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Oggi, 17 marzo, si celebra la Giornata dell'Unità nazionale, della Costituzione, dell'inno e della bandiera.

Qui la nota inviata alle scuole ▶️ miur.gov.



In Cina e Asia – il Partito rafforza la presa su tech e finanza


In Cina e Asia – il Partito rafforza la presa su tech e finanza pechino
I titoli di oggi:

Riforma del Pcc: il Partito rafforza la presa su tech e finanza
Xi in Russia dal 20 marzo
Gli Stati Uniti chiedono a ByteDance di vendere TikTok
Baidu presenta la sua risposta a ChatGPT, ma le azioni scendono del 6,4%
Yoon primo presidente sudcoreano a Tokyo in 12 anni

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Anche ai funzionari governativi del Regno Unito è stato vietato di utilizzare TikTok. Il Cabinet Minister Oliver Dowden, che ha tra le deleghe del suo portafoglio quella alla cybersicurezza, ha dichiarato in Parlamento che il divieto è una mossa “precauzionale” ma che entrerà in vigore immediatamente. TikTok ha negato con forza le accuse di trasmettere...


Migranti, guerra in Ucraina: questioni di coscienza


Come spesso accade nella vita nei momenti più difficili più pericolosi più tragici, poi avvengono dei fatti che in qualche misura rallegrano, fanno ridere, danno un minimo di distrazione: ma talvolta sono soltanto indice della bassezza della situazione nella quale ci si trova. Pensav a questa che in fondo è soltanto una banalità, l’altra sera […]

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REPORTAGE TURCHIA. Torture, processi farsa ed ergastoli: la feroce giustizia di Erdogan nella storia di Ayten Öztürk


Rapita dai servizi segreti e torturata per 6 mesi, l'oppositrice politica turca rischia due ergastoli con accuse inconsistenti. Il presidente e il governo controllano il sistema giudiziario per colpire e perseguitare dissidenti, avvocati non allineati, di

di Eliana Riva –

Pagine Esteri, 16 marzo 2023 – “Sono Ayten Öztürk, ho 49 anni, ho passato 13 anni e mezzo della mia vita in prigione. Sono stata torturata per 6 mesi. Sono agli arresti domiciliari da 2 anni e rischio di essere condannata a 2 ergastoli”.

Ayten è gentile e riservata, timida e affettuosa. Ci accoglie nella sua casa con l’emozione di chi ritrova delle sorelle lontane, con la gratitudine di chi accudisce un ospite speciale tanto inutilmente atteso. E insieme a lei a riceverci c’è tutto il quartiere, quello di Armutlu, non lontano dal cuore di Istanbul. La comunità alevita che vi risiede è estremamente unita. Ayten non rimane mai sola. C’è sempre qualcuno con lei, due persone durante il giorno, compresa un’infermiera, e una durante la notte. In tanti si fermano per un caffè, un tè o per il pranzo. È per non farla sentire sola ma anche perché ci siano testimoni nel caso si verifichi una delle numerose perquisizioni della polizia che le mette a soqquadro la casa. Sono atti intimidatori, di questo sono sicuri ad Armutlu. Perché qui capita spesso che la polizia faccia incursione nelle abitazioni, di giorno o di notte, con i fucili spianati. Un giorno cercano una bomba a mano, un altro un’arma, un altro ancora dicono di aver seguito le tracce di un fuggiasco. Non sono pochi i casi in cui queste retate sono finite in tragedia, come mi racconta Aysel Doğan, madre di Dilek Doğan, uccisa a sangue freddo a 25 anni, nel 2015, durante una perquisizione.

Dilek aveva chiesto al poliziotto di mettere i copri scarpe perché stava sporcando di fango i tappeti (in Turchia è abitudine togliere le scarpe all’ingresso delle case, per rispetto e igiene). Il poliziotto le ha sparato. C’è persino un video su YouTube, girato dalle stesse forze di sicurezza. Grazie ad una dura battaglia, la sua famiglia ha scoperto il nome dell’assassino e lo ha portato in tribunale. Condannato a 45 giorni di prigione, non ne ha scontato neanche uno. Al contrario, per il fratello di Dilek, che dopo la sentenza ha urlato e accusato i giudici di aver commesso un’ingiustizia, è stato chiesto l’ergastolo. Processato, è stato condannato a 20 anni di carcere. Ne ha scontati 4. Il padre di è attualmente sotto processo e rischia 6 anni di prigione. Dicono che sono pericolosi e che potrebbero provare a vendicarsi.

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Aysel Doğan, madre di Dilek Doğan, uccisa a sangue freddo a 25 anni, nel 2015, durante una perquisizione – Foto di Eliana Riva [Pagine Esteri]

Ad Armutlu parlo con tante donne. Molte madri, parecchie anziane. Tutte sono state in prigione. Tutte hanno un figlio o una figlia in prigione in sciopero della fame, o uccisi dalla polizia o fuggiti in un altro Paese. In tanti fanno parte dell’associazione Tayad (Tenacia), che raccoglie i parenti dei prigionieri politici. Lo scopo è tenere vivi i legami con i propri figli, anche se sono in prigione, e mandare loro qualche soldo (a parte il consumo di una lampadina, l’elettricità e il gas in cella si pagano), libri, vestiti. Il 12 dicembre 2022, alle 2.00 di mattina, in una retata congiunta la polizia ha fatto irruzione nelle case di 23 famiglie aderenti a Tayad. Ad oggi 14 persone sono ancora in carcere, 3 agli arresti domiciliari e tutti gli altri hanno l’obbligo di firma. Tra di loro c’è anche la nostra traduttrice, Lerzan, che è costantemente online e da un computer si affaccia sulle nostre conversazioni. Molti di quei genitori rimasti in carcere sono anziani, due gravemente ammalati. In prigione non ricevono cure.
Ayten ci chiede con ansia e apprensione quando arriverà il momento della nostra lunga intervista. Dovrà raccontare tutto un’altra volta. Il rapimento, la prigione, le torture. Soprattutto le torture. Sa che a ogni racconto, a ogni articolo di giornale, a ogni intervista il cappio della prigione a vita le si stringe più stretto al collo. Ma lo fa comunque. Con grandi sospiri a darsi forza e coraggio. “Perché non ritiri la dichiarazione di aver subito torture? Hai già sofferto abbastanza? Dici che ti sei sbagliata, che non era vero e magari potrai vivere a casa tua e non in un carcere il resto della tua vita”. Ci guarda con la pazienza con cui si guardano i bambini quando gli si deve spiegare una cosa evidente, banale: “La tortura sistematica è espressione del sistema politico, combatterla significa combattere questo sistema di soprusi e sopraffazione. Ho sofferto molto, è vero e forse soffrirò persino di più ma voglio che si sappia dei centri segreti e di quello che lì fanno alle persone. Sono stata la prima donna a denunciare. Ma non l’unica, altre lo hanno fatto dopo di me. Un’altra donna ha denunciato di aver subito le mie stesse torture, anche per lei hanno finto il ritrovamento dopo averla rinchiusa nei centri segreti. Non voglio che nessun altro soffra come ho sofferto io. La mia lotta continuerà fino alla chiusura dei centri segreti e fino a quando i boia saranno giudicati”.

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Ayten Öztürk – Foto di Eliana Riva [Pagine Esteri]

Si trovava a Beirut quando è stata rapita dai servizi segreti e portata in Turchia. Rapita, perché ufficialmente questa operazione di polizia non è mai esistita e in quei sei mesi risultava semplicemente scomparsa. Si trovava in Siria prima dello scoppio della guerra. Poi, l’8 marzo 2018 ha provato a raggiungere la Grecia via Libano. Dopo lo scalo è stata allontanata dagli altri passeggeri con la scusa di un controllo al passaporto, trattenuta per 6 giorni è stata poi consegnata ad alcuni agenti turchi che bendata e con la bocca tappata l’hanno messa su un aereo e riportata in Turchia. Ha capito di essere a Istanbul solo quando, scesa dall’aereo, sempre con gli occhi bendati, ha sentito le voci. I suoi amici non sapevano dove fosse. Non lo hanno saputo per i successivi 6 mesi, mentre veniva trattenuta e torturata con inconcepibile brutalità. “Appena entrata nel centro segreto, 3 o 4 persone mi hanno in pochi secondi completamente spogliata e messa nuda in una cella. Sappiamo già tutto mi hanno detto, ma vogliamo sentirlo da te, parla! Sono subito entrata in sciopero della fame. Mi chiedevano cosa volessi, La mia libertà! gli rispondevo, E allora devi parlare, mi intimavano, E allora non voglio niente, dicevo io. Mi hanno fatto l’elettroshock. Con le mani legate a un tubo sopra la testa, tutta nuda e con gli occhi bendati, toccavo a terra solo con le punte dei piedi, quando mi sanguinavano troppo i polsi a volte mi davano un sacco di sabbia per tenermi più dritta. Mi sparavano con una pistola elettrificata e tremavo tutta, non controllavo il mio corpo e quando mi si apriva la bocca per riflesso involontario dovuto alle scariche, mi infilavano a forza la zuppa in gola. Mi sentivo soffocare”.
Ayten è una rivoluzionaria. Ciò che rivendica, lei come gli altri rivoluzionari turchi, è la democrazia, il riconoscimento delle minoranze, la liberazione dei prigionieri politici, la fine delle torture, il rispetto dei diritti umani, la condanna della brutalità della polizia, processi equi per gli agenti che hanno ucciso o torturato. I movimenti rivoluzionari fanno parte della storia e del tessuto stesso della Turchia. Così come la repressione e la violenza dei mezzi utilizzati per sbaragliarli. La detenzione arbitraria e la tortura sono tra questi, come ha confermato ancora una volta nel 2020 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) del Consiglio d’Europa. Ma dalla visita del Relatore Speciale delle Nazioni Unite in Turchia, nel 2017, le cose pare siano considerevolmente peggiorate. Già allora l’ONU denunciò e condannò l’utilizzo arbitrario delle accuse di terrorismo contro chi difende i diritti umani o semplicemente manifesta il dissenso.

La Turchia è quel paese in cui in 7 anni, dal 2000 al 2007, sono morti di sciopero della fame 120 detenuti. Nel 2020 particolare scalpore fecero le morti in carcere, sempre per sciopero della fame, di 3 membri del gruppo musicale Grup Yorum e dell’avvocata Ebru Timtik.

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La band Grup Yorum

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Helin Bölek, Ibrahim Gökçek e Mustafa Kocak, membri di Grup Yorum, morti di sciopero della fame

“Con le mani legate dietro la schiena, mi hanno infilata dentro un copertone, immobilizzandomi completamente le braccia, e mi hanno stuprata con il manganello e frustata con il frustino da cavallo. Dopo 3 mesi di torture e di sciopero della fame mi sono ammalata. Hanno sospeso le violenze e mi hanno curata con siringhe e medicinali e alimentata forzatamente con il sondino. Mi sentivo sempre meglio. Ma ben presto ho capito con orrore che mi portavano allo stremo e poi mi guarivano solo per poter ricominciare senza rischiare che morissi”.

Le leggi antiterrorismo, che consentono l’arresto e la detenzione non solo degli oppositori politici ma anche degli avvocati che li difendono, degli attivisti dei diritti umani, degli artisti, cantanti, studenti, professori, sono ancora largamente utilizzate. Così come le accuse di tentare di “rovesciare il governo”, cosa di cui Ayten è imputata e per la quale rischia uno dei due ergastoli. L’accusa si muove intorno alla dichiarazione di un testimone segreto che l’avrebbe vista presso la sede dell’Associazione per i Diritti fondamentali della Libertà. Un’associazione ritenuta legale dallo stesso Stato ma pericolosa per le sue rivendicazioni di giustizia.

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Seda Şaraldı, avvocata di Ayten Öztürk – Foto di Eliana Riva [Pagine Esteri]

“Mi guardavano 24 ore su 24 e volevano che mi lavassi, nuda, davanti a loro. Mi sono rifiutata fino a quando non mi hanno costretta. Mi hanno sottoposta più volte allo stupro del manganello, hanno provato a violentarmi in tutti i modi, mi lasciavano nuda a terra e si lanciavano su di me toccandomi dappertutto con brutalità, con le mani e con oggetti, umiliandomi con insulti e improperi. La tortura che più di tutte mi faceva soffrire era la scarica elettrica che mi davano attraverso placche infilate sotto le unghie. È una tortura diversa dalla pistola elettrica. I segni mi sono rimasti per più di un anno. Svenivo ogni volta, mi portavano in bagno e mi mettevano con la testa sotto l’acqua. Poi usavano di nuovo la pistola: con l’acqua il dolore si amplificava”.
Anche per il secondo capo di imputazione risulta fondamentale il ruolo di un testimone segreto (che in seguito ha ricevuto un pesante sconto di pena): ha dichiarato di aver visto Ayten Öztürk assistere a un tentativo di linciaggio. La vittima del linciaggio non è morta e non ha presentato denuncia. Lei nega le accuse, non era lì. Ma anche se lì ci fosse stata, come ci ha spiegato l’avvocata che segue il suo caso, Seda Şaraldı, anche se avesse davvero assistito dal marciapiede, resta il fatto che non esiste una legge in Turchia che preveda l’ergastolo per questo. “Aspettiamo la decisione del procuratore della Corte di Cassazione – spiega l’avvocata Şaraldı –. Il nostro primo appello al tribunale locale è già stato rigettato. La Corte potrebbe pronunciarsi in ogni momento e se confermerà la colpevolezza, Ayten rimarrà per tutta la vita in prigione, sola in una cella da cui potrà uscire per 1 ora di aria al giorno”.

Il Tribunale di Istanbul ha deciso il proscioglimento. Quando però è stata presentata denuncia per le torture subite, il Tribunale di Ankara ha chiesto e ottenuto la riapertura di quel processo, stabilendone la riunione alle nuove indagini sui “tentativi di rovesciamento del governo”. Il Tribunale della capitale ha invece deciso di archiviare il fascicolo sul rapimento e le sevizie.

Abbiamo presentato una petizione firmata da avvocati provenienti da 105 nazioni diverse. Noi difendiamo Ayten ma non solo lei. La tortura è utilizzata per intimidire il popolo, le persone che lottano per i diritti. La tortura è un crimine contro l’umanità e noi ci battiamo non solo per i nostri clienti ma per tutta l’umanità”. Il team di avvocati con cui lavora Seda Şaraldı, due dei quali sono stati a loro volta arrestati, difende anche Gülten Matur. La famiglia non ha avuto più sue notizie dalla mattina del 20 Novembre 2022. La polizia ha registrato il suo arresto il 28 Novembre. Ha denunciato di essere stata rapita e torturata per 8 giorni e poi abbandonata su di un campo, su cui poco dopo la polizia ha finto un casuale ritrovamento, elemento, questo, in comune in tutti i casi di tortura. Il referto medico ha confermato lesioni compatibili con le torture che Gülten ha denunciato di aver subito.

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Gülten Matur, arrestata e torturata in un centro segreto di detenzione

“In Turchia esistono centri segreti di detenzione. I boia rapiscono la gente per strada. Noi lottiamo affinché Gülten sia l’ultima persona in Turchia ad aver subito tortura”, ci dice con voce chiara, calma e decisa Seda Şaraldı.

Il Consiglio superiore dei giudici e dei pubblici ministeri, l’Hcjp, responsabile delle nomine e dei procedimenti disciplinari per tutti gli organi di magistratura, è presieduto dal Ministro della Giustizia che ha enormi poteri di nomina e di controllo. E così il presidente, che a sua volta nomina il Ministro. In risposta a un’inchiesta che scoperchiava, nel 2014, larghi giri di corruzione che coinvolgevano membri della magistratura, funzionari pubblici e imprenditori vicini al primo ministro, il parlamento turco ha adottato una serie di leggi ed emendamenti, rimozioni coatte, trasferimenti forzosi e riassegnazione di casi importanti che hanno fortemente limitato l’indipendenza della magistratura, sottoposta al controllo del Governo. Dopo il tentato colpo di Stato del 2016 l’attacco alla magistratura si è dispiegato in tutta la sua violenza: con un decreto di emergenza sono stati rimossi 4560 giudici, accusati di terrorismo. Più di 600 i magistrati arrestati (e più di 400 i condannati per terrorismo), alcuni dei quali sono morti in carcere. Sono state stilate liste di proscrizione e la legge antiterrore, utilizzata in maniera arbitraria, ha portato all’arresto 282.790 persone, tra cui avvocati, voci critiche, intellettuali, difensori dei diritti umani, artisti, oppositori politici. Dal 2016 al 2020 sono stati nominati circa 11.000 nuovi magistrati, con procedure rapide giudicate preoccupanti e poco trasparenti da numerose organizzazioni e osservatori internazionali.

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Il presidente turco Tayyip Erdogan con il Ministro della Giustizia Bekir Bozdag

“Ti hanno chiesto di tradire i tuoi amici? Come hai fatto a resistere nonostante tutto questo dolore e queste umiliazioni?”

Tradire mi farebbe soffrire molto di più. Perché la sofferenza fisica può passare ma come potrei poi guardare in faccia i miei amici? Il mio popolo? Non potevo tradire la nostra lotta. Ho pensato che quella tortura sarebbe comunque finita: o morta o liberata. Ho controllato le mie emozioni, ho smesso di pensare ai miei cari che mi mancavano tanto. E poi mi davo nuove regole. A un certo punto, ad esempio, ho deciso di non dire più neanche una parola”.

Dopo i 6 mesi di torture Ayten è stata di nuovo curata dai suoi aguzzini e poi abbandonata su un campo, dove la polizia politica l’ha prelevata. Il direttore della prigione in cui è stata portata si è rifiutato di ammetterla per le terribili condizioni fisiche in cui si trovava: aveva perso 20 chili, ora ne pesava 40, nonostante negli ultimi giorni di prigionia l’avessero curata, medicata e alimentata forzatamente. Quindi è stata condotta in ospedale dove è stato stilato un referto medico che ha evidenziato ogni lesione. È rimasta in reparto per giorni. Portata in prigione, sul suo corpo le compagne di cella hanno contato 898 cicatrici. Dopo 3 anni e mezzo di carcere, il 10 giugno 2021 è stata mandata a casa agli arresti domiciliari, dove è tutt’ora, in attesa di un giudizio definitivo.

“Mio fratello Ahmet è stato ucciso nel 1994 durante una retata della polizia nella sua casa. La moglie di Ahmet, mia cognata Yazgülü, è stata bruciata viva nel 2000. Mia sorella Hamide è morta in prigione nel 2002 per sciopero della fame. Se finirò in carcere, continuerò a lottare da lì. Dentro o fuori, sempre resisterò e lotterò, perché credo fermamente che alla fine noi vinceremo. E nel nostro Paese non puoi ottenere una vittoria senza pagare niente”.

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Ayten Öztürk, agli arresti domiciliari nella sua casa a Istanbul – Foto di Eliana Riva [Pagine Esteri]

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Lo stigma berlusconista frena i partiti, ma è Costa il vero alleato di Nordio


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Una pacifica riunificazione Cina-Taiwan non è più possibile


Da quando le forze nazionaliste hanno istituito un governo sull’isola di Taiwan nel 1949, tutti i leader cinesi hanno aderito alla riunificazione della madrepatria basata sulla priorità delle azioni politiche e militari. L’unica cosa che è cambiata negli ultimi decenni è la capacità militare della Cina attraverso la quale ora può attaccare Taiwan e oggettivare […]

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“Il valore della protezione e sicurezza dei dati personali nell’era dei social network. Consapevolezza, diritti, rischi ed opportunità”. Ne parliamo domani, dalle ore 14.00, al seminario organizzato dall’Associazione protezione diritti e libertà privacy. Maggiori info qui.


Sappiamo che hanno libero corso singolari e forse interessate narrazioni della partita politica che si è aperta intorno alle elezioni amministrative per il com


Le porcherie delle banche americane e svizzere ci fanno rivalutare la Bce


Quando crollano grandi banche di Stati piccoli il rischio di panico autoavverante è più alto. Per questo su Credit Suisse si intervenga con urgenza senza andare per il sottile e aggiusti chi ha rotto. È oggettivo che la pignola Banca centrale europea è se

Quando crollano grandi banche di Stati piccoli il rischio di panico autoavverante è più alto. Per questo su Credit Suisse si intervenga con urgenza senza andare per il sottile e aggiusti chi ha rotto. È oggettivo che la pignola Banca centrale europea è sempre più rivalutata da questi fatti che riguardano banche americane e svizzere. Gli europei ci mettono tanto tempo a decidere, ma le crisi non le provocano mai loro. Abbiamo sempre criticato questa pignoleria, ma poi ci viene bene. È giusto, però, che gli scandali delle banche americane li paghino gli americani e gli scandali delle banche svizzere li paghino gli svizzeri.

Credit Suisse ha sette e passa miliardi di franchi svizzeri di perdite. Ha contato molte fuoriuscite di capitali e di depositi. È passata attraverso mille scandali e ha dovuto rinviare l’approvazione del bilancio del 2022 perché è sotto inchiesta della Securities and Exchange Commission (SEC) che vuol dire Commissione per i Titoli e gli Scambi ed è l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza delle borse valori. Credit Suisse ha appena fatto un aumento di capitale di 4 miliardi, ma per fargli perdere ogni valore sono bastate poche parole del presidente di Snb, Ammar Al Khudairy, all’intervistatore di Bloomberg TV che gli chiedeva se la banca fosse aperta a fornire ulteriore liquidità al Credit Suisse.

Le parole sono state inequivoche: «La risposta è assolutamente no, per molte ragioni oltre a quelle più semplici, che sono regolatorie e statutarie». La banca saudita è la prima azionista del Credit Suisse con una quota poco sotto il 10%, acquistata lo scorso anno in occasione dell’aumento di capitale del gruppo svizzero. Il titolo era stato fortemente sotto pressione già nella seduta di martedì dopo che la banca aveva ammesso di avere trovato «concrete debolezze» nelle relazioni finanziarie degli ultimi due anni a causa di controlli interni inefficaci. Il mercato dà evidentemente per scontato che alla banca svizzera serva subito un altro aumento di capitale e il fatto che il suo nuovo principale azionista saudita non sia disponibile a scucire altri quattrini ha fatto crollare il mondo.

Qualcuno dirà non completamente a torto che è una caduta fuori luogo, perché il maxi aumento di capitale è avvenuto a febbraio, ma la verità è che i mercati hanno i nervi talmente tesi che basta niente e salta tutto e poi la banca è sotto osservazione da tempo. Di fatto si genera una crisi di sfiducia su Credit Suisse che rischia di diventare una profezia autoavverante anche perché il problema esiste e la banca centrale svizzera ha aperto una linea di liquidità ma non è la Federal Reserve. Se è a rischio una banca grossa e lo Stato al quale appartiene questa banca è uno Stato piccolo il rischio diventa più elevato. Perché i mercati danno più credito alla crisi bancaria e i depositi scappano come lepri.

Le incolpevoli banche italiane e francesi, come tutte quelle europee, crollano e dopo avere pagato il conto delle porcherie americane della banca della Silicon Valley pagano anche quello delle porcherie del colosso bancario svizzero di un Paese che dà lezioni di civiltà a tutti. Bisogna rendersi conto che i nervi sono davvero scoperti ed è bene che la cintura di sicurezza delle banche centrali sia potente, che i depositi siano garantiti, non è il momento questo delle prediche liberali. Però, sia chiaro, aggiusti chi ha rotto. Si intervenga, dunque, con urgenza senza andare troppo per il sottile. La storia irlandese nella grande crisi dei debiti sovrani ci ricorda che quando le banche sono grandi e gli Stati sono piccoli a rischiare di saltare per aria sono gli ultimi. Con tutto quello che c’è in giro di rischi geopolitici e finanziari non è proprio il caso di scherzare con il fuoco.

La pignola Banca centrale europea è sempre più rivalutata da questi fatti che riguardano banche americane e svizzere. Gli europei ci mettono tanto tempo a decidere, ma le crisi non le provocano mai loro. Abbiamo sempre criticato questa pignoleria, questo eccesso di regole, ma poi ci viene bene. Sarebbe giusto a questo punto che gli scandali delle banche americane li paghino gli americani e gli scandali delle banche svizzere li paghino gli svizzeri.

Il Quotidiano del Sud

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Su proposta del Ministro Giuseppe Valditara, è stato integrato l’Atto di indirizzo dell’accordo sottoscritto con i Sindacati lo scorso 10 novembre in tema di aumento delle retribuzioni del personale scolastico.


Banche e tassi


Silicon Valley Bank non c’entra con le nostre banche e non c’entra con l’Unione europea. Abbiamo regole e controlli decisamente più severi. Un crollo può sempre avvenire, il rischio non è mai eliminabile, ma quel genere di squilibrio nei conti di una banc

Silicon Valley Bank non c’entra con le nostre banche e non c’entra con l’Unione europea. Abbiamo regole e controlli decisamente più severi. Un crollo può sempre avvenire, il rischio non è mai eliminabile, ma quel genere di squilibrio nei conti di una banca no, verrebbe visto prima. Resta il fatto che quel fuoco è acceso e ha indotto il Tesoro statunitense a introdurre una novità: i titoli del debito pubblico verranno considerati garanzie (collaterali) al loro valore di libro e non di mercato. Lo ha qui spiegato ieri Lavaggi: al rialzo dei tassi d’interesse i titoli emessi precedentemente e a un tasso inferiore perdono valore se intendo liquidarli subito, ma restano immutati se attendo la scadenza.

Credit Suisse non c’entra con le nostre banche e con l’Unione europea. Ha da tempo notevoli problemi: erano intervenuti capitali sauditi, che ora annunciano di non rilanciare oltre. La banca ha passività per l’equivalente di 525 miliardi di euro, mentre dopo gli ulteriori crolli ha un valore in Borsa (capitalizzazione) di 7 miliardi. Ad avere allertato i mercati è stata la stessa banca, che non poteva certo nascondere i risultati della revisione (effettuata dalla società indipendente PwC). Ha quindi chiesto l’intervento della Banca centrale svizzera. Come a dire: noi affondiamo, tocca a voi un eventuale salvataggio o la messa in sicurezza.

Questi due incendi non ci riguardano, ma segnalano un problema che ci riguarda: dopo anni di denaro quasi senza costo sono cresciute bolle finanziarie che, a seguito del rialzo dei tassi d’interesse, possono esplodere con conseguenze sistemiche. Il che porta al dilemma delle nostre banche centrali, europea e statunitense. I rialzi dei tassi servono a contrastare l’inflazione. Nessuno, seriamente, contesta quei rialzi. I problemi sono: a. di quanto e che non sia “troppo” (misura indefinita), in modo da non favorire la recessione; b. se le banche centrali annunciano in anticipo i rialzi futuri ne aumentano l’effetto, ma vale per l’inflazione come per gli effetti recessivi; c. se smettono di dare programmi a medio termine vengono accusate di aumentare l’incertezza.

A oggi i tassi saliranno ancora, ma l’efficacia di questa operazione scema proprio all’emergere di taluni effetti sulle banche (è vero che guadagnano di più, ma i titoli in portafoglio perdono valore e i clienti entrano in difficoltà, traslandole sulle banche). Non c’è politica monetaria che funzioni se non accompagnata da politiche fiscali. Detto diversamente: o le banche centrali e i governi si muovono all’unisono o ne deriva una pericolosa cacofonia. Di sicuro, in questa condizione, scaricare le difficoltà politiche sulle banche centrali – così trascinandole in polemiche e dilemmi politici – è il modo sicuro per farsi del male.

A ciascuno la propria parte. E quella di chi governa non consiste nel lamentarsi.

La Ragione

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Difesa, a Tokyo una pietra militare per il futuro di Italia, Giappone e Uk


“Italia, Regno Unito e Giappone sono uniti dallo stesso destino e oggi abbiamo posato una pietra per costruire un futuro importante insieme”. Lo ha dichiarato Guido Crosetto, ministro della Difesa, durante l’incontro avvenuto oggi a Tokyo con gli omologhi

“Italia, Regno Unito e Giappone sono uniti dallo stesso destino e oggi abbiamo posato una pietra per costruire un futuro importante insieme”. Lo ha dichiarato Guido Crosetto, ministro della Difesa, durante l’incontro avvenuto oggi a Tokyo con gli omologhi giapponese Yasukazu Hamada e britannico Ben Wallace. “Una volta Indo-Pacifico e Mediterraneo erano aree considerate lontane tra loro. Oggi, invece, il mondo è diventato sempre più piccolo, le crisi sono aumentate e probabilmente in questo decennio la situazione peggiorerà. Il futuro del Mediterraneo dipende da ciò che succede nell’Indo Pacifico e viceversa. Ed è per questo motivo che le nostre Nazioni devono lavorare e cooperare insieme. Soltanto unendo le forze riusciremo a contrastare la grandezza dei problemi e le sfide future”, ha aggiunto.

AL LAVORO SUL PROSSIMO JET

Al centro dell’incontro, il rafforzamento del partenariato e il programma Global Combat Air Programme. I tre Paesi hanno firmato lo scorso 16 dicembre un memorandum di cooperazione sulla base delle solide e durature relazioni tra i tre Paesi, fondate sui valori di libertà, democrazia, diritti umani e stato di diritto. “Il Gcap”, ha sottolineato il ministro Crosetto, “è una scelta industriale, tecnologica ma è, prima di tutto, una scelta politica di tre importanti Nazioni che hanno deciso di intraprendere un percorso comune che permetterà alle rispettive Forze Armate di cooperare insieme in diversi ambiti”. È un accordo, ha continuato, “di grande rilevanza raggiunto in un delicato momento geopolitico” in quanto “le nostre tre nazioni rafforzano così la loro cooperazione in un progetto che avrà importanti ricadute nel campo tecnologico, dell’innovazione, ricerca e sviluppo nel settore dell’aerospazio, della difesa e sicurezza”.

LA PORTA È APERTA

Il programma per un nuovo velivolo di sesta generazione, come ha ricordato il ministro, potrà allargarsi anche ad altri Paesi: “Porterà un insieme di capacità senza precedenti che risulteranno fondamentali per il mantenimento della stabilità globale, creando i presupposti necessari a garantire lo sviluppo continuo nel campo della difesa per i decenni a venire”. Ieri la Difesa aveva diffuso una nota per smentire le ricostruzioni dell’agenzia Reuters secondo cui il programma avrebbe visto una partecipazione italiana al 20% e quelle britannica e giapponese al 40%. “L’alleanza tra i nostri governi e industrie della Difesa rappresenta un esempio di riferimento per le future collaborazioni internazionali” ha continuato il ministro sottolineando come l’Italia, forte delle proprie esperienze e delle competenze industriali e tecnologiche nel settore dell’aerospazio e nello sviluppo di velivoli militari, veda nel Regno Unito e nel Giappone i partner con i quali rafforzare un modello paritetico e flessibile nella già consolidata cooperazione industriale.

LE OCCASIONI INDUSTRIALI

I ministri hanno, altresì, evidenziato i benefici che questo accordo apporterà dal punto di vista industriale, determinando prosperità e sviluppo ed un incremento della cooperazione tra le rispettive industrie della Difesa che, già al momento, evidenziano ottime relazioni collaborative. Unanime consenso sul contributo che il Gcap fornirà alla sicurezza e allo sviluppo tecnologico dei tre Paesi. Un forte partenariato che avrà ricadute anche nei settori dell’economia, della sicurezza e della stabilità regionale. Nella parte conclusiva della trilaterale hanno partecipato anche gli amministratori delegati di Mitsubishi, Bae e Leonardo, aziende che guidano per Giappone, Regno Unito e Italia il progetto.

IL BILATERALE CON HAMADA

Prima dell’incontro a tre si è tenuto un bilaterale tra Hamada e Crosetto, in cui i ministri hanno sottolineato la volontà di rafforzare ulteriormente le relazioni bilaterali in molteplici dimensioni, incluso cyber defence ed esercitazioni congiunte. Da qui la volontà di rafforzare la collaborazione tra i due Paesi. Uno scambio tra le Forze Armate che include l’addestramento in Italia di piloti giapponesi presso l’International Flight Training School, polo di eccellenza internazionale nell’addestramento di piloti militari. Un altro esempio saranno le campagne addestrative nell’Indo Pacifico alle quali la Difesa italiana parteciperà con assetti e personale della Marina e dell’Aeronautica Militare – entro inizio 2024 dovrebbe essere dispiegata nella regione la portaerei Cavour. Quella dell’Indo-Pacifico, si legge in una nota della Difesa italiana, è un’area di sempre maggiore rilevanza per la stabilità dell’ordine internazionale, per lo sviluppo del commercio, per peso economico, demografico e politico, aspetto che trova conferma anche nell’agenda Nato 2030.


formiche.net/2023/03/italia-gi…



Moldavia: la Russia ha gli occhi puntati sulla Gagauzia


Ora che la guerra di Mosca contro Kiev è entrata nel suo secondo anno, tutti gli occhi sono puntati sull’Ucraina orientale, dove i combattimenti iniziano a intensificarsi con l’arrivo della primavera. Tuttavia, a 450 miglia a ovest, nella Repubblica di Moldavia, la Russia sta creando ulteriori problemi. Questa settimana le autorità locali della Transnistria, la […]

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La mia foto profilo è un'opera d'arte

Francesco De Molfetta – Vati-Cane

Francesco De Molfetta – Vati-Cane
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Luca Fedeli – Nato tre volte


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Cresce la sfiducia nelle relazioni USA-Cina


La risposta di Washington e Pechino alla comparsa di un pallone-spia cinese sugli Stati Uniti nel febbraio 2023 illustra diversi aspetti dell’attuale relazione USA-Cina che renderanno molto difficile invertire la spirale discendente nei legami bilaterali. L’episodio ha mostrato sfiducia reciproca, ostilità latente, mancanza di comunicazione e l’impatto negativo della politica interna sul modo in cui […]

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Internet, nata per essere un mezzo di amplificazione delle libertà, diventa sempre più spesso uno strumento di compressione delle libertà di taluni. È il caso della comunità gay ormai letteralmente perseguitata nella dimensione digitale. Qualche settimana fa, su queste stesse colonne, ho scritto dell’inchiesta realizzata da Human Rights Watch, efficacemente intitolata, “Tutto questo orrore a causa...

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L’accordo tra Arabia Saudita e Iran mette a nudo l’influenza in declino dell’UE in Medio Oriente


L’ annuncio del ripristino delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran, sotto la mediazione cinese, ha messo in luce i limiti dell’influenza dell’Unione Europea in Medio Oriente. Mentre l’UE è stata attenta a evitare di accreditare esplicitamente la Cina, che ha definito il suo “rivale sistemico”, per la svolta, Bruxelles ha dichiarato di essere […]

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L’Ucraina deve fare di più per contrastare la narrazione russa nel Sud del mondo


A più di un anno da quando Vladimir Putin ha lanciato l’invasione su vasta scala dell’Ucraina, la reazione internazionale alla guerra rimane nettamente divisa. Mentre molto è stato fatto dell’unità occidentale a sostegno dell’Ucraina, il resto del mondo è stato in gran parte riluttante ad opporsi o addirittura a condannare la Russia in alcun modo […]

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KENYA. Carbonio insanguinato in nome della lotta al cambiamento climatico


Un nuovo rapporto pubblicato oggi da Survival International rivela le lacune più gravi di un programma di crediti di carbonio che ha visto tra i suoi clienti Meta e Netflix. L'articolo KENYA. Carbonio insanguinato in nome della lotta al cambiamento clima

dalla redazione di Survival International – Comunicato stampa

Pagine Esteri, 16 marzo 2023 – Un nuovo rapporto pubblicato oggi da Survival International rivela le lacune più gravi di un programma di crediti di carbonio che ha visto tra i suoi clienti Meta e Netflix.

Il rapporto si intitola “Blood Carbon: how a carbon offset scheme makes million from Indigenous land in Northern Kenya” (Carbonio insanguinato: un programma di compensazione di carbonio che ricava milioni dalla terra indigena nel nord del Kenya), e analizza il Northern Kenya Grassland Carbon Project, il progetto gestito dall’organizzazione Northern Rangelands Trust (NRT) su un territorio abitato da oltre 100.000 indigeni tra cui i Samburu, i Borana e i Rendille.

Il progetto potrebbe generare intorno ai 300-500 milioni di dollari, e potenzialmente molto di più.

Ecco alcune delle conclusioni del rapporto:

– Il progetto si basa sullo smantellamento dei tradizionali sistemi di pascolo dei popoli indigeni e sulla loro sostituzione con un sistema controllato a livello centrale, più simile all’allevamento commerciale. Impedendo la pratica tradizionale della migrazione durante la siccità, il progetto potrebbe mettere a rischio la sicurezza alimentare dei popoli pastorali locali.

– Ad oggi sono state presentate prove assolutamente non convincenti sul fatto che la NRT abbia informato adeguatamente le comunità sul progetto, per non parlare del fatto che abbia ricevuto il loro Consenso Previo, Libero e Informato. La fornitura di informazioni sul progetto è stata limitata a un numero molto ristretto di persone, e per lo più solo molto tempo dopo l’inizio del progetto stesso.

– Di conseguenza, pochissime persone nell’area hanno una chiara comprensione del programma.

– La base giuridica del progetto solleva problemi e interrogativi molto seri, in particolare sul diritto della NRT di “possedere” e commerciare carbonio proveniente dai terreni interessati.

– Il progetto non presenta argomentazioni credibili sulla sua addizionalità di carbonio, un principio fondamentale per la generazione di crediti di carbonio.

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Donna samburu, Kenya settentrionale. Un membro della sua famiglia è stato ucciso mentre portava al pascolo i suoi animali vicino a una “Area di conservazione” della The Northern Rangelands Trust (NRT); dicono sia stato ucciso dai suoi guardaparco. © Survival

Il rapporto segna il lancio della campagna “Carbonio insanguinato” di Survival International, che denuncia come la vendita di crediti di carbonio dalle Aree Protette potrebbe aumentare enormemente il finanziamento delle violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni, senza per altro fare nulla per combattere i cambiamenti climatici.

Il progetto sul carbonio della NRT non soddisfa alcuni dei requisiti fondamentali previsti per i progetti di compensazione di carbonio” ha dichiarato oggi l’autore del rapporto Simon Counsell (ex direttore di Rainforest Foundation UK), “come dimostrare una chiara addizionalità, avere uno scenario di riferimento credibile ed essere in grado di misurare ‘dispersioni’ di carbonio in altri territori. I meccanismi di monitoraggio dell’attuazione e degli impatti del progetto sono fondamentalmente difettosi. È estremamente poco plausibile che i crediti di carbonio venduti dal progetto rappresentino un reale deposito addizionale di carbonio nel suolo dell’area.”

La responsabile della campagna di Survival per Decolonizzare la conservazione, Fiore Longo, ha aggiunto: “Dopo anni di violazioni dei diritti umani compiuti nel nome della cosiddetta ‘conservazione’, oggi le ONG occidentali stanno rubando la terra degli indigeni anche nel nome della ‘mitigazione del clima’. Come dimostra chiaramente questo rapporto, il progetto della NRT si fonda sullo stesso pregiudizio coloniale e razzista che pervade molti grandi progetti di conservazione, ovvero che i popoli indigeni siano responsabili della distruzione dell’ambiente. Ma le prove dimostrano esattamente il contrario: che i popoli indigeni sono i migliori conservazionisti. Questo progetto non è solo un pericoloso greenwashing, è carbonio insanguinato: la NRT sta facendo soldi distruggendo il modo di vivere dei popoli meno responsabili dei cambiamenti climatici”.

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In Fondazione Luigi Einaudi dibattito su norme antimafia e Stato di diritto


“L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, l’ultimo libro del giornalista Alessandro Barbano, edito da Marsilio, è stato presentato ieri a Roma nella sede della Fondazione Luigi Einaudi. Dopo i saluti istituzionali del presidente d

“L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, l’ultimo libro del giornalista Alessandro Barbano, edito da Marsilio, è stato presentato ieri a Roma nella sede della Fondazione Luigi Einaudi. Dopo i saluti istituzionali del presidente della Fondazione Giuseppe Benedetto, l’autore del libro e il giurista Giovanni Pellegrino, hanno dato vita a un interessante dibattito moderato dal Segretario generale della Fondazione Luigi Einaudi Andrea Cangini.

“Questo libro denuncia come dentro la filiera della giustizia penale, che attraversa il giudizio di prevenzione e il giudizio ordinario vero e proprio, c’è uno slittamento tra il diritto ordinario liberale, che si fonda sulla colpevolezza, e quindi su un fatto costituente reato, e il diritto del sospetto che si fonda sulla pericolosità, che non ha al centro il fatto ma ha al centro l’uomo, l’attore, il quale non viene colpito perché ha commesso un fatto, ma in quanto «pericoloso»”, ha detto Barbano di fronte a un nutrito pubblico di ospiti. “Non si può essere garantisti solo quando conviene o per quello che ci piace, e dire, ad esempio, ‘io sono per la Costituzione, ma mi piace l’ergastolo ostativo’, perché le due cose non stanno insieme”, ha sottolineato. “Si può accettare che in una fase straordinaria, come ad esempio durante una guerra, ci siano delle garanzie che si riducono per un tempo necessariamente breve, come per altro pensava Falcone nel 1992, ma se invece questa compressione diventa permanente è chiaro che il sistema va in contraddizione. E purtroppo questo slittamento, questa sostituzione del diritto della colpevolezza, che è il diritto delle democrazie liberali, con il diritto della pericolosità, che è un diritto autoritario, illiberale, il diritto dei regimi, è presente. È presente nelle interdittive o nel sistema delle confische, che hanno assunto nel nostro paese una dimensione spaventosa”.

Pellegrino, parlamentare di lungo corso e già presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle stragi, sul tema ha osservato: “Il libro di Barbano è un libro coraggioso perché dice alcune scomode verità, e nutre di una casistica fitta di quello che indubbiamente deve essere considerato un risultato che ripugna a comuni sentimenti di giustizia, cioè il fatto che una persona assolta in giudicato dall’accusa di essere mafiosa, o anche soltanto concorrente esterna con la mafia, possa vedere la propria vita distrutta, e il proprio patrimonio azzerato, dalla applicazione di misure di prevenzione antimafia”. Urge una riflessione in merito, ha detto Pellegrino, “ed è necessaria una correzione del sistema che eviti questo iato che c’è tra misure di prevenzione e giudizio di merito”. E ha poi aggiunto: “Non arriveremo a questo risultato se non usciamo dal clima dello scontro tra tifoserie che da sempre caratterizza il dibattito sulla giustizia”.

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Venerdì 17 marzo, dalle ore 10.00, interverrò al webinar “Intelligenza artificiale e dintorni” organizzato da Cyberacademy. Con Luisa Di Giacomo parleremo di ChatGPT, Replika e molto altro. Per info clicca qui.


CISGIORDANIA. Lo sciopero degli insegnanti palestinesi fa tremare l’Anp


Gli insegnanti palestinesi in mobilitazione da inizio anno contro salari da fame (quando arrivano). Ma la protesta è molto più ampia: la gente è stanca del governo di Ramallah L'articolo CISGIORDANIA. Lo sciopero degli insegnanti palestinesi fa tremare l

di Michele Giorgio

Pagine Esteri, 16 marzo 2023 – Il freddo e la pioggia caduta copiosa in questi ultimi due giorni li hanno frenati dal tenere nuove proteste di massa. Sono però pronti a tornare nelle strade di Ramallah per far valere i loro diritti. Lunedì migliaia di insegnanti, dopo aver aggirato i blocchi stradali allestiti dalla polizia dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) all’uscita di Ubaidiya, Surda, Al Bireh e Tulkarem, hanno raggiunto Ramallah e si sono radunati davanti alla sede del Consiglio dei ministri costringendo il ministro dell’istruzione, Marwan Awartani, ad incontrarli, per la prima volta, da quando all’inizio dell’anno è scattato nella scuola pubblica lo sciopero più lungo e partecipato degli ultimi anni per ottenere finalmente un aumento dei salari. Awartani si è limitato ad assicurare che il governo farà la sua parte. Più di tutto ha esortato gli insegnanti a riprendere immediatamente il lavoro.

«Non abbiamo scelta, continueremo lo sciopero nonostante le minacce (del governo), siamo alla fame, il nostro stipendio basta per dieci giorni e non ci arriva neanche tutto il più delle volte», ci dice Sumaya H, insegnante di arabo in una scuola superiore. Anche lei ha partecipato al grande sit in di lunedì scorso. «Quelli (i ministri) ci accusano di danneggiare i ragazzi palestinesi, di sottrarci al dovere dell’insegnamento. Ma come fanno a non capire che stiano crollando e che anche noi siamo dei genitori e abbiamo delle famiglie da mandare avanti. Piuttosto il governo trovi i fondi necessari per mantenere le promesse che ha fatto. Si impegni a combattere la corruzione e lo spreco di fondi perché anche gli insegnanti hanno diritto a una vita dignitosa», aggiunge Sumaya replicando indirettamente alle parole del primo ministro Muhammad Shttayeh che all’ultima seduta del Consiglio dei ministri ha affermato che il governo «Qualche giorno fa ha firmato degli accordi con i sindacati… Gli insegnanti chiedevano che il bonus fosse fissato in busta paga e il Consiglio dei ministri ha acconsentito. Ed è andato anche oltre pagando il 5 per cento sullo stipendio del mese in corso e fissando il restante 10 per cento nella busta paga successiva». Quindi ha aggiunto che solo un «piccolo gruppo di insegnanti» si ostinerebbe a voler continuare lo sciopero. Dopo le sue parole il TAR dell’Anp ha ordinato il rientro nelle aule ma solo pochi docenti hanno rispettato il provvedimento.

Le cose non stanno come le racconta il governo, dicono i leader dello sciopero. La protesta, assicurano, coinvolge buona parte degli insegnanti delle scuole pubbliche. E comunque a guidare le rivendicazioni non è l’Unione generale degli insegnanti, il sindacato ufficiale, ma il Movimento unito degli insegnanti (Mui), indipendente e sorto con il proposito di tenersi a distanza dalle politiche e dalle decisioni delle autorità che non si renderebbero conto della gravità della condizioni degli insegnanti. Omar Assaf, uno dei rappresentanti del Mui, avverte che le assicurazioni del governo non sono concrete perché l’accordo raggiunto con il sindacato ufficiale sarà attuato solo se lo permetterà la situazione delle casse pubbliche. Tenendo conto della mancanza di fondi, dovuta anche ai tagli che Israele attua ormai con regolarità ai 150-200 milioni di dollari – dazi doganali e tasse – che raccoglie ogni mese ai valichi per conto dell’Anp (Accordi di Oslo 1993-4), la possibilità che le intese possano essere rispettate è a dir poco ridotta.

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Ahmad T., 44 anni, insegna scienze a Hebron e descrive la frustrazione sua e dei colleghi. «Insegnare, trasmettere il sapere non è solo un dovere per me, è soprattutto un piacere» dice. «Quando sono entrato in un’aula per la prima volta e mi sono seduto di fronte agli studenti, ho pensato di aver raggiunto il traguardo che volevo. Non è andata come credevo da giovane» racconta. Aggiunge di «non aver mai pensato di diventare benestante facendo l’insegnante» ma neanche «di finire in miseria e di essere poi accusato di non rispettare il diritto all’istruzione di bambini e ragazzi». In media un insegnante del ministro dell’istruzione dell’Anp riceve mensilmente in busta paga tra 2000 e 3000 shekel (tra 500 e 700 euro), una retribuzione del tutto inadeguata a coprire il costo reale della vita nei Territori palestinesi occupati. E quei pochi che percepiscono di più comunque non guadagnano abbastanza per una vita dignitosa. «I miei colleghi ed io – spiega Ahmad – facciamo altri lavori, diversi dall’insegnamento, per sopravvivere. Un tempo ci aiutavamo le ripetizioni private, ora però le famiglie non hanno abbastanza soldi. Nessun ha più soldi, specie se lavori per l’Anp».

Il governo Shttayeh si giustifica sottolineando i tagli di Israele ai fondi palestinesi e il calo delle donazioni arabe e internazionali all’Anp. Problemi reali che tuttavia convincono solo in parte la massa dei dipendenti pubblici. «Credo che la questione sia molto più ampia e che vada ben oltre lo sciopero degli insegnanti che prosegue da settimane. È un questione di consenso all’Anp che si sta sgretolando. Le rivendicazioni salariali si aggiungono alla profonda delusione per il ruolo dell’Anp che non ha realizzato alcuna delle aspirazioni palestinesi nei trent’anni passato dagli Accordi di Oslo» ci spiega il giornalista Nasser Atta. «Non è che gli insegnanti – prosegue – e tutti gli altri palestinesi non siano consapevoli delle politiche di Israele e della precarietà finanziaria del governo. Però si domandano cosa abbia fatto l’Anp per evitare tutto questo».
Tanti palestinesi ora guardano alle Forze di sicurezza che ricevono oltre il 30% del budget dell’Anp ed inoltre cooperano con l’intelligence israeliana. L’istruzione pubblica arriva appena al 10%.

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Stacia Datskovska (USA) non ama Firenze



Una giovane yankee aspirante gazzettiera di nome Stacia Datskovska scrive di non essersi trovata bene a "studiare" a Firenze.
Le giovani yankee in città sono note da molti anni per la loro cultura da rotocalco, la loro spiccata predilezione per gli alcolici e i loro discutibili costumi.
Un loro giudizio negativo, di conseguenza, non scuote gli animi più di tanto.
Amanda Knox che le ricorda come studiare nella penisola italiana sia "fantastico" ha invece ragione da vendere: l'impunità di cui gli yankee godono nello stato che la occupa permette loro di attraversare senza scosse anche un processo per reati di rara efferatezza traendone persino una qualche notorietà.


In Cina e Asia – Xi propone la Global Civilization Initiative


In Cina e Asia – Xi propone la Global Civilization Initiative cina
Xi propone la Global Civilization Initiative Arrestato negli Usa Guo Wengui L’autosufficienza tecnologica cinese parte dall’industria automobilistica La Cina nel mirino della stretta Ue sull’export di tecnologia sensibile Addio a Jiang Yanyong: denunciò la Sars e i massacri di Tiananmen La Commissione Trilaterale definisce il 2023 l’anno del nuovo ordine mondiale Xi propone la Global Civilization Initiative Global Civilization ...

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Schiantato dal debito, lo Sri Lanka attende l’FMI


Ad un anno dal default, la popolazione dello Sri Lanka continua a soffrire per la scarsità di cibo, medicine e lavoro. I sindacati scioperano contro le "riforme" imposte dal Fmi per concedere gli aiuti L'articolo Schiantato dal debito, lo Sri Lanka atten

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 16 marzo 2023 – Ieri un nuovo sciopero ha paralizzato alcuni servizi per protestare contro il forte aumento della pressione fiscale, deciso dal governo di Colombo per soddisfare le condizioni poste dal Fondo Monetario Internazionale per concedere allo Sri Lanka un pacchetto di aiuti da 2,9 miliardi di dollari. L’astensione dal lavoro ha causato l’interruzione del trasporto pubblico, la chiusura di alcuni reparti ospedalieri e la cancellazione dei previsti esami scolastici.

Tra scioperi e repressione
Le proteste nel mondo del lavoro continuano nonostante un esplicito divieto, varato a fine febbraio dal presidente Ranil Wickremesinghe, che ha più volte minacciato di licenziamento in tronco gli scioperanti, dichiarando “essenziali” i servizi legati ai porti, agli aeroporti e al trasporto dei passeggeri.
I sindacati, però, hanno ribadito che la mobilitazione proseguirà. Oltre ai dipendenti della sanità, dei trasporti e della scuola hanno protestato anche le organizzazioni dei liberi professionisti.
Ad un altro sciopero di 24 ore organizzato il primo marzo hanno invece aderito soprattutto i sindacati delle società elettriche (Ceylon Electricity Board) e petrolifere (Ceylon Petroleum Corporation), delle imprese che garantiscono l’approvvigionamento idrico, dei servizi postali, oltre a quelli della scuola e del sistema sanitario pubblico. Anche molti docenti universitari e dipendenti delle banche pubbliche hanno protestato contro l’aumento delle tariffe elettriche e delle tasse sul reddito, imposto dal FMI in cambio della concessione del prestito al governo srilankese. In quell’occasione 9000 lavoratori del porto di Colombo avevano bloccato le operazioni di carico e scarico.

Agli scioperi e alle manifestazioni il governo risponde con la repressione e gli arresti di militanti e leader sindacali e studenteschi. Contro i manifestanti – afferma un rapporto intitolato “Lacrimogeni. Le lacrime di 20 milioni” – nell’ultimo anni, in particolare tra la primavera e l’estate del 2022 – le forze di sicurezza hanno sparato finora 6000 cartucce, il triplo di quelle utilizzate nei dieci anni precedenti. Come se non bastasse, polizia ed esercito hanno utilizzato spesso lacrimogeni scaduti anche da venti anni, provocando la morte di alcuni manifestanti a causa delle complicazioni respiratorie provocate.

Altri scioperi e proteste seguiranno, ma difficilmente avranno la meglio su un governo determinato a portare avanti le “riforme” imposte dall’istituzione finanziaria internazionale controllata da Washington per erogare al paese un credito considerato fondamentale per uscire da una crisi economica che ha messo in ginocchio lo stato insulare asiatico.

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Il default e la cacciata del presidente
Lo scorso anno il governo dello Sri Lanka ha dovuto dichiarare default– il primo paese asiatico in venti anni – dopo che non è stato in grado di pagare i 78 milioni di dollari di interessi sul debito pubblico scaduti il 18 aprile.
A causa della chiusura dei principali canali di credito privato e internazionale, l’economia del paese è crollata, e il paese ha dovuto chiedere l’assistenza alimentare ai vicini, mentre le scuole sono state chiuse e le centrali elettriche, a corto di carburante, hanno sospeso l’erogazione dell’elettricità anche per 13 ore al giorno.
Il 9 luglio del 2022, dopo un’ondata di prolungate e violente proteste popolari, migliaia di manifestanti hanno preso d’assalto il palazzo presidenziale costringendo alla fuga il presidente Gotabaya Rajapaksa, che si è rifugiato alle Maldive per poi rassegnare le dimissioni. Il suo incarico è stato assunto, ad interim, dal primo ministro Ranil Wickremesinghe, di cui pure la folla reclamava le dimissioni, che dopo alcuni giorni di caos ha ordinato alle forze di sicurezza di ristabilire l’ordine.

“Buone notizie”
Ora, il governo attende con ansia di sapere se l’FMI gli concederà effettivamente il prestito che potrebbe dare una boccata d’ossigeno alle esangui casse dello Sri Lanka.
Il 7 marzo il sottosegretario alle finanze Shehan Semasinghe ha affermato che il paese starebbe per ricevere «notizie molto positive». «Il programma dell’Fmi è essenziale per noi, e lo Sri Lanka ha lavorato molto duramente sin da settembre per ottenerlo» ha affermato il membro del governo di Colombo.
«I nostri problemi non possono essere risolti con 2,9 miliardi di dollari, ma per noi è molto importante che il FMI riconosca che la nostra economia è ora sulla strada giusta» ha invece commentato il portavoce dell’esecutivo Bandula Gunawardana.

A generare ottimismo sarebbe il fatto che, secondo una fonte governativa citata da “Channel News Asia”, la Export-Import Bank of China (EximBank) – uno dei principali creditori internazionali dello Sri Lanka – avrebbe scritto al Fondo sostenendo il programma di ristrutturazione del debito del Paese. Ma allo stato si tratta di indiscrezioni.
Stando ad una lettera diffusa da “Channel News Asia” e attribuita a EximBank, Pechino avrebbe promesso a Colombo «un’estensione del debito da restituire nel 2022 e nel 2023 come misura d’emergenza immediata (…) che esonera lo Sri Lanka dal rimborso del capitale e degli interessi maturati sui prestiti dell’istituto».
Un passo positivo per il governo srilankese, che però si aspettava di più e di meglio, hanno commentato alcuni funzionari, mentre l’inviata di Washington nello Sri Lanka, Julie Chung, ha accusato Pechino di impedire al paese di accedere al salvataggio del FMI.

Tra USA e Cina
Lo Sri Lanka è da tempo terreno di competizione tra le diverse potenze asiatiche e gli Stati Uniti. Negli ultimi dieci anni, in particolare, la Cina ha concesso a Colombo prestiti agevolati per cinque miliardi (che hanno contribuito ad aggravare la crisi del debito), allo scopo di finanziare la costruzione di autostrade, porti e altre infrastrutture utili soprattutto agli interessi di Pechino. Il progetto più rilevante è quello della “zona economica speciale” prevista nel porto della capitale, inserito all’interno della Belt and Road Initiative o Nuova Via della Seta.
A gennaio, il ministero degli Esteri di Pechino aveva riferito che la EximBank aveva offerto allo Sri Lanka una moratoria di due anni sul debito pubblico del paese, in modo da garantirgli la concessione del prestito da parte del FMI. «La Cina percepisce le difficoltà e le problematiche affrontate dallo Sri Lanka e ha assistito lo sviluppo socioeconomico del Paese nel miglior modo possibile» avevo affermato il dicastero in una nota. La Cina e l’India sono i principali creditori di Colombo, seguite dal Giappone. In particolare, la Export-Import Bank of China e la China Development Bank detengono rispettivamente 4,3 miliardi e tre miliardi di dollari del debito srilankese, arrivato nel 2022 a quota 51 miliardi di dollari.

La decisione dell’istituzione finanziaria guidata dalla bulgara Kristalina Georgieva sulla concessione del tanto agognato prestito potrebbe arrivare il prossimo 20 marzo. Intanto Colombo sta trattando con l’India l’estensione per un altro anno di una linea di credito da un miliardo, in scadenza il 17 marzo. Per ora lo Sri Lanka può permettersi importazioni molto limitate, pagate utilizzando i proventi delle scarse esportazioni, le rimesse in valuta estera degli emigrati e le entrate di un turismo in crisi dopo il lungo stop imposto dalla pandemia di Covid19.
Nell’aprile del 2022 le riserve accessibili di valuta estera dello Sri Lanka hanno toccato il minimo record di 20 milioni di dollari, per risalire ora a circa 700 milioni. Ufficialmente, le riserve totali ammontano a 2,1 miliardi di dollari, che però includono 1,4 miliardi di un accordo di swap valutario con la Banca popolare cinese, attualmente inaccessibili a causa di una serie di condizioni restrittive.

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Il presidente cinese Xi Jinping insieme all’ex presidente srilankese Mahinda Rajapaksa

La popolazione allo stremo
Secondo il governatore della Banca Centrale, Nandalal Weerasinghe, l’economia del paese si starebbe lentamente riprendendo; la rupia si è leggermente rivalutata e l’aumento dei prezzi sembra stia rallentando.
Ma dopo anni di crisi economica e di misure di austerity la popolazione è allo stremo. E comunque a febbraio l’inflazione su base annua ha toccato quota 55%. Secondo le ultime previsioni del South Asia Economic Focus, il Pil dello Sri Lanka dovrebbe diminuire quest’anno del 4,2%, dopo il crollo dell’8% registrato nel 2022.
Ad un anno dalla dichiarazione del default la mancanza di cibo, medicine e carburante continuano a rendere la vita estremamente difficile a milioni di persone.
Un’indagine realizzata da Save the Children denuncia che dal giugno al dicembre del 2022 i nuclei familiari non più in grado di assicurare un approvvigionamento sufficiente di cibo e medicine sono aumentati del 23%. Il 27% delle persone, inoltre, salta i pasti per garantire una quota sufficiente di cibo ai propri figli. L’indagine ha rilevato che il 70% delle famiglie ha perso tutte o la maggior parte delle proprie fonti di reddito, e che più della metà delle famiglie (54%) ora trae il proprio reddito familiare principale da lavori stagionali e irregolari.

La spada di damocle del FMI
Anche la concessione del prestito del FMI, però, potrebbe avere pesanti ripercussioni sulle condizioni di vita e sull’economia del paese provato dalla crisi più grave dal 1948, anno dell’indipendenza.
Per ottemperare alle richieste dell’istituzione, infatti, il governo di Wickremesinghe ha imposto forti aumenti delle tasse, ha cancellato i sussidi finora concessi sull’acquisto di benzina ed elettricità ed ha pianificato la vendita di numerose imprese statali, molte delle quali in perdita a causa della mala gestione e della corruzione. Molte di queste imprese pubbliche privatizzate, ovviamente, finiranno nelle mani di grandi gruppi stranieri.
Lo scorso 16 febbraio, anche in questo caso su “suggerimento” del FMI, il Ceylon Electricity Board ha aumentato i prezzi dell’energia elettrica del 66%, dopo che già lo scorso anno le bollette erano improvvisamente lievitate del 75%. La mossa ha scatenato massicce e trasversali proteste – una petizione contraria ha raccolto in pochi giorni 7 milioni di firme – e ha contribuito a mandare sul lastrico decine di migliaia di famiglie già provate dall’aumento generalizzato dei prezzi causato dalla speculazione e dall’aumento dei prodotti provenienti dall’estero.

Ma il presidente ha più volte ribadito che è intenzionato a reprimere con forza ogni protesta che miri a far deragliare le “riforme” adottate per riportare la stabilità economica in Sri Lanka. – Pagine Esteri

5971326* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Il Parlamento Europeo ha adottato la sua posizione negoziale sul Data Act. Questa normativa mira a stabilire norme UE sulla condivisione dei dati generati dall’uso di prodotti connessi o servizi affini (ad esempio “l’internet delle cose” e le macchine industriali) al fine di garantire un’equità dei contratti di condivisione dei dati. Il testo è stato...


Libera informazione nel mirino del ‘nuovo’ potere


Non crediamo mai abbastanza a ciò in cui non crediamo (M. Conte S. 2004) La stampa, i media, i social costituiscono, almeno dalla storia moderna, l’argine che si frappone tra l’uso del potere politico e l’opinione pubblica. Fin quando il rapporto tra governanti e governati accoglie al proprio interno la condizione ineludibile della critica a mezzo stampa […]

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Austrian DSB: Meta Tracking Tools Illegal


DSB austriaco: gli strumenti di meta-tracciamento sono illegali L'Autorità austriaca per la protezione dei dati (DSB) ha deciso che l'uso del pixel di tracciamento di Facebook viola direttamente il GDPR e la cosiddetta decisione "Schrems II" sui flussi di dati tra FB Pixel


noyb.eu/en/austrian-dsb-meta-t…



Meloni – Schlein: due donne sì, ma agli antipodi


La gran parte della stampa, da quando abbiamo questo nuovo governo diretto dalla signora Giorgia Meloni e da quando è stata eletta segretaria del Partito Democratico la signora Elly Schlein, la gran parte della stampa, dico, ricorda e ribadisce e ripete che tra i due tra le due persone ci sono molti punti in comune. […]

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Twitter Vs Mastodon

@Che succede nel Fediverso?

Ho pubblicato questo grafico su Twitter (fino a 95.000 follower) e Mastodon (con 1/10 di follower).
Ho ricevuto il doppio dei like/boost su Mastodon. Su Twitter ho ricevuto dozzine di brutte risposte da negazionisti del clima e troll. Su Mastodon ho ricevuto domande educate e interessanti.


Post by @Peter Gleick


Twitter vs. Mastodon
I posted this graph on Twitter (to 95,000 followers) & Mastodon (with 1/10th the followers).
I got double the likes/boosts on Mastodon. On Twitter I got dozens of ugly replies from climate deniers & trolls. On Mastodon I got polite & interesting questions.

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in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂

C'è anche da dire che su Twitter conta il numero di interazioni (indipendentemente dal "tipo") mentre su Mastodon o in generale nel fediverso, grazie anche al fatto che si parte "da zero", ogniuno si crea la sua bolla come vuole

Sono sicuro che, da qualche parte, esistano istanze piene di complottisti che se la suonano e se la cantano

in reply to quasimagia

@quasimagia

> Sono sicuro che, da qualche parte, esistano istanze piene di complottisti che se la suonano e se la cantano

Ci sono molte istanze pleroma e peertube (ce n'è anche una italiana) fatte proprio per i complottisti. Al di là del fatto che sono praticamente defederate da tutto il fediverso italiano, è interessante vedere di cosa si "discute": in pratica sembrano una camera degli orrori in cui ognuno URLAAAA la propria verità, non ci si fila l'uno con l'altro e ognuno si spalma con le proprie feci per liberare la propria espressività... Un cazzo di inferno, insomma.

Tutta quella bellissima gente è così, è sempre stata così: non è fatta per socializzare, ma solo per aggregarsi quando trova qualcuno che URLAAAA più forte. I socialproprietari, con i loro algoritmi di aggregazione, aiutano queste persone a ritrovarsi sotto alcuni loro "influencer", anche se il massimo si esprime nei canali Telegram, in cui c'è uno che spara grosse flatulenze e gli altri si rotolano eccitati mentre le annusano.

Il fediverso invece è dispersivo, ostico, ti rende invisibile by default se non interagisci e non ti consente di trovare facilmente le persone che vorresti offendere e molestare: in pratica è disegnato malissimo per questo tipo utenza.



I dispositivi FlipperZero vengono sequestrati dall'agenzia delle telecomunicazioni brasiliana

@Pirati Europei

L'ente regolatore nazionale delle telecomunicazioni Anatelha contrassegnato il Flipper Zero come un dispositivo che serve a scopi illeciti o facilita un crimine o un illecito. Come con altri dispositivi che emettono radiofrequenze, quando il Flipper Zero viene spedito nel Paese, l'ufficio postale nazionale intercetta e reindirizza il dispositivo ad Anatel per la certificazione. Anatel ha quindi deciso di non certificare l'apparecchiatura e di conseguenza sequestrarla, impedendo al Flipper Zero di procedere verso la sua destinazione finale

Il post di EFF continua qui

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Silicon Valley Bank al collasso? Tutta colpa di Donald Trump


Ci sono due punti chiave che le persone dovrebbero riconoscere riguardo alla decisione di garantire tutti i depositi presso la Silicon Valley Bank (SVB): 1) È stato un salvataggio, 2) Donald Trump era il responsabile. Il primo punto è semplice. È stata data una garanzia governativa di grande valore a persone che non l’avevano pagata. […]

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