Etiopia, Facebook e la guerra civile
Un professore viene assassinato in Etiopia dopo aver pubblicato messaggi online dannosi. Mark Zuckerberg in realtà voleva agire contro le bugie e l’incitamento all’odio e assicurarsi che la sua piattaforma non alimentasse più conflitti politici in tutto il mondo. Perché non ha funzionato?
Di Kerstin Kohlenberg
7 dic. 2022 / aggiornato 10 dic. 2022L’etiope Nigist Hailu piange la morte del marito; l’americano Mark Zuckerberg vede in Africa il mercato del futuro. © [M] ZEIT ONLINE; Foto: Jessica Chou/The New York Times/Redux/laif; Kerstin Kohlenberg (sinistra)Ogni omicidio ha il suo profumo. L’assassinio del professore etiope Meareg Amare odora di mango e gasolio. Meareg e sua moglie Nigist hanno piantato l’albero di mango dietro il cancello della loro casa. L’odore pesante e pungente del gasolio aleggia su quasi tutte le città dell’Etiopia , su Addis Abeba, la capitale con le sue strade congestionate, e su Bahir Dar, dove è avvenuto l’omicidio il 3 novembre 2021. È l’odore della rapida crescita di un paese povero. L’odore della libertà e della distruzione.
Nigist Hailu era in chiesa quando è arrivata la chiamata. Un uomo sconosciuto era al telefono, dice, e le ha detto di non tornare a casa per nessun motivo, ma di rivolgersi alla polizia. Si è spaventata ed è subito scappata. Nessuno voleva dirle niente in questura, invece è stata portata a casa sua. Al cancello della proprietà, dice, si era già radunata una folla. “Poi ho visto Meareg. Era sdraiato davanti alla casa sotto l’albero di mango.” La bocca di suo marito era aperta.
Nigist in seguito apprese che i tre autori erano arrivati con un’auto e due motociclette. Tutti e tre indossavano l’uniforme delle forze speciali armate del governo locale. Gli hanno sparato, il professor Meareg Amare, alle gambe e alla schiena, poi è scomparso.
Nigist dice che è crollata, ha abbracciato il marito morto e ha cercato di chiudergli la bocca. Una sola persona della folla l’ha aiutata. Gli altri rimasero lì a guardare.
Il viaggio verso Nigist – in Etiopia, i nomi sono ciò che sono i cognomi nel nostro paese – conduce attraverso un traffico intenso fino ai margini di Addis. Passati caprai che guidano le loro mandrie dall’altra parte della strada mentre guardano i loro smartphone, oltre un gigantesco complesso di conchiglie per un’azienda high-tech cinese, fino a capannoni che vendono caffè. Nigist vive qui al terzo piano di un condominio perché non è più al sicuro nel suo paese d’origine. Aveva una grata di metallo messa davanti alla porta. Devi stare attento anche qui. La famiglia appartiene alla piccola etnia dei Tigrini, contro i quali il governo etiope è in guerra da due anni. È probabilmente il conflitto più mortale del nostro tempo: secondo le stime dell’Università di Gand, ne sono state vittime 500.000 persone. Da diverse settimane c’è una vaga speranza di pace. Le parti si sono impegnate a porre fine ai combattimenti. Ma per quanto riguarda l’odio?
Nigist chiude la porta e infila una coperta sopra la fessura nel pavimento. Nessuno dovrebbe sentire ciò che viene detto all’interno. Si sistema il tulle nero sui capelli. Ha 57 anni e i suoi capelli sono diventati grigi dall’omicidio del marito, dice. In soggiorno un divano ad angolo, un tavolo, una foto di Meareg alla parete. Poi niente. Una stanza come una sala d’attesa. C’è anche sua madre, loro due hanno preparato la colazione, lenticchie, focaccia, salse piccanti.
Nigist si fruga in tasca, come ogni terzo etiope ha uno smartphone. Un Samsung. Dopo l’omicidio, è stata chiamata su questo cellulare dallo sconosciuto, su questo cellulare ha salvato ciò che le restava del marito. Mostra le foto di un uomo alto, magro, dall’aria pensierosa in giacca e camicia, abbigliamento da professore universitario, le mani in tasca con disinvoltura. Un video la mostra mentre ride mentre cerca di convincerlo a ballare. In un altro, le canta dolcemente. Nigist ha le lacrime che gli rigano le guance mentre lo guarda. Il cellulare le salva la vita. Li collega tramite Facebookcon i suoi quattro figli, che ora sono tutti fuggiti all’estero, in Svezia, Francia e Stati Uniti. E li collega ad alcuni dei loro vecchi vicini di casa. Gli etiopi non sono mai stati così vicini. Mai prima d’ora erano stati così in disaccordo.
Prima che Meareg morisse all’età di 60 anni, è stato perseguitato su un account Facebook chiamato BDU STAFF. BDU sta per Bahir Dar University. Personale significa personale. L’account sembra una pagina ufficiale che l’università ha aperto per i suoi dipendenti, gente come Meareg, che ha lavorato lì per 16 anni. Prima come docente di chimica, poi come assistente alla cattedra, poco prima della sua morte gli fu assegnata una cattedra regolare. Tuttavia, BDU STAFF non pubblica solo informazioni quotidiane sulla vita del campus, successi accademici o sportivi, ma anche post entusiastici sulla guerra del governo contro i tigrini.
L’account ha molti lettori, 50.000 persone lo seguono. Il 9 ottobre 2021, quasi quattro settimane prima del delitto, è stata pubblicata una foto di Meareg con la didascalia: “Si chiama Professor Meareg Amare Abreha. È un Tigrayer”. Il post è lungo, l’autore anonimo afferma che Meareg ha combattuto a fianco del Fronte popolare di liberazione del Tigray contro le forze governative, dopodiché è fuggito negli Stati Uniti. Il giorno dopo, BDU STAFF pubblica un altro post su Meareg, sempre con una sua foto. Questa volta si dice che il professore abbia sottratto fondi all’università e li abbia usati per costruire la sua casa e acquistare varie auto.
Nei giorni successivi, alcuni dei suoi studenti scrivono nella colonna dei commenti sotto il post che Meareg è un bravo ragazzo, un grande insegnante, una brava persona. Ma la maggior parte dei commentatori chiede vendetta: “Cosa stai aspettando. Stai dormendo? Sei così imbarazzato, perché non hai ancora bevuto il suo sangue?”
Come dovrebbe essere regolamentato Facebook?
In nessun altro continente l’utilizzo di Internet sta crescendo così velocemente come in Africa . Un Paese come l’Etiopia, con i suoi 120 milioni di abitanti, la stragrande maggioranza dei quali non ha ancora accesso a Internet, deve apparire a una piattaforma come Facebook come un ideale mercato futuro. Nei paesi ricchi dell’Occidente Facebook ha smesso da tempo di crescere, quasi tutti hanno uno smartphone, quasi tutti hanno un account Facebook, e i giovani si stanno addirittura allontanando dalla piattaforma. In Africa, invece, la società madre di Facebook, Meta, sta posando 45.000 chilometri di cavo in tutto il continente per fornire Internet ad alta velocità a 18 paesi. Quante bugie, quante adescamenti porterà questo cavo in Africa?
Facebook ha imposto una sorta di regole della casa. Regole di comportamento, valide in tutto il mondo, per tutti i tre miliardi di utenti. L’odio, le minacce di morte, l’esaltazione della violenza, il razzismo, il sesso, le teorie del complotto o gli account falsi non sono consentiti. Se un contributo viola le regole della casa, dovrebbe essere fornito con un avviso o cancellato. In realtà abbastanza semplice. Eppure abbastanza complicato. A che punto la critica legittima diventa odio o razzismo? Quando inizierà la libertà di espressione sulla disinformazione o l’esaltazione della violenza? Ciò che scrive un politico dovrebbe essere trattato allo stesso modo di ciò che pubblica un comune cittadino? Quando è il momento poco prima che sia troppo tardi in una lotta di campo politico che devi intervenire?
Impossibile rispondere a tali domande in un insieme di regole che si rivolge a quasi il 40 per cento dell’umanità. Facebook deve costantemente riconsiderare la libertà di discorso aperto e la protezione contro la disinibizione. Naturalmente, anche gli interessi commerciali giocano un ruolo. Facebook guadagna facendo pubblicità alle persone che guardano i post di altre persone. Se vengono eliminati troppi post, alla fine le vendite diminuiranno.
Ecco perché è stata una sorpresa quando Mark Zuckerberg ha fondato l’Oversight Board, una sorta di corte suprema per Facebook. Ha iniziato a lavorare nell’ottobre 2020, un anno prima dell’omicidio di Meareg. Dovrebbe esprimere giudizi definitivi sulla corretta applicazione delle regole della casa. Facebook ha promesso di sottomettersi a queste sentenze: se il suo tribunale stabilisce che un post debba essere cancellato, Facebook deve farlo. Quindi il consiglio stabilisce i limiti di ciò che può essere detto sulla piattaforma. Sebbene sia finanziato da Facebook, attraverso un fondo di 280 milioni di dollari, si dice che prenda le sue decisioni indipendentemente dagli interessi commerciali dell’azienda. Nessuno può licenziare i propri membri, anche se criticano Mark Zuckerberg.
Alcuni vedono l’Oversight Board come una prova che dopo tutte le critiche sui danni che la piattaforma ha arrecato alla società, dopo tutti i dibattiti sulla polarizzazione, le notizie false e i messaggi di odio anonimi, Facebook è finalmente tornato in sé. Per loro sembra che Facebook ora voglia assumersi la responsabilità delle conseguenze delle sue azioni. L’ex primo ministro danese Helle Thorning-Schmidt, ex redattore capo del Guardian inglese , è stato reclutato come membro dell’Oversight Board Alan Rusbridger, premio Nobel per la pace yemenita Tawakkol Karman. Un totale di 23 avvocati, ex politici e giornalisti. Hanno tutti una cosa in comune: secondo il New Yorker , ogni anno prendono una cifra a sei cifre per 15 ore di lavoro al mese. E hai una reputazione da perdere.
Il consiglio ha anche dei critici. Semplicemente riconoscono in lui il tentativo di una multinazionale miliardaria di salvare il proprio modello di business: Prima che le autorità statali ci regolamentino, noi preferiamo regolarci da soli.
L’Organismo di Vigilanza ha sede a Londra. Non c’è nessun segno sulla porta, la posizione esatta deve rimanere segreta. All’interno poi soffitti alti, look da loft industriale, atmosfera da coffee shop, il travestimento della modernità. Normalmente ci sono persone in ufficio ora che visualizzano nuovi casi o ricercano quelli attuali. Oltre ai 23 membri, il consiglio ha 78 dipendenti che lavorano qui a Londra, San Francisco e Washington. Ma poiché tutti sono stati in ufficio da casa dal Corona, solo Thomas Hughes è lì in questo giorno dell’estate 2022. Il direttore esecutivo del consiglio di sorveglianza, non membro dell’organo decisionale, è appena tornato dalla California. Mark Zuckerberg aveva invitato lui e i membri a un primo incontro faccia a faccia. “Fino ad ora, tutti si conoscevano solo tramite Zoom”, afferma Hughes.
La Corte Suprema di Facebook non ha mai concesso l’ingresso ai giornalisti. Il rischio che alcuni dei dibattiti, a volte accesi, trapelassero sembrava troppo grande. Solo dopo un lungo avanti e indietro è stato l’ok per questa visita.
Prima di iniziare a lavorare per il Consiglio, Thomas Hughes era direttore di una ONG che lavorava per proteggere la libertà di espressione. Per tutta la vita ha cercato di alzare il volume in modo che le persone sentissero più di una sola voce. Ha creato stazioni radio in Indonesia dopo lo tsunami del 2004, ha contribuito a fondare giornali in Iraq dopo la guerra e ha lavorato alle leggi sulla libertà di stampa in Liberia. Si trattava sempre di giornalismo indipendente. Ora ci sono i social media, dice Hughes. Ci sono molte urla lì e l’obiettivo è rendere le urla sopportabili. “Ci saranno sempre problemi in una società. Anche su Facebook. Abbiamo solo bisogno di un sistema migliore e di processi migliori per riconoscere questi problemi”.
Solo nel primo anno dopo la formazione dell’Oversight Board, gli utenti di tutto il mondo hanno presentato ricorso contro una decisione presa da Facebook più di un milione di volte. Hughes e il suo staff esaminano le obiezioni, poi le setacciano come cercatori d’oro in più iterazioni, cercando gli esempi perfetti, i precedenti per affrontare l’odio, la violenza, la disinformazione. “Penso che possiamo aiutare Facebook a imparare da questi casi e migliorare”, afferma Hughes.
Circa una volta al trimestre, i 23 giudici selezionano tre casi su cui vogliono lavorare, ciascuno in piccoli gruppi. Ogni caso viene quindi ricercato, gli esperti vengono intervistati e Facebook deve rispondere a un questionario. Un processo lungo, ad oggi sono state pronunciate solo 31 sentenze. Ad esempio, si trattava dell’immagine di un seno femminile in connessione con la sensibilizzazione sul cancro al seno, la questione se le condizioni carcerarie del capo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) possano essere discusse su Facebook o se debba essere autorizzato a chiamare qualcuno un “codardo”. In tutti e tre i casi, Facebook aveva ordinato la cancellazione: il petto era nudo, il PKK è classificato da Facebook come “organizzazione pericolosa” e “codardo” come designazione di carattere negativo.
Ma il caso più grande è stato qualcun altro: Donald Trump. Il 7 gennaio 2021, il giorno dopo l’assalto al Campidoglio di Washington, Facebook ha sospeso definitivamente l’account di Trump. È stata una decisione altamente politica, nel bel mezzo del Kulturkampf tra Democratici e Repubblicani negli Stati Uniti, in cui Facebook è stato ripetutamente preso di mira da entrambe le parti. Per molti a sinistra le regole sulla piattaforma sono troppo permissive, incolpano Facebook del trionfo del trumpismo , dell’incitamento all’odio, della violenza e delle teorie del complotto della destra. Molti di destra, invece, sospettano ad ogni cancellazione: la Silicon Valley di sinistra vuole censurarci! Certo, ora di nuovo, dopo l’affare Trump.
Facebook stesso voleva sapere dalla sua Corte Suprema se il blocco fosse corretto. Il consiglio esisteva solo da pochi mesi e i membri si chiedevano se questo caso non fosse un po’ grosso all’inizio. “E se commettiamo un errore?” – è così che qualcuno che era lì in quel momento descrive la preoccupazione. Alla fine hanno accettato il caso, ci sono voluti quasi quattro mesi e sono giunti alla conclusione che i post di Trump hanno contribuito all’assalto al Campidoglioavevo. Aveva raccontato ai suoi follower la bugia sull’elezione rubata su Facebook, e loro ci avevano creduto. Tuttavia, secondo la sentenza di ultima istanza, un divieto a vita è arbitrario. I giudici lo hanno ridotto a sei mesi e hanno chiesto a Facebook regole universali per tali decisioni.
Internet ha cambiato il modo in cui le persone comunicano
Facebook ha modificato le sue regole interne e ha esteso il divieto a due anni. Scadrà presto, il 7 gennaio 2023. Al più tardi, Mark Zuckerberg dovrà decidere se far rientrare Trump, proprio come ha appena fatto Elon Musk su Twitter .
Quando hanno annunciato il loro verdetto su Trump, i giudici sono diventati fondamentali: hanno invitato Facebook a tenere d’occhio conflitti politici come quello che ha fatto precipitare gli USA in una crisi così profonda. conflitti in tutto il mondo. E Facebook ha promesso di farlo. Importante almeno quanto la domanda su cosa sta facendo Facebook con Trump è la domanda su cosa Facebook ha imparato da Trump.
In linea di principio, Facebook monitora sempre la sua piattaforma allo stesso modo, sia negli Stati Uniti, in Europa o in Africa orientale. Un algoritmo cerca contenuti discutibili. Se ne trova qualcuno, ne elimina automaticamente la maggior parte. Ma a volte li assegna anche a una persona che poi deve prendere una decisione per conto di Facebook: liberarsene o no? Esistono molti di questi cosiddetti moderatori di contenuti in paesi economicamente forti come gli Stati Uniti o la Germania. Quasi nessuno è responsabile di paesi come l’Etiopia, lo Yemen, l’Iraq o il Myanmar. Facebook spende solo meno soldi lì. Sono proprio le regioni ad essere spesso politicamente particolarmente instabili.
Nel maggio 2021, quando l’Oversight Board ha annunciato la sua decisione storica nel caso Trump, decine di migliaia di persone erano già morte in Etiopia. Nel nord del Paese, dove vive la maggior parte dei tigrini, le truppe governative reprimono i ribelli, si verificano massacri e saccheggi e il governo ha interrotto tutti gli aiuti umanitari alla regione. Su Facebook, ora devono riscattare rapidamente la loro promessa. Da tempo ordinano gli stati in base alle categorie di rischio, l’Etiopia è al livello più alto. Facebook può rallentare algoritmicamente la distribuzione dei post che ritiene potenzialmente pericolosi. Può alimentare l’algoritmo con più parole chiave che porteranno alla cancellazione dei post. Oppure abilita filtri speciali per monitorare meglio i post. Cosa stia facendo esattamente Facebook al riguardo in Etiopia e se qualcosa cambierà dopo Trump rimane poco chiaro. Tutto ciò che si sa è che Facebook sta assumendo nuovi moderatori di contenuti.
Tutto può sembrare buono dall’esterno. Ma come ci si sente quando ci si trova proprio nel mezzo?
Quando i due post anonimi di Facebook su Meareg andranno online nell’ottobre 2021, c’è una piccola verità in essi, come in ogni calunnia efficace. Meareg non è davvero nella sua città natale. Contrariamente a quanto afferma BDU STAFF, però, non è fuggito negli USA perché aveva combattuto per il Tigray People’s Liberation Front. È andato nella capitale Addis per aiutare i parenti che hanno il Corona.
Nel suo appartamento ad Addis, la moglie racconta quanto fosse preoccupata dopo le poste. Accusare qualcuno in quel modo in una situazione così esplosiva, ha capito subito che lo avrebbe messo in pericolo. “Dopo lo scoppio della guerra, i vicini hanno smesso di salutarci. Quando siamo passati davanti a loro, improvvisamente sono rimasti in silenzio”, dice Nigist. “Erano nostri amici!” Ha chiesto a suo marito di rimanere ad Addis per il momento. “Ma Meareg non voleva. Ha detto che dopotutto non era una persona politica.”
I due si sono conosciuti nel 1982. Meareg era un giovane insegnante di chimica nel montuoso e verde nord dell’Etiopia, alla periferia della città medievale di Gondar. Il paese era allora governato dai comunisti, che fecero arrestare Meareg nel 1983. Fu accusato di essere un oppositore del regime, già allora. Lo hanno torturato, colpendo i suoi piedi con i chiodi, dicono Nigist e sua madre. Dopo un anno è stato rilasciato. Mostrano il documento di discarico. Dopo di che si sarebbero presi cura di lui. Nigist e Meareg si sono sposati. Successivamente hanno costruito la loro casa a Bahir Dar e hanno messo su famiglia.
Nel 1991, il Fronte popolare di liberazione del Tigray e i suoi alleati vinsero sui comunisti. Inizia un buon periodo per Nigist, Meareg ei quattro figli. Non importava a quale gruppo etnico appartenessi in quel momento, dice Nigist, avevano buoni amici che non erano tigrini. Hanno convertito il loro garage e l’hanno affittato. L’albero di mango davanti a casa sua dava ogni anno più frutti.
Il nuovo millennio è arrivato. In tutto il mondo Internet stava cambiando il modo di pensare, comunicare e agire, ma in Etiopia, per il momento, quasi tutto è rimasto uguale. Quasi nessuno era online, il governo controllava l’accesso alla rete, molti siti erano completamente bloccati e giornalisti e blogger venivano regolarmente arrestati. Le proteste di massa sono scoppiate nel 2018. Il nuovo primo ministro è stato Abiy Ahmed, che ha fondato il suo potere nello stato multietnico dell’Etiopia non sui vecchi quadri del Tigray, ma su membri di un altro gruppo etnico, gli Amhara. È iniziato un brutto periodo per la famiglia di Nigist e Meareg e per altri Tigrini.
Abiy Ahmet ha revocato la censura di Internet e Facebook è stato presto consentito senza restrizioni. Lì, Amhara ha iniziato l’incitamento contro il Tigray, ei politici amarici hanno chiesto di “riprendersi” la regione del Tigray. Le tensioni etniche sono aumentate. Appena due anni e mezzo dopo l’insediamento del nuovo primo ministro, è scoppiata la guerra tra il governo e il Fronte popolare di liberazione del Tigray .
Un uomo di 31 anni siede nel salotto di una residenza studentesca a Parigi ed è stato testimone di come le voci radicali su Facebook siano diventate più forti tra gli etiopi. È Abrham, il secondo figlio maggiore di Nigist e Meareg. In realtà sta facendo il dottorato in Etiopia in studi sulla pace e sui conflitti, ma dopo l’assassinio di suo padre ha ricevuto un visto per studenti per la Francia. Abraham non parla una parola di francese. A volte potrebbe essere meglio non capire nulla di ciò che accade intorno a te.
L’uomo reagisce con più forza a ciò che lo turba di più
Abrham si è trasferito a Parigi dopo l’omicidio. © Kerstin Kohlenberg
Lui ei suoi amici inizialmente hanno accolto con favore l’elezione del nuovo governo, dice Abrham. “Come tutti i giovani, non vedevamo l’ora di avere più libertà”.
All’epoca seguiva principalmente i cugini su Facebook e non pubblicava nulla di politico. Eppure, pochi mesi prima dell’assassinio del padre, l’algoritmo di Facebook ha messo davanti a sé il seguente post di un noto nazionalista filogovernativo con 250.000 follower, il Tigrayer, con 250.000 follower: “Le rivendicazioni politiche del Amhara non deve mai più essere compromessa dagli abitanti del Tigray. La nostra lotta la renderà una perdente. È finita!”
Come se una porta si fosse aperta e l’aria fredda stesse entrando, Abrham ha ricevuto sempre più contributi di questo tipo. Ad esempio questo: “Se agli Amhara non piace il colore dei tuoi occhi, troveranno modi e mezzi. Lascia che te lo dica!” L’autore è un etiope che vive negli Stati Uniti, alimentando il conflitto da lì. Abrham non conosce l’uomo – e ha comunque ricevuto un messaggio diretto da lui: “Cosa ci fai a Bahir Dar, sporco Tigrino?”
La piattaforma sa da tempo quanto siano buoni tali contenuti per Facebook, da un punto di vista puramente economico. Nel 2007 Facebook ha fondato un “team di crescita”. Gli utenti sono diventati una specie di pazienti, a cui sono stati somministrati sempre nuovi farmaci sperimentali con l’aiuto di algoritmi in continua evoluzione. Il team ha osservato come ogni cocktail di algoritmi ha influenzato il comportamento di un utente. È rimasto più a lungo su Facebook? Quindi potresti mostrargli altri annunci? Ben presto divenne chiaro quale droga funzionasse meglio: l’odio. L’uomo reagisce con più forza a ciò che lo turba di più. Poi condivide l’indignazione, ne vuole di più. In questo modo Facebook non diventa un luogo di ritrovi amichevoli, ma uno stadio di calcio dove le persone crescono insieme stando contro i tifosi dell’altra squadra.
Abrham ha segnalato quasi 20 post su Facebook. È molto semplice, basta spostare il mouse sui tre puntini sul bordo destro di un post, cliccare, si apre una finestra, si preme “Segnala post”, si clicca ancora, si sceglie tra categorie come “molestie”, ” terrorismo” o “incitamento all’odio”. clic. Finito.
Facebook ha rifiutato di eliminare ogni volta sulla base del fatto che il contenuto non violava le regole della casa. Se Abrham non volesse più vedere tali messaggi nel suo feed di notizie, potrebbe bloccare la persona, gli ha scritto Facebook.
Alcuni membri dell’Oversight Board sanno esattamente cosa vuol dire essere vittima di una campagna di odio sui social media. Maina Kiai è uno dei quattro membri del consiglio dall’Africa. In un giorno dell’estate del 2022, è seduto in un ristorante a Washington e ordina tapas. Kiai è un ex relatore speciale delle Nazioni Unite e direttore del programma Africa di Amnesty International e attualmente lavora per Human Rights Watch. Dopo le elezioni presidenziali del 2007 nel suo nativo Kenya, molte persone sono morte perché il candidato perdente ha affermato che le elezioni erano state truccate. Kiai in seguito ha fatto pressioni per un’indagine sui disordini, dopo di che è stato attaccato online. Ad un certo punto, gli aggressori erano davanti alla sua porta. Ad oggi non ha un account Facebook. “È troppo invadente per me.”
Dopo che un conoscente gli ha scritto che Facebook voleva parlargli di un posto nell’Oversight Board, ci ha pensato a lungo, dice Maina Kiai. Ha chiesto in giro chi altro stava facendo tutto – tutte persone fantastiche. Ed era interessato a scoprire come funziona effettivamente Facebook.
La sua conclusione finora in questo lavoro? Nel 70 per cento dei casi, lui e i suoi colleghi avrebbero annullato una decisione presa da Facebook, afferma Kiai. La piattaforma lo faceva ogni volta. Tuttavia, sulla base delle lezioni apprese da questi casi, hanno anche fornito 86 raccomandazioni generali a Facebook. Finora solo 28 di questi sono stati pienamente attuati. Almeno un inizio, pensa Kiai. Facebook ha tradotto le regole della casa in numerose lingue aggiuntive e ora sta rispondendo alle domande dei suoi capi giudici più frequentemente sui singoli casi.
Sembra un politico che descrive la trasformazione dolorosamente lenta di una potente istituzione globale. Nel frattempo, però, questa istituzione sta cambiando il mondo alla velocità della luce e non sempre è in grado di tenere il passo.
A Nairobi, capitale del Kenya, lavorano per Facebook le persone che dovrebbero occuparsi della crisi politica in Etiopia. Sono i moderatori dei contenuti che dovrebbero rivedere i post potenzialmente pericolosi. Una di loro qui si chiama Senait, ma non vuole rivelare pubblicamente il suo vero nome per paura di perdere il lavoro. Senait ha studiato linguistica e lavora per un subappaltatore commissionato da Facebook. Quando parla al telefono della sua vita quotidiana nella lotta contro l’odio, si pensa come quando ha parlato con Maina Kiai: Sì, Facebook sta facendo qualcosa. Ma non è abbastanza.
Ora sono 32 in squadra, più di prima. Alcuni nuovi arrivati sono stati appena assunti, parlano non solo l’amarico ma anche il tigrino, quindi ora possono rivedere i post di entrambe le parti del conflitto etnico. Ma anche qui, in mezzo alla capitale di un paese vicino, questo conflitto è arrivato da tempo, dice Senait. Ad esempio, uno della squadra, un Amhara, non ha quasi mai cancellato l’incitamento all’odio dei nazionalisti amarici. Ad un certo punto è stato notato, la donna doveva andare. Restava il problema della mancanza di tempo.
Senait ha 50 secondi per decidere se un post deve essere cancellato. Ogni settimana viene valutato il loro tempo medio di elaborazione. L’azienda lo chiama “tempo di gestione dell’azione ” “C’è molta pressione”, afferma Senait. Il suo team ha recentemente ottenuto uno stipendio più alto, invece di $ 600 ora ne ricevono $ 800 al mese. Prima di allora, cinque si erano dimessi. L’elevato turnover rende difficile acquisire esperienza, imparare a separare il dannoso dall’innocuo.
Sebbene Facebook lo sapesse, gli account non sono stati cancellati
Serata nella città etiope di Mekele © Olivier Jobard/MYOP
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Senait lo chiama su Facebook. Non la conosco, dice. Lei scorre e fa clic sulla pagina, “hm, hm”, clic, clic, “un sacco di parolacce per i Tigrini”, clic, clic. Senait è sorpreso dalla frequenza con cui i dipendenti dell’università vengono accusati senza prove di aver rubato fondi all’università o di essere ricchi per altri dubbi motivi. Fai clic, fai clic, “oh, questo è davvero problematico ora”. Uno dei commenti recita: “Se tu fossi un vero uomo, li uccideresti tutti”. Guarda le pagine Facebook di alcuni dei commentatori. «Sono della milizia di Fano», dice. Milizia fanese. Non sembra più la vita di tutti i giorni nel campus. È un gruppo armato degli Amhara, che ha combattuto dalla parte del governo. Osservatori indipendenti la accusano di aver preso parte a crimini di guerra contro i tigrini, stupri di massa e pulizia etnica.
Ora si potrebbe presumere che Facebook stia semplicemente annegando nella massa di tutti i post. Tuttavia, un documento dell’ex dipendente e informatore di Facebook Frances Haugen mostra che la piattaforma sa esattamente chi ha alimentato il conflitto in Etiopia. Il documento è a disposizione di ZEIT , era destinato esclusivamente a scopi interni a Facebook e non era mai stato pensato per essere pubblicato. Descrive una rete di account Facebook che hanno una cosa in comune: sono legati alla milizia di Fano. Questa rete, dice, “diffonde incitamento alla violenza e incitamento all’odio in Etiopia”.
Quindi, sebbene Facebook lo sapesse, non vedeva alcun motivo per eliminare gli account.
Perché è così è evidente da un secondo documento dell’informatore, che è anche a disposizione di ZEIT . Si dice che Mark Zuckerberg abbia affermato di supportare algoritmi aggiuntivi che eliminano, rallentano e bloccano i contenuti pericolosi. Tuttavia, fa un avvertimento: tali algoritmi non dovrebbero avere alcun impatto sulla crescita della piattaforma. È come se il centro di controllo ferroviario inviasse un messaggio radio alla cabina di guida: sono felice di guidare più lentamente, ma solo se non arrivi a destinazione più tardi.
E poi c’è la cosa delle celebrità. Facebook ha una specie di programma speciale per politici, giornalisti, star e altre persone con molti follower. Si chiama controllo incrociato. Chiunque sia incluso in questo programma da Facebook non deve attenersi così rigorosamente alle regole della casa. Mentre i membri dell’Oversight Board stavano deliberando sul divieto di Donald Trump, sono stati informati da Facebook che il controllo incrociato riguarda solo alcune personalità.
Frances Haugen, l’informatore, in seguito ha rivelato quanti utenti Facebook apparentemente ha smistato esattamente in questo programma: 5,8 milioni.
Martedì di questa settimana, la Corte Suprema di Facebook si è rivolta al pubblico, esortando l’azienda a rivedere in maniera massiccia il suo programma di controlli incrociati. Si dice che chiunque metta in primo piano i propri interessi commerciali tanto quanto Facebook con il suo trattamento speciale per le celebrità non adempie alle proprie responsabilità in materia di diritti umani. Puoi capire dal messaggio che le persone del consiglio di sorveglianza sono arrabbiate.
“Ci ha aperto gli occhi”, dice il membro del consiglio Suzanne Nossel riguardo alle bugie di Facebook a lei e ai suoi colleghi. Nossel è un avvocato e presidente dell’associazione degli autori PEN America. È consapevole, afferma, che il consiglio di sorveglianza sarà giudicato in base alla sua capacità di gestire l’impatto negativo di Facebook. “Quindi la distruzione del discorso pubblico”. Nossel fa una pausa per un momento. “Al momento non siamo nella posizione migliore per farlo”. Se si limitano a sedersi in disparte e guardare un caso dopo l’altro senza cambiare la struttura di Facebook, allora è tempo perso.
I social media e l’odio. Potresti paragonarlo a un’altra crisi esistenziale a cui non resta molto tempo. Forse l’odio per piattaforme come Facebook è ciò che il gas e il carbone sono per le società industriali tradizionali: il carburante che alimenta la crescita. E forse una guerra civile, proprio come il riscaldamento globale, è la conseguenza che si accetta. Promettono di combatterli, ma in realtà non fanno molto.
Poteva andare diversamente. La crescita di Facebook è stata guidata politicamente fin dall’inizio. Più di un quarto di secolo fa, i politici americani decisero di esentare i social media dalla responsabilità legale per i contenuti pubblicati sui loro siti web. È stato un regalo di Washington alla Silicon Valley. Un salto di qualità che all’epoca sembrava innocuo. Gli algoritmi che perfezionano l’attenzione delle persone all’odio non esistevano ancora. Era impensabile che un giorno una società californiana da miliardi di dollari avrebbe avuto voce in capitolo nel corso dei conflitti politici in tutto il mondo.
Nell’agosto 2021, Suzanne Nossel, Maina Kiai e gli altri membri del consiglio hanno preso un caso dall’Etiopia. Un utente di Facebook ha pubblicato un post affermando che i civili del Tigray stavano aiutando i combattenti del Fronte popolare di liberazione del Tigray a commettere atrocità. Hanno guidato le milizie di porta in porta, uccidendo donne e bambini Amhara. Ha ottenuto le informazioni da persone delle regioni colpite. Il post terminava dicendo: “Conquisteremo la nostra libertà attraverso la nostra lotta”.
La cancellazione del post di Facebook è arrivata troppo tardi
Gli algoritmi di Facebook hanno segnalato il post. Il team di Nairobi lo ha controllato e ha deciso che stava infrangendo le regole della casa. Il post è stato eliminato. Il suo autore ha fatto appello contro questo su Facebook. Il team dei contenuti ha controllato più e più volte giudicato: il post deve essere cancellato.
Ma l’autore non si è arreso. Ora si è rivolto all’Organismo di Vigilanza. Il caso è stato risolto lì. Ne è seguito un acceso dibattito. Alcuni dei membri, così dicono oggi le persone coinvolte, erano favorevoli alla cancellazione – e hanno ricordato un altro paese in guerra civile, il Myanmar. Da tempo su Facebook circolavano voci per diffamare i membri della minoranza musulmana che viveva nel Paese. L’odio è culminato in una devastante esplosione di violenza, migliaia di musulmani sono stati assassinati e quasi un milione sono fuggiti nel vicino Bangladesh. Facebook ha a lungo minimizzato il suo ruolo in questo genocidio . Solo dopo un’indagine ufficiale delle Nazioni Unite l’azienda ha ammesso di non aver fatto abbastanza per prevenire la violenza.
I membri contrari alla cancellazione hanno sostenuto il diritto all’informazione. La gente non è riuscita a informarsi sui media ufficiali in Etiopia, non c’erano quasi notizie sul conflitto. In una situazione del genere, un tale contributo tramite una piattaforma come Facebook potrebbe fornire alla popolazione informazioni importanti.
Utilizzando il caso dell’Etiopia, il Consiglio ha voluto rispondere alla domanda su come affrontare le voci di atrocità in un paese in cui le persone spesso possono utilizzare i social media solo per avvertirsi a vicenda dei pericoli. Una questione di equilibrio, ancora una volta, tra la violenza che la voce inciterebbe e la protezione che può offrire se vera.
Il membro del consiglio Nossel afferma che il caso dell’Etiopia è stato uno dei più difficili fino ad oggi. Come dovrebbero decidere?
Il 14 ottobre 2021, il figlio del professor Meareg, Abrham, ha segnalato a Facebook i post infiammatori dell’account BDU STAFF tramite suo padre.
Il 30 ottobre, l’algoritmo di Facebook ha pubblicato un post sulla pagina Facebook di Abrham: “46.000 tigrini vivono con le loro famiglie a Bahir Dar. Che ci piaccia o no, dobbiamo difenderci dai terroristi. Gli stupidi e i sordi scompariranno. ”
Questa volta Abraham conosce l’autore. È il suo migliore amico. I due erano vicini di casa, andavano a scuola insieme, giocavano a calcio insieme, si raccontavano quando si innamoravano di una ragazza.
Il 31 ottobre 2021, l’amico ha scritto: “Dobbiamo monitorare da vicino i tigrini che vivono a Gondar o Bahir Dar e prendere le misure necessarie. Se saremo crudeli quanto loro, allora possiamo prevalere”.
Tre giorni dopo, la mattina del 3 novembre 2021, Meareg è andato un’ultima volta alla sua università. Poco prima, il suo datore di lavoro gli aveva suggerito di consegnare la disdetta. Nessuno lì parla più con lui. Prende le ultime cose e torna a casa. Lì incontra i suoi assassini.
Il 4 novembre, Facebook schiera una squadra di emergenza in più in Etiopia.
L’11 novembre, la società Abrham ha inviato un messaggio. Il post su suo padre violava gli standard della comunità ed è stato rimosso. Papà è morto da una settimana.
Il 14 dicembre 2021 l’Organismo di Vigilanza emetterà il suo verdetto sul caso dell’Etiopia: il post con la voce dovrebbe essere cancellato. Inoltre, Facebook consiglia di commissionare una revisione indipendente: che ruolo gioca la piattaforma in questo conflitto? Facebook risponde che una cosa del genere richiede molto “tempo”. Ad oggi non è successo nulla.
Meareg è morto ormai da un anno, sua moglie Nigist non sa se e dove sia stato sepolto. La casa che condividevano le è stata tolta ed è ora un alloggio per le forze speciali armate.
L’account BDU STAFF da allora si è agitato contro diversi altri professori e personale dell’Università di Bahir Dar presumibilmente tigrini. Su richiesta, l’università conferma che BDU STAFF è un account anonimo che non è gestito da essa. Causa grossi problemi. L’account è ancora online. La società madre di Facebook, Meta, non commenta le richieste ripetute.
Nel frattempo, la Corte Suprema degli Stati Uniti si è attivata. Non il consiglio di sorveglianza. Ma quella vera, la Corte Suprema di Washington. Per la prima volta ha accettato un caso in cui deve decidere se le piattaforme digitali come Facebook sono responsabili dei loro contenuti – e quindi anche delle conseguenze che i contenuti hanno nel mondo reale. Ad esempio, per la morte di un professore di chimica di 60 anni in una cittadina dell’Etiopia nord-occidentale.
FONTE: zeit.de/2022/51/aethiopien-mor…
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#uncaffèconluigieinaudi ☕ – Agire bisogna…
Agire bisogna; non muovere vane querimonie, se si vuole che il paese sia salvo
da Corriere della Sera, 26 maggio 1920
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Pace in Ucraina: serve realtà, non fantasie
Benché non mancherà, anzi non manca già oggi e domani e dopodomani, chi lo neghi, talvolta purtroppo in mala fede, esiste una concreta possibilità di parlare seriamente di pace. Facendo però, l’unica cosa utile e possibile per poterlo fare: pulire, letteralmente, pulire il cervello dalle prevenzioni, dai pregiudizi, dalle reazioni ‘etiche’ inconsulte perché non frutto […]
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‘Qatargate’: mazzette a Bruxelles, punta di un iceberg
Tanti sapevano; tanti tacevano; qualcuno non si è accorto di nulla. Il ’Qatargate’ è riassumibile così. Lo scandalo scuote i palazzi dell’Euro Parlamento, un euro-scandalo che fatalmente avrà riflessi ed effetti che a cerchi concentrici, da Bruxelles si allargheranno nei vari Paesi dell’Unione Europea, Italia compresa. Le rivelazioni del quotidiano belga ‘Le Soir’ e della […]
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Poliversity è una comunità Mastodon italiana dedicata all'università, alla ricerca, alla scuola e al giornalismo. Promuoviamo il Diritto alla Conoscenza e la corretta informazione: è aperta a ricercatori, giornalisti, operatori dell'informazione, fotoreporter, bibliotecari, archivisti, studenti ed educatori di tutti i livelli, editor, tecnologi, dirigenti di istituzioni scolastiche e chiunque sia coinvolto nel mondo dell'istruzione e del giornalismo.
Poliversity è uno spin-off del progetto friendica Poliverso.org.
La comunità è focalizzata sull'ambiente accademico, scientifico, scolastico e su quello dell'informazione e del giornalismo.
In un momento in cui la cultura scientifica e il mondo dell'informazione sembrano assediati dalla disinformazione, le fake news e il pensiero magico, Poliversity vorrebbe diventare una sorta di piazza accademica del Fediverso italiano per la promozione dell'incontro tra conoscenza e informazione.
I nomi reali e le credenziali sono consigliati solo se vorrai utilizzare il tuo account su questa istanza con l'obiettivo di fare rete, ma non sono assolutamente obbligatori.
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Poliversity è una comunità dedicata alla ricerca scientifica e al giornalismo, all'università e all'istruzione ed è nata per promuovere il Diritto alla Conoscenza e la corretta informazioneMastodon ospitato su poliversity.it
Guerre di Rete - Apple triplica sulla sicurezza (e agita l’Fbi)
Poi Musk. Clubhouse. FTX. Killer robot.Carola Frediani (Guerre di Rete)
"Il consiglio dei supervisori di San Francisco, ovvero l’organo legislativo della città, ha sospeso il progetto di dotare la polizia di robot in grado di uccidere. [...]
La norma dovrà comunque affrontare un’ulteriore revisione, al termine della quale si deciderà se approvarla con alcune modifiche – magari imponendo limiti più severi all’utilizzo dei robot – o se abbandonarla del tutto."
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La Città da 15 minuti
Oggi vi racconto di come, grazie a un’idea apparentemente buona, le più grandi città europee potrebbero trasformarsi nel prossimo futuro in un agglomerato di quartieri recintati digitalmente e fisicamente, pensati per dare ai cittadini una parvenza di libertà e appagamento, ma rendendoli al tempo stesso più sorvegliabili e controllabili.
L’idea è quella della “Città dei 15 minuti”, popolarizzata nel 2016 dal professore della Sorbonne Université Carlos Moreno.
Il professore parte da una constatazione semplice: le nostre città si sono sviluppate senza tener conto delle reali necessità delle persone, che oggi devono adattarsi ai tempi dilatati della città, al traffico, all’inquinamento e al rumore. La città da 15 minuti rivoluziona l’ingegneria delle città per creare dei quartieri auto sufficienti, dove le persone possono trovare tutto ciò di cui hanno bisogno entro un raggio temporale di 15 minuti a piedi o in bicicletta dalla propria abitazione.
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Idea interessante, che però cadde nel dimenticatoio per anni — fino all’arrivo del Covid. Le politiche di lockdown e le ampie limitazioni agli spostamenti che hanno costretto milioni di persone a rimanere confinate nei loro quartieri hanno fatto sì che l’idea dei quartieri auto sufficienti riprendesse vigore tra politici e intellettuali, in preparazione di future pandemie.
L’agenda climatica ha ulteriormente contribuito al diffondersi di questa nuova teoria di città dove tutto è magicamente accessibile senza automobili. Basta fare una ricerca online per rendersi conto della quantità di articoli che oggi parlano del tema. Ce ne sono almeno un paio che meritano attenzione:
Il 26 febbraio 2021 le Nazioni Unite pubblicarono un articolo intitolato “The 15 Minute city: Can a new concept of urban living help reduce our emissions?”. Nell’articolo si legge:
“La pandemia COVID ci ha fatto mettere in dubbio il modo di vivere tradizionale e a causa delle misure sanitarie (sì, sanitarie, certo) molte persone sono state costrette a vivere entro un raggio di pochi chilometri dalle loro case. Un modo di vivere diverso può allora aiutarci a cambiare il modo in cui pensiamo ai nostri quartieri e città, aiutandoci anche a fermare il riscaldamento climatico?Ecco che allora può aiutarci il concetto della Città da 15 minuti, dove tutto ciò di cui abbiamo bisogno è entro 15 minuti a piedi o in bici. Le città diventerebbero più decentralizzate e ci sarebbe meno bisogno di automobili. L’idea di quartieri auto sufficienti non è nuova — molte città erano già così. Tuttavia, data l’urgenza della lotta al cambiamento climatico, molte città stanno cercando modi per ridurre le emissioni e migliorare la qualità di vita dei cittadini.”
Della città da 15 minuti ha parlato anche più recentemente il World Economic Forum, in un articolo di marzo intitolato “The surprising stickiness of the “15-minute city”:
"La nozione di occupabilità viene parametrata nel contesto familiare dimenticando che la presenza in una famiglia di soggetti lavorativi con contratti a poche ore non determina l’emersione dalla povertà, i poveri ormai non sono solo gli inoccupati ma anche lavoratori precari con salari da fame e la condizione di miseria e precarietà riguarda l’intero nucleo familiare.
La nozione di occupabilità della destra è solo funzionale a tagliare il Rdc diminuendone i percettori e i mesi dell’assegno, non guarda alla sostanza del mercato del lavoro e all’assenza di politiche attive, resta indisponibile ad una nuova leva di lavori socialmente utili finanziati dallo Stato per la cura e manutenzione della persona e del territorio.
Per questo si alimentano campagne di odio contro i nuovi fannulloni (un tempo erano i dipendenti della PA oggi sono i percettori del Reddito) nell’ottica di restituire i fondi destinati agli ultimi con il Rdc ad altre fasce delle popolazioni, quelle decisamente non ascrivibili alle classi sociali meno abbienti. "
Perù: l’oligarchia rovescia il Presidente Castillo
Il 6 giugno 2021 è stato un giorno che ha scioccato molti nell’oligarchia peruviana. Pedro Castillo Terrones, un insegnante rurale mai eletto prima, ha vinto il secondo turno delle elezioni presidenziali con poco più del 50,13% dei voti. Più di 8,8 milioni di persone hanno votato per il programma di profonde riforme sociali di Castillo […]
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Arabia Saudita – Cina: quando Xi Jinping arriva a Ryad
Gli onori e le circostanze sono importanti. Come sono molteplici gli accordi da firmare durante la visita del Presidente cinese Xi Jinping in Arabia Saudita questa settimana, il suo primo viaggio oltre l’Asia orientale e centrale in tre anni. Senza dubbio, l’accoglienza verso Xi sarà pari a quella di Donald J. Trump quando si recò in Arabia […]
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Borsa: canapa, luci e ombre sia per USA sia per Canada
Entrambe le principali piazze borsistiche a livello mondiale nel settore della Canapa, cioè Canada e USA, chiudono con luci ed ombre, in generale regna un clima depressivo e i segni sono negativi, sebbene non manchi qualche sprazzo in positivo. Tutto ciò dimostra ancora una volta quanta volatilità ci sia sulle piazze borsistiche internazionali. La Borsa […]
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Sesso libero
Le dittature sanno di non potere possedere le teste, quindi ci provano con le mutande e il sesso. Sanno che l’aspirazione alla libertà è insopprimibile e universale
La forza bruta fa cilecca con i pensieri, ma si può imporre sui costumi. Non posso impedirti di sognare, ma posso reprimere i tuoi sogni, i tuoi desideri, le tue attrazioni. E reprimendo quelli t’insegno a rinunciare alla libertà. In questo sono tutti uguali.
La persecuzione degli omosessuali, a cura del regime castrista cubano, non era la scusa per arrestare uno scrittore (Reinaldo Arenas) e distruggere le sue opere, ma un modo per insegnare a non pensarsi liberi. L’ossessione di deviati come il patriarca russo Kirill, le leggi russe contro l’omosessualità, la maniacale riaffermazione di una cosa mai esistita, ovvero la “famiglia tradizionale”, non sono modi per non farsi contagiare dalla “decadenza occidentale”, ma per insegnare a non guardare al mondo libero e castrare i desideri. L’Indonesia che condanna il sesso fuori dal matrimonio e l’Iran che assassina chi scopre una ciocca o protesta contro l’assassinio non stanno salvaguardando la purezza, ma provando a far vivere la dittatura uccidendo la libertà.
È accademica e surreale la discussione se la storia abbia una direzione di marcia e un qualche approdo designato, tanto più che noi siamo il futuro dei nostri antenati e gli antenati degli umani futuri, ma la ricerca della libertà non ha mai fine e non conosce confine. Chiunque stia lottando per la libertà, sia anche quella delle proprie mutande, è un fratello da sostenere.
Da noi, nel nostro mondo mai stato così ricco e libero, tendiamo a dimenticarlo. A dare la libertà per assodata. Taluni si sono convinti che la si difenda mettendo presidi alle declinazioni o moltiplicando i generi o condannando la parola. Troppi, nel cadere in questo grossolano errore, in quel “politicamente corretto” che è solo politicamente inconsistente, ci mettono lo zelo di ottusi patriarchi e ayatollah.
Eppure un problema si pone, al nostro mondo: si può essere liberi anche dalla natura? Sì, si può, ad esempio separando l’eros dalla procreazione. Evviva. Ma possiamo anche liberare la procreazione dall’eros? Più scivoloso. Aiutare la fertilità è un conto, bypassarla un altro. Qui si torna a principi antichi: se la mia libertà comporta l’altrui subordinazione o uso strumentale, allora non è una libertà, ma una sopraffazione. Dovremmo discuterne senza pregiudizi, occupandoci del merito e non dei tabù. Che rimangono anche nel nostro mondo libero, giacché connaturati all’umano. Negare un tabù non significa averci fatto i conti, così come usare concetti offensivi o il turpiloquio non significa opporsi al politicamente corretto. Anche perché si rischia di far confusione.
In Italia può già essere riconosciuto, nell’interesse del minore, un “genitore” dello steso sesso di quello naturale. Esempio: il primo è rimasto solo (non ci interessa qui perché), ha un figlio minore e convive con una persona dello stesso sesso, a quel punto per il minore non cambia nulla, ma se il primo finisce sotto a un treno resterebbe solo, ove non si riconoscesse la posizione dell’altro. Sentenze già in giudicato. È importante l’omogeneità in Unione europea, perché, potendomi liberamente muovere (evviva), non sia genitore in un Paese e sospettato di pedofilia in un altro, se provo a portare il bambino nella mia stessa camera d’albergo.
Sono cose da affrontarsi con concretezza e lucidità. Capita, invece, che taluno viva da noi in libertà e voglia usare gli argomenti degli invasati dominatori di mutande. L’esito è noto, da quelle parti.
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Ucraina: il ruggito dei giovani dello Shakhtar
Il gigante del calcio ucraino Shakhtar Donetsk ha sorpreso molti esperti in questa stagione registrando la migliore prestazione del club in UEFA Champions League negli ultimi anni, nonostante l’esilio in tempo di guerra e un esodo di massa di fuoriclasse. Il segreto del successo dello Shakhtar è stato affidarsi ai giovani talenti ucraini e a […]
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Quando il denaro non è più un peccato
Qualche giorno fa ho ricevuto l’invito da parte della Caritas ambrosiana di ‘dare una mano’ per prendersi cura delle fasce fragili (individui e famiglie) tramite il finanziamento del ‘Progetto bolletta sospesa’. Donare un supporto economico, evitando ‘la logica del paternalismo generoso o della filantropia ostentata che non permette”, essendo un insieme di iniziative spot, di dare […]
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LibSpace con Alessandro De Nicola
Prodotti a base di cannabis: la rilevanza del re-branding
Un marchio forte può dare alle aziende riconoscimento del nome e longevità – una considerazione chiave per le aziende di marijuana che si espandono in Stati con mercati recentemente regolamentati. Le aziende si sottopongono a rebranding per una miriade di motivi, ma farlo nel modo giusto è una sfida. La Conferenza delle Nazioni Unite sul […]
L'articolo Prodotti a base di cannabis: la rilevanza del re-branding proviene da L'Indro.
Ucraina: pace o business ?
L’attuale e drammatica guerra in Ucraina sembra sempre di più un nodo gordiano che i contendenti – Russia da una parte ed Ucraina ed USA dall’altra uniti con i cobelligeranti dell’Unione Europea, sotto la bandiera NATO- non sembrano volere sciogliere anche se compaiono ogni tanto limitate voci di pace. Il dramma della guerra colpisce, oltre alla […]
L'articolo Ucraina: pace o business ? proviene da L'Indro.
56º rapporto CENSIS: italiani insicuri e divisi
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Come ho detto nei giorni scorsi, il Rapporto Censis 2022 rinsalda, conferma ed accentua tendenze in atto nel paese […]
L'articolo 56º rapporto CENSIS: italiani insicuri e divisi proviene da L'Indro.
Rendicontazione nella piattaforma PimerMonitor. Prorogata al 31 agosto 2023 la rendicontazione del potenziamento dei Centri Regionali di Ricerca, Sperimentazione e Sviluppo per l’istruzione degli adulti.
Info ▶️ https://www.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Rendicontazione nella piattaforma PimerMonitor. Prorogata al 31 agosto 2023 la rendicontazione del potenziamento dei Centri Regionali di Ricerca, Sperimentazione e Sviluppo per l’istruzione degli adulti. Info ▶️ https://www.Telegram
La Libertà
“Non c’è sentenza senza giustizia e non c’è giustizia in Iran.”
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Il peccato neoliberista
In qualsiasi partito, un nuovo gruppo dirigente deve cercare di affermare, assieme con se stesso, un’identità, un catalogo di proposte, alcuni simboli politici. La sinistra del Partito democratico però non è un gruppo dirigente particolarmente nuovo, si tratta solo della generazione attuale della “ditta” che a malincuore ha accettato le capriole consonantiche che l’hanno portata da Pds a Ds a Pd. Le sue proposte si riducono, in buona sostanza, a una: superare il “neoliberismo” di cui sarebbe intriso lo stesso manifesto dei valori del Pd, scritto nel 2007.
La sinistra è, non solo in Italia, sempre più “sinistra”. Essendo l’unica parte politica che viva in un rapporto osmotico coi propri intellettuali, è destinata a somigliare al racconto che essi ne fanno. Avviene anche al Pd, che pure là dove governa in modo più saldo (in Emilia-Romagna, in Toscana) è occupato a venire alle prese coi problemi del mondo anziché stupire con effetti speciali. La sua narrazione “nazionale” è tutta diversa. Perché non corrisponde al partito degli amministratori, bensì a quello dei chierici.
La sinistra è da sempre la parte politica che offre al ceto intellettuale la più straordinaria opportunità di mutazione. “I filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo”. Generazioni d’intellettuali hanno guardato al “moro” di Treviri come in defettibile modello. Che avessero letto il primo libro del “Capitale”, o più probabilmente “Il socialismo dall’utopia alla scienza” di Engels, si inebriavano della conquista inattesa di una grande verità: aver scoperto in che direzione si muove la storia, mica poco. Ma hanno cercato di anticiparla, la storia, di forzarla sui suoi pretesi binari, sicuri che solo un’avanguardia intellettuale potesse fare avvertire al proletario il peso delle sue catene.
Da alcuni anni in qua, i chierici hanno formulato una diagnosi chiara sui guasti della sinistra: la sinistra perde perché ha smarrito il legame con la classe operaia. Sul declino del voto “di classe”, ovvero sull’attenuazione del nesso fra condizione sociale di appartenenza e preferenza politica, c’è un intenso dibattito internazionale. Rimanendo all’interno dei nostri confini, possiamo ricordare come già negli anni Novanta si osservasse un travaso verso la Lega del voto operaio al nord e come, negli anni Duemila, il voto operaio fosse già diviso grosso modo equamente fra destra e sinistra, mentre le regioni a più elevata “intensità” industriale votavano per la destra. Alle ultime elezioni è stato FdIa
primeggiare fra gli operai, seguito da Cinque stelle e Lega.
Il fenomeno dello scollamento fra classe sociale e preferenze politiche andrebbe indagato nelle sue diverse dimensioni. Qualcuno potrebbe dire che è una buona notizia: a suo modo segnala il maggior benessere raggiunto nella società tutta, grazie al quale cambiano le priorità degli elettori. Altri potrebbero biasimare la prevalenza della politica dell’identità, del dato culturale, che è poi la ragione per cui posizioni conservatrici vengono sposate da persone più umili e affezionate ai punti cardinali del passato, mentre fra gli individui a più alto reddito prevalgono orientamenti più cosmopoliti e mentalità più aperte.
L’impressione è che per i chierici la perdita del voto operaio sia un’utile scusa per aprire i rubinetti della nostalgia. Per rappresentare gli operai, che c’è di meglio che dire le cose che dicevamo, quando effettivamente votavano per noi? Per gli intellettuali, era un’epoca d’oro: quella in cui le loro parole cambiavano davvero, se non il mondo, almeno le mozioni congressuali. Per questo a quelle parole, rivedute e corrette, sono tornati, seguendo le star della sinistra internazionale (da Piketty in giù). L’enfasi sul tema delle diseguaglianze, i propositi di sabotaggio di ogni residuo di libertà contrattuale nelle relazioni industriali, l’ambientalismo, il disegno di una bellicosa politica industriale, eccetera, non sono una delle due strade che il gruppo dirigente del Pd può cogliere, in una sorta di congresso redde rationem sull’identità del partito.
Sono un sentiero che quel medesimo partito calca da anni e con piena convinzione. Anziché mettere in discussione l’effettivo gradimento dell’elettorato per queste proposte, anziché chiedersi se davvero intercettino i problemi del paese, anziché domandarsi se forse il Pd non abbia perso la sua “vocazione maggioritaria” perché è diventato assieme il partito “del governo” e del pubblico impiego, i chierici e i loro discepoli sostengono che ogni problema del partito venga da un peccato originale. L’iniziale “neoliberismo”. Ma qual è il fantasma del
neoliberismo, di cui si vorrebbe sbarazzare?
E’ vero che in Italia, per alcuni anni, è stata la sinistra a promuovere politiche di “modernizzazione”, tese ad avvicinare il paese alle altre liberaldemocrazie a economia di mercato. Ciò è avvenuto soprattutto nella legislatura del centrosinistra, 1996-2001. Le circostanze erano eccezionali. In primo luogo, il vecchio partito della sinistra italiana, il Pci, era riuscito ad abbandonare nome e simbolo senza alcuna “revisione” ideologica: ma attraverso una “svolta”, per cui si immaginava che non ci fossero nodi da sciogliere né questioni da chiarire. A ciò corrispose una accresciuta disponibilità a seguire le tendenze prevalenti altrove.
Negli Stati Uniti Clinton, in Inghilterra Blair, avevano dovuto reinventare i rispettivi partiti alla luce del successo di Reagan e Thatcher. E siccome quel successo non si poteva negare, cercarono di venirci a patti, provando per esempio a usare incentivi economici e riforme “di mercato” per far funzionare lo stato sociale, rilanciandone legittimità e immagine (pensiamo al cosiddetto welfare to work ). In Italia,
un economista cattolico di formazione keynesiana, Beniamino Andreatta, meglio di altri aveva colto il nesso perverso fra partitocrazia, corruzione e aumento incontrollato della spesa pubblica. Dal cosiddetto “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro al referendum elettorale del 1992 all’accordo Andreatta-Van Miert, gli atti politici più rilevanti e lungimiranti dell’epoca si devono ad Andreatta.
La meta era chiara: una democrazia meno esposta alla corruzione, che consentisse l’alternanza fra partiti di governo. Quando ci arriva la sinistra, presidente del consiglio è un allievo di Andreatta, Romano Prodi, e ministro del Tesoro è Carlo Azeglio Ciampi. Le privatizzazioni di Telecom, Eni ed Enel, Autostrade, il pacchetto Treu sul mercato del lavoro, risalgono a quegli anni. Era “neoliberismo”? E’ un po’ difficile sostenerlo, visto che al governo con Prodi c’era Bertinotti e con D’Alema e Amato ci rimase Cossutta. Ciampi si impegnò per un rassetto della spesa pubblica ma gli interventi rimasero marginali, nel segno della lotta agli sprechi e di una migliore organizzazione. C’era, senz’ altro, una componente numericamente esigua, ma pugnace, dell’allora maggioranza che avrebbe volentieri spinto sull’acceleratore “riformista”. Parola che, fateci caso, è scomparsa dal vocabolario della sinistra contemporanea, in una sorta di damnatio memoriae.
La sinistra che non si vergogna che nella sua storia politica ci sia l’aver fiancheggiato l’Unione Sovietica anche dopo i “fatti d’Ungheria”,
si vergogna di avere privatizzato Telecom. In che cosa credevano, i riformisti? La convinzione comune di quel gruppo era, grosso modo, che in un paese come l’Italia, dove non mancano le incrostazioni corporative, “liberalizzare” fosse la condizione magari non sufficiente ma necessaria per ampliare il ventaglio delle opportunità per tutti. Per avere un’idea della consistenza dei riformisti, basti ricordare che al congresso Ds del 2001 Enrico Morando, candidatosi segretario, prese poco più del 4 per cento dei voti. Piccole forze politiche e singole personalità eminenti esercitavano però maggiore condizionamento sugli ex comunisti allora, di quanto sarebbe avvenuto dalla nascita del Pd in poi.
E’ difficile sostenere che i riformisti fossero “neoliberisti”. Diciamo che erano socialisti “colpiti dalla realtà”. Qualcuno di loro civettava di aver accettato l’economia di mercato per disperazione: la disperazione di vivere nel paese col più formidabile repertorio di fallimenti dello stato di tutto l’occidente. Altri inquadravano la loro adesione all’economia di mercato nell’ambito di una battaglia di modernizzazione e legalità: separare politica ed economia, facendo in modo che lo stato smettesse di gestire la gran parte della vita economica del paese, era necessario per diluire la corruzione degli apparati pubblici.
E’ la tesi che, senza trovare interlocutori, ha riproposto Giuliano Amato nel suo “Bentornato stato, ma” (il Mulino). Altri ancora semplicemente dovevano ammettere che a quel tanto o a quel poco di “liberismo” rimasto in occidente si doveva una produzione di ricchezza talmente straordinaria, da consentire la sopravvivenza di elefantiaci apparati statali. Teniamo da conto la pecora, proprio perché vogliamo tosarla.
Il manifesto dei valori del Pd, dovuto a una commissione presieduta da Alfredo Reichlin (non certo un neoliberista), di queste cose indubbiamente teneva conto. Ed è vero che letto oggi, e paragonato alla retorica prevalente nell’odierno Pd, sembra una traduzione da qualche think tank americano. Mirava a realizzare un “partito aperto nel mondo globalizzato”. L’idea di fondo era che “negli scenari complessi del mondo globalizzato non esistono solamente nuovi problemi, ma anche nuove opportunità”. Opportunità era una parola cruciale, da declinarsi nella cornice dello stato sociale ma in un’ottica di empowerment , di “attrezzamento” dei singoli individui. La vocazione maggioritaria si vedeva nel fare a meno di certe parole amate dai chierici, per provare un lessico che ammiccasse agli elettori degli altri.
Oggi si dice: neoliberismo, ieri si sarebbe detto: pensiero borghese. Il punto è tutto qui. Enrico Letta, che pure al canovaccio oggi dominante a sinistra ha tentato di adattarsi per come poteva un moderato per tradizione e carattere, in un dibattito se l’era fatto scappare: parlare di liberismo in Italia è un po’ difficile. E’ vero che nella legislatura del centrosinistra si privatizzò, e non poco. E’ altrettanto vero che oggi, per fare un solo esempio, il paese ha di nuovo un grande player assicurativo pubblico, com’ era l’Ina privatizzata da Amato. Che la Cassa depositi e prestiti è il burattinaio anche di aziende che erano state cedute totalmente, come Tim. Che lo stato dai servizi pubblici locali non se n’è mai andato, come non ha mai ceduto il passo alla concorrenza nella sanità, nell’educazione, nella previdenza. Che la Borsa italiana è sostanzialmente un gioco di imprese controllate dal pubblico.
Che la spesa pubblica supera, anche al netto degli interessi, il 50 per cento del pil. Che la tentazione comune, sinistra e destra, è pensare che a ogni problema debba corrispondere una legge, e di legge in legge siamo arrivati ad avere un quadro normativo talmente complicato che neppure i tecnici del diritto sanno più destreggiarsi nel groviglio. Il grande economista austriaco Ludwig von Mises identificava nel “polilogismo” una delle più durature eredità del marxismo. Marx postula che “la struttura logica della mente è diversa da classe a classe. Non esiste una logica universalmente valida.
Ciò che la mente produce non è che ideologia, cioè, nella terminologia di Marx, un insieme di idee che mascherano gli interessi egoistici della classe sociale a cui il pensatore appartiene”. Per questo la mente “borghese” degli economisti non poteva fare altro che offrire una “apologia” del sistema capitalistico. I chierici di oggi sostengono qualcosa di non troppo diverso. Con convinzione, si ritraggono da qualsiasi discussione
nel merito delle singole questioni. Ogni opinione diversa dalla loro (che si discuta di questioni di genere o della privatizzazione di Ita) è semplicemente riconducibile a un interesse: se i loro avversari non sono servi del capitalismo, sono servi del patriarcato.
Nel dibattito italiano, questo diventa la “diversità” di tempra morale che dividerebbe la sinistra dagli altri. Convinti di fare politica in nome di alcune idee, i chierici non riconoscono nell’altro una propensione simile. E non solo, ormai, non lo riconoscono alla destra: non lo riconoscono neanche a chi, a sinistra, abbia posizioni non esattamente sovrapponibili alle loro. Non lo riconoscono ai loro predecessori degli ultimi trent’ anni: i quali, faticosamente e in modo imperfetto, cercavano di fare i conti con una realtà che avevano scoperto, chi con il crollo del Muro, chi poco prima.
L’ebbrezza del maggioritario consigliava loro di fare politica con l’ambizione di sottrarre voti all’avversario. Il che costringeva a cercare di comprendere le sue ragioni. Oggi il partito dei chierici coltiva la vocazione minoritaria. Quelle degli altri non sono idee, ma interessi messi in bella copia. La politica è solo la ricerca di minoranze da liberare dal condizionamento di questo o quel padrone. Il neoliberismo come ipnosi da cui ridestare un mondo di oppressi. Vedremo quanto dura questo trip.
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Giustizia: l’’agenda Nordio‘
Basterebbe che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio mantenesse metà delle cose annunciate e promesse nel corso della sua audizione in Senato: avviare «una riforma del Codice penale», una «riforma garantista e liberale» da realizzare anche, nel caso, con una «revisione della Costituzione». Basterebbe anche quella che definisce «una profonda revisione delle intercettazioni. Vigileremo in modo […]
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Il Presidente Giuseppe Benedetto sarà ospite a Linea Notte – Tg3
Il Presidente della Fondazione Einaudi Giuseppe Benedetto sarà ospite a Linea Notte, Tg3, il giorno lunedì 12 dicembre dalle ore 24:00.
L'articolo Il Presidente Giuseppe Benedetto sarà ospite a Linea Notte – Tg3 proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Il Professor Lorenzo Infantino ha ricevuto il Premio Colletti 2022
Mercoledì 7 dicembre, all’interno del Palazzo Senatorio del Campidoglio, si è tenuta la XIII edizione del Premio Lucio Colletti, in memoria del filosofo, uomo di straordinario impegno culturale, politico e civile.
Quest’anno, tra le personalità di spicco a cui è stato consegnato l’ambito premio, c’è il Professor Lorenzo Infantino, filosofo, economista e Presidente Onorario della Fondazione Luigi Einaudi, a cui facciamo le nostre più vive congratulazioni!
L'articolo Il Professor Lorenzo Infantino ha ricevuto il Premio Colletti 2022 proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
L’occasione
Se le parole di Carlo Nordio fossero state pronunciate da lui stesso, ma nella eventuale veste di ministro della giustizia di un governo di sinistra, la destra sarebbe insorta. Se la cancellazione dell’ergastolo ostativo avesse trovato posto fra i provvedimenti di un governo diverso dall’attuale, la destra avrebbe gridato allo scandalo. Lasciando da parte il tema della coerenza, quella che abbiamo di fronte è una occasione. Per la giustizia.
Quelle parole sono una novità solo per chi non abbia mai letto o ascoltato Nordio. Le ripete da anni. Afflitto da una malattia minoritaria: la coerenza aggravata da memoria. Di sicuro l’ex procuratore non è un uomo di sinistra, ma non lo è neanche di destra. È un liberale conservatore che non ha mai fatto mistero delle proprie opinioni da quando, lasciata la toga, si è sentito libero di esporle. Chi lo ha scelto come ministro le conosceva. Lo stesso Nordio, del resto, con amara ironia, ha più volte osservato che nell’Italia di oggi ancora vige il codice penale firmato da Mussolini, mentre il codice di procedura penale che porta la firma di una medaglia d’oro della resistenza, Giuliano Vassalli, è stato continuamente modificato e scassato. Lo osservava sottolineando gli aspetti illiberali del codice penale.
La separazione delle carriere o la non obbligatorietà dell’azione penale, per non dire del profluvio dissennato e improprio delle intercettazioni, sono considerati concetti scontati, ovvi in qualsiasi sistema penale accusatorio. Non esiste che l’accusatore e il giudice siano colleghi. È pura ipocrisia pensare che obbligando a perseguire tutto si eviti la scelta in capo alla procura, semmai la si priva di criteri e controlli. Le intercettazioni possono essere utili a indagare, ma depositarle e diffonderle è non solo barbarie, ma suicidio processuale, perché da sole non provano il reato. Cose ovvie. Da noi considerate bestemmie perché si è confuso il giustizialismo con la giustizia. Salvo annegare tutto nell’ipocrisia, quando non nel falso conclamato.
Anche la destra giustizialista, anche chi oggi è al governo, ragionò diversamente quando gli “inquisiti” erano amici. Mentre la sinistra, oggi, non insorge più per difetto di forze che per digerita ammissione dei tanti anni sbagliati. Il colpevolismo giustizialista non è la giustizia, ma una macchina infernale che genera professionisti dell’accusare senza l’onere di dovere dimostrare e senza la pena di dovere pagare per gli errori commessi. La sinistra c’è cascata perché si è trovata comunista, dalla parte sbagliata della storia, al partire di inchieste giudiziarie con le quali si sterminava anche la sinistra che si trovava dalla parte giusta della storia. E se la destra aveva il giustizialismo nel corredo genetico, la sinistra ha abdicato al diritto per divenire la copertura politica del corporativismo togato, ricevendone in cambio la copertura per sgomberare la strada verso il potere.
La scelta di Meloni mette la destra nelle condizioni di dovere cambiare. Non esiste, lo sappia la presidente del Consiglio, il “garantismo” in giudizio e il “giustizialismo” della pena, come ha erroneamente affermato. Posizione impossibile, perché il “garantismo” non è l’innocentismo che loro stessi praticarono con i loro amici, ma il rispetto del diritto, ergo anche la certezza della pena. La sinistra può scegliere: mugugnare malmostosa, incapace di autocritica, sperando ancora di potere ritravestirsi senza il coraggio di svestirsi, oppure riconoscere diritto e diritti e costringere la destra alla coerenza. Questa sembra la scelta di Azione, che somiglia al fare opposizione seria assai più del porsi in una sterile posizione pregiudiziale.
L’occasione è lì. A portata di mano. L’opposizione può aiutare il giustizialismo del campo largo e pentastellato o lavorare al diritto. Magari ricordando che il pessimo decreto “rave” sta all’opposto delle parole di Nordio. Questa è la scelta politica, non il sesso della segreteria.
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Il prof. Giovanni Moschella alla Scuola di Liberalismo 2022 di Messina – Gazzetta del Sud
CISGIORDANIA. Altri quattro palestinesi uccisi dell’esercito israeliano
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 9 dicembre 2022 – Pare che i soldati israeliani, durante i raid nelle città cisgiordane, si orientino con mappe sulle quali i vari quartieri sono indicati con simboli che corrispondono ai nomi delle nazionali di calcio ai Mondiali in Qatar. In questo modo, nel caso le loro comunicazioni radio venissero ascoltate dalle formazioni combattenti palestinesi, eviterebbero di rivelare i movimenti sotto copertura delle unità speciali e, più di tutto, la posizione sugli edifici dei cecchini, lasciando così agli uomini sul terreno di avvicinarsi più agevolmente alle case dei «ricercati».
A rivelarlo, scrive un giornale online palestinese, sono state alcune di queste mappe ritrovate ieri da ragazzi a Jenin, in apparenza perse dai militari mentre si ritiravano dal campo profughi della città, al termine di una nuova sanguinosa incursione in cui sono stati uccisi due combattenti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa – Atta Shalabi e Sidqi Zakarneh di Jenin – e, pare, un civile, Tariq Al Damej. Gli scontri sono andati avanti per quasi tre ore. I reparti israeliani hanno incontrato un forte fuoco di sbarramento, a conferma delle accresciute capacità di combattimento delle formazioni armate palestinesi. Il Battaglione Jenin, ad esempio, ha comunicato che i suoi membri hanno circondato e aperto un inteso fuoco contro un veicolo blindato israeliano costringendolo a fare retromarcia. La battaglia è proseguita, per molti minuti, nel rione di Al Hadaf a Jenin dove si trovavano i tre «ricercati».
Un testimone, Ghassan Al Saadi, ha descritto l’accaduto come un «inferno», con spari continui anche di mitragliatrici pesanti da parte israeliana e raffiche esplose dai palestinesi. Ha detto che i due militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa sono stati colpiti con ogni probabilità da tiri di cecchini. Altri testimoni hanno raccontato di «spari israeliani contro un’ambulanza» diretta sul luogo dei combattimenti e dell’autista scampato alla morte per un soffio. Almeno dieci i feriti, secondo alcune fonti. Poi le forze israeliane, trasportate da una dozzina di automezzi blindati, sono uscite dal campo profughi con i tre arrestati e hanno abbandonato la città. Le autorità locali hanno proclamato tre giorni di lutto. In tarda mattinata migliaia di persone hanno partecipato ai funerali delle tre vittime. È di 216 il totale dei palestinesi uccisi da forze israeliane dall’inizio del 2022 (i morti israeliani in attacchi armati sono una trentina).
Nel pomeriggio quel numero è salito a 217. Nei pressi di Aboud (Ramallah) gli spari di soldati israeliani hanno ucciso Diyaa al Rimawi e ferito gravemente suo cugino Hashem al Rimawi che stavano lanciando sassi e bottiglie piene di pittura contro le automobili di coloni israeliani. Altri tre palestinesi sono stati feriti. Negli ultimi giorni colpi d’arma da fuoco sono stati esplosi contro postazioni e colonie israeliane. Gruppi armati, come la Fossa dei Leoni e il Battaglione Ramallah, hanno rivendicato spari e lanci di granate verso gli insediamenti israeliani di Bet El, Halamish, Atarah, Ofra e Dolev. L’esercito israeliano ha arrestato diversi palestinesi in Cisgiordania mercoledì notte. Da segnalare l’arresto a Nablus di Ruhi Marmash, un tenente dei servizi di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) considerato un fedelissimo del presidente Abu Mazen. Tra i morti e gli arrestati di questi ultimi mesi figurano non pochi membri delle forze militari dell’Anp. A conferma delle tensioni che lacerano le strutture di sicurezza governative palestinesi causate dalla cooperazione con Israele riconfermata anche di recente dai vertici politici. I servizi segreti israeliani dicono di aver arrestato un palestinese di Gaza con un permesso di lavoro che spiava in Israele per conto del movimento islamico Hamas. Pagine Esteri
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Marocco: proteste contro gli aumenti e la repressione
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 8 dicembre 2022 – Alcune migliaia di persone sono scese in piazza domenica a Rabat per protestare contro «l’alto costo della vita e la repressione» politica, partecipando ad una manifestazione promossa dal Fronte Sociale Marocchino (Fsm). La sigla riunisce diversi partiti politici di sinistra, organizzazioni per i diritti umani e sindacati come la Confederazione Democratica del Lavoro.
Alla marcia, la più partecipata degli ultimi mesi, hanno partecipato alcune migliaia di persone – un risultato notevole in un paese che reprime sistematicamente le libertà politiche – anche se la Direzione Generale della Sicurezza Nazionale (DGSN) ha parlato di soli 1500 manifestanti. La manifestazione ha sfilato per quasi due ore nel centro della capitale marocchina, dalla porta della Medina fino a Piazza degli Alawiti, passando accanto alla sede del parlamento.
L’inflazione erode i salari, la povertà aumenta
«Il popolo vuole prezzi più bassi (…). Il popolo vuole abbattere il dispotismo e la corruzione» hanno gridato i partecipanti arrivati anche dal resto del Marocco. «Siamo venuti per protestare contro un governo che incarna il matrimonio tra denaro e potere e che sostiene il capitalismo monopolistico» ha spiegato il coordinatore nazionale dell’Fsm, Younès Ferachine.
Secondo un recente rapporto dell’Alto commissariato per la pianificazione (Hcp), il Marocco è tornato «al livello di povertà e di vulnerabilità del 2014» in seguito alla pandemia di Covid-19 e all’inflazione. L’impennata dei prezzi (ad ottobre è stato rilevato un +7,1% su base annua) e in particolare l’aumento del costo dei carburanti, dei generi alimentari e dei servizi, uniti a un’eccezionale siccità, hanno inoltre frenato la crescita economia, che alla fine dell’anno dovrebbe essere pari soltanto ad un +0,8%.
Le forze sociali e politiche che hanno partecipato alla marcia hanno chiesto le dimissioni del governo denunciando che a risentire della situazione non è più solo il potere d’acquisto dei settori più poveri della popolazione, ma ormai anche quello della classe media. Il Paese soffre di disparità sociali e territoriali crescenti che costringono sempre più cittadini, soprattutto giovani, all’emigrazione.
La disparità di reddito, stimata secondo il coefficiente di Gini, è del 46,4%, ovvero al di sopra della soglia socialmente tollerabile (42%). Secondo gli stessi dati forniti dal governo di Rabat, il 20% della popolazione è in stato di povertà assoluta (con un reddito inferiore a 1,8 euro al giorno), il 40% in povertà relativa (con un reddito inferiore a 3 euro al giorno) e il 60% in condizioni di precarietà (meno di 4,5 euro al giorno).
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Il governo rivendica le sue politiche sociali
Di fronte alle proteste e all’aumento del malcontento sociale, il governo guidato dall’imprenditore Aziz Akhannouch ha più volte rivendicato quella che definisce la sua “politica sociale”, in particolare l’estensione della copertura sanitaria a oltre 10 milioni di marocchini a basso reddito. Lo scorso ottobre, il governo ha inoltre annunciato un nuovo maxi-fondo sovrano da 4 miliardi di euro creato per sostenere gli investimenti pubblici e tentare così di rilanciare l’economia del paese e contrastare la crisi.
Si tratta però di misure ritenute parziali e insufficienti da parte delle opposizioni di sinistra. In particolare i sindacati denunciano la rinuncia, da parte del governo marocchino, al varo di una tassa sugli extraprofitti delle compagnie energetiche. Proposta dalle opposizioni parlamentari anche sulla base dell’appello del segretario generale dell’ONU a tassare gli “scandalosi” profitti realizzati dalle aziende del settore energetico in maniera da recuperare risorse da destinare al contrasto dell’inflazione e della povertà, alla fine il premier Akhannouch non ha inserito la misura all’interno della legge finanziaria adottata lo scorso 19 ottobre dal Consiglio dei Ministri. La rinuncia a questa e ad altre misure redistributive ha rilanciato le accuse, nei confronti dell’esecutivo, di favorire l’élite economica e di incarnare la collusione tra potere politico e mondo degli affari.
“No agli arresti dei dissidenti”
I manifestanti hanno anche lanciato slogan contro gli arresti di dissidenti, denunciando «ogni forma di repressione politica, antisindacale e contro la libertà d’espressione, mentre vengono incarcerati diversi blogger e giornalisti critici nei confronti del governo. «È una regressione inaccettabile», ha denunciato Ferachine.
Uno degli ultimi arresti ha preso di mira, a novembre, è stato l’ex ministro dei Diritti Umani Mohamed Ziane. A ottobre l’avvocato e fondatore del Partito Liberale, che attualmente ha 80 anni, aveva chiesto l’abdicazione del sovrano Mohamed VI – che risiede a Parigi e rientra in Marocco solo per alcune cerimonie – e la fine della sistematica violazione dei diritti politici e democratici. Per tutta risposta Ziane è stato prima oggetto di una feroce campagna denigratoria da parte dei media governativi e delle autorità, ed in seguito è stato condannato dalla Corte d’Appello di Rabat a tre anni di detenzione per un totale di 11 capi di accusa formulati in una denuncia del Ministero degli Interni di Rabat.
“No agli accordi con Israele”Nel corteo sono state sventolate numerose bandiere palestinesi. La marcia ha rappresentato infatti anche l’occasione per condannare la normalizzazione dei rapporti tra Rabat e lo stato di Israele, decisa nel 2020 nell’ambito degli “accordi di Abramo”. Secondo i sondaggi una gran parte della popolazione si dice contraria alla crescente collaborazione economica e militare tra il regno marocchino e Tel Aviv.L’ultimo importante passo in questo senso risale al 23 marzo scorso, quando il Ministro dell’Industria e del Commercio marocchino Ryad Mezzour e il presidente del board dei direttori dell’Israel Aerospace Industries, Amir Peretz, hanno siglato uno storico accordo di cooperazione.
Nel giugno scorso, poi, il governo di Rabat ha firmato un contratto con l’israeliana Elbit Systems per la fornitura del sistema “Alinet”, allo scopo di sviluppare le capacità del paese nel campo della guerra elettronica.
A luglio il capo di Stato maggiore dell’esercito di Israele, Aviv Kohavi, ha incontrato a Rabat l’omologo marocchino El Farouk; i due avrebbero discusso i dettagli del rafforzamento della cooperazione militare e discusso la possibilità di lanciare un’alleanza regionale volta «a frenare l’influenza iraniana in Medio Oriente e in Nord Africa».
Israele ha anche fornito a Rabat la tecnologia necessaria a produrre in proprio dei droni da bombardamento, che il paese utilizza per colpire la guerriglia del Fronte Polisario, l’organizzazione che si batte per la liberazione dei territori saharawi occupati illegalmente dal Marocco.
Lo scorso 3 dicembre uno di questi droni ha colpito in pieno un fuoristrada nella zona del confine con la Mauritania, uccidendo il conducente e scatenando la reazione di Mohamed el Mokhtar Ould Abdi, governatore della provincia di Tiris-Zemmour, che si trova sulle linee di contatto con l’ex colonia spagnola occupata da Rabat. L’uccisione dei cittadini mauritani fuori dai confini nella zona cuscinetto del Sahara occidentale «non è più accettabile» ha detto il capo del governo locale. Già a settembre due cercatori d’oro mauritani erano stati uccisi nel corso di un bombardamento compiuto da un drone marocchino contro presunte postazioni del Fronte Polisario. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Giovane ucciso dall’esercito israeliano a Dheisha, 212 i palestinesi morti nel 2022
di Elisa Brunelli
Pagine Esteri, 5 dicembre 2022 – Un nastro rosso con il simbolo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina avvolge la fronte di Omar Mannaa, mentre la bandiera palestinese ne copre il corpo esanime. Solo qualche giorno prima compariva in un video mentre preparava il pane nel piccolo forno in cui lavorava, nel cuore del campo profughi di Dheisha di Betlemme. All’alba di questa mattina, 5 dicembre, è stato ucciso durante un’incursione dell’esercito israeliano, operazione che si è conclusa con altri 6 feriti gravi e quattro arresti, tra cui il fratello di Omar. In tutto il territorio di Betlemme è in corso uno sciopero generale che accompagna il funerale del 22enne.
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Si allunga così la lista dei palestinesi uccisi quest’anno dall’esercito israeliano. Secondo le statistiche del Ministero della Salute palestinese, da inizio del 2022 si contano 212 vittime, 160 nei territori della Cisgiordania e 52 nella striscia di Gaza, in seguito alla guerra dei 3 giorni dello scorso agosto. Una trentina sono invece gli israeliani uccisi nello stesso periodo, in prevalenza in attacchi armati avvenuti la scorsa primavera a Tel Aviv e in altre città.
Frequenti, raccontano dal campo di Dheisha, sono le irruzioni dell’esercito in mezzo alle case che hanno sostituito confusionariamente le prime tende del ‘48. Le testimonianze di quattro generazioni di profughi cominciano dal dramma della Nakba per ricordare i carri armati dell’Intifada fino a raccontare le esistenze e le resistenze di oggi. La strada principale che arriva al campo è disseminata dai resti dell’ultima barricata data alle fiamme. La firma di alcuni giovani residenti per provare ad impedire i raid dentro il campo profughi da parte dei mezzi dell’esercito.
“Non trovo differenza tra la mia generazione e la loro. Non possiamo fare altro che continuare a resistere. Non abbiamo più nulla da perdere”, spiega Mahmoud Ramadan, oggi portavoce del campo. A 15 anni, durante la seconda Intifada, era stato ferito gravemente dai proiettili dell’Occupazione. I blindati israeliani stavano avanzando e, allora come oggi, anche i più giovani tentavano di impedire l’ennesimo attacco al campo. Ai lanci di pietre, i militari avevano risposto con il fuoco dei proiettili. Ramadan si era salvato miracolosamente, a differenza dei suoi compagni, dopo che uno di questi ha raggiunto, recidendola, la vena safena.
L’uccisione di Omar Mannaa si colloca all’interno di una più ampia operazione che ha coinvolto diverse zone dei Territori Occupati. Sono 17 i palestinesi detenuti nelle ultime ore dall’esercito dalle aree sotto controllo dell’Autorità Palestinese, riporta l’agenzia stampa palestinese WAFA.
Nel campo profughi di Jenin è stato arrestato Yhaya Al-Saadi, figlio di Bassaam Al-Saadi, il leader militare in Cisgiordania del gruppo armato del Jihad palestinese. Nella città di Ni’lin, a ovest di Ramallah tre persone sono state arrestate dopo il saccheggio delle loro case. Perquisizioni anche nelle abitazioni di al-Bireh, che si sono concluse con l’arresto di un adolescente. Altre otto persone sono state arrestate nel distretto di Hebron.
Secondo gli ultimi dati pubblicati da Addameer, l’associazione per il sostegno ai prigionieri palestinesi all’interno delle carceri e nei centri di detenzione israeliani, si contano 4.760 prigionieri politici palestinesi, tra cui 160 minori, 33 donne. 820 quelli sottoposti a “detenzione amministrativa”, senza alcuna accusa né processi a carico. Pagine Esteri
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