#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta la Scuola dell’infanzia e primaria “Elsa Morante” di Marino, in provincia di Roma!
Grazie al #PNRR, il vecchio edificio lascerà il posto a una nuova costruzione più moderna e funzionale, che punterà soprat…
Ministero dell'Istruzione
#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta la Scuola dell’infanzia e primaria “Elsa Morante” di Marino, in provincia di Roma! Grazie al #PNRR, il vecchio edificio lascerà il posto a una nuova costruzione più moderna e funzionale, che punterà soprat…Telegram
Passi avanti sul caccia del futuro. Crosetto incontra Wallace e Suzuki a Roma
Oggi pomeriggio a Palazzo Aeronautica a Roma si è tenuto un incontro Italia-Regno Unito-Giappone sul Global combat air programme (Gcap), il progetto che vede i tre Paesi collaborare per la realizzazione del velivolo da combattimento del futuro destinato a sostituire i circa 90 caccia F-2 giapponesi e gli oltre 200 Eurofighter britannici e italiani. Presenti per l’Italia Guido Crosetto, ministro della Difesa, per il Regno Unito Ben Wallace, segretario alla Difesa, e per il Giappone Atsuo Suzuki, viceministro della Difesa. L’incontro si è svolto in un clima positivo, spiegano fonti di Formiche.net. Ciò ha permesso di compiere passi in avanti verso la costituzione del consorzio alla base del Gcap.
Una collaborazione globale
Come affermato dal ministro Crosetto a margine dell’incontro, “l’Italia sta fornendo un significativo contributo tecnologico e industriale al settore aerospaziale globale”, aggiungendo come il Gcap sia “un’iniziativa di successo che racchiuderà le migliori competenze nel panorama aerospaziale globale, per cui l’Italia sta fornendo un significativo contributo tecnologico e industriale”. Il vertice segue quello avvenuto a marzo in Giappone, quando Crosetto e Wallace incontrarono il ministro Yasukazu Hamada per discutere i prossimi passi verso lo sviluppo congiunto del Gcap, a margine del Dsei Japan, la principale manifestazione dedicata al settore della Difesa integrato giapponese. Una nuova riunione a tre potrebbe tenersi entro l’autunno. E, se la rotazione venisse rispettata, si dovrebbe tenere su suolo britannico, con la presenza del viceministro Suzuki.
Il Gcap
Il progetto del Global combat air programme prevede lo sviluppo di un sistema di combattimento aereo integrato, nel quale la piattaforma principale, l’aereo più propriamente inteso, provvisto di pilota umano, è al centro di una rete di velivoli a pilotaggio remoto con ruoli e compiti diversi, dalla ricognizione, al sostegno al combattimento, controllati dal nodo centrale e inseriti in un ecosistema capace di moltiplicare l’efficacia del sistema stesso. L’intero pacchetto capacitivo è poi inserito all’intero nella dimensione all-domain, in grado cioè di comunicare efficacemente e in tempo reale con gli altri dispositivi militari di terra, mare, aria, spazio e cyber. Questa integrazione consentirà al Tempest di essere fin dalla sua concezione progettato per coordinarsi con tutti gli altri assetti militari schierabili, consentendo ai decisori di possedere un’immagine completa e costantemente aggiornata dell’area di operazioni, con un effetto moltiplicatore delle capacità di analisi dello scenario e sulle opzioni decisionali in risposta al mutare degli eventi.
Il programma congiunto
L’avvio del programma risale a dicembre del 2022, quando i governi di Roma, Londra e Tokyo hanno concordato di sviluppare insieme una piattaforma di combattimento aerea di nuova generazione entro il 2035. Nella nota comune, i capi del governo dei tre Paesi sottolinearono in particolare il rispettivo impegno a sostenere l’ordine internazionale libero e aperto basato sulle regole, a difesa della democrazia, per cui è necessario istituire “forti partenariati di difesa e di sicurezza, sostenuti e rafforzati da una capacità di deterrenza credibile”. Grazie al progetto, Roma, Londra e Tokyo puntano ad accelerare le proprie capacità militari avanzate e il vantaggio tecnologico. Ad aprile, tra l’altro, l’Italia ha lanciato la Gcap acceleration initiative per accelerare lo sviluppo di tecnologie relative al Global combat air programme. Destinata a aziende e centri di ricerca, lo scopo dell’iniziativa è raccogliere le migliori proposte volte per la piattaforma Gcap per lavorare insieme a soluzioni innovative che possano essere applicate nel processo di maturazione tecnologica.
I pericoli di un salario minimo in chiave etica
Sembra sia stato soprattutto Carlo Calenda, nei giorni scorsi, a infervorarsi per l’idea di proporre una legge sul salario minimo legale che abbia il sostegno di tutti i partiti di opposizione. E si capisce bene perché: quella del salario minimo legale è, finora, l’unica proposta che potrebbe coalizzare non solo Pd e Cinque Stelle, ma anche i partiti del Terzo Polo (Azione e Italia viva).
È una buona idea? Per certi versi è un’idea sacrosanta. Secondo una mia stima di pochi anni fa, in Italia esiste un’infrastruttura para-schiavistica di circa 3 milioni e mezzo di persone che lavorano in condizioni di precarietà, insicurezza e bassi salari non degne di un Paese civile (il caso limite sono gli immigrati addetti alla raccolta di frutta e ortaggi).
Altre stime suggeriscono che, a seconda del livello a cui verrebbe fissato il minimo legale, i beneficiari di aumenti salariali potrebbero oscillare nel Paese fra uno e 3 milioni di lavoratori.
C’è un problema, tuttavia. In Italia i salari effettivi variano enormemente in funzione del settore produttivo, del costo della vita, della produttività. Inoltre, una parte delle micro-attività che impiegano manodopera male o malissimo pagata hanno margini estremamente ridotti, e non sarebbero in grado di sostenere gli aumenti salariali richiesti.
In concreto, significa che la fissazione di un salario minimo legale a 9 o 10 euro lordi, uniforme su tutto il territorio nazionale, avrebbe effetti a loro volta tutt’altro che uniformi.
Nei contesti ad alta produttività porterebbe a miglioramenti retributivi sostanziali, in quelli a bassa produttività condurrebbe alla chiusura di attività che operano al limite della redditività (sempre, beninteso, che governo e sindacati si impegnino a far rispettare la legge, anziché continuare a chiudere ipocritamente un occhio come si è sempre fatto in passato). In concreto, vorrebbe dire: salari più alti in molte realtà del centro-nord, più disoccupati in molte aree del sud.
Se i meccanismi fondamentali sono questi, forse sarebbe il caso di considerare l’ipotesi di un salario minimo legale differenziato per settore e zona del Paese, in modo da non penalizzare troppo le attività con la produttività più bassa.
Saprà l’opposizione di sinistra muoversi in questa direzione? È improbabile, vista la tendenza di Pd e Cinque Stelle ad affrontare tutte le questioni in termini etici e di principio, anziché in termini pragmatici e realistici. E non è questione di Schlein o non-Schlein, perché quella tendenza era già in atto in epoca pre-Schlein, e non su temi secondari. Pensiamo all’approccio ideologico in materia di immigrazione e accoglienza, o alla disastrosa gestione del Ddl Zan sull’omotransfobia, quando per preservare la purezza politica venne rifiutata l’offerta della destra di approvare il disegno di legge Scalfarotto (un’ottima legge, priva dei difetti del Ddl Zan).
È verosimile che tutta la discussione che partirà sui contenuti esatti della proposta di salario minimo legale verterà sul suo livello, con i riformisti a tirare per un livello ragionevole, e i massimalisti per un livello irragionevole ma auto-gratificante. Il risultato sarà che il governo
avrà gioco facile a ignorare le proposte dell’opposizione, mostrandone l’irrealismo e gli effetti perversi.
Eppure dovrebbe essere chiaro che è il modo peggiore per provare a costruire un campo largo. Per riconquistare la fiducia degli italiani, ai progressisti serve mostrarsi in grado di fare proposte così sensate che risulti difficile rifiutarle. E incalzare il governo a farle rispettare.
Proporre un salario minimo elevato, uguale in tutta Italia, e quindi impossibile da rispettare per molte imprese, può scaldare il cuore dei militanti più ideologizzati o moralisti. Ma difficilmente può convincere la maggioranza degli italiani.
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#LaFLEalMassimo – Episodio 99 – Wagner, l’inizio della fine
Da quanto la Russia ha invaso l’Ucraina, questa rubrica si è schierata dalla parte del popolo che è stato vittima di questa ingiusta aggressione. Purtroppo sui media italiani continuano a circolare notizie false, fuorvianti e di vera e propria propaganda a supporto del regime di Putin.
Per questo motivo è fondamentale sottolineare come la vicenda dell’insurrezione dei mercenari della Wagner costituisca un importante segnale di debolezza del regime russo di cui gli italiani hanno diritto di essere informati.
Il 24 giugno, una banda di mercenari armati ha attraversato il Paese senza quasi incontrare resistenza, percorrendo circa 750 km in un solo giorno, prendendo il controllo di due grandi città e arrivando a 200 km da Mosca prima di arrestarsi.
Il dittatore che ha fallito nel riformare la Russia mentre l’epoca dei combustibili fossili volge al termine, che ha fallito come comandante militare a 16 dall’inizio di una operazione speciale che sarebbe dovuta durare pochi giorni, oggi si dimostra incapace di garantire la sicurezza dello Stato. Putin sembra intenzionato a ristabilire la propria autorità con repressioni e purghe, ma si tratta dell’ennesimo tentativo di prepotenza da parte di un comandante sempre più debole e possiamo augurarci che il fallimento definitivo che porterà alla sua deposizione non sia lontano.
Dunque è bene che gli italiani siano informati e riflettano su questo, invece ascoltare i serpenti incantatori che vagheggiano di compromessi inaccettabili e soluzioni irrealizzabili. La controffensiva ucraina avanza e Putin è sempre più debole come testimoniato dall’ammutinamento della Wagner
Slava Ucraini
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Organismo Onu cercherà dispersi guerra in Siria. Damasco: “non siamo stati consultati”
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della redazione
Pagine Esteri, 30 giugno 2023 – Un organismo indipendente ricercherà le 155 mila persone disperse a causa del conflitto cominciato in Siria nel 2011. Lo ha approvato ieri – con il voto favorevole di 83 Paesi, contrari 11 tra cui la Siria, l’Iran, la Russia e la Cina, e 62 astensioni – l’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni unite. La decisione è giunta a seguito delle richieste avanzate dalle famiglie dei dispersi e dai centri per i diritti umani.
L’organismo indipendente lavorerà in coordinamento con tutte le parti coinvolte nel conflitto in Siria e oltre ad occuparsi delle ricerche, organizzerà anche il sostegno alle famiglie dei dispersi.
Bassam Sabbagh, il rappresentante di Damasco alle Nazioni unite, ha descritto la decisione, presa senza consultare in anticipo Damasco, come “un meccanismo bizzarro e misterioso, senza una precisa definizione del concetto di ‘persone disperse’ e senza limiti di tempo né di spazio”. Secondo Sabbagh il passo dell’Onu “è una ingerenza negli affari interni della Siria e fornisce ulteriori indizi dell’approccio ostile adottato da alcuni Stati occidentali”. Pagine Esteri
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Defence for Children firma a Nisida il protocollo per la tutela dei minori vittime di reato
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dal Comunicato Stampa di Defence for Children Italia.
Pagine Esteri, 30 giugno 2023. Ieri, giovedì 29 giugno, al Centro Europeo di Studi Nisida, è stato firmato ufficialmente il Protocollo operativo di orientamento territoriale per la presa in carico e la tutela di minorenni vittime di reato nel territorio di Napoli. L’incontro ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli, e Mario Morcone, assessore alla Sicurezza della Regione Campania.
Si tratta di un’iniziativa senza precedenti a livello nazionale, che arriva al termine di un lungo percorso di lavoro intrapreso dall’associazione Defence for Children International Italia, insieme al Ministero della Giustizia e alla Procura presso il Tribunale per i Minorenni di Napoli, per lo sviluppo di una rete multidisciplinare e interagenzia per la protezione dei minorenni vittime di reato. Al termine di un dettagliato lavoro di mappatura del territorio e la costituzione di un gruppo interistituzionale, che ha visto la partecipazione di tutte le istituzioni competenti, si è arrivati alla realizzazione del Protocollo, il cui scopo è quello di ottimizzare gli sforzi e le risorse disponibili sul territorio.
Grazie a questa firma, infatti, tutti i soggetti coinvolti avranno a disposizione da oggi un “dispositivo” integrativo delle procedure già esistenti per la presa in carico e la protezione dei minorenni vittime di reato. In particolare, il Protocollo intende disciplinare e regolare la cooperazione tra i diversi attori, stabilendo le modalità di trasmissione delle informazioni rilevanti e il loroo concreto utilizzo, nei limiti e nel rispetto del segreto istruttorio e delle esigenze connesse all’attività investigativa.
Per la prima volta in Italia ci si pone l’obiettivo di predisporre tempestive misure di protezione del minorenne vittima diretta o indiretta di reato attraverso una rete di coordinamento tra uffici giudiziari, forze dell’ordine, USSM, ASL, Ufficio Welfare del Comune di Napoli, ognuno per le rispettive competenze, al fine di evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria e possibili ritorsioni.
Defence for Children International Italia si è avvalsa della collaborazione del Dipartimento di Giustizia e di Comunità e del Centro di Giustizia della Regione Campania, che hanno lavorato spalla a spalla con diversi attori istituzionali, presenti questa mattina a Nisida: oltre alla Procura, Regione, Comune, la ASL NA1, la Questura di Napoli e il Comando provinciale dei Carabinieri di Napoli.
LA LEGISLAZIONE IN MATERIA. Negli ultimi anni, Defence for Children ha lavorato in Italia per promuovere un approccio multidisciplinare e inter-agenzia tra gli stakeholder pubblici e privati quale misura chiave per prevenire e salvaguardare i minorenni vittime di violenza e abuso, evidenziando la necessità di una riforma del sistema in linea con Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (UN CRC), ma anche ad altri standard regionali, in particolare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote), nonché la Direttiva 2011/92/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile e la Direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
“UN’ESPERIENZA PIONIERISTICA”. “Finalmente c’è stata una risposta sinergica da parte delle istituzioni che può consentire ai minorenni vittime di reato di voltare pagina” dichiara il direttore di Defence for Children Italia, Pippo Costella. “È stata un’esperienza pionieristica, quella di Napoli, che ci auguriamo possa essere replicata in altri territori italiani per garantire sempre il superiore interesse della persona minorenne”.
IL MODELLO ISLANDESE. In questo contesto, il modello islandese Barnahus è stato riconosciuto in Europa come esempio di buona pratica da esportare in altri contesti. Ed è proprio sulla base di questo modello che Defence for Children, in partnership con il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia italiano, hanno intrapreso un processo di ricerca-azione volto a rafforzare le capacità e le competenze dei professionisti e degli operatori, analizzando i punti di forza e le opportunità del sistema di protezione e di giustizia e identificando le aree in cui è necessaria una riforma.
Il Protocollo firmato oggi rappresenta un primo, importante, passo per colmare le lacune giuridiche e legislative nell’ambito dei sistemi di assistenza all’infanzia. E non è un caso che avvenga proprio a Napoli, dove di recente ha visto la creazione di uno spazio a misura di minorenne presso la Questura, progettato per mettere a proprio agio le giovani vittime nel delicato momento della denuncia.
I FIRMATARI. Ecco, nel dettaglio, tutti i soggetti che hanno firmato questa mattina a Nisida il Protocollo operativo di orientamento territoriale per la presa in carico e la tutela di minorenni vittime di reato nel territorio di Napoli:
la Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Napoli;
la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli;
il Centro di Giustizia Minorile della Campania;
la Regione Campania;
il Comune di Napoli;
la ASL NA 1;
la Questura di Napoli;
Il Comando Provinciale dei Carabinieri di Napoli;
Defence for Children International Italia Odv, in qualità di assistenza tecnica e formativa.
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Calligram - Position momentum
Torna il collettivo internazionale black metal Calligram dopo l'ottimo "The Eye Is The First Circle" del 2020. Il gruppo che vede Matteo Rizzardo alla voce e scrittore dei testi, è una delle realtà più belle della scena black metal contaminata da altri generi come il d-beat e qualcosa di hardcore e sludge. @Musica Agorà
European Digital Identity: Permanent personal identification number is off the table!
Representatives of the EU Parliament and the Council of the European Union reached a political agreement on the core elements of a new framework for a European digital identity (eID) in the early hours of yesterday morning.
The requirement that member states assign a lifelong unique personal identification number to each citizen, which had been opposed by Pirate Party MEPs in several committees, was completely removed from the draft. The Pirates were also able to prevent the mandatory acceptance of state browser certificates, but rejections due to insufficient security will need to be justified. The details of the agreements will now be negotiated in further technical meetings and will probably be finalised in another trialogue under the Spanish Presidency in autumn.
Pirate Party MEP Patrick Breyer, who negotiated the bill in the co-advisory Committee on Civil Liberties (LIBE), comments:
“We successfully prevented the allocation of a unique, permanent personal identification number that could have been used to comprehensively record and monitor our lives. Instead of a uniform personal identification number, different user numbers can be assigned from one service to another in the future. This must now be be made clear in the wording of the legislation.
Nevertheless, there is a great danger that the planned ‘digital identity’ will gradually displace the anonymity on the internet that protects us from profiling and identity theft. We have not been able to enforce the right to use services without electronic identification or authentication. Those who register with social media via their eID wallet out of convenience will therefore sacrifice their anonymity.
Many details are still unresolved. In the further negotiations, we Pirates will push for the sensitive data of citizens in their digital wallets to be stored exclusively in a decentralised manner on their own devices – unless they opt for centralised storage. Decentralised data storage protects our data from mass hacks and identity theft. We also demand guarantees that non-users of the theoretically voluntary eID system must not suffer any disadvantages and can use alternative identification or authentication methods.“
Pirate Party MEP Mikuláš Peksa, who sits at the negotiating table for the Committee on Industry, Research, and Energy (ITRE), comments:
“Yesterday, we made a significant shift in the design of eIDAS 2.0, which will be privacy-conscious and provide users with a user-friendly electronic wallet for all kinds of IDs and certifications. We already know that e-signatures will be free for individuals, and in the draft, we have finally eliminated unique persistent identifiers that could facilitate snooping. However, there is still a lot of work to be done. Nonetheless, this stands as a nice victory of reason, for the time being.”
Background: In the course of the so-called EIDAS reform, the planned “European Digital Identity” is to give EU citizens access to public and private digital services and enable online payments. The Federal Ministry of the Interior mentions the opening of a bank account, the registration of SIM cards, the digital storage of driving licences and the storage of digital prescriptions, but also the identification for mail or social media accounts.
FeroceMente
Non va. Non si tratta (soltanto) di differenti opinioni. Non va proprio l’impostazione, non va provare ad aggredire quando tutti sanno come va a finire. Non va perché a forza di dare per scontato come va a finire – occupando il tempo a sostenere il contrario – c’è anche il rischio che finisca male. E non finirebbe male per questa o quella persona, forza o schieramento politico, ma per l’Italia. E no, non va.
Si dà per scontato che la riforma del Meccanismo europeo di stabilità sarà ratificata. Intanto perché è ragionevole e non pone alcun problema. Poi perché 26 Paesi su 27 lo hanno già fatto. Le forze politiche che oggi governano hanno utilizzato la bandiera del Mes per sventolare il loro antieuropeismo, mentre il partito di governo che si dice europeista (Forza Italia) è oggi preso da una sorta d’invidia del passato e finisce con il rendere più difficile anziché più facile l’inversione a U. Risultato: si rinvia.
Fosse solo il rinvio sarebbe disdicevole, ma non distruttivo. Il rischio grosso consiste nell’usare il Mes come argomento d’attacco nel momento in cui è aperta la discussione sulla riforma del Patto di stabilità. Il rischio è credere che si conta di più se si strilla di più. È un rischio grosso, perché attizza le tifoserie ma marginalizza e depotenzia l’Italia. Se poi ci si mette anche la critica al rialzo dei tassi d’interesse – stra annunciato e scontato – si calca un terreno minato.
Il Mes non è oggetto di scambio, proprio perché siamo soli. Totalmente soli. Provare a usarlo suona come ricatto. E da una posizione di debolezza non è un’idea brillante. In questo modo non si rafforzano, ma si indeboliscono le richieste sul Patto di stabilità. Come se non bastasse, quelle richieste – come al solito, come da vent’anni a questa parte – si concentrano nel chiedere maggiore larghezza di deficit pubblico (con il trucco della diversa contabilizzazione di alcune spese), ovvero scelte che sono inflattive nel mentre non soltanto l’intero mondo con economie di mercato prova a frenare l’inflazione, ma l’Italia è uno dei Paesi più esposti al rischio d’incendio.
L’inflazione sega i risparmi e pialla i guadagni. Dopo anni di tassi molto bassi e facilitazioni monetarie la Banca centrale europea interpretò male il riaffacciarsi dell’inflazione, vedendola come effetto esclusivo del rialzo delle materie prime. Quindi esterna. Difatti, mentre la Banca centrale Usa alzava i tassi, da noi restavano fermi. Per questo ritardo la Bce è stata criticata. I critici odierni dei rialzi hanno scoperto in ritardo quell’originaria sottovalutazione e provano a riproporla come una genialata. Invece i prezzi esterni sono calati e in parte crollati, mentre l’inflazione resta troppo alta, segno che è alimentata anche dall’interno.
Si possono avere idee e proposte diverse, sul come far fronte. È evidente che non basterà mai usare esclusivamente il rialzo dei tassi. Ma se la critica al rialzo dei tassi viene da chi è seduto su un mostruoso debito pubblico, per giunta negando l’esistenza stessa di strumenti di soccorso in caso di crisi, è come se uno seduto su un cumulo di tritolo minacciasse di buttare la cicca accesa: gli altri si scansano, ma quello salta.
L’interesse dell’Italia è: a. puntare a che i rialzi non raffreddino la positiva crescita, il che comporta l’uso tempestivo e sapiente dei fondi Ngeu; b. approfittare di quei soldi e delle connesse riforme per favorire la concorrenza, utilissima per far scendere i prezzi e stroncare le speculazioni; c. negoziare un Patto di stabilità che non comporti vincoli automatici senza portare la discrezionalità delle scelte fuori dai confini nazionali. Affrontare ferocemente questi temi finisce con il fornire la ferocia ai tifosi e a giocarsi la mente del governare e guardare al futuro. Su a. c’è nebbia fitta; su b. siamo fermi o peggio; su c. la si butta in caciara.
Finché c’è guerra in Ucraina il governo Meloni è solido perché positivo, data l’opposizione allo sbando e gli alleati sbandati al Cremlino. Ma guai a credere che ciò renda tutto utilizzabile, perché c’è sempre un poi.
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Drogati
Una discussione inutile, drogata in sé. Proprio per questo è una discussione utile a capire il modo insensato con cui i problemi si sventolano anziché affrontarli. L’incapacità di stare alla realtà si traduce in abilità nell’agitare sentimenti. Tipo: proibizionismo e antiproibizionismo. Il primo inficiato da falso moralismo, il secondo da falso libertarismo.
Toccante l’impeto con cui il deputato Riccardo Magi ha rimproverato a Meloni il fallimento del proibizionismo, così come Giorgia Meloni rimproverava a Magi le rovine del permissivismo. Magi ha fatto un gran piacere a Meloni, trasformando un’oziosa ritualità della ricorrenza (basta con queste “giornate”) in un’occasione per marcare ancora il territorio elettorale. Facciano, assieme, un favore a sé stessi e leggano la nostra legislazione in materia, nella quale convivono il permissivismo e il proibizionismo. Drogarsi è lecito, la dose personale si può ben averla e usarla, è già legalizzata, mentre procurarsi la droga e procurarla è illecito. In una legislazione ipocrita e contenente gli opposti, partitanti pronti a tutto per la visibilità si contestano a vicenda il fallimento della metà intestata all’altro. Insensato.
Ma insensato è anche l’approccio. Posto che lo spinello è mito da boomer e che i ragazzi di oggi sono assediati da droghe ricreative devastanti, pasticche amfetaminiche e cannabis con contenuto spropositato di Thc (il principio attivo), roba che frulla il cervello, facciamo finta che si stia parlando seriamente e vediamo perché il gioco “legalizzare o proibire” non ha senso, così giocato. Magi brandisce un cartello: «Cannabis, se non ci pensa lo Stato ci pensa la mafia». Tesi: se si legalizzasse si sottrarrebbe mercato alla mafia. Balla, perché nessuno sano di mente (spero) immagina di dare spinelli ai tredicenni o di fornirne in quantità industriali o di fornire anche cocaina, eroina, amfetamine et similia. Quindi: date il bentornato alla mafia. Se lo scopo fosse quello di debellare le mafie (che si dedicherebbero ad altro), allora la sola ricetta sensata sarebbe fornire tutto a tutti. Ma una coglioneria simile non l’ho mai sentita dire da nessuno.
D’altra parte, del resto, non conosco persone che vogliano far scontare il carcere ai minorenni, ma manco ai maggiorenni sol perché si sono drogati. Vincenzo Muccioli creò San Patrignano per NON mandarli in carcere e a quello sottrarli. Vabbè, dicono, ma puniamo severissimamente lo spaccio. Chi credete di trovare a spacciare, il mafioso? Ci trovate un relitto umano che si droga a sua volta (così potrà dire che è per uso personale). La lancia punitiva è ciondoloni, se priva del sostegno al recupero. Perché disintossicarsi non è stare senza droga, ma vivere senza sentirne il bisogno.
Se in una legislazione ci metti il pietismo e rinunci all’interventismo educativo il risultato è la sceneggiata: «Hai fallito tu!», «No, hai fallito tu!». Passiamo ai film e agli “esempi”. Ci sono fior di film che descrivono i drogati come rottami umani, ragazzi e ragazze in vendita per potere accelerare la propria fine. Ci sono, eccome. Ma ci sono anche quelli con il manager che sniffa e domina, inala e scopa, inghiotte e gode. La tragedia è l’assenza di realtà: non tutti i drogati sono relitti, ci vuole (poco) tempo per arrivarci, ma tutti quelli che sentono di dominarla ne saranno dominati. Dipende a quale stadio li incontri. Tutti i persi nella droga sono partiti dall’idea di sapersi gestire. Tutti non ci sono riusciti.
Allora i temi pubblici sono due: 1. sballarsi, con qualsiasi cosa ci si sballi, non è mai libertà: è il sintomo di un male e la premessa della perdita della libertà, chi ama la libertà odia lo sballo; 2. reprimere ha senso se l’altra mano soccorre, ma per reprimere seriamente si deve proibire, non acconsentire a seconda dei casi.
Se non si ha capacità e determinazione per scegliere, si resta in bilico. Ecco perché quel battibecco inutile è esemplare: drogata non è mica soltanto la discussione sulla droga.
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In Cina e Asia – Cina: obiettivi sull’energia eolica e solare raggiungibili con 5 anni di anticipo
Cina: obiettivi sull'energia eolica e solare raggiungibili con 5 anni di anticipo
Cina: prima legge sul possesso e l'utilizzo dei droni
Corea del Sud: nominato il (controverso) nuovo ministro dell'Unificazione
Cambogia, al via la guerra tra il premier Hun Sen e Meta
Turkmenistan, inaugurata la capitale dedicata all'ex leader Kurbanguly Berdymukhamedov
Il Myanmar avvia accordi con la Russia per l'integrazione dei sistemi bancari
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Si è suicidato il fratello di Dilek Dogan, uccisa dalla polizia turca a 25 anni
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 29 giugno 2023. Dilek Doğan aveva 25 anni quando venne uccisa, a sangue freddo, nella sua casa di Istanbul, nel quartiere di Armutlu, dinanzi ai suoi genitori e a suo fratello. Erano le 4.30 del 18 ottobre del 2015 quando la polizia bussò alla porta dell’abitazione in cui la ragazza viveva con la famiglia. Cinque o sei militari con i fucili spianati e i giubbotti antiproiettile entrarono per una perquisizione.
Non era la prima volta che accadeva. Anzi. Dilek andò a svegliare la madre: “Sono tornati”, le disse.
Armutlu è un quartiere di Istanbul con una storia particolare di rivendicazioni politiche e democratiche. La popolazione di Armutlu è alevita, una minoranza religiosa in Turchia (tra il 15 e il 20% della popolazione), per la maggior parte composta da rivoluzionari democratici. Sono perseguitati in quanto minoranza e in quanto dissidenti politici. Per questo gli abitanti di Armutlu sono da anni presi di mira dal governo, che invia spesso l’esercito con l’ordine di perquisire, arrestare, uccidere, controllare. L’obiettivo è soprattutto quello di far sentire costantemente la pressione, provare a spezzare le reni della resistenza, costringere i giovani a fuggire o tenerli in prigione, rendergli impossibile la vita. Abbiamo incontrato decine di abitanti di Armutlu e nessuna delle persone con cui abbiamo parlato, qualsiasi fosse il sesso o l’età, aveva la possibilità di lasciare liberamente il Paese. Quasi tutti sono stati almeno una volta in prigione e tutti hanno un parente arrestato, morto ammazzato o di sciopero della fame. Tante persone anziane. Ma l’età non rappresenta un limite per gli arresti, né lo stato di salute.
I funerali di Dilek Dogan
Abbiamo intervistato Aysel Doğan, la mamma di Dilek, pochi mesi fa, a Febbraio, a Istanbul, a casa di Ayten Öztürk, rivoluzionaria turca torturata per 6 mesi, agli arresti domiciliari, che rischia due ergastoli a causa delle dichiarazioni di alcuni testimoni segreti. Aysel ci ha raccontato che durante la perquisizione notò che uno dei poliziotto in borghese era molto nervoso, infuriato, fuori di sé. L’agente si trovava nella stanza insieme a sua figlia e quando lei gli chiese di mettere i copriscarpe per non sporcare di fango i tappeti, lui le sparò al petto. Un colpo a distanza ravvicinata che le bucò un polmone. Morì in ospedale una settimana dopo.
Il fratello più grande di Dilek, Emrah Doğan
Il padre di Dilek è stato condannato a 6 anni di prigione. Anche uno degli avvocati che si occupava del suo caso, Oya Aslan, è stato arrestato.
Dilek aveva quattro fratelli. Dopo il suo omicidio tutti e quattro sono stati accusati di aver commesso crimini o di rappresentare un pericolo per lo Stato. Il più grande, Emrah, è stato condannato a 20 anni di prigione (è dentro da 4), sulla base di dichiarazioni rilasciate da testimoni segreti, con l’accusa di appartenere a una associazione terroristica. L’utilizzo dei testimoni segreti è centrale, in Turchia, per condannare in tribunale il dissenso.
Il secondo fratello, Erhan, viveva in Germania quando sua sorella è stata uccisa. Tornato in Turchia è stato condannato a 6 mesi di prigione.
Il terzo fratello, Mehmet, pure ha ricevuto una condanna e avrebbe passato forse il resto della sua vita in carcere. Così, insieme a Erhan, ha raggiunto Berlino per chiedere asilo politico.
Aysel Dogan, la mamma di Dilek, durante i funerali della figlia
Infine, il più giovane, Mazlum, aveva 23 anni quando sua sorella è stata uccisa. È stato condannato a 11 anni e 11 mesi di prigione per danneggiamento di beni pubblici, la stessa accusa rivolta al resto della sua famiglia: “Quando l’assassino è arrivato in tribunale – ci ha detto sua mamma Aysel – hanno proiettato il video dell’omicidio. Lo hanno mostrato sullo schermo. Mio figlio Mazlum non ha sopportato di vedere quella scena e ha gridato. È stato condannato per questo”.
Mazlum era all’università nel 2015. È riuscito a finire gli studi, nonostante negli anni successivi all’assassinio della sorella la polizia lo abbia tormentato. Aysel ci ha raccontato di come venisse di continuo fermato e perquisito. Ci ha parlato dei cannoni ad acqua che venivano usati ripetutamente contro la casa di famiglia, dei veicoli armati che continuavano a stanziare dinanzi all’abitazione. Ai suoi figli è stato impedito di trovare lavoro, erano sempre seguiti. Tutto questo, per Aysel, nel tentativo di farli impazzire, di giocare con i loro nervi e fargli compiere un passo falso. O per farli smettere di chiedere giustizia. “Ma io chiederò giustizia fino alla morte. E se muoio io, c’è qualcun altro che la chiederà. Dilek ha dei fratelli. Abbiamo dei nipoti. Anche loro chiederanno giustizia”.
Il fratello più piccolo di Dilek, Mazlum
Mazlum ha lasciato la Turchia e ha chiesto asilo politico in Inghilterra. Era arrivato a Londra quest’anno, viveva lì da pochi mesi, in compagnia di alcuni parenti i quali, insieme ad altri compagni turchi, hanno provato ad aiutarlo a sistemarsi e ambientarsi, in attesa della risposta in merito alla richiesta di asilo politico.
Ma Mazlum non ha voluto ricominciare un’altra vita lontano da casa. Ha deciso che bastava così. E si è impiccato, a Londra, lo scorso mercoledì 28 giugno.
Aysel è rimasta sola con suo marito, che pure rischia di finire in galera. Una figlia ammazzata, un figlio suicida, uno in prigione per 20 anni e due figli costretti a fuggire per non subire la stessa sorte. Tutto perché chiedeva democrazia e giustizia. “Spero che giustizia verrà fatta un giorno”, ci diceva in questa video intervista di pochi mesi fa. Ma probabilmente potrebbe bastarle, solo per cominciare, che si mettesse fine alle ingiustizie che lei e tutta la sua famiglia stanno subendo ormai da otto anni.
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“ChatGPT alla sbarra. Ma addestrare gli algoritmi facendo “scraping” significa rubare?”
Nuovo appuntamento con la rubrica Privacy weekly, tutti i venerdì su StartupItalia. Uno spazio dove potrete trovare tutte le principali notizie della settimana su privacy e dintorni.
PRIVACYDAILY
Dialoghi – Se la Cina ha troppe università e troppi laureati
Gli sforzi di Pechino di investire sia in infrastrutture che risorse nel sistema di istruzione superiore hanno prodotto una serie di atenei di eccellenza e il più grande bacino al mondo di persone coinvolte nei cicli universitari. Ma la rapida espansione ha portato a conseguenze controverse per il mercato del lavoro. “Dialoghi” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio di Milano
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Perù. Cancellata la legge per lo sfruttamento industriale, le organizzazioni indigene festeggiano
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dal Comunicato stampa di Survival International Pagine Esteri, 26 giugno 2023. Straordinario colpo di scena in Perù, dove una importante commissione del Congresso ha bocciato il Progetto di Legge 3518, che i popoli indigeni del paese avevano anche definito “Progetto di legge genocida” per gli effetti devastanti che avrebbe avuto se fosse stato approvato. Il PL 3518-2022 era già stato mandato al Congresso per il voto ma ora, grazie alla bocciatura e archiviazione da parte della “Commissione per la decentralizzazione”, il suo percorso è bloccato. Teresa Mayo, ricercatrice di Survival International l’ha definita “una grande vittoria per i popoli indigeni del Perù, per le loro organizzazioni e per le migliaia di persone comuni che in tutto il mondo hanno sostenuto la campagna contro questo devastante progetto di legge.” Le organizzazioni indigene peruviane AIDESEP e ORPIO hanno esercitato forti pressioni e oltre 13.000 sostenitori di Survival hanno scritto ai membri della Commissione per la decentralizzazione, esortandoli a bloccare il disegno di legge. Il progetto legislativo era stato avanzato da membri del Congresso pro-Fujimori legati alla potente industria degli idrocarburi, e rappresentava una gravissima minaccia specialmente per le tante tribù incontattate del paese, le cui terre sarebbero state esposte allo sfruttamento industriale. “Sono molto felice perché abbiamo lavorato duramente per fermare questo disegno di legge che viola i diritti dei popoli incontattati e di recente contatto. L’archiviazione del disegno di legge protegge i nostri parenti incontattati, i loro diritti e le loro vite, ed evita il genocidio e l’ecocidio che avrebbe scatenato” ha dichiarato Tabea Casique (Ashaninca) di AIDESEP. Per Roberto Tafur, dell’organizzazione indigena peruviana ORPIO, la decisione mette in risalto “la partecipazione di coloro che hanno una coscienza che li ha spinti a preoccuparsi dei nostri fratelli PIACI. Perché la vita viene prima del denaro. Per arrivare qui abbiamo combattuto molto. E dobbiamo continuare a lottare per i nostri fratelli che sono nel folto della foresta, che non sanno che noi stiamo combattendo per loro”. I popoli incontattati e di recente contatto sono noti collettivamente in Perù con il nome di PIACI. In Perù, l’industria del petrolio e del gas ha già avuto un impatto catastrofico su questi popoli. Negli anni ‘80, ad esempio, a seguito delle prospezioni petrolifere effettuate dalla Shell, furono introdotte malattie mortali che uccisero oltre la metà del popolo Nahua (che era precedentemente incontattato).
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The “Digital Euro” does not deserve its name!
Pirate Party MEP and digital freedom fighter Dr Patrick Breyer criticises yesterday’s draft bill by the EU Commission to introduce a “Digital Euro”:
“The introduction of digital cash would be long overdue in the information age. Digital cash could be as anonymous and freely usable on the internet as notes and coins. However, the ‘digital euro’ now proposed by the Commission does not deserve that name. Digital technology is to be misused to monitor, limit and control our finances to an extent never seen with cash.
While cash can be accepted and spent anonymously at any time, which is important for undocumented refugees, for example, it will only be possible to receive and spend digital euros with an account against presentation of identification. While people are allowed to hold and pass on unlimited amounts of cash, the amount of digital euros in our hands will be limited in the future. And while with cash even confidential payments and controversial donations have so far been possible anonymously and without fear of becoming known, trace-free payments in digital euros are to be completely impossible online and limited offline to an unknown and ever-changing amount. The declared aim of fighting money laundering and terrorism is just a pretext to gain more and more control over our private transactions. Where every payment is recorded and stored forever, there is a threat of hacker attacks, unauthorised investigations and chilling state oversight of every purchase and donation.
Cash is financial freedom without pressure to justify spending. What medicines or sex toys I buy is nobody’s business. For thousands of years, societies around the world have lived with cash that protects privacy. The EU Commission wants to deprive us of this financial freedom for online payments. In the legislative process, this birth defect must be corrected. We need to find ways to take the best features of cash into our digital future.”
Jens reshared this.
RUSSIA. Putin è davvero più debole dopo il blitz tentato da Prigozhin?
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Pagine Esteri, 29 giugno 2023. Dal fronte della guerra tra Russia e Ucraina non giungono novità significative e non ci sono evidenze della debolezza politica in cui si troverebbe Vladimir Putin.
Governi ed esperti occidentali però sono convinti della grave instabilità della leadership russa in seguito al colpo di mano tentato dal capo della compagnia mercenaria Wagner, Evgenij Prigozhin. Ne abbiamo parlato con Danilo Della Valle, specialista di Russia ed Europa orientale.
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Artificial intelligence’s failing grade
POLITICO’s weekly transatlantic tech newsletter for global technology elites and political influencers.
By MARK SCOTT
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THERE ARE TWO MORE DIGITAL BRIDGE NEWSLETTERS before I down tools for a couple of weeks of vacation. I’m Mark Scott, POLITICO’s chief technology correspondent, and as my mind inevitably turns to my upcoming break, I bring you actual footage of my response when editors ask me why my copy is filed increasingly late. True story.
OK. Enough with the jokes. Let’s get down to business.
— Everyone now wants rules to govern artificial intelligence. But, so far, much of this over-hyped tech is falling short.
— Why the so-called Brussels Effect only really works when you view Europe’s relationship as tied to the United States.
— A bunch of U.S. state privacy laws come into force on July 1. What does that tell us about a potential federal data protection regime?
AI SCORES AN ‘F’ ON REGULATION
REGULAR READERS OF THIS NEWSLETTER will know I’m pretty skeptical of the über-hype surrounding artificial intelligence. But even I must admit the likes of OpenAI’s ChatGPT and Google’s Bard have given the public a greater appreciation of what AI can do than anything that has preceded them. So with that in mind, how do so-called foundation models, or the vast tracts of data used to power the likes of generative AI, do when it comes to following the European Union’s Artificial Intelligence Act? This is the only comprehensive rulebook for the technology that exists, currently, anywhere in the West, so it’s the only game in town to grade these models’ performance. It’s not a perfect analogy. But researchers at Stanford University crunched the numbers, so let’s break it down. Warning: No one did very well.
First, a couple of caveats. The academics based their analysis on the European Parliament’s version of the proposals, mostly because these lawmakers inserted several provisions specifically related to foundation models and generative AI, in particular — something that had not existed in earlier drafts. Saying that, they did have to make a series of assumptions around accountability, transparency and other areas of the legislation. So it’s best to see the results as a guide, more than a definitive explainer. Still, when they looked at 10 of the leading models — everything from OpenAI’s GPT-4 to Aleph Alpha’s Luminous — no one met the requirements laid down in Brussels’ upcoming rulebook.
“Because there’s so much up in the air, and because some of the requirements are under-specified. we had to fill on some of the gaps,” Kevin Klyman, one of the authors of the analysis, told me. That includes newly created requirements from EU lawmakers around baking in risk-mitigation procedures — and showing how they did that — within foundation models; providing detailed overviews of how these models are developed for outside auditors; and even upholding the 27-country bloc’s sustainability standards around energy consumption (AI, after all, needs a load of computing power to work well).
So, how did companies do? The academics broke the AI Act’s requirements down into 12 buckets (from explainability of where the data came from to safeguards around using copyrighted material), then used a ranking scale from 1 to 4 to determine how closely each firm’s foundation model met those legal asks. They then added them all up and gave each company a score out of 48. Yes, this sounds complicated, but check out the handy chart here; it’s pretty straightforward. Overall, Meta received 21/48; OpenAI scored 25/48; Google earned 27/48. The worst-performing was Aleph Alpha at 5/48, while BigScience, an open-source alternative, came first with 36/48.
Those figures masked massive differences between how companies performed depending on specific requirements under the EU’s AI Act. On outlining ways to mitigate potential risks, Klyman said, OpenAI did a pretty good job, earning itself 4/4 for its compliance with the upcoming rules. Contrast that to Aleph Alpha, a German rival, whose lack of detailed documentation on how it was warding off potential harmful uses of its technology saw the AI startup scoring a mere 1/4 for its risk-mitigation policies. “The way providers that are doing a good job at handling risks and mitigations is they have a section of their work related to the model where they say, ‘Here are all of the potential dangers from this model,'” Klyman added.
I’m not sure I would give such disclosures a passing grade. Having a transparency section on a website about potential downsides and how a company will handle such risks doesn’t mean such safeguards will be enforced. For that, you need greater disclosures on how these models operate — something, unfortunately, that almost all the firms did badly on. When it came to publishing which data sources (including copyrighted data) were baked into these AI systems, only BigScience and, to a lesser degree, Meta ranked highly, based on Stanford’s scorecard. And Klyman warned that all companies were becoming more secretive around their foundation models as competitive pressures were leading many to bring up the drawbridge on how their systems operate.
So what does this mean for policymakers, both within the EU and elsewhere, who are working on AI rules, particularly related to these foundation models? Klyman said EU lawmakers needed to get more granular on how they wanted companies to comply with the AI Act. That involved giving quantifiable metrics on what compliance looked like in terms of risk mitigation, data governance and other wonky regulatory provisions. For U.S. policymakers, the Stanford academic urged Washington to create a national AI research center so that researchers could better kick the tires of how these foundation models were developed. “Transparency,” he added, “is extremely important.”
THE BRUSSELS EFFECT’S DIRTY LITTLE SECRET
YOU DON’T HAVE TO GO FAR IN BRUSSELS to hear officials (and think-tankers) drone on about the so-called Brussels Effect. Coined by Ana Bradford, a Finnish academic now based at Columbia Law School, the term refers to how the bloc’s expansive policymaking (and not just on digital) has a global effect — because the EU’s rules quickly take on a life of their own and become the de facto global standard. Within tech, the clearest example of this is the General Data Protection Regulation, or the EU’s wide-ranging data protection standards that are now followed by pretty much every country worldwide. More on that here.
Yet researchers at the European Centre for International Political Economy (ECIPE), a Brussels-based think tank, have driven a tank-shaped hole through that theory — at least when it comes to data. They analyzed the digital trade implications of the bloc’s so-called adequacy data protection decisions, complex legal instruments that basically tell trading partners, “If you follow Europe’s privacy standards, to the letter, we will allow unfettered flows of EU personal data to your country.” It’s a massive trade opportunity, giving countries from New Zealand to South Korea unlimited access to the personal information of Europe’s well-heeled consumers. It’s a major bargaining chip Brussels uses during its free trade agreement negotiations.
But what the think-tankers discovered was this wholesale data access — the epitome of the Brussels Effect — only really made a difference to the more than 10 countries with adequacy if you factored in Europe also having a data-transfer deal with the U.S. What they found was up to a 14 percent jump in digital trade between these countries, or the equivalent to about $4 billion of additional exports. But that was down almost exclusively to the likes of Argentina and Israel trading more with the U.S. — via the legal certainty provided by Europe’s adequacy regime. It was not because these countries were shipping goods and services more to the 27-country bloc.
“Digital trade is moving upwards compared to all other trades, but it’s highly dependent or contingent on the U.S.,” Erik van der Marel, ECIPE’s chief economist and one of the report’s co-authors, told me. “As soon as the U.S. got adequacy, you see that U.S companies outsource a lot of stuff, in terms of services outsourcing, that can be done on the basis of European citizens data to other adequacy granted countries.” Call it the halo effect of Brussels’ privacy regime. American firms quickly strike up relationships with partners in other adequacy countries — mostly to reduce costs — and immediately increase trade between the U.S. and those nations, and not with Europe.
It gets even clearer as the researchers also calculated a 9 percent reduction in so-called trade costs, which are charges associated with doing business internationally, for countries with adequacy status. But, again, when they ran the numbers, those savings were predicated almost exclusively on Europe having a data deal in place with the U.S. There’s one caveat to the report: It didn’t include Brussels’ recently agreed adequacy deals with South Korea, Japan and the United Kingdom. But if you included those agreements, van der Marel added, the increase in digital trade (mostly between these countries and the U.S.) would reach about $11 billion.
To fans of the Brussels Effect, I can already hear the criticism. These bumps in digital trade only happened because of Europe’s rules, so what are you complaining about? It’s also true that because most adequate countries are tiny (it’s not like Guernsey and the Faroe Islands are hot-beds of the global trading order), it’s only natural that Brussels’ relationship with Washington will dominate these wider relationships. But it’s also clear that if the EU wants to continue setting global regulatory standards, we should all acknowledge how important its relationship with the U.S. remains when it comes to boosting ties with other parts of the world.
The latest intelligence I have is that the third iteration of a transatlantic data deal (the previous two pacts were invalidated by Europe’s top court) will now be signed off by mid-July. A legal challenge from privacy campaigners will inevitably follow. But when it comes to digital trade, the deal is vital. These EU-U.S. agreements, according to van der Marel, represent up to a 14 percent increase in transatlantic commerce. That equates to $11.9 billion in additional digital trade exports from the U.S. to the EU and a further $7.2 billion from the EU to the U.S. When the global economy is teetering on the edge, $19.1 billion in extra international trade is nothing to sneeze at.
BY THE NUMBERS
US DOES PRIVACY. REALLY.
I’VE GIVEN UP (AGAIN) ON WASHINGTON moving ahead with comprehensive data protection rules before the 2024 election cycle takes over. But on July 1, Colorado and Connecticut’s privacy regimes come into force — and the enforcement powers of California’s separate legislation, which was enacted earlier this year, also start to bite. Throw in Virginia and Kentucky (whose laws started on January 1) and Utah (its legislation gets going at the end of 2023), and you’ve now got a stable of data protection rulebooks, at the state level, to give Americans a taste of what greater privacy safeguards could look like.
Still, not all regimes are created equal. After heavy lobbying from industry, almost all don’t allow consumers to directly sue companies for potential wrongdoing — those powers are exclusively limited to state attorneys general. Some, like Utah’s law, are pretty light touch. Others, like those in Connecticut and Virginia, require companies to provide European-style transparency to people about how their data is collected and used. Only one — the California Privacy Rights Act — creates an independent regulator akin to what is readily available on the other side of the Atlantic. How all these rulebooks handle data protection questions will either galvanize Washington into doing something or shepherd other U.S. states toward the legislation that best handles the public’s complaints.
WONK OF THE WEEK
THE ORGANIZATION FOR ECONOMIC COOPERATION AND DEVELOPMENT finds itself at the center of global (read: Western) debates on how countries can freely move data between each other while upholding people’s privacy. And Clarisse Girot, head of the data governance and privacy unit at the group of mostly-rich countries, is key to that work.
The French-born lawyer knows data protection better than most. She was head of international affairs at France’s privacy regulator before moving to Singapore and Jersey (the country, not the U.S. state!) before returning to Paris last year to take up her current role at the OECD.
“Companies, like policymakers and, of course, people have a shared interest in ensuring a high level of data protection,” she wrote on LinkedIn. “Facilitating compliance with these rules is essential to ensure the effectiveness of meaningful protection in data flows, in particular by enabling the optimisation of resources devoted to the protection of personal data.”
WHAT I’M READING
— U.S. lawmakers wrote to Joe Biden about their concerns over how Europe’s digital lawmaking was unfairly harming American companies — and called on him to act. Read more here.
— The European Parliament published a comprehensive overview of the metaverse (remember when that was popular?), including the potential cybersecurity and ethical implications of the technology. Take a look here.
— One for all the podcast lovers. Emily M. Bender and Alex Hanna debunk much of the AI hysteria in a three-part series entitled “Mystery AI Hype Theater 3000.” It’s worth a listen.
— Meta explains why it’s pulling all news from people’s Facebook feeds in Canada after the country’s lawmakers backed rules that would require platforms to pay publishers when their content appeared on these networks. The blog post is here.
— The International Association of Privacy Professionals has written a glossary of key terms for AI governance as part of efforts to standardize people’s thinking about these topics.
— A global organization similar to the International Atomic Energy Agency is not the right way to frame international governance discussions around artificial intelligence, argues Ian J. Stewart for the Bulletin of the Atomic Scientists.
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Committee recommendation on chat control: Some poisonous fangs will be pulled, but indiscriminate chat control still looming
Today, the Internal Market Committee in the European Parliament (IMCO) recommended some far-reaching amendments to the draft EU Child Sexual Abuse Regulation (CSAR), also known as chat control proposal. The opinion is not binding for the lead Committee on Home Affairs (LIBE), but serves as a political orientation. Pirate Party MEP and shadow rapporteur in the lead Home Affairs Committee Patrick Breyer has a mixed view of the proposals:
“The Internal Market Committee wants to pull out various poisonous fangs from the extreme proposal made by ‘Big Sister’ Johansson: The proposed deletion of mandatory age verification safeguards the right to anonymous communication, on which whistleblowers, among others, depend. The removal of appstore censorship for young people protects their right to free and protected communication.
However, ineffective netblocks with collateral damage for many legitimate contents could still be imposed. Above all, indiscriminate chat control would still be implemented, an attack on the confidentiality and security of personal messages unprecedented in the free world. Excluding encrypted communication and telephony, leaving AI-driven text searches for alleged grooming out of it – all this would not change the fact that the proposals would be the end of the digital secrecy of correspondence for most emails and chats. Digital privacy of correspondence does not only apply to encrypted communication!
Meta already searches Facebook and Instagram private messages ‘only’ for known material, but it is precisely this flood of unreliable reports that drains urgently needed law enforcement capacities in undercover investigations against abusers, leads to the mass accusation of innocent people, and to the criminalisation of thousands of young people who are supposed to be protected. To indiscriminately target law-abiding users without suspicion would be contrary to fundamental rights and, according to independent legal opinions commissioned by Parliament and the EU Council, would not stand up in court. Such a failure of the proposed detection mechanism would be irresponsible towards victims of abuse. The Internal Market Committee only hints at what targeted detection could look like, but does not implement it.
Now it is up to the lead committee on Home Affairs to respect the fundamental right to digital privacy of correspondence and to put in place court-proof, truly effective child protection measures.”
The lead Home Affairs Committee continues to negotiate its position, with the next round of negotiations taking place this afternoon. The conservative Spanish rapporteur, Zarzalejos, wants to lock in the committee’s position by September and then strike a deal by the end of the year under the Council Presidency of his home country. The Spanish government has attracted attention with its extreme statement that secure encryption should actually be banned.
Turchia. Incarcerato giornalista, aveva chiesto la fine dell’isolamento di Ocalan
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Pagine Esteri, 29 giugno 2023. Un tribunale turco ha rinviato a giudizio e fatto incarcerare il noto giornalista Merdan Yanardag, caporedattore di un canale televisivo dell’opposizione, con l’accusa di aver diffuso “propaganda terroristica” ed “elogio dei criminali”.
Yanardag ha semplicemente criticato l’isolamento di Abdullah Ocalan, il leader curdo del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) in carcere dal 1999. “L’isolamento di Abdullah Ocalan è illegale e dovrebbe essere revocato”, ha affermato in un programma andato in onda la scorsa settimana.
L’autorità televisiva turca controllata dall’Akp, il partito del presidente Erdogan, ha avviato un’inchiesta sulla tv Tele1 che ha trasmesso i commenti di Yanardag. Invece l’Associazione dei giornalisti turchi ha diffuso un comunicato di condanna della detenzione del suo iscritto e per la “violazione del diritto alla libertà di espressione”.
Ocalan, leader curdo di grande spessore politico, fu catturato da forze speciali turche in Kenya nel 1999. Da allora è detenuto in isolamento in una prigione su un’isola a sud di Istanbul. Protagonista di un’insurrezione contro lo stato turco nel 1984, il PKK è designato come “gruppo terroristico” dalla Turchia e dai suoi alleati occidentali.
La repressione delle aspirazioni della larga minoranza curda in Turchia e i combattimenti tra forze governative e PKK hanno provocato più di 40.000 morti.
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Punk Paradox di Greg Graffin
PUNK PARADOX è la narrazione della vita di Greg Graffin prima e durante i primi anni del punk di Los Angeles, in cui descrive in dettaglio le sue osservazioni sulla crescita esplosiva del genere e sul costante aumento di importanza della sua band @Musica Agorà
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Ireland: Corrupt GDPR procedures now "confidential"
Irlanda: Procedure discutibili del GDPR ora "confidenziali" Ieri il DPC irlandese ha ottenuto una vittoria risicata in Parlamento e ha fatto approvare una nuova legge che renderà impossibile criticare le procedure del DPC.
In Cina e in Asia – Pechino lancia una nuova legge sulle relazioni estere
La Cina lancia nuova legge sulle relazioni estere
WSJ: secondo l'intelligence Usa il pallone spia cinese era proprio un pallone spia
L’esercito cinese pensa a uno scenario di “guerra totale”
Washington valuta una nuova stretta all’export di Chip verso la Cina
Pechino ottiene via libera da Wellington per l’adesione al CPTPP
I turisti in Cina possono pagare tramite WeChat
Pechino impedisce le visite consolari ai detenuti di Hong Kong con doppia cittadinanza
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Non solo Wagner. Ecco tutte le milizie private russe
Sebbene si tratti di un fenomeno non esattamente recente – la prima Private Military Company, i “Lupi dello Zar”, risale al 1992 – dal punto di vista del diritto russo, gli attori non statali come le PMC sono oggi considerati illegali. Ciononostante, poiché tutte le PMC attualmente attive sono in un modo o nell’altro collegate al Cremlino o ne promuovono comunque gli interessi, i vertici di queste organizzazioni godono di un regime di impunità de facto. L’unica eccezione a questa regola si presenta quando una di esse cade in disgrazia con la leadership moscovita, o entra in un aperto e logorante conflitto con le Forze Armate regolari tale da incorrere nel coinvolgimento della magistratura. In questo caso, in base alle leggi vigenti nella Federazione Russa, si può incorrere nella smobilitazione forzata e nell’arresto della leadership qualora quest’ultima non ottemperi alle richieste del Governo.
Questo è stato il caso della Wagner Corp. che come abbiamo avuto modo di apprendere in queste ore ha rifiutato di smobilitare le truppe entro la scadenza del 1 Luglio decidendo piuttosto di muovere contro il Cremlino in quello che molti hanno definito, troppo prematuramente, un tentativo di colpo di stato. Grazie alla mediazione del presidente Lukashenko e del Governatore di Tula, Alexei Dyumin, la veloce ribellione di Yevgeny Prigozhin si è risolta in quello che diversi analisti vedono come un riposizionamento della Wagner in Bielorussia, proprio quando il paese ha ricevuto da Mosca ingenti aiuti militari che includono una discreta capacità di deterrenza nucleare.
Da qui non è escluso che Wagner possa continuare la propria partecipazione al conflitto ucraino, aprendo un fronte nord pericolosamente vicino a Kyiv, da cui sarebbe in grado di lanciare operazioni di infiltrazione e interferenza che velocizzerebbero il logoramento delle capacità militari ucraine. La riapertura dei centri di reclutamento e addestramento in Siberia, unitamente alle voci di diverse basi Wagner in costruzione in Bielorussia, non fanno che confermare la senzazione che quanto successo la scorsa settimana non abbia scritto la parola fine per le attività di questa PMC, né tantomeno per il conflitto. Ma se Wagner è la punta di lancia del sistema di guerra asimetrica del Cremlino, non mancano altre risorse nell’ambito della guerra ibrida.
Attualmente il sistema delle PMC russe è composto da circa 40 gruppi che operano in 34 paesi. Circa il 70% di questi gruppi opera in Ucraina, e almeno la metà di essi sono stati creati dopo il 2022 esclusivamente per partecipare alle ostilità contro Kyiv, mentre i restanti operano tipicamente in Siria (almeno dal 2011), Iraq (dal 2003) e Africa centrale, a sostegno degli interessi russi di lungo periodo e come forze di protezione degli approvvigionamenti di risorse. Dati raccolti all’inizio del 2023 vedono 19 PMC schierate in Africa principalmente a controllo delle risorse minerarie, 10 PMC operative in Asia e Medioriente, 4 PMC attive in Europa e almeno 1 gruppo attivo in Sud America. A farla da padrone è ovviamente la Wagner, che opera in almeno 18 paesi, seguita dal Gruppo Patriot in 7 nazioni e dal gruppo ENOT (“procioni” in russo) che è attivo in 6 paesi.
Prima di entrare nel dettaglio di alcune di queste sigle è necessario comprendere le ragioni della scelta del Cremlino di contribuire a creare e sostenere un ecosistema così complesso e potenzialmente pericoloso. Esistono naturalmente diverse ragioni che hanno permesso alle PMC di prosperare. Come dato di contesto non va dimenticata la geografia della Russia, uno stato esteso tra Europa e Asia, e la sua tendenza storica all’accentramento del potere: entrambi questi fattori hanno da sempre creato le condizioni ideali per l’esistenza di forze armate territoriali o claniche. Venendo alla situazione contemporanea, in primo luogo le PMC rappresentano uno strumento altamente flessibile e adatto a condurre guerre ibride senza il coinvolgimento diretto dello stato che avrebbe ingenti ripercussioni ufficiali sulle relazioni internazionali. In secondo luogo le operazioni delle PMC sono finanziate per la maggior parte da oligarchi, come ad esempio Yevgeny Prigozhin, Gennady Timchenko, Oleg Deripaska o Sergey Isakov per citarne alcuni, e non dallo stato.
Sebbene esistano canali di finanziamento e meccanismi di subordinazione che le connettono alle istituzioni statali, non vi è un impatto diretto sul bilancio ufficiale del Paese e le PMC operano in un sistema di libera concorrenza e di mercato. Ciò fa si che le PMC siano più economiche da mantenere rispetto alle truppe regolari, garantendo al tempo stesso un più elevato livello tecnologico e una maggiore manovrabilità operativa. Inoltre, lo status di soggetti privati di cui godono le PMC si traduce nella non necessità di monitorarne le perdite e dunque esse non vengono registrate tra le perdite ufficiali. A questo va aggiunto che gli individui che si uniscono alle PMC stipulano contratti volontari di diritto privato e quindi l’amministrazione dello stato non è responsabile nei confronti delle famiglie degli eventuali caduti durante le operazioni.
Un altro vantaggio delle PMC è rappresentato dalla loro composizione, essendo esse formate principalmente da personale selezionato tra i veterani in grado di svolgere missioni più complesse, ma con la possibilità di reclutare velocemente personale a basso costo da usare come “carne da macello”. Infine, col tempo le PMC sono diventate una sorta di status simbol per gli oligarchi che, non diversamente dai nobili e leader locali del passato, hanno cominciato ad impiegarle per proteggere se stessi e le proprie ricchezze, anche in previsione di un possibile collasso o di un colpo di stato in Russia. Venendo a quali sono e come operano le principali PMC russe, non possiamo ovviamente che partire da Wagner.
Fondato ufficialmente nel 2014, all’epoca dell’invasione della Crimea, ma nato dall’unione di diverse PMC, il Gruppo Wagner conta oggi tra i 40 e i 50 mila operatori ed è attivo in Ucraina, Siria, Repubblica Centrafricana, Libia, Sudan, Sud Sudan, Ciad, Mozambico, Congo, Mali, Bielorussia, Burundi, Guinea-Bissau, Venezuela, Nigeria, Madagascar, Botswana, Comore, Ruanda e Lesotho. In ordine di importanza, segue lo spinoff neonazista di Wagner, specializzato in operazioni speciali: il famigerato gruppo Rusich fondato nel 2009 e incorporato come componente autonoma in Wagner nel 2014, attivo con varie decide di operatori in Ucraina, Siria e Repubblica Centrafricana.
A questi si affianca la Legione Imperiale Russa, falange armata del Movimento Imperiale Russo fondata nel 2002, che con diverse centinaia di militanti si occupa prevalentemente delle operazioni di controllo delle province del Donbass, ma ha recentemente esteso la propria attività in Libia e Siria. Infine, nel 2017, é entrata in scena la Sewa Security Services, gestita da un ex dipendente del ministero dell’Interno russo, Evgeny Khodotov, a capo anche della società M-Finance associata a Prigozhin che opera esclusivamente in Repubblica Centroafricana. Tra le PMC non direttamente legate a Wagner va citata il Gruppo RSB, società che dal 2005 offre consulenze e servizi di protezione con uffici legalmente operanti in Africa e Unione Europea e che a detta degli analisti è finanziata e controllata direttamente dall’FSB.
RSB può contare su un numero imprecisato di operatori che operano in Ucraina, Sri Lanka, Libia, nel Golfo di Aden, lo Stretto di Malacca e in Guinea. Esiste inoltre il Centro R, un gruppo di circa 500 operatori finanziati dagli oligarchi Gennady Timchenko e Oleg Deripaska e subordinato al Ministero della Difesa russo. A differenza di altre PMC, il Centro R, nato nel 2018, si occupa esclusivamente di protezione installazioni in Ucraina, Siria, Iraq, Georgia e Somalia un po’ come succede nel caso del servizio di protezione delle installazioni di Gazprom. La lista potrebbe continuare a lungo, ma vogliamo limitarci a segnalare solo altri quattro tra i gruppi più interessanti attualmente attivi. Cominciamo dal Gruppo Patriot, creatura del Ministro della Difesa Sergei Shoigu fondata nel 2018, attivo in Ucraina, Siria, Yemen, Repubblica Centrafricana, Burundi, Sudan e Gabon.
Seguono gli Zar’s Wolves, il gruppo più antico, guidato oggi da Dmitry Olegovich Rogozin, dal 2011 al 2018 Vice Primo Ministro della Federazione Russa, e che opera esclusivamente in Ucraina. Proprio questi due gruppi potrebbero rimpiazzare la Wagner in diversi teatri operativi. Infine, due casi di PMC che si appoggiano sul crowdfunding, ovvero le micro donazioni individuali: la Andreyevsky Krest PMC, un’iniziativa lanciata dalla Chiesa Ortodossa per l’addestramento degli operatori da inviare in Ucraina che ha probabilmente contribuito alla preparazione di più di 2000 individui nei suoi cinque anni di vita, e la Akhmat PMC, una forza composta da circa 4000 operatori e controllata dal leader ceceno Kadyrov.
Concludendo questo breve excursus riteniamo che sia di fondamentale importanza continuare a monitorare l’ecosistema delle PMC russe, non solo come chiave di lettura del conflitto in Ucraina, ma anche e soprattutto per valutare pienamente l’evolversi della politica estera russa e degli equilibri interni di Mosca.
PRIVACYDAILY
Ireland: Questionable GDPR procedures now "confidential"
Irlanda: Procedure discutibili del GDPR ora "confidenziali" Ieri, il DPC irlandese ha ottenuto una vittoria risicata in Parlamento e ha fatto approvare una nuova legge che prevede che
Slowdive, a settembre il nuovo album. In ascolto il primo singolo
A SEI ANNI DI DISTANZA DALL'ULTIMA FATICA DISCOGRAFICA, L'ALBUM OMONIMO USCITO NEL 2017 (IL PRIMO DOPO LA REUNION DEL 2014, A SUA VOLTA ARRIVATO DOPO DICIANNOVE ANNI DI STAND BY) GLI SLOWDIVE TORNERANNO A PUBBLICARE UN NUOVO DISCO, CHE SI INTITOLA "EVERYTHING IS ALIVE" E SARÀ DISPONIBILE DALL'1 SETTEMBRE SULLA LABEL DEAD OCEANS.
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Trasferimento dati Ue-Usa, Parlamento europeo contrario all'adozione del Data Privacy Framework
@Etica Digitale (Feddit)
Il Parlamento ritiene che il #DataPrivacyFramework non garantisca un livello di protezione dei dati trasferiti verso gli Stati Uniti, sostanzialmente equivalente a quello richiesto dal diritto dell'UE.
L’Onu incalza gli Stati Uniti: chiudete la prigione di Guantanamo Bay
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di Blaise Malley – Responsible Statecraft*
(nella foto una protesta negli Usa contro le detenzioni a Guantanamo Bay)
Pagine Esteri, 28 giugno 2023 – Più di vent’anni dopo l’apertura della prigione di Guantanamo Bay, 30 detenuti sono ancora sottoposti a “trattamenti crudeli, inumani e degradanti”, secondo un nuovo rapporto della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sull’antiterrorismo e i diritti umani, Fionnuala Ni Aolain.
Fionnuala Ní Aoláin
Il documento è il risultato di una visita alla struttura all’inizio di quest’anno, la prima nel suo genere da parte di un funzionario delle Nazioni Unite dall’apertura (della prigione di Guantanamo, ndt) dal 2002. La sua conclusione è chiara: il governo degli Stati Uniti deve “considerare percorsi immediati di chiusura” del centro di detenzione.
La visita della Relatrice, avvenuta a febbraio, ha incluso una serie di incontri con gli avvocati e le famiglie dei prigionieri, nonché con ex detenuti e alcuni degli allora 34 detenuti.
Ni Aolain ha anche parlato con le famiglie delle vittime degli attacchi dell’11 settembre. La Relatrice riconosce le opinioni divergenti all’interno della comunità delle vittime sulla legittimità delle commissioni militari, sull’uso della pena di morte e sul funzionamento del centro di detenzione di Guantánamo. Ma, a suo avviso, l’uso della tortura da parte degli Stati Uniti rappresenta ora “l’ostacolo più significativo all’adempimento dei diritti delle vittime alla giustizia”.
Nel rapporto, Ni Aolain ringrazia l’Amministrazione Biden per aver facilitato la sua visita, ma critica il governo degli Stati Uniti per le continue violazioni del diritto internazionale. “Diverse procedure del governo degli Stati Uniti stabiliscono una privazione strutturale e il mancato rispetto dei diritti necessari per un’esistenza umana e dignitosa e costituiscono un trattamento minimo, crudele, disumano e degradante in tutte le pratiche di detenzione a Guantánamo Bay”, ha scritto.
Il rapporto si concentra sul diritto alla salute dei detenuti, sull’accesso alla famiglia, alla giustizia e a un processo equo e sugli effetti fisici e psicologici a lungo termine della tortura. La Relatrice speciale riscontra notevoli motivi di preoccupazione. Ad esempio conclude che “le precedenti condizioni costituiscono una violazione del diritto a un’assistenza sanitaria disponibile, adeguata e accettabile – come parte dell’obbligo dello Stato di garantire il diritto alla vita, alla libertà dalla tortura e dai maltrattamenti, un trattamento umano dei prigionieri e rimedio effettivo…il fallimento del governo degli Stati Uniti nel fornire la riabilitazione dalla tortura contravviene nettamente ai suoi obblighi ai sensi della Convenzione contro la tortura”.
In termini di diritti legali, il rapporto rileva che “gli Stati Uniti non sono riusciti a promuovere e proteggere le garanzie fondamentali di un processo equo e hanno gravemente ostacolato l’accesso dei detenuti alla giustizia”. Un prigioniero ha detto a Ni Aolain che, mentre alcune delle condizioni materiali nella prigione sono migliorate nel tempo, le condizioni legali sono peggioriate.
Il rapporto ha anche esaminato il rimpatrio e il reinserimento di coloro che erano stati rilasciati da Guantanamo e registra che hanno avuto fortune alterne ma che la “stragrande maggioranza” continua a essere vittima di violazioni dei diritti umani. “Per molti ex detenuti, la loro attuale esperienza nella loro casa o in un terzo paese diventa semplicemente un’estensione della detenzione arbitraria a Guantánamo, con alcuni che esprimono addirittura il desiderio di tornare”, ha scritto Ni Aolain. La Relatrice ha parlato con ex detenuti e famiglie di detenuti che dopo il trasferimento sono stati fatti sparire o detenuti arbitrariamente; iscritti a presunti programmi di riabilitazione e reintegrazione ma di fatto soggetti a detenzione, torture e maltrattamenti” e altro ancora.
Michèle Taylor, l’ambasciatrice degli Stati Uniti presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha rilasciato una risposta al rapporto, ringraziando Ni Aolain ma si è detta in disaccordo con molti dei risultati del suo rapporto. “Gli Stati Uniti non sono d’accordo su aspetti significativi con molte affermazioni fattuali e legali fatte dalal Relatrice speciale”, ha scritto Taylor. “I detenuti vivono in comunità e preparano i pasti insieme; ricevere cure mediche e psichiatriche specialistiche; hanno pieno accesso alla consulenza legale; e comunicare regolarmente con i membri della famiglia.
Sotto Biden, finora 10 dei 40 detenuti che erano lì quando è entrato in carica hanno lasciato la prigione, e altri 16 sono stati autorizzati al rilascio ma rimangono a Guantanamo.
Difensori, gruppi per i diritti ed ex detenuti hanno accolto con favore il rapporto e hanno invitato Biden a raggiungere il suo obiettivo dichiarato di chiudere la prigione e al governo di fornire risarcimenti ai prigionieri.
“Sono stato vittima di torture statunitensi da parte della CIA. Sono sopravvissuto e ho perdonato i miei torturatori, e sto andando avanti con la mia vita in Belize. Ma aspetto ancora scuse, cure mediche e altri risarcimenti”, ha detto Majid Khan, un ex detenuto rilasciato nel febbraio 2023. “Apprezzo tutto il sostegno che il Belize mi ha fornito, ma la responsabilità è degli Stati Uniti. È ora di chiudere Guantanamo”, ha aggiunto.
“L’amministrazione Biden deve togliersi di mezzo sulla chiusura di Guantanamo”, afferma Wells Dixon, un avvocato senior presso il Center for Constitutional Rights che è stato consulente di diversi detenuti di Guantanamo. “Non ha alcun senso legale o politico per il governo continuare a combattere in tribunale, a detenere uomini che non vuole più detenere, in una prigione che ha detto dovrebbe essere chiusa, in una guerra che è finita”. Pagine Esteri
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Ohibò, il taglio dei parlamentari ha minato la qualità del lavoro degli eletti
Hanno vinto i cinque stelle. Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno, dicevano. Missione compiuta. E’ talmente aperto, che tutti scappano. L’antipolitica funziona infatti, ed è il Parlamento a non funzionare più. Da quando è stato ridotto il loro numero, considerato da essi stessi un costo da mangiapane a tradimento, deputati e senatori disertano con sistematicità il lavoro in commissione, cioè quella cosa che prima dava un senso alle loro giornate da anonimi pigiatasti d’Aula. Prima ne frequentavano una, studiavano, votavano, emendavano. Ma poiché ormai di commissioni costoro se ne devono accollare due o tre finisce che non solo non studiano più, ma devono pure scegliere dove andare. Quindi in genere si assentano (tranne quando si vota e scatta il gettone).
Negli uffici della Camera, invece, dal 2021, cioè da quando è entrato in vigore il taglio degli stipendi, altra mossa plebeista e paragrillina, i dipendenti neo assunti si dimettono a un ritmo mai visto in settant’anni di storia repubblicana. Pare che in molti non avessero capito che i loro stipendi, limati di un buon 20 per cento, non erano più quelli ottimi di chi alla Camera già ci lavorava. Tra i 76 assistenti parlamentari appena assunti a Montecitorio, per dire, in 10 non hanno preso servizio. Dieci su settantasei. Insomma la riduzione del numero dei parlamentari, che doveva portare risparmio, provoca assenteismo e superficialità. Mentre il taglio degli stipendi ai dipendenti (deciso nel 2017 e applicato dal 2021) sta determinando una fuga di giovani dalla macchina burocratica del Parlamento. Erano stati appena assunti 8 tecnici informatici? Se ne sono dimessi in 3.
Si sono dimessi anche 6 segretari parlamentari neo assunti, mentre gli altri hanno avanzato la prima richiesta sindacale: un “permesso studio” al fine di avere tempo di preparare un altro concorso, e salutare la Camera. E infatti due sono le scene paradigmatiche in Parlamento da qualche tempo. La prima è quella del senatore medio, mettiamo Claudio Borghi della Lega, uno a caso, che fa parte di ben tre commissioni. Eccolo mentre si affaccia sulla soglia della commissione Affari europei: “Oggi si vota?”. Gli dicono di no. Niente gettone. E lui: zac, fila via verso la commissione Bilancio o verso il Copasir. Scena numero due. Montecitorio, corridoio. Ecco un giovane commesso che sta curvo sul manuale di diritto pubblico. Sta preparando un concorso. Se ne vuole andare pure lui. Nemmeno Grillo saprebbe spiegarci meglio di così l’effetto della parola “vaffanculo”.
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