Taiwan Files – Si rafforzano i legami militari tra Taipei e Usa
La possibile estensione del programma di addestramento Usa a Taiwan, l'aumento degli scambi a livello militare e diplomatico, gli effetti della guerra in Ucraina, delegazione di Shanghai e politica interna, economia e semiconduttori. La rassegna settimanale di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
L'articolo Taiwan Files – Si rafforzano i legami militari tra Taipei e Usa proviene da China Files.
Per Salvini la parità di genere è questione di “burocrazia”. Di @vitalbaa su @DomaniGiornale (attenzione: paywall)
editorialedomani.it/idee/comme…
- Il nuovo codice dei contratti pubblici segna un passo indietro per il riconoscimento del ruolo delle donne nel mondo del lavoro.
- Le stazioni appaltanti avranno la mera facoltà, e non l’obbligo, di prevedere «meccanismi e strumenti idonei a realizzare pari opportunità», anche di genere. Inoltre, scompare il riferimento alla certificazione della parità di genere introdotta nel 2021, attestata secondo i criteri di cui all’UNI/PdR 125.
- Salvini ha definito tale certificazione come «burocrazia». Questa è la considerazione che il ministro ha per uno strumento di promozione del lavoro femminile. Se il governo reputa di avere una considerazione diversa, intervenga sul nuovo codice degli appalti.
like this
reshared this
La Cina ha rilasciato un nuovo documento che delinea la sua posizione sul conflitto ucraino, in occasione del primo anniversario dell'invasione della Russia: ecco il documento del Ministero degli Esteri cinese
Ecco i dodici punti con "la posizione della Cina sulla soluzione politica della crisi ucraina"
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Il documento in 12 punti ribadisce per lo più l'attuale punto di vista di Pechino sul conflitto, saltando gli sforzi di Pechino per presentarsi come mediatore di pace neutrale, mentre lotta per bilanciare il suo rapporto con Mosca e il logoramento dei legami con "l'Occidente" mentre la guerra si trascina ancora senza che all'orizzonte si intraveda una vera soluzione.Naturalmente la pretesa di neutralità di Pechino è stata messa in dubbio dagli Stati Uniti e da altri alleati ucraini, con Russia e Cina che hanno descritto le loro relazioni bilaterali come "senza limiti" poche settimane prima dell'invasione.
Le recenti accuse dei paesi occidentali secondo cui la Cina sta considerando di armare la Russia sono state liquidate come "false informazioni" da Pechino.
La pretesa di neutralità di Pechino è stata infatti messa in discussione dal suo rifiuto di riconoscere la natura del conflitto – finora ha evitato di definirlo “invasione” – e dal suo sostegno diplomatico ed economico a Mosca.
Ecco di seguito i dodici punti indicati nel documento ufficiale del ministero degli esteri cinese:
1. Rispettare la sovranità di tutti i paesi. Il diritto internazionale universalmente riconosciuto, compresi gli scopi ei principi della Carta delle Nazioni Unite, deve essere rigorosamente osservato. La sovranità, l'indipendenza e l'integrità territoriale di tutti i paesi devono essere efficacemente sostenute. Tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri, sono membri uguali della comunità internazionale. Tutte le parti dovrebbero sostenere congiuntamente le norme fondamentali che regolano le relazioni internazionali e difendere l'equità e la giustizia internazionali. Dovrebbe essere promossa un'applicazione paritaria e uniforme del diritto internazionale, mentre i doppi standard devono essere respinti.
2. Abbandonare la mentalità della guerra fredda. La sicurezza di un paese non dovrebbe essere perseguita a spese di altri. La sicurezza di una regione non dovrebbe essere raggiunta rafforzando o espandendo i blocchi militari. I legittimi interessi e preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi devono essere presi sul serio e affrontati adeguatamente. Non esiste una soluzione semplice a un problema complesso. Tutte le parti dovrebbero, seguendo la visione di una sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile e tenendo presente la pace e la stabilità a lungo termine del mondo, contribuire a creare un'architettura di sicurezza europea equilibrata, efficace e sostenibile. Tutte le parti dovrebbero opporsi al perseguimento della propria sicurezza a scapito della sicurezza altrui, prevenire il confronto tra blocchi e lavorare insieme per la pace e la stabilità nel continente eurasiatico.
3. Cessare le ostilità. Il conflitto e la guerra non giovano a nessuno. Tutte le parti devono rimanere razionali ed esercitare moderazione, evitare di alimentare il fuoco e aggravare le tensioni e impedire che la crisi si deteriori ulteriormente o addirittura sfugga al controllo. Tutte le parti dovrebbero sostenere la Russia e l'Ucraina nel lavorare nella stessa direzione e riprendere il dialogo diretto il più rapidamente possibile, in modo da ridurre gradualmente la situazione e raggiungere infine un cessate il fuoco globale.
4. Riprendere i colloqui di pace. Dialogo e negoziazione sono l'unica soluzione praticabile alla crisi ucraina. Tutti gli sforzi volti a una soluzione pacifica della crisi devono essere incoraggiati e sostenuti. La comunità internazionale dovrebbe rimanere impegnata nel giusto approccio per promuovere i colloqui per la pace, aiutare le parti in conflitto ad aprire la porta a una soluzione politica il prima possibile e creare le condizioni e le piattaforme per la ripresa dei negoziati. La Cina continuerà a svolgere un ruolo costruttivo in questo senso.
5. Risolvere la crisi umanitaria. Tutte le misure atte ad alleviare la crisi umanitaria devono essere incoraggiate e sostenute. Le operazioni umanitarie dovrebbero seguire i principi di neutralità e imparzialità e le questioni umanitarie non dovrebbero essere politicizzate. La sicurezza dei civili deve essere efficacemente tutelata e devono essere istituiti corridoi umanitari per l'evacuazione dei civili dalle zone di conflitto. Sono necessari sforzi per aumentare l'assistenza umanitaria nelle aree interessate, migliorare le condizioni umanitarie e fornire un accesso umanitario rapido, sicuro e senza ostacoli, al fine di prevenire una crisi umanitaria su scala più ampia. Le Nazioni Unite dovrebbero essere sostenute nel svolgere un ruolo di coordinamento nell'incanalare gli aiuti umanitari nelle zone di conflitto.
6. Protezione dei civili e dei prigionieri di guerra (POW). Le parti in conflitto dovrebbero rispettare rigorosamente il diritto internazionale umanitario, evitare di attaccare civili o strutture civili, proteggere donne, bambini e altre vittime del conflitto e rispettare i diritti fondamentali dei prigionieri di guerra. La Cina sostiene lo scambio di prigionieri di guerra tra Russia e Ucraina e invita tutte le parti a creare condizioni più favorevoli a tale scopo.
7. Mantenere sicure le centrali nucleari. La Cina si oppone agli attacchi armati contro le centrali nucleari o altri impianti nucleari pacifici e invita tutte le parti a rispettare il diritto internazionale, inclusa la Convenzione sulla sicurezza nucleare (CNS), ed evitare risolutamente incidenti nucleari provocati dall'uomo. La Cina sostiene l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA) nel svolgere un ruolo costruttivo nella promozione della sicurezza e della protezione degli impianti nucleari pacifici.
8. Riduzione dei rischi strategici. Le armi nucleari non devono essere utilizzate e le guerre nucleari non devono essere combattute. La minaccia o l'uso di armi nucleari dovrebbe essere contrastata. La proliferazione nucleare deve essere prevenuta e la crisi nucleare evitata. La Cina si oppone alla ricerca, allo sviluppo e all'uso di armi chimiche e biologiche da parte di qualsiasi paese e in qualsiasi circostanza.
9. Facilitare le esportazioni di grano. Tutte le parti devono attuare pienamente ed efficacemente, in modo equilibrato, l'iniziativa per i cereali del Mar Nero firmata da Russia, Turchia, Ucraina e Nazioni Unite e sostenere le Nazioni Unite affinché svolgano un ruolo importante in tal senso. L'iniziativa di cooperazione sulla sicurezza alimentare globale proposta dalla Cina fornisce una soluzione fattibile alla crisi alimentare globale.
10. Stop alle sanzioni unilaterali. Sanzioni unilaterali e massima pressione non possono risolvere la questione; creano solo nuovi problemi. La Cina si oppone alle sanzioni unilaterali non autorizzate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. I paesi interessati dovrebbero smettere di abusare delle sanzioni unilaterali e della "giurisdizione a braccio lungo" contro altri paesi, in modo da fare la loro parte per ridurre la crisi ucraina e creare le condizioni affinché i paesi in via di sviluppo possano far crescere le loro economie e migliorare la vita della loro gente.
11. Mantenere stabili le catene industriali e di approvvigionamento. Tutte le parti dovrebbero mantenere seriamente l'attuale sistema economico mondiale e opporsi all'uso dell'economia mondiale come strumento o arma per scopi politici. Sono necessari sforzi congiunti per mitigare le ricadute della crisi e impedire che interrompa la cooperazione internazionale nei settori dell'energia, della finanza, del commercio alimentare e dei trasporti e comprometta la ripresa economica globale.
12. Promuovere la ricostruzione postbellica. La comunità internazionale deve adottare misure per sostenere la ricostruzione postbellica nelle zone di conflitto. La Cina è pronta a fornire assistenza e svolgere un ruolo costruttivo in questo sforzo.
like this
reshared this
Siamo troppi; sei di troppo
Buongiorno caro lettore e benvenuto a un nuovo episodio di Cronache del Complotto! Oggi ti parlerò di una bislacca teoria cospirazionista non particolarmente famosa. Non è tra la lista delle più note conspiracy theories su Wikipedia, e quasi certamente frutto della mia immaginazione.
I veri complottisti sono iscritti a Privacy Chronicles. Anche quelli di troppo.
Ecco, allora… la teoria del complotto è che… tu — sì, proprio tu — sei di troppo. Dici che non va bene come teoria del complotto? Va bene…vediamo di approfondire: la teoria allora è che dal dopo guerra in poi una piccola ma poderosa elite di persone ha cercato in tutti i modi di influenzare la politica occidentale (soprattutto europea) per creare un governo globalista che possa porre rimedio al fatto che al mondo ci sono decisamente troppe persone.
Secondo questa bislacca teoria del complotto, uno degli stratagemmi trovati da queste persone per popolarizzare le loro idee e renderle più accettabili (e richieste!) fu il World Economic Forum, fondato nel 1971 da Klaus Schwab grazie al supporto di personaggi poco raccomandabili.
Scansiona il QR Code con il tuo wallet LN oppure clicca qui!
Prima però facciamo un passo indietro: da dove arriva questa strana idea che al mondo ci siano troppe persone? Da un signore chiamato Thomas Malthus.
Il pensiero di Thomas Malthus
Thomas Malthus (1766-1834) fu un economista inglese oggi conosciuto per le sue teorie sulla crescita demografica.
Nel suo trattato "An Essay on the Principle of Population" (1798) Malthus afferma che, poiché la crescita demografica è esponenziale, mentre la capacità di produrre cibo è invece lineare, è anche inevitabile che il genere umano prima o poi si trovi di fronte a un qualche tipo di catastrofe inevitabile, per ribilanciare i numeri: guerre, carestie, pandemie, e così via.
"The power of population is so superior to the power of the earth to produce subsistence for man, that premature death must in some shape or other visit the human race."
Il viaggio senza ritorno della giovane Masha
La rivoluzione in Iran mostra caratteristiche inimmaginabili e senza precedenti nei quarantaquattro anni di regime teocratico.
In una prima fase vi è stata una rivolta in alcune piccole città delle province curde del paese, insorta dopo l’uccisione della giovane ventiduenne Mahsa Amini, curda di Saqqez, massacrata di botte il 16 settembre in un furgone della cosiddetta “polizia morale” che l’aveva arrestata perché non indossava correttamente il velo come prescrive la legge islamica.
L’uccisione di Amini ha sconvolto tutto l’Iran e subito la protesta è divampata in più di cento città e ha visto al centro le donne. Nella capitale Tehran si è avviato un processo rivoluzionario spontaneo che è dilagato e ha coinvolto larghi strati della popolazione.
Mahsa Amini era nata da un impiegato della pubblica amministrazione locale e da una casalinga. La sua famiglia la descrive come una ragazza molto timida. Si era diplomata nel 2018 al liceo femminile Taleghani, nella sua città natale. I genitori raccontano che dopo aver completato il suo percorso liceale, la sua vita ha continuato a concentrarsi nello studio e che dopo molto impegno era riuscita a superare il test d’ingresso alla facoltà di Giurisprudenza.
Il 13 settembre 2022, Mahsa decise di fare un viaggio a Tehran con alcuni suoi cugini e raggiungere lì suo fratello Kiaresh. Quel giorno venne fermata da un’agente della polizia morale mentre usciva da una stazione della metropolitana della capitale.
«Lasciateci andare! Noi non siamo di Tehran, veniamo da fuori!», aveva esclamato Kiaresh supplicando i poliziotti di non portare via sua sorella.
Gli agenti si liberarono di lui spruzzandogli in faccia lo spray al peperoncino e costrinsero Masha a salire su un furgone bianco per condurla al commissariato di zona.
Poco dopo, la stessa pattuglia comunicò alla famiglia che la ragazza sarebbe stata condotta al centro di detenzione di Vozara dove avrebbe ricevuto un “corso di rieducazione morale” della durata di un’ora, come da procedura di legge. Ma Kiaresh, recatosi in questura per riprendere sua sorella al termine dell’ora di “rieducazione”, si sentì dire dalla polizia che Mahsa aveva avuto un infarto e un attacco cerebrale ed era stata trasportata in ospedale.
È stato un ragazzo, anche lui in stato di fermo, a raccontare alla famiglia cosa era successo in quel drammatico giorno: «Durante il tragitto verso il commissariato Mahsa era stata insultata e torturata nel furgone. La polizia morale l’aveva colpita alla testa più volte», ha raccontato il giovane testimone. Quando poi è giunta al commissariato, mentre era in attesa dell’identificazione e del colloquio, si è sentita male, le si è oscurata la vista ed è svenuta.
Dopo tre giorni di coma, nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale Kasra di Tehran, Mahsa è deceduta in seguito al gravissimo trauma cranico subito.
Il giorno del decesso, i sanitari diffusero un post sulla loro pagina Instagram in cui si affermava che la giovane donna era entrata in clinica già cerebralmente morta. In seguito però il loro post fu cancellato. Un gruppo di medici dell’ospedale Kasra, parlando alla stampa in anonimato, ha sostenuto che Mahsa aveva un edema cerebrale reso evidente da un sanguinamento delle orecchie, un ematoma periorbitale e diffuse fratture ossee.
Non sappiamo cosa sia accaduto negli oltre novanta minuti trascorsi dall’ora della richiesta dell’ambulanza fino all’arrivo nel vicino ospedale di Kasra; una tempistica, questa, inspiegabilmente lunga.
La famiglia ha potuto visitare Mahsa il 16 settembre, solo dopo tre giorni dal suo ricovero e subito dopo l’ora della sua morte. Tali dettagli sono stati raccontati dalla giornalista d’inchiesta Niloofar Hamedi, su Shargh, uno dei giornali riformisti più popolari in Iran. Hamedi è stata la prima ad aver documentato l’uccisione di Mahsa. È stata anche la prima giornalista ad essere stata arrestata appena dopo lo scoppio delle proteste in tutto l’Iran. Grazie a lei, ora sappiamo cosa è accaduto alla povera ragazza curda subito dopo il suo arresto e prima della sua morte.
L’uccisione della giovane Mahsa fu la scintilla che fece divampare il fuoco della protesta delle donne in tutto il paese.
La sua morte aveva scatenato la rabbia nella sua città natale e in tutto il Kurdistan iraniano e subito, ovunque in Iran, era divampata la rivolta delle donne secondo pratiche rigorosamente nonviolente e caratterizzata da gesti altamente simbolici per veicolare il messaggio dirompente del rifiuto di ogni sottomissione, dei codici di abbigliamento vigenti e di ogni autoritarismo anche religioso.
In tutte le piazze e in ogni angolo delle strade le donne hanno iniziato a gridare Jîn, Jîyan, Azadî” (Donna, Vita, Libertà) e slogan contro il regime islamico togliendosi dal capo l’hijab (velo islamico) per sventolarlo come una bandiera e ad esso davano fuoco, lo hanno fatto mostrando determinazione ed estremo coraggio.
La rivoluzione è subito entrata in una seconda fase in cui donne e uomini, giovani e anziani, sono scesi per le strade, dai quartieri ricchi di Tehran a quelli poveri delle più remote province e campagne, del sud, dell’est e dell’ovest. Un evento, questo, decisamente unico nella storia iraniana, diverso dalle due rivoluzioni precedenti. A quella costituzionale del 1905 prese parte solo un’élite, prevalentemente di due grandi città: Teheran e Tabriz. Quella del ’79 invece fu una rivoluzione sostenuta da potenze occidentali ed è stata molto rapida nel suo processo e comunque non ha interessato tutti gli strati sociali.
È la prima volta che tutto il paese partecipa a una rivolta con uno slogan molto preciso non legato ad alcuna richiesta economica o generica riforma, come spesso era accaduto come spesso è accaduto in passato, col “Movimento Verde” del 2009-10, sull’esito delle elezioni contestato e nel 2019, per l’aumento del prezzo della benzina, alle quali il regime riuscì a fare fronte disinnescando subito le proteste.
Ora gli slogan che rimbalzano in ogni angolo dell’Iran sottendono un obiettivo ben preciso: il crollo della Repubblica islamica con l’abbattimento del “regime di apartheid di genere”.
L'articolo Il viaggio senza ritorno della giovane Masha proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Tutto il possibile per la vittoria ucraina. La lezione dei comandanti supremi alleati
“In qualità di ex Comandanti supremi alleati della Nato, sappiamo quanto sia stato essenziale il sostegno degli Stati Uniti e degli alleati per i successi sul campo di battaglia dell’Ucraina”. Con queste parole sette generali e un ammiraglio americani, che hanno ricoperto il ruolo di Comandante supremo alleato della Nato in Europa (Saceur), hanno deciso di sottolineare l’importanza del sostegno a Kiev per la sicurezza globale, in una lettera congiunta pubblicata su Defense One. “Il mondo sarebbe un posto molto più pericoloso se Putin fosse riuscito a rovesciare il governo ucraino”, scrivono i generali, che sottolineano come “i nostri alleati della Nato sarebbero minacciati e più vulnerabili alla coercizione russa”, soprattutto se gli Usa non avessero deciso di intervenire con gli aiuti per le Forze armate ucraine.
Lezioni dal passato
“La storia insegna all’America che i conflitti lontani all’estero possono minacciare direttamente il nostro Paese quando non ci impegniamo”, spiegano ancora gli ufficiali, ricordando come per due volte, nel corso del Novecento, gli Usa abbiano dovuto inviare milioni di uomini in tutto il mondo per combattere guerre che gli americani “avevano inizialmente ignorato” contro aggressori che erano rimasti incontrollati. “Non dobbiamo ripetere l’errore”. Anche perché le conseguenze di questi eventi hanno una portata globale, che non può essere ignorata. “Un’invasione russa di successo avrebbe incoraggiato la Cina ad agire contro Taiwan” spiega ancora l’appello, registrando come invece “i fallimenti militari del Cremlino stanno facendo riflettere Pechino”. Anche perché, dopo dodici mesi, “la guerra è a un punto critico”, con Mosca che si sta preparando a nuove offensive “ricorrendo a tattiche sempre più barbare per imporre la sua volontà sull’Ucraina”.
Ora è il momento di dare tutto
“L’esercito ucraino si sta preparando per le proprie controffensive con il beneficio di nuovi sistemi d’arma e di addestramento occidentali” spiegano i comandanti, registrando come, però, “se questo sostegno venisse meno” la reazione di Kiev potrebbe fallire “con conseguenze disastrose per l’Ucraina, gli Stati Uniti e i nostri alleati e partner in tutto il mondo”. Di conseguenza, per gli ex-Saceur “ora è il momento di scavare più a fondo per dare all’Ucraina ciò di cui ha bisogno per vincere”, non solo da parte degli Usa, ma anche dai suoi alleati. Per i generali, dunque, non c’è dubbio: “Abbiamo la responsabilità, radicata nei nostri valori e interessi, di garantire che la Russia non possa operare con tale impunità”.
Gli autori
I sette alti ufficiali che hanno deciso di scrivere questo appello sono il Wesley K. Clark, dello US Army, in carica come Saceur dal 1997 al 2000; Joseph Ralston, dell’Usaf, dal 2000 al 2003, James L. Jones, dei Marines, dal 2003 al 2006, l’ammiraglio della US Navy, James Stavridis, dal 2009 al 2013, Phil Breedlove dell’Air Force, dal 2103 al 2016, Curtis M. Scaparrotti, dell’Esercito, dal 2016 al 2019, e Tod Wolters, ancora dell’aeronautica, che ha guidato il comando supremo Nato dal 2019 fino al 2022, sostituito dall’attuale Saceur. Una carrellata di esperienze quasi ininterrotta degli ultimi 26 anni dell’Alleanza Atlantica. Anni durante i quali la Nato ha visto il mondo cambiare, dal periodo successivo alla fine della Guerra fredda, fino ai conflitti nei Balcani, la lotta contro il terrorismo internazionale, e il ritorno della competizione globale con Russia e Cina.
Un anno di guerra: NATO (quasi) unita sotto la guida USA, a sostegno dell’Ucraina
A un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina è possibile tracciare un primo bilancio di quanto accaduto nei mesi sin qui trascorsi e, su questa base, cercare di sviluppare alcune riflessioni sui suoi sviluppi futuri. Il primo dato (e, a prima vista, quello più sorprendente) è che, contrariamente alle attese iniziali, l’‘operazione militare speciale’ avviata da […]
L'articolo Un anno di guerra: NATO (quasi) unita sotto la guida USA, a sostegno dell’Ucraina proviene da L'Indro.
Missioni segrete underwater. Ecco il mini-sottomarino di Fincantieri
Le dimensioni e le caratteristiche dello scafo del sottomarino S800 lo rendono il mezzo strategico più adatto a supportare le operazioni delle forze speciali nel dominio underwater. Così il contrammiraglio Marcellino Corsi, consulente senior di Fincantieri, ha presentato il sottomarino leggero progettato da Fincantieri e mostrato al pubblico durante l’Idex, tre le principali esposizioni internazionali nell’ambito della Difesa in corso ad Abu Dhabi. Il sottomarino è stato pensato appositamente per operazioni segrete in acque poco profonde, caratterizzato dalla sua elevata capacità stealth.
Le caratteristiche dell’S800
Con i suoi 51 metri di lunghezza e dieci di altezza, l’S800 è stato realizzato sull’esempio del più grande S1000 e, sebbene di dimensioni inferiori rispetto a quest’ultimo, dispone di capacità simili ed ha in dotazione di molte delle tecnologie del fratello maggiore. L’S800 è in grado di ospitare 18 membri dell’equipaggio, operare a profondità fino a 250 metri e ha una resistenza in immersione fino a sette giorni senza bisogno di emergere. L’S800 ha cinque siluri (anziché i sei dell’S1000). È dotato di un sistema di controllo automatizzato della piattaforma con quattro timoni di poppa a X, configurati in modo da aumentare l’efficienza delle eliche e garantire una maggiore manovrabilità. Il funzionamento silenzioso del sistema di celle a combustibile consente, inoltre, di mantenere al minimo l’impronta acustica del sottomarino, una caratteristica fondamentale per il tipo di missioni che è destinato a svolgere.
La sperimentazione del nuovo prodotto
Il contrammiraglio Corsi ha anche dichiarato che la costruzione dell’S800 richiederà circa un anno, al contrario dell’S1000 che richiede due anni e mezzo per essere assemblato. La sperimentazione, che solitamente viene riservata alla Marina militare per i prodotti cantieristici nazionali, nel caso dell’S800 verrà effettuata dal primo acquirente per l’esportazione. Condizione possibile grazie al fatto che la nostra Forza armata navale non possiede requisiti specifici relativi a questo tipo di battelli dalle dimensioni contenute.
L’interesse del Pakistan e del Golfo
Secondo Fincantieri, il Pakistan e i Paesi del Golfo hanno già mostrato un serio interesse per la piattaforma. Ciò si inserisce in una tendenza regionale emersa negli ultimi anni, con gli Stati arabi che cercano di espandere progressivamente le proprie capacità navali, soprattutto a seguito dell’aumento delle tensioni con l’Iran. In un recente rapporto della Nuclear threat initiative, infatti, a partire dal febbraio 2023 la Marina della repubblica islamica avrà una forza di sottomarini che potrebbe superare la ventina di unità. Le capacità underwater di Teheran preoccupano di conseguenza i vicini regionali. Per questo, anche il Pakistan ha già avviato un processo di ammodernamento per aumentare la propria flotta sottomarina, e nel 1988 aveva acquistato dall’Italia diversi mini-sottomarini MG110 della classe Cosmo.
Foto: Fincantieri
Un anno di guerra: NATO unita sotto la guida USA, a sostegno dell’Ucraina
A un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina è possibile tracciare un primo bilancio di quanto accaduto nei mesi sin qui trascorsi e, su questa base, cercare di sviluppare alcune riflessioni sui suoi sviluppi futuri. Il primo dato (e, a prima vista, quello più sorprendente) è che, contrariamente alle attese iniziali, l’‘operazione militare speciale’ avviata da […]
L'articolo Un anno di guerra: NATO unita sotto la guida USA, a sostegno dell’Ucraina proviene da L'Indro.
Fatto un tubo
Che sia piovuto e nevicato poco ce ne siamo accorti. Che vi sia, quindi, un allarme siccità è normale. Tutto il resto no, però. Perché non si può, ogni anno, ripetere la stessa scena e, conseguentemente, dire le stesse cose.
Dal cielo è caduta poca acqua, ma noi ne raccogliamo a malapena l’11%. Vale a dire che l’89% va disperso. Basterebbe far crescere la capacità di raccolta, conosciuta fin dalla notte dei tempi, e la penuria sarebbe meno drammatica. Non bastasse questo, quella che abbiamo la sprechiamo: prima di arrivare a destinazione finale il 36% (40 in agricoltura) si perde lungo la strada, 41 metri cubi per chilometro, in acquedotti che non sono solo meno belli, ma anche meno efficienti di quelli che costruivano gli antichi romani. 1 miliardo di metri cubi che se ne vanno in rivoli fangosi, quando non a irrigare e irrorare chi si è affidato ai malavitosi.
Quella che arriva ai rubinetti, dopo lo sciupio, la paghiamo poco: in media 2.19 euro al metro cubo (Francia 3.49; Germania 4.37; Olanda 4.89; Danimarca 6.28). La paghiamo meno non perché ne abbiamo in maggiore abbondanza, giacché la pagano ben di più i cittadini di Paesi con maggiori risorse idriche, ma perché lo consideriamo un bene senza valore particolare. Nonostante scarseggi. Il principio secondo cui “l’acqua è di tutti” s’è tradotto nella sua ovvia versione prosaica: non è di nessuno. Così passiamo da un allarme siccità all’altro, ma restiamo i primi consumatori pro capite europei di acqua. Tanto costa poco.
Questo, però, non significa che noi si spenda in acqua meno di altri, anzi produce il contrario, perché siamo i primi consumatori europei di acqua minerale imbottigliata. Pro capite non ci batte nessuno. La Spagna al secondo posto e la Germania staccata in terza posizione. Ma non basta, perché il consumo è cresciuto enormemente e continua a crescere. In pratica l’acqua è un bene comune, ma quella da bere voglio che sia mia. Partendo da una sfiducia ingiustificata in quanto alla qualità dell’acqua del sindaco.
Non si può chiedere ai cittadini di fare la danza della pioggia, ma agli amministratori di non far ballare i tubi sì che si può chiedere. Perché la gran parte di questo vitale e mal ridotto mercato è in mano ad aziende municipalizzate, tenute a praticare prezzi amministrati. Alcune di queste società sono anche quotate in Borsa, tanto che ci si domanda cosa s’intenda per “acqua pubblica”. Purtroppo s’intende: intestazione pubblica delle azioni e assenza di efficienza nella gestione. Anziché conciliare la finalità pubblicista con la gestione privatista abbiamo finito con il pubblicizzare le perdite e proteggere le disfunzioni.
Il quadro che ne deriva è orrido: costa poco e quindi io consumatore ne spreco tanta; rende poco e quindi io amministratore ne spreco ancora di più. Nello stesso Paese in cui l’acqua minerale furoreggia.
Approssimandosi l’estate evitiamo di perderci nelle solite prediche moraliste, giacché la differenza fra l’uso e lo spreco non la fanno i sermoni o l’orecchio sudicio e l’occhio cisposo, ma il prezzo da una parte e la redditività dall’altra, mentre l’accordo fra alto spreco e basso prezzo è suicida. I fondi europei di Ngeu sono, anche in questo caso, l’occasione per sanare una piaga, ma non solo si deve essere capaci di spenderli in investimenti, quindi in acquedotti decenti (ne paghiamo uno per importare acqua dall’Albania!), si deve poi essere in grado di manutenere i beni ed evitare che ri-colassino. Il che comporta il ripensamento dell’insensato ginepraio delle municipalizzate.
Questo nel caso in cui si voglia affrontare il problema con l’idea di risolverlo. Se invece si vuole solo parlarne per maledire il cielo e pensare che la colpa sia dell’inquinamento, salvo poi comprare milioni di bottiglie di plastica e rifiutare come sopruso ogni efficienza energetica, allora ci si goda pure la lagna dei fiumi a secco e si anneghi con comodo nella geremiade siccitosa. Ottima premessa per vedere crescere i prezzi alimentari estivi.
L'articolo Fatto un tubo proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Iran – Arabia Saudita: una riconciliazione è all’orizzonte?
Nell’ultimo decennio, dallo scoppio della primavera araba nel 2011, la lotta per la supremazia tra Iran e Arabia Saudita in Medio Oriente si è fatta sentire in quasi tutte le questioni regionali. Sullo sfondo della “guerra fredda mediorientale” c’è il conflitto sciita-sunnita. Riyadh si considera il leader del mondo islamico a causa dell’esistenza dei luoghi […]
L'articolo Iran – Arabia Saudita: una riconciliazione è all’orizzonte? proviene da L'Indro.
Caccia del futuro. Dal Giappone l’ipotesi di un vertice Crosetto-Wallace-Hamada
I ministri della Difesa italiano, britannico e giapponese Guido Crosetto, Ben Wallace e Yasukazu Hamada potrebbero incontrarsi a marzo a Tokyo per discutere i prossimi passi verso lo sviluppo congiunto del sistema aereo di combattimento di sesta generazione, il Global combat air programme (Gcap), destinato a sostituire i circa novanta caccia F-2 giapponesi e gli oltre duecento Eurofighter di Gran Bretagna e Italia. L’ipotesi arriva dalle agenzie di stampa nipponiche come Kyodo News, ripresa anche dal più grande e antico quotidiano in lingua inglese del Giappone, The Japan Times.
Il programma congiunto
L’avvio del programma congiunto risale a dicembre del 2022, quando i governi dei tre Paesi hanno concordato di sviluppare insieme una piattaforma di combattimento aerea di nuova generazione entro il 2035. Nell nota comune, i capi del governo dei tre Paesi sottolinearono in particolare il rispettivo impegno a sostenere l’ordine internazionale libero e aperto basato sulle regole, a difesa della democrazia, per cui è necessario istituire “forti partenariati di difesa e di sicurezza, sostenuti e rafforzati da una capacità di deterrenza credibile”. Grazie al progetto, Roma, Londra e Tokyo puntano ad accelerare le proprie capacità militari avanzate e il vantaggio tecnologico.
Il Tempest
Il progetto del Tempest prevede lo sviluppo di un sistema di combattimento aereo integrato, nel quale la piattaforma principale, l’aereo più propriamente inteso, provvisto di pilota umano, è al centro di una rete di velivoli a pilotaggio remoto con ruoli e compiti diversi, dalla ricognizione, al sostegno al combattimento, controllati dal nodo centrale e inseriti in un ecosistema capace di moltiplicare l’efficacia del sistema stesso. L’intero pacchetto capacitivo è poi inserito all’intero nella dimensione all-domain, in grado cioè di comunicare efficacemente e in tempo reale con gli altri dispositivi militari di terra, mare, aria, spazio e cyber. Questa integrazione consentirà al Tempest di essere fin dalla sua concezione progettato per coordinarsi con tutti gli altri assetti militari schierabili, consentendo ai decisori di possedere un’immagine completa e costantemente aggiornata dell’area di operazioni, con un effetto moltiplicatore delle capacità di analisi dello scenario e sulle opzioni decisionali in risposta al mutare degli eventi.
Tokyo spinge sulle riforme
Per Tokyo, il Gcap è il primo progetto a tre con due membri della Nato, e il primo dedicato alla difesa sviluppato con nazioni diverse dagli Stati Uniti, l’alleato di sicurezza principale del Giappone. Secondo le fonti giapponesi, i tre responsabili della Difesa dei tre Paesi potrebbero anche avviare una discussione per esplorare la possibilità di esportare il nuovo caccia ad altri Paesi. In particolare, il governo giapponese starebbe lavorando a una revisione delle regole della nazione sulle esportazioni di attrezzature di difesa, particolarmente rigide in Giappone. Un intento dichiarato anche nella recente Strategia di sicurezza nazionale, aggiornata a dicembre. La misura si inserisce anche nel progetto del gabinetto di Fumio Kishida di modificare le norme pacifiste della Costituzione del Giappone.
DSEI Japan
Secondo le fonti del Paese del Sol levante, l’incontro avverrebbe in concomitanza con DSEI Japan, la manifestazione dedicata al settore della Difesa integrato che si terrà a Chiba dal 15 al 17 marzo. All’evento saranno presenti tutte le principali aziende responsabili del progetto Gcap come la giapponese Mitsubishi Heavy Industries e la britannica BAE Systems, compreso il consorzio italiano che coinvolge Avio Aero, Elettronica, MBDA Italia e Leonardo. Oltre a queste, il programma vede la partecipazione dell’intera filiera della Difesa nazionale, coinvolgendo anche università, centri di ricerca e Pmi nazionali.
Un anno di guerra: la linea d’ombra Russia-Ucraina
Non crediamo mai abbastanza a ciò in cui non crediamo (M. Conte S. 2004) Difficile ed arduo argomentare qualcosa di sensato nell’incoerenza di una guerra dove politica, rispetto e diritti sono messi da parte. Nel dubbio se la guerra sia la prosecuzione della politica con altri mezzi -nelle parole del generale von Clausewitz (1832)- poiché esauritosi il tempo nell’ascolto […]
L'articolo Un anno di guerra: la linea d’ombra Russia-Ucraina proviene da L'Indro.
VI edizione del MEET Film Festival: fino al 1° marzo sarà possibile per scuole, università e registi indipendenti inviare i propri materiali audiovisivi.
Info ▶️ cinemaperlascuola.istruzione.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola VI edizione del MEET Film Festival: fino al 1° marzo sarà possibile per scuole, università e registi indipendenti inviare i propri materiali audiovisivi. Info ▶️ https://cinemaperlascuola.istruzione.Telegram
Hacker e libertà
youtube.com/embed/btjfqAy40uw?…
L'articolo Hacker e libertà proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
reshared this
A un anno dalla pubblicazione dell'illustrazione sull'invasione Russa in Ucraina, Boban Pesov pubblica un nuovo capolavoro:
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Un anno di guerra in Ucraina: la parola d’ordine è ‘donare’
Un anno di guerra in Ucraina pone la domanda: ‘che fare’ e quale strategia adottare per la pace. Le molte sanzioni economiche contro la Russia non hanno dato risultati brillanti, se non quello di ipotizzare una guerra continua e di lungo periodo. Anche l’Unione Europea rischia di appiattirsi sulla sola soluzione belligerante anche per il […]
L'articolo Un anno di guerra in Ucraina: la parola d’ordine è ‘donare’ proviene da L'Indro.
Bavaglio e retate di oppositori; Tunisia a un passo dal default
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 24 febbraio 2023 – La “rivoluzione dei Gelsomini”, che nel 2011 pose fine dopo 24 anni al regime dispotico di Zine Ben Alì, è un ricordo sbiadito. La Tunisia è oggi un paese in profonda crisi gestito con il pugno di ferro dal presidente della Repubblica Kaies Saied.
Il golpe silenzioso
Eletto a furor di popolo nell’ottobre del 2019 come indipendente, due anni dopo Saied ha realizzato un vero e proprio autogolpe. In nome della stabilità, nel 2021 il presidente ha esautorato il governo e congelato il parlamento, attribuendosi pieni poteri. Nel luglio 2022, sfruttando la sua popolarità ma soprattutto la distanza siderale della popolazione dalla politica, Saied è riuscito a far approvare un nuovo testo costituzionale che concede alla Presidenza ampissimi poteri.
Se a pronunciarsi sul nuovo testo fondamentale fu solo il 30% degli elettori, nelle scorse settimane ancora meno cittadini hanno votato nelle due tornate (17 dicembre 2022 e 29 gennaio) delle elezioni legislative: solo l’11% degli aventi diritto ha messo la scheda nell’urna.
La popolarità di Saied è ancora superiore al 50%, dicono i sondaggi, ma è in calo visto soprattutto il rapido deterioramento della situazione economica. Impotente, l’autocrate risponde mettendo il bavaglio all’opposizione e denunciando improbabili complotti. Alle prossime elezioni presidenziali previste nel 2024 – ammesso che si tengano – Saied non vuole problemi, anche se i sondaggi prevedono per ora una sua netta vittoria.
Un’ondata di arresti
Nei giorni scorsi il capo dello Stato ha avviato una vasta campagna di arresti di esponenti politici, di imprenditori, giudici e giornalisti accusati di «aver cospirato contro la sicurezza dello stato». In manette sono finiti soprattutto leader politici della Fratellanza Musulmana come Abelhamid Jlassi, Faouzi Kammoun e Noureddine Bhiri (ex ministro della Giustizia), vicini al partito di opposizione Ennahda. Ma gli arresti sono trasversali: in carcere sono finiti anche Noureddine Boutar, direttore di “Mosaique Fm” – la radio indipendente più ascoltata del paese spesso critica nei confronti del governo – l’imprenditore Kamal Eltaief, all’epoca vicino al despota Ben Ali e legato agli interessi occidentali e Khayam Turki, esponente del partito socialdemocratico Ettakatol. Mercoledì la Procura Nazionale Antiterrorismo ha ordinato l’arresto di Chaima Aissa, leader del Fronte di Salvezza Nazionale, e di Issam Chebbi, leader del Partito Repubblicano.
Contro gli arresti arbitrati si sono espressi in particolare la Germania e gli Stati Uniti, ma anche l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Volker Turk, ha espresso preoccupazione per «l’inasprimento della repressione contro gli oppositori politici e i rappresentanti della società civile in Tunisia, soprattutto attraverso le misure adottate dalle autorità, che continuano a minare l’indipendenza della magistratura».
Il portavoce della diplomazia Usa, Ned Price ha affermato che Washington sostiene le aspirazioni del popolo tunisino verso «un sistema giudiziario indipendente e trasparente, in grado di garantire libertà a tutti». «I principi democratici della libertà di espressione, della diversità politica e dello stato di diritto devono essere applicati in un paese democratico come la Tunisia» ha invece sentenziato il portavoce dell’esecutivo tedesco Wolfgang Buechner.
Saied ha risposto per le rime a tutti, soprattutto all’amministrazione Biden. «Che guardino alla loro storia e alla loro realtà, prima di parlare della situazione in Tunisia. Siamo uno stato indipendente e sovrano, non siamo sotto colonizzazione o protettorato. Sappiamo quello che facciamo, gli arrestati sono dei terroristi» ha detto l’uomo forte di Tunisi.
Manifestazione di protesta dei giornalisti
Sindacati in piazza, Tunisi espelle la leader della CES
Contro l’arresto del fondatore di Radio Mosaique a Tunisi hanno manifestato numerosi membri del Sindacato Nazionale dei Giornalisti. «Le autorità vogliono mettere in riga sia i media privati sia quelli pubblici, e l’arresto di Boutar è un tentativo di intimidire l’intero settore» ha denunciato Mahdi Jlassi, presidente del SNJT.
Anche la segretaria generale della Confederazione europea dei sindacati (Ces), Esther Lynch, ha invitato il presidente tunisino a rispettare i diritti umani e a smettere di prendere di mira i sindacati. L’appello è giunto il giorno dopo l’espulsione della sindacalista irlandese dal Paese, motivata dalla sua partecipazione a una protesta antigovernativa organizzata a Sfax dall’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt). Il 18 febbraio Saied ha definito la leader sindacale “persona non grata”, ingiungendole di abbandonare la Tunisia entro 24 ore.
La sua partecipazione alle manifestazioni del maggiore sindacato del paese rappresenta, secondo il capo dello Stato, un atto di intollerabile ingerenza negli affari interni del paese. Per il segretario generale dell’Ugtt, Noureddine Taboubi, si sarebbe trattato solo di una dimostrazione di solidarietà.
Il sindacato tunisino, che conta oltre 700 mila iscritti, ha organizzato diverse manifestazioni di lavoratori per protestare contro gli arresti arbitrari. Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in otto diverse città, accusando Saied di soffocare le libertà fondamentali, compresi i diritti sindacali. Il vicesegretario generale dell’Ugtt Taher Barbari ha spiegato che le manifestazioni sono una risposta a una situazione politica marcia, ai “discorsi da caserma” e alla nuova legge finanziaria.
«L’Ugtt non può lasciare il Paese nelle mani di un unico decisore e con una Costituzione redatta dal presidente della Repubblica per costruire una nuova dittatura», ha aggiunto.
Il 31 gennaio un dirigente dell’Ugtt, Anis Kaabi, è stato arrestato a seguito di uno sciopero dei lavoratori dei caselli autostradali. A favore della sua liberazione di sono espressi decine di firmatari di un appello – dal Partito Comunista all’Associazione Tunisina per i Diritti e le Libertà passando per il filosofo e antropologo Youssef Seddik e l’attivista Bochra Belhaj Hmida – che denuncia «i tentativi disperati di criminalizzare il lavoro sindacale».
Crisi economica e complotti
Saied afferma che «la libertà di espressione è garantita e non c’è alcun legame con questi arresti, che piuttosto sono legati al complotto e alla corruzione».
Il giro di vite voluto dal presidente si inserisce però in un contesto dominato dalla preoccupazione della popolazione per una crisi economica sempre più grave. Molti prodotti alimentari di base – come lo zucchero, il latte e il caffè – sono diventati inaccessibili a molti tunisini e comunque risultano spesso introvabili. Il paese è privo di significative risorse naturali, è affetto da una siccità sempre più cronica ed è costretto ad importare dall’estero il grano che serve per fare il pane distribuito alla popolazione a prezzi calmierati.
Anche in questo caso, però, Saied si difende agitando un non meglio precisato “complotto”. I beni alimentari di prima necessità «sono disponibili all’interno del mercato tunisino, ma sono registrate delle carenze allo scopo di aggravare la situazione» ha affermato dopo aver però rimosso, all’inizio di gennaio, la ministra del Commercio Fadhila Rebihi.
Saied incontra la premier tunisina
Lacrime e sangue
Giustificazioni del presidente a parte, la situazione economica in Tunisia non era stata così grave dagli anni ’50 del secolo scorso.
L’economia del paese è stata gravemente colpita prima dalla pandemia e poi dalle conseguenze del conflitto in Ucraina. Preoccupa soprattutto l’aumento record del debito che nel 2021 aveva raggiunto quota 40 miliardi di euro e l’80% del Pil. Le agenzie di rating hanno ulteriormente declassato Tunisi e il Fondo Monetario Internazionale ha deciso di ritardare l’approvazione finale di un prestito di circa 2 miliardi inizialmente previsto il 19 dicembre. A provocare lo stop dell’FMI – che rischia di bloccare i finanziamenti internazionali necessari per evitare il tracollo finanziario del paese – sono stati il ritardo con il quale il governo ha varato la legge Finanziaria e le scarse garanzie fornite.
Se anche a marzo l’istituzione finanziaria gestita da Washington dovesse concedere il prestito, secondo la direttrice generale del Ministero delle Finanze di Tunisi, Ibtisam Ben Aljia, il paese dovrebbe riuscire ad ottenere altri 3 miliardi per mettersi al riparo dal default. Senza la tranche promessa dal FMI anche i creditori europei ed arabi potrebbero tirarsi indietro.
Se il prestito a 48 mesi del FMI non dovesse essere concesso, secondo il vicepresidente della Banca mondiale per il Medio Oriente e il Nord Africa (Mena), Farid Belha, la Tunisia sarebbe costretta a rinegoziare il suo debito con il Club di Parigi, un gruppo informale di organizzazioni finanziarie dei 22 Paesi più ricchi del mondo. Non saranno certo gli strali di Saied – che ha sollecitato i paesi creditori a cancellare i debiti del paese e a restituire i “fondi saccheggiati” – a placare gli appetiti del Fondo e del Club di Parigi, che in cambio di una dilazione delle rate chiederanno un prezzo alto alla Tunisia. A pagarlo, nel caso, non sarebbe certo il presidente Saied.
Per concedere il prestito, al governo di Tunisi il Fondo Monetarioha già preteso l’eliminazione dei sussidi concessi alla popolazione per l’acquisto di cibo e carburante, il taglio della spesa pubblica per la sanità, l’istruzione e la protezione sociale, nonché la privatizzazione delle principali aziende pubbliche. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
L'articolo Bavaglio e retate di oppositori; Tunisia a un passo dal default proviene da Pagine Esteri.
StatusSquatter 🍫 reshared this.
AFGHANISTAN. Donne e lavoro. Attesa per le linee guida dei Talebani
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 20 febbraio 2023 – Si fanno ancora attendere le linee guida promesse dal governo de facto dei Talebani per regolamentare il ruolo delle donne nelle Organizzazioni Non Governative e riabilitarle al loro lavoro. Sono trascorse, infatti, tre settimane dalla missione ONU a Kabul dalla quale Martin Griffiths e gli altri delegati erano tornati con “risposte incoraggianti”, così avevano detto, da parte dei ministri talebani. Al centro dell’incontro c’era stata la discussione in merito al divieto per le donne afghane di lavorare nelle ONG, ratificato dal regime il 24 dicembre scorso. La causa della legge era, a detta del regime, il mancato rispetto da parte delle operatrici delle ONG delle norme di abbigliamento imposte dalla sharia.
Dopo il bando emesso dal governo talebano, alcune ONG avevano momentaneamente sospeso le loro attività nel Paese, e per tutte erano seguite ore di gelo di fronte all’incertezza di poter continuare ad adoperare personale femminile per le proprie missioni, ovvero di poter continuare a impiegare, in condizioni di sicurezza, almeno la metà dei propri dipendenti. Al decreto, che aveva gettato nello sconforto la comunità internazionale, aveva poi fatto seguito una correzione del tiro da parte dei Talebani, che avevano escluso dalle destinatarie del bando le donne che operavano negli ospedali e nel settore sanitario. L’International Rescue Committee (IRC), Save the Children e CARE avevano quindi riavviato in parte le proprie attività nel Paese.
Il 24 gennaio scorso, i Talebani avevano ricevuto una delegazione dell’ONU guidata da Martin Griffiths, Sottosegretario dell’Agenzia delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari e Presidente dell’Inter-Agency Standing Committee (IASC), un forum che riunisce i leader di 18 organizzazioni umanitarie. In tale occasione, il governo afghano avrebbe, appunto, dichiarato di essere al lavoro nella redazione di “linee guida”, sic, per regolamentare il lavoro delle donne nelle ONG senza infrangere la legge islamica.
“Un certo numero di leader talebani mi ha detto che l’amministrazione talebana sta lavorando a linee guida che forniranno più chiarezza sul ruolo, la possibilità e auspicabilmente la libertà delle donne di lavorare nel settore umanitario”, aveva dichiarato Griffiths. Una promessa interpretata come un tenue segnale di speranza nonostante la sua vaghezza e malgrado la consapevolezza che un incontro con i leader talebani di Kandahar, roccaforte dei capi spirituali in grado di dire effettivamente l’ultima parola in tema di politica, sarebbe prezioso per sigillare l’accordo sul lavoro delle donne.
Pochi giorni prima, un’altra delegazione ONU aveva raggiunto a Kabul e Kandahar i leader talebani, sempre a proposito del divieto di lavorare nelle ONG per le operatrici afghane. Questa volta a guidarla era stata una donna, Amina Mohammed, Vice Segretario Generale delle Nazioni Unite, accompagnata da Sima Bahous, Direttore Esecutivo dell’Agenzia ONU per le Donne, e da Khaled Khiari, Segretario Generale aggiunto del Dipartimento di Costruzione politica e Operazioni di Pace. Mohammed si era detta “incoraggiata” dalle eccezioni fatte per le operatrici sanitarie, ma al tempo stesso aveva dichiarato che le conversazioni con la controparte erano state particolarmente “difficili”.
A tre settimane dall’ultimo incontro con i rappresentanti dell’ONU, il decalogo che dovrebbe permettere alle donne afghane di tornare a operare nelle ONG senza infrangere le norme di vestiario e di comportamento non è stato apparentemente ancora pubblicato. Le conseguenze dell’allontanamento delle dipendenti dal lavoro di soccorso alla popolazione afghana sono disastrose.
Il bando delle donne dalle attività assistenziali, infatti, colpisce non solo le lavoratrici e le loro famiglie, ma tutte le donne e i bambini destinatari dell’assistenza umanitaria. Le donne afghane, infatti, possono accettare aiuti – denaro, cibo, medicinali, vestiti – solo da altre donne, e comunicare solo con personale femminile.
Secondo i Gruppi di Lavoro sul “Genere nell’Azione Umanitaria” (Giha) e sull’”Accesso Umanitario”, entrambi operanti all’interno delle Nazioni Unite, il decreto di fine dicembre continua a danneggiare il lavoro umanitario e di conseguenza la popolazione afghana. Dalle risposte di un’intervista rivolta a 129 operatori di organizzazioni nazionali e internazionali e agenzie ONU, emerge, infatti, come a tre settimane di distanza dal bando il 93% delle ONG abbia assistito a un deterioramento delle proprie capacità di portare assistenza alle donne afghane.
Secondo l’inchiesta, inoltre, nell’81% delle ONG lo staff femminile non può più recarsi sul posto di lavoro. Al tempo stesso, le attività di protezione specifica per le donne, così come di monitoraggio dei loro bisogni assistenziali, sono state interrotte forzatamente dal bando.
Non è difficile immaginare quale danno stia rappresentando quindi il decreto nelle attività di aiuto in un Paese che attraversa una drammatica crisi dei diritti delle donne e una altrettanto tragica emergenza umanitaria. I numeri della sofferenza del popolo afghano rimangono raccapriccianti, nonostante il progressivo disinteresse di gran parte dei media per le sorti del Paese. Oltre 28 milioni di abitanti, più della metà della popolazione, secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari, dipendono dagli aiuti umanitari. Tra questi, 6 milioni di persone, in gran parte bambini, patiscono letteralmente la fame.
Come dichiarato da Save the Children, che ha riavviato solo una parte delle sue attività nel Paese, “il bando alle lavoratrici delle ONG non sarebbe potuto arrivare in un momento peggiore”. “La severità dell’emergenza umanitaria in Afghanistan è qualcosa che non ho mai visto prima”, ha dichiarato il Direttore delle operazioni sul campo della ONG. “Quasi 20 milioni di bambini e adulti stanno affrontando la fame. Molte famiglie vanno avanti a pane e acqua per settimane”. A tutto ciò si aggiunge il freddo, che ancora non dà tregua. “I bambini stanno lottando per sopravvivere a un gelido, terribile inverno. E riscaldare le abitazioni è fuori questione”. Non poteva esserci periodo peggiore per recidere le braccia delle donne dagli aiuti a un Paese distrutto – sempre ammesso che un periodo “migliore” per farlo si possa mai immaginare. Pagine Esteri
L'articolo AFGHANISTAN. Donne e lavoro. Attesa per le linee guida dei Talebani proviene da Pagine Esteri.
Borsa: canapa, la media generale è positiva, ma USA e Canada chiudono in rosso
Le due principali piazze borsistiche a livello mondiale nel settore della Canapa, ovvero Canada e USA, in controtendenza rispetto alla media generale della chiusura borsistica settimanale, vedono i propri dati in negativo, chiudono la settimana borsistica, quindi, in rosso. E’ una situazione alquanto particolare ma -se si tiene conto della grande volatilità borsistica che caratterizza […]
L'articolo Borsa: canapa, la media generale è positiva, ma USA e Canada chiudono in rosso proviene da L'Indro.
Canapa e Cannabis in gran spolvero in Canada
Canada: i consumatori canadesi di cannabis hanno speso 4,52 miliardi di dollari canadesi (3,35 miliardi di dollari) in prodotti regolamentati per uso adulto nel 2022, con una crescita del 17,9% rispetto al totale delle vendite del 2021, secondo i nuovi dati sulle vendite al dettaglio pubblicati martedì da Statistics Canada. L’aumento delle vendite rispetto all’anno […]
L'articolo Canapa e Cannabis in gran spolvero in Canada proviene da L'Indro.
Guerra in Ucraina, un anno di disinformazione: le conseguenze della propaganda russa in Italia
@Giornalismo e disordine informativo
Un anno fa, la Russia di Vladimir Putin negava di voler invadere l’Ucraina. Il timore per questa scelta bellicista del Cremlino circolava da quasi un anno, soprattutto negli ultimi mesi con l’invio delle truppe ai confini con l’Ucraina per quelle che si rivelarono delle finte esercitazioni. L’attacco è stato ampiamente preparato anche dal punto di vista mediatico, con false notizie e depistaggi che fungevano a creare disordine e sfiducia nell’Occidente. Un processo di disinformazione che trovava terreno fertile grazie a due anni di pandemia dove terrore e malumore hanno rafforzato un sentimento contro le istituzioni e la scienza. Non è difficile, infatti, riscontrare come gli scontenti, i No vax e i teorici del complotto si siano facilmente identificati nella propaganda russa chiaramente anti occidentale. Oggi, 24 febbraio 2023, possiamo osservare i frutti della propaganda russa, in particolare in Italia.
L'articolo di @David Puente :mastodon: continua su Open
open.online/2023/02/24/ucraina…
PODCAST. Guerra Ucraina-Russia un anno dopo. Soluzione diplomatica lontana
della redazione
Pagine Esteri, 24 febbraio 2023 – Un anno dopo l’inizio dell’attacco russo all’Ucraina, il conflitto si approfondisce e mostra di essere sempre più uno scontro tra Usa e Nato da un lato e Russia dall’altro. L’invio di armi alle due parti in guerra e i veti incrociati spengono per ora le possibilità di una soluzione negoziata. L’iniziativa di pace presentata oggi dalla Cina non sembra avere grandi possibilità. E il rischio che il conflitto possa allargarsi è sempre presente. Ne abbiamo parlato con Danilo Della Valle, analista ed esperto di Europa Orientale e Russia.
widget.spreaker.com/player?epi…
L'articolo PODCAST. Guerra Ucraina-Russia un anno dopo. Soluzione diplomatica lontana proviene da Pagine Esteri.
Guerra in Ucraina: la Russia annuncerà un altro round di mobilitazione?
Un altro round di mobilitazione in Russia è probabile quest’anno. La prospettiva di una seconda tornata della bozza incombeva sulla società russa sin dalla prima tornata nel settembre 2022, e sia l’Ucraina che i funzionari occidentali citati dalla stampa negli ultimi due mesi hanno dichiarato pubblicamente che la Russia si sta muovendo verso tale decisione. […]
L'articolo Guerra in Ucraina: la Russia annuncerà un altro round di mobilitazione? proviene da L'Indro.
La protesta in Iran non trova convergenze tra le opposizioni all’interno e la diaspora all’estero – huffingtonpost.it
Secondo alcuni analisti, la vera partita per il futuro del Paese potrebbe giocarsi solo nella transizione dopo la scomparsa dell’anziano leader, Ali Khamenei
Ma contro la Repubblica Islamica dell’Iran, quante opposizioni ci sono? E chi parla a chi, e con quali obiettivi? La domanda sorge legittima, dopo mesi di proteste in Iran – che in realtà quasi nessuno in Occidente ha visto in presa diretta, ma solo in forma mediata dalla grande macchina dei social media e dai media professionali che rilanciavano notizie e video fatti circolare in rete.
Il 4 febbraio Mir Hosein Mousavi, primo ministro negli anni ’80 e poi leader dell’Onda Verde del 2009, e agli arresti domiciliari dal 2011, ha lanciato una dichiarazione pubblica che ha subito trovato significativi consensi: secondo l’anziano politico, non vi sono più possibilità di una riforma interna della Repubblica Islamica ma serve un “cambiamento fondamentale” per rispondere alle istanze del movimento Donna Vita Libertà, cambiamento che dovrebbe passare per due referendum e un’assemblea costituente liberamente eletta. A suo avviso bisogna cambiare l’ordine esistente passando prima da un referendum sulla necessità di una nuova Costituzione, e poi tramite un nuovo patto redatto da rappresentanti eletti del popolo di tutte le etnie ed estrazioni politiche e ideologiche, e approvato dalla nazione in un secondo libero referendum.
La sua dichiarazione ha trovato l’appoggio di un gruppo di noti prigionieri politici (fra cui Faezeh Hashemi, figlia dell’ex presidente Rafsanjani) e di almeno 350 tra giornalisti, attivisti e rappresentati della società civile prevalentemente basati in Iran. Inoltre, venti sindacati iraniani attivi nell’organizzare proteste negli ultimi hanno chiesto una rivoluzione sociale contro l’oppressione, la discriminazione, lo sfruttamento e la dittatura. E hanno approvato dodici richieste “minime”, tra cui libertà di parola, pensiero e stampa, libertà di organizzazione politica e rilascio incondizionato di tutti i prigionieri politici. Inoltre, pari diritti di donne e uomini, sicurezza sul lavoro, la fine della distruzione dell’ambiente, la normalizzazione delle relazioni estere, il divieto del lavoro minorile, la confisca dei beni di enti pubblici o privati che si siano appropriati di ricchezze del popolo.
“A differenza di alcune chiamate dall’esterno non chiedono nulla da Paesi stranieri come maggiori sanzioni o l’isolamento per il popolo iraniano” osserva sul suo sito il National Iranian American Council, un think tank statunitense che in passato ha sempre sostenuto l’opportunità di tenere aperti i canali diplomatici con Teheran e quella di ripristinare l’accordo sul suo programma nucleare del 2015, che ne impediva un’eventuale sviluppo in campo militare (l’uscita degli Usa da tale accordo nel 2018 ha innescato la corsa iraniana verso l’arricchimento dell’uranio fino al 60%, contro il 3,67% concordato nell’intesa e molto vicino al 90% necessario per un ordigno). Inoltre, il Niac si è opposto alle pesanti sanzioni economiche imposte negli ultimi quattro anni dagli Usa, in quanto ad esserne vittima sono non le elite al potere ma i comuni cittadini. Nonostante anche il Niac si sia schierato con le proteste di questi mesi in Iran, l’organizzazione è stata oggetto di una potente campagna denigratoria da una parte della diaspora negli Usa, che a sua volta ha una vasta influenza in Europa e in Canada. Campagna che offre la misura di quanto divisa sia l’opposizione iraniana all’estero e invelenito il confronto tra le diverse parti.
Il nodo dell’inserimento dell’Irgc nella lista nera Ue. Esmaeilion, aiuterebbe la rivoluzione
Nel frattempo alcune figure mediaticamente più in vista stanno tentando una difficile unificazione di tale diaspora, e nel contempo premono sui governi europei perché sposino le loro richieste: in primo luogo l’inserimento del Corpo delle Guardie della Rivoluzione (Irgc o Pasdaran) nella lista delle organizzazioni terroristiche di Bruxelles, e l’espulsione degli ambasciatori di Teheran.
Per ora, l’Europa non ha prestato orecchio a nessuna delle due richieste, limitandosi ad un quinto round di sanzioni mirate contro singoli individui ed enti iraniani per il ruolo giocato nella dura repressione delle ultime proteste, che ha portato a un totale di 196 individui e 33 enti sanzionati. Per ora non vi sono le condizioni legali per la designazione dei Pasdaran a organizzazione terroristica, ha spiegato la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock per conto del Consiglio a Bruxelles. Il governo tedesco, da parte sua, ha appena espulso parte del personale diplomatico iraniano a Berlino per la recente condanna a morte per terrorismo di un cittadino irano-tedesco, Jamshid Sharmand, a Teheran.
Inutile dunque, ai fini della misura contro i Pasdaran, anche la manifestazione della diaspora raccoltasi proprio a questo scopo lunedì scorso a Bruxelles. In prima linea Masih Alinejad, giornalista e attivista con base a New York, e l’irano-canadese Hamed Esmaeilion, padre e marito di due delle 176 vittime dell’abbattimento dell’aereo civile ucraino, il PS752, colpito per colpevole errore dai missili della contraerea dei Pasdaran l’8 gennaio 2020 nei cieli di Teheran. Masih Alinejad aveva appena partecipato con Reza Pahlavi, principe erede della monarchia rovesciata dalla rivoluzione del 1979, alla Conferenza per la sicurezza di Monaco, dove per la prima volta non è stato invitato alcun rappresentante del governo di Teheran, nonostante sia un attore centrale degli equilibri regionali.
Ma che significato e soprattutto quali tangibili effetti potrebbe avere la designazione dei Pasdaran nella lista nera europea, dato che questi sono già in quella degli Stati Uniti dal 2019 senza che vi sia stato alcuna apparente contenimento delle attività delle quali sono accusati, in patria e attraverso le milizie filo-iraniane tra Libano, Siria, Iraq, Yemen e Gaza? E se effetti pratici non ve ne fossero, non si rischierebbe con la loro messa al bando la definitiva chiusura di ogni canale diplomatico con Teheran? E non servirebbero, tali canali diplomatici, da una parte al contenimento del programma nucleare di Teheran, dall’altra ad evitare un ulteriore rafforzamento della sua alleanza militare con Mosca, nel pieno del conflitto in Ucraina?
Queste le domande poste a Esmaeilion e Alinejad, ospiti di un incontro svoltosi ieri in Senato su iniziativa della senatrice Antonella Zedda (FdI), della Fondazione Luigi Einaudi e di PaykanArtCar: organizzazione per l’arte e i diritti umani che prende il nome da una storica limousine degli anni Settanta e che è presieduta dall’ambasciatore Mark D.Wallace, già collaboratore del governo di George W.Bush e ora amministratore delegato di United Against Nuclear Iran, del cui advisory board fa parte anche l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi. “L’Irgc è lo strumento dell’oppressione dell’Iran – ha risposto Esmaeilion – uccide, tortura, l’economia è nelle sue mani. Se viene messo nella lista Ue delle organizzazioni terroristiche – ha aggiunto lo scrittore – verrebbe indebolito, e questo sarebbe molto utile per il successo della rivoluzione”. Rispondendo sul rischio che la chiusura di ogni canale diplomatico avvicini i conflitti armati, “non credo che l’alternativa alla diplomazia sia la guerra – ha detto Esmaeilion – . Abbiamo chiesto messaggi politici forti, come espellere gli ambasciatori (cosa diversa dal chiudere le ambasciate), ma non ne abbiamo ancora visti”. “Durante le proteste del novembre 2019 – ha proseguito – sono state uccise decine di minori, nell’aereo abbattuto i bambini erano 29 e tra le vittime degli ultimi mesi di proteste circa 70. “Eppure i canali diplomatici erano aperti, qual è stato dunque il risultato della diplomazia?” Rispondendo poi a chi osservava che anni di pesanti sanzioni economiche contro l’Iran hanno soltanto impoverito gli iraniani in patria, “nessuno ha chiesto di fare pressione sugli iraniani – ha precisato Esmaeilion – ma sanzioni mirate su individui coinvolti in crimini contro l’umanità. Perché, mentre uccidono iraniani innocenti, i loro figli e familiari possono vivere nel lusso in Europa e negli altri Paesi occidentali?”.
Mash Alinejad, benvenuto a ex leader Onda Verde ma se accetta Costituzione secolare
A margine una domanda anche sulle recente dichiarazione pubblica di Mousavi. “La abbiamo attesa da molti anni – ha risposto Alinejad – anche se molti pensano che (l’ex primo ministro, ndr) dovrà rispondere delle sue azioni precedenti in tribunale. Comunque è un passo positivo, che chi ha sostenuto la Repubblica Islamica diserti e voglia avere una nuova Costituzione. Ma deve anche annunciare che serve una democrazia secolare, ciò che vuole la giovane generazione. La cosa più importante è rovesciare il regime, avere una costituzione e una democrazia”.
Masih Alinejad, Hamed Esmaeilion e Reza Pahlavi sono tre degli otto esponenti dell’opposizione all’estero che hanno avuto un recente incontro alla Georgetown University di Washington con lo scopo di creare una piattaforma comune, intorno alla quale unificare una diaspora divisa – un altro soggetto è il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana presieduto da Marjam Rajavi, erede dei Mojaheddin del Popolo e che agisce in autonomia dalle altre forze, che nella maggior parte dei casi ne prendono le distanze. Il testo della piattaforma sarà pronto a breve, ha assicurato Alinejad, oggi ancora a Roma con Esmaeilion per un’altra manifestazione a San Giovanni.
Nel frattempo la Repubblica Islamica ha celebrato il suo 44/o anniversario, a proteste parzialmente sopite, dispensando una controversa amnistia che riguarda anche parte dei manifestanti. Secondo alcuni analisti, la vera partita per il suo futuro potrebbe giocarsi solo nella transizione dopo la scomparsa dell’anziano leader, Ali Khamenei.
Luciana Borsatti, huffingtonpost.it
L'articolo La protesta in Iran non trova convergenze tra le opposizioni all’interno e la diaspora all’estero – huffingtonpost.it proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Masih Alinejad, chi è per cosa combatte l’attivista iraniana: età e carriera – imtv.it
Oggi (23 febbraio), alle 14.05 su Rai 1, torna come di consueto l’appuntamento con Oggi è un altro giorno, il talk condotto da Serena Bortone che incontra nel suo salotto tanti nuovi ospiti con cui affrontare i grandi temi di attualità: da Francesca Chillemi, a Luca Ciriani, ministro per i rapporti con il Parlamento, fino a Paola Comin, Giorgio Gobbi e Riccardo Rossi, passando per Masih Alinejad, giornalista e attivista dei diritti umani. La donna è arrivata a Roma in questi giorni per accendere ancora i riflettori sulle lotta delle donne e la rivoluzione del popolo iraniano, che da mesi combatte per la propria libertà.
Chi è Masih Alinejad: età e lavoro
Masih Alinejad è una giornalista e attivista iraniana, naturalizzata statunitense. Nata a Ghomi nel settembre 1976, ha iniziato la sua carriera lavorando come giornalista nel 2001. I suoi articoli, attraverso i quali si è sempre battuta contro la dittatura della Repubblica islamica in Iran, hanno creato molte polemiche nel Paese tanto da essere perseguitata e minacciata di morte per le sue idee e il suo attivismo a favore dei diritti umani. Nel 2014, inoltre, ha fondato la pagina My Stealthy Freedom, dove invitava le donne iraniane a pubblicare le loro foto senza hijab. Poi, nel 2022 è stato prodotto il docufilm ispirato alla sua storia ed è anche stato pubblico un suo libro, Il vento fra i capelli. La mia lotta per la libertà nel moderno Iran.
Perché Masih Alinejad è stata costretta a fuggire negli Stati Uniti?
A causa degli atti persecutori e alle minacce di morte a lei e alla sua famiglia, è stata costretta, nel 2009, a fuggire negli Stati Uniti dove ora vive a New York sotto scorta, ma il suo sogno è quello di ricongiungersi con i suoi cari in Iran. Ora gira il mondo facendosi portavoce della lotta delle donne e degli uomini che combattono contro il regime islamico, in difesa della loro libertà.
Masih Alinejad in Senato a Roma: le sue parole contro il velo islamico
Dagli Stati Uniti dove vive, Masih Alinejad è arrivata a Roma a febbraio 2023 per incontrare gli iraniani della diaspora e chiedere un concreto sostegno all’Italia sui diritti umani del suo popolo. Insieme a un altro attivista, Hamed Esmaelion, ha parlato al Senato italiano, ospite della fondazione Luigi Einaudi:
Il velo islamico obbligatorio è come il muro di Berlino, se riusciamo ad abbattere questo muro la Repubblica islamica dell’Iran non esisterà più, credo che il velo sia uno dei pilastri principali della dittatura religiosa e che questa rivoluzione guidata dalle donne e sostenuta dagli uomini, sia andata oltre l’hijab. Dico di no all’apartheid di genere voluto da questo regime perché le donne sono stufe di sentirsi dire cosa indossare e quale stile di vita adottare, questo è il XXI secolo e le donne vogliono decidere sul proprio corpo.
Mara Fratus, imtv.it
L'articolo Masih Alinejad, chi è per cosa combatte l’attivista iraniana: età e carriera – imtv.it proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Il velo islamico è come il muro di Berlino, abbattiamolo e cadranno gli ayatollah – opinione.it
Lo scorso martedì 21 febbraio, presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato, la Fondazione Luigi Einaudi ha organizzato la conferenza “Donne, Libertà, Diritti Umani in Iran”. L’iniziativa, promossa dalla senatrice (FdI) Antonella Zedda, ha visto la partecipazione straordinaria di Masih Alinejad e Hamed Esmaelion: entrambi considerati una minaccia dal regime della Repubblica islamica iraniana in nome del loro attivismo.
Alinejad è famosa per la sua lotta per i diritti delle donne iraniane: la sua battaglia contro il velo obbligatorio è iniziata ben prima delle proteste scoppiate con la morte di Mahsa Amini. Infatti è esule negli Stati Uniti dal 2009. Esmaelion è il portavoce del volo 752AFV Teheran/Kiev, caduto per mano dei Pasdaran l’8 gennaio 2020, subito dopo il decollo, in cui si contarono 170 vittime compreso l’equipaggio.
I due attivisti, prima della tappa italiana, hanno partecipato a Bruxelles alla marcia di circa 30mila persone per chiedere all’Europa di inserire l’Irgc (sigla internazionale che indica i Pasdaran) nella lista delle organizzazioni terroristiche europee, cosa già avvenuta negli Stati Uniti.
Sono arrivati a Roma per incontrare gli iraniani della diaspora e chiedere sostegno all’Italia sui diritti umani e sulle azioni da intraprendere contro Teheran anche in Europa: “Non chiediamo molto all’Italia, solo di stare dalla parte giusta della storia, chiedo all’opinione pubblica italiana di pensare che una delle rivoluzioni più progressiste del mondo è in atto ora in Iran: donne, adolescenti, uomini innocenti vengono uccisi ingiustamente dal proprio governo, se non sosterrete queste sorelle dovrete affrontare questi terroristi sul suolo italiano, sul suolo europeo”, ha detto Alinejad.
Intervistata dai Rainews, Masih Alinejad ha dichiarato: “Il velo islamico obbligatorio è come il muro di Berlino, se riusciamo ad abbattere questo muro la Repubblica islamica dell’Iran non esisterà più, credo che il velo sia uno dei pilastri principali della dittatura religiosa e che questa rivoluzione guidata dalle donne e sostenuta dagli uomini, sia andata oltre l’hijab”. E ancora: “Dico di no all’apartheid di genere voluto da questo regime perché le donne sono stufe di sentirsi dire cosa indossare e quale stile di vita adottare, questo è il XXI secolo e le donne vogliono decidere sul proprio corpo”.
Masih lancia anche un appello sulle divergenze interne iraniane: “È necessario che tutti i gruppi di iraniani in protesta oggi siano uniti contro il nemico comune che è la Repubblica islamica dell’Iran. E per questo dico unitevi, stiamo insieme, battiamoci per la democrazia, cerchiamo di salvare anche il resto mondo da uno dei virus più pericolosi al mondo e cioè l’ideologia islamica, non mi riferisco solo alle donne iraniane ma anche alle afghane, non posso credere che le donne vengano uccise in Iran e che vengano cacciate dalle scuole in Afghanistan”. L’invito finale è di creare un movimento che sia d’esempio “per i leader dei Paesi democratici, organizziamoci, si crei una marcia internazionale per le donne, dobbiamo essere uniti e isolare la Repubblica islamica così come è stato fatto per Vladimir Putin”.
Secondo Hamed Esmaelion è molto importante che la “Holy guard” venga inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche “perché è questo che sono, terroristi, è la loro vera natura”. Le ragioni principali che impedirebbero l’inserimento dei Pasdaran nella lista sarebbero di natura economica e politica: “Alcuni Paesi hanno buone relazioni con l’attuale governo iraniano e probabilmente il cambio di regime spaventa alcuni leader europei, ma noi siamo qui per dire che queste non sono paure reali, gli iraniani sanno benissimo ciò che vogliono e ciò che non vogliono, dopo 115 anni per la lotto per la Democrazia ora è il momento per ottenerla”. Secondo l’attivista il nostro Paese potrebbe fare la sua parte: “L’Italia potrebbe inserire i Pasdaran in questa lista, anche con l’espulsione dell’Ambasciatore iraniano a Roma e di tutti gli oligarchi dell’Iran”.
Le parole della senatrice Antonella Zedda, purtroppo, non hanno risuonato quanto avrebbero dovuto: “Accogliamo la sofferenza del popolo iraniano cui due importanti rappresentanti sono in Italia per cercare di risolvere il grave problema legato ai diritti delle donne e in generale a quelli umani nel loro Paese. Non è un tema di parte, non è un tema solo religioso e non riguarda solo le donne”.
E aggiungiamo noi: non è un tema che può o dovrebbe subire una strumentalizzazione partitica.
Claudia Diaconale, opinione.it
L'articolo Il velo islamico è come il muro di Berlino, abbattiamolo e cadranno gli ayatollah – opinione.it proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Ucraina – Russia: cercasi diplomazia urgentemente
Con l’inizio del 2023, temiamo che la politica americana continuerà ad essere caratterizzata sia dallo scorrimento delle missioni sia dall’assenza di qualsiasi tipo di impegno diplomatico con la Russia. Durante il corso della guerra, l’amministrazione Biden ha lentamente, costantemente, persino furtivamente aumentato il coinvolgimento dell’America. Le richieste da Kiev per sempre più armi sono state […]
L'articolo Ucraina – Russia: cercasi diplomazia urgentemente proviene da L'Indro.
L’Occidente deve prepararsi ad un finale diplomatico in Ucraina
A un anno dall’inizio del conflitto, il brutale tentativo della Russia di soggiogare l’Ucraina è stato un clamoroso fallimento. Mosca ha lanciato la sua ‘operazione militare speciale’ per riportare l’Ucraina nella sua sfera di influenza. Invece, l’invasione e la morte e la distruzione che ha causato hanno irreversibilmente alienato e fatto arrabbiare la stragrande maggioranza […]
L'articolo L’Occidente deve prepararsi ad un finale diplomatico in Ucraina proviene da L'Indro.
Prima attacchi cyber e poi bombe. Il metodo russo in Ucraina secondo Mele
Sono passati quasi tredici anni da quando William J. Lynn III, l’allora sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti, dalle pagine di Foreign Affairs dichiarò pubblicamente che l’America aveva iniziato a considerare il cyber-spazio come un dominio “altrettanto critico per le operazioni militari quanto la terra, il mare, l’aria e lo spazio”. Pochissimi mesi prima, lo Us Cyber command, ovvero il comando militare americano per le operazioni cibernetiche, aveva visto formalmente la luce.
Era il 2010 e il mondo, in quel momento, si accorse ufficialmente della nascita del cosiddetto quinto dominio della conflittualità: il cyber-spazio, appunto. Facendo correre velocemente in avanti il nastro degli eventi, in questi primi tredici anni sono state numerosissime le occasioni in cui si sono potuti registrare, in tempo di pace, attacchi cibernetici di alto profilo, condotti o sponsorizzati da attori statali, nei confronti dei principali operatori che erogano servizi essenziali per lo Stato e per i cittadini. Pochissime, invece, sono le volte in cui le operazioni militari nel e attraverso la dimensione informatica hanno potuto dare realmente prova, in tempo di guerra, della loro utilità e capacità distruttiva. Il triste anniversario del conflitto armato in Ucraina offre la possibilità di valutare, allo stato attuale delle informazioni, quanto la cosiddetta (impropriamente) cyber-war sia davvero reale, nonché i contorni del suo ruolo all’interno dei conflitti armati convenzionali. Possiamo anzitutto osservare – qualora ce ne fosse davvero bisogno – come l’idea che in tempo di guerra le operazioni cibernetiche possano sostituire i bombardamenti aerei, i carri armati, i fucili e più in generale le operazioni militari convenzionali, è semplicemente un atto di pura fantasia.
Le ragioni sono molteplici: dalla relativa temporaneità degli effetti degli attacchi cibernetici rispetto a quelli delle armi convenzionali, passando per la rapida obsolescenza delle cosiddette armi cyber (intimamente legate alla persistenza nel tempo delle vulnerabilità informatiche sfruttate), fino al rischio di colpire bersagli ulteriori e non previsti solo perché in qualche modo interconnessi con il bersaglio principale. I dati su quanto la Russia, successivamente all’invasione armata dell’Ucraina, abbia sfruttato il cyber-spazio per scopi distruttivi, fotografano in maniera cristallina questa condizione.
Nei primi dodici mesi del conflitto, infatti, il governo russo ha utilizzato questa opzione in maniera molto limitata, conducendo principalmente, e spesso con scarso successo, mere operazioni di sabotaggio informatico attraverso l’utilizzo di malware di tipo data wiper, i quali hanno come unico scopo quello di compromettere il corretto funzionamento dei dispositivi colpiti cancellandone le informazioni in modo irrimediabile. Peraltro, a esclusione dell’attacco ai sistemi informatici di Viasat nel giorno dell’invasione, che ha temporaneamente degradato sul terreno le capacità di comunicazione, la maggior parte dei successivi attacchi cibernetici sono stati tutti bloccati o mitigati rapidamente dal governo ucraino, anche grazie all’immediato e costante supporto di alcuni governi occidentali. Nei fatti, quindi, tali attacchi hanno avuto un limitatissimo impatto nell’ambito delle operazioni militari russe. Dalla loro analisi emerge un altro elemento rilevante, ovvero il coordinamento tra attacchi convenzionali e attacchi cibernetici.
Oltre all’attacco contro Viasat, infatti, si può notare una stretta correlazione tra tentativi di sabotaggio informatico e successivi attacchi cinetici (per lo più bombardamenti). Questo schema si è poi ripetuto, nel corso di questi dodici mesi, nelle ondate di attacchi militari a città strategiche come Kiev, Sumy, Zaporižžja, Dnipro e Odessa, solo per citarne alcune. Tale approccio, quindi, appare confermare – ancora una volta – il ruolo del cyberspazio come strumento di supporto o di agevolazione di attacchi cinetici e non come rilevante arma tattica. Infine, il cyber-spazio ha rappresentato senza ombra di dubbio l’effettivo e più importante campo di battaglia per le operazioni di propaganda e disinformazione russa. Il Cremlino, infatti, ha provato fin da subito a creare un vantaggio tattico attraverso gli strumenti della guerra psicologica. Internet e le tecnologie sono stati utilizzati come una straordinaria cassa di risonanza per le fake news.
In conclusione, il ruolo effettivo del cyber-spazio all’interno dei conflitti armati convenzionali sta lentamente emergendo dai contorni vaghi tratteggiati, nel corso degli ultimi anni, dalle esigenze della politica. Questo dominio, com’è evidente, ha assunto finora soprattutto i contorni delle operazioni di Intelligence che sfruttano la tecnologia e Internet sotto la soglia dei margini della guerra, attraverso operazioni di spionaggio e sabotaggio, azioni sotto copertura e di controspionaggio, arricchite da inganno e da moltissima disinformazione. La cyber-war, quindi, resta ancora molto lontana dalla realtà dei campi di battaglia se non per il suo ruolo, seppur utile, di supporto e di agevolazione di attacchi cinetici. Occorre prenderne coscienza quanto prima, per indirizzare al meglio le urgentissime esigenze di difesa e di potenziale contrattacco a livello strategico, operativo e tattico.
Articolo apparso sul numero 141 della rivista Airpress
Ipnotico
Non si sa se reclamare un minimo di coerenza o se lasciare che l’incoerenza ponga rimedio alle enormità che si dissero. E, ancora una volta, la questione non riguarda solo il giudizio che si può esprimere su quanti fanno politica, ma il modo in cui quel giudizio si forma e trasforma in voto. Perché se ci trovassimo difronte a uno o più saltabeccanti incoerenti sarebbe facile riconoscerli come tali e metterli ai margini della vita pubblica, più complicato procedere se il modo scriteriato di zompare da una tesi al suo opposto diventa un costume diffuso, per non dire collettivo.
Prendiamo il caso del bonus 110%. Che fosse una mostruosità distorsiva era così evidente che taluni di noi lo sostennero nel mentre ancora lo si stava discutendo. Per essere precisi: siamo gli stessi che non hanno mai apprezzato i produttori di bonus, oramai estesi dalle supposte cose giuste ad ogni altro capriccio sconsiderato, monopattini compresi. Lo vararono. Cosa sarebbe successo, agevolando una spesa in quantità superiore al suo valore, non era difficile da immaginarsi. E lo dicemmo. Poi arriva il governo Draghi e ci mette un nanosecondo ad accorgersene. Per come la vedo io, avrebbe dovuto cancellarlo, ma, non avendone la forza, introdusse correttivi come i controlli, ovvero quelli che hanno portato a scoprire truffe per almeno 9 miliardi. Fu accusato di volere “affossare” la splendida idea del 110%. Contro Draghi si mossero vivacemente il Movimento 5 Stelle e la Lega, che della maggioranza facevano parte, si opposero silenti il Partito democratico e Forza Italia, preferirono defilarsi i renziani, che nel Conte 2 di quella roba erano corresponsabili, mentre s’opposero anche quelli di Fratelli d’Italia. Certo, erano all’opposizione, ma da quella collocazione reclamavano meno vincoli e controlli, per agevolare l’uso del 110%.
Intanto nascevano imprese edili improvvisate, con materiali comprati all’estero e lavoratori stranieri, che ora strillano perché andrebbero fuori mercato. Ma quello mica era un mercato, era un’illusione, un gioco ipnotico, una dilapidazione di quattrini del contribuente. Fatto è che i pochi contrari rimasero pochi. Mentre oggi sembra che lo sapessero tutti e non si capisce perché il guaio non fu fermato: perché eravate contrari a fermarlo e favorevoli ad allargarlo.
Così per il gas presente in Adriatico: tutti a far la commediola dell’ecologista scampanellante domenicale, tutti a fare i no-triv e ad accusare d’inconfessabili ed occulti interessi quanti di noi dicevano: siete scemi, il gas lo prendono i croati (bravi) e noi stiamo qui a discutere se disturbare o meno le cernie. Poi arriva la crisi del gas ed eccoli tutti a dire: prendiamo il gas nazionale, chi lo ha fermato? Voi.
Il tutto è talmente grottesco da chiedersi come possa durare, ma la risposta è scomoda: cancellati i (veri) partiti politici, cancellata la politica delle idee e delle convinzioni, s’è potuto credere che la democrazia consista nel prendere i voti. Un travisamento. La democrazia è un meccanismo decisionale delicato, il migliore, che si basa sul rispetto dello Stato di diritto, sulla libertà d’espressione del pensiero e sull’attività dei partiti (la leggano, la Costituzione che citano) i quali provano a convincere il maggior numero possibile di persone di quanto siano giuste le cose che dicono e propongono, il voto, infine, misura la distribuzione di quei convincimenti. Se ribalti la logica e cominci a credere che la democrazia consista nel prendere quanti più voti possibili, non importa dicendo cosa, per poi riuscire a comandare, l’hai distrutta, l’hai trasformata in votocrazia e demagogia.
Poi, finiti i ludi elettorali, restano le bidonate che hai detto. A quel punto non si sa se è meglio che tu sia coerente o incoerente. In tutti e due i casi l’effetto ipnotico funziona solo perché troppi cittadini elettori la pensano, in fondo, come i peggiori fra i politici: prendiamoci il prendibile e chi se ne frega del resto. E, in questo, si nota una certa coerenza.
L'articolo Ipnotico proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Il Cielo di Sabra e Chatila – TOUR DI PRESENTAZIONE
Partito il tour di presentazioni del documentario Il cielo di Sabra e Chatila, prodotto da Pagine Esteri, regia di Eliana Riva.
L’elenco delle date è in costante aggiornamento. Pubblicheremo qui gli appuntamenti. Chiunque fosse interessato a proiettare il documentario può scrivere all’indirizzo email redazione@pagineesteri.it o mandare un messaggio what’s up al numero 08231547108. A sostegno delle spese di produzione chiediamo, per la proiezione, una donazione libera a Pagine Esteri.
FEBBRAIO:
16 NAPOLI
22 NAPOLI
MARZO:
4 Roma – RomArt Factory, con Assopace Palestina Link all’evento Facebook
17 Reggio Calabria
18 Messina
19 Catania
_________________
Il documentario “IL CIELO DI SABRA E CHATILA” racconta la difficile condizione dei profughi palestinesi oggi in Libano, la quotidianità dei campi, la povertà e la discriminazione.
A 40 anni dal massacro di Sabra e Chatila, Pagine Esteri è tornata sui campi profughi di Beirut, parlando con i sopravvissuti e con i più giovani, registrando le loro aspirazioni, raccontando come il sogno di rientrare nella terra di origine si scontri con la difficile realtà libanese e la netta chiusura di Israele al “diritto al ritorno”.
LA PRESENTAZIONE DEL DOCUMENTARIO
Beirut, Libano. Era il 1982. Il 16 settembre. L’esercito israeliano era giunto nella zona occidentale di Beirut e insieme alla Falange libanese circondò i campi profughi di Sabra e Shatila.
L’obiettivo dichiarato era quello di scovare i combattenti palestinesi. Ma i campi erano privi di protezione militare: i combattenti erano andati via. Dopo dubbi e discussioni era stato deciso di accettare l’accordo proposto dagli Stati Uniti di Ronald Regan e ritirarsi dai campi profughi per evitare la strage.
Erano state date precise garanzie. Dagli USA e da Israele: una volta che usciti dal Libano i combattenti, la popolazione civile palestinese non avrebbe subito conseguenze.
GUARDA IL TRAILER:
player.vimeo.com/video/7501558…
Ma il 16 settembre, per 3 giorni, i campi furono rastrellati. Prima i falangisti pareva cercassero solo gli uomini. Poi hanno cominciato a prendere anche le donne e ad assicurarsi che ci fossero i bambini.
L’esercito israeliano, intanto, aveva chiuso i campi, i palestinesi non potevano uscire e ai falangisti veniva permesso di entrare. L’obiettivo politico della Falange libanese era cacciare dal Libano i palestinesi.
E poi di vendicarsi. Vendicarsi per l’assassinio del suo leader, Bachir Gemajel, ucciso due giorni prima.
In questo modo cominciò la strage, illuminata dai fari di perimetro dell’esercito israeliano.
Andò avanti per 3 giorni.
I primi che visitarono i campi dopo il ritiro israeliano descrissero l’orrore di uomini, donne e bambini chiusi in trappola e trucidati. I metodi furono violenti e sanguinari e non si disdegnò l’utilizzo della decapitazione.
Dopo 40 anni i due campi profughi sono ancora lì. Ma la memoria è viva e tramandata da associazioni, volontari, scuole, dagli adulti ai bambini.
La situazione dei palestinesi è misera, i campi sono incredibilmente sovraffollati ma gli è vietato, in Libano, acquistare abitazioni.
La condizione sanitaria è preoccupante, cavi che spostano acqua e energia elettrica pendono insieme aggrovigliati come una rete tra i vicoli sempre più stretti e le case alte e buie. Ai palestinesi è vietato svolgere moltissimi lavori In Libano, decine. I bambini e le bambine spesso non possono far altro che lavorare con i genitori oppure vagare soli per i campi. Le associazioni li accolgono, provano a tenerli con loro, tra attività, giochi e istruzione, come fa la Beirut Atfal al Assomoud (La casa dei figli della Resilienza). Ma le forze non bastano mai.
Il documentario è un’occasione per ricordare ma anche per aprire gli occhi sul presente. Pagine Esteri
L'articolo Il Cielo di Sabra e Chatila – TOUR DI PRESENTAZIONE proviene da Pagine Esteri.
informapirata ⁂
in reply to Pëtr Arkad'evič Stolypin • • •