci portò ad altre prove terribili. Però quella rimane nella mia vita come forse la stagione più importante, vissuta assieme a tanti ragazzi, a tanti giovani che adesso giovani non sono più e fu una delle storie più belle che spesso ricordo. E mi piace pensare che il capitano preveggente di quella avventura, il nostro Gianni, sarebbe contento di essere ritratto nel vivo di quella battaglia, avendo accanto il suo Renato. L’inflazione fu domata, i salari reali difesi, il Partito comunista battuto. L’Italia era momentaneamente salva, ma sempre in un mare di guai.
L'articolo Un San Valentino che fece epoca proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
GAZA. Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati
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di Eliana Riva
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024. Centinaia di persone provano a uscire dall’ospedale Nasser assediato, circondato dai cecchini, privato dell’elettricità, dei rifornimenti medici, del cibo e dell’acqua. Il più grande ospedale del sud di Gaza, a Khan Yunis, diventato rifugio per centinaia di palestinesi sfollati, sta per essere invaso dai militari israeliani che nelle ultime settimane hanno attaccato in diversi modi la struttura pur di costringere medici, pazienti e famiglie in fuga ad abbandonarla per andare chissà dove.
Sono stati lanciati volantini, poi si sono posizionati i cecchini che per giorni hanno sparato, senza far differenza tra donne, uomini e bambini, a chi cercava di entrare nell’ospedale o di uscirne. Sono numerosi i video diffusi dai giornalisti e dalle persone che si rifugiano nel Nasser o nelle scuole proprio di fronte, che mostrano le persone colpite e lasciate a terra. Una madre con suo figlio, lei morta e il bambino gravemente ferito, un ragazzino di cui non sono riusciti per ore a recuperare il cadavere, a causa dei fucili di precisione sistemati dai soldati sui tetti delle case sgomberate nei dintorni. Mentre il corpo era ancora sull’asfalto, proprio all’ingresso della struttura sanitaria, un piccolo drone è stato mandato dai soldati per ordinare a tutti con un messaggio vocale di andare via. I cecchini, denunciano i medici, hanno iniziato a colpire attraverso le finestre dell’ospedale le persone che si trovano al suo interno. Almeno due bambini sono stati così feriti, e un infermiere, mentre si trovava in sala operatoria.
Un video mostra un ferito che si trascina all’interno dell’ospedale, con il sangue che si rovescia copioso da una gamba. Un medico prova a strisciare sul pavimento per tirarlo lontano dalla porta. Un giornalista ha ripreso una dottoressa che coraggiosamente si sfila il cappotto per correre con più agilità, cercando di evitare i cecchini e attraversare la strada per portare soccorso a un uomo ferito dai militari.
Decine di persone sono state uccise e molte altre ferite. L’esercito ha ordinato all’amministrazione dell’ospedale di mandar via gli sfollati e trattenere pazienti e personale sanitario.
Il Ministero della Sanità denuncia che la situazione al Nasser di Khan Yunis è “sempre più catastrofica”, mentre l’esercito di occupazione ha ordinato di allontanare le centinaia di sfollati e di trattenere i pazienti, circa 450 persone, e il personale sanitario, 300 tra medici, paramedici e infermieri. Il Ministero della Sanità ha denunciato che i militari hanno sparato sulla folla che cercava di lasciare la struttura, causando diverse vittime.
Le macchine escavatrici dell’esercito hanno spostato e depositato terra e detriti tutto intorno, bloccando l’entrata nord. I palestinesi che erano rifugiati nell’0spedale stanno uscendo in fila, passando tra le colonne di mezzi, sotto il controllo dei militari armati e delle telecamere di riconoscimento facciale montate nel checkpoint allestito all’esterno. Questo significherà, dicono le persone che ci sono già passate in altri luoghi di Gaza ormai distrutti, centinaia di arresti, o “rapimenti”, come li chiamano i palestinesi, non avendo modo di sapere dove vengono portati i propri parenti fermati dall’esercito, né quali siano le accuse, senza garanzie sul trattamento che li attende. Quasi tutti gli arrestati che sono stati poi rilasciati hanno raccontato di aver subito torture, di essere rimasti legati, senza vestiti, di essere stati brutalmente picchiati. Un uomo che, fermato e liberato dall’esercito è riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia, ha spiegato che anche alle donne è riservato il trattamento peggiore: lasciate nude insieme agli uomini, ritornano dagli interrogatori spesso con i capelli tagliati e rasati.
Alcuni sfollati dell’ospedale Nasser sono arrivati a Rafah, dove l’esercito israeliano intende compiere una massiccia operazione militare.
Gli sfollati costretti a lasciare il Nasser sono stati fermati e trattenuti. Tra loro famiglie e numerosi bambini. Alcune persone hanno provato a ritornare nella struttura a causa degli spari e della situazione estremamente pericolosa trovata all’esterno. Altri sfollati sono già arrivati o si stanno dirigendo verso Rafah, secondo le indicazioni dell’esercito israeliano. L’ultima città di Gaza, schiacciata al confine con l’Egitto, con una popolazione pre-guerra di 280.000 abitanti, accoglie già circa 1,4 milioni di persone, per la maggior parte profughi costretti dai militari a spostarsi verso sud. Le persone, che vivono nelle tende o affollano le abitazioni ancora in piedi, sono terrorizzate dall’imminente attacco annunciato dal governo israeliano. Qualcuno ha provato a fuggire, disposto a cercare rifugio tra le rovine delle proprie abitazioni al centro e al nord della Striscia. Ma l’esercito intende fare qualsiasi cosa per evitare il ritorno dei profughi. Anzi, continua a mandare a Rafah anche i nuovi sfollati, in attesa che venga chiuso e approvato un “piano di evacuazione” per la popolazione civile che è la popolazione quasi dell’intera Striscia di Gaza. L’esercito ha presentato varie proposte al gabinetto di guerra: campi profughi lungo la costa, forse. O nelle zone già devastate dai bombardamenti e dalle demolizioni controllate. Una nuova trattativa con l’Egitto, magari. Non è chiaro neanche con quali forze immagina (e se lo immagina) Israele fornire assistenza a quasi 2 milioni di persone, soprattutto intendendo dichiaratamente liberarsi dell’UNRWA e dell’Onu in generale. Ma forse anche della Difesa civile e della Mezzaluna Rossa Palestinese. Con i coloni che sempre più numerosi si affollano ai valichi per impedire ai camion degli aiuti di entrare nella Striscia.
Intanto si è fatta sera e al Nasser sono rimasti solo pochi medici e i pazienti che non possono camminare sulle loro gambe o rinunciare all’ossigeno che rimane. I dottori sono pronti a tutto. E noi non sappiamo più se ci sarà qualcuno che potrà continuare a raccontarci cosa sta succedendo in quel buco nero fuori dal mondo e dalla legge che è diventato l’ospedale Nasser di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza.
pagineesteri.it/wp-content/upl…
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Scontri incessanti tra Israele e Hezbollah. Uccisi quattro libanesi e una israeliana
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della redazione
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024 – Alta tensione al confine tra Libano e Israele. Una israeliana, forse una militare, è stata uccisa da razzi lanciati dal Libano che hanno colpito obiettivi nei pressi di una base dell’esercito a Safed, in Galilea. Altre otto persone sono rimaste ferite. L’attacco non è stato rivendicato ufficialmente da Hezbollah, ma si ritiene che sia stato lanciato dal movimento sciita libanese in risposta agli ultimi raid dell’aviazione israeliana in Libano del sud.
Poco dopo il lancio di razzi, jet da combattimento israeliani hanno martellato con bombe e missili, prendendo di mira il distretto meridionale di Nabatieh e le zone di Jubal Safi, Kfar Dunin, Basliya, Sawana e Adashit Al Qusayr. Almeno tre civili palestinesi sono stati uccisi, tra cui un bimbo di un anno, Ami Mohsen. Inoltre, un drone ha ucciso nei pressi dell’ospedale di Bint Jbiel, Muhammad Alouya, il comandante di Hezbollah per la regione di Maroun al-Ras.
In Israele ora si levano più alte le voci che chiedono una guerra aperta al Libano e ad Hezbollah. Il capo del Consiglio regionale di Mateh Asher, Moshe Davidovich, che è anche presidente di un forum delle città al confine settentrionale, ha chiesto al governo “di svegliarsi”. Senza sicurezza, non c’è il nord”, ha aggiunto.
Il capo del consiglio regionale di Merom HaGalil, Amit Sofer, ha invitato le forze armate a colpire con forza Hezbollah “dal confine fino al fiume Litani”. Secondo Sofer è necessario creare una zona smilitarizzata nel sud del Libano. Pagine Esteri
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Colorado’s Approval of Global Privacy Control: Implications for Advertisers and Publishers
The privacy laws of both Colorado and California require organizations to recognize Universal Opt-Out Mechanisms (UOOMs), a tool through which a person can invoke their opt out rights broadly across all the websites they visit. While California has required responding to certain UOOMs since July 2021, the Colorado Attorney General has only recently approved their first tool – the Global Privacy Control – as valid within the scope of the state law. This sets the stage for organizations within the law’s jurisdiction to take appropriate action necessary to ensure that they are recognizing and responding to any person’s use of the GPC. Below we provide information for what organizations need to know about UOOMs going forward, including particular implementation challenges that must be addressed to avoid enforcement actions for falling afoul of the law.
Background
Governor Polis signed the Colorado Privacy Act (CPA) in July 2021, making Colorado the third state to pass a comprehensive privacy law. Among other things, the act requires the Colorado Attorney General to conduct a special process for approving Universal Opt Out Mechanisms (UOOMs) for people to use as a means of invoking their opt out rights. Under Colorado law, covered entities will be required to honor these UOOMs beginning July 1, 2024.
The Colorado AG’s office closed applications for UOOM tools on November 6, 2023. After a public comment period, the Colorado AG announced that only one tool – the Global Privacy Control (GPC) – would be acknowledged on the exclusive public list of acceptable UOOMs in Colorado.
The recognition of the GPC as a valid UOOM in Colorado leaves adtech vendors, advertisers, and publishers in a broadly similar place in both California and Colorado once enforcement begins this summer: Publishers will have to respond to valid GPC requests in both states; advertisers and vendors will have to adjust business practices accordingly. Although implementations of GPC must still satisfy the requirements of the CPA, Colorado’s decision aligns their enforcement of opt-out rights with those in California, creating momentum toward a national standard.
What should Advertisers, Publishers, and Other Organizations Know About the GPC and UOOMs in U.S. law
1. Implementations of GPC must still satisfy the requirements of CPA
Under the CPA, UOOMs in Colorado must satisfy three categories of rules. By selecting a single UOOM tool, the Colorado AG’s office has indicated that this is the only tool “recognized in so far as the UOOM or any authorized implementations meet the requirements of [the Colorado Privacy Act].”
The first and second of these rules relate to Notice and Choice under Rule 5.03 and Default Settings under Rule 5.04. The notice and choice requirements ask UOOM vendors to ensure that the signal represents an “affirmative, freely given, and unambiguous choice to opt out” of targeted advertising and data sales. The requirements for default settings seek to ensure the choice remains a genuine opt-OUT with respect to the device. The default browser installed on the device cannot simply negate the selection in a user interface to transform the user-facing mechanism into what would appear to be an opt-IN for the user. For browsers or browser extensions that do not come pre-installed on the device and that are marketed as tools for exercising a user’s opt out rights, the consumer’s decision to install and use these tools is considered an affirmative, freely given, and unambiguous choice.
The final requirement for UOOMs in the CPA is to follow Technical Specifications under Rule 5.06. The technical specification requirements make the tool “universal” in the sense that it can automatically transmit the opt-out to multiple publishers while remaining in compliance with other requirements, like the notice and choice requirements and the default settings requirements, and without unfairly disadvantaging controllers.
It is noteworthy that the AG’s office distinguishes between “the UOOM” – the GPC in this case – and “any authorized implementations” of the UOOM. Several organizations, including FPF, expressed broad support of the GPC while correctly observing that the GPC is a protocol-level technical specification and is implementable in valid and invalid ways in user-facing tools. Actual implementations of the GPC vary significantly in their interface and functionality. However, it is not clear what is required for an implementation to be “authorized”. One may read the language to require some additional recognition by the Colorado AG’s office (which has not produced a list of authorized implementations) or instead to include those implementations recognized by the creators of the GPC, which lists several implementations that support the GPC on their website. It is even possible that “authorized implementations” may even refer to other authorized, yet-to-be-approved UOOMs and have nothing to do with the GPC.
Based on this analysis, it is technically possible for publishers to receive an invalid GPC signal originating from a tool that fails to implement other requirements of the CPA. However, discerning the validity of GPC signals as they are received may require publishers to implement otherwise invasive means, like browser fingerprinting.
2. GPC will be a multi-state enforcement priority for 2024
Despite the limitations of approving a technical specification, the decision in Colorado to recognize only the Global Privacy Control marks an alignment with California that the GPC should be a clear priority for organizations looking to avoid an enforcement action in 2024. Controllers in Colorado and businesses in California should earnestly implement appropriate means to receive these signals and respond in their advertising technology stack. Industry preparation should include some mechanism for differentiating data that has been opted-out of sale or sharing from data that has not.
The Colorado AG also indicated that the current public list (which, again, consists solely of the GPC) will be “prioritized for enforcement,” meaning publishers will likely be required to respond to GPC opt-out requests as soon as the enforcement date of July 1, 2024 rolls around. Any relevant on-going or concluded investigations in California since the AG settlement with Sephora have not resulted in publicly announced enforcement actions. However, it has remained an area of active interest, including recent discussions by the California Privacy Protection Agency (CPPA) regarding the possibility of requiring browser vendors to implement a feature allowing users to express their opt-out preferences to publishers.1
3. Novel mechanisms may still be reconsidered in upcoming years
In naming the GPC as the current exclusive UOOM recognized in Colorado, Colorado AG also indicated that this did “not exclude additional UOOMs from meeting the requirements” in the future. This could mean the other shortlisted opt out mechanisms (i.e., the OptOut Code or the Opt-Out Machine) or some tool that has not yet been developed may be able to be approved in the future. However, the process for submitting applications is uncertain. The website is no longer accepting submissions, and although it may be opened to new submissions in the future, no plans for doing so are currently public.
The Colorado AG also indicated that when it does accept new applications, it will also seek public comments on them in a similar process. The three applications listed in the shortlist each took different approaches to standardizing expression of user opt out preferences. The OptOut Code proposal focused on prepending a code to human-readable device names, the Opt-Out Machine proposed an automated email-based opt out mechanisms, and the Global Privacy Control (GPC) proposed using their HTTP-based protocol-level specification in Colorado, having already been recognized as a UOOM in California.
Challenges Ahead for Enforcement
Enforcement of the Colorado Privacy Act’s requirements for opt-outs will begin later this year. Although the Colorado AG selected the GPC, they did not reveal their rationale or respond substantively to the concerns raised during the comment process. As a result, specific enforcement techniques and investigative approaches are hard to predict. At least four enforcement challenges exist for Colorado: (1) responding to the GPC alone may not be enough to ensure compliance with the CPA, (2) confirmation of signals by controllers is not required making verification of the receipt of valid signals difficult, (3) invalid GPC signals are difficult to detect definitively, and (4) the current move toward enforcement is happening at a time of transition in the industry at large.
First, responding to the GPC alone is not enough for compliance with the CPA. Although the GPC specification includes optional requirements allowing publishers to confirm to users that they have received the GPC signal, this confirmation is not technically tied to any advertising that appears on the publisher site. In other words, it is possible for a publisher site to continue serving targeted ads while confirming to users that their GPC opt-out signal has been received, either intentionally or accidentally. The Colorado AG will need some mechanism for discerning whether any advertising displayed was targeted or not. For people who have invoked the GPC, publishers are likely to replace targeted advertising with contextual advertising, and these ads may be served by similar ad servers, making discernment challenging. (The opt-out also applies to the sale of personal data, but that would not be immediately obvious to an enforcement agency in a single web browsing session regardless of the GPC configuration.)
Second, optional confirmation requirements in the GPC specification are not strictly required by the CPA. Although confirmation may be useful for users, advertisers, and publishers seeking to test their configuration of their GPC tool of choice, their utility as part of regulatory enforcement remains unclear, and without them it is unclear how Colorado enforcement agencies will determine whether a signal has been received and responded to. It is worth noting here that California’s recently proposed revisions to the California Consumer Privacy Act (CCPA) would require businesses to display the status of the consumer’s choice.2
Third, invalid implementations of the GPC can transform the opt-out into a user-facing opt-in. Developers of privacy-oriented browsers and browser extensions have evinced a desire to make the user’s experience of setting up both the browser and the GPC as fast and easy as possible, but the legal environment is inherently complex. The installation and configuration process for these tools will be critical to ensuring that GPC signals are valid in each jurisdiction where they are intended to apply. The GPC signal does not embed information on which browser, extension or tool sent the signal. This can make it difficult for organizations seeking to determine a mechanism’s validity and investigators seeking to respond to GPC signals sent using an invalid mechanism or configuration. Investigators will also have to determine if the person covered by the signal is a Colorado resident.
Finally, enforcement of the CPA comes at a time when the industry is transitioning away from the third-party cookie and toward new advertising APIs, presenting an additional challenge for discernment of targeting information. Publishers will need to be able to connect receipt of the GPC signal to their new infrastructure for advertising APIs during this transition. Similarly, Colorado’s enforcement will need to be able to verify compliance with the CPA, including responses to valid GPC signals, during this industry transition. Many other states are considering comprehensive privacy laws, some with subtly different opt out rights. Colorado has indicated that they prefer a harmonious, multi-state approach where possible, but this possibility remains an open question as states consider new approaches to privacy.
Conclusion
Colorado’s adoption of the GPC as the only valid universal opt out mechanism, for now at least, represents a critical step for vendors, advertisers, publishers, and users. Broad alignment with California marks this as important outside of Colorado as well, particularly with other states adopting or considering comprehensive privacy laws. Although some challenges and open questions remain, covered entities should earnestly work towards compliance to be able to honor these UOOMs beginning July 1, 2024.
1 Note that this requirement may complicate the default setting requirements discussed earlier given Colorado’s differentiation between a browser that comes pre-installed on a device and one that does not.
2 See page 40, in § 7025 on Opt-out Preference Signals.
Infowar e pacifismo, esiste la guerra giusta? L’analisi di Jean
L’Infowar – cioè la competizione fra le propagande e le disinformazioni contrapposte – è una costante di tutti i conflitti. Nessun contendente ammette mai di combattere una guerra ingiusta. Tutti sostengono le loro buone ragioni. Spesso cercano anche di arruolare Dio dalla loro parte. La guerra giusta tende a trasformarsi in guerra santa. Per il Patriarca Kirill tale è l’aggressione russa all’Ucraina. Avrebbe infatti anche lo scopo di salvarla dal peccato: dal permissivismo verso i gay e i drogati e dal consumismo che l’allontanerebbe dalla “vera fede”, cioè dall’Ortodossia facente capo al Patriarcato di Mosca.
Valutazioni completamente oggettive sui vari conflitti, sulle loro cause e obiettivi sono difficili, poiché sono influenzate dai preconcetti e dalle ideologie di chi le formula. Lo si nota chiaramente nei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente.
Due grandi tendenze dominano al riguardo: il realismo politico e il pacifismo. Entrambe si manifestano in forme radicali o più moderate.
Per i realisti, la guerra è un fenomeno potenzialmente ineliminabile dalla storia delle società organizzate (cioè dal paleolitico superiore). La loro preparazione, necessaria per la sicurezza – bene supremo di ogni società – fa parte dell’“obbligazione politica”. Secondo padre Niebuhr – consigliere spirituale del grande politologo Hans Morgenthau – la guerra non può essere eliminata dalla storia, come non lo è il peccato originale. Il suo scoppio e la sua violenza possono però essere – e vanno – regolamentate dal diritto internazionale (Jus ad Bellum e Jus in Bello). Lo sono anche dalle varie dottrine della guerra giusta. Il ricorso reale alle armi può essere inoltre evitato – e la pace mantenuta – con la dissuasione realizzabile in due modi: o con l’equilibrio delle forze – di cui l’equilibrio del terrore e la minaccia di rappresaglie “di secondo colpo” della guerra fredda rappresentano la variante più stabile avvenuta nella storia – oppure con la superiorità degli Stati che, soddisfatti dello status quo, sono disponibili a ricorrere alle armi contro le potenze revisioniste che vorrebbero modificarlo con la forza. Le armi non sono, quindi, utili solo per combattere. Lo sono – a parer mio, soprattutto – per mantenere la pace. Chi non l’ha capito, dovrebbe dare una ripassatina alla storia o parlare di altro. È necessario che lo faccia in un periodo, come l’attuale, in cui la situazione strategica regionale e globale sta divenendo instabile e in cui l’Europa non può contare come in passato sulla “dissuasione estesa” americana.
La seconda tendenza è quella pacifista. Nelle sue forme più radicali essa sostiene che il ricorso alle armi sia sempre un crimine, che sia possibile eliminare ogni possibilità di guerra eliminando le armi (e il loro commercio), che non esistono guerre giuste e che la guerra possa essere cancellata dalla storia e sostituita dalla collaborazione fra i popoli, con negoziati promossi da potenti istituzioni internazionali capaci di imporre la pace, cioè il mantenimento dello status quo. La tendenza è molto popolare. La maledizione della guerra e delle sue brutture è vecchia come la guerra, soprattutto negli Stati deboli e in quelli che non vogliono sopportare i costi della sicurezza o di un conflitto. Viene normalmente utilizzata nella propaganda di guerra per diminuire la coesione dell’opinione pubblica nemica o di quella internazionale.
In sostanza, il pacifismo può essere – e viene – utilizzato come un’arma per prevalere sul nemico o per indurlo a disarmare, per batterlo più facilmente in caso di scoppio di un conflitto. Viene spesso applaudito dai politici per l’attrazione che esercita sugli elettori, poiché accantona nel breve termine il dilemma “burro o cannoni”, senza porsi il problema della sicurezza, che è sempre a medio-lungo periodo. Sulle esigenze della sicurezza è facile fare battute e sembrare spiritosi, come spesso avviene oggi in Italia, in cui viene praticamente ignorato il “ciclone” che ci investirebbe qualora Trump, eletto presidente, mantenesse le minacce espresse nei riguardi della Nato.
Tali due tendenze ideologiche contrapposte influiscono inevitabilmente sulle valutazioni date nei riguardi delle varie guerre, a parte le simpatie nutrite nei riguardi delle parti coinvolte. Basti, a quest’ultimo riguardo, pensare a come la propaganda del Cremlino e i suoi sostenitori si sono “arrampicati sugli specchi” per giustificare l’aggressione all’Ucraina (provocazione occidentale, minaccia dell’allargamento della Nato, oppressione della minoranza russofona, ecc.).
Tornando alle ideologie di base, a parer mio, il “realismo politico” corrisponde a quella che è la realtà del comportamento degli Stati e anche dell’Occidente, a cui conviene il mantenimento dello status quo esistente, seppur con una relativa politica di globalizzazione e di apertura verso il “Sud Globale”, che ne prevenga o, almeno, ne ritardi la completa indipendenza e sviluppo, per quanto ingiusta tale politica possa essere considerata da taluni. È probabile che la transizione non possa essere del tutto pacifica. La pax americana non regge più per l’erosione relativa della supremazia egemonica – militare ed economica – degli Usa e, soprattutto, per la crisi del loro impegno bipartisan di fungere da “gendarmi” dell’ordine mondiale liberal-democratico da essi costruito dopo la seconda guerra mondiale.
L’ordine internazionale attuale è divenuto instabile per la diminuzione della superiorità degli Usa e dalle loro sempre più accentuate tendenze al disimpegno e al ripiegamento isolazionistico. Ciò ha allentato – e non solo nel periodo della presidenza di Donald Trump – la solidità delle loro alleanze nell’Atlantico, ma anche nel Pacifico, peraltro indispensabili par la loro credibilità e potenza. Il ridimensionamento non si riferisce tanto alla potenza militare, tecnologica e finanziaria, quanto alle loro volontà d’intervenire per rispettare gli impegni presi, assumendone costi e rischi.
Ne consegue un periodo d’incertezza di cui l’Europa – in particolare l’Italia – non è ancora pienamente consapevole. Continua a basare la sua sicurezza sul possente deterrente nucleare e convenzionale americano, che però non dissuade più come in passato. Nessuno vuole affrontare seriamente il problema dell’autonomia strategica dell’Europa. Senza una capacità di dissuasione essa sarebbe “zoppa”, se non inesistente o, quanto meno, instabile. Questo imporrebbe di riprendere il progetto del 1957 (Taviani, Chaban-Delmas e Strauss) sulla “bomba nucleare” italo-franco-tedesca o di ricorrere a qualche altro “marchingegno” in condizioni di porre l’Ue in condizioni di resistere a ricatti nucleari (dotandosi di bombe radiologiche o di bombe basate sulle nuove tecnologie sviluppabili con l’intelligenza artificiale, ad esempio). Senza tali capacità di rappresaglia massiccia, non sarebbe possibile alcuna vera autonomia.
Meglio allora rassegnarsi ad accettare le pesanti condizioni che saranno imposte dagli Usa in caso di seconda presidenza Trump, oppure accettare il rapido declino che nella storia hanno sempre conosciuto gli Stati che non hanno saputo provvedere alla propria sicurezza, mascherando la propria impotenza con la “foglia di fico” di una virtuosa volontà di pace.
Dai fratelli Wright ai droni. Come è cambiato il potere aereo nel corso della storia
Centoventi (e uno) anni fa, il primo esperimento volo dei fratelli Wright apriva una nuova epoca nella storia dell’umanità. Da allora ad oggi, il controllo dell’uomo sui cieli e sopra di essi ha continuato a crescere costantemente in tutte le dimensioni. Compresa quella militare. L’evoluzione del potere aereo in contesti bellici, tra teoria e pratica, è stata finemente descritto in un paper dell’Istituto Affari Internazionali di recente pubblicazione, firmato da Alessandro Marrone, Andrea e Mauro Gilli.
L’introduzione dell’arma aerea, così come la sua evoluzione, ha portato all’avvio di un processo di profondo adattamento delle dinamiche belliche, adattamento che a sua volta ha influenzato lo sviluppo delle stesse aviazioni di tutto il mondo. Inizialmente utilizzati soltanto per mere funzioni di ricognizione sopra le trincee della prima guerra mondiale, col passare degli anni sono emerse concezioni dottrinarie che assegnavano ai velivoli un ruolo principe nella conduzione dei conflitti, dall’italiano Giulio Douhet all’inglese Hugh Trenchard e all’americano Billy Mitchell. Anche se non esattamente nei termini previsti dai “pionieri della dottrina aereonautica”, con la Seconda Guerra Mondiale il ruolo del potere aereo viene definitivamente consacrato come determinante, non solo relativamente alla dimensione aerea, ma anche a quella terrestre e a quella marittima.
Un ruolo che dopo il secondo conflitto mondiale si espande ancora di più. Da una parte c’è l’introduzione sullo scenario globale dell’arma nucleare, capace di stravolgere completamente i paradigmi strategici esistenti fino ad allora, arma il cui unico vettore (perlomeno all’inizio) può essere un ordigno trasportato da un velivolo. Contemporaneamente si avvia però la corsa allo spazio, e accanto ai velivoli anche i sistemi missilistici e i satelliti compaiono diventano componenti essenziali del potere aereo.
L’evoluzione tecnologica durante la seconda metà della guerra fredda rende tutti questi sistemi sempre più complessi ed efficaci, dotandoli di armamenti più precisi e di raggio maggiore, di capacità stealth e di sistemi di comunicazione più efficaci. La Revolution in Military Affairs è emersa come risultato diretto di questi sviluppi, senza i quali non sarebbe stata possibile, così come non sarebbe stato possibile realizzare campagne militari come quelle avvenute durante il momento unipolare del sistema internazionale post-guerra fredda, come i due conflitti del golfo, le operazioni in Libia e in Afghanistan o quelle nei Balcani. Che però, è doveroso notare, si sono svolte in contesti di spazio aereo praticamente uncontested (ad eccezione del Kosovo).
Cosa aspettarsi per il futuro? Gli aspetti toccati dall’innovazione possono essere tantissimi. A partire dall’evoluzione e dalla sempre più estensiva diffusione dei droni e di tutto ciò che è collegato al loro mondo, all’integrazione dell’Intelligenza Artificiale, fino alla creazione di mega-costellazioni di satelliti capaci di fornire un’intelligence accurata e costante. Quello che è certo è che la storia del potere aereo non è assolutamente arrivata al tramonto.
GAZA. Mentre Israele attacca Rafah, gli Stati Uniti lanciano solo inviti alla cautela
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della redazione con informazioni diffuse dall’agenzia Reuters
Pagine Esteri, 9 febbraio 2024 – Funzionari statunitensi hanno espresso in questi giorni le critiche più taglienti per le vittime civili fatte da Israele a Gaza. Lo stesso presidente Joe Biden ha descritto ieri come “esagerata” la reazione di Israele all’attacco di Hamas il 7 ottobre. Ma mentre lo Stato ebraico sposta il centro della sua offensiva militare su Rafah, ma non c’è nulla che suggerisca che la retorica di Washington sarà sostenuta da qualche azione concreta.
Mercoledì, durante il suo quinto viaggio nella regione dopo l’attacco mortale di Hamas del 7 ottobre, il Segretario di Stato Antony Blinken ha criticato l’attività militare israeliana a Gaza, affermando che il numero delle morti civili resta troppo alto anche dopo ripetuti avvertimenti e ha suggerito a Israele passi specifici da seguire.
Qualsiasi “operazione militare intrapresa da Israele deve mettere i civili al primo posto… E questo è particolarmente vero nel caso di Rafah”, a causa della presenza di più di un milione di sfollati, ha detto Blinken in una conferenza stampa. Ma quando gli è stato chiesto se gli Stati Uniti sarebbero rimasti a guardare mentre le forze israeliane prendevano di mira Rafah, Blinken ha solo ripetuto la posizione americana secondo cui l’operazione militare israeliana dovrebbe mettere i civili al primo posto.
I diplomatici statunitensi hanno esortato Israele a cambiare la sua tattica a Gaza per mesi, senza successo. Washington però non ha avviato misure che avrebbero potuto esercitare una maggiore pressione, come ridurre i 3,8 miliardi di dollari di assistenza militare annuale a Israele o modificare il sostegno alle Nazioni Unite al suo alleato di lunga data. I critici affermano che ciò fornisce un senso di impunità a Israele.
Aaron David Miller del Carnegie Endowment for International Peace ha citato fattori, tra cui il sostegno personale del presidente Joe Biden a Israele e alla sua politica come ragioni per cui gli Stati Uniti non hanno intrapreso tali passi. L’Amministrazione continuerà a “lavorare con gli israeliani, a volte parlerà duro, ma finché non si vedrà qualche prova concreta che sono pronti a fare davvero delle cose…non vedo cosa potrebbe accadere”, ha detto Miller.
Più della metà degli abitanti di Gaza si trovano a Rafah, al confine egiziano, molti dei quali si sono spostati più volte per sfuggire al conflitto. Israele ha già bombardato Rafah e i residenti temono un attacco di terra. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto che la campagna israeliana si espanderà alla città per prendere di mira i militanti (di Hamas). Ieri, il portavoce della Casa Bianca, John Kirby, ha affermato che qualsiasi attacco a Rafah senza la dovuta considerazione per i civili sarebbe “un disastro”. Secondo funzionari del ministero della sanità a Gaza, quasi 28.000 persone sono state uccise nella campagna militare israeliana.
Israele ha scatenato la sua guerra affermando di voler sradicare Hamas dopo che i militanti di Gaza avevano lanciato un’incursione shock nel sud di Israele il 7 ottobre, uccidendo 1.200 persone e sequestrando circa 240 ostaggi. “Gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile il 7 ottobre…Ma questa non può essere una licenza per disumanizzare gli altri”, ha detto Blinken.
Israele afferma di adottare misure per evitare vittime civili e accusa i militanti di Hamas di nascondersi tra i civili, anche nei rifugi scolastici e negli ospedali, provocando ulteriori morti tra i civili. Hamas lo nega. Pagine Esteri
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GAZA. Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati
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di Eliana Riva
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024. Centinaia di persone provano a uscire dall’ospedale Nasser assediato, circondato dai cecchini, privato dell’elettricità, dei rifornimenti medici, del cibo e dell’acqua. Il più grande ospedale del sud di Gaza, a Khan Yunis, diventato rifugio per centinaia di palestinesi sfollati, sta per essere invaso dai militari israeliani che nelle ultime settimane hanno attaccato in diversi modi la struttura pur di costringere medici, pazienti e famiglie in fuga ad abbandonarla per andare chissà dove.
Sono stati lanciati volantini, poi si sono posizionati i cecchini che per giorni hanno sparato senza far differenza tra donne, uomini e bambini, a chi cercava di entrare nell’ospedale o di uscirne. Sono numerosi i video diffusi dai giornalisti e dalle persone che si rifugiano nel Nasser o nelle scuole proprio di fronte, che mostrano le persone colpite e lasciate a terra. Una madre con suo figlio, lei morta e il bambino gravemente ferito, un ragazzino di cui non sono riusciti per ore a recuperare il cadavere, a causa dei fucili di precisione sistemati dai soldati sui tetti delle case sgomberate nei dintorni. Mentre il corpo era ancora sull’asfalto, proprio all’ingresso della struttura sanitaria, un piccolo drone è stato mandato dai soldati per intimare alle persone di andare via. Mentre gli spari dei cecchini, hanno denunciano i medici, hanno cominciato a colpire attraverso le finestre degli ospedali le persone che si trovano al suo interno. Almeno due bambini sono stati così feriti e un infermiere, mentre si trovava in sala operatoria.
Un video mostra un ferito che si trascina all’interno dell’ospedale, con il sangue che si rovescia copioso da una gamba. Un medico prova a strisciare sul pavimento per tirarlo lontano dalla porta. Un giornalista ha ripreso una dottoressa che coraggiosamente si sfila il cappotto per correre con più agilità, cercando di evitare i cecchini e attraversare la strada per portare soccorso a un uomo ferito dai militari.
Decine di persone sono state uccise e molte altre ferite. L’esercito ha ordinato all’amministrazione dell’ospedale di mandar via gli sfollati e trattenere pazienti e personale sanitario.
Il Ministero della Sanità denuncia che la situazione al Nasser di Khan Yunis è “sempre più catastrofica”, mentre l’esercito di occupazione ha ordinato di allontanare le centinaia di sfollati e di trattenere i pazienti, circa 450 persone, e il personale sanitario, 300 tra medici, paramedici e infermieri. Il Ministero della Sanità ha denunciato che i militari hanno sparato sulla folla che cercava di lasciare la struttura, causando diversi morti e feriti.
Le escavatrici dell’esercito hanno spostato e depositato terra e detriti tutto intorno alla struttura, bloccando l’entrata nord. I palestinesi che erano rifugiati nell’0spedale stanno uscendo in fila, passando tra le colonne di mezzi, sotto il controllo dei militari armati e delle telecamere di riconoscimento facciale montate nel checkpoint allestito all’esterno della struttura. Questo significherà, dicono le persone che ci sono già passate in altri luoghi di Gaza ormai distrutti, centinaia di arresti, o “rapimenti”, come li chiamano i palestinesi, che non hanno modo di sapere dove vengono portati i propri parenti fermati dall’esercito, né quali siano le accuse, né possono avere garanzie sul trattamento che li attende. Quasi tutti gli arrestati che sono stati poi rilasciati hanno raccontato di aver subito torture, di essere rimasti legati, senza vestiti, di essere stati brutalmente picchiati. Un uomo che, fermato è liberato dall’esercito è riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia, ha spiegato che anche alle donne è riservato il trattamento peggiore: lasciate nude insieme agli uomini, ritornano dagli interrogatori spesso con i capelli tagliati e rasati.
Gli sfollati costretti a lasciare il Nasser sono stati fermati e trattenuti al checkpoint. Ci sono tra di loro famiglie e numerosi bambini. Alcune persone stanno in questi minuti ritornando nella struttura a causa degli spari e della situazione estremamente pericolosa che hanno trovato all’esterno.
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imolaoggi.it/2024/02/12/spagna…
Spagna, Von der Leyen denunciata per appropriazione indebita e distruzione di documenti pubblici • Imola Oggi
L'influentissima associazione spagnola Liberum ha annunciato di aver presentato tre denunce contro Ursula Von der LeyenImolaOggi
In Cina e Asia – In Cina aumentano i matrimoni dopo dieci anni
I titoli di oggi: In Cina aumentano i matrimoni dopo dieci anni La società biotecnologica Wuxi AppTec potrebbe essere sanzionata dagli Usa La Cina è il primo produttore navale al mondo Il premier giapponese Kishida vuole incontrare Kim Jong Un India e Cina più vicine nell’indice azionario internazionale MSCI Via libera del senato Usa ai fondi per Taiwan Thailandia, l’ex ...
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imolaoggi.it/2024/02/10/bce-ba…
BCE: "Basta aiuti pubblici alle famiglie per le bollette" • Imola Oggi
La Banca centrale europea torna all'attacco sulle misure intraprese dai governi Ue dopo lo scoppio della crisi energeticaImola Oggi
lindipendente.online/2024/02/1…
Napoli: la polizia carica la protesta contro la censura della RAI sul genocidio palestinese - L'INDIPENDENTE
Cariche, manganellate, sangue. Questa è stata la risposta dello Stato al centinaio di manifestanti che a Napoli ha realizzato un presidio pacifico sotto la sede RAI.Salvatore Toscano (Lindipendente.online)
Oltre Icaro: il sogno transumano
Il 28 gennaio 2024 è stato impiantato il primo chip cerebrale al mondo. La notizia arriva direttamente da Elon Musk, proprietario dell’azienda che produce il chip: “The first human received an implant from Neuralink yesterday and is recovering well. Initial results show promising neuron spike detection”.
L’impianto Neuralink è un’interfaccia cervello-computer (BCI) che mira a captare e analizzare i neuroni attraverso degli elettrodi che penetrano fisicamente il cervello del paziente. Da tempo i neuroscienziati riconoscono che acquisire i segnali che arrivano direttamente dai neuroni è il segreto per decodificare il pensiero umano.
Attraverso le BCI sarà possibile controllare la tecnologia come se fosse parte di noi. Il chip Neuralink nasce per dare la possibilità a persone invalide, in particolare paraplegici, di controllare dispositivi elettronici col pensiero, come smartphone o computer. In futuro è probabile che potranno controllare anche protesi robotiche, come se fossero arti naturali.
Alcuni dicono che le neurotecnologie permetteranno anche di decodificare processi cognitivi complessi, come i sogni o il “monologo interiore” (fun fact: secondo alcune ricerche solo il 30-50% delle persone posseggono un monologo interiore).
Yuval Noah Harari, storico e filosofo israeliano e autore di Homo Deus1, ha recentemente affermato che rischiamo che l’intelligenza artificiale possa arrivare a falsificare la nostra stessa realtà, a partire dai più classici “deep fake” fino ad arrivare alla moneta e poi all’economia intera.
Se all’intelligenza artificiale uniamo le potenzialità di nuove tecnologie come il VisionPro di Apple e delle futuristiche interfacce cervello-computer di Neuralink, sembra che il XXI secolo possa in effetti segnare davvero un cambio di passo verso un vero e proprio Transumanesimo.
I tempi che s'annunciano saranno titanici e tragici. Non sottovalutare l'impatto della tecnologia (e della tecnocrazia) sulla tua vita e sul tuo spirito.
Verso il transumanesimo
Il transumanesimo viene solitamente definito come un movimento intellettuale che sostiene l'uso della scienza e della tecnologia per migliorare le capacità fisiche e cognitive umane, aumentando la qualità (e longevità) della vita.
Un esempio, che oggi sembra ancora fantascientifico, sono le protesi robotiche che un giorno andranno a sostituire i nostri arti o organi, magari arrivando perfino a migliorarli. Ai suoi estremi, il transumanesimo mira a raggiungere l’immortalità (digitale o cibernetica).
Il transumanesimo può essere considerato l'ultimo step in ordine temporale di un percorso millenario che da sempre spinge l'Uomo a interrogarsi sul proprio posto nell’Universo, cercando al tempo stesso di superare i limiti della realtà materiale e della sua stessa biologia.
In effetti, l’idea che l’Uomo possa trascendere i limiti biologici e materiali attraverso una conoscenza segreta, come la capacità di decodificare i segnali derivanti dai neuroni, è molto risalente nel tempo.
Secondo lo Gnosticismo (dalla parola greca gnósis, cioè “conoscenza”), corrente filosofico-religiosa che alcuni fanno risalire a prima del Cristianesimo (giudicata poi eretica nell’XI secolo), l’Uomo avrebbe la capacità di elevare se stesso e liberare il suo spirito dalla prigionia del mondo materiale attraverso l’acquisizione della Conoscenza.
La ricerca tecnologica, in quanto ricerca fondata sulla manipolazione della realtà materiale, sarebbe quindi uno strumento per acquisire quella Conoscenza necessaria a liberare lo spirito umano dalla sua prigione biologica.
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Anche negli antichi miti classici si possono ritrovare elementi vicini al transumanesimo.
Il mito di Icaro è uno di questi: figlio di Dedalo e di Naucrate, schiava di Minosse, Icaro fu rinchiuso con il padre nel labirinto di Creta. Riuscì a fuggire volando con delle ali di cera costruite dal padre, per poi cadere verso la morte dopo essersi avvicinato troppo al Sole.
Volendo azzardare un’interpretazione allegorica del mito di Icaro, potremmo dire che il “labirinto” è un simbolo della complessità della mente umana, o magari delle limitazioni imposte dalla realtà materiale. Il labirinto è cioè il vincolo materiale che intrappola l’Uomo (Icaro) nella sua condizione, limitando anche la sua comprensione della realtà stessa.
Il volo di Icaro verso il Sole può essere invece visto come il tentativo dell’Uomo di trascendere le limitazioni materiali attraverso la tecnologia. In questo senso, il volo di Icaro rappresenta l’aspirazione di raggiungere la Conoscenza divina, rappresentata dal Sole. Al sorgere del Sole, però, le ali di Icaro iniziano a sciogliersi; lasciandolo cadere verso la morte.
Lo stesso concetto può ritrovarsi nel libro della Genesi (11, 1-9), in cui si racconta il mito della Torre di Babele, voluta da Nimrod per cercare di arrivare a toccare il “cielo” e sostituire Dio, superando così i limiti terrestri e materiali. Anche in questo caso, il tentativo fallì miseramente e l’umanità intera fu punita.
I miti antichi sembrano suggerire che il viaggio transumano verso la Conoscenza sia costellato da rischi — alcuni di questi mortali.
E se allora l’umanità si dirige verso un futuro transumano, come evoluzione e ambizione naturale della ricerca tecnologica, non possiamo certo parlarne senza approfondire le ragioni filosofiche alla base del fenomeno. Non si tratta solo di nuovi gadget scintillanti.
Come scriveva già padre Benanti nel 20191:
I profondi cambiamenti indotti dall’irruzione dell’informazione e dagli artefatti biotecnologici suscitano nuove domande sull’uomo e sulla sua identità: la questione antropologica diventa un luogo chiave dove la filosofia e la teologia si devono confrontare con nuove visioni e inedite sfide.
Un’odissea spirituale
Come detto, il transumanesimo potrebbe essere quindi visto come la continuazione di un’odissea spirituale intrapresa già dagli albori dell’umanità.
Per capire meglio alcuni aspetti di questa odissea, ho chiesto a 2, autrice di, di aiutarmi (il testo in corsivo è il suo).
Secondo Brenda, gli uomini sono esseri guidati dai miti, costantemente alla ricerca di una grande impresa che li spinga al sacrificio personale e al progresso comune. La fase attuale della nostra esistenza implica una metamorfosi che influisce non solo sulle nostre condizioni fisiche e mentali, ma anche sui nostri modelli mitici fondamentali.
L'essere umano necessita di principi astratti e di credenze condivise per organizzare e coordinare le proprie azioni. Per progredire, qualsiasi cosa significhi, è essenziale infondere e stimolare negli uomini il desiderio di aspirare a qualcosa di maggiore. Questo comporta una percezione riscattatrice delle capacità umane e un ideale utopico per il domani.
Ray Kurzweil, sacerdote della Singolarità transumanista, sostiene che ci trasformeremo in entità simili ai "corpi senza organi" descritti da Deleuze, eterni nelle nostre esistenze di silicio. Il mito della Singolarità richiama l'archetipo biblico dell'Apocalisse, prevedendo l'arrivo di una "Nuova Gerusalemme" sintetica dopo l'attuale periodo di crisi geopolitica. Il transumanesimo prende il mito cristiano della salvezza e gli dà una veste meccanica.
Il transumanesimo si configura quindi come una sorta di fede religiosa nella tecnologia, attraverso un processoche comporterà una graduale dissoluzione del confine tra natura e tecnologia, nonché tra uomo e macchina, seguendo una narrazione mitica che attinge all'archetipo biblico dell'Apocalisse.
La tecnologia non è un'attività laica, al contrario di quanto si voglia sostenere. Anzi, l’istinto religioso di chi programma e di chi innova è più vivo che mai, semplicemente celato alla vista. Non viviamo in una società laica. Non lo abbiamo mai fatto e non lo faremo mai. La tecnologia porta con sé sogni e aspirazioni che vanno ben oltre la funzionalità.
Persi nell’algoritmo
I rischi che si annidano nel prossimo futuro transumano sono molto più spirituali che materiali. Principalmente, potremmo perdere la nostra stessa umanità.
La tecnologia dell’informazione già ora pervade ogni ambito della nostra vita, fin dalla nascita. Tutto ciò che facciamo sparge nell’etere dei fili invisibili fatti di bit che sono raccolti da algoritmi di machine learning e reti neurali.
Questi sono sempre più usati per prendere decisioni automatizzate che plasmano la nostra realtà. E’ ciò che accade ad esempio con le cosiddette “filter bubble” nei social network: un algoritmo ci propone contenuti, cioè una determinata realtà, sulla base delle nostre azioni passate.
Così si instaura un feedback loop in cui la persona viene spinta a compiere determinate azioni in base alle scelte fatte in precedenza. Ciò che appare una libera scelta, è in realtà solo l’effetto di una decisione presa da una macchina al posto nostro.
Grazie a meccanismi del genere, da anni ormai il sistema globalista-tecnocratico è impegnato nel creare il consumatore perfetto delle nuove tecnologie dell’informazione.
Miliardi di persone oggi sono legate a una concezione materialistica della vita e della realtà: figli demoralizzati di un collettivismo globalista che riempie il loro vuoto identitario (soprattutto occidentale) con gadget tecnologici pensati appositamente per creare un falso senso di appagamento.
La questione più rilevante che si pone soggi è quella relativa all'anima: gran parte delle persone è stata sedotta da una visione del mondo meccanicistica, fino a convincersi dell'inesistenza dell'anima — come se fossimo meramente funzioni algoritmiche, automi biologici.
Questo è l'orrore descritto da Yuval Harari in Homo Deus. Harari ha prospettato un futuro non troppo lontano in cui un'élite ristretta e tecnologicamente avanzata domina su una popolazione relegata al ruolo di giocatori di videogiochi immersivi.
Si intravede la possibilità che le “democrazie” vengano gradualmente sostituite da società robotiche totalitarie, basate su sorveglianza assoluta e controllo mentale sistematico.
In questo tipo di società, l’Uomo — transumano, addomesticato — non avrà alcuna visione storica e sarà profondamente attaccato alle strutture della società algoritmica e tecnocratica che lo governano, vittima di infiniti feedback loop e perso all’interno di infinite realtà virtuali. Una nuova semi-vita transumana, dove l’azione è guidata esclusivamente dalla dopamina creata dagli algoritmi.
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L’Uomo al centro dell’universo
Come può il transumanesimo, a queste condizioni, essere il prossimo step evolutivo della società umana?
Non è detto che ci aspetti per forza il futuro distopico prospettato da Harari, che certamente considera se stesso parte delle élites. Il futuro dipende da noi, non certo da un destino predeterminato. Per mitigare questi pericoli, che sono prima di tutto esistenziali e spirituali, forse abbiamo semplicemente bisogno di riscoprire un nuovo umanesimo all’interno del transumanesimo.
L'umanesimo poneva l'Uomo al centro dell'universo, con una visione antropocentrica che enfatizzava la dignità, il potenziale e il valore intrinseco dell'essere umano.
Durante il periodo umanistico venne promossa l'idea che l'umanità potesse raggiungere grandi cose attraverso la ragione, la filosofia, l'esplorazione delle arti e la riscoperta dei testi antichi. Le opere di Michelangelo e Leonardo Da Vinci ne sono un testamento. L’Uomo (e la sua libertà) era la misura di tutte le cose.
ll transumanesimo porta agli estremi l’umanesimo, fino a superare il concetto stesso di centralità umana. L'obiettivo non è più trasformare il mondo a misura d’Uomo, ma trasformare l'umano in qualcosa di più avanzato, utilizzando strumenti come l'ingegneria genetica, la cibernetica, l'intelligenza artificiale e la realtà virtuale.
L’idea stessa di un’interfaccia cervello-computer, come quella progettata e impiantata da Neuralink, dimostra la volontà di fondere Uomo e macchina.
Mentre l’umanesimo celebrava l’Uomo come centro di tutte le cose, il transumanesimo porta la “volontà di potenza”3 dell’umanesimo ai suoi grotteschi estremi: la centralità dell’Uomo nell’universo ha ceduto il passo alla centralità dei processi umani, riducendo l'Uomo a mero ingranaggio all’interno del sistema tecnologico da lui stesso creato.
Per quanto mi piaccia Ted Kaczynski, non credo che la soluzione sia un nuovo luddismo e un ritorno ai boschi. La “tecnoscienza”, per citare G. Faye, è prometeica nella propria essenza: reca in sé il meglio delle speranze e i peggiori pericoli per il genere umano.
Non è neanche detto che la “salvezza” debba essere di massa; non lo è mai. Probabilmente ci saranno persone incatenate alla tecnologia, e persone che invece sfrutteranno la tecnologia per rompere le proprie catene, come già professato dai primi Cypherpunk alla fine del secolo scorso.
Il transumanesimo di Harari, distopico e oppressivo, è necessariamente globalista e di “massa”. Il globalismo infatti predica la fine della storia, cioè un mondo pervaso da una Civiltà unica, un Popolo unico; un Governo unico. A questo si aggancia il consumismo, il gradino più basso del materialismo, che è lo strumento per addomesticare le masse, trasformandole in consumatori. In pratica: l’annullamento dei valori, delle tradizioni, della mentalità dei popoli e degli individui a favore di un’egemonia culturale scientista e materialista, fondata sulla sorveglianza di massa e sulla censura algoritmica.
Il transumanesimo globalista non ammette quindi alcuna identità (individuale o dei Popoli), né individualismo (legato al concetto di libertà-responsabilità e pensiero critico).
Continua Brenda: a Babele le persone erano unite da un obiettivo comune, da un’unica lingua, un pensiero unico, una coscienza collettiva. La coscienza collettiva non può tollerare il dissenso al suo interno. Qui giace la contraddizione dell'esistenza transumana: potremmo teoricamente vivere in eterno, ma perderemmo la nostra essenza individuale a un livello basilare.
Nel sistema globalista transumano, l’individuo si trasforma in una scatola vuota da riempire, manipolare e — in futuro — hackerare.
E allora, per non farsi hackerare bisognerà patchare le nostre vulnerabilità morali e spirituali, rivolgendo lo sguardo a valori ancestrali e umanistici che abbiamo perso di vista dietro le false promesse globaliste e progressiste: identità culturale e territorialismo (il globalismo agisce prima di tutto sul piano materiale, che va riconquistato), individualismo e, sì — anche il controllo equilibrato della tecnologia, attraverso una rinnovata spiritualità.
Abbiamo oltrepassato il panismo, il monoteismo, il deismo e addirittura l'ateismo. Ora dobbiamo "resuscitare" Dio — almeno in termini concettuali.
Secondo Harari nel corso del XXI secolo, l'umanità tenterà di impiegare le sue conoscenze per guadagnare la felicità, l'immortalità e poteri simili a quelli di Dio. Harari specula in vari modi su come questa ambizione possa essere realizzata nel futuro sulla base delle esperienze passate e del presente.
Esoterista e consulente (ex banchiere e programmatrice), impegnata a decifrare la realtà con un approccio che fonde fisica, scienza, statistica e informatica con le tradizioni millenarie, la spiritualità e l'occulto. Il testo in corsivo è il suo.
Per volontà di potenza intendo: la tendenza di ogni vita sana a perpetuarsi, ad accrescere la propria superiorità e capacità di creazione; una volontà di autoaffermazione.
ARGENTINA. La visita in Italia del “pazzo con la motosega”
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di Geraldina Colotti
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024 – Qualche giorno fa era a Roma il “pazzo con la motosega”, alias il presidente argentino, Javier Milei. Il primo punto al suo attivo, durante la canonizzazione dell’argentina Mama Antula, è stato l’abbraccio del papa, disposto a perdonargli i coloriti epiteti con cui era stato ripetutamente apostrofato: “in campagna elettorale, si dicono tante cose”, ha consentito Francisco che pure, della sua Argentina, e anche del rapporto fra diritti e potere, ha una diversa visione. Lo ha dimostrato, fin dall’inizio del pontificato, organizzando gli incontri mondiali con i movimenti popolari nei quali il suo grande amico Jean Grabois è stato una figura chiave.
Grabois si è formato nei movimenti dei raccoglitori di cartone (i cartoneros) e dei senza tetto, e la sua prospettiva è quella dell’economia circolare, della condivisione e del dono, vicina allo spirito delle due encicliche scritte da Francisco (la prima, la Lumen Fidei, l’ha scritta in parte il suo predecessore, Benedetto XVI), e che hanno costituito la traccia degli incontri mondiali: Laudato si’, che mette in relazione la crisi ambientale della Terra con la crisi sociale dell’umanità, per proporre una visione integrale dell’ecologia; e Fratelli tutti, sulla fraternità universale.
Alle primarie argentine, Grabois si è presentato con la coalizione Unión por la Patria, e ha portato al vincitore Sergio Massa, ex ministro di economia e candidato del progressismo, il 5,85%, sul totale di 27,28% ottenuti. Il 19 novembre, Massa ha poi perso contro Milei, leader della coalizione “La libertad avanza”, vincitore con oltre il 56% dei voti.
Al contrario di Milei, che sta facendo strame di tutte le tutele sociali e sta picconando la democrazia argentina, Bergoglio ha scelto “l’opzione preferenziale per i poveri, questa esigenza etico-sociale che proviene dall’amore di Dio – ha detto – che ci dà l’impulso a pensare e disegnare un’economia dove le persone, e soprattutto i più poveri, siano al centro. E ci incoraggia”. E ha messo sul piatto una delle sue ultime provocazioni, dichiarando al settimanale Credere: “Se benedico un imprenditore che sfrutta la gente, nessuno si scandalizza, mentre accade se si tratta di un omosessuale. È ipocrisia”.
Anche in questa occasione, davanti a Milei, che ha chiuso le mense popolari a cui si alimentavano oltre 4 milioni di poveri, Bergoglio ha denunciato “che ci sono tante persone, oggi, alle quali è negato il diritto alle cure” e tante che vivono in povertà estrema e dormono per strada. Una conseguenza della “motosega” azionata da Milei con il suo piano di privatizzazioni selvagge e di incaprettamento del paese nelle spire del Fondo Monetario Internazionale, di cui il paese è primo debitore.
Tuttavia, essendo il Vaticano un’istituzione secolare che deve tenere insieme tutte le anime e che, indipendentemente da chi sieda sul trono pontificio non può mettere in discussione la divisione in classi a livello strutturale, anche il “pazzo con la motosega” ha avuto l’abbraccio papale e la benedizione per continuare la sua agenda in corsa, onde evitare i rimbrotti del Fondo Monetario Internazionale, che di fatto governa l’Argentina.
L’FMI, che aveva a suo tempo accusato l’imprenditore Mauricio Macri – eletto con il proposito di riportare il paese a indebitarsi per generazioni, e ora alleato di Milei – di procedere troppo lentamente. Milei vuole far tesoro delle indicazioni contenute nel libro La tirannia dello status quo, in cui Milton e Rose Friedman, maestri dei Chicago boys, fanno un bilancio della politica economica nordamericana negli anni di Reagan e spiegano, da un’ottica neoliberista, perché “l’invadenza dello Stato” ostacoli la ripresa.
Con questo refrain, coniugato alle teorie libertariane più spinte sull’”anarco-individualismo” in economia, Milei riprende le linee di Trump: ma senza quella cifra di nazionalismo che, in un grande paese del sud come l’Argentina, proiettato dalla sinistra verso un’idea di sovranità articolata nella Patria Grande sognata da Bolivar, rischierebbe di assumere altri connotati.
I quattro anni di Macri hanno aggravato i problemi economici e politici di un paese che, con i governi Kirchner, si era solo parzialmente risollevato dal default del 2001, e che ora ha un debito di 45 miliardi di dollari con il Fondo monetario internazionale, di cui 10,6 miliardi dovuti ai creditori multilaterali e privati entro aprile. Rassicurato dal programma di Milei, l’Fmi ha concesso una nuova linea di credito, che include la tranche da 3,3 miliardi di dollari non erogata a novembre più l’anticipo di 1,4 miliardi, per un versamento totale di 4,7 miliardi.
Per il resto, il libertariano argentino conta di far cassa con una gigantesca guerra contro i poveri che, in parte, lo hanno anche votato, seguendo la sua falsa bandiera “anti-sistema”, e a fronte del vuoto di proposte del governo di Alberto Fernandez, spia di una crisi profonda in cui si dibatte il kirchnerismo in Argentina.
Contro Sergio Massa, ministro della disastrosa economia argentina e rappresentante del capitale industriale in affari con lo Stato, la compagine urlante di Milei si è imposta anche fra i settori popolari più emarginati e impoveriti dalla crisi (quattro cittadini su 10 sono poveri, l’inflazione annua è del 143%, la valuta è crollata e, il deficit fiscale è enorme, quello commerciale ammonta a 43 miliardi di dollari); e ha vinto in 21 delle 24 province del paese.
Non ha, però, la strada spianata né alla Camera, né al Senato, essendo i seggi stati assegnati in base ai risultati del primo turno, mentre lui è stato eletto al secondo turno. Il suo partito è rappresentato soltanto da 38 deputati su 257 alla Camera e da 7 senatori su 72 al Senato. Alla Camera ha pertanto bisogno dell’appoggio esterno della coalizione di centrodestra Juntos por el Cambio. Una situazione che sta bloccando il percorso della nefasta Legge Omnibus.
La motosega di Milei le aveva aperto la strada con il Decreto de necesidad y urgencia (Dnu), mediante il quale ha liberalizzato il paese abolendo oltre 300 leggi riguardanti importanti settori dell’economia: gestione delle terre, affitti, pensioni, energia, farmaci convenzionati… Poi avrebbe voluto aver carta bianca per legalizzare una situazione di emergenza, e ottenere poteri speciali per decidere per decreto fino al 2025. Un’emergenza prolungabile per altri due anni. Le formidabili proteste di piazza, ripetute e crescenti, che mirano a costruire una nuova unità dal basso che scuota la flemma istituzionale, hanno però sfidato la repressione e convinto il Parlamento a bloccare momentaneamente il pacchetto di centinaia di leggi, fra cui quelle più autoritarie in materia di sicurezza.
A Davos, nella riunione annuale del Forum Economico Mondiale, Milei ha esposto la sua visione del mondo, contro quella che “inesorabilmente conduce al socialismo, e di conseguenza, alla povertà” e che mette in pericolo “i valori dell’Occidente. “Il problema – ha detto – è che la giustizia sociale non solo è ingiusta, ma non contribuisce nemmeno al benessere generale”, ed è “violenta” perché le tasse, mediante le quali lo Stato si finanzia, “vengono riscosse in modo coercitivo”, per cui “quanto maggiore è la pressione fiscale, tanto maggiore è la coercizione, tanto minore è la libertà”. La libertà dei ricchi, ovviamente, perché le tasse, il libertariano, le ha aumentate eccome.
Come intenda difendere i “valori dell’Occidente”, Milei lo ha dimostrato andando a singhiozzare al Muro del Pianto abbracciato al proprio rabbino-ambasciatore, “el Peluca”, che ostentava un nastro giallo all’occhiello, in solidarietà con gli ostaggi di Hamas. Milei, che intende convertirsi all’ebraismo, ha annunciato che trasferirà l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, e non ha perso occasione per insultare e prendere le distanze dalle alleanze intenzionate a costruire un mondo multicentrico e multipolare alternativo agli Stati uniti e in cui l’Argentina, pur con il moderato Fernandez, era comunque inserita. Al contrario, l’asse su cui conta Milei è quello Usa-Europa subalterno alla Nato.
“Milei, l’Europa non ti vuole”, dicevano i cartelli degli argentini, in protesta fuori dal Vaticano. Milei, però, che è di origine italiana e che ha portato con sé una nutrita delegazione di imprenditori, conta di rilanciare l’asse Roma-Buenos Aires, solido sia all’interno del G20 e dell’Onu, che come elemento di mediazione nel dialogo fra blocchi regionali. Milei conta di svincolarsi da tutte le alleanze egemonizzate dai governi progressisti, animate da rapporti non subalterni agli Usa e da una visione comune della Patria Grande latinoamericana.
Il suo governo ha però deciso di sostenere l’accordo di libero commercio UE-Mercosur, e conta sul governo Meloni, con cui non mancano le consonanze. La premier italiana si è detta “affascinata” dalla personalità del libertariano e, insieme alla filo-atlantica oppositrice al governo Maduro, Maria Corina Machado, è stata fra i primi a congratularsi della sua elezione. Su di lei, il pazzo con la motosega conta di far leva nei negoziati in ambito Ue, che vedono il favore della Germania, ma non della Francia. Il suo predecessore, Alberto Fernandez, invece, durante l’ultimo vertice del Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay), a Rio, il 6 di dicembre, ha sostenuto che l’accordo – firmato nel 2019 dopo vent’anni di complessi negoziati e ancora in predicato – è “sfavorevole allo sviluppo della regione”.
Un punto ancor più dolente, ora, nello scenario di contestazioni degli agricoltori a livello europeo.
Sia come sia, anche la maschera con la motosega, una delle ultime indossate dal capitalismo per cercare di risolvere la sua crisi strutturale, com’è già venuto per il neofascismo europeo dovrà mettere la sordina ai presunti proclami “anti-sistema” per rendersi presentabile nei “salotti buoni”: per fare la sua parte in quello che, usando categorie latinoamericane, potremmo definire come un nuovo scontro fra monroismo e bolivarianismo, a duecento anni dalla nefasta Dottrina Monroe. Pagine Esteri
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Separare le Carriere per unire la Repubblica
Venerdì 23 febbraio 2023, ore 16:00 – Auditorium Petruzzi, Via dellew Caserme, 60, Pescara
Intervengono:
Avv. Giuseppe Benedetto, President Fondazione Einaudi
Avv. Vania Marinello, Solicitor of the Senior Courts of England & Wales
Avv. Bepi Pezzulli, Direttore Centro Studi Italia Atlantica, Solicitor of the Senior Courts of England & Wales
Introduce
Dott. Simone D’Angelo, President ENDAS Abruzzo
Modera
Dott. Mauro Di Pietro, Giornalista
L'articolo Separare le Carriere per unire la Repubblica proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Zircon fa il suo debutto in guerra. Ecco il nuovo missile di Mosca
Una nuova arma dell’arsenale russo sembra aver fatto il suo debutto sui campi di battaglia ucraini. Secondo quanto riportato dall’Istituto di ricerca scientifica di Kyiv per gli esami forensi, l’analisi preliminare dei residui di proiettili impiegati dai russi durante l’attacco messo in atto nella notte del 7 febbraio proverebbe infatti che in quell’occasione le forze armate di Mosca abbiamo impiegato un “nuovo” sistema: lo Zircon.
Il sistema 3M22 Zircon (o Tzircon) è un missile da crociera ipersonico, parte delle “superarmi” presentate dal presidente russo Vladimir Putin durante un suo discorso del 2018, che ha completamento definitivamente la fase di testing nel giugno del 2022. Apparentemente capace di viaggiare a una velocità nove volte superiore a quella del suono e con una portata, secondo quanto reso noti da fonti russe, di 1.000 chilometri (circa 625 miglia), anche se le fonti occidentali la fissano invece all’interno di un range che va dai 500 chilometri (circa 310 miglia) ai 750 chilometri (circa 466 miglia). “La significativa frammentazione del missile rende difficile l’identificazione, ma possiamo già dire che l’arma non soddisfa le caratteristiche tattiche e tecniche dichiarate dalla Russia” avrebbe dichiarato il direttore dell’Istituto di Kyiv sul suo canale Telegram.
Sviluppato in funzione anti-nave, originariamente lo Zircon era disponibile soltanto nella versione impiegabile da piattaforme navali, di superficie o meno. Tuttavia, in un secondo momento si è deciso di sviluppare anche una versione per il lancio da piattaforme terrestri.
Mykhailo Shamanov, portavoce dell’amministrazione militare della città di Kyiv, ha dichiarato che è troppo presto per “trarre conclusioni” dal rapporto dell’Istituto, aggiungendo che la gente dovrebbe “aspettare le conclusioni degli esperti”. A Shamanov ha fatto eco il portavoce dell’aeronautica militare ucraina, Yuriy Ihnat, specificando come le forze armate di Kyiv stiano “conducendo gli esami” e che “gli esperti stanno verificando i rottami”.
Facile capire perché un effettivo impiego dello Zircon sia causa di tutti questi timori: nonostante non siano mai state testate fino ad ora sul piano operativo, le sue (presunte caratteristiche lo rendono un avversario temibile per gli ucraini. La velocità ipersonica del sistema russo lo renderebbe infatti invulnerabile anche alle migliori difese missilistiche occidentali come i Patriot, secondo l’associazione Missile Defense Advocacy Alliance: “Se queste informazioni sono accurate, il missile Zircon sarebbe il più veloce al mondo, rendendo quasi impossibile difendersi solo per la sua velocità”, si legge sul sito dell’Alleanza. Che definisce importante anche la nuvola di plasma del missile: “Durante il volo, il missile è completamente coperto da una nube di plasma che assorbe qualsiasi raggio di radiofrequenze e rende il missile invisibile ai radar. Questo permette al missile di non essere individuato mentre si dirige verso l’obiettivo”.
Finanziare la Difesa europea attraverso la Bei. La proposta di Michel
Al Group forum 2024 della Banca europea degli investimenti (Bei) appena conclusosi in Lussemburgo si sono primariamente affrontati la green transformation, l’energia, le nuove tecnologie e i critical raw materials funzionali alla sicurezza economica Ue. Le parole-chiave della presidente Calvino sono “support competitiveness and strategic autonomy”, obiettivi che d’altra parte sono già il fulcro delle iniziative della Commissione europea. La stessa ha detto di essere molto attiva in tutte le aree ritenute oggi prioritarie dalla Ue ed è disponibile a fare di più per l’economia.
L’argomento circa la possibilità che la Banca possa finanziare non solo la security e il duale ma anche la difesa – non prevista dal suo mandato che prevede il voto all’unanimità – rimane a livello di dibattito politico e sta assumendo una crescente priorità. Per l’occasione, il presidente del Consiglio Ue Charles Michel, alla luce delle tensioni internazionali e della crescente necessità di finanziamenti nella difesa, ha lanciato un appello in favore di una “full-fledged Defence Union” che preveda, sulla scia di reiterate dichiarazioni dei leader e Commissari europei, un coinvolgimento della Bei – come si legge nelle conclusioni del Consiglio europeo di dicembre per un ruolo rafforzato a supporto della sicurezza e difesa europea – e l’utilizzo di Bonds europei come espresso da Francia, Polonia, Estonia e Lussemburgo. Per completezza si ricorda che tra i settori esclusi dai finanziamenti Bei ci sono tra gli altri il tabacco e gran parte dei combustibili fossili.
La questione Bei versus difesa è sul tavolo da anni in un crescendo di solleciti e raccomandazioni politiche dal 2022 a oggi da parte delle istituzioni europee e dell’industria. Si inserisce peraltro nel più vasto dibattito sulla prioritaria necessità per l’Ue di affrontare le nuove sfide (clima, semiconduttori, agricoltura, competitività tecnologica, commercio estero, difesa, Ucraina, eccetera) prevedendo investimenti adeguati e l’accesso a nuovi finanziamenti a supporto dei comparti industriali europei.
Più in generale si osserva che il dibattito si sta spostando verso un’evoluzione delle priorità negli approcci dal Green deal alla difesa. Tuttavia, le proposte finora avanzate come il Fondo sovrano promosso da Von der Leyen, e il continuo “scaled back” di nuove iniziative come la Strategic technologies for european platform (Step) e oggi l’agricoltura, iniziative perno di una vision di lungo termine, non hanno finora trovato seguito o sono marginali.
Si potrebbe considerare che la situazione di apparente stallo circa un ruolo della Bei nella difesa potrebbe rappresentare un primo ostacolo all’avanzamento delle proposte lanciate da Von der Leyden per una futura strategia europea per l’industria della difesa. La proposta include una lunga serie di argomenti, alcuni con aspetti critici di non facile risoluzione perlomeno oggi, come l’accennata proposta di Bonds europei con effetto di leva finanziaria a supporto dell’economia includendo la difesa.
Come ha recentemente illustrato dal vice presidente della Bei per la Sicurezza e la difesa, Peeters, la Banca è molto cauta sulla questione se oltrepassare il confine tra duale e difesa. Infatti la Bei nel 2022 ha lanciato la Strategic european security initiative (Sesi) con una dotazione di sei miliardi di euro, più altri due, mantenendo le restrizioni per armi, munizioni, infrastrutture militari e polizia. Le attività eleggibili concernono dual research, development and innovation; cyber-security; civil security infrastructure; military mobility; green security; military infrastructure; space. È un perimetro non esteso alla difesa, motivato sia dalle perplessità di fondi pensionistici sia per evitare il rischio di perdere l’appeal degli investitori, e aspetto molto importante per la Banca l’elevato rating AAA con il quale può prestare a tassi più favorevoli, costituendo un riferimento per le banche europee. La Bei si è detta parimenti favorevole a una maggiore cooperazione con la Nato.
Nella riunione dei ministri delle Finanze Ue a fine febbraio si discuterà insieme con la Bei della futura agenda strategica europea. Le indicazioni politiche emerse, l’esigenza di investire di più nella difesa e il superamento dei tabù nei fondi europei dal conflitto in Ucraina saranno elementi sufficienti per aprire la strada verso nuove formule di supporto e riorientare il ruolo della Bei anche nei settori della difesa o del nucleare?
Nota a margine da segnalare è che è stato presentato l’Investment report 2023/2024 della Bei Transforming for competitiveness. Il documento cita marginalmente la difesa insieme ad altri comparti, in relazione al “dibattito su un nuovo framework fiscale per incrementare la fornitura di beni comuni, come la sicurezza e la difesa per acquisire industrial security o autonomia strategica, e infrastrutture comuni nell’energia”.
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Francis Scott Fitzgerald – Il curioso caso di Benjamin Button
L’Unione detta il mandato della missione in Mar Rosso. Il commento dell’amm. Caffio
Il Consiglio Ue, con la decisione Pesc 2024/583, ha stabilito il mandato dell’Operazione di sicurezza marittima dell’Unione volta a salvaguardare la libertà di navigazione in relazione alla crisi nel Mar Rosso (Eunavfor Aspides). La denominazione della missione è di per sé sufficiente a chiarire i suoi capisaldi: tutela sicurezza marittima e libertà di navigazione. Il contesto giuridico è quindi quello -non bellico – della Convenzione del Diritto del mare (Unclos). Nel preambolo del documento si specifica infatti che il quadro di riferimento, come delineato nella strategia per la sicurezza marittima dell’Ue (Eumss), “consente all’Unione di intraprendere ulteriori azioni per proteggere i suoi interessi in mare così come i suoi cittadini, i suoi valori e la sua economia, promuovendo nel contempo le norme internazionali e il pieno rispetto degli strumenti internazionali, in particolare la convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos)… Gli attacchi mettono a repentaglio la vita dei marittimi sulle navi mercantili e costituiscono una violazione della libertà dell’alto mare e del diritto di passaggio in transito negli stretti utilizzati per la navigazione internazionale”.
Sulla base di tali premesse, come mandato dell’Operazione è stabilito che “Eunavfor Aspides, nei limiti dei mezzi e delle capacità di cui dispone: a) accompagna le navi [mercantili] nell’area di operazione; b) garantisce la conoscenza della situazione marittima; c) protegge le navi da attacchi multi-dominio in mare, nel pieno rispetto del diritto internazionale, compresi i principi di necessità e proporzionalità, in una sottozona dell’area di operazioni”.
Non ci sono quindi dubbi sul fatto che Aspides sia una missione di difesa attiva che, come è stato detto, non si propone di “fare la guerra” agli Houthi. Verrà svolta un’attività di protezione armata della navigazione volta a reagire, anche in via preventiva, ad azioni ostili, ma restano esclusi gli attacchi alle postazioni terrestri, a meno che questo non sia necessario per abbattere qualsiasi arma che punti a colpire e le navi in transito. Il principio di riferimento è la difesa legittima di fonte consuetudinaria, diversa dal diritto di self-defence – garantito degli art. 2 e 51 della Carta delle NU – che consente invece agli Stati oggetto di un’aggressione di iniziare le ostilità (jus ad bellum) fino a che il Consiglio di sicurezza non adotti misure per far cessare la minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale.
Sinora le NU non hanno preso decisioni di tale tipo, tranne la Risoluzione n. 2722 del 10 gennaio 2024 che condanna fermamente gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso al naviglio mercantile ed afferma che “l’esercizio dei diritti e delle libertà di navigazione da parte dei mercantili… deve essere rispettato [e così] il diritto degli Stati membri … di difendere le loro navi da attacchi, inclusi quelli che minano diritti e libertà di navigazione”. Di fatto, come è stato osservato, il Consiglio non ha autorizzato una missione di “polizia internazionale” o peace-enforcing che dir si voglia come quella condotta in Afganistan. Per il Mar Rosso appare più appropriato il riferimento ad un tipo di peace-keeping in cui le forze intervenute applichino robuste regole difensive di ingaggio .
Louise Lemón - Lifetime of tears
Questa opera rappresenta la piena maturità artistica e non solo per una musicista che si merita moltissimo, sia per quello che ci regala sia per le sue capacità. Louise Lemón si colloca vicino ma oltre cantanti come Pj Harvey, Lana Del Rey etc, e un giorno si parlerà di lei come oggi si parla di loro, nel frattempo riscaldiamoci qui. @Musica Agorà
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Attenzione perché è molto pericoloso quello che sta succedendo in queste ore. Stanno uscendo fuori di testa semplicemente perché è stata usata la parola genocidio davanti a milioni di italiani. Colpire Ghali è il classico motto "colpirne uno per educarne cento". La reazione dell'ambasciatore israeliano in Italia e dell'amministratore delegato RAI che si dissocia riuscendo a non dire una sola parola per gli oltre 13 mila bambini palestinesi ammazzati e promette indirettamente che la Rai continuerà a raccontare solo ed esclusivamente la versione israeliana, dimostra che Ghali ha usato la parola giusta. Chi governa e la stampa mainstream hanno deciso di stare dalla parte di chi sta commettendo un genocidio e hanno bisogno di mettere a tacere tutte le voci che si oppongono. Non permettiamoglielo, perché coprire chi fa un genocidio è vergognoso, pretendere che tutto passi sotto silenzio e fare in modo che l'opinione pubblica non abbia la percezione reale di tutto ciò che sta accadendo è complicità. Un pensiero per Mattarella: Caro presidente, due parole su un ambasciatore che si permette di interferire all'interno di uno Stato sovrano le potrebbe pure dire. O eventualmente cambiamo la Costituzione, togliamo "la sovranità appartiene al popolo" e mettiamo "la sovranità appartiene agli USA, alla NATO e alla comunità ebraica...
T.me/GiuseppeSalamone
Giuseppe Salamone