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È stato raggiunto oggi presso l’ARAN l’accordo per il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) Comparto Istruzione, Università e Ricerca 2019/21.


MESsaggio dal capitale: “Tutto mio” | La Città Futura

"Gli Stati in crisi e che vi ricorrono, infatti, vengono sottoposti a vincoli finanziari pesanti e i pochi poteri residui in fatto di politica economica che le regole di Maastricht ancora consentono verrebbero espropriati dal capitale finanziario, il quale non solo imprimerebbe una nuova pressione ai diritti sociali ma impedirebbe anche di rispondere adeguatamente alla recessione che ormai interessa quasi tutta l’eurozona."

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L’Iran rispetti la libertà di opinione


In Italia la libertà di opinione è un diritto costituzionale. Con il presidente della commissione Politiche europee Giulio Terzi di Sant’Agata, ieri ho invitato la presidente del Consiglio nazionale per la resistenza iraniana in Fondazione Luigi Einaudi p

In Italia la libertà di opinione è un diritto costituzionale. Con il presidente della commissione Politiche europee Giulio Terzi di Sant’Agata, ieri ho invitato la presidente del Consiglio nazionale per la resistenza iraniana in Fondazione Luigi Einaudi per esprimere le proprie. A moderare l’incontro è stato il direttore di Formiche.net, Giorgio Rutelli.

Maryam Rajavi ci ha illustrato il proprio manifesto politico e l’ha fatto in forma di decalogo: suffragio universale, pluralismo, libertà di stampa, parità tra i sessi, separazione netta tra Stato e Chiesa, rispetto dei diritti umani, riconoscimento della proprietà privata, abolizione della pena di morte… I capisaldi dello Stato liberale di diritto sbandierati nella casa dei liberali italiani. Che Teheran ne abbia fatto un caso tanto da convocare l’ambasciatore italiano è una circostanza emblematica. Direi rivelatrice. Rivela il grado di fanatismo e di illiberalismo del regime iraniano. Ogni liberale dovrebbe sentirsi offeso.

Accogliendo Maryam Rajavi, ieri ho chiarito quale fosse la posizione della Fondazione: “Il nostro approccio è laico per definizione, noi non parteggiamo per nessuna delle tante organizzazioni della dissidenza iraniana. Noi stiamo dalla parte del popolo iraniano e crediamo che il conflitto tra gli oppositori del regime, veri o presunti che siano, rappresenti il miglior favore che si possa fare alla teocrazia di Teheran”. Il conflitto, in effetti, c’è. Ed è un conflitto violento. In molti non credono alla conversione democratica dei mujahidin della signora Rajavi, in molti ne ricordano il fanatismo e le violenze ai tempi di Komeini e dopo. Ogni dubbio è legittimo. Resta il fatto che quando la Fondazione Luigi Einaudi ha ospitato i rappresentanti di altre organizzazioni non abbiamo avuto reazioni. Ieri la reazione di Teheran è stata esorbitante. Quanto all’accusa di “terrorismo”, è il modo con cui tutte le autocrazie e tutti gli Stati invasori liquidano il dissenso. Capitò anche al nostro Giuseppe Mazzini.

Con spirito einaudiano, non facciamo processi alle intenzioni. Crediamo nel valore della parola, e le parole spese da Maryam Rajavi sono tutte condivisibili. Sono talmente condivisibili che 307 parlamentari italiani hanno firmato il suo appello per un Iran libero e democratico. Delle due, dunque, l’una: la Rajavi è il Diavolo e ci sta ingannando tutti, oppure il Diavolo sta ispirando gli animi di quanti oggi contestano i mujahidin. Una cosa, invece, è certa. Il conflitto tra le organizzazioni del dissenso, conflitto di cui è responsabile anche l’organizzazione della signora Rajavi, fa il gioco non del popolo, ma del regime iraniano.

Formiche

L'articolo L’Iran rispetti la libertà di opinione proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Ucraina e Indo Pacifico. Le scelte giuste della Nato secondo Calovini


Ucraina e indopacifico: sono questi i due macro temi che scaturiscono al termine del vertice Nato di Vilnius e che testimoniano come la politica internazionale a quelle latitudini sia di primaria rilevanza per le future strategie dell’alleanza. Al vertice

Ucraina e indopacifico: sono questi i due macro temi che scaturiscono al termine del vertice Nato di Vilnius e che testimoniano come la politica internazionale a quelle latitudini sia di primaria rilevanza per le future strategie dell’alleanza.

Al vertice di Vilnius è passata la linea prudente, fortemente voluta da Washington, circa l’ingresso di Kiev nell’alleanza. Significa che, al di là della delusione espressa da Volodymyr Zelensky, l’impostazione degli Stati Uniti è certamente quella che presenta il maggior equilibrio in termini di peso specifico. Il motivo? L’adesione in questo preciso momento dell’Ucraina nella Nato sarebbe stata letta come un vero e proprio azzardo in un frangente estremamente delicato che invece è meritevole di decisioni ragionate e non dettate dalla fretta.

Il vertice dell’alleanza era fisiologicamente focalizzato sulla guerra in Ucraina che, da più di 500 giorni, ha rimesso in discussone ogni equilibrio geopolitico nel vecchio continente, con una serie di altri effetti a catena.

Kiev può comunque ritenersi soddisfatta, dal momento che incassa un dividendo preciso: il supporto alla causa ucraina di tutti i membri dell’alleanza è oggettivo e sincero. Per cui, al di là di qualche fisiologico distinguo, non vi è Governo occidentale che non aiuti Kiev in modo concreto sia sotto l’aspetto politico che sotto l’aspetto militare. Lo dimostra il modus con cui le richieste del Presidente Zelensky sono state esaudite.

In linea generale a Vilnius si è verificato un cambiamento sostanziale rispetto al passato, confermato da tre elementi che meritano di essere evidenziati in questo bilancio post vertice. In primo luogo, seguendo la traccia già impressa a Madrid, al centro del vertice è stata posta la politica internazionale, come da anni non accadeva. Lontani i tempi in cui autorevoli presidenti definivano l’alleanza “obsoleta” (Donald Trump 2017) o “cerebralmente morta” (Emmanuel Macron 2019). Di certo avremmo preferito non dover testare la reazione dell’alleanza dinanzi all’invasione russa ma la compattezza dimostrata è stata notevole e la necessità di un’alleanza militare efficiente e preparata di cui far parte è sotto gli occhi di tutti.

Inoltre l’ambizione di un’Europa potenza militare autonoma sembra aver mostrato le proprie fragilità di fronte alla dura realtà della guerra ed è destinata (per ora?) a rimanere tale. L’Europa – e l’Italia – non possono prescindere dall’altra sponda dell’Atlantico per la propria sicurezza.

In secondo luogo, oltre alla presenza della Svezia prossima all’ingresso nella Nato, al pari della Finlandia, a Vilnius sono stati presenti altri paesi alleati: Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud. Si tratta di un’interessante novità che offre la risposta geopolitica alle nuove sfide che da quelle latitudini si stanno manifestando. L’indo Pacifico è uno scenario di politica internazionale di primo piano che non può essere più tenuto in disparte e che, invece, merita una sempre maggiore attenzione da parte della Nato e dell’occidente.

E’inoltre un dovere programmatico e politico intensificare il dialogo con quei paesi che, come noi, osservano con attenzione, e forse un po’ preoccupazione, la crescita di Pechino non più come forza economica ma soprattutto come potenza militare e nucleare. L’Italia pur non potendo operare un ribilanciamento massiccio verso l’Indo-Pacifico e pur raccomandando che l’Alleanza mantenga un baricentro euro-atlantico (come dimostrato dalla guerra in Ucraina), riconosce che il mondo sta diventando sempre più a trazione asiatica

Infine il terzo elemento che attiene il peso specifico italiano: al di là delle singole e legittime opinioni, va riconosciuto al Governo Meloni di aver effettuato un altro passo significativo nell’ambito della politica internazionale e che ha portato il nostro paese ad essere al centro dello scenario come non avveniva da tempo. L’attivismo del Presidente del Consiglio

in ambito europeo e globale ha avuto come effetto primario quello di ridare autorevolezza all’Italia, smentendo con i fatti chi adombrava lo spettro di un esecutivo inesperto o inaffidabile nelle relazioni internazionali. Non solo la netta vicinanza di Roma a Kiev, ma anche la contingenza di un governo stabile e in grado di interloquire con alleati e altri partners internazionali: ciò aumenta la consapevolezza di una svolta vera per il nostro paese.

Diceva Churchill che non c’è nulla di sbagliato nel cambiamento se è nella giusta direzione. In questo caso credo che l’Alleanza atlantica abbia, con coraggio, fatto la scelta giusta.


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Al Consiglio supremo di Difesa, il governo fa il punto su Vilnius


Dall’Ucraina al Mediterraneo allargato, passando per il vertice Nato di Vilnius e lo stato di approntamento delle Forze armate italiane. Sono stati questi i temi al centro del Consiglio supremo di Difesa, presieduto al Quirinale dal Presidente della Repub

Dall’Ucraina al Mediterraneo allargato, passando per il vertice Nato di Vilnius e lo stato di approntamento delle Forze armate italiane. Sono stati questi i temi al centro del Consiglio supremo di Difesa, presieduto al Quirinale dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e che ha riunito oltre al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, anche i ministri degli Esteri, Antonio Tajani; della Difesa, Guido Crosetto; dell’Economia, Giancarlo Giorgetti; delle Imprese, Adolfo Urso; insieme al capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone. In particolare, il presidente Meloni ha illustrato gli esiti del summit atlantico, e soprattutto ha presentato l’iniziativa del governo italiano nel corso dell’incontro lituano nel richiamare l’attenzione dell’Alleanza verso il fianco sud. A margine del Consiglio, inoltre, il presidente Mattarella e il premier Meloni hanno avuto un colloquio di circa un’ora, durante il quale il presidente del Consiglio ha presentato i dossier attualmente in agenda per il governo.

Mediterraneo, cono di interesse della Nato

Come si legge nella nota rilasciata dal Quirinale, “senza il consolidamento politico, sociale ed economico” del continente africano “non è infatti possibile garantire la sicurezza dei Paesi membri dell’Unione europea, che a loro volta sono parte fondamentale dell’Alleanza atlantica”. Da Consiglio è emersa ulteriormente la condizione del Mediterraneo allargato quale oggetto di “speciale attenzione”, in considerazione della sua rilevanza strategica e del suo potenziale quale crocevia di instabilità capace di interessare diverse regioni contemporaneamente. Nel corso del vertice a Vilnius, del resto, la premier aveva definito proprio le acque del Mare nostrum come un “cono di interesse” per la Nato del prossimo futuro.

Presenza internazionale

Tra i temi discussi anche le diverse aree di crisi nelle quali l’Italia è presente con le sue Forze armate. Dallo scoppio della guerra in Ucraina, i militari italiani sono presenti in un arco che parte dai Paesi baltici per arrivare fino al Sahel, passando per i Balcani e il Medio Oriente. Un’area la cui estensione è, per il Paese, seconda solo a quella dell’ultima Guerra mondiale. Uno sforzo non secondario, che assicura la posizione del Paese nel mutato scenario globale, sempre più complesso e fragilizzato dall’aggressione Russa. A riguardo, il Consiglio di Difesa ha ribadito ulteriormente il sostegno a Kiev, basato sull’aderenza italiana ai valori della libertà, dell’integrità territoriale e l’indipendenza degli Stati, “valori fondanti dell’Unione europea e condizioni essenziali per l’ordine internazionale e la convivenza pacifica dei popoli”.

Lo strumento militare

Questo impegno avrà bisogno di uno strumento militare efficiente e moderno. Per questo il Consiglio ha approfondito il tema della necessità di dotarsi di una politica industriale nazionale per il settore della Difesa, al fine di “assicurare adeguata prontezza e capacità” alle Forze armate, assicurandogli “livelli di efficienza e capacità d’impiego adeguati e sostenibili nel tempo”. Il ministro Crosetto ha illustrato i principi che guideranno la riorganizzazione del dicastero, con finanziamenti adeguati. L’obiettivo è rendere l’organizzazione, in linea con i requisiti Nato, sempre più interforze, capace di “operare su tutti i domini, compresi i nuovi ambiti, quali lo spazio esterno, quello cognitivo e quello subacqueo”.


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Come Rifondazione Comunista parteciperemo attivamente all’organizzazione delle tre giornate di mobilitazione per il salario minimo promosse da Unione Popolare


La Nato può fare di più. Il punto del generale Tricarico su Vilnius


La soddisfazione e l’ottimismo con cui il summit di Vilnius è stato consegnato alla cronaca (qualcuno ha detto alla Storia) paiono francamente eccessivi e in parte fuori luogo, se si valuta la questione da una prospettiva meno condizionata dagli eventi in

La soddisfazione e l’ottimismo con cui il summit di Vilnius è stato consegnato alla cronaca (qualcuno ha detto alla Storia) paiono francamente eccessivi e in parte fuori luogo, se si valuta la questione da una prospettiva meno condizionata dagli eventi in corso nel centro Europa che -ricordiamolo – dovrebbero riguardare solo in maniera marginale l’Alleanza.

Semmai la Nato è parsa aver smarrito, oltre al senso della sua missione, anche quello della sua identità. Con Vilnius in altre parole essa è parsa stabilmente incamminata verso un mutamento genetico le cui prime avvisaglie erano ormai evidenti ed inequivocabili.

Come valutare altrimenti il fatto che, scorrendo il lungo comunicato finale, non si ravvisi il pur minimo accenno alla necessità di fermare, con un negoziato, il conflitto russo-ucraino, di “impegnarsi, come stabilito dallo Statuto delle Nazioni unite a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte”?

Questo impone la principale ragion d’essere dell’Alleanza, quella fissata in tutta la sua ineludibilità nell’Art. 1 del patto sottoscritto nel 1949. Invece il tema è stato solo sfiorato, anzi eluso, come lascia intendere il punto 9 del comunicato finale laddove si afferma, senza che se ne dia l’evidenza (e tantomeno la prova) che “mentre noi abbiamo sollecitato la Russia ad avviare un negoziato credibile con l’Ucraina, essa non ha mostrato alcuna genuina apertura per una pace giusta e duratura”.

Altra questione, tutt’altro che onorevole, i cui contorni sono ancora incerti, quella del prezzo pagato alla Turchia per il suo assenso all’ingresso della Svezia nell’alleanza.

Ciò che rimane ancora nebuloso è se il presidente turco intenda ancora mantenere la perentorietà del primo momento, ben esplicitata nel Memorandum siglato a fine giugno a Madrid con Svezia e Finlandia, nel richiedere l’estradizione di cittadini turchi, bollati come terroristi da Erdogan ma con tutta probabilità e in larga parte, soggetti dissidenti riparati all’estero, dello stesso tipo tanto per intenderci, di quelli gettati in carcere in Turchia, senza risparmio e senza riguardo, negli ultimi anni.

O se invece, come è parso di capire, la Turchia sarebbe disposta ad accontentarsi della generica rassicurazione della Svezia affinché venga esercitato un controllo più accurato sui comportamenti dei cittadini turchi in territorio svedese.

E anche qui, come valutare se non come bieco il comportamento di una Alleanza, fondata su democrazia, libertà e rispetto dei diritti, quando accetta una clausola liberticida pretesa da un Paese membro e chiude ambedue gli occhi di fronte alla consegna nelle mani di un tiranno di cittadini colpevoli solo di esercitare la libertà di pensiero?

Un terzo punto infine dovrebbe dissuadere, anche e soprattutto noi italiani, dal cantare vittoria al rientro da Vilnius.

Il presumibile e ampiamente previsto mantenimento di una attenzione isterica, e ora maggiormente immotivata, al fianco est dell’Alleanza declasserà ulteriormente la priorità, a lungo rivendicata, di un occhio più attento a ciò che da anni succede dalle nostre parti, nel continente africano e in medio oriente.

Sembra che non si sia considerato che la Russia, per tempi piuttosto lunghi, non costituirà minaccia militare per alcuno e tantomeno per la Nato, anche se Putin volesse insistere nelle sue mire imperiali.

Il suo esercito, ampiamente sopravalutato (anche dagli esperti), sottodimensionato nell’uso di sistemi ad alta tecnologia, sprovvisto di una dottrina di impiego moderna, logoro nel morale, nella leadership e nella disponibilità di mezzi ed armamento, morso senza pausa dalle sanzioni, dovrebbe far dormire sonni tranquilli all’Occidente per almeno i prossimi trenta anni, e solo nell’ipotesi che Putin avvii senza indugio un processo di ripensamento radicale e di riedificazione ex novo del suo strumento miliare.

Se così stanno le cose, perché continuare a partorire, nella migliore delle ipotesi, solo topolini in risposta alle legittime preoccupazioni dei Paesi del sud, e continuare a esorcizzare le comprensibili ma immotivate paure dei Paesi del nord?

Purtroppo, i rischi da sud non sono mai stati sufficientemente approfonditi a un tavolo di concertazione vera; nei comunicati finali dei vari summit, le considerazioni generiche sull’argomento ormai stucchevoli, vengono sistematicamente riciclate senza che si faccia una rassegna seria e complessiva del vasto e variegato panorama africano e mediorientale.

Qualcuno qui da noi è arrivato ad irridere Giorgia Meloni nell’assunto – falso – che il sud dell’Alleanza fosse stato da noi evocato solo in relazione alle migrazioni, ma così non è stato. Più di noi potrebbe argomentare la Francia, costretta a ritirarsi dal Mali dove si era imbarcata in una avventura azzardata senza che i suoi appelli a costruire insieme una forza militare degna di questo nome venisse raccolta da altri Paesi.

E il Mali in qualche maniera, con le dovuta differenze da altri Paesi africani, esprime il modello di una struttura statuale fragile, incapace di provvedere alla propria sicurezza avverso i pericoli di una criminalità dilagante, primo tra tutti il terrorismo mai sopito ma soggetto a una continua regolare espansione e radicamento.

Perché lasciare il Mali e altri in balia di chi, come Wagner ad esempio, o come Egitto, Turchia o altri, interpretano l’eventuale supporto alle istituzioni in pericolo solo in funzione del proprio tornaconto? Tornaconto raramente sovrapponibile allo sradicamento dei fenomeni criminali, talché il Paese assistito possa edificare in tutta sicurezza il proprio futuro.

Tra l’altro, oltre ai gruppi terroristici conosciuti, proprio negli ultimi dieci, quindici anni, quando il sentire comune percepiva come sonnolento il fenomeno criminale e la Nato ripeteva come un disco rotto le sue vaghe promesse, sono nati numerosi gruppi, tutti filiazione dei ceppi principali di Al Qaeda e Isis, che non hanno risparmiato nessun Paese africano, in maniera tanto più insidiosa quanto più fragile era la struttura statuale in cui insistevano.

Questo allora ci si aspetterebbe dalla Nato, che davvero volesse considerare il terrorismo nella sua reale dimensione ed insidiosità. E questo è uno dei motivi per cui alle preoccupazioni vere, non a quelle antirusse, ancora una volta a Vilnius non è stata in grado di dare risposta.

Ovviamente i novanta punti del comunicato finale del summit lituano fornirebbero altrettanti spunti di riflessione, soprattutto se si volesse mettere a punto in prospettiva una Strategic compass, magari destinata a maggiori fortune rispetto a quella elaborata dall’Unione europea. E tuttavia le tre questioni evocate forniscono, da sole e in maniera evidente, la percezione certa della necessità di un cambio radicale di passo atto a rafforzare la Nato, atto a far sì che la Nato resti o torni ad essere quello che è, uno strumento insostituibile per garantire pace, sicurezza e libertà.


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Minorenni


Parliamo dei minorenni abbandonati o che la giustizia ha ritenuto di sottrarre alle famiglie. La delicatezza contabile e istituzionale non toglie nulla a quella umana. Quindi cominciamo col dire che qualsiasi minore sia stato abbandonato o debba essere al

Parliamo dei minorenni abbandonati o che la giustizia ha ritenuto di sottrarre alle famiglie. La delicatezza contabile e istituzionale non toglie nulla a quella umana. Quindi cominciamo col dire che qualsiasi minore sia stato abbandonato o debba essere allontanato da familiari che siano per lui un pericolo, dev’essere sostenuto e protetto al meglio e a cura della spesa pubblica. Quale che sia la provenienza del ragazzino. Solleviamo il problema perché non ci sembra si faccia nel necessario migliore dei modi e perché i conti non tornano.

Quel che pochi sanno è che il costo di questi sostegni ricade sui Comuni di residenza. Sono anni che il sindaco di Sant’Angelo Lomellina, Matteo Grossi, prova a richiamare l’attenzione su questa assurdità. Ma la politica mostra d’essere poco interessata. Quasi che quella spesa incontrollata sia un bene in sé. La cosa aveva un senso, forse, nell’era dei viaggi in carrozza: la popolazione era stanziale e la municipalità conosce meglio di altri i guasti e i fasti del proprio borgo. Ma oggi ci si sposta, si arriva dall’estero, si vive dove neanche si è conosciuti, talché la municipalità ne sa quanto la nazionalità, ovvero poco e niente. In compenso mettere sul conto dei Comuni il pagamento delle rette, relative al mantenimento, non ha alcun senso e rischia di schiantare bilanci assai gracili.

Il che ci porta alla questione dei soldi: per due casi di questo tipo il Comune di Sant’Angelo spende 60.363 euro l’anno, ricevendo indietro dalla Regione Lombardia un terzo della spesa; la stessa Regione, come si può leggere nel suo sito, calcola in 100 euro la retta quotidiana media da pagare. Significa che alla spesa pubblica un minore costa mediamente 36.500 euro all’anno. E qui c’è un primo problema, perché quella cifra è superiore alla dichiarazione dei redditi della gran parte delle famiglie italiane, che oltre ai figli mantengono anche i genitori.

Nel 2022 i minori da ospitare e mantenere in Lombardia erano 3.250. La sola Milano ne ha attualmente in carico 1.300, il doppio dell’anno scorso. E sono stati destinati a 866 “comunità”, che incassano le rette e si trovano anche in altre Regioni, perché il problema è nazionale. Se quei minori fossero stati ospitati per l’intero anno, significherebbe che ogni “comunità” ospita 3,7 ragazzi. Conosco famiglie che hanno un numero più alto di bambini in affido. Ma anche a considerare permanenze inferiori, anche a raddoppiare la media degli ospiti, è evidente che non stiamo parlando di istituti specializzati e attrezzati, con ben maggiore capienza. Il che, forse (e voglio sperare), spiega l’alto costo unitario.

Sempre Regione Lombardia ha stabilito un maggiore stanziamento – pari a 1 milione – per compensare i Comuni che non reggono la spesa. Dividendo quella cifra per i giorni dell’anno e i bambini da accudire, ne deriva per i Comuni un incasso pari a 84 centesimi al giorno, che vanno a cumularsi al terzo già coperto. Quindi spendono 100 e ricevono 34. Non ha senso.

Siccome quel che più è importante sono i bambini, le cose da farsi – qui, ora, subito – sono: a. centralizzare l’intera questione; b. predisporre istituti appositi, con personale adeguatamente preparato; c. controllarli a cura di soggetti indipendenti dagli stessi istituti, il che è impossibile se le “comunità” si contano a migliaia; d. in questo modo fornendo tutto il possibile sostegno ai minorenni e abbattendo i costi unitari con economie di scala (a cominciare dall’alloggio e dal vitto).

Non voglio neanche prendere in considerazione l’ipotesi che quel fiume di spesa, cui i Comuni sono costretti e sul quale non hanno il benché minimo controllo, sia destinato ad assistere più gli assistenti che gli assistiti. Sarebbe orribile. Ma un sistema tanto disfunzionale non è in grado di dare quel che è necessario. Ancora una volta, l’aspetto contabile si rivela quindi il faro più efficace per seguire il sentiero dell’umanità e abbandonare il vicolo cieco dell’ipocrisia.

La Ragione

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La Thailandia non ha ancora un primo ministro: Pita ha bisogno di 50 voti


La Thailandia non ha ancora un primo ministro: Pita ha bisogno di 50 voti Thailandia
Come previsto, il leader del Move Forward Pita Limjaroenrat non è riuscito a ottenere abbastanza voti dai senatori per essere nominato primo ministro. Per la Thailandia inizia una fase di grande incertezza politica.

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In Cina e Asia – Blinken incontra Wang Yi a Giacarta per tenere aperto il dialogo Cina-Usa


In Cina e Asia – Blinken incontra Wang Yi a Giacarta per tenere aperto il dialogo Cina-Usa blinken
I titoli di oggi:

Blinken incontra Wang Yi a Giacarta per tenere aperto il dialogo Cina-Usa
La Germania ha pubblicato la sua prima strategia per la Cina
Pechino apre all’intelligenza artificiale. E Musk lo ha capito

Il capo dell’organo legislativo di Shanghai accusato di corruzione
Hong Kong: milioni di visitatori cinesi, ma non sono turisti
Kishida a Bruxelles per il 29° vertice tra Giappone e Unione Europea

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“Il pollice all’insù non è consenso”


L’ emoji del pollice in su è entrata così tanto nella nostra comunicazione virtuale che digitarla, ormai, rappresenta un vero e proprio vincolo? Ne scrivo oggi su La Svolta. Qui il testo completo lasvolta.it/8652/il-pollice-al…


guidoscorza.it/il-pollice-alli…



Etiopia, la repressione continua – Padre Sereqebirhan Weldesamuel, detenuto ad Addis Abeba


Abba Sereqebirhan Weldesamuel, un eminente padre religioso tigrino detenuto ad Addis Abeba mentre atterrava mercoledì all’aeroporto internazionale di Bole, Etiopia. Abba Sereqebirhan Weldesamuel ha detto di essere stato bloccato per la prima volta dai fun

Abba Sereqebirhan Weldesamuel, un eminente padre religioso tigrino detenuto ad Addis Abeba mentre atterrava mercoledì all’aeroporto internazionale di Bole, Etiopia.


Abba Sereqebirhan Weldesamuel ha detto di essere stato bloccato per la prima volta dai funzionari della sicurezza all’aeroporto senza alcuna spiegazione e motivazione per la sua detenzione.

Giovedì 13 luglio 2023 in una conversazione telefonica con Tigrai TV, Aba Serqebirhan ha dichiarato che gli è stato detto che “non gli è permesso viaggiare nel Tigrai”

Ha aggiunto:

“Non capisco il motivo per cui non ci è permesso viaggiare nel Tigrai. L’accordo di pace è già firmato. Abbiamo bisogno di incontrare la nostra famiglia, la nostra gente.”


Padre Serqebirhan Weldesamuel è un padre religioso tigrino famoso per il suo ripetuto appello a fermare le atrocità commesse contro il popolo tigrino durante la guerra di 2 anni in Tigray.

Continua così la repressione subdola di stampo politico verso tutti gli etiopi di etnia tigrina, nonostante siano passati più di 8 mesi dalla firma dell’accordo di Pretoria sulla cessazione ostilità: punti alquanto disattesi visto i continuati abusi.


tommasin.org/blog/2023-07-14/e…



„Pay or Okay“ on tech news site heise.de illegal, decides German DPA


"Pay or Okay" sul sito di notizie tecnologiche heise.de è illegale, decide la DPA tedesca L'Autorità per la protezione dei dati personali della Bassa Sassonia (LfD) ha deciso che la soluzione "Pay or Okay" utilizzata da heise.de è illegale The logo of heise.de and the title


noyb.eu/en/pay-or-okay-tech-ne…




“AI+: Generative AI for Business. Una nuova intelligenza artificiale per il business”


Oggi al The Dome Campus della Luiss abbiamo discusso di AI+: Generative AI for Business. Una nuova intelligenza artificiale per il business con Barbara Carfagna


guidoscorza.it/ai-generative-a…



Il filo che unisce Vilnius al Mediterraneo, e si estende fino al Sudan


Quale il collegamento valoriale tra Vilnius e il Mediterraneo, macro tema agitato da Giorgia Meloni sia nel vertice stesso che nel bilaterale con Recep Tayyip Erdogan? Un primo piano di analisi tocca, evidentemente, i singoli e articolati dossier, di ieri

Quale il collegamento valoriale tra Vilnius e il Mediterraneo, macro tema agitato da Giorgia Meloni sia nel vertice stesso che nel bilaterale con Recep Tayyip Erdogan? Un primo piano di analisi tocca, evidentemente, i singoli e articolati dossier, di ieri e di oggi, che gravitano nel raggio d’azione del mare nostrum e può essere utile ricucirli con il filo italiano per far emergere un principio: non si vive di sola Ucraina e se la Nato non affronterà con parimenti programmazione e impegno anche gli altri nodi, le emergenze future non saranno gestibili, né prevedibili.

Eccone una ricognizione che tocca aree ultrasensibili come Libia, Tunisia, Africa centrale: tutte dimostrano che il mondo è sempre più interconnesso e che il mare nostrum è un quadrante su cui si riflettono le conseguenze del conflitto ucraino.

Libia

La ripresa dei voli diretti tra l’Italia e la Libia rappresenta un indirizzo interessante, non fosse altro perché è una primizia dopo anni di generici intenti e permetterà a Tripoli operare voli diretti per l’Europa in breve tempo. Tocca inoltre il tema dello sviluppo positivo alla voce “contatti tra le aziende dei due Paesi”. L’importanza di riprendere i voli diretti è stata compresa dal governo italiano e l’annuncio della ripresa è giunto dopo un incontro tenutosi a Tripoli, alla presenza del Capo dell’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile, dell’ambasciatore d’Italia in Libia, del Capo dell’Ente Generale per l’Aviazione Civile e del ministro delle Comunicazioni. Un passo, questo, che nelle intenzioni accompagna gli sforzi da compiere verso la normalizzazione istituzionale della Libia, su cui Roma sta lavorando da tempo.

Due settimane fa è volato alla Casa Bianca il consigliere per la sicurezza nazionale Ibrahim Bushnaf ricevuto dal direttore del dipartimento Nord Africa presso il Consiglio di sicurezza nazionale, Jeremy Berndt. Nelle stesse ore a Roma si svolgeva il primo incontro tra il nuovo ambasciatore di Libia Muhannad Saeed Ahmed Younes e il Capo dello Stato, che ne ha ricevuto le credenziali.

Tunisia

Dopo la repressione politica del presidente Kais Saied contro il dissenso in Tunisia, l’Europa è stata chiamata a gestire l’instabilità di un Paese sull’orlo del fallimento, che già è trampolino di lancio per migliaia di migranti che stanno arrivando in Italia. L’economia locale è in collasso mentre si attende la decisione del Fondo Monetario Internazionale per i nuovi finanziamenti esteri. Bruxelles e Roma hanno inviato un segnale forte a Tunisi, coagulatosi attorno alla visita congiunta Meloni, von der Leyen, Rutte per affrontare il caso (migranti più crisi finanziaria) attraverso una voce sola e tramite un modello, stimolato da Palazzo Chigi.

Sudan

Dallo scorso mese di aprile il Paese è scosso dagli scontri tra l’esercito sudanese e il principale gruppo paramilitare, le Forze di supporto rapido, definite RSF. La guerra ha provocato migliaia di vittime, tre milioni di sfollati (di cui 700mila in viaggio verso altre aree) e ha aumentato il peso specifico di una gravissima crisi umanitaria che ha lasciato quasi la metà della popolazione in una situazione di fame. Altro effetto connesso è verso i produttori di gomma arabica sudanesi, settore che da 70 anni offre lavoro e sussistenza al Paese, che segnalano un crollo dei prezzi di circa il 60%.

Circa 218mila persone hanno cercato rifugio in Ciad, 60mila in Etiopia, mentre l’Egitto ha già ricevuto oltre 250.000 sudanesi, che rappresentano circa il 60% del numero totale di chi è fuggito e in 146mila sono già giunti in Sud Sudan. Tra gli effetti a catena c’è l’attuazione dell’accordo di pace rivitalizzato del 2018 in Sud Sudan e lo svolgimento delle elezioni alla fine del prossimo anno.

La comunità internazionale si è impegnata a elargire 1,52 miliardi di dollari in risposta all’appello delle Nazioni Unite (per 3 miliardi di dollari) al fine di affrontare la situazione attuale.

Le ultime notizie parlano del rifiuto da parte del ministero degli Esteri allineato con l’esercito del Sudan della proposta di vertice regionale che decida il dispiegamento di forze di mantenimento della pace per proteggere i civili. In questo modo perde consistenza la speranza di porre fine alla guerra. Proprio al fine di stimolare le pari ad una pax, l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) ha chiesto alle parti rivali di considerare il dispiegamento di una forza regionale e nuovi negoziati di pace. L’offerta di mediazione è stata la prima dopo lo stop dei colloqui a Jeddah.

Libano

Il Paese che vanta il più alto numero di rifugiati al mondo, dal 2019 sconta una crisi economica che si sta progressivamente aggravando. Si tratta della sua peggiore crisi dalla guerra civile del 1975.

Da un lato, dunque, un Paese che sta fallendo; dall’altro la crescita di Hezbollah favorendo al contempo un’aspra lotta all’interno del Parlamento. La valuta locale è in caduta libera, con le proteste dei correntistiche non possono accedere ai propri depositi dove le banche hanno messo un limite ai prelievi di dollari. L’esplosione al porto del 2020 ha comportato danni ingenti e la perdita di forza lavoro che ha fatto schizzare la disoccupazione al 40%. Da suolo libanese, inoltre, vengono anche lanciati razzi contro Israele.

Egitto

La crisi economica in Egitto si è materializzata in virtù del crollo della sterlina egiziana, scesa ai minimi storici rispetto al dollaro. Un forte deficit commerciale ha fatto salire i prezzi dei beni essenziali, con un’inflazione che ora supera il 30%. Il debito sovrano egiziano è difficilmente sostenibile, pari a 169,5 miliardi di dollari alla fine di dicembre 2022. In questo contesto sta prendendo piede la possibilità che il governo di Al-Sisi prenda in considerazione una mossa specifica ma dai risvolti geopolitici chirurgici: la privatizzazione del Canale di Suez verso un player straniero.

L’Economist ha recentemente valutato un contratto di locazione di 99 anni per il canale a circa un miliardo di dollari. Se da un lato il governo potrebbe così provare ad uscire dal pantano economico, dall’altro si ragiona sulle conseguenze geopolitiche di un eventuale acquisto da parte di soggetti esterni dalle fortissime disponibilità. Ad esempio Pechino che, dopo Cosco al Pireo, metterebbe così a segno un altro colpo significativo.


formiche.net/2023/07/vilnius-m…



Maryam Rajavi alla FLE: “Occidente sospenda i rapporti economici con il regime iraniano dei Pasdaran”


“I paesi che si disperano per il tragico destino delle donne iraniane dovrebbero essere conseguenti con questo giusto sentimento di democrazia e libertà e sospendere ogni tipo di relazione commerciale con l’Iran, soprattutto quelle riguardanti i settori b

“I paesi che si disperano per il tragico destino delle donne iraniane dovrebbero essere conseguenti con questo giusto sentimento di democrazia e libertà e sospendere ogni tipo di relazione commerciale con l’Iran, soprattutto quelle riguardanti i settori bancario e petrolifero. Il 90% dei proventi di queste attività finanzia il regime dei pasdaran che a sua volta finanzia il terrorismo in giro per il mondo oltre che la guerra di Putin contro il popolo ucraino e i valori occidentali. Arriverà presto il momento in cui il regime cadrà e l’Iran conoscerà la democrazia, la parità tra uomo e donna, la separazione tra Stato e chiesa, la libertà di stampa, il pluralismo politico e la fine della pena di morte. Solo nelle ultime ventiquattro ore in Iran sono state eseguite tredici condanne capitali”.

Lo ha detto la presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI) Maryam Rajavi durante un incontro organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi. Rajavi è stata accolta dal Segretario generale della Fondazione, Andrea Cangini, e dal presidente della commissione Politiche dell’Unione europea del Senato, Giulio Terzi di Sant’Agata, ha moderato il dibattito il direttore di formiche.net, Giorgio Rutelli.

Il Senatore Terzi dal canto suo ha sostenuto l’urgenza che la comunità internazionale metta al più presto al bando i Pasdaran come organizzazione terroristica, tesi che Rajavi ha convintamente avallato.

“La Fondazione è al fianco del popolo iraniano sin dall’inizio di questa rivolta”, ha detto Andrea Cangini. “Abbiamo organizzato incontri, convegni, scritto manifesti e lanciato appelli, convinti come siamo che i tempi siano maturi per un cambio di regime con la conseguente affermazione anche in Iran dei valori liberali e democratici”.

L'articolo Maryam Rajavi alla FLE: “Occidente sospenda i rapporti economici con il regime iraniano dei Pasdaran” proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Una Nato attenta alla Cina. Prospettiva indo-pacifica del Summit


Per il secondo anno di fila, la Cina è stato un argomento di interesse del Summit Nato. Come a Madrid nel 2022, anche quest’anno hanno partecipato al vertice Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda — i quattro principali partner dell’Indo Pacif

Per il secondo anno di fila, la Cina è stato un argomento di interesse del Summit Nato. Come a Madrid nel 2022, anche quest’anno hanno partecipato al vertice Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda — i quattro principali partner dell’Indo Pacifico (noti come IP4), attori importanti di una regione che gli Stati Uniti e (non solo) considerano come prima linea del contenimento della crescita di influenza globale cinese.

Strategia ampia e copertura Nato

Un diplomatico spiega in via confidenzale a Formiche.net che sebbene il driver dell’interessamento alla Cina da parte della Nato sia connesso al rafforzamento militare e in parte all’allineamento tattico con la Russia, che resta ancora l’attenzione prioritaria dell’alleanza (soprattutto con la guerra in Ucraina), c’è dell’altro. “La questione dei semiconduttori, delle terre rare, del securitarizzazione delle supply chain, la competizione tecnologica in generale è qualcosa a cui i membri guardano con attenzione quando pensano alla Cina”.

Non è un caso se la Germania abbia approfittato del vertice alleato di Vilnius per mettere in azione la tanto attesa strategia sulla Cina. Il gabinetto del cancelliere Olaf Scholz la passa oggi, giovedì 13 luglio: sarà centrata sul “de-risking” da Pechino, vista da Berlino come un concorrente e un rivale strategico sempre più assertivo, riducendo gradualmente la dipendenza dal Paese piuttosto che sganciandosi dal mercato cinese.

Anche la Lituania ha approfittato del vertice per rendere pubblica la sua strategia per l’Indo Pacifico. Da Vilnius, a un passo dalla Bielorussia alleata di Vladimir Putin, il governo lituano ha usato la presenza dei leader Nato per annunciare l’approfondimento dei rapporti con Taiwan — che già erano costati alla Lituania la risposta violenta di Pechino a colpi di coercizioni economiche (al punto che l’Ue era dovuta intervenire creando uno strumento anti-coercizione perché quello di Vilnius rappresentava un preoccupante precedente).

Narrazioni e interessi

Come si legge nella sintesi del comunicato congiunto del summit, “le ambizioni dichiarate e le politiche coercitive della Repubblica Popolare Cinese (Prc) sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori”. Sebbene la Nato sottolinei, come di rito, di restare aperta “a un impegno costruttivo con la Prc, anche per costruire una trasparenza reciproca, al fine di salvaguardare gli interessi di sicurezza dell’Alleanza”, rimarca anche la “crescente partnership strategica” tra Pechino e Mosca e i loro “tentativi, che si rafforzano a vicenda, di minare l’ordine internazionale basato sulle regole”.

In punti più ampi, più avanti nella lunga dichiarazione, i leader dell’alleanza hanno anche richiamato la Cina per le “operazioni ibride e cibernetiche dannose e per la sua retorica conflittuale e la disinformazione” e hanno accusato Pechino di sforzarsi “di sovvertire l’ordine internazionale basato sulle regole, anche nei domini spaziale, cibernetico e marittimo”. La dichiarazione ha inoltre espresso preoccupazione per i tentativi della Cina di “controllare settori tecnologici e industriali chiave, infrastrutture critiche, materiali strategici e catene di approvvigionamento” e di “creare dipendenze strategiche”. La Cina impiega “un’ampia gamma di strumenti politici, economici e militari per aumentare la sua impronta globale e proiettare il suo potere, pur rimanendo opaca sulla sua strategia, le sue intenzioni e il suo sviluppo militare”, si legge ancora nel comunicato, che inoltre invita Pechino “ad astenersi dal sostenere in qualsiasi modo lo sforzo bellico della Russia”.

Nel giro di un anno, quell’attenzione messa per la prima volta per iscritto al vertice di Madrid è evidentemente aumentata. È lo stesso linguaggio del comunicato a indicarlo. Il testo, solitamente frutto di scelte semantiche cavillose, menziona la Cina 14 volte, indicando una maggiore risalto che l’alleanza intende dare ad “affrontare le sfide sistemiche poste dalla Prc alla sicurezza euro-atlantica”. Per confronto, nel comunicato del vertice di Madrid la Cina riceveva un’unica menzione come uno dei diversi Paesi “che sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori e cercano di minare l’ordine internazionale basato sulle regole”.

La Cina detesta

Pechino non può essere soddisfatta. La linea di risposta calca sulla “mentalità da guerra fredda”, argomento retorico che il Partito/Stato usa nella sua narrazione. “Gli Stati Uniti stanno giocando una grande partita a scacchi. La Nato e gli alleati statunitensi nell’Asia-Pacifico vengono tutti utilizzati per promuovere gli interessi geopolitici degli Usa. Condivido la preoccupazione di alcuni osservatori europei che l’Europa possa diventare un vassallo e più dipendente dagli Stati Uniti”, ha scritto Wang Lutong, direttore generale dell’Ufficio europeo del ministero degli Esteri cinese (da notare: come spesso accade, Lutong ha espresso queste sue preoccupazioni contro le forzature della libertà dei singoli stati teoricamente imposte da Washington usando Twitter, un social network che in Cina non si è liberi di usare, ma in cui possono essere aperti invece account per i notabili del Partito e dello Stato).

“Ci opponiamo fermamente al movimento della Nato verso Est, nella regione dell’Asia-Pacifico, e qualsiasi azione che metta a repentaglio i legittimi diritti e interessi della Cina sarà affrontata con una risposta risoluta”, comunica invece il portavoce del ministero degli Esteri. Tuttavia, sebbene l’impegno della Nato con i partner dell’Indo-Pacifico sia generalmente letto attraverso la lente della competizione con la Cina, vale la pena notare che l’IP4 ha livelli diversi di comfort con l’idea di confrontarsi con Pechino.

L’IP4 e la Cina

Il segretario generale Jens Stoltenberg ha tenuto incontri separati con i leader di Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud. In ogni incontro ha esordito ringraziando per l’assistenza fornita all’Ucraina (che come detto resta la principale priorità della Nato) e ha poi offerto sostegno alle principali questioni di interesse del partner. Tuttavia, solo durante il meeting con il primo ministro giapponese, Fumio Kishida, Stoltenberg ha fatto riferimento a Pechino, in particolare al “pesante rafforzamento militare della Cina, alla modernizzazione e all’espansione delle sue forze nucleari”. In quel caso, il segretario generale ha anche sottolineato che l’ufficio di collegamento di cui tanto si è parlato è ancora sul tavolo e “sarà preso in considerazione in futuro”.

Esattamente come nel caso del liaison office, su cui le frenate (molte francesi, ma non solo) erano legate alla necessità di non indispettire eccessivamente Pechino, Stoltenberg ha evitato di menzionare la Cina nei commenti pubblici con gli altri tre leader dell’IP4, perché sia Seul che Canberra e Auckland hanno situazioni più complesse di quelle di Tokyo nel rapporto con Pechino. Tutti e tre vogliono evitare di farsi percepire allineati alla Nato nelle loro strategie di confronto con la Cina. Stoltenberg ha usato argomenti neutri per sottolineare le linee di contatto con i partner. Per esempio: parlando con il presidente sudcoreano, ha riaffermato la preoccupazione della Nato riguardo alla Corea del Nord (anche giustamente, visto il test di un Hwaseongpo-18 di mercoledì 12 giugno); per “il cyber, le nuove tecnologie e anche per contrastare le minacce ibride” con il premier australiano; per “il cambiamento climatico, il cyber e le nuove tecnologie” con il neozelandese.

La Nato in Asia?

Uno degli elementi usciti dal vertice di Vilnius, rimarcato dalla riunione laterale tra l’IP4 e i funzionari dell’alleanza, è la volontà di rafforzare la consapevolezza comune, la solidarietà e la cooperazione sulle minacce emergenti alla sicurezza. È l’ottica della visione comune tra Stoltenberg e Joe Biden, emersa anche nel recente incontro alla Casa Bianca: aumentare la connessione tra Nato e Indo Pacifico.

“È un Summit che conferma quanto anticipato lo scorso anno a Madrid con l’adozione del nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza, nel quale documento per la prima volta in due paragrafi è stata menzionata la Repubblica Popolare Cinese come una sfida agli interessi, alla sicurezza e ai valori dell’Alleanza”, commenta Matteo Bressan, docente di Studi Strategici e Relazioni Internazionali alla Lumsa Master School e analista presso il Nato Defense College Foundation. “Pur essendo un’alleanza regionale, affronta sfide globali, come ricordato dal segretario Stoltenberg: e quindi, nell’ottica del concetto della indivisibilità della sicurezza delle regioni euro-atlantiche e indo-pacifiche, assistiamo al rafforzamento delle partnership con Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Tale trend rispecchia il livello di competizione globale tra Washington e Pechino che vede, anche in altre iniziative come il formato Aukus, il coinvolgimento di paesi dell’Indo Pacifico e paesi della Nato in un’ottica di contenimento della Repubblica Popolare Cinese”.


formiche.net/2023/07/ip4-bilan…



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Confini tra Eritrea ed Etiopia – Storia dello Stato Regionale del Tigray


Borderless World vs Borders as Walls: approfondimenti da un gruppo di terra di confine nel nord dell’Etiopia Autore: Alexandra Magnolia Dias 1. Il confine tra Eritrea ed Etiopia ha cambiato frequentemente stato dal XIX secolo fino all’indipendenza dell’Er

Borderless World vs Borders as Walls: approfondimenti da un gruppo di terra di confine nel nord dell’Etiopia


Autore: Alexandra Magnolia Dias

1. Il confine tra Eritrea ed Etiopia ha cambiato frequentemente stato dal XIX secolo fino all’indipendenza dell’Eritrea (Triulzi, 2006: 7). Con la creazione dell’Eritrea come colonia italiana e prima dell’incorporazione dell’Etiopia nell’Impero italiano dell’Africa orientale, il confine fu definito secondo i trattati coloniali. Tuttavia, il confine è aumentato e diminuito nel corso dei decenni della loro convivenza politica. In effetti, lo status del confine è passato da un semplice indicatore amministrativo interno a un confine coloniale, alla dissoluzione, a un confine interstatale durante la federazione decennale, è diventato di nuovo un confine interno, ha attraversato una fase di contesa no-man’s- terra durante la guerra civile e, infine, ha acquisito lo status di confine internazionale tra due stati sovrani. Prima dello scoppio delle ostilità nel maggio 1998 il confine non era mai stato delimitato o demarcato. A tutti gli effetti, i gruppi etnici a cavallo del confine hanno continuato la loro normale attività quotidiana indipendentemente dalla linea di confine. Per i gruppi di confine l’indipendenza dell’Eritrea era di secondaria importanza di fronte al generale senso di sicurezza generato dalla fine della guerra civile contro il Derg.

2 All’indomani della guerra interstatale del 1998-2000 tra Eritrea ed Etiopia, il confine poroso è stato trasformato in un muro che ha portato alla sua chiusura e all’ostacolo dei movimenti stabiliti di persone e merci attraverso il confine. I gruppi etnici a cavallo dei confini particolarmente colpiti sono stati quelli dell’Etiopia settentrionale provenienti dalle regioni del Tigray e dell’Afar.

3 Questo articolo attinge a una ricerca empirica originale all’interno di un gruppo diviso, i Saho sul lato etiope del confine, il gruppo etnico denominato Irob. L’articolo farà luce sulle strategie e sulle identità mutevoli che un gruppo di terra di confine ha creato per adattarsi alla chiusura di un confine precedentemente poroso.

4 La prima parte dell’articolo caratterizza il gruppo delle terre di confine e i luoghi che ricadono nel territorio tradizionale di Irob in relazione al processo di formazione dello stato in Etiopia ed Eritrea, la traiettoria dello stato e l’estensione delle sue istituzioni all’area rurale in esame: l’attuale Irob woreda. 1 La seconda parte valuta l’eredità dei conflitti armati: dalla guerra civile che oppose i movimenti insurrezionali a cavallo del confine tra Etiopia ed Eritrea al regime militare marxista noto come Derg e la guerra di confine interstatale del 1998-2000 tra Eritrea ed Etiopia. L’articolo mostrerà che i due conflitti armati hanno lasciato eredità diverse nell’area rurale e hanno avuto un impatto diverso sulla vita quotidiana degli attori sociali locali. Infine, sullo sfondo delle due parti precedenti, l’articolo analizzerà le strategie del gruppo borderland ei cambiamenti di identità dalla chiusura e militarizzazione del confine tra Eritrea ed Etiopia all’indomani della guerra del 1998-2000.

NOTA 1: Woreda è l’unità amministrativa che corrisponde a un distretto locale secondo il nuovo modello federale post-1991 in Etiopia. Le unità amministrative sono le seguenti in ordine decrescente: regione-zona-woreda-tabia-kushet.

La traiettoria dello stato e l’estensione delle istituzioni statali a un’area rurale: Irob woreda (distretto)


5 Il distretto locale attualmente noto come Irob woreda si trova nella regione del Tigray nella zona orientale e conta 31.000 abitanti, che rappresentano l’1,3% della popolazione dell’Etiopia. La definizione di un distretto locale con il nome del gruppo etnico maggioritario in quest’area, l’etnia indicata come Irob, corrisponde al progetto politico di costruzione dello stato che l’Etiopia People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF) ha introdotto nel post-1991 dopo il rovesciamento del Derg .

6 La capitale dello Stato regionale del Tigray della Repubblica Federale Democratica d’Etiopia è Mekele. La regione del Tigray è divisa in quattro zone amministrative e la capitale è la quinta zona. Le cinque zone, denominate Zoba, sono le seguenti: occidentale, orientale, settentrionale, meridionale e la capitale. Irob woreda si trova nella zona orientale. La capitale della zona orientale è Adigrat. Attualmente, l’Irob woreda ha sette tabia e ventotto kushet . Le tabias sono le seguenti: Alitena, Indalgueda, Agara Lakoma, Ará, Endamosa, Haraza Sabata e Weratle.La vecchia capitale del territorio tradizionale Irob, Alitena, è stata sostituita da Dawhan, una nuova capitale nelle vicinanze nel 1997. Ma non è sempre stato così. In effetti, il riconoscimento della terra di Irob all’interno della struttura amministrativa dello stato è stata una novità introdotta nel contesto del progetto di costruzione dello stato politico dell’EPRDF. Nel periodo imperiale (Haile Selassie) l’Etiopia era divisa in 14 province e il Tigray era una provincia a quel tempo. Il Tigray era diviso in otto unità amministrative chiamate awaraja . Le aree in cui si trova la tradizionale terra Irob erano sotto l’amministrazione dell’Agame awaraja con Adigrat come capitale. Nel periodo Derg, il Tigray era diviso in 11 awaraja. A causa dell’intensità dei movimenti ribelli in Eritrea, Tigray e Ogaden nel 1987, il Derg ha creato cinque regioni amministrative autonome: Eritrea, Tigray, Assab, Dire Daua e Ogaden (Bureau, 1988: 13-16). Durante questo periodo, a causa dell’aumento dei movimenti insurrezionali nel Tigray, la loro crescente ascesa e legittimità fu sottoposta a un’amministrazione tripartita: 1) le aree urbane lungo la limitata infrastruttura stradale che rimase sotto il controllo del Derg; 2) i villaggi ( tabias ) e le frazioni ( kushets ) che erano sotto il controllo del principale movimento ribelle, il Tigray People’s Liberation Front (TPLF), e 3) terra nullis(terra di nessuno) che comprendeva zone periferiche e remote di difficile accesso. Molte delle località dell’attuale Irob woreda rientravano nella categoria 2 o 3.

7 Il modello federale post-1991 segna una rottura significativa con i precedenti progetti politici di costruzione dello stato e ha avuto molteplici implicazioni per Irob, come mostrerà questa parte dell’articolo. La transizione post-1991 prevedeva l’attuazione di un modello federale su base etnica. Questo modello si basava sul principio di uguaglianza tra i diversi gruppi che compongono la struttura sociale dell’Etiopia. Lo scopo del modello era quello di riflettere il carattere multilinguistico, multietnico e multiconfessionale dello stato etiope. Per superare la spinta centrifuga esercitata dalla periferia sul centro, il modello federale si è basato sul principio della devoluzione dell’autonomia alle regioni e ai comuni all’insegna del decentramento.

8 Il modello federale su base etnica mirava a ricostruire lo stato in un modo che riflettesse la distribuzione delle varie nazionalità in Etiopia. L’articolo 39 della nuova Costituzione riconosceva anche il diritto di secessione alle nazioni, nazionalità e popoli dell’Etiopia. In questo contesto, il concetto di nazionalità nella Costituzione del 1994 prevedeva il riconoscimento del carattere multinazionale dello Stato. In pratica, la Costituzione riconosce ogni cittadino come etiope (identità nazionale) e come identificato con il gruppo etnico maggioritario nella sua regione, zona o distretto locale – woreda. In questo senso, le nazionalità dovrebbero essere interpretate come sottonazionalità, che sono sinonimi di gruppi etnici. Le diverse unità amministrative ei confini interni tra di esse sono stati ridefiniti e delimitati secondo la distribuzione dei diversi gruppi etnici in ciascuna regione e unità amministrativa locale. Tuttavia, nel caso dell’Etiopia la distribuzione etnica non è geograficamente o omogeneamente consolidata in ogni regione. La logica alla base dell’espansione dello Stato a partire dal 19secolo , in particolare con l’imperatore Menelik II, fu quello di subordinare i focolai di opposizione allo stato centrale attraverso l’espansione e l’incorporazione di gruppi periferici. Questa logica è stata riprodotta e consolidata dai regimi successivi. Aggiungendosi a questa logica di espansione, i processi migratori volontari e forzati durante i regimi imperiali, l’occupazione italiana (1936-1941) e il regime militare marxista hanno portato alla dispersione geografica di vari gruppi etnici (Donham e James, 1986; James, et al , 2002; Turtone, 2006). Infine, i precedenti progetti politici di costruzione dello stato erano inquadrati attorno al principio di subordinare tutte le altre fonti di identità all’identità nazionale e l’amarico aveva la precedenza su tutte le altre lingue come lingua franca dello stato etiope.

9 Gli Irob e il loro territorio tradizionale sono rimasti alla periferia dello stato fino a tempi molto recenti, come mostrerà la prossima sezione dell’articolo. Il rapporto tra le traiettorie statali dell’Etiopia e dell’Eritrea e il posizionamento di questo gruppo etnico rispetto al confine tra Etiopia ed Eritrea sono fondamentali per comprendere il processo di estensione delle istituzioni e dei rappresentanti dello Stato a questa zona rurale di confine. Ma prima la sezione successiva introdurrà il mito delle origini degli Irob, le loro fonti di identificazione e il sottogruppo Bukenayto. Questo clan è di particolare importanza in quanto l’autore ha raccolto la maggior parte dei dati per il presente articolo attraverso l’osservazione dei partecipanti, interviste di gruppo e semi-strutturate tra gli Irob Bukenayto durante il lavoro sul campo nel novembre 2010, come menzionato nella sezione introduttiva.

Mito(i) di origine e fonti di identità di Irob


10 Nel XIX secolo , una famiglia Irob, i Soubagadi, svolse un ruolo fondamentale nella riconfigurazione del potere del Tigray e nella storia regionale delle rivalità politiche. Dedjatch Soubagadis (1816-1830) riuscì a guadagnare ascendente su altri potenziali candidati grazie alle sue abilità di guerriero e all’astuzia politica. Per gli Irob, in quanto gruppo minoritario nel Tigray, questo ha segnato un momento di ascesa politica in una regione dominata dal gruppo etnico maggioritario, i Tigray.

11 Le fonti e le narrazioni orali contemporanee differiscono in termini di origini dell’Irob. Gli Irob non si identificano con gli altri sette clan Saho che si sono convertiti all’Islam. Una riga difende che sono i discendenti dei greci che arrivarono all’attuale porto eritreo di Adulis, da qui il loro nome Irob che nella pronuncia locale suona come “Europa”. Un altro filone della tradizione orale li lega alla parola Roma. L’ultima collega Irob alla parola in saho che significa “ritorno alle origini”. Forse non è un caso che il mito delle origini colleghi Irob all’Europa, in quanto uno dei suoi lignaggi (Irob Bukenayto) si convertì al cattolicesimo dopo la fondazione di una missione lazzarista da parte di preti francesi nella tradizionale capitale della loro patria, Alitena, intorno al 1846. Gli altri due lignaggi, Irob Adgade e Irob Hasaballa, 2

NOTA 2: L’unica moschea di Irob woreda è stata costruita di recente nella nuova capitale, Dawhan. Le famiglie di Wuratle che si identificano con l’Islam e seguono la religione vivono pacificamente con quelle che si identificano con il cattolicesimo. Tuttavia, l’unico luogo pubblico di professione e culto religioso è una chiesa cattolica.

12 L’ascesa politica regionale di un rappresentante delle famiglie Irob, come accennato in precedenza, ha segnato l’affermazione dei membri di questo gruppo come attori sociali nello spazio politico del Tigray. Il padre di Soubagadis ebbe il merito di riunire i sostenitori delle tre famiglie Irob: Bukenayto, Hasaballa e Adgade (Coulbeaux, 1929: 381). La divisione in tre famiglie di questo sottogruppo dei Saho segue il principio della discendenza da uno dei tre fratelli e capi di questi clan.

13 In termini di organizzazione sociale e di unità di stirpe politica tradizionale le tre famiglie sono indicate come Are , che letteralmente significa casa o luogo di residenza secondo la tradizione di discendenza da una delle autorità tradizionali delle tre casate. Il leader di ogni clan è indicato come Ona ed è eletto a vita. Un consiglio di cinque anziani o di altri membri di riconosciuto prestigio all’interno del gruppo è responsabile della decisione finale. Questa posizione di Ona è rimasta prevalentemente all’interno di alcune famiglie e/o sottoclan in una linea di continuità. L’assemblea dei rappresentanti e altri importanti incontri e cerimonie si sono tradizionalmente tenuti nell’antica capitale di Irob, Alitena, 3in un luogo chiamato Dalubeta. A Weratle, un altro luogo nel territorio tradizionale di Irob, il tradizionale luogo di riunione si trova vicino alla clinica sotto un albero secolare ed è noto come Indharta Daga.

NOTA 3: Si veda la mappa 2 per identificare la posizione geografica di Alitena in relazione alla nuova capitale woreda, Dawhan, alla capitale della zona orientale, Adigrat, e alla città eritrea di Senafe.

14 In termini di organizzazione socio-economica, a differenza di altri sottogruppi Saho che tendono a rimanere nomadi e dediti ad attività pastorali transumanti, gli Irob sono sedentari e si dedicano all’agricoltura e all’allevamento del bestiame.

15 La loro lingua saho è una lingua cuscitica, come nel caso del somalo, dell’oromifa, dell’afar e di altre lingue del Corno d’Africa (Lewis, 1998: 176). In effetti, la loro lingua è molto vicina all’afar. Tuttavia, mentre Afar segue la scrittura latina, Saho segue la scrittura Ge’ez.

16 Più di recente, soprattutto dopo il riconoscimento internazionale dell’Eritrea come stato sovrano (formalmente nel 1993) è emersa un’interessante distinzione secondo un informatore locale: “In Eritrea, Saho si riferisce al popolo e alla lingua. In Etiopia, Saho significa lingua, non popolo”. 4

NOTA 4: Intervista con l’autore, Irob woreda, novembre 2010.

17 Per comprendere un’altra fonte di identità di questo gruppo e l’emergere e il consolidamento di una distinzione del Saho che è rimasto associato allo stato etiope, come l’Irob (Lewis, 1998: 176), la sezione successiva esaminerà lo stato divergente traiettorie degli stati etiope ed eritreo.

L’Irob in relazione alle traiettorie di Etiopia ed Eritrea e al confine


18 L’Etiopia, ad eccezione del periodo di occupazione italiana (1936-1941), non fu sotto il dominio coloniale, a differenza della maggior parte degli stati dell’Africa sub-sahariana. L’Eritrea, d’altra parte, ha intrapreso una traiettoria divergente di formazione dello stato con l’inizio del dominio coloniale italiano nel 1890.

19 L’Etiopia e l’Eritrea facevano entrambe parte dell’Impero abissino condividendo così una storia comune, tra gli altri tratti, 5fino a quando l’Italia non colonizzò l’Eritrea (1890-1941). Tuttavia, come afferma giustamente Jacquin-Berdal (citando Halliday e Molyneux, 1981) “né l’Eritrea né l’Etiopia nella loro attuale costituzione esistevano nel periodo precoloniale” (Halliday e Molyneux citati in Jacquin-Berdal, 2002: 85). Quando l’Etiopia sconfisse l’esercito italiano invasore nella storica battaglia di Adwa (1896) e l’Italia fu costretta ad accantonare il suo piano di espansione più a sud del fiume Mereb (il fiume tra Eritrea ed Etiopia) i due paesi seguirono traiettorie divergenti. Tuttavia, i gruppi a nord e a sud del Mereb, in particolare quelli con sede nella regione etiope del Tigray, hanno continuato ad attraversare il confine per sposarsi, visitare parenti, partecipare a matrimoni e funerali, adorare, cercare opportunità di lavoro diverse dall’agricoltura, commercio e ricerca di pascoli e acqua (Abbay, 1997). Insomma, la creazione della colonia italiana non ha impedito ai gruppi separati dal confine (che è rimasto poroso come in altre ex colonie africane) di continuare la loro vita quotidiana tra i loro parenti oltre confine. Ma il dominio coloniale italiano ha trasformato la società eritrea e ha contribuito alla creazione di un senso di differenza tra i gruppi all’interno dell’Eritrea rispetto al paese confinante meridionale.

NOTA 5: Sebbene le regioni costiere dell’Eritrea abbiano subito influenze esterne nel corso dei secoli, gli altopiani dell’Eritrea erano strettamente legati al Tigray dell’Etiopia. In effetti, i tigrini eritrei sono etnicamente legati ai tigrini etiopi. I leader del Fronte popolare di liberazione eritreo (EPLF) e del Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) erano soliti ricoprire le cariche di capi di Stato. Il presidente Isaias Afewerki dell’Eritrea e il defunto primo ministro Meles Zenawi dell’Etiopia sono entrambi tigrini. Il tigrino eritreo e il tigrino etiope parlano la stessa lingua, il tigrino, e seguono la stessa religione, il cristianesimo ortodosso, tra le altre caratteristiche (Jacquin-Berdal, 2002: 82-83). L’EPLF e il TPLF sono indicati localmente rispettivamente come shabya e woyane .

20 Tra il 1936 e il 1941, quando l’Italia invase e occupò l’Etiopia, sebbene Addis Abeba fosse la capitale dell’Impero italiano dell’Africa orientale, l’Eritrea rimase il principale centro commerciale ed economico. Infatti, nel 1940, il 54,8 per cento delle imprese industriali dell’Impero italiano era localizzato in Eritrea, mentre il 30,6 per cento era localizzato nelle restanti province etiopi (Shewa, Harar, Amara e Oromo & Sidamo) e il restante 14,6 per cento era localizzato in Somalia colonia italiana. Per quanto riguarda le imprese commerciali, la preminenza economica dell’Eritrea all’interno dell’Impero italiano dell’Africa orientale era ancora una volta indiscutibile: il 56,2 per cento delle imprese si trovava in Eritrea, il 30 per cento nelle restanti province etiopi e il 13,8 per cento in Somalia.

21 In conseguenza delle opportunità disponibili nella colonia eritrea italiana, per la maggior parte del XX secolo i contadini della vicina Etiopia, principalmente del Tigray, sono emigrati anche a nord (in Eritrea e soprattutto nella capitale, Asmara) quando avevano bisogno di un reddito supplementare (Giovani, 1997: 72).

22 I gruppi di confine, come Tigrini, Kunama, Saho-Irob e Saho-Afar, come avvenne in altre zone di confine dell’Africa, furono artificialmente divisi dal confine introdotto con la creazione della colonia italiana dell’Eritrea.

23 In effetti, come hanno affermato diversi intervistati riflettendo interpretazioni e narrazioni locali: “L’Eritrea non esisteva. Era l’Etiopia”. 6

NOTA 6: Intervista con l’autore, Irob woreda, novembre 2010.

24 Con la sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna amministrò l’ex colonia italiana fino a quando non fu determinato il futuro dell’Eritrea (1941-1952). Il destino dell’Eritrea è stato fissato dalla Risoluzione 390 A (V) delle Nazioni Unite del 1952 che ne ha stabilito lo status di regione autonoma all’interno della Federazione con l’Etiopia (1952-1962). Tuttavia, il progressivo deterioramento degli assetti federali e la definitiva abrogazione della Federazione da parte dell’Etiopia hanno acceso il dissenso e contribuito all’emergere della lotta armata. L’Etiopia ha incorporato con la forza l’Eritrea come quattordicesimo governatorato o provincia.

25 La guerra per l’indipendenza dell’Eritrea è durata fino alla sconfitta del regime del Derg da parte delle forze combinate dell’EPLF e del TPLF nel 1991. L’indipendenza dell’Eritrea è stata formalmente riconosciuta nel 1993 all’indomani di un referendum che ha sancito i suoi 30 anni di lotta per l’autodeterminazione . In questa fase l’indipendenza dell’Eritrea non ha avuto conseguenze per la vita quotidiana dei gruppi di confine. In effetti, i gruppi di confine hanno continuato la loro attività quotidiana indipendentemente dal confine come avevano fatto in periodi diversi, come menzionato nella sezione introduttiva.

26 Come hanno affermato diversi Irob che vivono in aree rurali remote più vicine ai mercati in Eritrea che in Etiopia, “Tutte le persone andavano a Senafe, non in Etiopia. La nostra città prima della guerra era Senafe. Siamo agricoltori. Abbiamo inviato miele (baska), burro (subay), bue (aurr), mucche (saga), capre (lahe) e pecore al mercato di Senafe. A Senafe abbiamo comprato vestiti, scarpe, cibo e grano”. Tuttavia, questa situazione è cambiata radicalmente con lo scoppio delle ostilità tra Eritrea ed Etiopia nel 1998. All’indomani della guerra del 1998-2000 tra Eritrea ed Etiopia il confine poroso è stato trasformato in un muro che ha portato alla sua chiusura e all’ostacolo dei movimenti consolidati di persone e merci oltre confine.

27 La sezione successiva fornisce un’analisi dell’eredità della guerra civile e della guerra interstatale (1998-2000) per diversi Irob che vivono nell’area di confine.

L’eredità dei conflitti armati in una zona rurale di confine


28 Durante il periodo imperiale in Etiopia, il territorio tradizionale di Irob rimase alla periferia dello stato. La natura montuosa del paesaggio e la sua posizione topografica hanno contribuito al suo isolamento. Infatti, fino al 1969 (sempre durante il regime imperiale) Alitena, l’antica capitale di Irob, era inaccessibile su strada. In quest’anno sono stati fatti i primi sforzi per costruire una strada tra la città di confine di Zalambessa e Alitena. Ciò corrispondeva a una distanza di circa 35 chilometri oa 5-6 ore di viaggio a piedi. La maggior parte dei residenti di quest’area è abituata a svolgere e calcolare le proprie attività quotidiane in termini di distanze e ore di cammino, e questo è ancora il caso in altre località all’interno della woreda di Irob. La costruzione di una strada è stata seguita da un’iniziativa congiunta di un’organizzazione internazionale non governativa (ONG), Caritas-Svizzera, e una ONG locale, Action for the Development of Adigrat Diocese (ADDA) per costruire una diga vicino all’attuale capitale woreda, Dawhan. Il progetto per la costruzione della diga di Assabol è stato avviato negli anni ’70 all’indomani della carestia segnalata a livello internazionale durante la siccità del 1973-75. La siccità unita alla povertà, la situazione politica e la difficoltà di accesso a molte aree del Tigray hanno contribuito a questa carestia su larga scala. Durante il periodo Derg, con la crescente presenza di movimenti insurrezionali in quest’area, il progetto della diga di Assabol fu interrotto. La diga è stata aperta ufficialmente solo il 12 ottobre 2008 (O’Mahoney e Troxler, 2009). Le difficoltà di costruzione delle strade e di completamento di questo progetto confermano ulteriormente lo stato di periferia dell’area. Azione per lo Sviluppo della Diocesi di Adigrat (ADDA) per costruire una diga nei pressi dell’attuale capitale woreda, Dawhan. Il progetto per la costruzione della diga di Assabol è stato avviato negli anni ’70 all’indomani della carestia segnalata a livello internazionale durante la siccità del 1973-75. La siccità unita alla povertà, la situazione politica e la difficoltà di accesso a molte aree del Tigray hanno contribuito a questa carestia su larga scala. Durante il periodo Derg, con la crescente presenza di movimenti insurrezionali in quest’area, il progetto della diga di Assabol fu interrotto. La diga è stata aperta ufficialmente solo il 12 ottobre 2008 (O’Mahoney e Troxler, 2009). Le difficoltà di costruzione delle strade e di completamento di questo progetto confermano ulteriormente lo stato di periferia dell’area. Azione per lo Sviluppo della Diocesi di Adigrat (ADDA) per costruire una diga nei pressi dell’attuale capitale woreda, Dawhan. Il progetto per la costruzione della diga di Assabol è stato avviato negli anni ’70 all’indomani della carestia segnalata a livello internazionale durante la siccità del 1973-75. La siccità unita alla povertà, la situazione politica e la difficoltà di accesso a molte aree del Tigray hanno contribuito a questa carestia su larga scala. Durante il periodo Derg, con la crescente presenza di movimenti insurrezionali in quest’area, il progetto della diga di Assabol fu interrotto. La diga è stata aperta ufficialmente solo il 12 ottobre 2008 (O’Mahoney e Troxler, 2009). Le difficoltà di costruzione delle strade e di completamento di questo progetto confermano ulteriormente lo stato di periferia dell’area. Il progetto per la costruzione della diga di Assabol è stato avviato negli anni ’70 all’indomani della carestia segnalata a livello internazionale durante la siccità del 1973-75. La siccità unita alla povertà, la situazione politica e la difficoltà di accesso a molte aree del Tigray hanno contribuito a questa carestia su larga scala. Durante il periodo Derg, con la crescente presenza di movimenti insurrezionali in quest’area, il progetto della diga di Assabol fu interrotto. La diga è stata aperta ufficialmente solo il 12 ottobre 2008 (O’Mahoney e Troxler, 2009). Le difficoltà di costruzione delle strade e di completamento di questo progetto confermano ulteriormente lo stato di periferia dell’area. Il progetto per la costruzione della diga di Assabol è stato avviato negli anni ’70 all’indomani della carestia segnalata a livello internazionale durante la siccità del 1973-75. La siccità unita alla povertà, la situazione politica e la difficoltà di accesso a molte aree del Tigray hanno contribuito a questa carestia su larga scala. Durante il periodo Derg, con la crescente presenza di movimenti insurrezionali in quest’area, il progetto della diga di Assabol fu interrotto. La diga è stata aperta ufficialmente solo il 12 ottobre 2008 (O’Mahoney e Troxler, 2009). Le difficoltà di costruzione delle strade e di completamento di questo progetto confermano ulteriormente lo stato di periferia dell’area. con la crescente presenza di movimenti insorti in quest’area, il progetto della diga di Assabol è stato interrotto. La diga è stata aperta ufficialmente solo il 12 ottobre 2008 (O’Mahoney e Troxler, 2009). Le difficoltà di costruzione delle strade e di completamento di questo progetto confermano ulteriormente lo stato di periferia dell’area. con la crescente presenza di movimenti insorti in quest’area, il progetto della diga di Assabol è stato interrotto. La diga è stata aperta ufficialmente solo il 12 ottobre 2008 (O’Mahoney e Troxler, 2009). Le difficoltà di costruzione delle strade e di completamento di questo progetto confermano ulteriormente lo stato di periferia dell’area.

29 Il primo movimento insurrezionale emerso nel territorio tradizionale di Irob prendeva il nome da una delle sue montagne, Assimba. Il movimento è stato creato intorno al 1974 (1967 nel calendario etiope) 7e ha mobilitato il sostegno di un certo numero di gruppi etiopi. Il movimento ha anche mobilitato sostenitori tra gli Irob e il suo leader Tesfay Debressae si è identificato con gli Irob. Il movimento si è evoluto fino a diventare il Partito popolare etiope e la sua base era a Gamada, un’altra località remota ben nota nel territorio tradizionale di Irob. Anche il TPLF utilizzava il territorio tradizionale di Irob come base di retroguardia e i suoi combattenti erano basati in diverse località remote, vicino a Weratle, e su una montagna ben nota nel territorio tradizionale di Irob, Dambakoma. Tuttavia, durante il periodo della guerra civile, caratterizzato dall’opposizione armata dei movimenti ribelli contro il regime del Derg, a causa della sua posizione periferica in una remota area di confine, il territorio tradizionale di Irob non era il centro della scena o il teatro del conflitto armato. I movimenti insorti hanno approfittato della lontananza e della situazione periferica dell’area per riposarsi, riunirsi, fuggire, muoversi liberamente, organizzare e preparare le loro operazioni di combattimento contro il Derg. Questo contesto evidenzia ulteriormente l’isolamento del territorio tradizionale di Irob dalle istituzioni e dagli agenti statali.
8 Il dizionario ufficiale è stato finalmente pubblicato nel 2008 nell’ambito del progetto politico EPRDF (…)

NOTA 7: Il calendario etiopico differisce dal calendario gregoriano. Le differenze sono le seguenti. Il calendario etiope ha un totale di 12 mesi con 30 giorni e un 13 ° mese, denominato Pagume, che ha solo cinque o sei giorni, nel caso degli anni bisestili, ed è indietro di sette-otto anni rispetto al calendario gregoriano.

30 Il regime socialista militare del Derg lanciò il primo piano per insegnare la lingua saho nel contesto di una campagna nazionale che divenne nota come zemacha. La campagna nazionale di lavoro (zemacha) faceva parte della politica nazionale di promozione dell’alfabetizzazione del Derg. Prevedeva la distribuzione di studenti universitari in tutto il paese, e in particolare nelle aree rurali, in un programma volontario di un anno per contribuire alla “campagna contro l’analfabetismo generalizzato” e per promuovere l’insegnamento nelle lingue locali. Il primo manuale scritto per l’insegnamento del Saho, scritto in Ge’ez, risale a questo periodo. 8Ma durante il periodo del Derg la presenza di istituzioni o agenti statali era ridotta al minimo e le loro visite nell’area rimasero sporadiche. A tutti gli effetti questa zona di confine ha mantenuto il suo status di periferia rispetto allo stato.

NOTA 8: Il dizionario ufficiale è stato finalmente pubblicato nel 2008 nell’ambito del progetto politico EPRDF di promozione dell’apprendimento delle lingue locali. Nell’attuale sistema educativo, gli studenti di prima elementare imparano a Saho. Dopo il grado 1 fino al grado 8 imparano in tigrino e, tra le altre materie, imparano il saho. Dal grado 9 fino all’università tutte le materie sono insegnate in inglese.

31 Lo scoppio delle ostilità tra Eritrea ed Etiopia nel 1998 e lo scontro armato tra i combattenti dell’Eritrean Defence Force (EDF) e dell’Etiope National Defence Force (ENDF) hanno segnato una significativa rottura con i periodi precedenti. Da un giorno all’altro, il territorio tradizionale di Irob è diventato teatro di conflitti armati ed è stato sotto effettiva occupazione, e in alcune aree più vicine al confine, come Weratle, l’EDF è rimasto fino alla fine delle ostilità (2000).

Strategie e identità mutevoli di un gruppo di zone di confine in un contesto postbellico (2000-2011)


32 Le leadership dei due paesi hanno negoziato mentre combattevano. Quella che era iniziata come una piccola disputa di confine in una zona di confine, Badme, si è intensificata oltre ogni aspettativa portando a un bilancio stimato di 100.000 morti (Steves, 2003; Triulzi, 2002). Le analisi delle cause della guerra hanno portato a interpretazioni divergenti, alcune ponendo l’accento sulla dimensione politica e sullo scontro tra le leadership dei due paesi (Negash e Tronvoll, 2000; Abbink, 1998) e altre sostenendo che il territorio era il pomo centrale della discordia (Dias, 2008; Jacquin-Berdal e Plaut, 2005). In effetti, con l’indipendenza dell’Eritrea, l’Etiopia è diventata un paese senza sbocco sul mare. Il porto eritreo di Assab è rimasto centrale per tutte le importazioni e le esportazioni da e verso l’Etiopia.

33 Secondo i resoconti locali, quando iniziarono le ostilità, i residenti di Irob furono colti di sorpresa e molti presero le armi per ostacolare l’avanzata dell’EDF nel tradizionale territorio di Irob. Per la prima volta, il territorio tradizionale di Irob è stato teatro di un conflitto armato. Le trincee scavate nel terreno montuoso rimangono il segno fisico della guerra di confine durata 36 mesi. Al momento della prima offensiva eritrea l’EDF aveva il sopravvento. Infatti, il servizio militare continuo e obbligatorio in Eritrea ha fatto sì che il regime dell’EPLF/Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (PFDJ) potesse contare su almeno 150.000 nuovi coscritti, addestrati, equipaggiati e pronti per il dispiegamento, mentre l’Etiopia aveva bisogno di reclutare e addestrare nuovi contingenti di truppe. 9L’ultima offensiva etiope del 12 maggio 2000 ha permesso all’EPRDF di ottenere una vittoria indiscutibile sul campo di battaglia.
34Durante le ostilità, i residenti di Irob woreda e altri gruppi nelle zone di confine hanno cercato rifugio, indipendentemente dal confine. Con l’escalation dell’intensità dei combattimenti, hanno iniziato a temere rappresaglie da parte dell’EDF e hanno cercato vie alternative per tornare in Etiopia (Dias, 2008; Abebe, 2004).

NOTA 9: Intervista, Addis Abeba, luglio 2005.

35 Poiché l’EDF è stato costretto a ritirarsi da diverse località all’interno del territorio eritreo in occasione della celebrazione del 7° anniversario dell’indipendenza dell’Eritrea (24 maggio 2000), il governo eritreo ha annunciato che le sue truppe si erano ritirate da tutte le aree di confine contese che erano state occupate dopo il 6 maggio incidente a Badme. L’accordo di cessate il fuoco è stato firmato il 18 giugno 2000. L’accordo di pace è stato finalmente firmato ad Algeri il 12 dicembre 2000.

36 Nell’accordo di pace di Algeri le parti hanno concordato la creazione di una missione delle Nazioni Unite per l’Eritrea e l’Etiopia (UNMEE) il cui mandato era quello di monitorare l’attuazione dell’accordo di pace e della zona di sicurezza temporanea (TSZ). La TSZ era una zona cuscinetto lungo il confine di 1.000 chilometri, con un margine di 25 chilometri che rimaneva per lo più all’interno del territorio eritreo. Le parti hanno inoltre convenuto di creare due commissioni indipendenti. La prima, la Eritrea – Ethiopia Border Commission (EEBC) aveva totale indipendenza e autonomia per decidere sulla delimitazione del confine sulla base dei trattati coloniali del 1900, 1902 e 1908. La Eritrea-Ethiopia Claims Commission doveva decidere sul risarcimento rivendicazioni da entrambe le parti.

37 Inizialmente, la linea di buona volontà, accettata incondizionatamente dall’Eritrea, ha lasciato a Irob la terra all’interno della TSZ. L’incapacità dell’Etiopia di fornire una mappa del confine con coordinate precise ha portato l’UNMEE a includere ampie fasce di territorio che erano state precedentemente amministrate dall’Etiopia all’interno della zona di sicurezza temporanea. Dopo essersi resa conto di questa inesattezza, l’Etiopia si è lamentata e ha esortato l’UNMEE a ridisegnare la linea, posizionandola più a nord. L’UNMEE è stata in seguito in grado di fornire una mappa operativa che includeva già la terra Irob all’interno della giurisdizione territoriale dell’Etiopia. Gli attori locali hanno contestato la decisione dell’EEBC di riconoscere la giurisdizione dell’Eritrea sui luoghi di Indalgueda che sono considerati territorio tradizionale Irob. In questo senso, il ruolo di un attore non statale transnazionale, i rappresentanti locali della Chiesa cattolica,

38 Questo ridisegno della linea secondo le successive coordinate dell’Etiopia ha indotto l’Eritrea a protestare e ad affermare che l’Etiopia non si era ritirata dal “territorio occupato”. Alla fine, questo malinteso ha sollevato i sospetti dell’Eritrea sull’imparzialità dell’UNMEE nei rapporti con entrambi gli stati. Infine, la TSZ è stata formalmente dichiarata a metà aprile 2001.

39 La commissione indipendente per i confini per decidere sulla delimitazione e demarcazione del confine (EEBC) è stata istituita sulla premessa che la decisione finale sulle aree di confine contese sarebbe stata definitiva e vincolante. L’EEBC ha finalmente annunciato la sua decisione il 13 aprile 2002. Dopo l’euforia iniziale e le affermazioni di una vittoria eccezionale da entrambe le parti, le ambiguità hanno contribuito a esacerbare il sospetto e l’animosità tra di loro. Il problema chiave era l’ambiguità con cui veniva affrontato il premio di Badme. L’EEBC ha menzionato Badme solo due volte ed entrambe le parti hanno manipolato questa ambiguità iniziale per affermare che la città era stata loro assegnata. Badme è stato il luogo in cui è avvenuto l’incidente che ha scatenato la crisi. Alla fine, la situazione controversa intorno a Badme ha prevalso sulle vaste aree in cui si sarebbe potuto raggiungere un accordo, che offrivano spazi promettenti per misure incrementali verso un riavvicinamento tra le parti. Questa resistenza iniziale ha portato entrambe le parti a presentare le proprie osservazioni e prove per contestare la decisione dell’aprile 2002 dell’EEBC. Dopo aver esaminato le cause presentate dalle parti, il 21 marzo 2003 la EEBC ha annunciato la decisione definitiva e vincolante di riconoscere la legittima sovranità dell’Eritrea su Badme sulla base del Trattato coloniale e, soprattutto, della linea giuridica che si era cristallizzata nel 1935, prima all’invasione italiana e all’occupazione forzata dell’Etiopia.

40 A causa dei problemi tra l’UNMEE e il governo eritreo, il personale civile e militare dell’UNMEE ha lasciato l’Eritrea nel gennaio 2008 e la risoluzione 1827 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 30 luglio 2008 ha formalmente estinto la missione. Di conseguenza, la zona di sicurezza temporanea ha cessato di esistere e, al momento in cui scrivo, l’EDF e l’ENDF continuano a mantenere soldati schierati lungo il confine internazionale. In alcuni luoghi i soldati sono letteralmente faccia a faccia.

41 Per l’Irob, l’occupazione dell’area da parte di EDF è stata risentita a causa della distruzione e del saccheggio di proprietà e della mancanza di rispetto per i luoghi di pratica religiosa, come le chiese. Un senso di sicurezza è stato recuperato quando le truppe eritree sono state finalmente cacciate dall’esercito etiope. Tuttavia, le comunità nel settore centrale risentono ancora della persistente militarizzazione del confine. La frontiera è stata trasformata in un’area di presidio e la continua presenza di soldati nella regione è stata una trasformazione operata dalla guerra con notevoli implicazioni sociali per il gruppo di frontiera in questo settore.

42 I movimenti di merci e persone sono formalmente ostacolati dalla chiusura della frontiera. Come ha affermato un intervistato locale, “Non andiamo in Eritrea perché ci sono i soldati. Sono pericolosi. Se andiamo lì siamo nemici”. Un altro ha aggiunto: “Se vado in Eritrea, vengo trattato come il nemico. Possono venire qui. Se andiamo là veniamo trattati come spie”. 10 La circolazione delle persone attraverso il confine non è stata completamente ridotta. Molti hanno preso la rischiosa opzione di attraversare il confine sotto la copertura della notte. Dal 2000 il numero di eritrei a cui è stato concesso lo status di rifugiato in Etiopia è in costante aumento. Ufficiosamente, le stime indicano un totale di 20.000 rifugiati eritrei in Etiopia.

NOTA 10: Intervista, Irob woreda, novembre 2010.

43 L’attività quotidiana dei cittadini Irob che vivono al confine è diventata più difficile in quanto devono affrontare da cinque a otto ore a piedi per andare al mercato di Adigrat, mentre prima della guerra ci volevano dai 30 minuti a un’ora per arrivare a il mercato eritreo di Senafe.

44 Inoltre, coloro che intraprendono il lungo viaggio della migrazione irregolare verso l’Arabia Saudita, Israele o l’Europa sono stati costretti a tentare itinerari molto più difficili e cadere preda di reti criminali organizzate intorno ai migranti irregolari. Mentre prima della chiusura del confine prendevano le barche dai piccoli porti eritrei vicino ad Adulis, oggi o intraprendono il pericoloso itinerario attraverso il Somaliland e il Puntland (Somalia) per raggiungere il porto di Bosasso, oppure attraversano il Sudan e tentano di raggiungere l’Europa o intraprendere il pericoloso viaggio attraverso il deserto del Sinai per raggiungere Israele.

45 Lo sviluppo della regione resta ostaggio della situazione “niente pace, niente guerra”. Sebbene la guerra di confine abbia contribuito all’estensione delle istituzioni e degli agenti dello stato alla terra di confine, la continua militarizzazione del confine e la sua chiusura ha portato al continuo isolamento di diverse località all’interno dell’Irob woreda vicino al confine.

46 All’inizio della guerra e nell’immediato dopo molti affermavano che loro e gli eritrei erano la stessa gente, ripetendo anche il loro stupore con affermazioni del tipo: “Come possiamo combattere i nostri fratelli? Siamo le stesse persone”. 11 La nozione degli eritrei come cittadini stranieri è ora più radicata e menzionata frequentemente. Il luogo in cui si trovano quasi 100 cittadini Irob rimane sconosciuto poiché sono stati portati con la forza in Eritrea quando l’EDF si è ritirato dal territorio tradizionale Irob. 12

NOTA 11: Intervista, Irob woreda luglio 2005.

NOTA 12: Intervista, Irob woreda novembre 2010.

Conclusione


47 Il processo di formazione dello Stato e di estensione delle istituzioni statali ad un’area periferica è stato accelerato e consolidato dal conflitto armato tra Eritrea ed Etiopia (1998-2000). Tuttavia, la mancata normalizzazione dei rapporti tra i partiti al potere ad Asmara (Eritrea) e Addis Abeba (Etiopia) compromette lo sviluppo della regione e le attività quotidiane del gruppo di confine.

48 Il gruppo borderland è ostaggio dello status contestato del confine internazionale e della mancata normalizzazione dei rapporti tra i due governi. Da confine poroso, la situazione postbellica lo ha trasformato in un muro invisibile.

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ALLEGATI: Illustrazione
Mappa 1: regione del Tigray (capitale: Mekele), zona orientale (capitale: Adigrat) e distretto locale (Irob woreda, capitale: Dawhan).Mappa 1: regione del Tigray (capitale: Mekele), zona orientale (capitale: Adigrat) e distretto locale (Irob woreda, capitale: Dawhan).

Map 2: Areas of contested sovereignty according to the EEBC decision.Map 2: Areas of contested sovereignty according to the EEBC decision.
Autore
Alexandra Magnólia Dias
Centre for African Studies (CEA-IUL) ISCTE-IUL, Instituto Universitário de Lisboa
alexmagnolia.dias@gmail.com


FONTE: books.openedition.org/cei/222?…


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N. 134/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: La Federal Trade Commission ha aperto un’indagine estesa su OpenAI, per verificare se l’azienda produttrice del popolare bot ChatGPT abbia violato le leggi sulla protezione dei consumatori mettendo a rischio la reputazione e i dati personali. Questa settimana l’agenzia ha inviato all’azienda di San Francisco una richiesta di... Continue reading →


Dossier, risultati e una notazione sul Vertice Nato di Vilnius. Il bilancio di Alli


Il Vertice Nato di Vilnius non ha certamente deluso le aspettative. Anzitutto, ha ottenuto un risultato importante già prima del proprio inizio, con il via libera della Turchia alla adesione della Svezia. Erdogan è stato, come sempre, un abile negoziatore

Il Vertice Nato di Vilnius non ha certamente deluso le aspettative. Anzitutto, ha ottenuto un risultato importante già prima del proprio inizio, con il via libera della Turchia alla adesione della Svezia. Erdogan è stato, come sempre, un abile negoziatore. Tuttavia mi permetto di dissentire rispetto ai molti che hanno sottolineato come la sua merce di scambio sia stata la fornitura degli F-16 da parte degli Stati Uniti. In realtà, questa decisione era già stata concordata da tempo con Biden, anche perché fa comodo agli stessi Usa e, in fondo, all’intera Alleanza Atlantica, memore dello sgarbo di qualche anno fa, quando Ankara acquistò i sistemi missilistici S-400 dalla Russia.

L’abilità di Erdogan, forse in modo concordato con lo stesso Biden, è stata quella di far coincidere l’annuncio dell’accordo con il vertice, in modo da avere una giustificazione in più per il suo ennesimo cambio di rotta. Un dato che mi sembra invece significativo è che Erdogan ha incassato l’impegno della Svezia a sostenere l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, discorso che apre interessanti prospettive.

Il dato di fatto politicamente rilevante è che l’entrata della Svezia nella Nato, dopo quella della Finlandia, aumenta ulteriormente la sovrapponibilità tra Alleanza Atlantica e Unione Europea. Oggi, con 23 paesi su 27 che appartengono a entrambe le organizzazioni, il 96,5% dei cittadini della Ue è protetto dalla Nato.

Il dossier più spinoso sul tavolo del vertice era sicuramente quello ucraino. Il presidente Zelensky avrebbe auspicato un invito esplicito e ha lamentato la mancanza di una tempistica precisa per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Se ciò è comprensibile alla luce dei problemi di comunicazione che Kiev ha verso il proprio popolo, martoriato da una guerra assurda, lo stesso Zelensky sa benissimo quanto complessa sia la posizione della Nato, al punto che nella conferenza stampa finale ha attenuato i toni rispetto alle prime reazioni.

Il segretario generale Stoltenberg ha affermato che l’Ucraina non è mai stata così vicina all’Alleanza, e questo è certamente vero alla luce di almeno tre considerazioni.

  • L’eliminazione del requisito del Map (Membership Action Plan), cioè dell’iter normale al quale un Paese aspirante deve sottoporsi, rappresenta un’accelerazione importante del percorso di adesione. E questo non è in contraddizione con l’affermazione che ancora non esistono tutte le condizioni per una entrata immediata, perché comunque quando gli alleati riterranno che tali condizioni siano soddisfatte, l’adesione sarà praticamente automatica. Se un’osservazione si deve da fare, è che l’affermazione esplicita di Stoltenberg circa il fatto che l’entrata dell’Ucraina nella Nato non potrà avvenire prima della fine della guerra, se pure formalmente corretta, costituirà per Putin una ragione in più per giustificare il protrarsi del conflitto.
  • L’istituzione del Nato-Ukraine Council, che ha già tenuto il suo primo incontro con la presenza dei Capi di Stato e di Governo, rappresenta un segnale rilevante, in quanto crea un organismo di consultazione permanente sul modello di quello che fu il Nato-Russia Council che operò dal 2002 al 2022. La sua importanza sul piano politico è senz’altro superiore a quella della preesistente Nato-Ukraine Commission, attiva fin dal 1997.
  • La decisione di arrivare alla completa interoperabilità tra le forze armate ucraine e quelle della Alleanza Atlantica costituisce, infine, un impegno che si tradurrà non solo in ulteriori attività di addestramento, ma anche nella continuità di forniture di apparecchiature e mezzi all’Ucraina da parte degli Alleati.

Queste importanti decisioni hanno visto una unità di intenti e una unanimità tra i Paesi membri che ha pochi precedenti nella storia della Nato, e questo è un dato fondamentale che attesta il rafforzamento dell’Alleanza.

È poi evidente come il livello di deterrenza raggiunto nei confronti della Russia dopo 500 giorni di guerra sia ormai a livelli molto alti. Resta il tema dei costi che ciò ha comportato e comporterà in futuro. Questo ha fatto affermare a qualche leader che l’impiego del 2% del Pil per le spese della difesa non possa più costituire un obiettivo finale, ma sia ora il punto di partenza per un maggiore impegno, anche alla luce delle mutate caratteristiche della sicurezza. È infatti evidente come la guerra in Ucraina non sia legata al solo spazio fisico, ma investa il dominio cibernetico, il controllo dello spazio extra atmosferico, l’uso di tutti gli strumenti della guerra ibrida, dalla disinformazione all’utilizzo dell’energia e delle leve economiche come armi di guerra, e così via.

In questo contesto, è ormai consapevolezza comune che la pace non possa che essere una pace giusta e che essa comporti necessariamente la vittoria sul campo dell’Ucraina. La completa ricostruzione del Paese non potrà avvenire se non in un contesto di libertà, giustizia e sicurezza, e questa sarà pienamente garantita solo con l’entrata nella Nato, unica soluzione che le possa fornire anche l’ombrello nucleare.

Da ultimo – ed è probabilmente l’aspetto più importante – mi è parso che sia chiaro a tutti gli Alleati che la guerra in corso sul fianco est sarà decisiva per il nuovo ordine mondiale che si costruirà dopo la fine del conflitto. Quello attuale, creato dopo la seconda guerra mondiale, è ormai messo in discussione dal crescere dei regimi autocratici che vorrebbero rimodellarlo a proprio uso e consumo. La difesa del popolo ucraino, del quale tutti hanno riconosciuto il quotidiano eroismo nell’affrontare una situazione drammatica e profondamente ingiusta, è la difesa di tutte le democrazie occidentali. E il fatto che la sicurezza sia globale è stato evidente nella presenza a Vilnius delle delegazioni di Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Un segnale di visione strategica soprattutto per la Cina, vero convitato di pietra al tavolo del Summit.

Una sola notazione critica: la sensazione che si sia molto – forse troppo – abbassata l’attenzione rispetto alle minacce provenienti dal fianco sud, di cui ha parlato solo il ministro Tajani nel suo intervento al Public Forum. Pur nell’emergenza assoluta costituita dalla guerra in Ucraina, non possiamo abbassare la guardia neanche sul fronte mediterraneo e medio orientale.

La consapevolezza che ci si trovi di fronte a una decisiva svolta della storia si è respirata a Vilnius in questi due giorni di summit, e ne costituisce forse il dato più rilevante. Al di là dell’affermazione, continuamente ripetuta, che dobbiamo difendere ogni centimetro del territorio dei nostri Paesi, sullo sfondo aleggia la drammatica sensazione che la vera posta in gioco sia la sopravvivenza stessa della democrazia nel mondo.


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Bard, l’attesissima risposta di Google a ChatGPT, è stata lanciata in Europa giovedì (13 luglio), a seguito di ritardi dovuti al rispetto delle norme sulla protezione dei dati dell’UE. Google è un’azienda leader nel campo dell’Intelligenza Artificiale, in particolare nella...


Acerbo (Prc-UP): Salvini contro diritto di sciopero fa demagogia Il ministro Salvini fa demagogia contro il diritto di sciopero che è sancito dalla


“AI+: Generative AI for Business. Una nuova intelligenza artificiale per il business”


Oggi a partire dalle 18.00 avrò il piacere di partecipare all’incontro “AI+: Generative AI for Business. Una nuova intelligenza artificiale per il business” durante il quale parleremo di sistemi di intelligenza artificiale e generative AI, della loro precisione e affidabilità. L’appuntamento è organizzato dal Centro di Ricerca in Strategic Change “Franco Fontana” in collaborazione con... Continue reading →


Dal 17 al 31 luglio 2023 sarà possibile presentare l’istanza di partecipazione alle procedure per l’attribuzione dei contratti di docenza a tempo determinato.


Ecov(u)oto


Avete presente quando, specie di notte, parte l’allarme antifurto in un appartamento o in una vettura parcheggiata sotto casa? Più che a fermare i ladri, sempre che esistano e comunque non avendone i mezzi, si pensa che si dovrebbe fermare l’allarme. Temo

Avete presente quando, specie di notte, parte l’allarme antifurto in un appartamento o in una vettura parcheggiata sotto casa? Più che a fermare i ladri, sempre che esistano e comunque non avendone i mezzi, si pensa che si dovrebbe fermare l’allarme. Temo che lo stesso effetto abbiano gli allarmi sul clima, tanto più che – se si pubblicano i dati che provano a dimostrare le morti in eccesso dovute al troppo caldo (61.672 in 35 Paesi europei fra il 30 maggio e il 4 settembre 2022, di cui 18.010 in Italia) – si allarma chi è già allarmato e si lasciano indifferenti gli altri, che non credono sia una realtà o non credono che sia dovuta all’attività umana e comunque non ci credono. Dai sondaggi risulta che un terzo sono gli allarmati e un terzo quelli che non ci credono, il rimanente terzo ammette di non averci capito nulla.

Siccome è evidente che il problema esiste e che se il termometro si sposta (più delle altre estati) verso il rosso non si tratta di una scelta politica, tanto il Parlamento europeo quanto i governi nazionali, riuniti nel Consiglio europeo, puntano a varare regole che limitino e progressivamente cancellino le emissioni che alterano il clima. Se la temperatura globale continuerà l’andamento degli ultimi decenni, sicuramente saranno dolori assai seri e progressivamente irreparabili. Ma, al tempo stesso, è un gioco politico da ragazzi cancellare dalla lavagna il problema climatico, semplicemente negando che esista o che ci si possa fare qualche cosa, lasciarci l’elenco delle misure prese e programmate e additarle come strumenti atti a impoverirci tutti. Il fatto che siano regole europee aiuta a lasciar credere che siano ‘esterne’. E quando sono regole nazionali si dice di averle subite o si fa fatica a difenderle.

Prima di risolvere la faccenda dando del “negazionista” fascisteggiante a chi assume questo atteggiamento, sarà bene comprendere la radice del successo che riscuote. Noi cittadini dell’Unione europea siamo il 6% della popolazione globale, produciamo il 7% delle emissioni che alterano il clima e generiamo il 25% della ricchezza annua globale. Siccome già diminuiamo come popolazione, visto che facciamo pochi figli – mentre, se cancellassimo quel 7%, resterebbe nell’atmosfera (e ne subiremmo le conseguenze) il 93% prodotto da altri – se ne deduce che è in atto un attacco al 25% della ricchezza globale prodotta. In altre parole: ce la portano via. E se si è concordi vuol dire che si è masochisti al servizio di interessi altrui. Se occulti è pure meglio, perché rende più suggestivo il racconto.

Francamente non credo che un uomo di 56 anni come il capo del governo olandese Mark Rutte – che ha guidato quattro governi nel corso di 13 anni, dimostrandosi immune agli attacchi scandalistici e politici – getti la spugna per la questione del ricongiungimento familiare degli immigrati. Problema mediabile e governabile. A spingerlo al ritiro è più probabile che sia la crescita impressionante del Movimento civico-contadino, che in nome degli interessi del contado e della sovranità olandese nega ogni vincolo ambientale relativo a coltivazioni e allevamenti. Il Movimento si avvia a essere il secondo partito olandese e il governo Rutte, nell’interesse dell’Olanda, aveva stretto quei vincoli. Roba simile succede in Svezia, in Finlandia e altrove, mentre le opposizioni (che nella loro radicalità sono prevalentemente di destra) cavalcano il rifiuto di ogni vincolo, come capita a Vox in Spagna, ad AfD in Germania e a Le Pen in Francia.

Se ne deduce che chi è di sinistra vuole salvare l’ambiente mentre chi è di destra no? Piace sostenerlo alla sinistra che non riesce a dire altro, ma è una bubbola. Intanto perché Rutte non è di sinistra, poi perché il confine non passa per via ideologica ma fattuale: chi governa non può non tenere conto della realtà, mentre chi non ha responsabilità raccoglie i voti facendo l’irresponsabile. Epperò le nostre sono democrazie, i voti non possono essere ignorati o considerati un fastidio. Quest’oggi il Parlamento europeo deve votare una direttiva ambientale e il Partito popolare europeo – che di sicuro non è di sinistra e che ne ha condiviso l’elaborazione – si spacca perché i partiti nazionali componenti sentono l’avanzare di quelle opposizioni.

Ciò significa che si deve cambiare filastrocca. Non si deve fare penitenza oggi per avere un mondo migliore domani, giacché consumo oggi e domani si vedrà. Si deve far capire che le scelte del Green New Deal servono anche a far crescere industria europea ecocompatibile, ovvero a mantenere quella quota di ricchezza prodotta e a innovare. Altrimenti il 25% si rattrappisce, il 6% defunge lentamente e la difesa del 7% è la cosa più fessa che si possa immaginare. La discussione delle specifiche misure, dell’equilibrio e della tempistica è ordinaria amministrazione politica.

La Ragione

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Mortaio


C’è un comune interesse della maggioranza e dell’opposizione, un interesse che è poi quello della politica che abbia a cuore la salute delle istituzioni e la propria libertà: passare al lavoro del legislatore, discutere di testi redatti in articolati, evi

C’è un comune interesse della maggioranza e dell’opposizione, un interesse che è poi quello della politica che abbia a cuore la salute delle istituzioni e la propria libertà: passare al lavoro del legislatore, discutere di testi redatti in articolati, evitare di correre appresso a questa o quella iniziativa delle Procure. Tanto si sa noiosamente a memoria come va a finire. Mentre quello che si fatica a comprendere è che ci si perde tutti.

Se il governo pensa di affrontare in questo modo le inchieste già aperte e quelle che si apriranno – su componenti dell’esecutivo o della maggioranza – ha già perso prima di cominciare. Fra le cose perse c’è anche il senso dei limiti e del ridicolo, che soltanto tale smarrimento può giustificare il paragone con Enzo Tortora (che non solo fu arrestato e lungamente detenuto, ma si dimise da parlamentare europeo per affrontare il processo senza alcuna immunità e contestò la scelta di Toni Negri, eletto deputato, di sottrarsi alla giustizia). Che i parenti o gli amici o i colleghi considerino Tizio o Caio innocenti è del tutto irrilevante oltre che fastidioso; quel che conta è che tutti si è innocenti fino a sentenza definitiva che attesti il contrario.

Se l’opposizione pensa di guadagnare un vantaggio dalle indagini aperte su questo o quell’esponente del fronte avverso, ha già perso la partita politica prima di cominciarla. Perché, eventualmente, a vincere sarà un potere esterno e inquietante, che non è affatto quello della “giustizia” bensì quello dell’“accusa”. Prendere il posto dell’avversario demolito per via giudiziaria serve solo ed esclusivamente a ereditarne la sorte di demolito per via giudiziaria.

Che i primi aizzino l’opinione pubblica denunciando il complotto, affermando che non appena si parla di riforma della giustizia ecco che partono le inchieste, è senza senso. Perché sono trent’anni che va avanti così. Altro che sospette coincidenze. Che i secondi aizzino il pubblico invocando la moralità e la giustizia, incapaci di distinguere fra indagine e sentenza, pretendendo conseguenze dalla prima è sconclusionato. Non ci crede più nessuno. Entrambi si rivolgono alle proprie tifoserie, mentre dilaga la sfiducia su quale che sia cosa ed esito costruttivo.

Ed ecco il comune interesse: avviino subito la discussione parlamentare sulle riforme. Alla maggioranza sarà utile per dimostrare che non lasciarsi intimidire non significa rispondere agli avvisi di garanzia con insulti e minacce, ma affrontando il problema di milioni di cittadini la cui vita è rimasta incagliata fra le ruote dentate della malagiustizia. Alle opposizioni sarà possibile non soltanto interloquire fattivamente sulle proposte presentate, ma segnalare quelle mai presentate, perché i mesi passano e il solo testo di cui si dispone è un mozzicone di quel che Carlo Nordio espose come programma al Parlamento. Ci guadagnerebbero entrambi, se solo avessero come orizzonte la sorte collettiva e non unicamente quella dei propri voti e della propria salvezza.

Sarebbe infinitamente più civile il Paese in cui amici e avversari suggerissero agli eventualmente accusati di difendersi nella sola sede propria, ovvero le Aule di giustizia, rinunciando alla sfiancante commedia delle vittime e dei malfattori. Sarebbe un Paese in cui restano, ed è bene che restino, visioni diverse del bene comune e anche della giustizia, ma si condividerebbe il minimo indispensabile, ovvero la convinzione che essere denunciati non significa essere criminali, giacché si potrebbe essere calunniati, ed essere indagati non significa essere colpevoli, perché i prosciolti e gli assolti sono una marea di cittadini.

Se qualcuno pensa di usare le inchieste come mortaio, nel senso di arma, non ha capito niente di trenta e più anni di storia italiana. Ma il guaio è che rischia di finire con l’essere un mortaio da cucina, in cui si pesta inutilmente l’acqua. Che siccome è sporca finisce con il sozzare tutti quelli che si distinguono in questa deprecabile disciplina.

La Ragione

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In Cina e in Asia – Le big tech cinesi elogiate dal governo di Pechino


In Cina e in Asia – Le big tech cinesi elogiate dal governo di Pechino Alibaba
I titoli di oggi: Le big tech cinesi elogiate dal governo di Pechino Gli hacker cinesi hanno usato Microsoft per colpire il governo americano Ambasciatore cinese visita il Pentagono Putin atteso a Pechino a ottobre Le Filippine celebrano con un sito web la sentenza dell’Aja contro la Cina Hong Kong pensa di vietare i prodotti ittici del Giappone Il ministro ...

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Summit Nato, il documento finale dice Cina 15 volte


Summit Nato, il documento finale dice Cina 15 volte NATO
Lo spazio riservato a Pechino è senza precedenti. «Opera dannose disinformazioni», «sovverte l’ordine internazionale», «è partner di Mosca». La Repubblica popolare reagisce a livello politico e operativo, con una prova di forza aerea sullo Stretto di Taiwan. E la Corea del nord lancia un nuovo missile intercontinentale

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PRIVACYDAILY


N. 133/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: I dibattiti sulla protezione dei dati personali, compresi quelli biometrici, si sono intensificati, in quanto gli enti pubblici e privati utilizzano sempre più spesso le tecnologie biometriche in contesti come la polizia, gli spazi pubblici e le scuole. Tuttavia, c’è un contesto in cui i dati biometrici vengono... Continue reading →


Non ha mai fine il calo dei salari reali in Italia già maglia nera dell’area Ocse per aver visto una diminuzione dei salari reali del 2,9% nei trent’anni t


di Giuliano Santoro - Sinistra. L’assemblea nazionale di Roma lancia il processo costituente di Unione popolare. Dopo la sconfitta al voto di settembre si


La Nato di domani oltre Vilnius. Meloni punta tutto su Mediterraneo


Fianco orientale e Mediterraneo: sono questi i due “coni di interesse” che Giorgia Meloni da Vilnius attribuisce alla Nato di domani. Il ragionamento di fondo, in un mondo sempre più incerto, è che questo vertice è riuscito a ribadire una delle certezze c

Fianco orientale e Mediterraneo: sono questi i due “coni di interesse” che Giorgia Meloni da Vilnius attribuisce alla Nato di domani. Il ragionamento di fondo, in un mondo sempre più incerto, è che questo vertice è riuscito a ribadire una delle certezze che abbiamo avuto in questo tempo: “l’unità dell’Alleanza atlantica e la determinazione a difendere i valori e le regole del diritto internazionale senza le quali nessuno di noi sarebbe al sicuro”. Ma per difendere le regole del diritto internazionale e i suoi cittadini, la Nato deve guardare anche oltre l’emergenza orientale. Ovvero al fronte sud dell’Europa.

Ruolo e proiezioni

Quando spiega che l’Italia sostiene gli adattamenti in corso della Nato come confermato dagli importanti contributi nel fianco orientale e nel Mediterraneo, Giorgia Meloni mette l’accento su un passaggio nevralgico: la rivendicazione da parte italiana del ruolo all’interno dell’Alleanza dopo le “incertezze” pro Cina dei governi Conte e il voler assumere decisioni all’altezza in tema di deterrenza e difesa in un momento eccezionale come l’attuale.

E qui si inserisce l’elemento legato all’impegno sul 2% di Pil per la difesa, che secondo il premier deve tenere conto della progressione, della sostenibilità e della responsabilità e della partecipazione al funzionamento dell’Alleanza che ogni alleato assume. “Lo dico da premier di una nazione che con quasi 3 mila uomini è il principale contributore in termini di presenza nelle missioni di pace”.

La considerazione italiana è che occorre fare il meglio per rafforzare autonomia, indipendenza e capacità di difesa. Senza garanzie di sicurezza per l’Ucraina sarebbe molto difficile arrivare alla pace, ha poi osservato, perché lo considera “un tema propedeutico a favorire il processo pace e come Italia abbiamo lavorato a sostenere queste garanzie”.

Migranti e primi risultati

Non solo, quindi, Meloni rivendica il proprio status nella Nato, ma utilizza lo sforzo comune fatto di politiche dedicate, strumenti a supporto e costruzioni di modelli (come quello per la Tunisia), per certificare un passo in avanti alla voce migranti: “Abbiamo un domino di conseguenze che partono dall’Afghanistan e arrivano nel Sahel e nel Corno d’Africa. L’approccio deve essere diverso, ed è il motivo per cui agli occhi di molti italiani non siamo risolutivi. Ma io preferisco metterci di più ma trovare soluzioni strutturali piuttosto che fingere di trovare iniziative spot. È quello a cui sto dedicando maggiore attenzione. Si cominciano a vedere i risultati”.

Il riferimento è allo stanziamento da parte della Commissione europea di un investimento che può arrivare a 15 miliardi sulla dimensione esterna, che corrisponde alla proposta avanzata da Palazzo Chigi.

Africa e Piano Mattei

Ma non è tutto, perché l’analisi del premier va oltre e si spinge nei meandri del continente africano e delle sue contraddizioni, su tutte l’influenza di attori esterni. Quando auspica che molti in Africa aprano gli occhi sulla Wagner scopre un nervo scoperto dell’Ue, che fino ad oggi è stata anticipata sul campo dalla Cina e dalla brigata di Prigozhin a quelle latitudini. Per cui il modo migliore per operare in questo senso è una presenza diversa e maggiore.

“Sono andata a rileggere Machiavelli: qualche secolo fa cercava di spiegare a chi governa una nazione che privarsi del controllo della sicurezza per affidarlo a soggetti esterni poteva essere molto pericoloso – ha aggiunto -. Oggi confido che molti possano aprire gli occhi dopo quello accaduto in Russia, con milizie che si rivoltano contro la propria capitale. A maggior ragione bisogna fare attenzione quando si trovano in terra straniera”. Questi mercenari, ha spiegato, sono “soggetti che possono non avere interessi alla stabilizzazione. L’interesse alla stabilizzazione lo abbiamo noi”. Tradotto in due parole: Libia e Piano Mattei.

Vilnius, conferenza stampa. Seguitemi in diretta. t.co/W5jr8fQnQn

— Giorgia Meloni (@GiorgiaMeloni) July 12, 2023


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Nato, un vertice di successo con l’impronta di Erdogan. Scrive D’Anna


Se non apparisse ironico si potrebbe dire che a Vilnius Zelensky è quasi Nato. Nei protocolli della diplomazia formale del vertice dell’Alleanza Atlantica, l’adesione dell’Ucraina viene classificata come ancora da decidersi, anche se in realtà é virtualme

Se non apparisse ironico si potrebbe dire che a Vilnius Zelensky è quasi Nato. Nei protocolli della diplomazia formale del vertice dell’Alleanza Atlantica, l’adesione dell’Ucraina viene classificata come ancora da decidersi, anche se in realtà é virtualmente stabilita ed in parte sostanzialmente operativa da 505 giorni, dal momento stesso della brutale invasione da parte della Russia di Putin.

Il gioco della parti sull’ingresso di Kiev nella Nato viene comunque utilizzato da Stati Uniti e Francia per considerare come una compensazione l’invio di missili a lunga gittata che consentiranno alle forze di liberazione ucraine di colpire le retrovie dell’armata d’invasione di Mosca.

In attesa dell’ok della Casa Bianca per il sofisticato sistema di missili tattici Atmcs, il presidente Macron ha già disposto la consegna degli Scalp, acronimo di Système de Croisière Autonome à Longue Portée, la versione francese dei missili inglesi Storm Shadow, che Londra sta già fornendo Kiev dal maggio scorso.

Il governo ucraino, a cominciare da Zelensky, ha realisticamente preso atto delle problematiche strategiche che impongono ai paesi Nato di non offrire alibi a Putin per scatenare una guerra mondiale. Intransigente sulla cooptazione immediata dell’Ucraina, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden è stato inveceaperturista sull’altra richiesta avanzata da Kiev: la concessione di garanzie di sicurezza anche prima dell’entrata nella Nato.
Biden ha dato un’indicazione precisa, paragonandola all’accordo per il sostegno militare che Washington ha con Israele: non quindi un’alleanza formalizzata in un trattato, ma un accordo di partenariato strategico volto ad accrescere la capacità dell’Ucraina di difendersi dalla Russia.

In primo piano, all’attivo del summit Nato lituano c’è la svolta del presidente turco Recep Erdogan che in pochi giorni ha letteralmente ribaltato la posizione che definiva testualmente di “amico fedele” di Putin.

In attesa di verificare se davvero ad agosto, come annunciato nelle settimane scorse, il Presidente russo si recherà in Turchia, l’Alleanza Atlantica sta analizzando gli effetti delle tre recentissime clamorose mosse anti Cremlino di Erdogan: ha ricevuto con grande enfasi Zelensky a Instambul col quale avrebbe parlato a porte chiuse del dopo conflitto; ha restituito all’Ucraina i comandanti del Battaglione Azov che hanno combattuto i russi asserragliandosi nell’acciaieria Azovstal di Mariupol e che erano stati consegnati da Mosca come ostaggi alla Turchia; e soprattutto dall’oggi al domani ha rimosso il veto che impediva l’ingresso nella Nato della Svezia, scoprendo così totalmente il fronte nord della Russia.

A Vilnius non trapela nei comunicati ufficiali, ma il non detto del vertice Nato confida nel fiuto di Erdogan che potrebbe aver captato segnali d’implosione del regime di Putin. Il bilancio oltremodo positivo di Vilnius comprende, oltre al notevole potenziamento apportato all’Alleanza dall’ ingresso della Svezia, che con la Finlandia completa lo schieramento nord europeo, l’approvazione di nuovi piani di difesa più capillari e completi dalla fine della Guerra Fredda, che tra l’altro prevedono una forza d’intervento rapido di 300.000 truppe comprendente lo schieramento di notevoli forze aero navali, e l’ extension della copertura asiatica della Nato a Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud.

Una extension per rafforzare la cooperazione di sicurezza tra la regione indo-pacifica e euro-atlantica, tenendo conto della Cina, sottolineata dalla significativa partecipazione al vertice di Vilnius del premier giapponese Fumio Kishida e del leader della Corea del Sud. Discorso diverso per Australia e Nuova Zelanda da sempre considerate gemellate alla Nato in quanto facenti parte dei Five Eyes, acronimo dell’alleanza di sorveglianza elettronica globale comprendente anche Canada, Regno Unito e Stati Uniti. In vista delle celebrazioni dell’anno prossimo del 75 esimo anniversario della fondazione della Nato, l’alleanza nella prospettiva del dopo Ucraina si appresta infatti a valutare l’evoluzione di una situazione strategica internazionale che vedrà in primo piano l’ulteriore contrapposizione con la Russa e con La Cina.

Se la Russia è la minaccia attuale, la Cina assume un rilievo di problematicità a più lungo termine. “La minaccia cinese è a lungo termine perché l’economia cinese è molto più forte, pervasiva e totalmente autonoma rispetto a quella russa” spiega Satoru Nagao, esperto di politiche di difesa e sicurezza del think tank statunitense Hudson Institute. E poiché la Russia fa affidamento sulla Cina nell’attuale situazione di guerra e l’influenza di Pechino su Vladimir Putin sta crescendo, la Nato intensificherà i rapporti con Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud e moltiplicherà i contatti con India e Indonesia.

Una Nato globale, allineata anche con i non allineati, ma con baricentro europeo.


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Alla Presentazione del Rapporto nazionale “Le prove Invalsi 2023” il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara è intervenuto su diverse tematiche riguardanti il sistema scolastico.

Qui il discorso <img src="assets/img/emoji/25b6.



Una strategia Med-Indo-Pacific per la Nato


La regione indo-pacifica è lontana, e sia i politici che il pubblico europeo sono inclini a non guardare così lontano. La preoccupazione per i progetti russi e cinesi sul Mediterraneo, tuttavia, è un’altra storia. O forse parte della stessa storia, ma più

La regione indo-pacifica è lontana, e sia i politici che il pubblico europeo sono inclini a non guardare così lontano. La preoccupazione per i progetti russi e cinesi sul Mediterraneo, tuttavia, è un’altra storia. O forse parte della stessa storia, ma più vicina a noi. Thibault Muzergues è un analista politico senior advisor dell’International Republican Insitute e autore di “War in Europe? From impossible war to improbable peace”, Routledge 2022 e ha una visione piuttosto interessante su quello che la Nato dovrebbe mettere nei suoi prioritari obiettivi. Lo chiama “Med-Indo-Pacific”, una strategia che in sostanza comprenda il Mediterraneo allargato e l’Indo Pacifico, e che dimostra come i due quadranti geostrategici sono sempre più interconnessi.

Messaggio da Vilnius

Il vertice Nato ospitato in Lituania, seppure molto concentrato sulla gestione complessa della guerra russa in Ucraina, ci ha parlato anche di queste interconnessioni. D’altronde Vilnius è di per sé un caso di studio, finito sotto le cose di Russia e Cina negli ultimi due anni. Tuttavia, restano degli scetticismi, anche legati al momento complicato: su tutti Francia e Germania sono poco inclini a deviare l’attenzione della Nato verso l’Indo Pacifico, sottolinea Muzergues, “almeno non mentre la guerra infuria in Europa”. È possibile (se ne parlerà anche altrove in questa newsletter), che la preoccupazione sia legata all’evitare di spostare la Cina, per reazione, apertamente verso la Russia. Preoccupazione per un conflitto aperto con la Cina sono anche parte del pensiero dell’opinione pubblica europea, secondo un recente sondaggio dell’Ecfr.

Una Nato direttamente attiva nell’Indo-Pacifico è quindi uno scenario che sarebbe meglio dimenticare, almeno per il prossimo futuro. “Tuttavia, ciò non significa che l’Alleanza non possa reinventare il proprio ruolo nei confronti della Cina; in questo caso, non si tratterebbe solo di tenere i cinesi fuori, ma piuttosto lontani dall’Europa: ciò risponderebbe alle preoccupazioni degli europei per le incursioni economiche di Pechino nelle economie europee e terrebbe strategicamente i cinesi a distanza di sicurezza nelle vicinanze dell’Europa”, spiega Muzergues.

Contenimento cinese

“Tenere lontani i cinesi potrebbe essere una strategia per l’Europa, visto che i primi hanno recentemente fatto breccia nel vicinato meridionale dell’Europa. Non solo sulla terraferma, in alcune zone dell’Africa e del Medio Oriente, ma anche in mare: non è un caso che l’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) abbia costruito la sua prima base militare al di fuori dei confini cinesi a Gibuti, il punto di strozzatura tra l’Oceano Indiano e il Mar Rosso, che a sua volta collega l’Indo-Pacifico e il Mediterraneo”.

“Dopo tutto, il controllo dei punti di strozzatura tra Cina ed Europa, da Gibilterra allo Stretto di Malacca (molti dei quali nel Mediterraneo), è tornato ad essere un problema, soprattutto se si considera che il Mediterraneo è un mare sempre più territorializzato e, di fatto, conteso”, aggiunge l’analista usando tra i vari esempi il grande interessamento delle società cinesi come Cosco ai porti europei nel Mediterraneo.

La maggior parte dei Paesi dell’Europa meridionale è ben consapevole della crescente presenza cinese nel Mediterraneo, di cui è sempre più preoccupata, mentre la maggior parte degli alleati dell’Europa centrale ha capito nel corso degli anni che la strategia di disturbo della Russia si estende anche a sud, dal Mar Nero al Mediterraneo e all’Africa. “Non ci sarebbe molto dissenso nel sostenere una strategia della Nato volta a spingere i russi e i cinesi fuori dai confini meridionali e orientali dell’Europa. E considerando il cruciale legame commerciale tra il Mediterraneo e l’Indo-Pacifico, sarebbe un modo per coinvolgere gli europei, attraverso una regione strategica più familiare, nella strategia globale americana. Per la Nato, l’Indo-Pacifico potrebbe non essere consensuale, ma una strategia Med-Indo-Pacifico potrebbe essere la chiave per far muovere gli europei”.


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La NATO esce dal vertice di Vilnius più ricca, più aggressiva e più armata


Vincitori indiscussi del summit l'Usa di Biden e la Turchia di Erdogan. All'Alleanza il 2% del PIL. Particolare enfasi alla modernizzazione della dotazione nucleare. L'articolo La NATO esce dal vertice di Vilnius più ricca, più aggressiva e più armata pr

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di Antonio Mazzeo –

Pagine Esteri, 12 luglio 2023. Se invece del summit Nato la capitale della Lituania Vilnius avesse ospitato un’Olimpiade, sul podio dei vincitori sicuramente sarebbero saliti il segretario generale dell’alleanza Jens Stoltenberg, il presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden e il premier-ras turco Recep Tayyip Erdogan. Il primo è stato premiato con l’ulteriore estensione temporale del suo mandato per aver allargato l’adesione de iure alla Nato di Finlandia e Svezia e de facto di mezzo mondo. Il secondo per aver imposto a tutti gli alleati la visione geostrategica di Washington e del Pentagono, riaffermando l’incontrastata supremazia militare-nucleare Usa e convertendo a bancomat l’Unione europea e le medie potenze del vecchio continente per finanziare la folle corsa al riarmo globale. Il terzo per aver ottenuto il consenso unanime degli alleati per il piano di liquidazione della questione kurda a suon di raid e bombe in cambio di un sì all’ingresso dell’ex neutrale Svezia nella Nato. Grande sconfitto ai “giochi olimpici” di Vilnius 2023 il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: si attendeva di essere accolto subito e a braccia aperte da chi gli ha garantito armi e munizioni per decine e decine di miliardi di euro per le controffensive anti-Mosca, ma alla fine è stato congedato con un “ti vogliamo, ma ci rivediamo domani” assai malamente digerito. Assai deludenti le performance dei leader diplomatici e militari di Londra, Parigi, Berlino, Roma e Bruxelles, opache comparse in una competizione che ha sancito lo strapotere del complesso militare-industriale e nucleare transnazionale, grande sponsor e nume tutelare della Nato del terzo millennio. Un’alleanza che esce da Vilnius tutt’altro che monolitica ma ancora più aggressiva e armata, sempre più anti-russa e anti-cinese, e più pronta a intervenire rapidamente per imporre la pax americana in ogni angolo del pianeta.

“L’ingresso della Finlandia è un passo storico per la Nato e saremo ancora più grandi e più forti quando si concluderà l’iter di adesione della Svezia”, ha enfatizzato il segretario Jens Stoltenberg a conclusione del vertice in terra lituana. “Siamo davvero felici dell’impegno assunto dal presidente turco di presentare prima possibile all’assemblea parlamentare nazionale il protocollo di ratifica all’ingresso della Svezia nella Nato. La Turchia e la Svezia continueranno a cooperare nella lotta al terrorismo. Le autorità di Stoccolma hanno emendato la costituzione, cambiato le leggi e accresciuto in modo significativo la cooperazione anti-terrorismo contro il PKK, riprendendo l’esportazione di armi alla Turchia”. (1) Anche Washington ha operato in prima persona per ottenere l’ok di Erdogan alla Svezia 32^ stella della Nato: alla vigilia del summit di Vilnius il capo del Pentagono Lloyd Austin ha fatto sapere al leader turco di essere deciso ad autorizzare il trasferimento ad Ankara di 40 cacciabombardieri F-16, una commessa anelata da diversi anni dall’aeronautica militare turca. (2)

Ospiti d’onore in Lituania accanto ai leader di governo dei due nuovi paesi membri dell’alleanza anche i rappresentanti dell’Unione europea con cui la Nato condivide missioni strategiche e oneri finanziari per potenziare la produzione bellica e le reti infrastrutturali per la mobilità di uomini e mezzi militari; i ministri degli esteri di Georgia, Repubblica di Moldavia e Bosnia ed Herzegovina e quelli di Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud. Per la Nato la regione indo-pacifica ha assunto un ruolo fondamentale “per la sicurezza euro-atlantica e l’impegno a difesa dell’Ucraina” e nella “cooperazione nel settore della cyber-difesa, della lotta al terrorismo e della produzione di armi e nuove tecnologie”. Nel documento finale del vertice di Vilnius i paesi membri dell’Alleanza Atlantica rivendicano pure una più stretta partnership con alcune delle maggiori organizzazioni internazionali e regionali come l’Onu, l’Osce e l’Unione africana. “Noi rafforzeremo queste interazioni per promuovere i nostri interessi comuni e contribuire alla sicurezza globale”, promette la Nato. “Stiamo inoltre esplorando la possibilità di stabilire un ufficio di collegamento a Ginevra per un ulteriore rafforzamento dei nostri legami con le Nazioni Unite”.

Buona parte del comunicato finale del vertice in Lituania è dedicato al nemico numero uno dell’Alleanza militare, la Russia di Putin. “La Federazione Russa ha violato le norme e i principi che contribuiscono a un ordine di sicurezza europeo stabile e affidabile”, scrivono i paesi Nato. “La Federazione Russa rappresenta la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza dell’Alleanza e alla pace e alla stabilità nell’area euro-atlantica (…) La Russia è del tutto responsabile della sua illegale, ingiustificabile e non provocata guerra di aggressione contro l’Ucraina, che ha gravemente compromesso la sicurezza euro-atlantica e globale. Noi non riconosciamo né riconosceremo mai le illegali e illegittime annessioni russe, inclusa quella della Crimea. La distruzione della diga di Kakhovka è tra le più gravi e brutali conseguenze della guerra avviata dalla Russia”.

La Nato stigmatizza inoltre il piano di ammodernamento dell’arsenale nucleare e convenzionale di Mosca. “Noi condanniamo l’intenzione della Russia di volere installare armi nucleari e sistemi a capacità nucleare nel territorio della Bielorussia, un’ulteriore dimostrazione delle ripetute azioni di Mosca si minare la stabilità strategica e la sicurezza generale nell’area euro-atlantica”, aggiunge la Nato. “La Russia ha intensificato le sue azioni ibride contro gli alleati e i partner Nato, inclusi quelli a lei confinanti. Ciò include l’interferenza nei processi democratici, la coercizione politica ed economica, le estese campagne di disinformazione, le minacce informatiche dannose, le operazioni illegali e distruttive dei servizi d’intelligence russi”. E sarà ancora il conflitto in Ucraina il banco di prova dell’Alleanza per contrastare e indebolire il regime di Putin. “Il summit di Vilnius ha reso l’Ucraina più forte e ha rafforzato le capacità di deterrenza e difesa della Nato”, ha enfatizzato il segretario generale Stoltenberg. “Mi aspetto che i leader dell’Alleanza assicurino un pacchetto di aiuti e interventi che avvicinino ancora di più l’Ucraina alla Nato. Esso includerà un programma di assistenza pluriannuale per assicurare l’interoperabilità; il rafforzamento dei legami politici grazie a un nuovo Consiglio Nato-Ucraina; la riaffermazione che l’Ucraina diventerà un membro della Nato”. Impegni ritenuti del tutto generici e deludenti dal premier Zelenskyy, ma ribaditi integralmente nel documento finale del summit. “Il futuro dell’Ucraina è nella Nato”, afferma l’Allenza. “Noi ribadiamo l’impegno assunto al Summit 2008 di Bucarest e oggi riconosciamo che il sentiero tracciato dall’Ucraina per una piena integrazione euro-atlantica è andato oltre di quanto previsto dal Membership Action Plan. L’Ucraina è divenuta sempre più interoperativa e politicamente integrata con l’Alleanza e ha fatto progressi sostanziali nel suo piano di riforma”. Ciononostante, così come richiesto dall’amministrazione Biden, non è stata decisa nessuna data per formalizzare l’ingresso di Kiev nella Nato. Tuttavia non verranno fatte mancare all’Ucraina le armi e le munizioni per condurre il sanguinoso conflitto fratricida con la Russia. “La continua e urgente consegna di assistenza non letale all’Ucraina attraverso il Pacchetto di assistenza completo (Pac) rimane una priorità della Nato”, si aggiunge nel documento finale del vertice di Vilnius. “A partire dallo scorso vertice di Madrid gli Alleati e i partner hanno fornito più di 500 milioni di euro al Pac. Per supportare la deterrenza e la difesa dell’Ucraina a breve, medio e lungo termine, abbiamo deciso oggi di sviluppare ulteriormente il Pac con un programma pluriannuale di assistenza che aiuterà a ricostruire il settore di difesa e sicurezza del paese e a garantire la sua transizione fino alla piena interoperabilità con la Nato”.

Contro la Russia sarà rafforzata la presenza di reparti di pronto intervento delle forze armate dei paesi Nato nel cosiddetto fianco orientale (Polonia, Lettonia, Estonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Ungheria e Bulgaria), a cui si aggiungerà una forza di dispiegamento rapido di oltre 300.000 militari pronti ad essere trasferiti ai confini con Russia e Bielorussia in caso di allerta, insieme a una sostanziale “potenza di combattimento” aerea e navale. Al summit di Vilnius è stato deciso di accelerare il processo di elevazione degli esistenti otto battlegroup dispiegati nei paesi dell’Europa orientale a unità di dimensione di brigata “dove e quando richiesto”, con una maggiore dotazione di mezzi da guerra, equipaggiamenti e sistemi di comando e controllo preposizionati. “Con il nuovo NATO Force Model varato al Summit di Madrid, gli Alleati stanno predisponendo un più ampio pool di forze da combattimento, incluse le unità di alta prontezza operativa, rafforzando la nostra capacità di risposta militare e sfruttando l’esperienza regionale e la vicinanza geografica”, riporta il documento finale del Summit. “Noi stiamo stabilendo anche una nuova Forza di Reazione Alleata multinazionale e multi-dominio, che garantirà più opzioni nella risposta in tempi rapidissimi alle minacce e alle crisi in tutte le direzioni. Abbiamo raggiunto l’accordo di potenziare il sistema di comando e controllo della Nato per assicurare che esso sia sufficientemente agile, resiliente e dotato del personale in grado di eseguire i nostri piani d’intervento”.

Particolare e preoccupante enfasi al vertice di Vilnius è stata data alle capacità di deterrenza nucleare dell’Alleanza militare. “Noi forniremo individualmente e collettivamente uno spettro completo di forze, capacità, piani, risorse, assetti e infrastrutture necessari alla deterrenza e alla difesa, inclusi quelli per una guerra ad alta intensità contro i nostri peggiori competitori armati di testate nucleari”, aggiungono i paesi Nato. “In accordo, rafforzeremo l’addestramento e le esercitazioni che simulano una dimensione di crisi e conflitto convenzionale e, per gli Alleati interessati, nucleare, facilitando una maggiore coerenza tra componenti convenzionali e nucleari nella postura di deterrenza e difesa della Nato in tutti i domini e nell’intero spettro di conflitto”. Scopo fondamentale della capacità nucleare della Nato – si ribadisce a Vilnius – è quello di preservare la pace, prevenire la coercizione e scoraggiare l’aggressione. “Le armi nucleari sono uniche e fino a quando esse esisteranno la Nato resterà un’alleanza nucleare. Le circostanze in cui la Nato potrebbe usare armi nucleari sono estremamente remote. Ogni impiego di armi nucleari contro la Nato altererebbe fondamentalmente la natura di un conflitto. L’Alleanza ha le capacità e la determinazione di imporre costi a un avversario che sarebbero inaccettabili e che superebbero di gran lunga i benefici che egli spererebbe di poter ottenere”. E onde rendere ancora più credibili le minacce di risposta e ritorsione nucleare, il vertice Nato ha annunciato nuovi passi per rendere ancora più efficienti e distruttivi i propri arsenali atomici. “Continueremo a modernizzare la dotazione nucleare Nato e stiamo aggiornando la pianificazione per accrescere la flessibilità e l’adattabilità di tutte le forze nucleari dell’Alleanza, mentre continueremo ad esercitare un forte controllo politico in ogni tempo”, si riporta nel documento finale.

Elemento chiave delle strategie belliche della Nato continuerà ad essere il sistema di Difesa integrata aerea e missilistica (IAMD). “Lo IAMD Nato è una missione essenziale e permanente in tempo di pace, durante una crisi e in caso di conflitto”, riporta il documento finale del vertice in Lituania. “Esso incorpora tutte le misure che contribuiscono alla deterrenza di ogni minaccia aerea e missilistica o ad annullare o ridurre la loro efficienza. Questa missione è condotta con un approccio a 360 gradi ed è indirizzata su misura e in tutte le direzione strategiche contro le minacce predisposte dagli attori statali e non”.

La difesa missilistica è ritenuta del tutto complementare alla deterrenza nucleare. “Lo spirito e i principi politici della Nato Ballistic Missile Defence (BMD) rimane immutata dal Summit di Lisbona del 2010”, annotano i paesi partecipanti al vertice di Vilnius. “La BMD è puramente difensiva ed è finalizzata a contrastare le minacce dei missili balistici che provengono da fuori dell’area euro-atlantica. Gli Alleati continuano ad essere impegnati al completo sviluppo della Nato BMD per contribuire alla difesa collettiva dell’Alleanza ed assicurare la piena copertura e protezione all’intera popolazione, ai territori e alle forze dell’Europa contro la crescente minaccia rappresentata dalla proliferazione di missili balistici”. Alla Nato Ballistic Missile Defence continueranno ad operare le unità anti-missile delle forze armate Usa schierate in Romania, Turchia, Spagna e Polonia, ma gli Alleati si dichiarano pronti a completare l’installazione di “componenti addizionali” del sistema anti-missili balistici e dei relativi centri di comando e controllo “in quanto necessari a raggiungere la completa capacità operativa”.

Un occhio di Washington e degli alleati euro-atlantici anche verso il cosiddetto Fianco Sud della Nato, comprendente il Mediterraneo allargato, il nord Africa, le regioni del Sahel e il Medio oriente. “I confini meridionali della Nato sono interconnessi con la sua sicurezza e rappresentano una sfida demografica, economica e politica”, aggiunge il documento approvato a Vilnius. “Ciò è aggravato dall’impatto del cambiamento climatico, dalla fragilità delle istituzioni, dalle emergenze sanitarie e dall’insicurezza alimentare. Questa situazione assicura un terreno fertile per la proliferazione di gruppi armati non statali, comprese le organizzazioni terroristiche. A ciò si aggiunge la destabilizzazione e l’interferenza coercitiva dei competitori strategici. La Russia sta alimentando le tensioni e l’instabilità in queste regioni. L’instabilità pervasiva sfocia nella violenza contro i civili, inclusa la violenza sessuale legata ai conflitti, così come negli attacchi contro i beni culturali e i danneggiamenti ambientali. Ciò contribuisce ai trasferimenti forzati delle popolazioni e ad alimentare il traffico di esseri umani e la migrazione irregolare”. La Nato globale si dichiara dunque pronta ad assumere il ruolo di protagonista nella gestione delle crisi sociali, economiche, ambientali, climatiche che affliggono il pianeta e nel “contenimento” di fenomeni strutturali come le migrazioni da sud a nord. “In risposta alle implicazioni profonde di queste minacce e sfide all’interno e in prossimità dell’area euro-atlantica, oggi noi abbiamo incaricato il Consiglio Nord Atlantico in sessione permanente a lanciare una riflessione completa e profonda su di esse e sulle opportunità di relazione con altre nazioni partner, organizzazioni internazionali e altri rilevanti attori nella regione, i cui risultati saranno presentati al prossimo Summit Nato del 2024”.

Per soddisfare le smisurate ambizioni Nato di global player mondiale, al vertice di Vilnius si è condiviso l’impegno ad investire sempre maggiori risorse finanziarie in armi e strutture militari. Tutti i paesi membri dell’Alleanza sono stati richiamati a rispettare “le obbligazioni sancite dall’art. 3 del Trattato di Washington” destinando annualmente non meno del 2% del Prodotto interno lordo al settore difesa. “Noi lo facciamo riconoscendo che ciò è ancora più necessario e urgente per rispondere agli impegni dell’Alleanza incluso le richieste di maggiori apparecchiature di lunga durata e per contribuire ai nuovi piani di difesa e al modello di forza Nato, così come alle operazioni, alle missioni e alle attività dell’Alleanza”, si aggiunge nel documento finale. “Noi affermiamo che in molti casi, la spesa oltre il 2% del Pil sarà necessaria per rimediare alle deficienze esistenti e rispondere ai bisogni di tutti i domini che giungono da un ordine di sicurezza contestato”. (3)

Ancora dunque maggiori spese in armi e strumenti di morte e conseguenti tagli al welfare e alle spese sociali nonostante le cifre record attestate nell’ultimo biennio nei budget delle forze armate dei paesi Nato. Alla vigilia del summit di Vilnius, lo stesso segretario generale Jens Stoltenberg si è dichiarato più che soddisfatto per gli sforzi di bilancio sostenuti dall’Alleanza, con una crescita in termini reali dell’8.3% nell’ultimo anno da parte degli alleati europei e del Canada. “Questo è il maggior incremento delle ultime decadi ed è il nono anno consecutivo che aumentano le nostre spese militari”, ha dichiarato Stoltenberg. “In questo modo gli alleati europei e il Canada hanno investito più di 450 miliardi di dollari da quando abbiamo deciso di accrescere gli investimenti nel 2014”. (4)

A Vilnius la Nato si è impegnata a destinare non meno del 20% del budget difesa alla ricerca, sviluppo e acquisizione di nuovi sistemi d’arma. “Stiamo accelerando i nostri sforzi per assicurare che l’Alleanza mantenga il suo vantaggio tecnologico nelle tecnologie emergenti e dirompenti per conservare la nostra interoperabilità ed efficienza militare, includendo anche soluzioni dual-use”, si riporta alla fine del documento del Summit. “Stiamo lavorando insieme per adottare e integrare nuove tecnologie, cooperare con il settore privato, proteggere i nostri ecosistemi innovativi, i modelli standard, ecc..”. In quest’ambito si inserisce il Defence Innovation Accelerator for the North Atlantic (DIANA) lanciato lo scorso anno per promuovere network di ricerca e sviluppo tra centri accademici, start-up e grandi e piccole aziende. A DIANA è stata destinata una prima tranche di un miliardo di euro circa grazie al NATO Innovation Fund, il fondo di investimenti finanziari varato al vertice di Madrid da 23 paesi (Belgio, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Islanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno unito, Repubblica ceca, Romania, Slovacchia, Spagna, Turchia, Ungheria). Il fondo finanzierà in particolare i settori ritenuti strategici e prioritari dalla Nato: sistemi aerospaziali, intelligenza artificiale, biotecnologie e bioingegneria, computer quantistici, cyber security, motori ipersonici, robotica e sistemi terrestri, navali, aerei e subacquei a pilotaggio remoto, industria navale e delle telecomunicazioni, energia, sistemi di propulsione, ecc.. (5) Nel board dei direttori del NATO Innovation Fund è stato chiamato, tra gli altri, l’ex ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani.

Alla realizzazione dei programmi di ricerca DIANA concorreranno nove acceleratori e 63 Centri test da insediare in Europa e in Nord America. Uno di questi acceleratori Nato sorgerà nella città di Torino, mentre ancora in Italia sono previsti due Centri Test, il primo al Centro di sperimentazione e supporto navale (Cssn) di La Spezia e il secondo a Capua (Caserta) presso il Centro italiano di ricerche aerospaziali (Cira), società partecipata dall’Agenzia Spaziale Italiana, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dalla Regione Campania.

Note:

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Tra G7 e F-16, Zelensky torna da Vilnius più forte di prima


Il summit di Vilnius, che si è avviato al termine, è stato sicuramente proficuo per l’Ucraina. Anche se la speranza di un piano ben definito per regolare l’accesso all’interno dell’alleanza non si è concretizzata, la quarantottore lituana ha portato comun

Il summit di Vilnius, che si è avviato al termine, è stato sicuramente proficuo per l’Ucraina. Anche se la speranza di un piano ben definito per regolare l’accesso all’interno dell’alleanza non si è concretizzata, la quarantottore lituana ha portato comunque importanti novità per Kyiv.

Nella mattinata di Mercoledì 12 Luglio Amanda Sloat, senior director per l’Europa all’interno del National Security Council statunitense, ha preannunciato che questa sera il presidente statunitense Joe Biden, assieme ad altri leader del G7, annunceranno una forma di impegno a lungo termine atta a garantire la sicurezza dell’Ucraina durante l’incontro con il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy. “Gli Stati Uniti, insieme ai leader del G7, annunceranno la nostra intenzione di aiutare l’Ucraina a costruire un esercito in grado di difendersi e di scoraggiare un futuro attacco” sono state le parole della funzionaria statunitense.

L’annuncio dovrebbe coincidere con l’inizio di una serie di negoziati bilaterali tra l’Ucraina e ciascuno degli stati del G7 coinvolto nell’iniziativa (ancora non è chiaro quali siano effettivamente gli stati coinvolti in questo processo), portate avanti sotto l’egida di una dichiarazione-ombrello congiunta. Oggetto di queste negoziazioni saranno la fornitura di equipaggiamento bellico a lungo termine, così come l’incremento nella condivisione dei dati di intelligence, nel sostegno alla lotta contro le minacce informatiche e ibride, negli sforzi per l’addestramento e le esercitazioni militari e snello sviluppo della base industriale ucraina.

Quest’iniziativa, che offrirebbe un sostegno costante e in forma strutturata all’Ucraina, è atta a placare, almeno parzialmente, i malesseri di Kyiv e di quei paesi Nato che speravano di vedere uscire dal summit di Vilnius una roadmap ben definita per l’ammissione ucraina all’interno dell’Alleanza atlantica. A questo proposito, la prima ministra dell’Estonia Kaja Kallas ha constatato che gli accordi di sicurezza bilaterali potrebbero offuscare il dibattito sull’adesione dell’Ucraina, e che gli impegni preannunciati non sono sufficienti a scoraggiare la Russia nel lungo termine.

“L’adesione alla Nato darebbe la garanzia che quando c’è un cambio di leadership in alcuni paesi, perché ci sono le elezioni, non cambia l’obbligo di uno stato membro di aiutare l’Ucraina” ha affermato la leader del paese baltico.

Contemporaneamente, a latere del summit di Vilnius alcuni funzionari hanno annunciato la firma di un memorandum che prevede per agosto l’inizio delle sessioni di addestramento di piloti, tecnici e staff di supporto ucraini all’utilizzo dei velivoli multiruolo F-16. I primi addestramenti, condotti da personale di 11 nazioni diverse, avranno luogo in Danimarca, mentre un ulteriore campo sarà adibito nei prossimi mesi in territorio romeno. La notizia è stata rilanciata sul suo profilo Twitter dal ministro della difesa ucraino Oleksii Reznikov, che non esclude un’estensione del programma ad altre tipologie di apparecchi.

“Speriamo di poter vedere i risultati all’inizio del prossimo anno” si augura il ministro della difesa danese Troels Lund Poulsen, anche se al momento non risulta che nessun esemplare di F-16 sia stato effettivamente recapitato alle forze aeree di Kyiv.


formiche.net/2023/07/ucraina-v…



L’Europa è al bivio, servono nuove regole fiscali e di governance


Sintesi della Martin Feldstein Lecture 2023 tenuta dall’ex premier ed già presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, durante la conferenza estiva del National Bureau of Economic Research di Cambridge, Massachusetts. La domanda più importante

Sintesi della Martin Feldstein Lecture 2023 tenuta dall’ex premier ed già presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, durante la conferenza estiva del National Bureau of Economic Research di Cambridge, Massachusetts.

La domanda più importante che dobbiamo porci è se l’Europa possa aprire una strada diversa in direzione dell’unione fiscale.

La Storia ci insegna che di rado i bilanci comuni sono stati creati come appendici all’integrazione monetaria, bensì per garantire obiettivi specifici nell’interesse comune. Fino a oggi l’Europa non ha mai dovuto far fronte a così tanti obiettivi sovranazionali, che non possono essere perseguiti dai singoli Paesi. Stiamo vivendo una serie di importantissime transizioni che richiedono ingenti investimenti comuni. La Commissione Europea ha fissato in più di 600 miliardi l’anno, da qui al 2030, il fabbisogno degli investimenti per la transizione verde. Il settore pubblico dovrà finanziare da un quarto a un quinto di questa cifra.

Stiamo vivendo anche una transizione geopolitica per la quale non possiamo più fare affidamento su Paesi poco amichevoli nei nostri confronti per i nostri approvvigionamenti basilari. Ciò comporta un considerevole cambiamento di indirizzo degli investimenti per aumentare le capacità produttive in patria o nei Paesi partner.

Nel corso della Storia dell’Ue, inoltre, i suoi valori fondanti di pace, democrazia e libertà non sono mai stati messi alla prova come adesso dalla guerra in Ucraina. Una delle prime conseguenze di ciò è che dobbiamo avviare un’altra transizione e dirigerci verso una Difesa europea comune molto più forte, se intendiamo rispettare il target delle spese militari dei Paesi della Nato pari al due per cento del Pil.

Così com’è, però, la compagine istituzionale europea non è adatta per queste transizioni, come evidenzia un paragone con gli Stati Uniti. Negli Usa possiamo constatare una maggiore attenzione per la cosiddetta “arte di governo”, in cui la spesa federale, le modifiche delle regolamentazioni e gli incentivi fiscali si allineano per perseguire gli obiettivi strategici fissati. L’Inflation Reduction Act, per esempio, accelererà simultaneamente la spesa per la transizione verde, attirerà investimenti esteri e ristrutturerà le catene di approvvigionamento a favore dell’America.

L’Europa, all’opposto, è priva di una strategia equivalente che integri la spesa a livello Ue, le direttive sui sussidi pubblici e i piani fiscali nazionali, come dimostra l’esempio del clima.

Una volta scaduto il Recovery Plan, non c’è una proposta per uno strumento federale in sua sostituzione, atto a portare avanti la necessaria spesa per il clima. Le normative sugli aiuti pubblici dei Paesi dell’Ue limitano la capacità delle autorità nazionali di perseguire attivamente una politica industriale verde.

Nell’inerzia, si rischia seriamente di non rispettare i nostri obiettivi climatici e, probabilmente, di perdere la nostra industria di base a beneficio di regioni che hanno meno vincoli. Questo lascia spazio a due opzioni.

Primo, è possibile allentare le normative sugli aiuti di stato e rilassare le regolamentazioni fiscali per assumerci l’onere di una spesa per gli investimenti in pieno. Così facendo, però, si creerà frammentazione, dato che i Paesi con un maggiore margine di bilancio potranno spendere più degli altri. Come abbiamo appreso dall’Accordo di Deauville, la frammentazione non ha senso quando l’obiettivo sovranazionale è tale che i singoli Paesi non possono raggiungerlo da soli. Proprio come l’euro non può essere stabile se vengono meno ingenti parti dell’unione monetaria, così il cambiamento del clima non può essere risolto se un Paese riduce le sue emissioni di anidride carbonica più rapidamente degli altri.

Questo significa che non abbiamo a disposizione che un’unica opzione, la seconda: cogliere l’occasione per ridefinire l’Ue, la sua struttura fiscale e il suo processo decisionale e renderli più adeguati alle sfide che ci troviamo davanti.

La sfida più importante per la zona euro è che per perseguire molteplici obiettivi diversi stiamo facendo affidamento su regolamentazioni fiscali a livello nazionale.

Tenuto conto del ruolo fondamentale di stabilizzazione dei bilanci nazionali, abbiamo bisogno di regolamentazioni che permettano alle politiche controcicliche di reagire agli shock locali. Abbiamo bisogno di garantire l’affidabilità a medio termine delle politiche fiscali nazionali in un contesto post-pandemico caratterizzato da un indebitamento elevatissimo. Garantire la credibilità fiscale implica necessariamente per le regolamentazioni di essere più automatiche e che vi sia meno discrezionalità. Poiché è impossibile mettere a punto regolamentazioni adatte a tutte le situazioni che si presenteranno in futuro, un maggiore automatismo vincolerà sempre la capacità dei governi di reagire a shock imprevisti.

Nello stesso modo, regolamentazioni accettabili richiedono aggiustamenti su orizzonti temporali non troppo lunghi. Il tipo di investimento che ci occorre oggi, però, implica impegni di spesa a lungo termine, molti dei quali proseguiranno ben oltre l’arco di vita dei governi che li sottoscrivono. La Commissione Europea ha cercato di risolvere questi compromessi proponendo una grande attenzione alla regola di spesa collegata alla traiettoria debitoria a medio termine di un Paese.

Poiché costituisce una decentralizzazione dei poteri al centro, l’automatismo normativo può funzionare soltanto se è eguagliato da un livello di spesa maggiore dal centro. Questo è ciò che possiamo vedere negli Stati Uniti, dove la devolution dei poteri nel governo federale rende possibile norme di bilancio perlopiù inflessibili per gli stati.

La zona euro probabilmente non potrà mai replicare una struttura del genere, tenuto conto di quanto sono più grandi i bilanci nazionali rispetto a quelli degli stati americani. Vi sono buoni motivi, tuttavia, per adottarne alcuni elementi.

Lo spazio fiscale asimmetrico europeo – dove alcuni Paesi sono in grado di spendere molto più di altri – è sprecato, in sostanza, quando si tratta di obiettivi condivisi come il clima e la Difesa. Se alcuni Paesi possono spendere liberamente a favore di questi obiettivi ma altri no, l’impatto di tutte le spese sarà in ogni caso inferiore, perché nessun Paese sarà in grado di arrivare alla sicurezza climatica o militare.

Una maggiore emissione di debito comune per finanziare questo investimento in teoria potrebbe espandere lo spazio fiscale collettivo che abbiamo a disposizione. Questo significa, quanto meno, che dovremmo garantire che gli stati membri più indebitati usino lo spazio fiscale per creare una spesa comune che migliori le loro prospettive.

Una possibilità, dunque, consiste nel procedere – come abbiamo fatto finora – con l’integrazione tecnocratica, apportando modifiche tecniche e sperando che le modifiche politiche seguano quanto prima. In definitiva, nel caso dell’euro questo approccio funzionò e l’Ue ne è uscita rafforzata. I costi di quella impresa, però, sono stati elevati, i progressi lenti.

Un’altra possibilità consiste nell’andare avanti con un iter politico vero e proprio, il cui fine sia chiaro dall’inizio e sia sottoscritto da tutti sotto forma di modifica del Trattato europeo. Questa strada non portò a nulla alla metà degli anni Duemila, e da allora i policymaker si sono astenuti dall’imboccarla un’altra volta. Tuttavia, io credo che oggi vi siano maggiori speranze di successo.

Quando l’Ue si allargherà per includere i Balcani e l’Ucraina, sarà indispensabile riaprire i Trattati per garantire di non ripetere gli errori commessi in passato espandendo la nostra periferia senza rafforzare il centro.

Il punto di partenza di qualsiasi cambiamento del Trattato in futuro dovrà essere il riconoscimento di un numero in costante incremento di obiettivi condivisi e la necessità di finanziarli insieme, il che richiede una forma diversa di rappresentatività e di processo decisionale centralizzato. A quel punto, diventerà più realistico incamminarci verso regolamentazioni più automatiche.

Io credo che oggi gli europei siano più pronti di vent’anni fa a imboccare questa strada, perché in verità hanno a disposizione soltanto tre opzioni: la paralisi, l’uscita dall’Ue o l’integrazione.

Dai sondaggi emerge chiaramente che i cittadini si sentono sempre più minacciati dall’esterno, non ultimo da quando è iniziata l’invasione russa. E questo rende la paralisi sempre più inaccettabile.

La Brexit ha tradotto in realtà le motivazioni teoriche a favore dell’uscita dell’Ue e, se i vantaggi di questa scissione appaiono ancora estremamente incerti, i costi sono fin troppo evidenti.

Se dunque la paralisi e l’uscita dall’Ue appaiono poco allettanti, i costi relativi di un’integrazione ulteriore appaiono minori.

Non potremo creare la capacità operativa dell’Ue senza rivedere l’assetto fiscale europeo. In conclusione, la guerra in Ucraina ha ridefinito profondamente la nostra Unione, non soltanto nella sua appartenenza o nei suoi obiettivi condivisi, ma anche nella consapevolezza che ha creato: il nostro futuro è interamente nelle nostre mani.

La Stampa

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