Abuso d’ufficio, il reato surreale che paralizza le amministrazioni
Il 96 per cento dei procedimenti per il reato di abuso d’ufficio finisce con l’archiviazione degli indagati. Quando c’è un rinvio a giudizio e si va a dibattimento, la percentuale non cambia, tanto che le condanne si contano sulle dita di poche mani: 18 nel 2021, 37 nel 2020. Sono i dati principali che emergono dalla relazione predisposta da Giusi Bartolozzi, vicecapo di gabinetto del Guardasigilli Carlo Nordio, e inviata nei giorni scorsi al presidente della commissione Giustizia della Camera, Ciro Maschio.
Il contenuto del dossier è stato anticipato da alcuni quotidiani, in particolare quelli abituati a mettere alla gogna le persone imputate o semplicemente indagate. Così, i dati comunicati da Via Arenula sono stati interpretati secondo una singolare prospettiva: visto che le condanne per abuso d’ufficio sono poche, tanto vale lasciare in vita il reato così com’è e occuparsi di altro. Nessuna considerazione sul fatto che in questo paese il semplice coinvolgimento di un politico o amministratore pubblico in un’indagine per abuso d’ufficio costituisce già di per sé un danno – spesso irreparabile – in termini di reputazione e di immagine. Quando l’assoluzione o anche solo l’archiviazione arriva, il politico è già stato distrutto dal tradizionale tritacarne mediatico-giudiziario. Insomma, è sufficiente cambiare prospettiva per esaminare i numeri forniti dal ministero arrivando a conclusioni diverse: perché tenere in vita un reato così evanescente? Solo per permettere per qualche mese o anno lo sputtanamento dei malcapitati amministratori pubblici? Sarebbe questo l’obiettivo di una norma penale? “Anche quando il procedimento termina con l’archiviazione, questa può arrivare con molto tempo di ritardo rispetto all’inizio della vicenda giudiziaria. Nel frattempo, però, la notizia dell’indagine è stata sbandierata dalla stampa e l’immagine del sindaco o di chi ne è coinvolto è stata già profondamente danneggiata”, sottolinea al Foglio il deputato Enrico Costa, vicesegretario e responsabile giustizia di Azione. “Abbiamo verificato – aggiunge – che in moltissimi casi le inchieste prendono avvio da esposti da parte delle forze politiche di opposizione. Questo non è un modo di fare politica. Esistono le interrogazioni, le interpellanze e altri strumenti di indirizzo e controllo. Ormai invece l’abuso d’ufficio è diventato un argomento per gettare fango, indipendentemente da come va il processo”.
Costa riporta alcuni casi paradossali in cui si è arrivati a contestare l’abuso d’ufficio: “La nomina di un semplice segretario, l’assunzione di un dipendente, la variante del piano regolatore, la trascrizione di nozze gay, la mancata autorizzazione a usare una piazza per un comizio”. “Ormai tutto è lecito per contestare l’abuso d’ufficio. Poi quando si arriva all’udienza preliminare o al dibattimento, emerge tutta l’infondatezza di queste accuse”, conclude Costa, firmatario di una proposta di legge che prevede la depenalizzazione del reato di abuso d’ufficio.
Anche il ministro Nordio, fino a qualche mese fa, si era mostrato favorevole all’idea di abolire il reato, raccogliendo il malcontento dei sindaci. Negli ultimi tempi, però, la situazione sembra essere cambiata e il Guardasigilli sarebbe orientato a mantenere il reato, ma riformandolo profondamente così da attenuare la “paura della firma” da esso generato. Secondo quanto trapela dai corridoi parlamentari, sarebbe stata la Lega, in particolare con Giulia Bongiorno, a schierarsi contro l’eliminazione tout court del reato, per mantenere l’immagine di partito impegnato nella lotta al malaffare in politica. I numeri forniti dal ministero, tuttavia, dimostrano come il reato di abuso d’ufficio, anziché garantire giustizia, serva ormai soltanto a sputtanare gli amministratori pubblici.
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Etiopia, le forze eritree bloccano il team dell’ Unione Africana e gli aiuti umanitari in Tigray
Le forze eritree ostacolano la visita del team di monitoraggio dell’Unione Africana – UA nel Tigray orientale
Kidu Gebretsadkan, capo della sicurezza della zona orientale del Tigray, in una telefonata con Tigrai TV, ha rivelato che alla missione di monitoraggio, verifica e conformità dell’Unione africana è stato negato l’ingresso nelle città di Zalambesa e Dewhan da parte delle forze eritree ancora presenti e occupanti diverse aree nella regione.
Giovedì 11 maggio 2023 la squadra dell’ UA si è recata in zona per verificare la presenza delle forze eritree nell’area e si è vista negare il passaggio dalle stesse forze ad un posto di blocco a Sobeya ed Engal nei pressi di Agarelokoma, Irob.
Il team di monitoraggio dell’ UA è stato creato in concomitanza della firma dell’ accordo di cessazione ostilità per il Tigray firmato il 2 novembre 2022 : il team è deputato a verificare gli sviluppi del processo di tregua sul campo che è subordinato ai punti vincolanti dell’accordo.
Secondo il capo della sicurezza, al checkpoint il team di monitoraggio e verifica ha anche incontrato membri dell’UNOCHA, che stavano trasportando aiuti per la popolazione di Irob e che allo stesso modo si sono visti negare il passaggio nell’area dalle forze eritree.
Il capo della sicurezza ha anche aggiunto che le forze eritree che operano nell’area stanno ancora commettendo crimini atroci tra cui esecuzione, stupro, distruzione di proprietà pubbliche, sparizione forzata e rapimento.
Anche le istituzioni pubbliche, tra cui 16 scuole e 4 centri sanitari nel distretto di Gulomekeda e 5 scuole e un centro sanitario nella città di Zalambessa, rimangono fuori servizio a causa dell’ambiente ostile nella zona.
FONTE: Tigrai TV
#LaFLEalMassimo – Episodio 92 – Studenti in tenda e Pasti Gratis
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Questa rubrica si apre e si aprirà con un messaggio di sostegno all’Ucraina ingiustamente aggredita dalla Russia finché il conflitto non avrà termine e l’invasore non sarà stato respinto fuori dai confini della nazione invasa
La protesta degli studenti universitari in tenda contro il caro affitti divide i commentatori tra chi esprime solidarietà per le limitazioni imposte al diritto allo studio e chi invece condanna la limitata capacità di fare sacrifici che caratterizzerebbe le nuove generazioni
Questa rubrica senza l’arroganza di chi pensa che il suo giudizio abbia valenza generale si limita molto modestamente a evidenziare che la possibilità di accedere agli studi universitari ha un costo e che la decisione su chi deve pagare il conto ha come sempre natura politica
Tutti concordiamo che in una nazione civile uno studente meritevole non dovrebbe rinunciare alla formazione perché non può permettersele e aiutarlo a portare avanti i propri studi è probabilmente uno degli investimenti migliori che si può fare con il denaro della collettività
Il diavolo rimane nei dettagli: se lo studente meritevole è anche ricco forse non è così intelligente finanziare i suoi studi universitari con le tasse di ha dovuto rinunciare agli studi per lavorare.
La questione è più complessa di quel che sembri ma resta valido un principio semplice: non ci sono esistono pasti gratis e serve sempre un motivo solido per convincere qualcuno a pagare al nostro posto.
Dunque la risposta agli studenti dovrebbe andare nella direzione di un sostegno a chi è bisognoso e meritevole e diverse misure in tal senso esistono già, senza inventarsi diritti all’università sotto casa o alla casa sotto l’università che non è chiaro chi dovrebbe finanziare.
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VIDEO. Gaza. Niente tregua, ucciso un altro comandante militare del Jihad
della redazione
Pagine Esteri, 12 maggio 2023 – Dopo una notte relativamente tranquilla, il fallimento dei negoziati mediati dall’Egitto per il cessate il fuoco tra Israele e il Jihad islami è sfociato in una ripresa dei raid aerei israeliani e dei lanci di razzi da parte dell’organizzazione armata. Questo pomeriggio un attacco aereo israeliano ha ucciso Iyad Al Hasani, un altro comandante militare del Jihad, assieme ad altri due palestinesi. Sale ad almeno 34 il bilancio dei palestinesi uccisi da martedì, giorno di inizio dell’attacco israeliano. Un razzo palestinese ieri ha ucciso un civile israeliano a Rehovot.
Iyad Al Hasani
Questa mattina sono stati sparati razzi anche verso Gerusalemme. La città non è stata raggiunta ma le sirene di allarme sono scattate in vari insediamenti coloniali israeliani nella Cisgiordania occupata, a Beit Shemesh a una ventina di chilometri da Gerusalemme. Itai Blumenthal, corrispondente della tv Kan, sostiene che “Israele fa pressioni sul movimento islamico Hamas, che controlla Gaza, affinché la Jihad fermi il lancio di razzi”.
La tregua intanto si allontana dopo l’interruzione da parte di Israele dei contatti indiretti per una tregua con la Jihad islamica. Secondo i media israeliani, Hamas finora non ha preso parte attiva ai lanci di razzi ma non li ha nemmeno impediti, e starebbe cercando di organizzare proteste in Israele la settimana prossima, quando gli israeliani festeggeranno la ‘Giornata di Gerusalemme’, ovvero l’occupazione della zona araba della città nel 1967. Pagine Esteri
GUARDA IL VIDEO
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LiberaLibri 2023 – “Piccole Donne” di Louisa May Alcott
Nell’ambito del Maggio dei Libri, Giulia Savarese legge un estratto di Piccole Donne di Louisa May Alcott, pubblicato in due volumi nel 1868 e nel 1869.
La lettura è tratta dal capitolo secondo, “Un Natale felice” (Editori riuniti, 1996).
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Alloggiare il problema
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Il Parlamento UE approva: sì al taglio delle spese sociali per finanziare le armi | L'Indipendente
"Tutti i partiti italiani del governo di centrodestra hanno votato a favore della proposta, e lo stesso ha fatto il Partito Democratico (insieme a tutto il partito socialista europeo), ad esclusione di due suoi membri. Hanno invece votato contro i parlamentari europei di Sinistra Italiana e del Movimento 5 Stelle."
Il Presidente Giuseppe Benedetto ospite a Fuori Campo – SkyTg24
Il Presidente della Fondazione Luigi Einaudi Giuseppe Benedetto sarà ospite a Fuori Campo, su SkyTg24, lunedì 15 maggio 2023 a partire dalle ore 14:30
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Il Segretario Generale Andrea Cangini ospite a OMNIBUS – La7
Il Segretario Generale della Fondazione Luigi Einaudi Andrea Cangini sarà ospite a OMNIBUS, su La7, il giorno 14 maggio 2023 a partire dalle ore 08:00.
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Gli USA accusano il Sudafrica di fornire armi a Mosca
di Redazione
Pagine Esteri, 12 maggio 2023 – L’ambasciatore degli Stati Uniti in Sudafrica, Reuben Brigety, ha accusato le autorità di Pretoria di aver fornito armi alla Russia utilizzando una nave cargo “segretamente attraccata” per tre giorni presso una base navale nei pressi di Città del Capo, lo scorso dicembre.
In una dichiarazione rilasciata all’emittente locale “News24”, Brigety ha affermato che gli Stati Uniti sono “sicuri” che le armi siano state caricate sulla nave Lady R – soggetta a sanzioni da parte di Washington – la quale si trovava presso la base navale di Simon’s Town, e trasportate in Russia. Il diplomatico statunitense ha anche aggiunto che una fornitura di armi a Mosca da parte del Sudafrica è una questione “estremamente seria”, mettendo in dubbio la posizione neutrale adottata da Pretoria relativamente al conflitto tra Russia e Ucraina.
«La nave è rimasta attraccata presso la base navale di Simon’s Town dal 6 all’8 dicembre del 2022, ed è stata utilizzata per trasportare armi alla Russia», ha detto Brigety durante una conferenza stampa a Pretoria.
Rispondendo ad un’interrogazione parlamentare, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha dichiarato che il governo del Sudafrica sta indagando sulla vicenda. «Siamo tutti a conoscenza delle notizie circolate e l’intera questione è in fase di esame. Lasciamo che l’indagine porti i suoi risultati. La questione è in fase di esame e col tempo saremo in grado di parlarne» ha detto il capo dello Stato del paese australe.
Secondo quanto riferito da fonti citate dal “Financial Times”, la nave Lady R – di proprietà di Transmorflot, una società che dallo scorso anno è sottoposta a sanzionida parte degli Stati Uniti – avrebbe spento il suo transponder mentre faceva scalo a Città del Capo dopo un viaggio lungo la costa occidentale dell’Africa. Dopo che la nave ha lasciato il porto, il ministero della Difesa sudafricano non ha fornito dettagli su ciò che la nave trasportasse. Nel gennaio scorso il governo di Pretoria ha ufficialmente negato di aver approvato qualsiasi vendita di armi alla Russia da quando Mosca ha iniziato l’invasione dell’Ucraina nel febbraio del 2022.
Il Sudafricaha dichiarato ufficialmente di essere neutrale nel conflitto in Ucraina, tuttavia ha subito numerose critiche da parte occidentale per la sua vicinanza a Mosca, come dimostrerebbero le esercitazioni navali congiunte con Russiae Cina condotte nel febbraio scorso al largo delle sue coste. Ramaphosa ha anche esteso l’invito al presidente russo Vladimir Putin a partecipare al prossimo vertice dei leader dei cosiddetti Brics in programma a Johannesburg ad agosto.
Il Sudafrica, membro della Corte Penale Internazionale, sarebbe legalmente obbligato ad arrestare Putin se si recasse nel Paese, dopo che il presidente russo è stato condannato dall’organismo internazionale per la deportazione di un certo numero di bambini ucraini nella Federazione Russa. Di recente, però, il Congresso nazionale africano (Anc) – movimento al governo in Sudafrica – ha stabilito che il governo debba ritirarsi dalla Corte Penale Internazionale.
La maggior parte dei paesi africani non hanno condannato l’invasione russa dell’Ucraina o comunque non hanno aderito alle sanzioni imposte a Mosca dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Molti stati del continente, inoltre, hanno rafforzato negli ultimi anni le proprie relazioni economiche con Mosca che in cambio implementa un aumento degli investimenti e aumenta indirettamente la propria presenza militare attraverso i continengenti della compagnia privata Wagner. – Pagine Esteri
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Nella Turchia di Erdoğan con una poesia si rischia l’ergastolo
di Eliana Riva – Pagine Esteri, 12 maggio 2023
Il sogno dell’isolano in cella
[…]
La mia isola è boscosa.
Una foresta di amicizia, cameratismo, cavalleria,
copre tutta la mia isola.
Il sole della grazia illumina l’uomo ventiquattro ore al giorno.
Noi isolani non conosciamo il buio.
Sono un isolano, maledetta cella, isolano.
Giusto. Come potresti conoscere la mia isola, cella millenaria, feudale, militarista.
E tu, che ti muovi e ti gonfi fino a sembrare un bue.
Invidioso mostro rana, conosci la mia isola?
Il mondo è oscuro, un’isola così dove il sole non tramonta mai
non esiste sulla terra.
Giusto, nano delle tenebre, povero disgraziato?
E tu, poeta dei pipistrelli, pietoso Cacomcho?
Non esiste un’isola del genere, né nelle poesie, né nelle fiabe.
Un’isola del genere è contro la natura delle cose.
Non è così per te, poeta delle tenebre?
Quello che dici non è contro la natura delle cose, ma contro la natura delle tenebre.
I nani delle tenebre, i vecchi bisbetici, i farabutti…
Saranno esposti nello zoo della Turchia di domani.
[…]
di Mahir Çayan
Per queste parole pubblicate nel suo libro, per questa poesia di Mahir Çayan, rivoluzionario marxista morto nel 1972, una giovane donna turca è stata accusata di finanziare il terrorismo.
Rischia già 2 ergastoli Ayten Öztürk, confermati in due gradi di giudizio, è ai domiciliari in attesa della sentenza definitiva. È da qui, dalla sua casa di Istanbul, che ha scritto il suo libro “Resistenza e vittoria. Nei centri di tortura segreti del fascismo”, in cui racconta del rapimento, dei 6 mesi di tortura, della prigionia, dei processi farsa.
Abbiamo già parlato di lei su Pagine Esteri, siamo andati a trovarla solo 3 mesi fa, abbiamo raccolto la sua testimonianza, ci ha raccontato tutto quello che ha subito e spiegato perché non intende arretrare. Costi quel che costi.
In Turchia si terranno, tra pochissimi giorni, il 14 maggio, le elezioni. Il partito del presidente Erdoğan, l’Akp, per i sondaggi è al momento secondo, a qualche punto in percentuale di distanza dal Partito Popolare della Repubblica di Kılıçdaroğlu.
Tutto potrebbe accadere. Ma la strada che la Turchia ha da percorrere per raggiungere la democrazia resta un cammino lungo che necessita di un cambiamento di direzione netto. Oggi la Turchia di Erdoğan è quella che in una retata a pochi giorni dal voto arresta 126 persone tra giornalisti, avvocati, artisti, politici, membri della sinistra. L’accusa è sempre la stessa per gli oppositori: terrorismo.
Anche Ayten Öztürk è un’oppositrice politica e fa parte di una minoranza, quella degli aleviti, discriminata e perseguitata dal governo del presidente conservatore.
Nel suo libro “Resistenza e Vittoria. Nei centri di tortura segreti del fascismo”, Ayten ha raccontato la sua storia e ha raccolto pensieri e riflessioni sul suo Paese, la Turchia, sulla sua politica interna e su quella estera. È un libro auto-pubblicato di 313 pagine che comincia così:
“Come le favole, inizio con «C’era una volta»… Ma quello che racconto in questo libro non è una favola. È la verità! Sono esistita e scomparsa in un istante. Questa è la storia di una sparizione durata 6 mesi! L’unica cosa che rimane di me è il filmato della telecamera che mi ha ripreso all’aeroporto libanese, ma il governo del Libano, che ha collaborato con quello turco, ha negato tutto. E così hanno permesso mesi di tortura. Chissà con quali accordi mi hanno consegnata alle autorità turche. Tanto da provare poi a cancellare la mia voce, il mio viso, la mia immagine.
Sei mesi di resistenza dopo il rapimento dal Libano, in una prigione segreta di Ankara, al buio, alla sete, al dolore e alla tortura! Sei mesi di vita che ho perso! A sei mesi il bambino inizia a gattonare. Emette i primi suoni. Le sue mani afferrano gli oggetti. In sei mesi volevano rubarmi la vita, la salute, le aspirazioni.
In sei mesi, hanno cercato di strapparmi a me stessa, ai miei valori e alle mie convinzioni con ogni tipo di tortura: l’elettricità, l’elettroshock, le molestie, il tentativo di stupro, l’abbandono in una bara, l’annegamento, le impiccagioni e le percosse. Ogni parte del mio corpo era livida, gonfia e segnata. Ho perso 25 chili. 898 cicatrici si sono aperte sul mio corpo. Sono stata abbandonata in un campo, in uno stato irriconoscibile.
Perché? Perché sono una rivoluzionaria… Perché lotto per un paese libero, indipendente, uguale e giusto… Perché amo la mia patria, il mio popolo, i miei compagni…”
Ayten si trovava in Siria quando è scoppiata la guerra. Tentava di raggiungere la Grecia facendo scalo a Beirut. All’aeroporto è stata trattenuta e poi consegnata ai servizi segreti turchi cha l’hanno portata,occhi e bocca bendati, ad Ankara. Ci ha raccontato le torture subite, lo sciopero della fame, l’alimentazione forzata e poi l’abbandono in un terreno sul quale la polizia ha finto un casuale ritrovamento. Il direttore del carcere in cui è stata portata si è rifiutato di ammetterla: nonostante nelle ultime settimane fosse stata curata e alimentata forzatamente dai suoi aguzzini, le sue condizioni rimanevano gravi. Così è andata in ospedale, poi in prigione e in fine agli arresti domiciliari.
Rischia due ergastoli con accuse insensate ed è solo in attesa del giudizio definitivo, quello della Corte Suprema. In tribunale è comparso un testimone che l’ha accusata di aver assistito al linciaggio di un uomo, un pedofilo con precedenti penali che è stato aggredito dalla folla. Non è morto. Ayten, dice il testimone, sarebbe stata lì, sul marciapiede opposto a quello dove si stavano svolgendo i fatti e non avrebbe fatto nulla per evitare il pestaggio. Forse anzi, ha dichiarato e poi ritirato il testimone, incitava la folla. Lei nega tutto. Il tribunale l’ha così giudicata: colpevole. E poi ha deciso la condanna: ergastolo.
Il testimone, invece, identificato come uno degli artefici del pestaggio, ha goduto, per la sua dichiarazione, di un importante sconto di pena.
Un altro testimone dice di averla vista nella sede di un’associazione per i diritti umani: l’Associazione per i diritti e le libertà è legale in Turchia e la sede è aperta e accessibile a tutti. Il tribunale l’ha giudicata colpevole di tentare di rovesciare il governo e l’ha condannata all’ergastolo.
Due ergastoli, quindi, confermati in due gradi di giudizio. Tutto dopo aver denunciato le torture. Nonostante ciò, ha continuato a parlare e a denunciare l’accanimento giudiziario, le ingiustizie che sta subendo, così come fanno i suoi avvocati.
Nei primi giorni di Maggio la polizia, che irrompe spesso a casa di Ayten, soprattutto all’alba, ufficialmente per perquisizioni e controlli vari, l’ha interrogata. Sul suo libro, sulla poesia di Mahir Çayan, su ciò che ha scritto sulla Palestina. Una fotografia che Ayten ha pubblicato sui social è stata inclusa come prova nel fascicolo di indagine. Tutte le copie del libro sono state confiscate e la vendita è stata vietata.
È stata avviata un’indagine contro Öztürk per “propaganda a favore di un’organizzazione terroristica”. Il poema di Çayan è stato considerato propaganda per il Partito popolare di Liberazione-Fronte della Turchia, l’organizzazione che lo stesso Çayan fondò insieme ad altre persone nel 1970. L’organizzazione è stata messa al bando. Come prova a sostegno dell’accusa è stata usata la fotografia a cui prima accennavamo: Ayten è nella sua casa e sul muro alle sue spalle pendono delle immagini. Tra le altre ci sono le foto di Helin Bölek e Ibrahim Gökçek. Erano due musicisti, membri della band Grup Yorum, il famoso gruppo folk fu accusato di sostenere il terrorismo. Una delle loro canzoni parla di Çayan. Pochi giorni prima di morire Gökçek scriveva:
“Sono sempre stato un musicista, e ora mi ritrovo a essere un terrorista. Mi hanno preso che ero un chitarrista, e hanno usato le mie dichiarazioni facendo di me uno strumento. Eravamo un gruppo che si esibiva davanti a un milione di persone, siamo diventati dei terroristi ricercati”.
Helin Bölek e İbrahim Gökçek sono entrambi morti di sciopero della fame dopo essere stati arrestati, sempre con l’accusa di sostenere il terrorismo.
In 4 anni, dal 2016 al 2020 1,6 milioni di persone sono state accusate di terrorismo in Turchia[1].
Secondo la polizia turca, però, non solo Ayten sosterrebbe il Partito popolare di Liberazione ma lo finanzierebbe pure, attraverso i proventi della vendita del volume.
Un’altra accusa formulata a partire dal suo libro è quella di “insincerità”. O meglio, è accusata di aver incolpato il suo Paese (il suo governo, in realtà) di non essere stato sincero.
Nella sua deposizione nell’ambito dell’indagine condotta dall’Ufficio investigativo sul terrorismo e sulla criminalità organizzata dell’ufficio del procuratore generale di Istanbul, Öztürk è stata interrogata anche in merito alle valutazioni fatte sulla Palestina.
Il rapporto stilato dalla polizia fa riferimento a uno specifico passaggio all’interno del libro, nel quale Ayten esprime un proprio giudizio sui rapporti intercorsi tra la Turchia e il popolo palestinese. Il rapporto dice “[nel libro viene riportato] che il nostro Paese non era sincero quando affermava di difendere il popolo palestinese e che ciò che è avvenuto a Davos è stato un inganno”.
Nella città svizzera di Davos si è tenuto, nel 2009, il World Economic Forum. Erdoğan era presente e il 29 gennaiopartecipò a un confronto con l’allora presidente israeliano Shimon Peres. Fu molto contrariato dalla gestione dell’evento da parte del moderatore che concesse a Peres di parlare per 25 minuti. 12 furono riservati ad Erdoğan. Quando l’incontro doveva essere già terminato, il presidente turco continuò a chiedere al moderatore di dargli “un minuto” (per questo l’evento è ricordato anche come “un minuto”), prese la parola e accusò senza mezzi termini il presidente israeliano di essere un assassino:
“…lei presidente Peres, ha un tono di voce molto forte e io credo sia perché si sente colpevole. Tu uccidi persone, ricordo i bambini che hai ucciso sulla spiaggia, ricordo due ex premier del tuo paese che dissero che si sentivano molto felici quando entravano in Palestina sui carrarmati […]. Lo trovo molto triste perché ci sono molte persone lì che vengono uccise”.
Terminata la dichiarazione andò via, dicendo che non sarebbe più tornato a Davos. Nel suo Paese fu accolto come un eroe, con bandiere turche e palestinesi che sventolavano insieme. Come si può immaginare, anche nei Territori Palestinesi Occupati lo scontro retorico tra i due ebbe una grande eco. Nei palestinesi sparsi per il Medio Oriente albeggiò la speranza che potesse essere, Erdoğan, la figura forte che li avrebbe difesi da Israele e dall’occidente. Anche nei campi profughi, dove a centinaia di migliaia vivono i palestinesi dalla Nakba, dal 1948, germogliò timida questa fiducia. Ayten era in Siria quando avvenne il confronto di Davos e viveva la vita del campo profughi di Yarmouk, uno dei campi più grandi e popolosi del Medio Oriente, che avrebbe avuto un triste destino, occupato dall’ISIS negli anni della guerra siriana. Nel suo libro ricorda così il campo:
“Questo quartiere, abitato da giovani che se ne stanno senza far niente negli internet café e agli angoli delle strade, da uomini adulti disoccupati seduti davanti ai portoni a fumare e bere tè e caffè tutto il giorno e da donne con il velo che passano con le borse della spesa in mano, puzza di povertà dall’inizio alla fine. Tanto che lo paragonavo ai quartieri poveri di Istanbul. Purtroppo, quando questa povera gente dal cuore grande ci ha accolto, era inebriata dagli inganni turchi di «one minute» e «Davos». Pochi sapevano che quelle cose avevano lo scopo di ottenere un effetto positivo sui popoli del Medio Oriente per poter realizzare lì i propri progetti. Essere dalla parte del popolo palestinese significa essere contro Israele sionista e l’arcinemica America. Ma i legami militari, politici e commerciali che la Turchia ha sia con Israele che con gli Stati Uniti sono bastati a svelare questo inganno”.
Queste parole, pensieri e testimonianze, scritte in un libro autoprodotto e stampato nell’agosto del 2022, potrebbero rappresentare l’ultimo tassello di un quadro di sopraffazione e violenza che toglie la voce alla vittima e magnifica il carnefice, ragno dalle mille zampe che si trascina con comodità sulle mura vischiose e flaccide di una giustizia che in Turchia semplicemente non esiste.
“Il vero crimine non è raccontare ma torturare” ci ha detto Ayten. “Non c’è nulla nel libro che possa essere considerato un reato. Ma aspetto ancora che si apra un’indagine sui torturatori”.
[1] swp-berlin.org/en/publication/…
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Il Lazio destina 23 milioni alle cliniche private in un enorme caso di conflitto d’interesse | L'Indipendentr
"Lo stupore di fronte alla logica neoliberista ha già da tempo lasciato spazio alla consapevolezza. Destinare 23 milioni di euro non per migliorare la sanità pubblica ma per potenziare quella privata è il chiaro segnale del trionfo dell’ideologia che da circa quarant’anni domina su scala globale. Non stupiscono nemmeno i giochi di potere che si nascondono alle spalle di questi massicci investimenti ai privati."
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PRIVACY DAILY 114/2023
ConCorrenza
Una buona medicina contro l’aumento dei prezzi è la concorrenza. Se non è facile trovare governanti e legislatori disposti a somministrarla è perché gli interessi al mantenimento delle rendite – a danno dei consumatori – sono presenti e attivi, mentre quelli all’apertura della competizione sono futuri e resi inattivi dal non essere compresi e imbrogliati. Dietro questa faccenda, solo in apparenza tecnicamente economica, c’è la ragione per cui cittadini ed elettori che non hanno chiari i propri interessi finiscono con il favorire quelli altrui.
L’aumento dei prezzi non ha una sola origine. Ha un innesco, ma poi concorrono cose diverse. L’inflazione non erode solo il potere d’acquisto: divora anche i risparmi, la ricchezza delle famiglie. E noi italiani siamo grandiosi produttori di risparmi, sicché abbiamo un interesse materiale a volerla bassa, l’inflazione. Se ad aprile la media dell’eurozona era del 7% e da noi dell’8,3%, significa che ci stiamo impoverendo più velocemente di altri. Peccato che lo Stato sia un grandioso produttore di debiti, sicché vederli erodere dall’inflazione non è che gli dispiaccia poi troppo.
Se la massa monetaria – la quantità di moneta in circolazione – è divenuta eccessiva, l’aumento dei tassi d’interesse è un utile rimedio. Difatti tutte le banche centrali occidentali li hanno alzati e annunciano che saliranno ancora. Ma quello strumento non è magico e non è neanche detto che funzioni, senza contare che rendere più costoso il credito non aiuta di certo la crescita economica. Ma c’è almeno un altro fronte che può essere aggredito: quello della formazione dei prezzi. Abbiamo tutti fatto caso a uno sgradevole dettaglio: quando il prezzo di una materia prima cresce, che sia il gas o il grano, immediatamente si alza il prezzo del prodotto finito, che sia il pieno o una spaghettata; quando però il prezzo della materia prima comincia a scendere (e da mesi scendono sia il gas che il grano) non solo il prezzo del prodotto finito si adegua con calma e senza spingere, ma può capitare che non si adegui affatto o che, come è il caso della pasta, cresca. Su quel fronte lì il tasso d’interesse non sposta un capello.
Da noi esiste un ufficio denominato “Mister prezzi”. Non so quale sia il suo costo complessivo, ma so che sono soldi buttati. Fare il controllore dei prezzi presuppone una conoscenza e una tempestività d’intervento che esclude il controllore possa far altro che inutilmente bofonchiare. La concorrenza al contrario funziona: se un produttore tiene a lungo i prezzi alti si genera la convenienza di un altro produttore a fregargli il mercato praticando un prezzo inferiore; se un negoziante specula sui prezzi, approfittando dell’inflazione per aggiungere un personale sovrappiù arrotondante, il negoziante vicino farà sapere che i suoi prezzi sono più bassi e attirerà parte della clientela del concorrente. E così via. Il presupposto di questo gioco virtuoso è l’informazione, ovvero il conoscere i prezzi del giorno in posti diversi. Nell’era del digitale è tecnicamente facile e a sua volta attività lucrosa. La conseguenza del gioco è un calo dei prezzi, quindi una efficace azione contro l’inflazione. E, del resto, veniamo da molti anni con inflazione bassissima perché la (benedetta) globalizzazione ha ampliato la platea dei competitori, facendo precipitare i prezzi di molti prodotti.
Allora perché non ci sono le manifestazioni di piazza a favore della concorrenza? Perché l’interesse di chi è più forte è quello di evitarla, potendo così pelare i clienti, ma siccome non può dirlo in questi termini inventa trincee che evochino racconti diversi, come quella dei balneari o dei tassisti. Sicché chi approfitta si fa passare per vittima e le vittime è già tanto se non si sentono dei profittatori. Ora arriva il caldo e il prezzo del medesimo ombrellone dell’anno scorso sarà più alto. Buona inflazione e buon impoverimento ai bagnanti che non hanno capito e difeso il loro interesse. Quello alla concorrenza.
L'articolo ConCorrenza proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
La Cina firma un accordo di libero scambio con l’Ecuador
di Redazione
Pagine Esteri, 11 maggio 2023 – L’Ecuador e la Cina hanno firmato un accordo di libero scambio, approfondendo i legami tra il paese andino e la seconda economia più grande del mondo e frustrando l’opposizione degli Stati Uniti alla crescente influenza di Pechino nella regione.
Stando al Ministero dell’Economia di Quito, l’accordo dovrebbe aumentare le esportazioni non petrolifere dell’Ecuador nei prossimi 10 anni dai 3 ai 4 miliardi di dollari. Il trattato consentirà l’accesso preferenziale del 99% delle esportazioni dell’Ecuador verso la Cina, riguardando soprattutto prodotti agricoli e agroindustriali tra cui gamberetti, banane, fiori recisi, cacao e caffè.
La Cina è già il principale partner commerciale non petrolifero dell’Ecuador ed è diventata una fonte di finanziamento sempre più importante per il paese latinoamericano, nel quale ha finanziato numerose infrastrutture. Gli Stati Uniti sono invece il maggiore partner commerciale dell’Ecuador per quanto concerne gli scambi petroliferi.
Washington ha cercato di contrastare la crescente influenza di Pechino in America Latina, dove la Cina ha già firmato accordi di libero scambio con Perù, Cile e Costa Rica.
«Questa è un’opportunità per ampliare la cooperazione» ha affermato il ministro del commercio cinese Wang Wentao, apparso da Pechino in collegamento video. Ma l’accordo, che deve ancora essere ratificato dall’assemblea nazionale dell’Ecuador, rischia di incontrare forti resistenze nel paese. Il presidente Guillermo Lasso affronta il possibile impeachmentda parte del congresso guidato dall’opposizionecon l’accusa di appropriazione indebita. Con un processo previsto per la prossima settimana, il presidente potrebbe non essere più in carica quando l’accordo sarà discusso dal parlamento.
Paradossalmente Lasso è un conservatore filoamericano che ha cercato di approfondire i legami commerciali e di attirare maggiori investimento dagli Stati Uniti, ma il suo ambasciatore a Washington, Ivonne Baki, nel 2021 si era lamentato del fatto che l’amministrazione Biden non prestava sufficiente attenzione all’Ecuador e non capiva l’urgenza di aiutare il suo alleati in America Latina. Negli ultimi mesi, quindi, il suo governo ha cercato un aumento delle relazioni commerciali con Pechino, già molto consistenti.
La Cina è diventata il partner finanziario più importante dell’Ecuador negli ultimi dieci anni, a partire dal mandato dell’ex presidente di sinistra Rafael Correa, che è stato in carica dal 2007 al 2017.
Lasso in questi anni ha anche tentato di ottenere la firma di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti ma con scarsi risultati. – Pagine Esteri
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Intervista a Davide Dormino lo scultore autore dell'opera ‘Anything to Say?’ L’opera d’arte per Assange, Snowden e Manning
Dai più piccoli borghi del Belpaese alla Città Eterna, da Parigi all’Est-Europa, dalla vicina Svizzera fino alla terra dei canguri: queste solo alcune delle tappe che dal 2015 Davide Dormino – artista e scultore romano – ha percorso per esporre nelle maggiori piazze la sua opera più importante. Si chiama Anything to Say? ed è una scultura in bronzo a grandezza naturale raffigurante Julian #Assange, Edward #Snowden e Chelsea #Manning, ciascuno in piedi su una sedia. Al loro lato ce n’è una quarta, questa volta vuota per invitare noi spettatori a salire al fianco di coloro che hanno avuto il coraggio di denunciare le peggiori malefatte dei governi mondiali. Ma quali importanti incontri hanno scaturito l’idea dell’opera? Quanto tempo e sacrifici ci sono voluti per realizzarla?
L'articolo completo
Intervista all’autore di ‘Anything to Say?’ L’opera d’arte per Assange, Snowden e Manning - L'INDIPENDENTE
Dai più piccoli borghi del Belpaese alla Città Eterna, da Parigi all’Est-Europa, dalla vicina Svizzera fino alla terra dei canguri: queste solo alcune delle tappe che dal 2015 Davide Dormino - artista e scultore romano - ha percorso per esporre nelle…Iris Paganessi (Lindipendente.online)
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DeButtare
Si parla dei giovani come fossero soggetti deboli da sostenere. Li si descrive un giorno come assopiti sul divano e il giorno appresso come in fuga verso un indeterminato “estero”. Si generalizza facendo a gara nel cordoglio, nel crucciarsi per l’alloggio non confortevole o rattristarsi nel caso la loro vita sia lacerata dal sopruso di una bocciatura. Li si vuole conservare nei luoghi comuni perché questo è il modo migliore per non essere costretti a cambiamenti per il bene comune. Eppure ci sono dati che urlano la distanza fra la realtà e la sua rappresentazione.
Per qualche giorno si giocherà al piccolo costituzionalista, lasciando immaginare che se ci fosse l’intesa la via sarebbe in discesa. In realtà è lunga e nel suo scorrere si farà a tempo a dimenticarsene molte volte. Ma sarebbe un raggiro lasciar supporre che possa trovarsi nella riscrittura della Carta la chiave per ricondurre ai fatti forze politiche e culturali in fuga dalla realtà.
La disoccupazione italiana è nell’intorno dell’8%, quella giovanile supera il 22%. Tolta la crescente quota di quelli che non studiano e non lavorano – che il politicamente corretto vuole che siano compatiti e inducano tristezza, laddove sarebbe bene scuoterli con indignazione avvertendoli che ciascuno di noi ha un ruolo nella propria vita, che dare la colpa a “la società” o “il sistema” è il modo migliore per perdere senza neanche gareggiare – i giovani cercano lavoro e le aziende cercano lavoratori. Ma gli uni e le altre continuano a cercare. Per forza, avvertono quelli per cui è sempre colpa degli altri: le paghe sono troppo basse. Questo è però l’ultimo dei problemi.
In un Paese in cui lavora il 60,2% della popolazione attiva, dovendo mantenere gli altri il costo del lavoro sarà alto e le paghe basse. Per sempre. Se si aumenta il costo del lavoro si va fuori mercato, se si diminuisce il cuneo fiscale a debito si va fuori di testa. Si deve lavorare più numerosi, più produttivamente e più a lungo. Il che fa bene anche alla morale. L’insulto non sono le paghe basse – che cominciammo tutti con tre soldi – ma la protezione dei garantiti, il mettere in conto ai giovani pensioni che non avranno mai, una scuola poco formativa, un mondo del lavoro poco meritocratico, quindi la prospettiva inaccettabile che la paga resti povera a lungo.
Nonostante questo e i disoccupati, a smentire il luogo comune dei divanati mantenuti c’è il fatto che molti giovani lavorano. Nelle condizioni date. E uno studio dell’Istituto Piepoli avverte che, udite udite, sono anche soddisfatti. Il 55% è preoccupato per l’assenza di lavoro. Ma fra i lavoratori compresi fra 16 e i 26 anni il 38% si dichiara soddisfatto e ammette di avere scoperto un lavoro cui non pensava e in cui si trova bene, il 28% è soddisfatto perché sta facendo il lavoro per cui ha studiato, per il 18% è quello che avrebbe sempre voluto fare, mentre il 16% non è soddisfatto manco per niente. Dentro questo 16% la metà lamenta la paga bassa. Ora prendete giornali e discussione politica e ditemi se le due cose si somigliano. Manco da lontano. C’è un abisso fra chi parla del lavoro e chi lavora veramente.
La scena è occupata dal partito unico della spesa pubblica, secondo cui basta dare di più per diffondere felicità. Che poi tocchi pagare è triste ovvietà occultata. Non mancano i giovani in gamba: manca loro la libertà di crescere, di competere e di vincere. Chi emigra non cerca protezioni ma opportunità. Si deve aprirle loro anche dentro ai confini, il che farebbe crescere la ricchezza di tutti. Non saranno la Repubblica presidenziale o il premierato (ammesso che chi ne parla li distingua) ad aprire il mercato, ma la concorrenza, la preparazione e l’innovazione. Se politica e giornali preferiscono parlare di divani, attendati, sfiduciati è perché capiscono che quelli li aiuteranno a conservarsi. Mentre quanti sono capaci di camminare e correre senza compatimenti potrebbero essere presi dalla sindrome del debuttante, che s’accorge di potere buttare via quel che gli ostruisce la strada.
L'articolo DeButtare proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
SHIREEN ABU AKLEH. CPJ: Israele non ha indagato seriamente sull’uccisione di 20 giornalisti
della redazione
Pagine Esteri, 11 maggio 2023 – Nel giorno del primo anniversario dell’uccisione a Jenin della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, colpita da fuoco israeliano, il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) accusa Israele di non aver indagato adeguatamente sull’uccisione attribuita alle sue forze armate di almeno 20 giornalisti dal 2001, in prevalenza palestinesi. Secondo il CPJ la morte dei giornalisti e le indagini insufficienti costituiscono una “grave minaccia alla libertà di stampa”.
Nel caso di Abu Akleh, colpita alla testa durante un raid israeliano nel campo profughi di Jenin, il rapporto del CPJ rileva che “finora nessuno è stato ritenuto responsabile” della sua morte, aggiungendo che l’uccisione dela giornalista “non è stata un evento isolato”. Il Comitato aggiunge che dal 2001, 18 palestinesi e due giornalisti europei – uno italiano (Raffaele Ciriello) e uno britannico – sono stati uccisi dal fuoco militare israeliano e nessuno è mai stato rinviato a giudizio.
“Il grado con cui Israele indaga sugli omicidi di giornalisti dipende in gran parte dalla pressione esterna. Ci sono state indagini superficiali sulla morte di giornalisti con passaporti stranieri, ma questo è raramente accaduto per i giornalisti palestinesi uccisi. Alla fine, nessuno ha visto alcuna parvenza di giustizia”, denuncia Sherif Mansour, coordinatore del CPJ per il Medio Oriente.
Il portavoce dell’Esercito israeliano ha risposto all’accusa sostenendo che le sue forze non hanno preso di mira di proposito i giornalisti uccisi che erano presenti durante “manifestazioni violente” o “attacchi armati”. Ha aggiunto che queste uccisioni sono state indagate regolarmente.
Dal 2014 nelle forze armate israeliane esisterebbe un sistema di “valutazioni conoscitive dei fatti” sulle morti dei civili che possono trasformarsi in un’indagine penale da parte dell’avvocato generale militare. Ma nei nove anni da quando il sistema è stato istituito, nessun caso riguardante la morte di un giornalista è arrivato a un procedimento penale e nessun soldato è mai stato ritenuto responsabile.
Oltre a quello di Shireen Abu Akleh il rapporto cita in particolare le uccisioni del video giornalista palestinese Yasser Murtaja e del giornalista freelance Ahmed Abu Hussein, entrambi colpiti da cecchini israeliani in incidenti separati mentre coprivano le proteste palestinesi presso la recinzione di Gaza nel 2018. Il sindacato dei giornalisti palestinesi all’epoca accusò Israele di averli presi di mira “deliberatamente”.
L’esercito israeliano ha replicato che i due giornalisti erano “presumibilmente presenti sulla scena di violenti disordini” e “non è stato riscontrato alcun sospetto che giustificherebbe l’apertura di un’indagine penale” nei confronti dei soldati.
Nel caso di Murtaja, il CPJ afferma che l’allora ministro della difesa israeliano Avigdor Liberman passò settimane “cercando di screditare il giornalista” affermando che era un membro dell’ala armata del gruppo militante Hamas, senza presentare alcuna prova.
Nel caso di Abu Hussein, attivisti per i diritti umani presentarono una richiesta di indagine sulla sua morte. Ma l’Esercito israeliano ha chiuso il caso due anni dopo senza interrogare alcun testimone, affermando che non vi è stato alcun intento criminale da parte dei suoi soldati.
Secondo il diritto internazionale, l’uso di armi da fuoco da parte delle forze di sicurezza contro i civili è definito come una misura di ultima istanza e può avvenire solo per fermare una “minaccia imminente di morte o lesioni gravi”. Pagine Esteri
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GAZA-ISRAELE. Terzo giorno di bombardamenti. Aumentano le vittime a Gaza, ucciso un israeliano
Pagine Esteri, 11 maggio 2023. Un israeliano è stato ucciso a Rehovot, nel centro di Israele, da un razzo lanciato dalla Striscia di Gaza che ha colpito l’edificio in cui abitava. Altre quattro persone sono rimaste ferite.
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I bombardamenti israeliani su Gaza continuano per il terzo giorno consecutivo. Centinai di razzi sono stati lanciati dalla Striscia verso Israele, quasi tutti intercettati dai sistemi antimissili.
I morti palestinesi sono al momento 28, tra loro 5 bambini, 4 donne, 5 comandanti del Jihad Islami.
Un razzo ha raggiunto questo pomeriggio un palazzo di Rehovot, a circa 30 chilometri di distanza da Tel Aviv. Al momento si conta un morto ma il bilancio potrebbe salire.
Il Primo Ministro israeliano Netanyahu ha dichiarato che Israele è nel bel mezzo della sua campagna militare, denominata Scudo e Freccia, che ha l’obiettivo di uccidere comandanti e membri del Jihad Islami.
Pare stiano continuando i tentativi dell’Egitto di far giungere le parti ad una tregua. Cosa che, però, appare al momento molto complicata.
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Einaudi: il pensiero e l’azione – “L’uomo” con Paolo Silvestri
Ministero dell'Istruzione
ITS: nell’ambito delle riforme previste dal #PNRR il Ministero dell’Istruzione e del Merito e la Conferenza Stato-Regioni e Province Autonome hanno raggiunto l’intesa sui primi tre decreti attuativi della legge 99/22 sul sistema terziario dell’Istruz…Telegram
SHIREEN ABU AKLEH. CPJ: Israele non ha indagato seriamente sull’uccisione di 20 giornalisti
della redazione
Pagine Esteri, 11 maggio 2023 – Nel giorno del primo anniversario dell’uccisione a Jenin della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, colpita da fuoco israeliano, il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) accusa Israele di non aver indagato adeguatamente sull’uccisione attribuita alle sue forze armate di almeno 20 giornalisti dal 2001, in prevalenza palestinesi. Secondo il CPJ la morte dei giornalisti e le indagini insufficienti costituiscono una “grave minaccia alla libertà di stampa”.
Nel caso di Abu Akleh, colpita alla testa durante un raid israeliano nel campo profughi di Jenin, il rapporto del CPJ rileva che “finora nessuno è stato ritenuto responsabile” della sua morte, aggiungendo che l’uccisione dela giornalista “non è stata un evento isolato”. Il Comitato aggiunge che dal 2001, 18 palestinesi e due giornalisti europei – uno italiano (Raffaele Ciriello) e uno britannico – sono stati uccisi dal fuoco militare israeliano e nessuno è mai stato rinviato a giudizio.
“Il grado con cui Israele indaga sugli omicidi di giornalisti dipende in gran parte dalla pressione esterna. Ci sono state indagini superficiali sulla morte di giornalisti con passaporti stranieri, ma questo è raramente accaduto per i giornalisti palestinesi uccisi. Alla fine, nessuno ha visto alcuna parvenza di giustizia”, denuncia Sherif Mansour, coordinatore del CPJ per il Medio Oriente.
Il portavoce dell’Esercito israeliano ha risposto all’accusa sostenendo che le sue forze non hanno preso di mira di proposito i giornalisti uccisi che erano presenti durante “manifestazioni violente” o “attacchi armati”. Ha aggiunto che queste uccisioni sono state indagate regolarmente.
Dal 2014 nelle forze armate israeliane esisterebbe un sistema di “valutazioni conoscitive dei fatti” sulle morti dei civili che possono trasformarsi in un’indagine penale da parte dell’avvocato generale militare. Ma nei nove anni da quando il sistema è stato istituito, nessun caso riguardante la morte di un giornalista è arrivato a un procedimento penale e nessun soldato è mai stato ritenuto responsabile.
Oltre a quello di Shireen Abu Akleh il rapporto cita in particolare le uccisioni del video giornalista palestinese Yasser Murtaja e del giornalista freelance Ahmed Abu Hussein, entrambi colpiti da cecchini israeliani in incidenti separati mentre coprivano le proteste palestinesi presso la recinzione di Gaza nel 2018. Il sindacato dei giornalisti palestinesi all’epoca accusò Israele di averli presi di mira “deliberatamente”.
L’esercito israeliano ha replicato che i due giornalisti erano “presumibilmente presenti sulla scena di violenti disordini” e “non è stato riscontrato alcun sospetto che giustificherebbe l’apertura di un’indagine penale” nei confronti dei soldati.
Nel caso di Murtaja, il CPJ afferma che l’allora ministro della difesa israeliano Avigdor Liberman passò settimane “cercando di screditare il giornalista” affermando che era un membro dell’ala armata del gruppo militante Hamas, senza presentare alcuna prova.
Nel caso di Abu Hussein, attivisti per i diritti umani presentarono una richiesta di indagine sulla sua morte. Ma l’Esercito israeliano ha chiuso il caso due anni dopo senza interrogare alcun testimone, affermando che non vi è stato alcun intento criminale da parte dei suoi soldati.
Secondo il diritto internazionale, l’uso di armi da fuoco da parte delle forze di sicurezza contro i civili è definito come una misura di ultima istanza e può avvenire solo per fermare una “minaccia imminente di morte o lesioni gravi”. Pagine Esteri
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La mafia è digitale: così la criminalità prolifera sui social network | L'Indipendente
«Le mafie, estremamente abili a trovare metodi all’avanguardia per pubblicizzarsi e comunicare nel mondo digitale, sono sempre più “influencers” della rete. È quanto spiega il nuovo report della Fondazione Magna Grecia, presieduta da Nino Foti, a cura di Marcello Ravveduto (professore di Digital Public History dell’Università di Salerno), in cui sono stati analizzati di 90 GB di video TikTok, due milioni e mezzo di tweet, 20mila commenti a video YouTube e centinaia fra profili e pagine di Facebook e Instagram.»
European Youth Parliament a Ragusa: La Fondazione Einaudi sostiene il Parlamento Europeo Giovani
La Fondazione Luigi Einaudi parteciperà alla Sessione Regionale del Parlamento Europeo Giovani che si terrà a Ragusa dal 12 al 14 maggio.
L’evento avrà come protagonisti circa 70 studenti delle scuole superiori della Regione Siciliana e uno staff internazionale composto da giovani provenienti da tutta Europa. L’obiettivo è promuovere la cultura delle istituzioni come luogo delle soluzioni, dell’Europa come casa unitaria dei nostri valori, del confronto e della diversità come uniche stelle polari della crescita sociale. Si tratterà di un evento nel quale giovanissimi studenti avranno l’opportunità di assumere nuove competenze vestendo pienamente il ruolo di Europarlamentari e simulando una sessione dell’Europarlamento, crescendo così nella convinzione del rispetto delle posizioni altrui e confrontandosi con tematiche importanti della legislazione europea attinenti ad un più generale tema, il potere del progresso e dell’innovazione.
Le 8 tematiche che verranno affrontate a Ragusa2023 nelle altrettante commissioni saranno legate al più generale tema del potere del progresso e dell’innovazione. La Fondazione Einaudi, oltre a sostenere interamente l’iniziativa con il suo patrocinio e ad essere dunque partner dell’evento, parteciperà ai lavori della Commissione nella persona dell’Avv. Gian Marco Bovenzi, project manager della stessa.
L’evento è articolato in tre fasi principali: nel corso del Teambuilding i ragazzi imparano a conoscere i propri compagni di commissione mediante una serie di giochi e di attività interattive che mirano a rompere il ghiaccio e a creare un forte spirito di gruppo; durante il Committee Work ci si confronta e si riflette su una tematica specifica insieme ai propri compagni di commissione, analizzando i problemi e le sfide ad essa legate per poi proporre soluzioni in merito e giungere alla stesura di una risoluzione scritta; ogni commissione presenta poi le proprie proposte nella parte conclusiva della sessione, l‘Assemblea Generale. Dopo una fase di dibattito durante la quale i delegati possono sollevare punti dal posto o tenere discorsi al podio, ogni risoluzione viene messa ai voti.
Per scaricare il pdf del programma clicca sul link: Scheda Progetto Ragusa2023
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PODCAST. Testimonianza da Gaza sotto bombardamenti
Pagine Esteri, 11 maggio 2023 . Non si sono fatti progressi nelle trattative per il cessate il fuoco e nella notte e questa mattina sono proseguiti i raid aerei israeliani contro Gaza.
Un drone killer ha ucciso a Khan Yunis, Ali Ghali, un comandante militare del Jihad assieme ad almeno due palestinesi.
Il totale delle vittime, tutte palestinesi, è salito a 27, tra cui cinque bambini e cinque donne. 76 sono i feriti, alcuni dei quali gravi. Gli oltre 500 razzi sparati dai palestinesi hanno fatto 25 feriti in Israele, quasi tutti leggeri o presi da crisi di panico.
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AI Act: Lead committees to ban facial surveillance in Europe
Today, the two lead committees of the European Parliament voted to fully ban biometric mass surveillance in Europe’s public spaces, namely by using the controversial facial recognition technology. The decision was taken by 57:36:10 votes. The committees also voted to ban Clearview AI-type facial recognition databases, biometric categorisation and emotion recognition in the proposed EU Act on Artificial Intelligence, as long advocated for by Pirate Party MEPs. The committee vote will need to be confirmed by all lawmakers in a plenary vote, and the Parliament will then need to negotiate a compromise with the second chamber representing national governments.
Patrick Breyer, Member of the European Parliament for the German Pirate Party and Greens/EFA leader of the campaign for a ban on biometric mass surveillance, comments:
“Today’s vote is a historic breakthrough for the movement to prevent a China-style dystopian future of biometric mass surveillance in Europe. There is no evidence whatsoever that this error-prone technology ever found a single terrorist. We will continue to fight against facial surveillance technology in our public spaces, because they wrongfully report large numbers of innocent citizens, systematically discriminate against under-represented groups and have a chilling effect on a free and diverse society. In the upcoming plenary vote, monitoring our behavior in public to report us for allegedly ‘abnormal’ activity needs to be added to the list of bans. This mass surveillance technology, which the French government plans to bring to Europe, chills diversity and pushes us into conformity, which is the opposite of the open society we want to live in.“
Marcel Kolaja, Member and Quaestor of the European Parliament and opinion rapporteur for the AI Act in the CULT Committee, comments:
“I believe that prohibiting real-time facial recognition systems, social credit scoring systems, or setting clear rules for technology to monitor students during online tests (e-proctoring) are the main achievements of the negotiated compromise on the AI Act. According to the new rules, artificial intelligence systems will not be able to discriminate against people or violate fundamental human rights. Especially e-proctoring systems became very popular in recent years with the rise of remote learning due to the COVID-19 pandemic. They can evaluate outputs from the camera and microphone on the student’s device, which can lead to mistaken conclusions about a student’s behavior. For example, the system may discriminate against people from poorer backgrounds who live in noisy environments or mistakenly identify a student with a disability or darker skin as cheating. That is why I am happy I was able to achieve including those technologies into the high risks category of AI systems.”
Full text adopted: europarl.europa.eu/meetdocs/20… (bans on p. 128 pp.)
In Cina e in Asia – Xi rilancia la mega smart city di Xiong’an
Xi rilancia la mega smart city di Xiong'an
Parigi: "La Cina può svolgere un ruolo per la pace"
I governi locali cinesi sono attratti dai fondi mediorientali
Cina ed Ecuador firmano accordo di libero scambio
Canberra e Washington finanziano i governi dei paesi dell’Indo-pacifico
A Hong Kong gli avvocati stranieri possono esercitare solo con l’ok del governo
La taiwanese ProLogium aprirà una fabbrica in Francia
L'articolo In Cina e in Asia – Xi rilancia la mega smart city di Xiong’an proviene da China Files.
PRIVACY DAILY 113/2023
Costi e requisiti. Perché Abu Dhabi rinuncia agli elicotteri Airbus
Il governo degli Emirati arabi uniti ha terminato un contratto con Airbus Helicopters per l’acquisto degli elicotteri H225. Ad annunciarlo, in una intervista a Breaking Defense, Muammar Abdulla Abushehab, il capo del settore affari industriali per la Difesa e sicurezza del Tawazun council, l’autorità emiratina per le acquisizioni destinate alle Forze armate e alla polizia di Abu Dhabi. Il contratto, da quasi ottocento milioni di euro, prevedeva l’acquisto di dodici H225 Caracal, elicotteri multiruolo prodotti dal gigante aerospaziale francese Airbus. Il contratto venne siglato nel dicembre del 2021, in occasione della visita del presidente francese. Il Caracal è la versione militare dell’elicottero H225 di Airbus, capace di essere equipaggiato con diversi tipi di sistemi d’arma, da mitragliatori a razzi antinave. Attualmente è in servizio con le forze armate francesi ed è esportato in undici Paesi.
Le difficoltà del contratto
“Abbiamo riscontrato delle difficoltà del proseguire con il contratto per via degli alti costi per il ciclo di vita, le limitazioni nell’adattamento a un design modulare per i futuri requisiti di missione, e le complessità tecniche della proposta”, ha specificato ancora Abushehab. Secondo il funzionario del Tawazun, ente indipendente che lavora affianco al ministero della Difesa emiratino e che ha tra i compiti quello di esplorare le ripercussioni sull’innovazione tecnologica dei programmi, la cancellazione non è un atto politico, ma basato esclusivamente su ragioni tecniche e finanziarie. “L’azienda non aveva la seria motivazione di rispondere alle nostre richieste per soddisfare le pressanti esigenze del governo – ha detto il funzionario emiratino – e il mancato raggiungimento degli obiettivi di valore aggiunto per il Paese è stato un altro fattore che ha portato alla decisione di rescindere il contratto”.
Sviluppo emiratino
Per Abushehab “in questo momento, il nostro obiettivo principale è sviluppare valore all’interno del Paese attraverso tutte le operazioni che intraprendiamo in collaborazione con i nostri partner locali e internazionali”. Infatti, tra gli obiettivi del Tawazun c’è anche quello di assicurarsi che tutti i progetti e le operazioni di acquisizione possano sostenere e generare proprietà intellettuale, ricerca e sviluppo o linee di produzione all’interno dello stato emiratino. I contratti stretti finora dal Consiglio con tutti i principali appaltatori della Difesa, tra cui è presente l’italiana Leonardo, oltre a Raytheon, Boeing, Saab, L3 Harris e altre, prevedono il sostegno a progetti di sviluppo all’interno dei laboratori degli Emirati Arabi Uniti. “Gli appaltatori della difesa possono ora ottenere crediti di compensazione partecipando ad attività economiche che stimolano l’economia locale, accelerano il trasferimento di tecnologia e know-how, offrono opportunità di lavoro e formazione e migliorano la catena di approvvigionamento”, ha infatti concluso Abushehab.
Einaudi: il pensiero e l’azione – Il podcast condotto da Nicola Galati
Einaudi: il pensiero e l’azione è il titolo della nuova serie di podcast condotti da Nicola Galati che si articolerà in sei puntate e che partirà giovedì 11 maggio. Ogni puntata vedrà come ospite una personalità illustre del mondo liberale.
Puntate e ospiti
Giovedi 11 Maggio 2023 ore 18:00
L’UOMO. Con Paolo Silvestri
Giovedi 18 Maggio 2023 ore 18:00
IL GIORNALISTA. Con Andrea Cangini
Giovedi 25 Maggio 2023 ore 18:00
IL LIBERALE. Con Giancristiano Desidei
Giovedì 01 Giugno 2023 ore 18:00
L’EUROPEISTA. Con Lorenzo Infantino
Giovedi 08 Giugno 2023 ore 18:00
IL POLITICO. Con Giuseppe Benedetto
Giovedi 15 Giugno 2023 ore 18:00
L’ECONOMISTA. Con Emma Galli
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John Stuart Mill, le radici del pensiero liberale
Se all’età di tre anni tuo padre ti insegna il Greco antico, a otto comincia col Latino e a dieci sei in grado di leggere gli autori classici senza vocabolario, puoi dire di avere avuto un’infanzia felice? Insomma, mica tanto. E così la pensava anche John Stuart Mill, il grande filosofo ed economista inglese di cui l’8 maggio ricorreva il 150º anniversario della morte avvenuta a 67 anni. Infatti, il padre di John, James Mill, era un filosofo utilitarista seguace di Bentham che aveva preso un po’ troppo alla lettera i canoni di questa scuola di pensiero. Non solo per raggiungere la massima felicità bisognava essere il più colti possibile per essere in grado di prendere decisioni consapevoli, ma il povero John fin da piccolo era costretto assieme alla sorella a sottoporre ogni decisione ad un test di utilità: meglio una camminata al parco o un giro in barca sul laghetto? Analizzate i pro e i contro e scegliete razionalmente. Un incubo.
Tuttavia, nonostante infanzia e adolescenza un po’ particolari ed un esaurimento nervoso a vent’anni, John riuscì a non sbroccare e a diventare un grande studioso ed un pensatore originale. Nel 1848 pubblicò i Principi di Economia politica, un vero e proprio manuale di economia in cui sposava la teoria liberista sulle orme di Adam Smith e David Ricardo, anche se nelle successive edizioni introdusse dei correttivi influenzati dalla lettura dei socialisti utopisti. Le sue opere successive servirono a definire il suo pensiero, prima fra tutte On Liberty del 1859, la più famosa, e poi a seguire Le considerazioni sul governo rappresentativo del 1861, Utilitarismo del1863 e La soggezione delle donne del 1869.
Quel che rende Mill un pensatore ancora oggi letto e studiato è la modernità del suo approccio e l’adattabilità del suo pensiero alle odierne circostanze. Prendiamo l’Utilitarismo: mentre Bentham vedeva la formula «la massima felicità per il maggior numero di persone» come un obiettivo della legislazione da applicare in modo quasi matematico, Mill introdusse una gerarchia dei piaceri. Certo, la felicità è il fine dell’agire umano, ma non si può mettere sullo stesso piano i piaceri morali, estetici ed intellettuali con quelli materiali: «Meglio un Socrate insoddisfatto che un maiale felice».
Questa scala di valori è attualmente uno dei crucci maggiori degli studiosi di analisi economica del diritto che misurano e propugnano l’efficienza delle norme, ma si rendono conto che non sempre è possibile assegnare un valore in dollari alle scelte legislative. E, in fondo, anche coloro i quali cercano indicatori alternativi al Pil si pongono sulla scia del nostro filosofo. John, influenzato dalla moglie Henriette, donna colta con la quale ebbe un’intensa intimità anche intellettuale, fu un teorico del femminismo. L’uguaglianza tra i sessi e il diritto di voto per le donne furono due costanti dei suoi scritti e del suo impegno politico (fu anche deputato liberale per una legislatura).
E – in pieno spirito utilitaristico- avvertiva gli uomini che la parità femminile conveniva in primis a loro visto che la discriminazione privava la società dell’intelligenza e del contributo delle loro signore. Stesso discorso si applicava naturalmente al razzismo e le perorazioni di Mill per l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti furono molteplici. Il suo principio fondamentale «do no harm», non danneggiare gli altri e poi fai quello che vuoi, è oggi spesso richiamato dai promotori dell’eutanasia (Mill ricordava che del proprio corpo ognuno poteva disporre come gli pareva) e del matrimonio gay (due persone dello stesso sesso che si sposano non nuocciono a nessuno).
Le sue preoccupazioni per gli effetti nefasti della democrazia, ossia la prevalenza della mediocrità, il conformismo e lo strapotere delle maggioranze, sono attualmente rese più che mai evidenti in quelle “democrature” come la Turchia e l’Ungheria, dove si svolgono sì le elezioni, ma il governo è autoritario, si soffoca la diversità e prevalgono gli insulsi purché fedeli. I rimedi che aveva in mente Mill, però, non sarebbero stati ben accetti né dagli attuali tribalistiche vogliono dividere la società in tante quote predeterminate in guerra tra loro, né dai populisti di ogni genere. Il filosofo era un elitista meritocratico il quale pensava che lo Stato avesse il dovere di assicurare l’educazione a tutti per l’eguaglianza di opportunità, ma non impartendo l’istruzione direttamente bensì lasciando fiorire la concorrenza tra scuole.
Dopodiché l'”uno vale uno” non sarebbe andato bene nemmeno alle elezioni: chi era analfabeta o non pagava tasse e viveva di sussistenza non avrebbe avuto il diritto di votare per decidere come spendere i soldi dello Stato e chi aveva cultura e capacità intellettuali superiori poteva aspirare a un voto plurimo. Misure estreme, certamente, mail problema di come le liberaldemocrazie riusciranno a sopravvivere con una popolazione disinteressata, sommersa di fake news e che si aspetta di essere mantenuta da qualcun altro è ben presente tra noi.
L'articolo John Stuart Mill, le radici del pensiero liberale proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Alberto V
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