Etiopia, Le autorità della regione del Tigray contestano i rapporti sulla ripresa degli aiuti alimentari del WFP
L’ Associated Press (AP) ha riferito ieri che il Programma alimentare mondiale (WFP) ha ripreso a fornire aiuti alimentari nella regione del Tigray, colpita dal conflitto, tre mesi dopo aver sospeso gli aiuti a causa di accuse di furto e diversione alimentare. Secondo AFP, l’agenzia delle Nazioni Unite ha iniziato a fornire sacchi di grano preconfezionati da 15 chilogrammi a oltre 100.000 persone residenti in quattro distretti del Tigray.
Pur confermando la ripresa di alcune attività di aiuto in alcune parti della regione, Gebrehiwot Gebregzabher (PhD), Commissario della Commissione per la gestione del rischio di catastrofi del Tigray, ha chiarito ad Addis Standard che non dovrebbe essere percepita come una ripresa degli aiuti alimentari sospesi , come riportato dai media internazionali. “Invece, è la ripresa del programma della rete di sicurezza”.
Secondo Gebrehiwot, le azioni intraprese dal WFP sono state erroneamente descritte come il ripristino dell’assistenza umanitaria. Gebrehiwot sostiene che “gli aiuti umanitari non impongono alcun obbligo ai beneficiari, mentre i programmi di rete di sicurezza coinvolgono individui che partecipano a specifiche attività di lavoro pubblico”.
Il Productive Safety Net Program (PSNP) è operativo nella regione del Tigray dal 2004 e ha fornito assistenza a quasi un milione di persone. Sfortunatamente, il programma è stato temporaneamente interrotto a causa del conflitto scoppiato nel novembre 2020 tra il governo federale e le forze della regione del Tigray.
Secondo Gebrehiwot, il programma della rete di sicurezza recentemente ripristinato ora estende la sua copertura a quattro woreda situate nelle regioni nord-occidentali e meridionali del Tigray. Questi woreda includono Asgede, Tsimbla, Tahitay Adiyabo e Raya Azebo.
Secondo AP , tuttavia, la lenta ripresa degli aiuti come progetto pilota è stata avviata per sperimentare misure di monitoraggio rafforzate da parte del Programma alimentare mondiale (PAM). Il WFP ha implementato controlli e misure migliori per affrontare il problema in questione, con l’obiettivo di garantire l’effettiva fornitura di assistenza alimentare. Per evitare che gli aiuti cadano nelle mani sbagliate, le “distribuzioni di prova” incorporano procedure di sicurezza rafforzate come il monitoraggio delle forniture e la registrazione digitale dei destinatari, come riportato da AP.
Lo sviluppo è arrivato tre mesi dopo che due importanti agenzie umanitarie, il WFP e l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (USAID), hanno annunciato la sospensione degli aiuti alimentari per una regione colpita dalla guerra tra accuse di dirottamento alimentare. Nonostante gli sforzi del WFP per affrontare le sfide della distribuzione, i funzionari di USAID hanno confermato che l’assistenza alimentare in Etiopia rimane sospesa.
Secondo Janean Davis , vicedirettore aggiunto del Bureau of Africa, la sospensione della distribuzione degli aiuti persisterà mentre sono in corso le indagini e le trattative. Davis ha inoltre dichiarato la scorsa settimana che al momento non esiste una data specifica per la ripresa dell’assistenza.
NOTA:
“Credo che il TPLF sia stato molto opportunistico. Forse stanno rubando ai cittadini, non ne abbiamo prove”, ha dichiarato Sean Jones, capo di USAID in Etiopia martedì 30 agosto 202, attraverso il media di stato EBC TV.
Dichiarazione arrivata poche settimane dopo l’accusa verso il governo etiope di bloccare gli aiuti alla Regione del Tigray.
La sospensione della consegna degli aiuti ha messo in pericolo milioni di vite, in particolare quelle che risiedono nei centri per sfollati interni (IDP) e nelle comunità di accoglienza. Più di cinque milioni di persone nel Tigray sono in attesa di aiuti da due anni a causa della guerra in corso. Tra questi, 2,3 milioni sono sfollati interni (IDP) che ricevono sostegno dal WFP in 643 siti e comunità ospitanti. Tuttavia, a causa della sospensione dell’assistenza umanitaria, almeno 1,2 milioni di questi sfollati stanno ora abbandonando i siti designati e cercando cibo in altre grandi città della regione.
Secondo Gebrehiwot, dall’interruzione dell’assistenza umanitaria nel Tigray, più di 1300 persone hanno perso la vita a causa della fame e di fattori correlati.
FONTE: addisstandard.com/news-authori…
FIRST® LEGO® League, la competizione per promuovere lo sviluppo delle soft skill fondamentali per la costruzione di una dimensione del divertimento e di un ambiente sereno in cui tutti si sentano al posto giusto.
Ministero dell'Istruzione
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Letture asiatiche – Contagio sociale
Il saggio Contagio sociale. Guerra di classe microbiologica in Cina (Nero Edizioni, 2023) propone uno sguardo specificatamente cinese sul Covid-19, partendo dal presupposto che il virus non è causato da elementi insiti nel sistema politico della Repubblica popolare, bensì da un modello economico finalizzato all’accumulazione infinita. Il collettivo Chuang 闯raccoglie mesi di reportage sul campo e interviste in una cronaca puntuale delle prime fasi dell’epidemia a Wuhan, tra i provvedimenti adottati dal governo e le pratiche mutualistiche della popolazione. E analizza anche come la crisi sia funzionale alla costruzione di nuovi modelli di repressione.
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Mutui, lo Stato ingiusto discrimina i terremotati e sostiene i furbi
Oltre ad uccidere 299 persone, il terremoto che nel 2016 scosse l’Italia centrale distrusse o rese inagibili più di 80mila abitazioni e una quantità incalcolabile di attività commerciali. Una tragedia cui si aggiunse la beffa: dover pagare mensilmente le rate di mutui su abitazioni, negozi o capannoni rasi al suolo o comunque inservibili.
Da allora, si sono avvicendati ben sei governi, nessuno dei quali ha ritenuto opportuno spendere un solo euro di denaro pubblico per aiutare famiglie e imprese a sostenere i costi dei mutui sui propri immobili fantasma. Unico sollievo, il fatto che nel 2017 il sistema bancario abbia deciso di sospendere i pagamenti delle rate. Ma le rate sono state sospese, non azzerate. Dunque si accumulano, e alcune banche applicano persino interessi di mora sulle rate congelate.
Di terremoto non si parla più. Solo l’1% delle abitazioni distrutte è stato ricostruito: i cittadini terremotati di Marche, Abruzzo, Umbria e Lazio sono stati inopinatamente abbandonati dallo Stato. Una vergogna senza fine.
In materia di mutui, la discrepanza balza agli occhi. Lo Stato ha ignorato e ignora i bisogni primari di chi ha avuto la vita sconvolta da un evento straordinario (il terremoto), mentre si fa carico di chi è stato toccato da un evento ordinario (l’aumento dei tassi di interesse). C’è qualcosa che non torna.
Per oltre un decennio le famiglie e le imprese italiane hanno potuto contrarre mutui a tassi bassissimi. Chi ha scelto il variabile ne ha avuto vantaggi inimmaginabili in altri tempi. Tecnicamente, si è arricchito. O quantomeno si è impoverito molto meno di chi ha contratto lo stesso mutuo in epoche precedenti. Da almeno un anno, però, si sapeva che quest’anomala condizione paradisiaca sí sarebbe conclusa e che un po’ alla volta i tassi di interesse avrebbero cominciato a salire. Lo diceva la Tv, lo scrivevano i giornali, si spera lo spiegassero anche i consulenti finanziari ai loro clienti. Chi non ha convertito in fisso il proprio tasso variabile, e ancor peggio chi nei mesi scorsi ha sottoscritto un mutuo a tasso variabile anziché fisso, lo ha fatto spinto da una sorta di ottusa bramosia o da una colossale ignoranza. È vero che la cultura finanziaria in Italia scarseggia ed è vero che il governo avrebbe potuto e forse dovuto informare i cittadini, ma in un caso come questo l’ignoranza non è né può essere una giustificazione.
Dirlo è quanto di più impopolare, lo dimostra il fatto che, senza distinzione tra maggioranza e opposizione, tutte, ma proprio tutte le forze politiche abbiano condiviso la scelta del governo di destinare parte del gettito ricavato dalla tassazione degli extra profitti delle banche al sostegno delle famiglie colpite dal rincaro dei mutui. Dirlo è impopolare, non c’è dubbio, ma l’onestà intellettuale impone di farlo: mettere a carico del contribuente, anche di quello che ha convertito per tempo il proprio mutuo pagandone il costo aggiuntivo, il sostegno di chi si è ostinato a contrarre muniti a tasso variabile non è un buon modo di spendere il denaro pubblico e di fare giustizia sociale. Un buon modo sarebbe aiutare i nostri connazionali messi in ginocchio sette anni fa dal terremoto, ma, chissà perché, di loro non si occupa più nessuno.
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Conti in ordine e mercato. Così Leonardo e Fincantieri scalano la classifica mondiale
Leonardo porta l’industria italiana ancora più in alto, nell’Olimpo delle eccellenze mondiali della Difesa. Nei giorni scorsi, la rinomata testata americana, Defense News, ha pubblicato la sua attesa lista annuale nella quale figurano le prime 100 compagnie nel settore della Difesa nel 2023. Tra i protagonisti di questa graduatoria, spiccano in particolare due colossi italiani: Leonardo e Fincantieri, che hanno dimostrato una notevole crescita rispetto allo scorso anno.
ECCELLENZA TRA LE ECCELLENZE
Leonardo si è infatti imposto all’undicesimo posto, guadagnandosi il titolo di prima azienda dell’Unione europea, salendo di un gradino rispetto alla classifica del 2022, quando il gruppo di Piazza Monte Grappa figurava al dodicesimo posto, mentre l’anno ancora prima, il 2021, l’azienda guidata da Roberto Cingolani, al timone di Leonardo dalla scorsa primavera, si era posizionata al tredicesimo posto. Una lenta ma inesorabile scalata, che ha permesso all’ex Finmeccanica di scavalcare altri giganti europei del calibro di Airbus, Thales e Hendsoldt, ma anche i temutissimi colossi cinesi, quali China Aerospace Science and Technology Corporation. Segno che l’industria italiana della Difesa non solo è viva e vegeta, ma decisamente competitiva.
Guardando più nel dettaglio alla speciale selezione di Defense News, al fine di determinare il posizionamento di un’azienda, sono stati considerati i dati richiesti direttamente alle aziende, dalle relazioni annuali e da ricerche ad hoc condotte da enti quali l’International institute for strategic studies (Iiss) o Oliver Wyman. Le informazioni estrapolate riguardano in particolare i ricavi annuali totali e i ricavi derivanti da contratti di Difesa, Intelligence, sicurezza interna e altri accordi di sicurezza nazionale.
L’IMPORTANZA DEI CONTI
Il riconoscimento arrivato da Defense News non poteva non tenere conto del buon andamento dell’azienda negli ultimi mesi. I conti presentati al mercato lo scorso mese, i primi recanti la firma dell’ex ministro dell’Ambiente, già manager di Leonardo prima di essere chiamato al governo da Mario Draghi, raccontano di un’azienda in piena crescita ed espansione.
Piazza Monte Grappa ha infatti chiuso il primo semestre 2023 con ricavi in rialzo del 6,4% anno su anno a 6,9 miliardi di euro e un Ebita di 430 milioni di euro (+5,7%), a fronte di un utile netto di 208 milioni di euro. Numeri che hanno permesso al gruppo di confermare le guidance per fine 2023. Non è finita. Gli altri numeri della semestrale evidenziano un miglioramento del flusso di cassa operativo, che resta negativo per 517 milioni di euro, ma segna un progresso del 46,3% rispetto al dato di -962 milioni di euro del 30 giugno 2022.
Ma è sugli ordini che c’è stato il vero sprint, segno di un credito crescente sul mercato. Il portafoglio ha infatti raggiunto quota 8,7 miliardi di euro (+21,4%), portando il monte ordini a quota 40 miliardi di euro con book to bill pari a 1,3. Quanto al risanamento in atto, l’indebitamento netto di gruppo è sceso del 24% a 3,6 miliardi di euro, grazie al minore assorbimento di cassa. E anche nel 2022 le cose erano andate piuttosto bene: lo scorso anno si è chiuso per Leonardo con un utile netto ordinario salito a 697 milioni (+18,7%), mentre il risultato netto vero e proprio ha registrato un incremento del 58,5% a 932 milioni di euro, a fronte di un ebitda cresciuto a quota 1,2 miliardi di euro (+ 15%).
IL PREMIO DEL MERCATO
Tutto questo non ha potuto che giovare al titolo in Borsa. I mercati, si sa, hanno la vista acuta. Dando una rapida all’andamento del titolo a a Piazza Affari, nell’ultimo mese la capitalizzazione del gruppo è cresciuta del 22%, arrivando a toccare i 13,4 euro ad azione. Solo lo scorso luglio Leonardo scambiava a poco meno di 11 euro ad azione, mentre al momento delle nomine, lo scorso aprile, l’ex Finmeccanica valeva in Borsa poco più di 10 euro ad azione. Di più. A certificare la crescita di Leonardo e il feeling con gli investitori, va detto che negli ultimi mesi il titolo ha guadagnato il 36%, mentre da inizio anno ad oggi il valore del gruppo sui listini è aumentato addirittura del 60%. Insomma, l’ascesa in classifica di Leonardo e Fincantieri, che tra il 2021 e il 2023 è passata dalla posizione 58 alla numero 48, guadagnando ben 10 gradini, non è dunque solo un trionfo individuale per le due aziende, ma invia anche un segnale positivo all’intero comparto industriale del nostro Paese.
IL SUCCESSO CON GLI ELICOTTERI
La narrazione non finisce qui. C’è un ultimo tassello da aggiungere, ovvero il ritorno del gruppo al centro del business degli elicotteri. Leonardo ha infatti recentemente rafforzato nuovamente la sua posizione di leadership nel mercato del trasporto elicotteristico privato con importanti risultati. Durante il salone Labace 2023, l’azienda di piazza Monte Grappa ha infatti annunciato nuovi contratti in America Latina, tra cui la partnership con Gruppomodena S.A. che è diventato distributore ufficiale per vari modelli di elicottero, inclusi AW119Kx, AW109, AW169 e AW139, in Uruguay e in Argentina.
Tale accordo comprende anche la firma di un contratto per due monomotori leggeri AW119Kx e tutti gli elicotteri saranno personalizzati con interni Vip per compiti di trasporto privato e corporate. A ciò si aggiunge la notizia che Leonardo investirà oltre 65 milioni di dollari, in collaborazione con Space Florida, per la realizzazione di una struttura avanzata di supporto post-vendita degli elicotteri, che includerà servizi di riparazione, revisione, collaudo, e un ampio magazzino di parti di ricambio, prevista per il completamento entro la fine del 2024. Motori avanti tutta.
DeCretoni
Sulla tassazione del margine d’interesse, volgarizzato in “tassa sugli extraprofitti” o “tassa sulle banche”, è largamente probabile che sarà eccepita l’incostituzionalità. Un sistema fiscale funziona quando le regole sono chiare e stabili. Qui siamo di fronte a un prelievo da una parte limitato a un anno e dall’altra retroattivo. Una specie di riassunto di cosa non si dovrebbe fare, tanto più che appena due mesi addietro il ministro dell’Economia lo aveva escluso.
Il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha detto che quel prelievo è una conseguenza delle scelte sbagliate della Bce che, a suo dire, non avrebbe dovuto alzare i tassi d’interesse. Ora – a parte che si vorrebbe sapere cosa mai si sarebbe dovuto fare per fermare l’inflazione oppure se si ritiene che quest’ultima sia un beneficio per lavoratori e consumatori – la tesi esposta si scontra direttamente con quanto sostenuto appena la settimana scorsa da Fabio Panetta, designato governatore della Banca d’Italia, il quale propone di fermare la salita dei tassi d’interesse ma di mantenerli ai livelli attuali a lungo, sicché la portata di un solo anno, decisa per la nuova tassa, è incongrua con il presunto obiettivo.
Inoltre ci si dimentica che appena ieri si reclamava il massiccio uso dei soldi dei contribuenti per ‘salvare’ le banche, mentre ora si racconta che si salveranno i contribuenti usando i soldi delle banche. E ci si dimentica che la crescita dei tassi d’interesse ha sì fatto crescere gli interessi generati dai prestiti a tasso variabile, ma ha anche fatto scendere il valore dei titoli del debito pubblico, di cui i bilanci delle banche sono pieni. Insomma: mentre la Bce mostra fiducia sulla buona condizione delle nostre banche, noi si pensa che tale salute sia troppa. Il che – a tacere della retroattività, che di suo è una violazione delle regole – si spera non porti sfortuna.
Né, infine, risulta corretto mettere le banche sullo stesso piano delle imprese energetiche, perché per queste seconde i profitti extra erano dati da un inatteso ed esagerato fenomeno di mercato, mentre il rialzo dei tassi è una decisione istituzionale per niente imprevista.
Quelli varati dal governo, nell’ultimo Consiglio dei ministri prima delle (loro) vacanze, sono degli insaccati legislativi. I Presidenti della Repubblica, uno dopo l’altro, provano a richiamare i governi, uno dopo l’altro, al rispetto del dettato costituzionale, quindi all’omogeneità dei decreti legge, sottolineando che gli insaccati finiscono con l’espropriare il Parlamento di un potere, quello legislativo, che dovrebbe detenere in esclusiva. Ma non c’è verso. Il vizio della prolissità e disomogeneità è talmente diffuso e ripetuto da essere divenuto l’illegittima normalità. Le ultime salsicce, però, hanno un gusto particolare. Fidando nel confondersi dei sapori ci sono anche misure, come quella sulle potenze emissive degli impianti radioelettrici 5G, cui gli odierni decretatori si erano ieri opposti strenuamente. Mentre al palato attento non giungerà come inatteso il nulla di fatto sui taxi. Chi liscia a lungo la bestia corporativa deve poi stare attento a che quella non gli morda la mano. Quindi scaricano tutto sui Comuni – come già era, del resto – ma lo mettono nell’insaccato legislativo per dire: una cosa l’abbiamo fatta.
Ora non resta che mettere l’insaccato sulla griglia delle vacanze agostane, levando così il tanto fumo dell’avere difeso i cittadini dalle mani adunche delle banche, ma restando l’arrosto del consegnarli a stabilimenti balneari che contribuiscono per un nulla al gettito fiscale per le concessioni e poco al giro d’affari (essendo vasta l’evasione), ma alzano eccome il prezzo dei servizi che vendono, protetti dall’assenza di concorrenza nel far meglio fruttare il suolo pubblico. Senza contare lo stuzzichino grigliato offerto a chi un taxi non lo trova a pagarlo, nel mentre con i suoi soldi lo si offre a chi si droga e si ubriaca in discoteca.
La Ragione
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Naufragio Sicilia, 41 morti. Sopravvissuti alla deriva per 4 giorni
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Due uomini, una donna e un minore. Sono le sole 4 persone sopravvissute al naufragio che lo scorso giovedì ha causato la morte di 41 migranti tra cui 3 bambini.
Conosciamo la loro storia grazie a loro, che hanno raccontato come la barca si sia ribaltata dopo sole 6 ore di navigazione a causa di un’onda particolarmente alta. 7 metri di lunghezza, ospitava 45 persone, partite da Sfax in Tunisia, tentavano di raggiungere l’Italia.
Alcuni, una quindicina, indossavano un salvagente ma sono affogati lo stesso, hanno raccontato i 4 naufraghi, provenienti da Costa d’Avorio e Guinea Konakry, alla Guardia Costiera italiana.
Loro sono rimasti in acqua per ore. Poi hanno visto una barca abbandonata, probabilmente lasciata dopo un trasbordo di migranti e sono riusciti a salire. La barca, senza motore, è andata alla deriva per almeno 4 giorni finendo, trascinata dalle correnti, al largo della Libia.
La Guardia Costiera libica, seppur avvisata dalle autorità italiane, non sarebbe intervenuta, secondo la ricostruzione fatta da La Presse.
I sopravvissuti sono stati avvistati ieri da una barca mercantile battente bandiera maltese, la Rimona, che li ha salvati facendoli salire a bordo. Questa mattina sono trasbordati su una motovedetta della Guardia Costiera che li ha portati a Lampedusa.
Nessuna barca né autorità marittima ha avvistato cadaveri in mare. I corpi dei 41 migranti rimarranno, come centinaia di altri, sul fondo del Canale di Sicilia. Pagine Esteri
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Ben(d)edetto del 9 agosto 2023
“Le foto dei figli sui social, la promessa di Federica Pellegrini e il teorema dei Chiesa: «Io faccio così»”
#cosedagarante ma soprattutto #cosedaleggere | Bello, vero e intenso il post di Martina Pennisi | Le foto dei figli sui social, la promessa di Federica Pellegrini e il teorema dei Chiesa: «Io faccio così» | Telefonoazzurro 👉🏼 lnkd.in/dU97x8Qi
Alta tensione tra Cina e Filippine sul mar Cinese meridionale
Cannoni ad acqua della guardia costiera di Pechino verso le navi di Manila su acque contese. Anche Marcos Junior dopo l'invasione russa dell’Ucraina ha rafforzato i legami con Washington. Si alza il rischio di incidenti nella regione
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Se la Cina arranca e l’India corre
Una nuova era della globalizzazione si sta aprendo, i segnali abbondano. La Cina vede ridimensionarsi il proprio ruolo di «fabbrica del mondo». Nuovi investimenti delle multinazionali privilegiano altri Paesi emergenti come l’India. Vi si aggiunge una parziale reindustrializzazione dell’Occidente, in particolare per le produzioni che ci servono nella transizione ecologica. In America un milione di posti di lavoro sono già «rimpatriati» dall’estero in due anni, per effetto delle politiche industriali di Biden. Con qualche ritardo, l’Europa segue: in futuro vogliamo avere il controllo di produzioni strategiche e quindi riportarle più vicine a casa nostra. Colpisce il divario tra questi segnali precursori di cambiamenti, e un dibattito italiano che li ignora. Il reddito di cittadinanza, comunque lo si voglia riformare, punta ad attenuare fenomeni di povertà pre-esistenti. Ma come evitare che i «figli dei poveri di oggi» siano costretti anche loro a vivere di assistenza in futuro? A quali mestieri dovremmo indirizzarli e formarli? Il Welfare non deve monopolizzare la nostra attenzione fino al punto di impedirci di preparare il futuro: dove tornerà attuale una vocazione industriale, anche se di tipo nuovo. Gli adattamenti in corso in America, Cina, India, Europa, sono collegati fra loro. L’economista americano Adam Posen lancia una metafora: secondo lui l’economia cinese soffre di «longCovid». È una sindrome che con il vero Coronavirus c’entra solo in parte, perché cominciò molto prima. Dal 2015 a oggi i consumi di beni durevoli (come le automobili) nella Repubblica Popolare si sono ridotti di un terzo. Per gli investimenti delle imprese la caduta è stata ancora più pesante, il loro livello odierno è inferiore di due terzi rispetto a dov’erano nel 2015. Nello stesso periodo la quota del risparmio delle famiglie cinesi in proporzione al Pil è cresciuta del 50%. Il declino si estende su un periodo di otto anni e quindi va ben oltre lo shock della pandemia, chiama in causa dei problemi antecedenti. Quei dati disegnano un quadro di sfiducia: le imprese non riprendono a investire se non in piccola parte, i consumatori non tornano a spendere come prima, invece accantonano risparmio per paura. Di che cosa hanno paura i cinesi? Di un ritorno allo statalismo che riduce la libertà d’iniziativa privata nella seconda economia mondiale. Il clima di sfiducia che cala sull’economia cinese ha altre concause. C’è l’iper-nazionalismo di Xi che genera ostilità verso gli investitori stranieri: la Repubblica Popolare del 2023 è meno accogliente per le imprese estere. C’è la crisi del settore immobiliare. C’è infine l’offensiva che viene da fuori, l’antagonismo degli Stati Uniti (i dazi di Trump dal 2017, poi l’embargo tecnologico di Biden su alcuni semiconduttori). Queste sono aggravanti. Il cambiamento fondamentale secondo Posen è il ritorno di un arbitrio da parte del regime comunista nelle sue interferenze su molte attività economiche. Lo conferma la recente propensione a leggi d’emergenza, in nome della sicurezza nazionale, che da un momento all’altro possono cambiare le condizioni dell’attività d’impresa. «Grazie» a Xi Jinping, l’India diventa una parziale alternativa. Da Apple a Tesla l’elenco delle multinazionali americane che costruiscono fabbriche in India si allunga. Nel corso degli ultimi otto anni la sua produzione elettronica è quasi quadruplicata. L’industria elettronica è proprio il settore su cui punta il premier Narendra Modi per la transizione «farm- to-factory» cioè dai campi alle fabbriche. Nei piani del governo di New Delhi il 60% dell’esodo di manodopera dall’agricoltura dovrebbe essere assorbito dall’elettronica. È un remake di quel che accadde in altri Paesi asiatici, dal Giappone alla Corea del Sud e da Taiwan alla stessa Repubblica Popolare cinese. Nel rimescolamento di ruoli che trasforma le frontiere della globalizzazione, l’Occidente viene coinvolto non solo per le strategie delle sue multinazionali. Prima la pandemia, poi la guerra inUcraina (e la complicità di Xi Jinping con Vladimir Putin) hanno iniettato nelle politiche economiche nuove considerazioni strategiche. Includono la transizione verso la sostenibilità. Non è accettabile una situazione in cui tutte le nostre batterie elettriche, pannelli solari e pale eoliche dipendono dal ben volere di un leader comunista a Pechino. La politica industriale di Biden ha accumulato ormai una potenza di fuoco che si avvicina ai mille miliardi, tanti sono gli aiuti pubblici infilati a vario titolo nelle pieghe di tutte le manovre legislative approvate dal Congresso negli ultimi due anni. L’Europa segue la strada tracciata dagliStati Uniti, un po’ in ordine sparso, ma già i sussidi messi in campo dalla Germania sono ragguardevoli. Reindustrializzare l’Occidente è una bella occasione di crescita se la sappiamo cogliere. L’Italia ha una robusta tradizione manifatturiera. Sta facendo il necessario per rafforzarla, cogliendo le nuove opportunità? Per facilitare il mestiere d’impresa l’elenco delle cose da fare è lungo e dovrebbe figurare al centro del discorso pubblico. Uno dei temi è adeguare la nostra forza lavoro. Il tipo di formazione che ricevono i ragazzi italiani si sta convertendo a questo nuovo modello di sviluppo, dove torneremo anche a progettare, fabbricare, installare cose che finora ci arrivavano su navi porta container da Shanghai? Si parla perfino — giustamente — di un ritorno dell’attività estrattiva, visto che minerali e terre rare per la transizione ecologica esistono anche nel nostro sottosuolo e il monopolio cinese è solo dovuto a scelte politiche. Vent’anni fa l’Italia arrivò impreparata allo shock che fu l’irruzione della Cina nell’economia globale. Oggi la sua parziale ritirata ci pone delle sfide nuove. A seguire il dibattito in corso sul reddito di cittadinanza — che avrebbe potuto svolgersi in termini identici in un’altra epoca — si ha l’impressione che siamo ancora una volta in ritardo.
Corriere della Sera
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Norway to fine Meta nearly $100,000 a day over data use
Norway's data protection agency said on Tuesday (8 August) it would start fining Facebook and Instagram owner Meta nearly $100,000 per day for defying a ban on using users' personal information to target ads.
De-risking e gallio, i rischi per la difesa e la sicurezza nazionale
Due metalli per semiconduttori, con un consumo globale complessivo stimato dall’industria di circa 800 tonnellate all’anno e con un crescente peso nelle tecnologie militari, digitali e green, sono entrati di prepotenza nella ‘guerra’ commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina, mentre l’industria già si prepara per affrontare le potenziali implicazioni dei nuovi controlli sulle esportazioni imposti da Pechino.
A circa una settimana dall’entrata in vigore delle misure imposte dal ministero del Commercio cinese citando interessi di sicurezza nazionale, come si leggeva nella nota pubblicata circa un mese fa, è ancora poco chiaro quali saranno le reali conseguenze sui mercati globali. O cosa sia necessario per ottenere la licenza o comportare un divieto, secondo quanto annunciato dal Ministero. Tuttavia, i produttori cinesi dovranno fornire informazioni dettagliate sui clienti, per verificare quale ne sia l’utilizzo finale, se civile o militare. La Cina potrebbe quindi essere principalmente interessata a controllare i Paesi a cui vengono fornite queste materie prime.
La tempistica dell’annuncio, appena prima della visita in Cina del Segretario al Tesoro statunitense Janet Yellen e un giorno dopo l’annuncio di nuove limitazioni alle esportazioni di apparecchiature avanzate per la produzione di chip, ha portato alcuni operatori di mercato a concludere che la mossa della Cina fosse più simbolica che guidata da motivi pratici. In realtà, la legislazione che introduce restrizioni per le esportazioni di materiali o tecnologie ritenute strategiche o ‘sensibili’ è in vigore da tempo, introdotta nell’ottobre 2020, ma la natura e l’entrata in vigore della misura hanno creato un’enorme incertezza. Più evidente è il controllo della Cina di questo materiale critico, che rischia di creare una vulnerabilità per le supply chain di un numero considerevole di applicazioni e tecnologie.
UN MATERIALE RIVOLUZIONARIO…
Il gallio, così come il germanio, hanno una lunga storia che inizia nell’industria dei semiconduttori. Il primo chip per computer al mondo è stato realizzato nel 1958 con il germanio, anche se è stato rapidamente soppiantato dal silicio, molto più economico e abbondante. Più recentemente, il gallio è stato il primo metallo ad essere adottato su larga scala, sotto forma di arseniuro di gallio (GaAs) e nitruro di gallio (GaN), in una nuova classe di materiali in rapida evoluzione chiamata compaund semiconductors. Ad oggi, il silicio rimane il principale materiale per fabbricare i microchip, con la produzione di wafer al silicio concentrata in Giappone. Ma la scienza dei materiali ha fatto passi da gigante. Oggi il gallio è cruciale per una serie di applicazioni high-tech, dai cavi in fibra ottica alle stazioni per le telecomunicazioni 5G, dalle rilevatori termini ai laser, dai LED ai pannelli solari per satelliti e al controllo dei sistemi di power management per batterie e motori dei veicoli elettrici (EV).
Questa nuova generazione di materiali offre intervalli energetici (band gap nel lessico dell’ingegneria elettronica) più ampi rispetto al silicio per reggere la potenza e le frequenze necessarie nelle applicazioni di amplificazione. Il GaN è anche più efficiente dal punto di vista energetico rispetto al silicio, potendo gestire più tensioni in un’area più piccola. Il gallio, un metallo morbido e bluastro, non compare diffusamente a livello geologico, in quanto viene recuperato come sottoprodotto dell’alluminio dalla lavorazione bauxite, ad un livello di concentrazione molto basso (circa 50 parti per milione). Vi sono alcuni giacimenti di zinco che contengono importanti concentrazioni di gallio, che potrebbero offrire una valida alternativa per diversificare l’attuale fornitura del metallo.
Un recente brief report del Center for Strategic and International Studies (CSIS), think tank di Washington, ricostruisce alcuni importanti dettagli nella storia scientifica e industriale intorno al gallio. Le straordinarie proprietà chimico-fisiche siano state scoperte negli Stati Uniti e con il tempo perfezionate nelle applicazioni end-use dal Defense Advanced Research Project Agency (DARPA) sin dalla fine degli anni 70’. Lo sviluppo dell’arsenuro di gallio è stato al centro della leadership americana nello sviluppo del sistema GPS, dei missili teleguidati e dei radar più avanzati. Anche il nitruro di gallio è stato lanciato, attraverso la ricerca applicata del DARPA, per lo sviluppo di radar ancora più sofisticati. Nel 2019, Raytheon si è assicurata un contratto dal Pentagono da oltre 380 milioni di dollari per lo sviluppo di chip al nitruro di gallio per i missili Patriot dello US Army. Nel 2022 è seguito un contratto da 3,2 miliardi di dollari per equipaggiare fino a 31 navi con radar AN/SPY-6 alimentati a GaN, tra cui i nuovi cacciatorpediniere Arleigh Burke classe Flight III, le portaerei e le navi anfibie della Marina.
Come anticipato, come per il 5G e gli EV, l’importanza del gallio è destinata a crescere. Quasi l’80% del gallio consumato nel mondo è sotto forma di wafer di GaN, GaAs e fosfuro di gallio (GaP), utilizzati principalmente nei semiconduttori e nelle apparecchiature di telecomunicazione. Mentre i continui progressi nella produzione di chip spingono i limiti della legge di Moore, gli esperti del settore considerano i composti di gallio una alternativa per spingere ancora oltre l’avanzamento dell’elettronica miniaturizzata. Questi trend di mercato e tecnologici dovrebbero portare a una crescita annua del 25% del mercato globale dei chip GaN fino al 2030 e si stima, come riporta il CSIS, che le applicazioni per la difesa rappresenteranno circa la metà di questo aumento. Negli USA attualmente vi sono importanti produttori come Wolfspeed e ONsemi, mentre in Europa la tedesca Infineon e l’olandese NXP già sviluppano e producono chip al nitruro di gallio. Seppur queste aziende guardino al mercato civile (automotive e telecomunicazioni), il crescente peso del nitruro di gallio per le tecnologie militari rende la supply chain particolarmente esposta, a sottolineare il valore strategico del gallio per la modernizzazione militare degli Stati Uniti e degli alleati vis-a-vis con Pechino.
CONTROLLATO DALLA CINA…
Secondo i dati dello US Geological Survey, che classifica il gallio come critico sin dal 2018, al 2022 la Cina produceva il 98% del gallio allo stato puro, principalmente come sottoprodotto dell’alluminio. La storia della presa di Pechino su questo materiale strategico segue, infatti, la progressiva delocalizzazione dell’industria siderurgia ed estrattiva che ha consegnato, in un pattern simile, nelle mani di Pechino anche l’estrazione e raffinazione delle terre rare fino alla produzione di magneti permanenti al neodimio (altro punto critico per la base industriale della difesa americana). Grazie a ingenti sussidi governativi e incentivi fiscali, la Cina ha decuplicato la produzione di alluminio (da 4,2 a 40,2 milioni di tonnellate) tra il 2000 e il 2022. Oggi le industrie cinesi, tra cui Chinalco (azienda a controllo statale) forniscono circa il 59% dell’alluminio mondiale.
Table 1 | Analisi del rischio di approvvigionamento delle materie prime. Fonte: CSIS su studio elaborato dallo US Geological Survey.
Avendo conquistato il settore dell’alluminio, la Cina ha così potuto gettare la base per assorbire la produzione globale di gallio. Come? Attraverso l’implementazione, da parte del governo centrale, di una rigorosa politica industriale. I risultati sono evidenti: dal 2005 al 2015 la produzione cinese di gallio è esplosa da 22 tonnellate metriche a 444 tonnellate metriche. La rapida ascesa della Cina nel settore ha creato un eccesso di offerta nel mercato globale, innescando gravi fluttuazioni nei prezzi del gallio per gran parte degli anni 10’ del XXI secolo. Di conseguenza, i principali fornitori nel Regno Unito, Germania, Ungheria e Kazakistan sono stati costretti a chiudere la produzione.
La dimensione relativa di questo mercato non deve ingannare: secondo una stima dello USGS, un’interruzione del 30% delle forniture di gallio potrebbe causare un calo di 602 miliardi di dollari nella produzione economica degli Stati Uniti, pari al 2,1% del prodotto interno lordo. Un leverage economico notevolissimo, senza contare le ricadute sulla sicurezza nazionale qualora si verificassero interruzioni delle forniture per l’industria della difesa. Tra il 2018 e il 2021, gli USA hanno importato gallio metallico per un valore medio di 5 milioni di dollari e wafer all’arsenuro di gallio per 220 milioni di dollari. Cifre che giustificano la convenienza economica delle importazioni, ma non il loro valore strategico: il 53% proveniva dalla Cina, seguita da Giappone (16%), Germania (13%), Ucraina (5%) e altri paesi (16%) secondo i dati della US Critical Mineral Association.
Ma come accaduto per altri minerali e metalli critici, nel giro di un decennio la dipendenza è passata a stadi a maggior valor aggiunto dal momento che il governo cinese ha deciso di investire nel settore, e in piccole-medie imprese innovative, per abilitare il suo sviluppo tecnologico. Per raggiungere questo obiettivo, Pechino sta sostenendo attivamente le aziende cinesi nel superare gli Stati Uniti e i loro alleati per diventare leader mondiale nella produzione di semiconduttori a base di gallio. Il 14° Piano quinquennale, il principale programma economico nazionale cinese pubblicato nel 2021, identifica i semiconduttori ad ampio bandgap – in particolare il GaN un altro composto, il carburo di silicio – come un’area chiave.
L’obiettivo: saltare, a piè pari, il vantaggio tecnologico occidentale basato sulla manifattura di chip basati sul silicio, facendo leva sulle nuove applicazioni (strategiche) del gallio. Un mercato relativamente recente, ma destinato come evidenziato pocanzi a maturare molto velocemente, come per gli EV. Chi riuscirà a costruire vantaggi competitivi, se ne aggiudicherà una buona fetta. L’industria dei veicoli elettrici ha bisogno di gallio metallico da aggiungere ai magneti di terre rare al neodimio ad alte prestazioni nei motori. La domanda è in crescita e, secondo le stime dell’industria, si aggira attualmente intorno alle 130 tonnellate annue. La Cina ne ricava la maggior parte per la sua industria dei magneti, mentre il Giappone ne consuma circa 30 t/a.
“Man mano che l’industria dei semiconduttori passa dal silicio al gallio, la Cina si sta preparando a ad assumere la posizione di leader”, le parole di Hao Xiaopeng dello State Key Laboratory of Crystal Materials.
E LE POSSIBILI CONTROMISURE…
Come riporta il CSIS, lo sforzo della Cina di controllare il mercato è stato multidimensionale, compresi spionaggio e acquisizioni strategiche. Proprio per la criticità del gallio, le autorità statunitensi sono intervenute più volte per tutelare aziende americane ed europee: nel 2010 una giuria federale del Massachusetts aveva condannato due cittadini cinesi per aver esportato illegalmente componenti elettronici vietati per l’esportazione e contenenti tecnologia GaAs a enti militari in Cina. Nel 2015 il Comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti (CFIUS) ha bloccato un’offerta di 2,9 miliardi di dollari da parte di investitori cinesi per la filiale di componenti LED di Philips. Il CFIUS ha citato, a motivazione del suo giudizio negativo, che la Cina ricercasse tecnologia GaN dell’azienda per scopi militari. Sempre il CFIUS ha interdetto un’offerta di 713 milioni di dollari da parte di un’azienda cinese per la filiale statunitense del produttore tedesco di chip GaN Axitron, citando le minacce alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Nel 2018 il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha incriminato due persone per aver sottratto tecnologie riservate a Wolfspeed (e uno dei principali fornitori dell’esercito americano) e destinate a due dei principali centri di sviluppo radar dell’Esercito di Liberazione della Cina (PLA).
Il governo statunitense ha imposto tariffe sulle importazioni di gallio cinese e di molti altri metalli e composti all’inizio della guerra commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina nel 2018. Anche i prodotti chimici e gli ossidi di germanio erano soggetti alle tariffe, inizialmente imposte al 10% e successivamente sono salite al 25%. Sebbene l’obiettivo fosse quello di “creare condizioni di parità”, gli industriali si sono lamentati del fatto che le tariffe hanno aumentato gli oneri per i produttori statunitensi, ma non hanno incrementato l’offerta di metalli e materiali critici.
Come per altri materiali critici, come lito e grafite su cui gli USA, tramite gli incentivi federali dell’Inflation Reduction Act (IRA) cercano di aumentare la produzione domestica, non esistono soluzioni rapide e indolori per diversificare l’offerta e attuare una strategia di de-risking dalla Cina. Il gallio, così come il germanio, viene attivamente riciclato negli Stati Uniti e in Europa. Tra i fornitori figurano l’azienda canadese Neo Performance Materials, la statunitense Indium e la belga Umicore. Pochi giorni dopo l’annuncio delle autorità cinesi sui futuri export controls, i vertici della Commissione europea hanno contattato Mytilineos Energy & Metals, un produttore greco di alluminio, per valutare la possibilità di produrre gallio come sottoprodotto della sua raffineria che trasforma la bauxite in alluminio. L’Europa importa circa il 70% del suo fabbisogno interno dalla Cina.
Tra le soluzioni elecante dal CSIS, vi sono il ricorso al Defense Production Act (DPA) già invocato dall’amministrazione Trump e i seguito da quella Biden per incentivare la produzione di materiali strategici, la collaborazione con i partner oltreoceano come l’Australia, che possiede significative riserve di bauxite, incentivare il riciclo, lo stoccaggio e una maggiore trasparenza nei flussi e nei dati di mercato, lungo tutta la catena del valore. Sforzi necessari, ma che rimarranno complessi per la natura ristretta del mercato, vista da molti operatori come una barriera all’ingresso di fronte allo strapotere cinese.
La Thailandia in attesa: i conservatori puntano a governare
La corte costituzionale ritarda la decisione sulla rinomina di Pita e causa lo slittamento di tutto il processo politico per il voto del primo ministro. Intanto il Pheu Thai ha abbandonato il Move Forward
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Francesca Albanese: «Dentro e fuori dalla cella, la Palestina è un carcere»
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di Michele Giorgio
(questa intervista è stata pubblicata il 3 agosto dal quotidiano Il Manifesto)
«L’occupazione militare israeliana ha trasformato l’intero territorio palestinese occupato in una prigione a cielo aperto, dove i palestinesi sono costantemente rinchiusi e sorvegliati». È questa la denuncia contenuta nell’ultimo rapporto presentato alle Nazioni unite da Francesca Albanese, giurista e Relatrice speciale per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati. Dal 1967, riferisce Albanese, oltre 800.000 palestinesi, compresi bambini, sono stati arrestati e detenuti in base a regole autoritarie applicate dall’esercito israeliano. Alla Relatrice abbiamo rivolto qualche domanda.
Francesca Albanese, la detenzione arbitraria è uno degli aspetti centrali della sua inchiesta
Ho preso in esame in particolare i presupposti normativi per cui la detenzione arbitraria è condotta dalle forze di occupazione israeliane. I palestinesi sono soggetti a lunghe detenzioni anche per aver espresso opinioni, pronunciato discorsi politici non autorizzati. Spesso sono ritenuti colpevoli senza prove, arrestati senza mandato, detenuti senza accusa né processo e brutalizzati durante la custodia. Il focus è sui palestinesi, perché sono i palestinesi ad essere incarcerati nel territorio occupato tanto da Israele quanto dalle autorità palestinesi in Cisgiordania e Gaza. Senza condonare o giustificare in alcun modo gli atti di violenza che commettono i palestinesi, ho riscontrato, come altri prima di me, che la maggior parte dei casi di detenzione non avviene in conseguenza di crimini o reati. Avviene per aver commesso azioni che dal punto di vista del diritto internazionale sono semplici atti di vita ordinaria. Per capirci, parliamo dell’attraversare una zona nel territorio occupato che Israele dichiara per qualche motivo chiusa. Organizzare una riunione di 10 o più persone in cui si parla di temi politici senza l’autorizzazione del governo (militare) comporta l’arresto fino a 10 anni. Il 95% dei palestinesi viene arrestato in prossimità delle colonie israeliane che ormai sono 270 nel territorio occupato, con 750.000 coloni.
Tutto ciò, lei afferma, avviene in un contesto che definisce di «carceralità diffusa».
Sì, descrivo l’ingabbiamento della popolazione. Si pensi al Muro (alzato da Israele in Cisgiordania, ndr), alle colonie che sono costruite per circondare, per strozzare la crescita urbana delle città e dei villaggi palestinesi. Si pensa ai 400 km di strade segregate che non sono accessibili e utilizzabili dai palestinesi e a come spezzino la continuità del territorio palestinese. Poi ci sono i permessi che i palestinesi devono ottenere per costruire una casa, prendere la residenza, andare in una determinata scuola, per viaggiare all’estero, per ricevere visite familiari. Persino le relazioni amorose sono regolate da ordini militari.
Quanto queste detenzioni sono la conseguenza anche della sorveglianza digitale.
Per questo argomento mi sono state utili le testimonianze dei militari dell’associazione (israeliana) Breaking the silence, che ben spiegano come la tecnologia digitale che si è sviluppata negli ultimi 10 -15 anni abbia cambiato il modo di controllare e monitorare i palestinesi. Dal seguire le loro conversazioni su Facebook al monitoraggio dei flussi telefonici. Fino alla triangolazione di tutte le informazioni sulla loro vita, anche i controlli medici. I palestinesi sono facilmente ricattabili perché tutte le loro informazioni private sono nelle mani degli israeliani. Dal 2013 in poi sono aumentati gli arresti preventivi in seguito all’utilizzo dei social media.
I palestinesi denunciano il sistema della doppia giustizia in Cisgiordania: loro sono giudicati dalle corti militari, i coloni dalle corti civili.
Questo dualismo legale che è stato criticato in passato anche dall’ex giudice della Corte suprema israeliana Barack. E ha permesso il cristallizzarsi dell’apartheid. La vita dei palestinesi è regolata da legge marziale. Anche i minori palestinesi vengono portati dinanzi a giudici militari. Ben diverso è il caso dei coloni che pure si macchiano di gravi reati contro i civili palestinesi e le loro proprietà. Raramente sono portati in giudizio. Più che di doppia giustizia dobbiamo parlare di impunità per i coloni israeliani. Pagine Esteri
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Taxi, una riforma a metà
Mentre turisti e cittadini girano in cerca di un taxi per le città bollenti come l’anima vagula e blandula cantata dall’imperatore Adriano, a rischio di diventare pallidula, rigida, nudula, nella defatigante attesa di trovarne uno, oggi il governo dovrebbe emanare un decreto per risolvere in modo categorico e definitivo per tutti il problema dei taxi. Da quel che si apprende, si procederà su due piani: la possibilità per alcuni Comuni di aumentare fino a un massimo del 20% le licenze taxi e come ciliegina l’accordo, patrocinato dal ministero delle Infrastrutture, tra associazioni di discoteche e cooperative taxi per offrire un passaggio gratuito a casa quando la notte si supera il tasso etilico consentito dalla legge per guidare l’automobile. Partiamo dal punto importante vale a dire la riforma dei taxi. L’aumento delle licenze avverrebbe attraverso concorsi
straordinari indetti solo da alcuni grandi Comuni per gli attuali licenziatari, i loro sostituti alla guida e chi è in possesso dei requisiti necessari e si affaccerebbe per la prima volta al mestiere, con preferenza di assegnazione alle prime due categorie; i proventi del “contributo” per le nuove licenze verrebbe poi versato ai tassisti odierni per ristorarli della maggior concorrenza. I Comuni potrebbero poi aggiungere licenze temporanee in caso di grandi eventi, come il Giubileo a Roma o le Olimpiadi a Milano, ma riservate solo a chi ha già la licenza (che evidentemente poi subaffitterà quella temporanea). Infine, ci sarebbe il via libera alla doppia guida, in modo tale che grazie a una sola licenza possano guidare due conducenti in orari diversi, meccanismo già in vigore in alcune città ma che non ha avuto grande successo (forse per alcune limitazioni a esso attaccate). Infine, il governo prevede ulteriori incentivi fiscali per l’acquisto di veicoli non inquinanti: un sussidio non si nega mai. Che dire? Piuttosto di niente meglio piuttosto. Quindi, la doppia guida senza troppi lacciuoli qualche autovettura in più per le strade dovrebbe portarla. Ma limitare il numero di licenze a concorso al 20% in più rispetto ad ora e solo per alcune città non ha molto senso, vista la domanda che si è creata rispetto al servizio disponibile. Inoltre, se i Comuni potranno ma non dovranno bandire nuove licenze – permanenti o temporanee -, rischiano di rimanere in ostaggio della categoria e delle sue proteste, esattamente come ora. Né nulla si preannuncia sulla liberalizzazione dei servizi per gli Ncc (auto a noleggio), flessibilità delle tariffe, piattaforme informatiche. Eppure, la scarsezza di autovetture danneggia i consumatori – incluse le persone più fragili – e l’economia che, a causa della mancanza di offerta, perde Pil potenziale. L’Autorità antitrust (Agcm), che ha aperto l’ennesima indagine per accertare eventuali pratiche restrittive, già da anni ha individuato varie soluzioni per aprire il mercato. Infatti, nel parere del 2017, pur affermando che “non esiste alcun diritto acquisito a una eventuale compensazione nei confronti degli attuali possessori di licenza” (giusto!), l’Agcm si dichiarò “consapevole che la possibilità di successo delle riforme in senso pro-concorrenziale sono strettamente legate all’adozione di misure idonee a limitare quanto più possibile l’impatto sociale dell’apertura del mercato”. Tre furono le proposte: 1) l’assegnazione a ogni tassista di una licenza supplementare con obbligo di rivendita sul mercato; 2) la vendita dello stesso numero di licenze da parte dei comuni con assegnazione del ricavato agli attuali licenziatari; 3) prevedere due tipologie di operatori, quelli gravati da obblighi di servizio pubblico (i tassisti) e quelli liberi (tipoUber), con i secondi che compensano i primi per il privilegio. Un gruppo di deputati (primi firmatari Marattin e Pastorella) ha presentato un ddl ispirato alla prima soluzione (quindi senza oneri per i contribuenti) più altre liberalizzazioni tariffarie, per le piattaforme e per gli Ncc. È la soluzione più semplice e immediata ancorché non perfetta. Tuttavia, quello che bisogna evitare è un’ulteriore falsa riforma che ci lasci più o meno al punto di partenza. Oppure qualche bizzarro esperimento che inciti tutti a uscire un po’ brilli dalla discoteca per scroccare un passaggio in taxi a carico del contribuente (escluso – giustamente – che conducenti o gestori della discoteca ci perdano soldi). Un decreto Mojito in piena regola per confermare che il nostro Paese è il più buffo del mondo.
La Stampa
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Collaborazione aerea più stretta tra Roma e Tokyo. Al via l’esercitazione nell’Indo Pacifico
Italia e Giappone insieme nei cieli dell’Indo-Pacifico. I velivoli dell’Aeronautica militare italiana sono infatti atterrati in Giappone, pronti a cimentarsi nell’esercitazione congiunta con la Japan air self-defense force (Jasdf), che prenderà il via in questi giorni nell’ambito della cooperazione Italia-Giappone. Ad accoglierli all’arrivo alla base aerea giapponese di Komatsu, in segno di amicizia, vi era un velivolo F-15 con la livrea celebrativa del centenario dell’Arma azzurra. L’esercitazione permetterà alle due Forze aeree di addestrarsi insieme su diverse attività in scenari operativi, accrescendo così le reciproche competenze in termini di interoperabilità e di capacità operativa e testando la capacità di expeditionary del nostro Paese nell’operare anche in contesti lontani dai confini nazionali. L’Italia ha infatti portato nel Paese del Sol levante velivoli dalle caratteristiche di impiego molto diverse tra loro, tra cui: tre caccia F-35 provenienti dal 32° Stormo di Amendola e uno dal 6° Stormo di Ghedi, tre KC-767° di cui due in versione tanker, il nuovo Conformal airborne early warning (Caew) G-550 e i velivoli da trasporto tattico C-130J in assetto Sar. La collaborazione stretta tra Roma e Tokyo comprende inoltre la formazione dei piloti presso l’International flight training school (Ifts) a Decimomannu e la partecipazione al progetto Global combat air programme (Gcap) per il caccia di nuova generazione.
Lo schieramento
Gli aerei militari italiani sono partiti il 30 luglio dalle basi di Pratica di Mare, Amendola e Pisa, per poi fare scalo a Doha (Qatar), Malé (Maldive) e Singapore, dove hanno dovuto attendere due giorni che il tifone Khanun perdesse forza e rendesse nuovamente agibili i cieli del Mar Cinese Orientale, permettendo così l’atterraggio finale alla base di Komatsu, nella prefettura di Ishikawa. Lo rischieramento di velivoli così diversi a oltre 10mila chilometri dai confini nazionali, è stata un banco di prova per l’Aeronautica di competenze avanzate di comando e controllo, oltre che una dimostrazione concreta della varietà di assetti che compongono la spina dorsale del potere aerospaziale nazionale. “Oggi è un giorno importante e simbolico per l’aviazione italiana e giapponese” ha commentato l’arrivo dei velivoli il Mission commander del rischieramento in Giappone, Luca Crovatti, riferendosi al raid Roma-Tokyo del 1920. “All’epoca, due coraggiosi piloti italiani arrivarono in Giappone dopo tre mesi di viaggio a bordo di semplici biplani. Quest’anno, nel centenario dell’Aeronautica militare, abbiamo replicato questo viaggio con assetti tra i più avanzati al mondo”. Il colonnello Crovatti ha poi spiegato come si svolgeranno le esercitazioni: “Nei prossimi giorni, i nostri piloti, operatori di volo e tecnici si addestreranno insieme ai colleghi giapponesi della Kōkū Jieitai, per condividere tecniche, obiettivi addestrativi e procedure operative”.
Collaborazione italo-giapponese
A fine giugno, tra l’altro, si sono incontrati a Palazzo Aeronautica a Roma i ministri della Difesa dei Paesi Gcap. Presenti per l’Italia Guido Crosetto, ministro della Difesa, per il Regno Unito Ben Wallace, segretario alla Difesa, e per il Giappone Atsuo Suzuki, viceministro della Difesa. L’incontro si è svolto in un clima positivo, e ha permesso di compiere passi in avanti verso la costituzione del consorzio alla base del Gcap. Il vertice è seguito a quello avvenuto a marzo in Giappone, quando Crosetto e Wallace incontrarono il ministro Yasukazu Hamada per discutere i prossimi passi verso lo sviluppo congiunto del Gcap, a margine del Dsei Japan, la principale manifestazione dedicata al settore della Difesa integrato giapponese. Una nuova riunione a tre potrebbe tenersi entro l’autunno. E, se la rotazione venisse rispettata, si dovrebbe tenere su suolo britannico, con la presenza del viceministro Suzuki.
Il Gcap
Il progetto del Global combat air programme prevede lo sviluppo di un sistema di combattimento aereo integrato, nel quale la piattaforma principale, l’aereo più propriamente inteso, provvisto di pilota umano, è al centro di una rete di velivoli a pilotaggio remoto con ruoli e compiti diversi, dalla ricognizione, al sostegno al combattimento, controllati dal nodo centrale e inseriti in un ecosistema capace di moltiplicare l’efficacia del sistema stesso. L’intero pacchetto capacitivo è poi inserito all’intero nella dimensione all-domain, in grado cioè di comunicare efficacemente e in tempo reale con gli altri dispositivi militari di terra, mare, aria, spazio e cyber. Questa integrazione consentirà al Tempest di essere fin dalla sua concezione progettato per coordinarsi con tutti gli altri assetti militari schierabili, consentendo ai decisori di possedere un’immagine completa e costantemente aggiornata dell’area di operazioni, con un effetto moltiplicatore delle capacità di analisi dello scenario e sulle opzioni decisionali in risposta al mutare degli eventi.
Il programma congiunto
L’avvio del programma risale a dicembre del 2022, quando i governi di Roma, Londra e Tokyo hanno concordato di sviluppare insieme una piattaforma di combattimento aerea di nuova generazione entro il 2035. Nella nota comune, i capi del governo dei tre Paesi sottolinearono in particolare il rispettivo impegno a sostenere l’ordine internazionale libero e aperto basato sulle regole, a difesa della democrazia, per cui è necessario istituire “forti partenariati di difesa e di sicurezza, sostenuti e rafforzati da una capacità di deterrenza credibile”. Grazie al progetto, Roma, Londra e Tokyo puntano ad accelerare le proprie capacità militari avanzate e il vantaggio tecnologico. Ad aprile, tra l’altro, l’Italia ha lanciato la Gcap acceleration initiative per accelerare lo sviluppo di tecnologie relative al Global combat air programme. Destinata a aziende e centri di ricerca, lo scopo dell’iniziativa è raccogliere le migliori proposte volte per la piattaforma Gcap per lavorare insieme a soluzioni innovative che possano essere applicate nel processo di maturazione tecnologica.
Le altre esercitazioni del Giappone
L’esercitazione italiana segue quella in corso sempre in Giappone tra Parigi e Tokyo, la prima tra jet di combattimento tra i due Paesi. La Forza di autodifesa aerea giapponese partecipa con tre caccia F-15 e due F-2, un aereo da trasporto KC-767 e un aereo da trasporto C-2, mentre la Forza aerea e spaziale francese schiera due caccia Dassault Rafale, un aereo da trasporto Airbus A330 Multi-Role Tanker e un aereo da trasporto Airbus A400M, oltre a un contingente di circa 120 militari. L’iniziativa dimostra soprattutto il forte impegno della Francia ad espandere la propria presenza nell’Indo-Pacifico. L’ambito aereo dell’esercitazione franco-giapponese è anche significativo, dal momento che Tokyo fa parte del programma per il caccia di sesta generazione con Italia e Uk Gcap, parallelo (e concorrente) a quello franco-tedesco Fcas. Il ministero della Difesa giapponese ha spiegato che la manovra ha l’obiettivo di “approfondire la cooperazione bilaterale nel campo della difesa a beneficio di un Indo-Pacifico libero e aperto”.
[Foto: Aeronautica militare]
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Letture asiatiche – 5 libri da leggere sotto l’ombrellone
I consigli di China Files con i libri migliori a tema Asia da leggere questa estate 2023 sotto l’ombrellone La letteratura non va in vacanza e così anche la rubrica Letture Asiatiche. Tra i moltissimi libri che ci sono piaciuti nel 2023, qui una selezione di quelli che da divorare in una giornata di relax. Qui vi avevamo parlato di ...
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NIGER. È ricca di minerali la “Cintura del golpe” cara all’Occidente
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della redazione
Pagine Esteri, 6 agosto 2023 – La chiamano la “cintura del golpe”. Comprende gran parte del Sahel, taglia nettamente il continente dividendo i nordafricani dagli africani sub-sahariani. Contiene una abbondanza di depositi minerari, di uranio e petrolio e ha la più alta concentrazione di basi occidentali del continente con in testa Gibuti che ospita militari di molte nazioni, Italia inclusa. Questa vasta regione ha un alto valore strategico in termini di risorse e per la sua posizione è in grado di influenzare sia l’Africa settentrionale che quella sub-sahariana. Da qui il grande interesse dell’Europa a mantenere al potere quei governi e regimi che maggiormente si sono dimostrati pronti a favorire bisogni ed esigenze dell’Occidente. Il Niger teatro alla fine del mese scorso di un golpe, è uno di questi.
Ma questa larga fascia che va da Ovest ed Est dell’Africa è nota anche per la sua forte instabilità. Negli ultimi 5 anni ci sono stati quasi 10 tentativi di colpo di stato. Alcuni hanno avuto successo, altri no. I motivi sono molti e in gran parte legati proprio alle ricchezze minerarie alle quali si faceva riferimento. Pesano anche le lotte tra tribù. I paesi della regione del Sahel sono eterogenei nelle loro popolazioni. Molte tribù competono e negoziano tra loro per il potere e il controllo del paese. E quando i negoziati falliscono, ha luogo il colpo di stato. Spesso gli organizzatori dei golpe usano slogan antifrancesi e anticoloniali per coinvolgere le popolazioni, molto povere, che certo non amano Parigi sempre pronta a sfruttare la regione per i suoi interessi politici ed economici. Un’avversione sulla quale giocano vari Stati per conquistare terreno nella regione, senza dimenticare il ruolo della Compagnia mercenaria Wagner che avrà pure fallito la sua sollevazione contro il Cremlino ma non ha perduto l’enorme influenza che ha in Africa.
Intanto ieri è scaduto l’ultimatum della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao), che aveva dato ai golpisti in Niger sette giorni per mettere fine al colpo di stato del 26 luglio che ha deposto il presidente Mohamed Bazoum. Tuttavia, è improbabile che alle minacce seguano azioni concrete. Il presidente nigeriano Bola Tinubu, che guida anche la Cedeao, ha tagliato le forniture di elettricità al Niger e preme per un intervento militare allo scopo di affermare la sua leadership regionale. Ma non ha ottenuto il via libera del Senato nigeriano all’invio di truppe. Piuttosto i senatori lo hanno esortato a intensificare i negoziati con i golpisti in Niger inviando nuovamente una delegazione a Niamey. Chiedono inoltre che il governo federale intensifichi gli sforzi militari contro l’organizzazione jihadista Boko Haram, vera spina nel fianco della Nigeria.
Altri Paesi africani escludono un intervento militare. “Il Ciad non agirà mai militarmente. Abbiamo sempre sostenuto il dialogo. Il Ciad è un facilitatore”, ha dichiarato Daoud Yaya Brahim, ministro della Difesa. Persino più intrasigenti contro l’uso della forza sono Mali, Burkina Faso e Guinea Conakry, di fatto sostenitori dei golpisti in Niger. L’Algeria spinge per dare più peso alla diplomazia poiché, spiega, “il ricorso alla forza che non farebbe altro che aggravare la situazione del Niger e dell’intera regione”.
La Francia, al contrario, fa pressioni sulla Cedeao per un intervento più deciso, anche militare. La ministra degli Esteri, Catherine Colonna, ha ricevuto il premier del Niger, Ouhoumoudou Mahamadou, al quale ha ribadito il pieno sostegno di Parigi al presidente Bazoum e al suo governo.
Intanto da Niamey è partito per Pratica di Mare il volo KC 767 con 65 militari del contingente italiano in Niger e 10 militari statunitensi. Nella capitale dello Stato africano rimangono 254 militari italiani. Pagine Esteri
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I servizi di questa mattina sul server Poliverso sono stati risolti. Ci scusiamo per il disagio
Buongiorno e buona domenica a tutti gli utenti di poliverso.org che stamattina, a causa di un errore nel processo automatico di rinnovo del dominio e all'incapacità del provider nel segnalare tempestivamente la problematica, e risultato irraggiungibile per alcune ore.
Il server è comunque rimasto in esecuzione e pertanto tutte le attività automatiche già impostate (importazione delle timeline, importazione o ripubblicazione di feed, ripubblicazione su bluesky, etc) hanno continuato a funzionare, ma il server non era comunque raggiungibile da parte dell'utente finale.
Purtroppo le tempistiche per la risoluzione dell'inconveniente ci erano sconosciute, in quanto non erano sotto il nostro controllo, ma dipendevano semplicemente dai tempi di aggiornamento dei DNS. Fortunatamente il disservizio è durato poche ore.
Ci scusiamo ancora per il problema.
Gli amministratori
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La situazione sul campo ucraino, tra controffensiva e tensioni al Cremlino. Il punto di Jean
Molti speravano che la tanto annunciata controffensiva ucraina ripetesse i successi che aveva avuto quella dello scorso settembre nell’area di Kharkiv, con penetrazioni profonde nelle difese russe. Anche prima dell’ammutinamento della Wagner, gli ucraini e i loro sostenitori erano consapevoli della crisi esistente nel vertice politico-militare russo. Lo stesso Putin sembrava incerto e demotivato. Non riusciva a far smettere gli insulti e le pesanti accuse di inefficienza e tradimento rivolte da Prigozhin al Ministro della difesa Shoigu e al Capo di Stato Maggiore Generale (SMG) Gerasimov.
Esse non si erano ancora estese alla critica distruttiva della “narrativa” usata da Putin per giustificare l’aggressione all’Ucraina e che tanto eco trovano in quelli che l’Economist denomina “gli utili idioti putiniani”, numerosi anche in Italia (genocidio dei russofoni da parte di Kiev, minaccia della Nato, inesistenza dell’Ucraina come nazione e sua “scippo” da parte di di nazisti e, secondo Kirill, anche di gay, e così via).
Tutto ciò faceva pensare che una sconfitta anche solo tattica facesse esplodere la crisi e inducesse il Cremlino a trattare. Una completa sconfitta era giudicata impossibile, eccetto nella propaganda di Kiev. Zelensky la propagandava anche perché la riteneva essenziale anche per mantenere unita la coalizione occidentale che lo sostiene. Elemento essenziale era la speranza di una rivolta dei militari russi, unica forza in grado di spodestare Putin dal Cremlino.
Manca in Russia un organismo, come era il Politburo nell’Urss, in grado di sfiduciare un presidente, come accadde a Kruscev due anni dopo la crisi dei missili di Cuba. Finchè Putin rimarrà al potere, qualsiasi accordo è impossibile. Non sono in gioco solo l’obiettivo di trasformare la Russia in una grande potenza globale, ma anche la sua sopravvivenza politica e forse anche fisica. Stranamente, non è stata mai dedicata molta attenzione ai rapporti civili-militari in Russia.
Tensioni fra il Cremlino e la “casta” degli ufficiali sono iniziate una ventina di anni fa e erano esplose quando nel 2001, per la prima volta nella storia russa, la carica ministro della difesa divenuto Sergei Ivanov, non proveniente dal mondo militare, ma ex-capo dell’Fsb e facente parte del “cerchio magico” che aveva seguito Putin da San Pietroburgo a Mosca. La frase pronunciata da Putin in tale occasione (“con la nomina di Ivanov, è iniziata la smilitarizzazione della società russa”) è indicativa delle tensioni esistenti fra le FF.AA. e i Servizi d’intelligence). Si trattava dell’atto conclusivo di un processo iniziatosi con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Europa centrorientale e baltica. Finì allora l’autonomia, di tipo prussiano, della casta degli ufficiali. Nell’Urss, come nell’impero zarista, era “pagata” con l’astensione dalla politica dei militari e con cospicui loro privilegi economici e statutari. Ora vedevano minacciato il loro status.
La drastica ristrutturazione delle FF.AA. fu imposta dal 2007 dal secondo ministro civile della difesa – Anatoly Serdyukov – appartenente anch’esso al “cerchio magico” sanpietroburghese. Al Ministero si verificarono vere e baruffe, con dimissioni del Capo di SMG. La situazione era divenuta tanto insostenibile che Serdyukov dovette essere sostituito da Sergei Shoigu nel 2012, con il mandato di attenuare gli attriti fra Putin e i militari. La frattura però rimase. Si estese al corpo degli ufficiali, rompendone la tradizionale unità. Si crearono lotte per il potere e pesanti faide fra le varie “cordate”.
Ad esempio il gen. Surovikin, scomparso dopo l’ammutinamento della Wagner e ideatore della linea fortificata che ha arrestato la controffensiva ucraina, e il popolare gen. Popov, comandante della 58^ Armata, destituito brutalmente, appartenevano al gruppo dei riformisti di Serdyukov. Sono stati loro a far fallire la controffensiva ucraina e a indurre Kiev a mutarne strategia, dopo i primi baldanzosi e sanguinosi assalti di giugno con mezzi corazzati alle linee fortificate russe. Gli ucraini subirono allora enormi perdite, persero molti soldati e un quinto dei carri e mezzi corazzati ricevuti dall’Occidente, rioccupando solo una minima parte dei territori perduti.
Come Putin anche Zelensky è prigioniero dei propri slogan, non tanto per il morale delle proprie truppe e popolazione, che dimostrano un’incredibile tenuta, quanto per mantenere unita la coalizione che lo sostiene, resa vulnerabile dalla contestazione dei governi che sostengono l’Ucraina. Soprattutto in Europa, molti continuano a credere alla possibilità di compromesso con Putin, che non consista in una resa all’Ucraina e che una vittoria russa possa placare – e non invece stimolare, come credo – gli “appetiti imperiali” di Mosca.
Come quelli di Putin, gli obiettivi di Zelensky non sono mutati: raggiungere il Mar d’Azov e rompere il “ponte terrestre” fra la Russia e la Crimea, da tenere sotto la minaccia delle artiglierie ucraine, rendendone a Mosca troppo onerosa l’annessione. L’odio suscitato dalla brutalità e dai bombardamenti russi sulla popolazione e le infrastrutture ucraine rendono improbabile una riduzione degli obiettivi politici di Zelensky: la rioccupazione di tutto il territorio ucraino del 1991 e la subordinazione di qualsiasi accordo con Mosca a serie garanzie di sicurezza. Lo si voglia o no, ciò implica un coinvolgimento della Nato, che un nuovo governo russo potrebbe accettare solo in cambio di garanzie di sicurezza per la Russia, in pratica con l’impegno della Cina. È su questi che occorrerebbe puntare, offrendo a un nuovo governo russo condizioni accettabili. La richiesta alleata di resa incondizionata rese impossibile una tempestiva rivolta dei generali tedeschi contro Hitler.
Il punto centrale del dibattito sugli aiuti da dare all’Ucraina consiste nell’alternativa fra il fornirle un consistente numero di carri Abrams e F-16, oppure nel darle nuovi mezzi di fuoco terrestre in profondità, nella cui utilizzazione strategica gli ucraini si sono dimostrati molto capaci, come lo sono nell’impiego di drones terrestri e navali, con consistenti effetti più psicologici che militari sui russi. Questi ultimi sono meno resilienti alla minaccia. Non lottano per la sopravvivenza della loro patria come gli ucraini.
La consegna da parte Usa di nuovi e più potenti mezzi di fuoco potrebbe invece aumentare di molto le capacità d’attrito degli ucraini e, in particolare, provocare il collasso logistico delle forze russe. La superiorità ucraina nel fuoco in profondità è diminuita rispetto al passato, perché i missili terrestri disponibili – in particolare quelli dei lanciarazzi multipli Himars (gittata 84 km) – sono a guida Gps, intercettabili e resi imprecisi dalle rinnovate capacità russe di guerra elettronica. I nuovi mezzi che dovrebbero essere dati massicciamente a Kiev sono i Glsdb (Ground Based Small Diameter Bombs), con capacità di lanciare a 150 km una bomba da 113 kg; e l’Atacms (Army Tactical Missile System), con bomba di 227 kg e gittata di 300 Km. Entrambi sono a guida inerziale, non intercettabili dai russi.
Già ora le forze russe denunciano una carenza di munizioni, anche perché i loro depositi, come quelli di carburante, sono gli obiettivi privilegiati delle azioni di fuoco ucraine. L’arrivo dei nuovi mezzi, potrebbe mettere in grave crisi le forze russe, determinando l’“evento” per una rivolta militare armi sta aumentando la centralità della “guerra dei droni”. A parer mio, carri e cacciabombardieri non possono far molto per superare i 30 km di profondità che hanno le linee fortificate russe. Kiev deve accettare il fatto che il blitzkrieg della controffensiva non è possibile, anche perché le perdite dei suoi cittadini-soldati, necessari per la ricostruzione, sarebbero troppo rilevanti.
A parte tutto, gli Abrams hanno un motore a turbina, per la cui manutenzione è necessario personale altamente specializzato. Gli F-16, a parte le efficienti difese controaeree russe, sarebbero vulnerabili alla contro-aviazione russa e non disponibili prima della fine del 2023. A nulla servirebbe una nuova mobilitazione. L’aumento dell’età di leva da 27 a 30 anni non è stato fatto per aumentare gli effettivi militari, ma per evitare che i figli della borghesia, con la scusa di studi e di attività lavorative indispensabili, sfuggano al servizio militare. La Russia non potrebbe addestrare, armare e rifornire i 5 milioni di soldati di cui taluni hanno favoleggiato.
Etiopia, 6 milioni di euro italiani per l’ospedale di Adwa mentre gli sfollati in Tigray muoiono di fame
L’ospedale di Adwa, nello stato regionale del Tigray, da una semplice tenda oggi è uno dei più grandi ospedali della regione settentrionale dell’Etiopia.
“L’ospedale Kidane Mehret di Adwa prgettato per offrire 200 posti letto, è stato costruito di fianco alla missione salesiana. Le attività sanitarie sono state avviate nella prima ala da marzo 2019, con 27 posti letto iniziali.A causa di una grave crisi politica e militare tra il governo centrale ed il partito al potere nel Tigray, la regione di Adwa è stata al centro di un conflitto armato tra novembre 2020 e novembre 2022.
Il Kidane Mehret è rimasto l’unico nel raggio di centinaia di chilometri in grado di poter offrire assistenza sanitaria ai feriti ed ai malati.” Amici di Adwa ONLUS
Deve ancora espandersi e rafforzare la sua sua capacità e i suoi servizi grazie alla sovvenzione di 6 milioni di euro da parte del governo italiano.
L’accordo è stato firmato presso l’ambasciata italiana ad Addis Abeba tra Agostino Palese, ambasciatore italiano e Worknesh Mekonnen, la direttrice dell’ UNOPS – Ufficio delle Nazioni Unite per i servizi ed i progetti in Etiopia.
L’UNOPS per nome della direttrice in Etiopia e rappresentante presso l’African Union, supervisionerà la consegna del progetto che dovrebbe durare fino a 36 mesi.
La direttrice dell’ UNOPS ha dichiarato:
“L’Etiopia ha affrontato molteplici sfide umanitarie che si sovrappongono, mettendo a rischio la vita e il sostentamento di milioni di persone e guidando continuamente verso l’alto i bisogni urgenti di sostegno umanitario.A tal fine questo impegno del governoitaliano verso il popolo del’Etiopia è immenso. Questo è il terzo progetto che stiamo firmando col governo italiano nel 2023 e vorrei ringraziare il governo italiano per l’impegno continuo per la causa orientato a migliorare la vita delle persone che serviamo. Sono anche grata che abbia scelto UNOPS per realizzare questo particolare progetto. Nella massima misura possibile UNOPS garantirà che il progetto sia costruito sull’etica della resilienza climatica e dei principi di inclusività.”
L’Ambasciatore italiano dal suo canto ha espresso la speranza che l’Osp. Kidane possa essere esempio per gli hospice di tutta la regione e il piano del governo italiano di intervento anche nelle regioni di Amhara e Afar.
Ha aggiunto:
“L’iniziativa mostra il forte impegno del governo italiano a sostenere, rafforzare e migliorare il settore sanitario in Etiopia. Con questo progetto, l’Italia, sostituendo sostanzialmente il contributo della riabilitazione infrastrutturale del settore sanitario in Tigray, pone l’Italia in prima linea nell’azione per ricostruire, sostenere e rafforzare il servizio sanitario nella parte del Paese interessati da quasi 2 anni di guerra. E’ attraverso il potenziamento dell’ospedale Kidane Mehret che vogliamo contribuire alla realizzazione di un ospedale di riferimento per l’intera area per garantire l’accesso alla salute per tutti.”
Venerdì 4 agosto 2023 la Dottoressa Nonhlanhla Dlamini, WHO Ethiopia, ha fatto visita all’ Ayder Hospital di Mekelle.
“Ieri, la dott.ssa Dlamini con il suo team ha visitato l’ospedale specialistico #Ayder di #Mekelle #Tigray . Si sono svolte fruttuose discussioni con la dirigenza dell’ospedale, incentrate sul rafforzamento dei servizi sanitari e sull’affrontare le principali priorità sanitarie dell’ospedale.”
Giovedì 3 agosto 2023 il Dr. Hale Teka, lanciava un appello:
“Questa MRI – macchina per risonanza magnetica da 3 Tesla del valore di 300 milioni sta perdendo il suo potenziale magnetico a causa della mancanza di manutenzione. Se non mantenuta urgentemente, la risonanza magnetica diventerà presto del metallo inutile. L’Ayder Hospital ha un disperato bisogno di 30 milioni di Birr per ripararlo.Poiché la risonanza magnetica ora non funziona, i pazienti che necessitano del servizio stanno percorrendo circa 900 chilometri per ottenere una scansione. Salva la macchina, salva vite.”
Milioni di euro, ma l’urgenza per la sopravvivenza è ora
I due anni di guerra ed i successivi 9 mesi passati dall’accordo di cessazione ostilità firmato a Pretoria, oggi agosto 2023, ha portato a delle conseguenze umanitarie disastrose ancora in atto. Il tutto aggravato dal blocco del supporto alimentare di WFP e USAID a partire da marzo 2023 per quasi 6 milioni di persone in Tigray e nel resto d’Etiopia da giugno: sono 20 milioni oggi le persone in attesa.
La situazione dei campi IDP, per sfollati interni in Tigray é atroce e disumana
Le persone vivono in agonia giorno per giorno, mendicando di giorno nella speranza di trovare cibo o supporto. Decine di migliaia soffrono la fame per mancanza di cibo che dovrebbero fornire le agenzie umanitarie, ma che, nonostante l’accordo di tregua in atto, non ricevono le dovute cure ed assistenza.
Ho condiviso su un precedente aggiornamento la testimonianza di Marco Sassi, presidente VIM-Volontari Italiani Madagascar, coordinamento di 120 associazioni, in visita in campi per sfollati ad Abi Adi.Campi IDP a Shire, Tigray – Etiopia – Agosto 2023 – Credits Marco Sassi
Oggi riporto integralmente un suo nuovo aggiornamento del 4 agosto 2023:
“Refugee Camp di Shirè, Tigray Centrale. Mi mancano le parole. Mi sono mancate a lungo durante la visita al campo autocostruito intorno alle scuole primarie di Shirè, 6500 famiglie, 34.000 persone che vivono solo qua. E nel woreda di Shirè ce ne sono altri 18 così, in condizioni disumane.Mentre lo visitavo in compagnia del Comiteè di gestione, eletto dai rifugiati stessi, mi rimbalzavano in modo ossessivo in testa le parole e le immagini di “Se questo è un uomo” e dei lager.
Solo negli ultimi 2 giorni sono morte 4 persone per fame, 16 nelle ultime settimane. Sono 7 mesi che non ricevono nulla.
Mi era montata una rabbia che stava per esplodere, forse frenata solo dalle emozioni.
Rabbia perché ci sono Agenzie internazionali delle UN, come Unicef, Unhcr e OIM che hanno messo i loro stemmi nel campo. E ci sono pure le grandi INGO’s, – e io i nomi li faccio, oh se li faccio! – come World Vision, Plan, Danish Refugee Council, che hanno messo loghi e striscioni.
Ma la verità è che non fanno nulla, non distribuiscono cibo, non hanno medicine, fanno finta di fare assistenza medica – che non c’è!! – e hanno portato solo 150 tende (senza nient’altro) , del tutto insufficienti e gli altri se le sono costruite da soli!
Gli ho chiesto se hanno mai visto al campo dei ferenji (i bianchi)… NOOOO!!!
I “bianchi” stanno chiusi nei loro palazzi di lusso, con paghe stratosferiche e non vanno al campo – forse anche per paura delle critiche – e mandano di tanto in tanto i loro luogotenenti locali (quasi tutti della capitale, dell’etnia responsabile del genocidio da cui sono scappati) a fare qualche passerella o a montare qualche tendone più grande “di richiamo fotografico”, ma completamente vuoto e inutile. Quelli del DRC sono venuti , hanno portato una scrivania al comitteè e sono spariti. Ma hanno affittato – con finanziamento della UE ! – un intero palazzo di lusso!
Milioni di euro che spariscono nel nulla!
Il campo è stato allagato da una tempesta d’acqua una settimana fa, con tanta acqua che ha portato via un bambino, ma nessuno è venuto ad aiutarli!
Vivono dormendo per terra, con la TBC e altre malattie respiratorie sempre più diffuse, ma non hanno farmaci.
Ci sono moltissime donne con HIV, spesso a seguito dello stupro delle truppe eritree e delle milizie irregolari Fano, ma non hanno nulla. Sembra che l’HIV sia diffuso anche tra i bambini.
Si nutrono dei resti del cibo della popolazione residente in città, facendo elemosina, mandando i bambini a lustrare le scarpe.
Già… i bambini…. Quelli per i quali siamo stra-sicuri che UNICEF e UNHCR provvedano alla loro istruzione… e invece sono 3 anni che non vanno a scuola e nessuno se ne occupa!
E sono moltissimi i bambini denutriti e in evidentissimo ritardo di sviluppo rispetto all’età, con braccine del diametro di pochi cm, che fanno venire il magone in gola a toccarli. HANNO FAME!!
Nelle tende fradicie, su materassi e coperte fradicie, con fango e acqua, vivono anche in famiglie di 7- 8, nelle mini tende dell’OIM ne avevano sistemati anche il doppio, prima che scoppiasse una mini-rivolta.
Sono completamente abbandonati, sono tenuti all’oscuro di tutto e non sanno quali sono le risorse a loro disposizione (ma che bella “cooperazione”); sono incazzati neri contro le ong, che sfrecciano con fuoristrada nuovissimi, ma nessuno sa che cosa fanno o che cosa devono fare.Nel campo si muore di fame, ci sono migliaia di topi che portano malattie, si muore di malaria, di polmonite, si muore di malnutrizione, di sporcizia e mancanza di latrine decenti per tutti.
Sono disperati ma composti. Almeno per ora.Tutti mi chiamavano dentro il loro cantuccio, quando ce l’avevano. Alcuni dormono sul nudo pavimento esterno della scuola, per terra. In una foto ci sono dei cenci per terra. Sono il letto di un ragazzo che ha combattuto ed è rimasto mutilato; sono il suo letto. A fianco dei teli separano le “casine” open air di altrettante famiglie.
Nelle aule vivono anche 40-50 persone, 7- 8 famiglie, ogni letto una famiglia, eh sì, ….perché in un letto si dorme in 5.
I bambini sono denutriti, in evidente stato di ritardo di sviluppo rispetto all’età, hanno braccine di pochi cm di diametro. E’ una cosa che toglie il fiato.
Anche perchè con i soldi elargiti da UE e Stati vari avremmo dovuto occuparci di loro. Sono imbestialito.
Mi allargo: pensate di continuare a sostenere con i vostri contributi o 5×1000 l’Unicef?! Liberi, ma facciamo in modo di separare le nostre strade, datemi la possibilità di togliervi l’amicizia.Povera gente tradita: sono scappati dai Woreda occidentali di Humera e Dashan, a piedi, camminando per 4 o 5 giorni, facendo i funerali di quelli che morivano per strada uccisi dalla fatica, dalla sete, dalle milizie Fano o da quelle eritree se li trovavano sui monti.
Sanno di non poter tornare a casa. Le loro terre – tra le più fertili del Paese – e le loro case sono state occupate dalle milizie Fano, che non se vanno e non hanno alcuna intenzione di farlo, in barba agli Accordi di Pace. E mi fa ancora più incazzare, perché quando sento parlare di guerra in Ucraina e di tutte le attenzioni tra quei due popoli che non vogliono far la pace, bene, qua, nonostante i 600.000 morti degli Accordi di Pace sono stati firmati, il Tigray li ha rispettati e le altre parti no, ma la comunità internazionale se ne frega! Ma allora, ditemi, quando cazzo arriva il momento di mandare quei pagliacci dei Caschi Blu dell’ONU che paghiamo ognuno come nababbi, per stare intanati da qualche parte a non fare niente?!
Qua muoiono le persone perché non possono tornare alle loro case occupate e non restituite secondo gli Accordi di Pace! Ma chi cazzo glielo racconta la prossima volta di “fare la pace”?! Moriranno tutti fino alla fine prima di farsi fregare un’altra volta!
Sono mortificato, arrabbiato, ho pianto e ho avuto il magone per ore.
Ma non finisce qua.
Sono venuto fino qua, per vedere, per capire, e ho capito cose che non dovevo vedere.
E a chi si chiede “perché sei andato”, rispondo “perché non siamo andati”, tutti!, a squarciare quel velo oscurante che hanno fatto calare benissimo sopra questo dramma, che nessuno deve conoscere, nessuno deve vedere. Il genocidio più terribile degli ultimi anni, dimenticato.
Morire per fame, no, la mia religione laica non me lo concede.
E nemmeno di tacere.”
Le volontà politiche di sospensione alimentare e di gestione della crisi fanno morire persone ogni istante
Dopo la sospensione del supporto alimentare per milioni di persone da parte di agenzie umanitarie preposte a questo onere e responsabilità, non è giunta ancora alcuna dichiarazione ufficiale sulla ripresa delle attività da parte né di WFP né di USAID.
Il WFP aveva precedentemente dichiarato che probabilmente avrebbe ripreso le consegne verso la fine di luglio 2023. Tempo massimo superato e dal WFP alcuna dichiarazione.
Le persone continuano a morire di fame, adulti e bambini.
La scelta politicizzata di sospensione alimentare è stata ulteriormente politicizzata dalle volontà del Segretario americano Antony Blinken di comune accordo con il primo ministro etiope.
Venerdì 4 agosto 2023 il Dipartimento di Stato americano ha rilasciato un comunicato sul confronto telefonico avuto tra le due parti in cui si può leggere la volontà di costituire nuove sovrastrutture per “aiutare i bisognosi”.
“Il Segretario e il Primo Ministro hanno discusso della creazione di un sistema di distribuzione degli aiuti umanitari con una supervisione rafforzata per raggiungere l’obiettivo condiviso di riavviare gli aiuti alimentari il prima possibile.“
WFP e USAID si fanno attendere, come gli aiuti per milioni di persone in attesa, non si sa ancora per quanto.
Approfondimenti:
- [Analisi] Etiopia, in Tigray l’impatto della sospensione del supporto alimentare potrebbe essere peggiore dell’assedio.
- Etiopia, Aggiornamenti dal Tigray – 26 Luglio 2023
- Etiopia, la crisi umanitaria in Tigray continua, ma per l’Italia si è risolto tutto con l’accordo di Pretoria
- [Archivio] 2 anni di aggiornamenti su Tigray ed Etiopia
Ben(e)detto del 5 agosto 2023
Etiopia, Come la guerra e le crisi nel Tigray hanno innescato un boom di agricoltura urbana
Autore: Kifle Woldearegay
Contributi di: Lyla Mehta, Tanvi Bhatkal e Ben O’Donovan-Iland
Il Tigray, nell’Etiopia settentrionale, è stato devastato da una guerra brutale dal novembre 2020, che comprendeva un assedio e un blocco che ha interrotto tutte le comunicazioni e i servizi più essenziali, insieme ai rifornimenti umanitari. Mentre un accordo di pace firmato nel novembre 2022 cercava di porre fine al conflitto armato, in realtà permangono sfide significative per quanto riguarda la fornitura di servizi essenziali alla popolazione di circa sei milioni.
A causa della guerra, ci sono stati notevoli problemi di sicurezza e questo ha portato a una totale interruzione del flusso di cibo e forniture agricole, contanti, medicine, carburante e altro ancora . Anche se circa 5 milioni di tigrini hanno dovuto affrontare la fame indotta dalla guerra, il Programma alimentare mondiale (PAM / WFP) ha sospeso gli aiuti alimentari (decisione controversa), apparentemente a causa di alcuni episodi di furto e saccheggio. Le famiglie della regione sono state quindi costrette a cercare metodi di sopravvivenza alternativi.
I principali centri urbani come la città di Mekelle, la capitale del Tigray, hanno visto una migrazione significativa di persone provenienti da piccole città e aree rurali, con circa 2,7 milioni di sfollati. Inoltre, le persone che sono fuggite nelle aree rurali durante il conflitto hanno iniziato a tornare nelle aree urbane. Ciò ha esercitato ulteriore pressione sui servizi cittadini sovraccarichi: negozi, ristoranti e venditori ambulanti devono ancora riaprire; le carenze di energia elettrica sono all’ordine del giorno, portando le persone a usare la legna da ardere per riscaldarsi e cucinare; la mancanza di approvvigionamento idrico significa che le persone sono costrette a utilizzare l’acqua non trattata dei corsi d’acqua e dei pozzi aperti per uso domestico; la carenza di forniture mediche sta costringendo le persone a ricorrere a forme di cura più tradizionali.
Verso l’agricoltura urbana
Nel bel mezzo di queste sfide significative, la ricerca del progetto Towards Brown Gold sta dimostrando che molte persone che vivono nei principali centri urbani, in particolare a Mekelle, si stanno impegnando in pratiche agricole urbane, come gli orti, come mezzo di sostentamento e sopravvivenza.
Questo non è un nuovo approccio. L’agricoltura urbana era all’ordine del giorno dell’Ufficio per l’agricoltura e lo sviluppo rurale del Tigray, così come dei consigli comunali, nella regione del Tigray per alcuni anni prima dell’inizio del conflitto. È stato praticato su piccola scala, in particolare per promuovere le piccole imprese e creare posti di lavoro nella regione. Dopo la guerra, tuttavia, l’agricoltura urbana è stata praticata a livelli senza precedenti.
Alcuni dei principali fattori abilitanti che incoraggiano le persone a farlo sono:
- Conoscenze e pratiche pregresse relative all’agricoltura urbana come ortaggi, frutta;
- Sforzi di sensibilizzazione da parte del Bureau of Agricultural attraverso i media (principalmente programmi radiofonici) e la fornitura di sementi e piantine, sebbene limitati;
- Fornitura temporanea da parte delle autorità locali di terreni aperti alle comunità locali (come bordi stradali, cantieri vuoti, spazi nelle scuole e nelle università, argini di torrenti/fiumi e altro) per uso agricolo urbano. Anche le discariche di rifiuti sono state convertite e utilizzate per l’agricoltura urbana, una pratica che ha anche contribuito a creare un ambiente pulito;
- I prezzi elevati del cibo e la scarsa disponibilità nei mercati hanno incoraggiato le persone a impegnarsi nell’agricoltura urbana poiché le persone non hanno altra alternativa che provare qualsiasi opzione di sostentamento, inclusa l’agricoltura urbana.
Opportunità e problemi emergenti
L’agricoltura urbana contribuisce a proteggere la catena di approvvigionamento alimentare a Mekelle. Di fronte a gravi carenze alimentari da fuori città, le persone impegnate in pratiche agricole urbane possono avere cibo a sufficienza per i propri bisogni, oltre a eccedenze da vendere ai mercati. L’approvvigionamento principale proviene da frutta e verdura, in particolare quelli essenziali per cucinare e nutrirsi come cavoli, cipolle, peperoni, pomodori e aglio.
Mekelle si trova nella regione arida e semi-arida del Tigray, il che significa che l’approvvigionamento idrico è scarso. Pertanto, le famiglie hanno avuto accesso all’acqua da una varietà di fonti, tra cui pozzi, ruscelli, sorgenti, acque di scolo e altro ancora.
Alcune di queste fonti d’acqua, sebbene sconsigliate per il consumo diretto, vengono utilizzate per scopi agricoli. Le prove sulla qualità delle fonti idriche a Mekelle mostrano che l’acqua è adatta per scopi di irrigazione, sebbene sia necessario un monitoraggio continuo della qualità per garantire che rimanga sicura da usare. Ciò è particolarmente vero in quanto gran parte della ricarica dell’acqua proviene dai sistemi settici e fognari della città.
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha stabilito degli standard per l’uso delle acque reflue per l’irrigazione e diversi paesi e città stanno utilizzando questi standard per promuovere l’agricoltura urbana, di cui Mekelle è uno. Tuttavia, con il rapido emergere dell’economia circolare, in particolare con l’agricoltura urbana, stanno sorgendo diverse questioni e problemi critici per ulteriori interventi efficaci, ricerca e innovazione.
- In che modo un’economia circolare olistica può essere sistematicamente integrata nella pianificazione urbana come opzione di sopravvivenza per le persone e come componente importante per lo sviluppo socio-economico nel ripristino e nella ricostruzione postbellica?
- In che modo è possibile sviluppare ulteriori nuove idee su come i rifiuti liquidi urbani (come i rifiuti umani o animali) vengono percepiti e utilizzati per promuovere approcci di economia circolare, in particolare nelle città e nei paesi in rapida urbanizzazione dei paesi a basso e medio reddito?
- In che modo i comuni e le comunità possono progettare, creare e fornire una pianificazione urbana integrata per promuovere approcci di economia circolare che considerino le interazioni dinamiche (in termini di spazio e tempo) di acqua, rifiuti (sia solidi che liquidi), ambiente, infrastrutture e esseri umani ?
Spostandosi verso Brown Gold
L’espansione e la promozione osservate dell’agricoltura urbana nelle principali città del Tigray durante la guerra e le crisi è un forte esempio di come un’economia circolare può aiutare le persone a far fronte a sfide difficili. I governi, i donatori, gli istituti di ricerca e le organizzazioni esecutive devono imparare dalla portata e dai vantaggi dell’espansione dell’economia circolare nel Tigray.
La piena ed efficace attuazione di un’economia circolare, in particolare dell’agricoltura urbana, richiede un cambio di paradigma in quattro modi principali: uno, nel modo in cui il suolo urbano è pianificato e utilizzato; due, nel modo in cui i rifiuti liquidi urbani sono percepiti dalla collettività; tre, nella comprensione delle interazioni dinamiche di acqua, rifiuti, infrastrutture e esseri umani negli ambienti urbani; e quattro, sui vantaggi multidimensionali dell’economia circolare come meccanismo di sopravvivenza temporaneo e come strategia di adattamento alla crisi climatica a lungo termine.
Per passare con successo all’oro marrone, è necessario implementare e potenziare in modo sistematico lo sviluppo dell’economia circolare, supportato da politiche, strategie e quadri normativi appropriati, integrati con lo sviluppo di capacità, la ricerca e le innovazioni.
FONTE: medium.com/@TowardsBrownGold/h…
Fatti e PNRR
L'articolo Fatti e PNRR proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
A scuola da Al-Haq: reimparare la “Nakba” sperimentando le forme dell’occupazione
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A cura del Collettivo Zenobia –
Pagine Esteri, 5 agosto 2023. A quasi un anno dall’ultima incursione delle forze israeliane negli uffici di Al-Haq a Ramallah, si conclude la nona edizione della “Applied International Law Summer School” organizzata dalla Ong palestinese nella West Bank.
Dal momento della sua designazione da parte israeliana, nell’ottobre del 2021, quale organizzazione terroristica – sulla base di accuse mai comprovate, come hanno avuto modo di osservare diversi paesi dell’Unione europea tra i quali l’Italia – Al-Haq non ha mai mancato l’appuntamento iniziato nel 2015. Ogni anno, da metà a fine giugno, decine di studentesse e studenti provenienti da tutto il mondo, attivisti dei diritti umani e persone impegnate in differenti gradi e forme a sostegno della causa palestinese, hanno l’opportunità di verificare sul campo l’importante lavoro che questa e le altre Ong incontrate nel corso del programma portano avanti.
Un lavoro meticoloso, di documentazione e di sostegno legale, che facilita la ricomposizione delle tante frammentate esperienze di resistenza del popolo palestinese e scava tra le crepe di un sistema che, dal 1948, riproduce una “Nakba continua” e strutturale.
Risalire il corso delle crepe, arrivare al cuore della falla: per comprendere il senso dell’operato di Al-Haq, e il suo contesto, vogliamo ripercorrere alcune delle tappe più significative del programma della Scuola.
Due allevatori della comunità beduina su cui insiste la fabbrica di Mishor Adumim, nella Valle del Giordano. Foto di Collettivo Zenobia
Natura e vite sfruttate: la Valle del Giordano
Attraversando quest’ampia distesa di terra arsa dal sole, assale la sfacciata presenza delle architetture dell’occupazione che l’Ong palestinese documenta da decenni: tubazioni serpeggianti, gigantesche fabbriche avvolte nella polvere e insediamenti come Kalya, famosa per le spiagge che si affacciano sul Mar Morto e per i datteri delle sue aziende agricole.
In nessun’altra zona della West Bank è più evidente l’esproprio di risorse naturali realizzato dalle grandi e medie compagnie israeliane ai danni della popolazione palestinese: dall’acqua, estratta e redistribuita dalla società Mekorot, che dal 1982 detiene il monopolio sulle riserve idriche cisgiordane e ne gestisce l’allocazione, profondamente diseguale sia nelle quantità che nei costi, tra le colonie israeliane e le comunità palestinesi, alle riserve minerarie, la cui estrazione produce nugoli di polveri inquinanti nelle terre popolate da comunità beduine; alla forza lavoro.
Il report pubblicato nel 2022 dall’Ufficio centrale di statistica palestinese mostra come il mercato del lavoro israeliano, entro i confini ufficiali dello Stato e nelle colonie, rappresenti la seconda fonte di impiego per i palestinesi della Cisgiordania. Un dato che aiuta ad interpretare il ricatto che i lavoratori delle piantagioni di palme da datteri di Kalya subiscono ogni giorno, dove donne e bambini, come ha denunciato Human Rights Watch nel 2015, sono impiegati in condizioni di sfruttamento e sottopagati.
L’altro aspetto del ricatto del mercato del lavoro israeliano è il prezzo concorrenziale con cui i diversi attori israeliani riescono a rivendere, spesso alla stessa popolazione palestinese, ciò che viene prodotto da manodopera a basso costo e senza diritti (o importato con tariffe doganali irrisorie rispetto a quelle cui sono soggetti i beni importati in Palestina).
Dalla negazione dell’accesso alle risorse naturali allo sfruttamento e al ricatto lavorativo, la colonizzazione sionista si muove sul doppio binario della sistematica espulsione e dello scacco socio-economico che consente a Israele di prosperare ed espandersi con l’acqua e il sudore dei palestinesi.
Gli impianti della fabbrica di Geshuri visti dall’azienda agricola palestinese di Hakoritna, a Tulkarem. Foto di Collettivo Zenobia
Auto-organizzarsi contro l’inquinamento: area industriale di Geshuri, Tulkarem
La storia della fabbrica di Geshuri e della famiglia di agricoltori di Hakoritna può aiutarci ad inquadrare una seconda crepa nella quale si inserisce il lavoro di Al-Haq. Nel corso di tutta la visita non smette mai di accompagnarci il respiro tossico degli impianti di produzione di componenti chimiche per pesticidi e fertilizzanti, impianti originariamente collocati nella parte israeliana dei confini del 1948. Nel 1987, in seguito alle continue proteste dei residenti indignati dalle condizioni di inquinamento da essa prodotte, la fabbrica è stata delocalizzata sul versante cisgiordano: in pochi anni, le famiglie del posto hanno visto aumentare significativamente il tasso di tumori e disturbi respiratori tra i propri membri- come ha documentato Lancet in un report del 2013.
A pochi metri di distanza dalle ciminiere, al riparo dei capannoni della fattoria di Hakoritna crescono cetrioli, pomodori e ortaggi coltivati rigorosamente secondo agricoltura biologica, le tecniche e i benefici della quale sono oggetto di varie iniziative in cui la famiglia proprietaria della fattoria coinvolge la comunità locale. L’acqua è ricavata da meccanismi di filtraggio della pioggia e accumulata in alcune cisterne ai quattro angoli della serra; l’elettricità è prodotta grazie ai pannelli solari che sono sul tetto. Dal governo palestinese la fattoria ha ricevuto poco più di qualche incoraggiamento.
Secondo l’ultimo sondaggio pubblicato dal Palestinian Center for Policy and Survey Research, oltre l’80% della popolazione palestinese ritiene che l’Autorità nazionale, i cui rappresentanti sono stati eletti l’ultima volta nel 2006, sia corrotta e distante dai bisogni delle persone, collusa con Israele in materia di sicurezza e ad esso subordinata sul piano economico. Di fronte a questa situazione, reale e percepita, le tante forme di auto-organizzazione produttiva diventano pilastri fondamentali per il sostentamento e lo sviluppo sociale (per quanto relativo, per via della limitazione e negazione dell’accesso alle risorse naturali imposte dall’occupante) delle comunità palestinesi, che riescono così ad affrancarsi dalla morsa di un mercato del lavoro quasi completamente dipendente da Israele.
Il lavoro che Al-Haq porta avanti, di documentazione e di sostegno legale presso le corti internazionali di realtà come la fattoria Hakoritna o come le aziende agricole palestinesi nella Valle del Giordano, serve a riunificare queste esperienze – frammentate non solo geograficamente dalle infrastrutture dell’occupazione, ma anche sul piano della narrazione – favorendone la rappresentazione in uno stesso quadro.
Ghettizzazione e gentrificazione: Gerusalemme est
Qual è questo quadro? Per rispondere vogliamo ripercorrere un’ultima tappa del programma della Summer School: quella che ci ha portati ad osservare come a Gerusalemme est l’apartheid sistematico dei palestinesi si riproduca seguendo tre direttrici fondamentali.
Una prima direttrice è la ghettizzazione, nella forma della reclusione delle famiglie dei rifugiati dalle espulsioni del ’48 in campi come quello di Shu’fat che ospita anche tante coppie discriminate dalla Legge contro l’unificazione familiare e palestinesi che non possono affrontare i costi sempre più elevati delle case in città. O in quartieri come Kufr Aqab, ufficialmente parte della municipalità della Città santa, ma tagliato fuori da essa dal checkpoint di Qalandiya, uno dei più grandi e tristemente noti per l’alto numero di vittime delle forze israeliane. In entrambi questi casi, la maggior parte della popolazione residente sceglie di abitare in aree asfissianti per l’addensamento di abitazioni, altamente insalubri e insicure per via dell’abbandono e della marginalizzazione, perché è l’unico modo per non perdere la cittadinanza gerusalemita: il risultato, come riporta JLAC nel report del 2022, è la concentrazione di oltre il 33% della popolazione palestinese di Gerusalemme est in circa il 4% della superficie totale di questa parte della città.
Intervengono, poi, operazioni di esproprio ed espulsione che riproducono in una grande area metropolitana quanto avviene nel resto della West Bank: è il caso di Sheikh Jarrah o dell’area di Silwan, o del “Piano E1” pensato per collegare Gerusalemme est con la colonia di Ma’aleh Adumim con un sistema di strade, parchi commerciali e servizi turistici. Interventi che mescolano la violenza dell’espulsione coatta all’ideazione di masterplan urbani che favoriscono la gentrificazione, dunque l’allontanamento della popolazione palestinese, strutturalmente meno tutelata.
Si arriva, così, a quell’ultima direttrice che è l’obiettivo e il risultato combinato delle prime due: il perseguimento di un “equilibrio demografico” che mantenga la popolazione palestinese, il cui tasso di crescita è più alto di quello della popolazione ebraica, entro livelli numericamente controllati e controllabili, facilmente sfruttabili economicamente senza diventare demograficamente e politicamente preoccupanti. Ghettizzazione ed espulsione sono, perciò, due facce della stessa medaglia: la colonizzazione sionista della Palestina, realizzata attraverso la creazione artificiosa di una maggioranza ebraico-israeliana e di un mercato vincolato di forza lavoro a basso costo, a cui peraltro vendere i prodotti del suo stesso sfruttamento.
Il campo rifugiati di Shu’fat, a Gerusalemme est. Foto di Collettivo Zenobia
Questo è il senso del lavoro di Al-Haq, che la Summer School vuole trasmettere: documentare le diverse forme attraverso cui si riproduce l’occupazione e la colonizzazione per ricostruire, tassello dopo tassello, il disegno di un mosaico che, lungi dall’essere legato all’atto di fondazione (il 1948) o alla fase più notoriamente espansionistica dello Stato di Israele (il 1967), ridescrive il concetto di Nakba come un processo che ha avuto inizio 75 anni fa e che continua, in forme diverse, ininterrotto. Pagine Esteri
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L'articolo A scuola da Al-Haq: reimparare la “Nakba” sperimentando le forme dell’occupazione proviene da Pagine Esteri.
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