Salta al contenuto principale



La visita del presidente del consiglio Meloni a Caivano, che probabilmente per il presidente del consiglio era solo un nome, non può diventare la lavata di fac


Cinque operai morti. Il più giovane aveva solo 22 anni. Non si tenti di scaricare sul macchinista la responsabilità della mancata interruzione Mentre esprimi


Ben(e)detto del 30 agosto 2023


́ # # L'articolo Ben(e)detto del 30 agosto 2023 proviene da Fondazione Luigi Einaudi. https://www.fondazioneluigieinaudi.it/benedetto-del-30-agosto-2023/ https://www.fondazioneluigieinaudi.it/feed


Ben(e)detto del 31 agosto 2023


… e dunque Popolare Socialriformista Liberale. Senza nostalgie novecentesche, da cittadini ed elettori europei, senza trucchetti per raccattare (forse) qualche voto in più. L'articolo Ben(e)detto del 31 agosto 2023 proviene da Fondazione Luigi Einaudi.

… e dunque Popolare Socialriformista Liberale. Senza nostalgie novecentesche, da cittadini ed elettori europei, senza trucchetti per raccattare (forse) qualche voto in più.

L'articolo Ben(e)detto del 31 agosto 2023 proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Ben(e)detto del 29 agosto 2023


Di questa presa di posizione, così scorretta politicamente, si assume tutta la responsabilità il nostro Presidente

L'articolo Ben(e)detto del 29 agosto 2023 proviene da Fondazione Luigi Einaudi.





in reply to The Privacy Post

Mah ... gli abusi sono, secondo ogni statistica conosciuta, sono per la stragrande maggioranza in famiglia o tra i conoscenti (vedi preti, parenti acquisiti, amici di famiglia ecc.). Ma i pedofili li cerchiamo su Internet. La questione della pedofilia su Internet sembra proprio una scusa bella e buona...


Sull’uranio impoverito si lasci fuori il Quirinale. L’opinione di Tricarico


Ancora una volta la quotidianità, sempre in maniera del tutto fortuita, riporta sulla scena l’uranio impoverito e i suoi effetti. Questa volta la responsabilità indiretta è del generale Vannacci, quella diretta è dei media, di molte testate (ma di una in

Ancora una volta la quotidianità, sempre in maniera del tutto fortuita, riporta sulla scena l’uranio impoverito e i suoi effetti. Questa volta la responsabilità indiretta è del generale Vannacci, quella diretta è dei media, di molte testate (ma di una in particolare) che si sono adoperate – pur di accreditare una tesi precostituita – a divulgare, anche se in maniera surrettizia, le solite fandonie sulla pericolosità dell’esposizione umana alle polveri di uranio impoverito.

E quel che è più grave e inaccettabile, è stato fatto chiamando in causa il Presidente della Repubblica, all’epoca dei fatti ministro della Difesa. Una chiamata in causa tanto più grave in quanto fondata sulla difesa, da parte di certa stampa, delle bizze insensate di un generale ostinato nel non recepire le direttive dei suoi superiori.

Quello che, attraverso una ricostruzione manipolata ad arte, si vuol far credere al cittadino è che la linea gerarchica facente capo all’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, all’epoca comandante del Comando operativo di vertice interforze (l’allora Coi) è che i superiori di Vannacci, pur resi edotti dei rischi che i nostri soldati correvano in Iraq, con il beneplacito o il silenzio colpevole dell’allora ministro Sergio Mattarella, omettevano di dare ascolto alle preoccupazioni manifestate e di provvedere alle misure cautelative del caso.

A nulla sono servite le rimostranze con i responsabili di questa bislacca, irriverente e smaccatamente falsa tesi. A nulla è valso lo sforzo – che assomiglia sempre di più a quello di Sisifo – di ragguagliare i direttori delle testate che si sono avventurate in questo indimostrabile assunto, sulla acclarata, più volte ribadita e ormai incontrovertibile non pericolosità dell’uranio impoverito come agente patogeno per l’insorgenza di tumori.

E forse è il caso di riassumere brevemente che innumerevoli approfondimenti scientifici indipendenti, sostanziati da una lunga bibliografia (vedi link Fondazione Icsa) hanno fatto stato dell’insussistenza di un rapporto causa-effetto tra l’esposizione a polveri di uranio impoverito e patologie tumorali a carico di militari che, anche a distanza di tempo, si siano trovati a operare in scenari dove il terreno o i rottami di mezzi colpiti potessero liberare polveri a suo tempo decantate sul terreno e sulle superfici dei bersagli.

Nel “caso Vannacci”, poi, i suoi superiori lo hanno ragguagliato abbondantemente con ogni evidenza scientifica, cozzando però contro un muro, soprattutto quando il confronto si è concentrato su tre studi finalizzati allo specifico teatro iracheno e a quelli similari (Progetto Signium di gennaio 2011, Technical Report di Unep di agosto 2007 e Studio di Aiea di giugno 2010) che hanno incontrato però la ostinata, irragionevole e incomprensibile irremovibilità di Vannacci sulle sue posizioni destituite di qualunque fondamento.

Una mistificazione, quella della letalità dell’uranio impoverito, che in Italia ha messo in moto una poderosa macchina di rivendicazioni da parte delle presunte vittime (cui va, sia chiaro, la nostra umana solidarietà) sintetizzabile ad oggi in oltre cento contenziosi andati a sentenza, con la giustizia spaccata letteralmente in due, avendo accolto poco meno delle metà delle istanze risarcitorie. Da notare che su quelle accolte ha giocato verosimilmente un ruolo la comprensibile indulgenza con cui amministrazione e giudici hanno valutato, di volta in volta, le aspettative di persone affette da patologie gravi. Tra l’altro, sempre per lo stesso motivo, non sempre i tribunali hanno tenuto rigoroso conto delle perizie di ufficio, mentre altre volte il riconoscimento della patologia per causa di servizio da parte dell’amministrazione ha costituito per il giudice un precedente significativo per la sua valutazione finale.

A ciò si aggiungano oltre cento istanze in attesa di giudizio, circa trecento istanze extragiudiziali e forse migliaia di richieste amministrative di riconoscimento di dipendenza delle patologie da causa di servizio.

Anche, ma non solo, a causa della sua mole, una condizione quella descritta sulla quale andrebbe fatta una riflessione accurata sia da parte dell’amministrazione, nell’auspicio che quella ora al timone del Paese affronti la questione con maggior rigore e coerenza rispetto a chi l’ha preceduta ma soprattutto rispetto ai postulati della scienza; sia da parte degli organi di controllo della spesa pubblica se, come è verosimile, si profila un cospicuo danno all’erario, un pericolo questo da sempre dietro l’angolo nelle questioni italiane.


formiche.net/2023/08/uranio-im…



SIRIA. Almeno 25 morti in scontri tra curdi e tribù arabe


Da quattro giorni membri della tribù di Deir Ezzor combattono le truppe delle SDF sostenute dagli Usa dopo l'arresto di un importante leader arabo locale L'articolo SIRIA. Almeno 25 morti in scontri tra curdi e tribù arabe proviene da Pagine Esteri. htt

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

della redazione

Pagine Esteri, 31 agosto 2023 – Gli scontri che vanno avanti da quattro giorni tra le Forze Democratiche Siriane (SDF) a maggioranza curda, appoggiate dagli Stati Uniti, e i membri delle tribù arabe nel governatorato di Deir Ezzor hanno provocato almeno 25 morti e una ventina di feriti. Sono stati innescati dalla detenzione di Ahmed Khbeil, meglio conosciuto come Abu Khawla, nel governatorato di Hasakah, un importante leader arabo locale che guida il Consiglio militare di Deir Ezzor (DEMC) affiliato alle Sdf.

Le forze delle Sdf lo hanno detenuto domenica scorsa, per motivi non noti, dopo essere stato invitato a una riunione a Hasakah. Subito dopo le tribù arabe hanno lanciato un appello ai combattenti arabi all’interno delle SDF affinché disertino e “si uniscano alla lotta contro l’occupazione americana della Siria nord-orientale”.

Le Sdf hanno lanciato l’“Operazione Rafforzamento della Sicurezza” a Deir Ezzor sostenendo di voler combattere la riorganizzazione di cellule legate all’Isis, lo Stato islamico. Nonostante sia stato sconfitto nel 2019, l’Isis è rinato nella Siria orientale, nel momento in cui gli Stati uniti hanno rafforzato significativamente la propria presenza nel paese dilaniato dalla guerra.

Negli ultimi tempi, le tribù arabe del nord-est della Siria, hanno cominciato a denunciare l’occupazione straniera del paese esprimendo in qualche caso sostegno al governo di Damasco. La rabbia contro le Sdf è aumentata a seguito anche del reclutamento obbligatorio annunciato all’inizio di quest’anno che ha coinvolto anche minori.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, nel 2022 in Siria sono stati reclutati da vari gruppi armati 1.696 minori, di cui 637 proprio dalla Sdf. Pagine Esteri

GUARDA IL VIDEO DI MILIZIANI ARABI A DEIR AZZOR

pagineesteri.it/wp-content/upl…
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo SIRIA. Almeno 25 morti in scontri tra curdi e tribù arabe proviene da Pagine Esteri.



Il prossimo Privacy Pride si terrà il 23 settembre 2023. Ecco perché...

@Privacy Pride

🏖 Molti di voi sono ancora in vacanza, ma come ben sapete, i portabandiera della sorveglianza sono sempre al lavoro e quindi crediamo che sia opportuno lanciare un nuovo #PrivacyPride per il 23 settembre!

🇪🇺 Come alcuni di voi già sapranno, i governi degli Stati membri dell'UE stanno pianificando di adottare la loro posizione ufficiale, denominata "approccio generale", sul regolamento sugli abusi sessuali su minori (per gli amici ChatControl 😅) alla riunione dei ministri della giustizia e degli affari interni del 28 settembre 2023.

💪🏼 È opportuno mobilitarsi velocemente, al fine di alzare l'attenzione dell'opinione pubblica, finora molto insensibile, su questo epocale cambiamento dello stato di diritto e della inviolabilità della corrispondenza.

🚸 Uno dei cavalli di battaglia dei nemici della privacy è la tutela dei bambini, proprio quei bambini che gli stati abbandonano Nelle mani delle grandi piattaforme centralizzate ormai universalmente adottate nelle scuole.
Ma si sa, c'è privacy dei bambini e privacy dei bambini... 😁

🏙 L'obiettivo sarà perciò organizzare tanti presidi nelle città italiane e, se possibile, anche in alcune città d'Europa.

❤ Il tema del Privacy Pride sarà questo: "i bambini e la privacy: ignorati quando bisogna tutelare la loro privacy, ma sfruttati quando si tratta di diminuire quella di tutti i cittadini".

🕒 Appena saremo in grado di farlo, metteremo a disposizione tutti gli strumenti necessari per l'organizzazione!


Stiamo scaldando i motori per organizzare un Privacy Pride. Restate in ascolto...


Questa volta si parlerà di... minori


in reply to Privacy Pride

Purttoppo non potrò partecipare, ma sarebbe interessante capire qual'è la vostra ricetta per la privacy dei bambini.
in reply to Emanuele

@Emanuele Se fosse sufficiente una ricetta per risolvere i problemi, basterebbe sostituire legislatori e burocrati rispettivamente con chef e camerieri...
E magari non sarebbe neanche una cattiva idea: almeno chef e camerieri sanno che i bambini non sono clienti da servire con gli avanzi degli adulti ma sono anzi dei clienti speciali con stomaci più delicati, che necessitano di maggiori attenzioni e molto più rispetto

@Privacy Pride

Privacy Pride reshared this.



Chi è Grant Shapps, nuovo ministro della Difesa britannico


Come si sapeva da diverse settimane, oggi sono arrivate le dimissioni di Ben Wallace da ministro della Difesa del Regno Unito. Wallace ha servito in quattro anni tre primi ministri diversi: Boris Johnson, Liz Truss e Rishi Sunak. Al suo posto è stato nomi

Come si sapeva da diverse settimane, oggi sono arrivate le dimissioni di Ben Wallace da ministro della Difesa del Regno Unito. Wallace ha servito in quattro anni tre primi ministri diversi: Boris Johnson, Liz Truss e Rishi Sunak. Al suo posto è stato nominato Grant Shapps che lascia la guida del ministero della Sicurezza energetica. Una visita a Kyiv a fine agosto l’aveva spinto in cima all’elenco dei favoriti.

CHI È GRANT SHAPPS

Ministro della Sicurezza energetica e prima ancora del Business, dell’Interno (per meno di una settimana nel breve governo Truss) e dei Trasporti, Shapps, 55 anni tra pochi giorni, è stato anche presidente del Partito conservatore dal 2012 al 2015 quando al numero 10 di Downing Street c’era David Cameron. È in Parlamento del 2005, prima faceva l’imprenditore. Si è dichiarato contro alla Brexit prima del referendum del 2016./p>

CHI È BEN WALLACE

Wallace, 53 anni, capitano delle Guardie Scozzesi, è stato uno dei principali sostenitori, nel Regno Unito e in generale in Occidente, dell’Ucraina davanti all’invasione russa. Anche per questo, il suo era uno dei nomi candidati alla carica di segretario generale della Nato (recentemente ha espresso il suo forte disappunto per il mancato sostegno del presidente statunitense Joe Biden alla sua candidatura). Wallace era in servizio la notte della morte della principessa Diana nel 1997 e ha fatto parte del gruppo inviato a Parigi per portare in patria le spoglie.

LA LETTERA DI DIMISSIONI

Nella lettera di dimissioni Wallace ha elogiato le forze armate e i servizi di intelligence con cui lavora dal 2016 e la risposta data dal governo britannico all’invasione dell’Ucraina. Ha anche ringraziato Sunak per il suo “sostegno” e “amicizia” e per gli investimenti fatti nelle forze armate prima come cancelliere dello scacchiere e poi come primo ministro. “So che lei è d’accordo con me sul fatto che non dobbiamo tornare ai giorni in cui la Difesa era vista come una spesa a discrezione del governo e si risparmiava svuotandola”, ha aggiunto. Nella sua risposta il primo ministro Sunak ha affermato che Wallace “si è distinto nel servire il nostro Paese”, elogiando la sua “lungimiranza strategica e chiarezza”. Ne ha quindi elogiato la leadership delle forze armate e il suo “giudizio eccezionale”, scrivendo: “La dedizione e l’abilità con cui ha assolto le tue responsabilità come segretario di Stato per la Difesa sono state tipiche della sua fiducia nel servizio pubblico e del profondo impegno per le forze armate e la sicurezza del Regno Unito. Lascia il ministero della Difesa e le forze armate in una buona posizione per affrontare il futuro”. Il primo ministro Sunak ha concluso dicendo di comprendere la sua decisione di dimettersi dopo otto anni dal governo.

Il LAVORO UK-ITALIA

Durante i suoi mandati ha lavorato intensamente anche per rafforzare la relazione bilaterale con l’Italia (qui l’intervista con Formiche.net di giugno 2021 sul ponte di volo della HMS Queen Elizabeth, la più grande portaerei della flotta britannica, il cui viaggio dal Regno Unito; qui, invece, la conversazione con Formiche.net in occasione del Forum di Pontignano dello scorso febbraio). Ed è sotto la sua gestione che i due Paesi assieme al Giappone ha lanciato il Global Combat Air Programme, progetto per lo sviluppo dell’aereo da caccia di nuova generazione entro il 2035.

IL MINI-RIMPASTO

Le dimissioni hanno dato vita a un mini-rimpasto di governo, che sarà cruciale per il primo ministro Sunak visto che l’anno prossimo il Paese torna alle urne. I sondaggi danno il Partito conservatore al difficile inseguimento del Partito laburista guidato da Keir Starmer. Ma soprattutto, i Tories, al potere ormai da 13 anni, sembrano aver perso smalto e iniziativa.

LA PROSSIMA RIUNIONE GCAP

Uno dei primi impegni del nuovo ministro della Difesa britannico riguarderà il Global Combat Air Programme. Dopo i passi avanti dell’incontro a Roma di fine giugno, è previsto un nuovo incontro tra i ministri in autunno, probabilmente a Londra, con l’italiano Guido Crosetto e il viceministro giapponese Atsuo Suzuki (visto che Yasukazu Hamada viaggia all’estero). Nelle scorse settimane il Financial Times ha rivelato che l’Arabia Saudita starebbe spingendo per diventare un partner a pieno titolo del progetto. Ma c’è da vincere le resistenze di Tokyo. Il ruolo di Shapps potrebbe essere determinante, visto che a inizio anno, da ministro per la Sicurezza energetica, aveva avuto colloqui con il governo saudita per rafforzare la cooperazione in settori come spazio, tecnologia e minerali critici. Una missione che sembra aver preparato il prossimo viaggio del principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman a Londra.


formiche.net/2023/08/grant-sha…



VIDEO. Ucciso un soldato israeliano, scontri a fuoco con un morto tra polizia Anp e palestinesi


Un autista palestinese ha investito, pare intenzionalmente, tre israeliani. Resta tesa la situazione a Tulkarem dopo gli scontri di ieri tra la polizia dell'Anp e combattenti palestinesi L'articolo VIDEO. Ucciso un soldato israeliano, scontri a fuoco con

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

della redazione

(nella foto il posto di blocco di Maccabim)

Pagine Esteri, 31 agosto 2023 – Un israeliano, un soldato secondo le notizie disponibili al momento, è stato investito, pare intenzionalmente, e ucciso da un palestinese alla guida di un autocarro al posto di blocco militare di Maccabim, tra Israele e la Cisgiordania occupata. Il palestinese è stato inseguito e ferito qualche minuto dopo dalla polizia, le sue condizioni sono critiche. Nell’attacco sono rimasti feriti altri due israeliani.

Ieri sera a Gerusalemme, un ragazzo palestinese ha ferito con un coltello un israeliano a una fermata del bus ed è stato poi ucciso. Qualche ora dopo, quattro soldati israeliani sono stati feriti dall’esplosione di un ordigno rudimentale mentre effettuavano un raid nella città di Nablus, nella zona del sito della Tomba di Giuseppe.

Resta tesa la tensione a Tulkarem dove ieri la polizia dell’Autorità Nazionale (Anp) del presidente Abu Mazen ha ucciso un giovane e ferito un altro durante scontri a fuoco con combattenti palestinesi nel campo profughi di Tulkarem seguiti alla rimozione di barriere erette per impedire l’ingresso di mezzi militari israeliani. Nelle scorse settimane, dopo una vasta operazione militare israeliana, l’Anp ha lanciato a Jenin, città-roccaforte della militanza armata palestinese, e in altri centri abitati e campi profughi una campagna di arresti contro i gruppi armati al fine di impedire o contenere gli attacchi contro soldati e coloni israeliani in Cisgiordania. Queste operazioni sono contestate dalla maggioranza della popolazione palestinese apertamente contraria alla cooperazione di sicurezza con Israele. Pagine Esteri

GUARDA IL VIDEO GIRATO AL POSTO DI BLOCCO DI MACCABIM

pagineesteri.it/wp-content/upl…

GUARDA IL VIDEO SUGLI SCONTRI A TULKAREM

pagineesteri.it/wp-content/upl…

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo VIDEO. Ucciso un soldato israeliano, scontri a fuoco con un morto tra polizia Anp e palestinesi proviene da Pagine Esteri.



Ricomincia la scuola! È stato pubblicato, sul sito del MIM, il calendario dell'anno scolastico 2023/2024 con le date di inizio e di fine delle lezioni per ciascuna regione, delle festività e degli Esami di Stato.

Poliverso & Poliversity reshared this.



PRIVACYDAILY


N. 148/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: In Cina mercoledì scorso sono state pubblicate delle regole finalizzate a rafforzare la sicurezza dei dati nel settore dell’intermediazione finanziaria, cinque mesi dopo che il disservizio che ha causato due giorni di caos nel mercato obbligazionario del Paese da 21.000 miliardi di dollari. Cinque autorità di vigilanza finanziaria,... Continue reading →


Il vostro Fitbit è inutile - a meno che non acconsentiate alla condivisione illegale dei dati noyb ha presentato tre reclami contro Fitbit. L'azienda di fitness e salute costringe gli utenti delle nuove app ad acconsentire al trasferimento dei dati verso Paesi terzi Fitbit - Agree to data transfers or leave


noyb.eu/it/your-fitbit-useless…



Il pasticcio libico del ministro Tajani evidenzia quanto poco sovranista sia la politica italiana e il livello di improvvisazione subalterna del governo Meloni.


Presidenzialismo, la malafede di chi grida allo scandalo


Il presidenzialismo, si sa, è una delle principali bandiere politiche di Giorgia Meloni: naturale voglia inastarla almeno parzialmente (si tratta di una riforma costituzionale, i tempi di approvazione saranno dunque lunghi) entro le elezioni europee della

Il presidenzialismo, si sa, è una delle principali bandiere politiche di Giorgia Meloni: naturale voglia inastarla almeno parzialmente (si tratta di una riforma costituzionale, i tempi di approvazione saranno dunque lunghi) entro le elezioni europee della prossima primavera. Dell’elezione diretta del capo del governo e del rafforzamento dei suoi poteri si parla da ormai quarant’anni. Sono state costituite a questo scopo commissioni parlamentari mono e bicamerali che non hanno prodotto alcun risultato concreto, sono stati approvati disegni di legge costituzionali poi respinti dagli elettori al momento del relativo referendum confermativo. Quarant’anni di tentativi, quant’anni di fallimenti.

Al punto 3, quello dedicato alle riforme istituzionali, del programma elettorale del centrodestra presentato lo scorso agosto si parla di “elezione diretta del presidente della Repubblica”. Il presidenzialismo, dunque, è stato annunciato agli elettori e (anche) sull’impegno a realizzare una riforma presidenziale la coalizione di centrodestra ha vinto le elezioni. Diversi giornali, alcuni costituzionalisti e quasi tutti i partiti di opposizione hanno cominciato sin dall’inizio della legislatura a raccontare la riforma presidenziale ipotizzata da quella che nel frattempo era diventata la maggioranza di governo come un attacco quasi personale all’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella, di cui peraltro, ma ciò è costituzionalmente irrilevante, è nota la scarsa simpatia verso tale forma di governo sia in quanto costituzionalista sia un quanto uomo politico. Un’interpretazione priva di fondamento costituzionale, oltre che di senso politico. Come se ogni riforma costituzionale approvata a norma di Costituzione dovesse avere l’avallo di chi ricopre la funzione che verrà riformata…

Tuttavia, avendo interesse a mantenere buoni rapporti con l’attuale inquilino del Colle e a far approvare la riforma istituzionale dalla più ampia maggioranza parlamentare possibile, Giorgia Meloni ha tenuto conto di tali obiezioni. È chiaro da mesi, è ancor più chiaro oggi leggendo le prime bozze di riforma redatte dal ministro competente, Maria Elisabetta Casellati. L’ipotesi di eleggere direttamente il presidente della Repubblica è infatti scomparsa. Si parla di elezione diretta del presidente del Consiglio. Il quale, com’è ovvio, assorbirebbe alcuni dei poteri che la Costituzione attribuisce oggi al capo dello Stato, come la nomina e la revoca dei ministri e lo scioglimento delle Camere.

È il segno di una non scontata disponibilità alla mediazione da parte di Giorgia Meloni e del suo governo. Ma i giornali, i costituzionalisti e le forze politiche che menavano scandalo prima lo fanno anche oggi. Né più, né meno.

La realtà, evidentemente, non conta. Conta la rappresentazione della realtà. La realtà che, per come si sta delineando, la modifica della forma di governo che l’esecutivo presenterà al Parlamento non ha nulla di scandaloso: non è una forzatura istituzionale e non rappresenta un’umiliazione dell’attuale presidente della Repubblica. Si limita a dare forma giuridica alla retorica, ad oggi infondata, dell’elezione diretta del capo del governo e ad attribuirgli quei poteri minimi che gli consentono di non subire i ricatti dei partiti che compongono la sua maggioranza. Dunque di assumersi le responsabilità che la funzione presuppone e di durare quant’è politicamente naturale che duri. Si può, naturalmente, non condividere il merito della riforma. Ma chi grida allo scandalo è in malafede.

Formiche.net

L'articolo Presidenzialismo, la malafede di chi grida allo scandalo proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Il futuro dell'Europa, il ruolo dei liberali e il problema italiano. L'articolo di Piero Cecchinato

@Politica interna, europea e internazionale

Per avere voce in capitolo ed evitare che per formare una maggioranza si debba guardare anche a forze che intendono retrocedere nel processo di integrazione, è necessario che i liberali che si iscrivono in Europa nel gruppo di Renew Europe eleggano il maggior numero di deputati possibile.

Renew Europe è il gruppo che al Parlamento europeo raccoglie i deputati eletti in partiti a loro volta iscritti ai gruppi politici dell’Alleanza dei liberali e democratici europei (Alde) e del Partito democratico europeo (PDE), che sono membri partner di Renew Europe.

Ebbene, per quanto riguarda l’Italia, gli ultimi sondaggi sono impietosi: oggi i liberaldemocratici non eleggerebbero alcun deputato.

Il post completo

Stizzah doesn't like this.



Golpe in Gabon dopo le elezioni. I militari prendono il controllo


Sciolte le istituzioni. L’esercito non riconosce la vittoria, dopo 14 anni di potere, del presidente uscente Ali Bongo Ondimba. L'articolo Golpe in Gabon dopo le elezioni. I militari prendono il controllo proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

Pagine Esteri, 30 agosto 2023. “Tutte le istituzioni della Repubblica sono sciolte: il governo, il Senato, l’Assemblea nazionale e la Corte costituzionale. Invitiamo la popolazione a rimanere calma e serena e riaffermiamo la volontà di rispettare gli impegni del Gabon nei confronti della comunità internazionale”, così i militari in un videomessaggio mandato in onda a ripetizione sulle reti televisive del Paese.

Dopo quattordici anni di potere, il presidente Ali Bongo Ondimba è stato riconfermato, il 26 agosto, dall’esito delle ultime elezioni, reso pubblico pochi minuti prima del colpo di stato. La coalizione avversaria, rappresentata da un unico candidato, ha denunciato brogli elettorali e manipolazione dei dati. I risultati ufficiali avevano visto Ali Bongo Ondimba ottenere il 64,27% dei voti e il suo sfidante, Albert Ondo Ossa, raggiungere il 30,77%.

9015347
Ali Bongo Ondimba

I dieci militari apparsi dinanzi alle telecamere si sono autoproclamati membri del “Comitato per la Transazione e il ripristino delle istituzioni” e hanno accusato il governo di Ali Bongo Ondimba di portare il Paese nel caos, di minare la coesione sociale in maniera irresponsabile.

9015349
Albert Ondo Ossa

Colpi di arma da fuoco sono stati uditi prima e dopo la dichiarazione ufficiale dei militari ma non giungono per il momento notizie di scontri. Anzi, sono stati diffusi sui social video di festeggiamenti, cortei di persone che sventolano le bandiere e intonano slogan celebrativi sulla “liberazione” del Paese. Il nascente Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni ha invitato la popolazione a mantenere la calma. Prima di Ali, salito al potere nel 2009, il governo è stato presieduto da suo padre Omar, al potere dal 1967.

Freedom in #Gabon pic.twitter.com/Q5Zc7qe4M2

— African (@ali_naka) August 30, 2023

Il presidente Ali Bongo Ondimba e la sua famiglia sono stati arrestati ma non si trovano in regime di massima sicurezza: nel primo pomeriggio (ora italiana) di oggi, il presidente ha registrato un breve video in cui chiede in inglese agli “amici di ogni parte del mondo” di “fare rumore”. “Non so cosa accadrà, vi chiedo di fare rumore. Vi ringrazio”.

pagineesteri.it/wp-content/upl…

Le frontiere sono state chiuse. È presente, in Gabon, un contingente militare francese, Stato che più di tutti è interessato a mantenere rapporti stabili con il governo o chi per esso lo controlli. Il Gabon è particolarmente importante per i piani di politica estera francese all’interno del continente africano.

Il colpo di stato in Gabon è l’ottavo in tre anni nella zona dell’Africa centrale e occidentale. I militari hanno preso il potere, tra gli altri Paesi in Niger, Mali, Guinea, Burkina Faso e Ciad.

9015351
Ali Bongo Ondimba con il presidente francese Emmanuel Macron

La presenza italiana in Gabon

La presenza italiana più significativa in questo paese è rappresentata dal colosso energetico ENI: a partire del 2008 sono stati conclusi sei contratti di esplorazione e nell’estate 2014 è stata annunciata un’importante scoperta di gas e condensati a circa 13 chilometri di distanza dalla costa gabonese e a 50 chilometri dalla capitale Libreville. ENI, inoltre, vende in Gabon lubrificanti attraverso contratti di compravendita tramite le società DIESEL e ECIG.

Altre aziende di proprietà di gruppi economici italiani operano neli settori dello sfruttamento di legname, nella ristorazione, nelle costruzioni, nell’arredamento e nel turismo.

9015353
Il 17 febbraio 2023 il pattugliatore Foscari della #Marina militare italiana in sosta a #Libreville. A bordo ospitati il Segretario Generale della Difesa gabonese Dieudonné Pongui e il Capo di Stato Maggiore della Marina ammiraglio Charles Bekale Meyong

Il 17 febbraio 2023 il pattugliatore portaelicotteri “Foscari” della Marina Militare impegnato in operazioni antipirateria nel Golfo di Guinea aveva fatto sosta a Libreville. In quell’occasione l’ambasciatore d’Italia in Gabon, Gabriele Di Muzio, aveva accompagnato il Segretario Generale del Ministero della Difesa gabonese, Dieudonné Pongui, ed il Capo di Stato Maggiore della Marina gabonese, Charles Bekale Meyong, a visitare l’unità da guerra italiana. A bordo del “Foscari” il dottore Di Muzio ha consegnato al direttore dell’Ospedale di Akanda tre ventilatori polmonari donati dall’Italia.

Il pattugliatore portaelicotteri è stato il quarto vessillo militare che ha fatto tappa in Gabon: la prima visita ufficiale risale al novembre 2021 con la fregata “Marceglia”, a cui ha fatto seguito la fregata “Rizzo” nell’aprile 2022 ed il pattugliatore portaelicotteri “Borsini” nel novembre 2022. Per testimoniare “la stretta amicizia e la collaborazione tra Roma e Libreville”, sul “Borsini” erano stati ospitati il rappresentante del ministro della Difesa gabonese, generale Jude Ibrahim Rapontchombo, ed il vice capo di Stato maggiore della Marina gabonese, ammiraglio Roland Tombot Mayila.

Italia e Gabon hanno sottoscritto a Roma il 19 maggio 2011 un Accordo quadro di cooperazione nel settore della difesa, in attesa di ratifica da parte del Parlamento. Il Memorandum per la Cooperazione nel campo dei materiai della difesa, firmato nella stessa giornata, è invece entrato automaticamente in vigore. Pagine Esteri

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo Golpe in Gabon dopo le elezioni. I militari prendono il controllo proviene da Pagine Esteri.



Dopo i passi compiuti da molti media in lingua inglese, una serie di gruppi di media francesi, tra cui Radio France e France24, hanno deciso di bloccare una funzione del GPTBot di OpenAI per la raccolta dei loro contenuti online....


Ignoranza titolata


Anche qui si è fatto un sogno, visto che c’è la ricorrenza. Abbiamo sognato che un giovane diplomato, oramai maggiorenne, abbia deciso di portare in tribunale la scuola italiana. Abbiamo sognato le sue parole: signor giudice, mi hanno sempre promosso, mi

Anche qui si è fatto un sogno, visto che c’è la ricorrenza. Abbiamo sognato che un giovane diplomato, oramai maggiorenne, abbia deciso di portare in tribunale la scuola italiana. Abbiamo sognato le sue parole: signor giudice, mi hanno sempre promosso, mi hanno anche detto che ero bravino, ho passato la maturità con un ottimo voto, poi ho fatto i test Pisa ed è risultato che sono un analfabeta, incapace nel far di conto; quindi, signor giudice, sono stato truffato e chiedo giustizia.

I risvegli sono talora traumatici: sono i genitori a portare la scuola in tribunale, avverso le pochissime bocciature esistenti. Si lascia così agli atti quel che si chiede di avere: l’ignoranza titolata, detta anche: ignoranza di cittadinanza.

In questo modo gli svantaggiati restano tali e i protetti anche. Nessuna indignazione scalfisce l’indifferenza e la scuola resta un assumificio senza costrutto, ove si proclama il merito senza entrare nel merito. Poi non ci si chieda da dove arrivi la classe digerente.

L'articolo Ignoranza titolata proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



– Emiliano Brancaccio, 30.08.2023 - Stato/Economia - Se osserviamo l’impatto delle manovre di bilancio pubblico sulle diverse classi sociali, noteremo


Golpe in Gabon dopo le elezioni. I militari prendono il controllo


Sciolte le istituzioni. L’esercito non riconosce la vittoria, dopo 14 anni di potere, del presidente uscente Ali Bongo Ondimba. L'articolo Golpe in Gabon dopo le elezioni. I militari prendono il controllo proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

Pagine Esteri, 30 agosto 2023. “Tutte le istituzioni della Repubblica sono sciolte: il governo, il Senato, l’Assemblea nazionale e la Corte costituzionale. Invitiamo la popolazione a rimanere calma e serena e riaffermiamo la volontà di rispettare gli impegni del Gabon nei confronti della comunità internazionale”, così i militari in un videomessaggio mandato in onda a ripetizione sulle reti televisive del Paese.

Dopo quattordici anni di potere, il presidente Ali Bongo Ondimbaè stato riconfermato, il 26 agosto, dall’esito delle ultime elezioni. La coalizione avversaria, rappresentata da un unico candidato, ha denunciato brogli elettorali e manipolazione dei dati. I risultati ufficiali avevano visto Ali Bongo Ondimba ottenere il 64,27% dei voti e il suo sfidante, Albert Ondo Ossa, raggiungere il 30,77%.

9011374
Ali Bongo Ondimba

I dieci militari apparsi dinanzi alle telecamere si sono autoproclamati membri del “Comitato per la Transazione e il ripristino delle istituzioni” e hanno accusato il governo di Ali Bongo Ondimba di portare il Paese nel caos, di minare la coesione sociale in maniera irresponsabile.

Colpi di arma da fuoco sono stati uditi prima e dopo la dichiarazione ufficiale dei militari ma non giungono per il momento notizie di scontri. Il nascente Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni ha invitato la popolazione a mantenere la calma. Prima di Ali, salito al potere nel 2009, il governo è stato presieduto da suo padre Omar, al potere dal 1967.

9011376
Albert Ondo Ossa

Le frontiere sono state chiuse. È presente, in Gabon, un contingente militare francese, Stato che più di tutti è interessato a mantenere rapporti stabili con il governo o chi per esso lo controlli. Il Gabon è particolarmente importante per i piani di politica estera francese all’interno del continente Africano. Pagine Esteri

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo Golpe in Gabon dopo le elezioni. I militari prendono il controllo proviene da Pagine Esteri.



STORIA. Il femminismo panarabo e l’identità palestinese (seconda parte)


Le attiviste delle associazioni femminili che lavoravano autonomamente per la costruzione nazionale della Palestina, senza dipendere da organizzazioni maschili, si sentivano come le vere responsabili del futuro della loro nazione. L'articolo STORIA. Il f

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

(Foto: Gerusalemme, alcune delle oltre 200 delegate palestinesi del primo Congresso delle Donne Arabe (1929) che organizzano una spettacolare manifestazione a bordo di una serie di automobili per farsi portare in giro per la città a consegnare le loro risoluzioni sulla causa nazionale a vari consolati stranieri, ovvero per chiedere l’indipendenza della Palestina).

di Patrizia Zanelli*

Pagine Esteri, 30 agosto 2023. I teorici primari della palestinesità percepirono la sacralità del territorio della Palestina come la quintessenza dell’identità culturale della loro stessa società palestinese in piena Nahḍa; sapevano che sin dal medioevo i palestinesi si erano sempre indicati come Ahl al-Arḍ al-Muqaddasa “La Gente della Terra Santa”. Sanbar precisa che non si sentivano degli eletti, bensì come i custodi e protettori, nonché proprietari dei luoghi sacri delle tre fedi monoteiste presenti nel loro paese, teatro delle scritture rivelate. Nella percezione di un’identità collettiva è insito un senso di possesso del territorio in cui si vive e fa parte della popolazione autoctona. Il primo significato del lemma ahl è “famiglia”; infatti, Masalha nota che i palestinesi si indicavano anche come Abnā‘ Filasṭīn, “I Figli della Palestina”; si identificavano con lei, la loro madre terra. In realtà, espressioni simili si usano da sempre nel mondo arabofono per indicare appunto la popolazione autoctona di un paese. Il lemma sha‘b, “popolo”, iniziò a essere usato soltanto nel ‘900 nel linguaggio politico dei vari nazionalismi arabi, nati per la liberazione dal colonialismo europeo o/e in certi casi dall’imperialismo ottomano.

Ogni cultura è frutto di un continuo processo di transculturazione, dunque è culturalmente ibrida; la lingua, quale mezzo espressivo ed elemento fondante della cultura stessa, cambia col tempo specialmente a livello lessicale; tali cambiamenti linguistici implicano talvolta una ridefinizione dell’identità culturale del gruppo umano costituito dalla comunità di parlanti che la parlano.

La questione identitaria fu al centro dei discorsi sia femministi che nazionalisti elaborati nell’ambito della Nahḍa, il che comportò la nascita di un lessico politico arabo moderno, nato soprattutto tramite le traduzioni arabe di testi di illuministi francesi: Montesquieu, Rousseau e Voltaire. Furono usati il lemma waṭan, “patria” o “casa”, per tradurre “patriottismo” (waṭaniyya), e il lemma qawm, “popolo, “razza” o “tribù”, per rendere “nazione” e, quindi, “nazionalismo” (qawmiyya). Al lemma umma, “comunità”, derivato da umm, “madre”, fu altresì conferita la nuova accezione di “nazione”.

Pur avendo chiaramente significati diversi, questi termini politici talvolta vengono interscambiati; è un’ambiguità terminologica che esiste in molte lingue e culture e può essere politicamente pericolosa. In epoca coloniale, infatti, il nazionalismo, concetto nato con la Rivoluzione francese, in più casi si fuse con il darwinismo sociale, degenerando in ultranazionalismi fondati sul razzismo, l’etnocentrismo e la xenofobia, componenti essenziali del colonialismo europeo e di altri imperialismi.

Il mondo arabo non è monolitico, bensì eterogeneo, il che vale anche per i discorsi femministi e nazionalisti elaborati nell’ambito della Nahḍa. Esistono infatti da sempre importanti differenze geo-climatiche, storico-politiche, socio-culturali e perfino linguistiche tra un paese e l’altro e una micro-area e l’altra del vasto dominio arabofono.

La sacralità del territorio della Palestina determinò le particolarità locali del proto-femminismo e del proto-nazionalismo territoriale, emersi a fine ‘800 nella società urbana palestinese, all’interno della quale il bilinguismo era ormai normale ed era piuttosto diffuso anche il poliglottismo. Tutte le città del paese erano cosmopolite specialmente grazie alla varietà della strutture scolastiche moderne che vi erano state create a partire dagli anni 1860. I dirigenti palestinesi ovviamente conoscevano i discorsi che circolavano nelle cancellerie delle maggiori potenze mondiali dell’epoca; infatti, avevano subito capito che la loro intera società rischiava di subire una sostituzione etnica. Come precisa Sanbar, sapevano anche che la prima ondata migratoria ebraica in Palestina, iniziata nel 1882, aveva uno scopo puramente religioso e temevano che le colonie fondate dai neoarrivati immigrati ashkenaziti scatenassero nel Vicino Oriente un antiebraismo, al quale loro stessi posero freno, tentando la via del dialogo a livello diplomatico.

Le femministe e i nazionalisti modernisti palestinesi volevano preservare la loro cultura autoctona, costituita dalle tradizioni delle tre fedi monoteiste e, dunque, ecumenica. Le stesse attiviste delle associazioni femminili lavoravano, però, autonomamente per la costruzione nazionale della Palestina, senza dipendere da organizzazioni maschili, e si sentivano come le vere responsabili del futuro della loro nazione.

In generale, le donne hanno sempre lavorato almeno tra le mura domestiche e, quindi, svolto un ruolo importante nella società, ma il loro lavoro non è riconosciuto né è conosciuta la loro Storia, perché è perlopiù esclusa dalla storiografia scritta e trasmessa oralmente. Gli studi post-coloniali sul femminismo arabo – che, come quello nato in Occidente, assunse inizialmente la forma dell’associazionismo filantropico femminile – si basano perciò in parte su testimonianze orali, particolarmente necessarie per il caso palestinese. Numerosi documenti furono infatti distrutti od occultati durante la Nakba; le molteplici implicazioni della catastrofe, replicata e aggravata dalla guerra lanciata da Israele nel ’67, per occupare la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e la striscia di Gaza, rendono difficile ricostruire la Storia della modernizzazione culturale della Palestina. È impossibile calcolare quante fonti storiche siano andate perdute per sempre; per via della diaspora palestinese, quelle sopravvissute sono sparse in giro per il mondo, e le informazioni reperite sono comunque frammentarie; lo afferma Fleischmann, precisando che l’apertura degli archivi militari israeliani e inglesi negli anni ’80 non fu sufficiente a colmare tale lacuna. Un altro fenomeno traumatizzante implicato dalla Nakba sta nel fatto che i palestinesi rimasti nella porzione del territorio della propria patria, appena divenuta Israele, dovettero rinunciare alla loro identità nazionale, diventando cittadini israeliani in effetti discriminati come gruppo umano; il governo del neo-fondato Stato ebraico applicò nei loro confronti una politica di apartheid che durò quasi vent’anni; poi fu allentata ma mai abolita.

9009630
Gerusalemme, 1906: Khalil al-Sakakini e la sorella Melia al-Sakakini, futura leader della Nahḍa femminile palestinese.

Generalmente, per le donne e gli uomini palestinesi d’ogni classe sociale che avevano lottato per l’indipendenza del loro paese, protestando contro il mandato britannico e il colonialismo d’insediamento sionista, la perdita della patria rimase una ferita mai rimarginata, e il ricordo della Palestina pre-1948 un dolore inconsolabile. Soffrirono a lungo e in molti casi per sempre di stress post-traumatico; quindi, raramente riuscivano a parlare del trauma che avevano vissuto e della loro vita precedente. È perciò difficile comprendere appieno le esperienze delle pioniere del femminismo palestinese; quasi tutte furono costrette a lasciare la patria nel ’48; di alcune non si conoscono neppure le date di nascita e/o morte.

Le leader più famose sono Sadhij Nassar (1900-1960) e Maryam al-Khalil di Haifa, Anisa Subhi al-Khadra (1897-1955) e la letterata Asma Tubi (1905-1983), entrambe attive ad Acri, Adele Shamat Azar (1886-1968) di Giaffa e Maryam Hashim di Nablus. La più politicizzate sono le attiviste dell’associazione femminile di Gerusalemme che svolsero un ruolo politico avanguardista nella lotta per l’indipendenza della Palestina nel periodo mandatario: Matiel Mughannam (1899-1992) – autrice di The Arab Woman and the Palestine Problem (1937) –, Zulaykha Ishaq al-Shihabi (1903-1993), Shahinda Duzdar (1906-1946), Zahiyya Nashashibi (1904-1973), Melia al-Sakakini (1890-1966), Ni’mati al-Alami (1895-?), Tarab ‘Abd al-Hadi (1910-1976) e altre ancora, come Fatima e Khadija al-Husayni, appartenenti all’aristocrazia gerosolimitana..

Per ricostruire la Storia del femminismo palestinese dell’epoca della Nahḍa, è però necessario esaminare i vari fattori sfociati nella Nakba e quindi fare un notevole salto indietro nel tempo.

Sanbar sottolinea l’importanza della posizione geografica della Palestina: epicentro regionale, punto d’incontro dei tre vecchi continenti, situato tra il Mediterraneo e il Mar Rosso e il fiume Giordano, attraversante il Mar Morto e il lago di Tiberiade, facilmente accessibile da ogni direzione e, sin dalla proto-storia, meta di migrazioni e oggetto di ambizioni straniere. A partire dalla conquista islamica del 638 d.C. è la Terra Santa delle tre fedi monoteiste, e “Gerusalemme è al centro di questa geografia sacra”. Com’è evidente, inoltre, pur essendo un paese piccolo, la Palestina storica è culturalmente un importante crocevia di civiltà.

La cultura autoctona palestinese è, perciò, frutto di molteplici processi di transculturazione; oltre a questa complessità, è soprattutto la sacralità del territorio in cui è nata a renderla unica; i teorici primari della palestinesità ne colsero subito l’essenza; si basarono su teorie storiografiche, geo-deterministe e socio-linguistiche e su studi folkloristici per definirla.

Uno di loro è il letterato, pedagogo e attivista gerosolimitano Khalil al-Sakakini (1878-1953) che, nel 1909, fondò a Gerusalemme la pionieristica Scuola Costituzionale in cui adottò un metodo educativo incentrato sulla psicologia dell’infanzia; infatti non venivano dati voti agli alunni delle tre fedi monoteiste che la frequentavano. Sua figlia Hala al-Sakakini (1924-2002), in un’intervista rilasciata a Fleischmann nel 1992, dichiarò “Perfino noi cristiani siamo culturalmente musulmani […] L’Islam è una cultura che ci unisce”. In questa dichiarazione, indicativa del pensiero delle femministe palestinesi dell’epoca della Nahḍa, proprio come la succitata Melia al-Sakakini – sorella di Khalil – [9], si nota l’influenza del panarabismo, facilmente accolta nella definizione dell’identità culturale palestinese, e ne conferma la complessità, dovuta anche a ragioni storico-linguistiche. L’arabo era infatti presente nella Palestina cristiano-bizantina sin dall’età preislamica (V-VI secolo d.C.), cioè prima che la nuova religione rivelata arrivasse nel paese, dove, come ai tempi della predicazione di Gesù di Nazareth, si parlava ancora l’aramaico, altra lingua semitica. Fu quindi facile l’arabizzazione della popolazione palestinese; e in quanto proseguimento dell’ebraismo e del cristianesimo, l’Islam divenne rapidamente la fede monoteista maggioritaria in Terra Santa.

Rashid Khalidi, invece, nel suo famoso saggio, Palestinian Identity, rileva la complessità delle teorie sul nazionalismo e la creazione di un’autocoscienza nazionale moderna [10]. Il senso di appartenenza a un paese, a una realtà territoriale, a una collettività, e non necessariamente a uno Stato-nazione, idea importata dall’Europa nel mondo arabo nell’Ottocento, è un fenomeno sociale molto più antico di quanto si pensi.

9009632
1946, l’intellettuale gerosolimitano Khalil al-Sakakini, con le figlie, Hala alla sua sinistra e Dumia a destra della foto, e la sorella Melia al-Sakakini – una delle prime femministe del Nahḍa femminile palestinese – in mezzo alle due nipoti; sono sul balcone di casa loro nel quartiere al-Qaṭamūn di Gerusalemme.

Come nota Sanbar, è storicamente documentato che nella Palestina medievale la società palestinese era già straordinariamente unita. Da allora in poi la gente del paese continuò a celebrare insieme tutte le festività delle tre fedi monoteiste; musulmani, cristiani ed ebrei condividevano perfino i luoghi di culto; pregavano indifferentemente in moschee, chiese e sinagoghe. Era una spiritualità condivisa, tipica del “carattere popolare palestinese”, ma non un sincretismo; ogni comunità religiosa seguiva la propria religione. I musulmani si facevano battezzare, perché volevano ricevere una benedizione di Dio; i preti si limitavano a immergere loro le mani nell’acqua. Il sufismo, dottrina e pratica della spiritualità islamica, prolungamento naturale della mistica ebraica e cristiana, non a caso si era diffuso subito in Palestina, dove sin dal medioevo vi era stata una fioritura di monasteri fondati da confraternite sufi, che avevano ispirato numerose conversioni all’Islam. A partire dal X secolo il paese fu oggetto di una serie di guerre di conquista compiute via via dagli eserciti dei Fatimidi, dei Selgiuchidi, delle crociate promosse dalla Chiesa di Roma, degli Ayyubidi, dei Mamelucchi e degli Ottomani. Ognuna di queste invasioni straniere era stata progettata dal rispettivo invasore per fattori legati alla geografia sacra della Palestina e specialmente all’importanza di Gerusalemme per le tre fedi monoteiste.

La società palestinese manifestò, invece, la tipica coesione interconfessionale anche mentre stava per sperimentare il passaggio dalla tradizione alla modernità. A tal riguardo Masalha spiega fatti interessanti avvenuti nel ‘700, rilevando che Zahir al-Umar apparteneva a una modesta famiglia musulmana di un villaggio della Galilea e non alla tradizionale signoria urbana e latifondista che dominava la Palestina e doveva la sua legittimità agli ottomani. I notabili, signori feudali, definiti a‘yān, ricevevano spesso per meriti militari il titolo onorifico turco aghà dal sultano di turno dell’Impero; erano in sostanza vassalli della Turchia. Da giovane al-Umar aveva ereditato dal padre la funzione di esattore delle tasse sui terreni agricoli da versare alla tesoreria ottomana; conosceva la vita difficile della sua gente. Aveva ricevuto una qualche forma d’istruzione, ma era più che altro un autodidatta; lavorando, maturò competenze politiche, diplomatiche e finanziarie. Intorno al 1730, si ribellò alla Porta riuscendo, con il sostegno popolare, a prendere il potere in Galilea e nel resto della Palestina per liberarla dalla dipendenza dagli ottomani che imponevano una tassazione eccessiva sulle proprietà fondiarie; vero leader carismatico, divenne subito un eroe per la stragrande maggioranza delle famiglie palestinesi. Lo stesso al-Umar sapeva di poter contare sulla tipica coesione interconfessionale della sua società, per realizzare i suoi grandi progetti per il futuro; voleva ridurre le forti sperequazioni socio-economiche esistenti nel paese, mettendo fine anzitutto allo sfruttamento dei contadini. Guidò in tempi non sospetti la prima lotta indipendentista palestinese nella Storia della Palestina che, come già detto, lui trasformò in un proto-Stato semi-indipendente. Da viceré, governò il paese, adottando politiche sociali e un nuovo sistema fiscale che gli permisero di ottenere una crescente popolarità; fu naturalmente sostenuto anche dall’importante comunità cristiana di Nazareth, donne incluse che fornivano cibo e cure alle sue truppe. Masalha precisa che al-Umar, con la sua esperienza di autogoverno davvero rivoluzionaria, creò le premesse per la Nahḍa ottocentesca palestinese [11].

[9] Melia al-Sakakini era una docente; aveva frequentato la Scuola Araba Ortodossa nella Città Vecchia di Gerusalemme e poi l’Istituto Femminile di Formazione Pedagogica di Beit Jala. Una volta diplomata, insegnò in varie scuole pubbliche e divenne preside di una scuola a Giaffa. Visse sempre con la famiglia del fratello Khalil al-Sakakini che l’aveva cresciuta dopo la morte di loro padre. Fu una delle prime attiviste del movimento femminile palestinese; nel 1920, guidò un corteo di donne gerosolomitane in una marcia di protesta contro la Dichiarazione Balfour e il mandato britannico. Durante la Nakba, l’intera famiglia di Khalil al-Sakakini – che, nel 1939, era rimasto vedovo della moglie Sultana, da cui aveva avuto il primogenito Sari, e due figlie, Hala e Dumia, – fu espulsa dalla propria casa nel quartiere al-Qaṭamūn nell’Ovest di Gerusalemme e costretta da paramilitari sionisti a fuggire dalla città, il 30 aprile 1948, cioè prima della fondazione d’Israele. L’intellettuale palestinese pensava di poterci tornare; ma, violando il diritto al ritorno dei profughi palestinesi sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu (11/12/1948), le autorità israeliane non glielo permisero. Perciò fu espropriato per sempre della sua casa e di tutto ciò che conteneva, inclusa la sua prestigiosa biblioteca privata. La famiglia visse poi a Ramallah. Si veda: Hala Sakakini, Jerusalem and I: A Personal Record, Economic Press, 1990.

[10] Rashid Khalidi, Palestinian Identity: the Construction of Modern National Consciousness, Columbia University Press, 1997.

[11] Nur Masalha, Palestine: a Four Thousand Year History, Zed Books, 2018.

______________

*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui i romanzi Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e Atyàf: Fantasmi dell’Egitto e della Palestina (Ilisso, 2008) della scrittrice egiziana Radwa Ashur, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo STORIA. Il femminismo panarabo e l’identità palestinese (seconda parte) proviene da Pagine Esteri.



PRIVACYDAILY


N. 147/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: X Corp., già Twitter, chiede al tribunale di ordinare alla società di consulenza Ernst & Young LLP di consegnare i documenti relativi a una relazione richiesta dalle autorità di regolamentazione sulle pratiche del social network in materia di dati.L’audit è stato richiesto nell’ambito di un accordo sulla privacy... Continue reading →


Weekly Chronicles #43


Proof of Work, digital collars and leashes and forced re-education camps.

Scroll down for the english version

Tor introduce la Proof of Work contro il DoS


Con la release 0.4.8 Tor introdurrà un meccanismo di Proof of Work (PoW) per dare priorità a traffico verificato e mitigare così l’impatto degli attacchi Denial of Service che interessano la rete Tor da ormai molto tempo.

Il meccanismo di protezione è semplice ma efficace: prima di accedere a un servizio onion il client deve dimostarre di aver risolto un piccolo puzzle matematico. All’aumentare delle richieste aumenterà anche il lavoro richiesto. Per un utente normale questo non dovrebbe richiedere più di qualche millisecondo, ma per chi invece indirizza numerose richieste verso lo stesso servizio (come le reti di bot che compiono attacchi DoS) il costo aumenta esponenzialmente, rendendo difficoltoso e costoso l’attacco (in termini di tempo, e quindi denaro).

Support Privacy Chronicles, subscribe today!

Il problema del DoS però non è altro che una sfaccettatura dell’annoso problema, ben più ampio, della distinzione tra umani e bot su Internet.

Essendo Tor un servizio nato per offuscare l’identità fisica e la posizione geografica degli utenti, la via per distinguere umani e bot non poteva certo essere quella del KYC — come proposto ad esempio da Sam Atman con il progetto “Worldcoin”.

Nei prossimi mesi e anni dovremo aspettarci sempre più pressione da parte di aziende, governi e organizzazioni per risolvere questo problema. Forse la community crypto (mi riferisco in particolare a Bitcoin e Monero) dovrebbe iniziare a pensare seriamente a modi per sfruttare questi network per dimostrare la propria umanità online senza cedere privacy.

Collari e guinzagli digitali per migranti illegali


Il governo inglese sta pensando a nuovi modi per gestire i migranti illegali che arrivano nel paese. La nuova legge in materia, l’Illegal Migration Act, prevede infatti il potere di trattenere e controllare ogni migrante irregolare e richiedente asilo.

L’idea è quella di attaccare al migrante di turno una targhetta GPS (immagino con una sorta di braccialetto elettronico non facilmente rimovibile) che permetta di tracciarli in tempo reale sul territorio.

Collari e guinzagli digitali per i nuovi schiavi del welfare. Qualcuno dovrà pur servire e lavorare per la gerontocrazia europea negli anni che verranno. Quale modo migliore per aprire una finestra di Overton sulla nuova schiavitù se non abituare le persone ad accettare collari e guinzagli digitali per il fatto di avere la pelle scura e venire da un altro continente? Vi ricorda niente?

La ri-educazione forzata di Jordan Peterson


Tre giudici della Ontario Divisional Court hanno deciso che Jordan Peterson, celebre psicologo canadese, sarà costretto a seguire un corso di rieducazione sulla “comunicazione professionale sui social” per non perdere la sua licenza.

La questione nasce da una causa portata vanti dal College of Psychologists of Ontario a seguito di alcune affermazioni di Peterson sul Joe Rogan Podcast e su X riguardo il movimento LGBTQ+, il cambiamento climatico e diverse dichiarazioni contro alcuni politici canadesi e Trudeau, che ha recentemente chiamato “lying climate-apocalypse mongers”.

Peterson ha commentato così su X la decisione dei giudici:

"So the Ontario Court of Appeal ruled that @CPOntario can pursue their prosecution. If you think that you have a right to free speech in Canada, you're delusional. I will make every aspect of this public. And we will see what happens when utter transparency is the rule. Bring it…"


I buoni ancora una volta si distinguono per ciò che sono: tirannici, violenti, e completamente intenti nel silenziare qualsiasi opinione divergente. Esprimere il tuo pensiero non è vietato, ma potrebbe essere poco carino. Meglio se stai zitto. E se proprio non ci riesci, ti aiutano loro. Magari con un bel campo di rieducazione forzata.

Sul silenzio forzato ne ho scritto proprio settimana scorsa…

Weekly memes


231905


231906


231907


Weekly quote

The truth is something that burns. It burns off dead wood. And people don't like having the dead wood burnt off, often because they're 95 percent dead wood.

Jordan Peterson

Support Privacy Chronicles!


One way to support Privacy Chronicles is to share this article with your friends and acquaintances and leave a like or a comment! Another way is to subscribe (with Bitcoin as well) for the equivalent of a monthly breakfast.

Or, you can make a voluntary donation in sats by scanning this QR Code:

9008289
Scan the QR Code or click here!

English version

Tor Introduces Proof of Work against DoS Attacks


With the release of version 0.4.8, Tor will introduce a Proof of Work mechanism to prioritize verified traffic and thereby mitigate the impact of Denial of Service (DoS) attacks that have been affecting the Tor network for a considerable amount of time.

The protection mechanism is simple yet effective: before accessing an onion service, the client must solve a small mathematical puzzle to demonstrate that they have performed the required "work." As the volume of requests increases, so does the required work. For a regular user, this should take no more than a few milliseconds. However, for those directing numerous requests to the same service (such as botnets), the cost increases exponentially, making the attack difficult and costly in terms of both time and money.

The issue of DoS is just one facet of the longstanding, broader problem of distinguishing between humans and bots on the Internet.

Given that Tor is a service designed to obscure users' physical identity and geographical location, the path forward could not involve Know Your Customer (KYC) measures – as proposed, for example, by Sam Atman with the "Worldcoin" project.

In the coming months and years, we should expect increasing pressure from companies, governments, and organizations to address this problem. Perhaps the crypto community (specifically referring to Bitcoin and Monero) should seriously start considering ways to leverage these networks to prove humanity online without compromising privacy.

Digital collars and leashes for illegal migrants


The UK government is considering new ways to better manage illegal migrants entering the country. The new legislation, the Illegal Migration Act, grants the power to detain and monitor every irregular migrant and asylum seeker.

The idea is to attach a GPS tag to each migrant, presumably in the form of an irremovable electronic bracelet, allowing real-time tracking within the territory.

Digital collars and leashes for the new slaves of the welfare system. Someone must certainly serve and work for the European gerontocracy in the years to come. What better way to push the Overton Window towards the concept of new slavery than to condition people to accept digital collars and leashes based on the color of their skin and their origin from another continent? Does this remind you of anything?

The forced re-education of Jordan Peterson


Three judges from the Ontario Divisional Court have ruled that Jordan Peterson, a renowned Canadian psychologist, will be compelled to undergo a re-education course on "professional communication on social media" to avoid losing his license.

The issue arises from a case brought by the College of Psychologists of Ontario following Peterson's statements on the Joe Rogan Podcast and on X regarding the LGBTQ+ movement, climate change, and various criticisms of Canadian politicians, including Trudeau, whom he recently referred to as "lying climate-apocalypse mongers."

Peterson responded to the judges' decision on X with the following comment:

"So the Ontario Court of Appeal ruled that @CPOntario can pursue their prosecution. If you think that you have a right to free speech in Canada, you're delusional. I will make every aspect of this public. And we will see what happens when utter transparency is the rule. Bring it…"


Once again, those who claim to be righteous reveal their true nature: authoritarian, violents, and entirely focused on silencing any dissenting opinions. Expressing one's thoughts might not be prohibited, but it could be unpleasant. It's better to stay quiet. And if you can't manage that, they'll help you. Perhaps with a nice dose of forced re-education.

1 2 3

1

metro.co.uk/2023/08/28/illegal…

2

blog.torproject.org/introducin…

3

nationalpost.com/news/canada/j…


privacychronicles.it/p/weekly-…



Etiopia, USA ed Europa hanno già scelto le sorti per la giustizia e le vittime della guerra genocida in Tigray


Etiopia, le autorità devono garantire agli investigatori indipendenti e ai media accesso illimitato alla regione di Amhara per indagare sulle violazioni in stato di emergenza. Questo è l’appello condiviso venerdì 18 agosto da Amnesty International per la

Etiopia, le autorità devono garantire agli investigatori indipendenti e ai media accesso illimitato alla regione di Amhara per indagare sulle violazioni in stato di emergenza.

Questo è l’appello condiviso venerdì 18 agosto da Amnesty International per la recente crisi che ha destabilizzato con abusi e violenze la regione Amhara.

La diaspora e la società civile amahra ha protestato contro le politche sanguinarie del Premier etiope.

L’ Associaz. All United Amhara il 22 agosto 2023 era presente al Park di Sandton, Johannesburg, in Sud Africa durante il Summit del BRICS 2023.

L' Associaz. All United Amhara il 22 agosto 2023 era presente al Park di Sandton, Johannesburg, in Sud Africa durante il Summit del BRICS 2023.

Indagini sulla responsabilità dei crimini di guerra in Tigray ancora in corso


Percorso ed indagini dell’ International Commission of Human Rights Experts on Ethiopia – ICHREE che per il Tigray non si sono ancora concluse. Il governo etiope ha fatto vari tentativi di bloccare il mandato della Commissione di investigazione sui crimini in Tigray.

Lunedì 21 agosto Wegahta Fact Check denuncia che:

“Il 18 agosto 2023, più di 4.000 persone di etnia tigrina sono state arbitrariamente detenute nel #Tigray occidentale.
Le autorità di Amhara e le forze di sicurezza hanno radunato oltre quattromila tigrini innocenti rimasti nel Tigray occidentale occupato e li hanno tenuti in celle e prigioni sovraffollate.
Secondo le nostre fonti dal Tigray occidentale, 1.200 detenuti sono detenuti ad #Adebay, 130 ad #AdiGoshu, 2.000 a #Humera, 300 a #Rawyan e 500 nelle carceri e nei centri di detenzione di #Baeker.
Tra i detenuti nelle celle e nelle carceri sovraffollate sono bambini vulnerabili, madri incinte e anziani.
Sono stati arrestati perché tigrini, contrari all’occupazione di Amhara e sospettati di condividere informazioni con persone al di fuori del Tigray occidentale.
Alcuni vengono trattenuti per un paio di giorni mentre altri languiscono lì per anni.
Ci è stato anche detto che in questi luoghi di detenzione la tortura e la violenza sessuale contro i detenuti sono una routine.
Da quando è iniziata la guerra dell’#Etiopia contro il #Tigray nel novembre 2020, il Tigray occidentale è stato il luogo delle peggiori atrocità tra cui massacri, bombardamenti indiscriminati, saccheggi,
espulsione forzata su larga scala e stupro sistematico.
Il 20 marzo 2023 il segretario di stato americano @SecBlinken ha stabilito che è stata commessa pulizia etnica nel #WesternTigray. Ma nessuna azione significativa è stata intrapresa contro i responsabili dei crimini.
Il 22 aprile HRW e Amnesty hanno anche riferito che “le forze che controllano la zona del Tigray occidentale, con il sostegno e la complicità delle forze etiopi ed eritree, hanno condotto una prolungata campagna di pulizia etnica contro i residenti del Tigray nell’area.”


Mercoledì 29 agosto fa seguito la denuncia di Marta Hurtado, portavoce dell’ Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani – OHCHR: Etiopia: peggioramento della situazione dei diritti umani Di seguito un sunto:

Siamo molto preoccupati per il deterioramento della situazione dei diritti umani in alcune regioni dell’Etiopia.

Nella regione di Amhara, in seguito al divamparsi degli scontri tra i militari etiopi e le milizie regionali di Fano, e alla dichiarazione dello stato di emergenza il 4 agosto, la situazione è notevolmente peggiorata.

da luglio sono almeno 183 le persone uccise negli scontri.

segnalazioni secondo cui più di 1.000 persone sono state arrestate in tutta l’Etiopia in base a questa legge. Molti degli arrestati sarebbero giovani di etnia Amhara sospettati di essere tifosi di Fano.

arrestati almeno tre giornalisti etiopi che si occupavano della situazione nella regione di Amhara. Secondo quanto riferito, i detenuti sono stati collocati in centri di detenzione improvvisati privi di servizi di base.

almeno 250 cittadini di etnia tigrina sarebbero stati detenuti nell’area contesa del Tigray occidentale.

Tra le continue accuse di violazioni e abusi dei diritti umani, anche la situazione in Oromia è preoccupante.


Un appello congiunto di varie agenzie (quasi nella totalità di origini africane) del 23 febbraio 2023, hanno fatto esplicita richiesta agli stati membri e agli osservatori del consiglio dell’ ONU “affinché blocchino gli sforzi dell’Etiopia per porre fine al mandato dell’ICHREE e per confermare il vostro sostegno all’ICHREE e la protezione dell’integrità del Consiglio per i diritti umani e dei suoi organi incaricati.”

L’UE e i suoi membri difenderanno la giustizia in Etiopia?


Venerdì 25 agosto, Laetitia Bader, direttrice di HRW – Human Rights Watch per il Corno d’Africa si chiede se “L’UE e i suoi membri difenderanno la giustizia in Etiopia?” condividendo le sue osservazioni.

“Quando i combattimenti erano al culmine, l’UE ha contribuito a spingere l’ago sulla responsabilità. Ha guidato la creazione della Commissione internazionale di esperti sui diritti umani sull’Etiopia , un’inchiesta indipendente che raccoglie e preserva prove di crimini internazionali per futuri procedimenti giudiziari sotto il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.

Con il rinnovo della commissione in discussione al Consiglio per i diritti umani di settembre, non è ancora chiaro se l’UE e i suoi Stati membri continueranno a sostenere le indagini cruciali. Oppure, invece, cercare relazioni più fluide e accettare le misure di responsabilità dell’Etiopia, in gran parte di facciata, che difficilmente garantiranno l’accesso delle vittime a una giustizia credibile.”


Lo stesso giorno GCR2P – Global Centre for the Responsibility to Protect pubblica una lettera congiunta con oggetto “Preoccupazioni per la cessazione anticipata della Commissione d’inchiesta sulla situazione nella regione del Tigray della Repubblica Federale d’Etiopia”


Approfondimento: Etiopia, Perseguire Crimini Contro l’Umanità: Dov’é La Legge?


Contemporaneamente un collettivo di diversi gruppi rivolti alla tutela e giustizia dei diritti umani, ha diffuso un appello congiunto esprimendo la loro grave preoccupazione per l’incapacità della Politica di Giustizia Transitoria (TJPE) stabilita in Etiopia.

Nella lettera viene sottolineato:

“Questa politica trascura in modo preoccupante la necessità di ottenere l’approvazione delle vittime, delle comunità direttamente colpite, delle principali parti interessate e dei rappresentanti dei punti caldi delle guerre e delle atrocità, in particolare nel Tigray”


E chiosa:

“Il sistema giudiziario etiope è palesemente privo dell’indipendenza, dell’imparzialità, della capacità e persino della giurisdizione necessarie riguardo alle atrocità commesse dal governo eritreo, necessarie per garantire la responsabilità degli attori statali e delle forze di sicurezza”


Concludendo:

“La dichiarazione congiunta chiede alla comunità internazionale, in particolare ai membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e del Consiglio per i Diritti Umani, di estendere ed espandere il mandato dell’ICHREE. “Crediamo che l’ICHREE sia posizionata in modo unico e meglio attrezzata per stabilire in modo indipendente e imparziale la verità globale, date le limitazioni locali e la mancanza di fiducia nei meccanismi nazionali”
9005658900566090056629005664


A conferma di tale preoccupazione c’è la notizia diffusa da Africa Intelligence che riporta:

“Infelssibile alle critiche, il governo federale continua le sue consultazioni a livello nazionale sulla giustizia di transizione. Il gruppo di lavoro di esperti sulla giustizia di transizione etiope ha inviato una delegazione in Tigray, a Mekelle, Shire, Adigrat, Maichew e Axum all’inizio di questo mese. Durante gli incontri il gruppo è stato accusato dall’ elite tigrina, tra l’altro, di mancanza di inclusività.“


Lunedì 28 agosto 2023 il Dipartimento di Stato Americano segnala che l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa Mike Hammer si recherà a Nairobi, Kenya, e Addis Abeba, Etiopia, dal 28 agosto all’8 settembre, dove incontrerà funzionari kenioti ed etiopi, l’Unione africana, l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo e altri partner internazionali.

Discuterà della crisi in corso in Sudan e degli sforzi regionali e internazionali per porre fine alla violenza, stabilire un governo democratico e sostenere la giustizia e la responsabilità.

In Etiopia, discuterà anche dell’attuazione continua dell’accordo sulla cessazione delle ostilità, nonché solleciterà la protezione dei civili e una risoluzione negoziata dei conflitti in corso nelle regioni di Amhara e Oromia.

Un palliativo diplomatico per rassicurare l’opinione pubblica che gli USA stanno dalla parte della risoluzione pacifica, ma subordinata alla tutela degli accordi e soprattutto delle loro risorse in gioco.

USA ed Europa, da ormai più di 2 anni dallo scoppio della guerra genocida in Tigray, si sono dimostrati bravi a condividere comunicati di preoccupazione diplomatica, nel contempo stando attenti a non compromettere la loro posizione negli accordi pregressi e per quelli futuri con il Paese Etiopia.

I leaders del così detto occidente continuano ad attendere i momenti più propizi in tutela delle risorse riservate in Etiopia. Basti pensare ai numerosi appelli della diaspora tigrina mai accolti o corrisposti, o dei finanziamenti del governo Meloni, pari a 182 milioni per i prossimi 3 anni che sono come briciole per il supporto e lo sviluppo economico dela filiera agro alimentare e del caffé per gli etiopi.

Un caffé macchiato con un po’ di neo colonialismo


La schiavitù economica dell’ Africa mascherata da progetti di sviluppo e cooperazione internazionale.

Il caso Italia Etiopia e la filiera del caffé

Le grandi aziende italiane del caffè nel 2022 hanno fatturato 5,8 miliardi di euro. La Germania per esempio, che NON è produttore di caffé, ne guadagna 6,8 MLD. Oggi la filiera del caffé, mercato florido, sta aumentando sempre più la sua espansione, con la tendenza di un 10% ogni anno per i prossimi 5.

Il gov. Meloni ha ospitato in Italia il Premier etiope Abiy Ahmed Ali. La premier italiana senza preoccuparsi di chiedere giustizia per le 800.000 vittime della guerra genocida di 2 anni in Tigray, ha fatto all-in siglando accordi con l’Etiopia e la sua filiera agro-alimentare per un valore totale di 182 milioni di Euro per 3 anni (2023/2025): 42 MILIONI dedicanti al comparto del caffé.

Il viaggio successivo della PM Meloni ad abbracciare i bambini ad Addis Abeba, sventolanti il tricolore, è stato pura propaganda per vendere il Piano Mattei per l’Africa agli italiani.

Il business del caffé nel mondo è di 460 MILIARDI di dollari con un aumento del 20% nei prossimi 5 anni.

I produttori di caffé nel mondo ricavano un totale di 25 MILIARDI.

La quota dell’AFRICA è di soli 2,4 MILIARDI. (meno della metà del fatturato italiano)

La strategia di USA ed Europa in tutela delle risorse


A conferma della strategia di tutela delle risorse a discapito dei diritti universali degli individui gli USA hanno bloccato una precedente indagine legale per determinare genocidio in Tigray per dare tempo alla “diplomazia” di fare il suo corso per una risoluzione pacifica tra governo etiope e membri del TPLF: è passato un anno prima che arrivasse l’accordo di tregua, mentre prima e anche dopo sono continuati e stanno continuando violenze ed abusi (anche dello stesso accordo). Crimini come stupri, deviazioni degli aiuti alimentari umanitari e attività di pulizia etnica sul popolo civile tigrino da parte delle forze amhara.

L’approccio che traspare dalla politica estera USA ed Europa è che i progetti di cooperazione con l’Africa possono essere assimilati come elemosina che puzza di attività colonialista fornendo supporto allo sviluppo per i popoli africani, mantenendoli nel contempo in costante stato d’emergenza. Le risorse della ricca Africa sono sempre più contese a livello globale.

La guerra in Tigray, l’instabilità in Amhara e in Oromia non possono essere confermate come proxy war, ma sicuramente sono funzionali ai giochi d’interesse di forze esterne allo stato sovrano etiope, che attendono come avvoltoi l’occasione per arrivare alle risorse e al posizionamento geo politico: sia mai che USA ed Europa al segioto si facciano sfuggire l’egemonia nel Corno d’Africa da Cina e Russia, capofila del BRICS e che hanno accolto recentemente anche l’Etiopia.

In tutto questo contesto giustizia e tutela di diritti e della vita di milioni di persone sono ancora in attesa per lasciare spazio per i giochi di potere dei moderni colonialisti.

9005666


tommasin.org/blog/2023-08-30/e…



"Qualcuno avvisi il Presidente Rocca che De Angelis non è un martire del libero pensiero. Le dimissioni erano un atto dovuto e le parole del Presidente Rocca s


Etiopia, “Il marciume è molto più profondo”, decenni di manipolazione degli aiuti umanitari


La polizia regionale del Tigray in Etiopia ha cercato di interrogare almeno tre membri dello staff locale del Programma alimentare mondiale , innescando uno stallo diplomatico con l’agenzia alimentare con sede a Roma – l’ultimo sviluppo nel furto di aiuti

La polizia regionale del Tigray in Etiopia ha cercato di interrogare almeno tre membri dello staff locale del Programma alimentare mondiale , innescando uno stallo diplomatico con l’agenzia alimentare con sede a Roma – l’ultimo sviluppo nel furto di aiuti alimentari che ha devastato il paese all’inizio di quest’anno, secondo tre fonti umanitarie che hanno familiarità con la questione.

L’ agenzia alimentare delle Nazioni Unite – i cui lavoratori godono dell’immunità per le attività ufficiali delle Nazioni Unite – non ha ancora ottemperato alla richiesta e ha chiesto chiarimenti al ministero degli Esteri etiope per determinare se ci siano i motivi per farlo.

Non è chiaro se gli operatori umanitari delle Nazioni Unite siano sospettati di coinvolgimento nell’ampio scandalo sulla deviazione degli aiuti alimentari che ha portato quest’anno alla chiusura delle massicce operazioni di aiuto alimentare delle Nazioni Unite in Etiopia, o se si ritiene semplicemente che siano a conoscenza dello scandalo.

L’ indagine sul Tigray , che ha già portato all’arresto di sospetti, è una delle numerose indagini sulla deviazione illegale di aiuti. L’ Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale , il governo etiope e il WFP hanno tutti indagini in corso su queste trasgressioni.

Un portavoce del WFP ha rifiutato di commentare la richiesta, ma ha affermato che il WFP “si sta impegnando a stretto contatto con le autorità regionali, comprese le autorità regionali del Tigray, nell’ambito delle loro indagini e continuerà a farlo volontariamente e come appropriato, in linea con lo status di WFP come un’organizzazione pubblica internazionale”.

La mossa arriva quasi tre mesi dopo che gli aiuti alimentari sono stati completamente tagliati in Etiopia, un paese dove 20 milioni di persone fanno affidamento su tale assistenza per sopravvivere.

Lo stop è iniziato a marzo, dopo che il WFP e l’USAID hanno scoperto il furto diffuso dei suoi aiuti alimentari in tutto il Tigray, una regione martoriata da due anni di guerra civile e da livelli di fame debilitanti. Ben presto divenne chiaro l’ampiezza del racket e all’inizio di giugno la sospensione degli aiuti alimentari fu estesa a livello nazionale.

Anche se gli aiuti hanno cominciato ad arrivare al Tigray alla fine del mese scorso, il mondo sta ancora cercando di capire di chi è la colpa. Ma per molti la risposta è ovvia.

Tutti sono colpevoli. E non è una novità.

“Se vogliamo analizzare la deviazione degli aiuti, dobbiamo iniziare dall’inizio”, ha affermato David Del Conte, che è stato vicedirettore nazionale dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari in Etiopia dal 2012 al 2016. “ La negazione degli aiuti umanitari e la loro manipolazione sono profondamente radicati nell’esperienza etiope”.

Furti diffusi, colpe diffuse


All’inizio di quest’anno, il WFP e l’USAID hanno trovato più di 7.000 tonnellate di grano rubato e 215.000 litri di olio alimentare nei mercati commerciali del Tigray. A giugno, l’USAID aveva visitato i campi profughi, i mercati dei villaggi e 63 mulini in tutta l’Etiopia, riscontrando vari livelli di furto in ciascun luogo, secondo un portavoce dell’USAID.

Nel Tigray, il dirottamento – così diplomaticamente descritto il furto dal WFP e dall’USAID – è avvenuto in due forme, secondo un esperto del governo americano informato sulla questione. Il primo era l’assistenza alimentare venduta nei mercati commerciali. Il secondo riguarda gli aiuti alimentari forniti al Fronte popolare di liberazione del Tigray, o TPLF, le forze ribelli al centro della guerra biennale nel nord del paese, come sforzo da parte dei funzionari federali per tenere sotto controllo questi gruppi di miliziani.

Altri non sono d’accordo e credono che la deviazione sia stata il risultato della manipolazione diretta da parte del TPLF, sostenendo che la sua leadership ha sostanzialmente controllato il Tigray negli ultimi due anni.

Un portavoce del WFP ha affermato che l’indagine dell’ispettore generale del WFP “non si è conclusa” e che l’agenzia alimentare ha fornito aggiornamenti sui progressi al suo comitato esecutivo, composto da 36 stati membri, e continuerà a farlo. Ma la decisione se rendere pubblici questi risultati è a discrezione dell’ispettore generale, ha aggiunto il portavoce, rendendo non chiaro quante informazioni vedranno la luce.
Un convoglio di camion del WFP che trasportava generi alimentari per le vittime della guerra parcheggiato presso un checkpoint chiuso che porta alla regione del Tigray in Etiopia nel giugno 2021. Foto di: Stringer / ReutersUn convoglio di camion del WFP che trasportava generi alimentari per le vittime della guerra parcheggiato presso un checkpoint chiuso che porta alla regione del Tigray in Etiopia nel giugno 2021. Foto di: Stringer / Reuters
La crisi degli aiuti ha gettato un’attenzione poco lusinghiera sui controlli lassisti sulla distribuzione del cibo e di altri aiuti internazionali nelle zone di crisi. Gli alti funzionari del WFP si sono incontrati a porte chiuse la scorsa settimana per discutere le preoccupazioni circa le prospettive di diversione degli aiuti in tutta la regione, tra cui Somalia, Sudan e Sud Sudan, ha aggiunto il funzionario.

Funzionari delle Nazioni Unite affermano di non avere alcuna indicazione che la crisi degli aiuti in Etiopia si sia diffusa ad altri paesi. Ma notano che anche prima dell’ultimo scandalo avevano già iniziato una revisione globale delle loro operazioni in 31 stazioni di servizio. Le lezioni apprese da questo esercizio verranno infine applicate a tutte le operazioni del WFP in tutto il mondo.

Il WFP “rivede costantemente le sue operazioni globali per migliorare il modo in cui forniamo e forniamo supporto in modo efficace ed efficiente”, ha detto a Devex il portavoce del WFP. “Pertanto, il WFP sta conducendo una revisione globale per rafforzare la nostra già solida supervisione e i nostri controlli per garantire che l’assistenza alimentare e umanitaria venga ricevuta solo dai destinatari previsti, ovunque lavoriamo”.

“Non temiamo che la situazione ancora oggetto di indagine in Etiopia abbia dimensioni regionali”, ha detto a Devex un alto funzionario delle Nazioni Unite. Detto questo, l’Etiopia “amplifica” una questione più ampia sui rischi di operare in ambienti ad alto rischio in tutto il mondo.

“Dobbiamo esaminare attentamente e piuttosto rapidamente le altre operazioni per assicurarci di fare tutto il possibile per garantire che gli aiuti raggiungano le persone”, ha detto il funzionario. Tuttavia, “è necessario comprendere ciò che non è sotto il nostro controllo. Quando si verifica un crollo della legge e dell’ordine, non saremo in grado di garantire che i beneficiari possano mantenere l’assistenza, anche se abbiamo fatto tutto il possibile per indirizzarli”, ha aggiunto il funzionario.

Allo stesso tempo, il WFP è ansioso di riprendere il proprio lavoro in Etiopia. Alla fine di luglio, il WFP ha iniziato a testare nuove misure per fornire assistenza alimentare nel Tigray con pratiche di monitoraggio rafforzate, ripristinando una frazione degli aiuti originali per poco più di 100.000 persone aventi diritto, ha detto un portavoce del WFP.

Ma quella ripresa non è stata presa alla leggera. L’USAID ha descritto la deviazione come “estrema” e “coordinata” in una dichiarazione a Devex. Oltre a ciò, diverse persone – alcune delle quali hanno parlato con Devex in forma anonima – hanno affermato che la manipolazione degli aiuti umanitari è da tempo la norma in Etiopia. Che ciò sia stato orchestrato da gruppi ribelli , come il TPLF, dalle truppe governative che combattono contro di loro, o dal governo stesso, non è stata una sorpresa per molti che la diversione sia avvenuta in primo luogo.

“È come il corollario della rana nell’acqua”, ha detto Del Conte. “Quando ce ne rendiamo conto, siamo completamente cotti. Sappiamo quali errori abbiamo commesso e non possiamo farci nulla”.

Nel corso del tempo, fonti hanno affermato che la comunità umanitaria, i paesi donatori e i diplomatici hanno iniziato ad accettare che questo è il modo in cui funzionano le cose in Etiopia, anche se cambia il modo in cui gli aiuti vengono forniti e gestiti. Per un operatore umanitario locale con cui ha parlato Devex, ciò significava vedere il sindaco di una grande città portare a casa i soldi finanziati dal programma di rete di sicurezza della Banca Mondiale . Dall’altro, significava vedere le comunità a cui erano stati assegnati aiuti alimentari non riceverne alcuno.

Anche se la Banca Mondiale afferma di disporre di rigorose reti di sicurezza per prevenire la corruzione e di non aver trovato prove di furto nel sostegno al programma di rete di sicurezza dell’Etiopia, un portavoce ha detto a Devex che l’ultima rivelazione sugli aiuti alimentari ha cambiato le cose anche lì.

“Da quando i partner hanno scoperto problemi relativi agli aiuti alimentari umanitari, abbiamo raddoppiato i nostri sforzi per mitigare ulteriormente questi rischi”, ha affermato il portavoce.

Con il furto che si sta diffondendo a livello nazionale, la portata reale dell’operazione – e chi ne sia responsabile – è ancora sconosciuta. Le indagini di molti enti, tra cui il WFP, l’USAID e il governo etiope, sono ancora in corso. Di conseguenza, l’assistenza alimentare al di fuori del Tigray rimane sospesa.
Portatori etiopi scaricano aiuti alimentari destinati alle vittime della guerra dopo un posto di blocco che porta al Tigray nella città di Mai Tsebri, in Etiopia, nel giugno 2021. Foto di: Stringer / ReutersPortatori etiopi scaricano aiuti alimentari destinati alle vittime della guerra dopo un posto di blocco che porta al Tigray nella città di Mai Tsebri, in Etiopia, nel giugno 2021. Foto di: Stringer / Reuters

“Parte integrante della macchina da guerra”


Il consenso del governo è, di solito, esattamente ciò che sperano le agenzie umanitarie. Nessuno conosce i problemi di un paese meglio di chi lo gestisce e, spesso, la partnership sugli aiuti esteri può portare a legami diplomatici più forti. Secondo Del Conte e un portavoce dell’USAID, per anni molte agenzie internazionali in Etiopia – tra cui il WFP e l’USAID – hanno distribuito cibo sulla base di elenchi forniti dal governo.

“Il GoE [governo dell’Etiopia], a differenza della maggior parte dei contesti umanitari su larga scala, ha svolto un ruolo unico e diretto nella fornitura di assistenza alimentare umanitaria in Etiopia”, ha affermato il portavoce dell’USAID. “Il GoE ha determinato la selezione dei beneficiari e le sedi operative dei partner.”

Per molte ragioni, questo ha senso. L’amministratore dell’USAID Samantha Power sottolinea da tempo il passaggio della gestione degli aiuti nelle mani dei gruppi locali e l’abbandono degli stili di sviluppo che ripetono gli errori della colonizzazione.

Ma in Etiopia il quadro è molto più complesso. Nonostante sia un alleato strategico e visceralmente importante per le nazioni occidentali, il record del paese nella fornitura di aiuti è stato complicato dalla complessità del conflitto. In alcune aree, il governo si è fratturato, con la lealtà verso diversi gruppi che hanno creato forti legami nelle rispettive regioni.

“Il problema per molte di queste agenzie delle Nazioni Unite è che molte hanno personale alleato del governo”, ha affermato Cameron Hudson, esperto di governance africana presso il Center for Strategic and International Studies con sede a Washington . “Poiché la loro fedeltà è al loro Paese, al loro governo e alla loro gente, non ne hanno parlato apertamente”.

Nel Tigray in particolare, il TPLF ha istituito un proprio governo, che continua ad avere un controllo profondo su quelli di tutta la regione, dicono gli esperti, comprese le agenzie umanitarie.

“Questo è diventato molto radicato nel folklore etiope: che l’assistenza umanitaria è parte integrante della macchina da guerra”, ha detto Del Conte.

Con l’ultima crisi di diversione, gli Stati Uniti e l’Etiopia stanno in gran parte giocando a un “gioco del pollo”, ha detto un funzionario delle Nazioni Unite a conoscenza della questione. Gli Stati Uniti sperano di sfruttare questa crisi per realizzare riforme che “tirino lo stato etiope fuori dal sistema di distribuzione degli aiuti, più o meno”.

Ma il governo etiope – che ha usato per decenni il controllo sulla distribuzione degli aiuti per controllare la popolazione – scommette che la prospettiva di una fame di massa costringerà gli Stati Uniti e altri donatori a fare marcia indietro. “Il governo etiope è disposto a guardare la gente morire di fame e spera che siano gli americani a battere ciglio per primi”, ha detto il funzionario.

“È letteralmente la volpe a guardia del pollaio, con l’approvazione degli Stati Uniti”, ha detto Hudson. “L’Etiopia è un paese africano troppo importante perché Washington non possa essere in buoni rapporti. Ma il problema è che questi termini sono stati fissati dagli etiopi”.

Un portavoce dell’USAID ha detto a Devex che stanno lavorando con il governo per attuare le riforme necessarie – un processo che, attraverso un “lavoro intenso”, ha permesso all’agenzia di rafforzare il controllo della loro assistenza alimentare. Tuttavia, ha detto il portavoce, “c’è ancora molto lavoro da fare” e gli aiuti alimentari dell’USAID sono rimasti in sospeso fino alla fine di agosto.

Si sta inoltre sviluppando una linea di frattura all’interno del governo degli Stati Uniti su quanto duramente esercitare pressioni sugli etiopi, con l’USAID che preme più forte sul WFP e su Addis Abeba per riformare la distribuzione degli aiuti, e il Dipartimento di Stato americano che cerca un approccio più conciliante che non ne minacci il funzionamento . rapporto con il gigante dell’Africa orientale su una serie di altre questioni.

In risposta a tali affermazioni, il portavoce dell’USAID ha detto a Devex che stavano “lavorando di pari passo con i colleghi di tutto il governo per attuare le riforme necessarie”. All’inizio di agosto, il Dipartimento di Stato ha condiviso informazioni su una chiamata tra il segretario di Stato americano Antony Blinken e il primo ministro etiope Abiy Ahmed – e i due hanno discusso della creazione di un sistema di distribuzione degli aiuti umanitari con una supervisione rafforzata. Blinken ha anche espresso apprezzamento per la leadership del primo ministro nel tentativo di risolvere la crisi nel vicino Sudan.

Uno schema vecchio di decenni


La deviazione degli aiuti è un modello che risale a molto tempo fa su entrambi i lati. Nel 1985, la Central Intelligence Agency degli Stati Uniti riferì che il governo etiope aveva bloccato gli aiuti destinati ai territori controllati dai ribelli, mentre il TPLF, il gruppo di milizie al centro dell’ultima guerra civile, aveva cooptato “la carestia e gli sforzi di soccorso per i loro paesi”. propri scopi” e ha utilizzato i campi profughi per “fornire rifugio, assistenza medica, cibo e denaro ai suoi combattenti”.

“Alcuni fondi che le organizzazioni ribelli raccolgono per le operazioni di soccorso, come risultato della maggiore pubblicità mondiale, vengono quasi certamente dirottati per scopi militari”, affermava il rapporto del 1985. Allo stesso tempo, ha aggiunto, “crediamo che Addis Abeba probabilmente intraprenderà un’azione militare per porre fine agli sforzi di soccorso nelle aree controllate dai ribelli”.

Andiamo avanti velocemente di quattro decenni e questa tendenza continua ancora oggi. Negli ultimi anni, il governo etiope è stato condannato per aver bloccato gli aiuti al Tigray martoriato dal conflitto, un’area dove – a metà della recente guerra – 400.000 persone vivevano in condizioni simili alla carestia.

Dall’altra parte delle linee di battaglia, anche gli aiuti sono stati manipolati: nel settembre 2021, l’ONU in Etiopia ha dichiarato che solo 38 dei 466 camion carichi di assistenza umanitaria erano tornati dal Tigray, portando alcuni a supporre che il TPLF avesse sequestrato quei camion per operazioni in tempo di guerra.

Secondo un esperto di sicurezza dell’Etiopia, che ha parlato con Devex in condizione di anonimato, la consegna degli aiuti da parte dell’ONU è stata appaltata ad un’agenzia esterna con collegamenti con il TPLF.

“Stavano consegnando gli aiuti al TPLF, che parallelamente stava conducendo un’insurrezione armata”, ha detto l’esperto di sicurezza, che ha sentito parlare della situazione da funzionari delle Nazioni Unite e dell’USAID con sede in Etiopia.

In risposta a tale accusa, un portavoce del WFP ha affermato che l’agenzia lavora con i suoi partner non governativi per distribuire gli aiuti alimentari e gestisce la consegna del cibo ai punti di distribuzione finali.

“Il WFP e tutti i partner umanitari devono raggiungere le comunità immediatamente e su larga scala per salvare vite umane e mezzi di sussistenza prima che sia troppo tardi. Per fare questo, siamo obbligati a parlare con tutte le parti in conflitto, indipendentemente dalla loro affiliazione politica”, ha dichiarato il portavoce del WFP in una dichiarazione a Devex.

Indipendenza, intricata


L’Etiopia è un posto complicato in cui lavorare per molte altre ragioni. Negli ultimi quattro decenni, il governo ha imposto leggi severe ai gruppi internazionali, dicono gli esperti, ponendo regole stringenti sul funzionamento organizzativo e soffocando il lavoro sui diritti umani con la burocrazia.

Nel 2009, l’Etiopia ha approvato la Proclamazione sugli enti di beneficenza e sulle società, che ha reso illegale per le organizzazioni straniere lavorare su questioni legate ai diritti umani. La legislazione ha creato la Charities and Societies Agency, che aveva ampia autorità per sospendere, sciogliere e limitare le organizzazioni della società civile in tutto il paese. Inoltre, ha implementato requisiti finanziari, come una limitazione sui finanziamenti per le “attività amministrative” di cui alcune organizzazioni affermavano di aver bisogno per svolgere il proprio lavoro.

“Il risultato reale e voluto di questa legge sarebbe quello di rendere quasi impossibile per qualsiasi organizzazione della società civile svolgere attività che il governo non approva”, affermava un’analisi di Human Rights Watch nel 2008, quando la legislazione fu introdotta per la prima volta. .

Nonostante la legislazione successiva abbia allentato tali restrizioni, nel 2021, il Consiglio norvegese per i rifugiati e Medici Senza Frontiere sono stati costretti a chiudere i battenti dopo essere stati accusati di diffondere disinformazione – un incidente avvenuto poco dopo che le agenzie avevano denunciato le atrocità contro il popolo tigrino, e un mancanza di passaggi sicuri per consentire ai gruppi umanitari di entrare nelle aree colpite dal conflitto.

Nello stesso anno, il governo espulse sette funzionari delle Nazioni Unite dall’Etiopia, accusandoli di “ingerenza negli affari interni del paese”. Il governo ha insistito sul fatto che l’ONU sostiene il TPLF.

Nonostante le complessità, l’USAID ha fornito circa 2 miliardi di dollari di assistenza all’Etiopia nel 2022 e nel 2023, rendendo il paese il maggiore destinatario degli aiuti statunitensi nell’Africa sub-sahariana.

Il Paese svolge un ruolo strategico per gran parte dell’Occidente, soprattutto dopo l’11 settembre. L’Etiopia – il cuore del Corno d’Africa – è stata a lungo vista come un frangiflutti contro l’Islam radicale e un contributore alla stabilità regionale nel suo complesso. È la sede dell’Unione Africana . E ha una delle più grandi economie del continente.

Quindi, ha detto Hudson, per anni molti paesi e organizzazioni hanno trascurato la realtà del lavoro in Etiopia, compreso il controllo dei funzionari governativi sugli aiuti umanitari.

Un ritardo discutibile


Nelle conversazioni con Devex, diversi ex operatori umanitari ed esperti si sono chiesti perché, data la storia della manipolazione degli aiuti in Etiopia, ci sia voluto così tanto tempo per scoprire un furto di cibo su scala così massiccia. Un ex operatore umanitario, che ha lavorato nella regione di Hawassa in Etiopia, ha detto che potrebbe essere perché così tante persone – dai politici locali ai contabili – hanno beneficiato di aiuti rubati.

Il WFP ha pubblicato una valutazione di emergenza alimentare nel Tigray a febbraio, ma nel suo rapporto sulla regione non ha menzionato alcun segno di diversione degli aiuti alimentari. Invece, l’agenzia ha evidenziato i miglioramenti e ha raccomandato di prendere di mira le persone che soffrono maggiormente di insicurezza alimentare in futuro.

In una conversazione con Devex, la direttrice esecutiva del WFP Cindy McCain ha affermato che la maggior parte della deviazione degli aiuti è avvenuta nel dicembre del 2022 e nel gennaio del 2023, ma il furto è stato scoperto solo “molto più tardi”.

“Purtroppo non siamo stati così rapidi a ritirarci come avremmo dovuto”, ha detto McCain a Devex il mese scorso. “Questo era su vasta scala. Posso assicurarvi che stiamo facendo tutto il possibile per assicurarci che ciò non accada mai più”.

Alla fine di luglio, il WFP, l’USAID e il governo etiope stavano tutti indagando sulla diversione degli aiuti alimentari. Ma alcuni esperti temono che indagare sul furto farà ben poco per cambiare il contesto più ampio in Etiopia, su entrambi i lati di un conflitto che dura da decenni.

«E chi ha preso il cibo? Non sono del tutto sicuro che abbia davvero importanza”, ha detto Del Conte. “Il marciume è molto più profondo di così.”


FONTE: devex.com/news/exclusive-rot-i…


tommasin.org/blog/2023-08-29/e…



Altro che sovranisti, il governo Meloni ha deciso di cedere un asset strategico del paese direttamente alla CIA. Invece di esercitare la golden share e assum


Se l’Italia sale sul carro armato del futuro. Un modello virtuoso per l’Europa


Tra tutti i diversi sistemi d’arma, quello che più di altri rappresenta plasticamente lo stato di frammentazione del settore difesa europeo è il carro armato da battaglia (conosciuto anche con l’acronimo Mbt – Main battle tank). Attualmente, infatti, i ci

Tra tutti i diversi sistemi d’arma, quello che più di altri rappresenta plasticamente lo stato di frammentazione del settore difesa europeo è il carro armato da battaglia (conosciuto anche con l’acronimo Mbt – Main battle tank). Attualmente, infatti, i circa seimila carri armati in servizio con le Forze armate dei Paesi europei appartengono a diciassette modelli diversi, senza contare le diverse varianti, spesso realizzate ad hoc per un singolo Paese. Addirittura, questo stato di proliferazione dei sistemi da combattimento terrestre avviene anche all’interno di numerosi Stati, con in servizio contemporaneamente modelli diversi di carro armato più o meno moderni (una condizione che caratterizza in particolare i Paesi dell’est Europa, dove sono impiegati anche apparecchi risalenti all’era sovietica). Per fare un rapido raffronto, i circa 2.500 carri degli Stati Uniti sono tutti un unico modello, l’M1 Abrams, sulla base del quale sono poi state realizzate le diverse varianti per rispondere alle necessità operative delle Forze Usa.

È su questo sfondo che va letta la proposta avanzata dalla Francia, e riportata dal quotidiano La Tribune, di invitare l’Italia, attraverso Leonardo, a partecipare alla realizzazione del Main ground combat system (Mgcs), il progetto per il carro armato di prossima generazione lanciato nel 2012 da Parigi e Berlino sviluppato in partnership dalla tedesca Rheinmetall e da Knds, joint venture nata nel 2015 dalla tedesca Krauss-Maffei Wegmann e la francese Nexter. Da quando è stato lanciato, tuttavia, il programma ha faticato a prendere slancio, funestato da una serie di ritardi e malumori sia tra i partner industriali, sia tra i governi di Francia e Germania. Indicativo il fatto che Parigi nel suo bilancio per la Difesa del 2023 non abbia inserito il programma Mgcs (né quello per il caccia di nuova generazione Fcas, realizzato sempre insieme a Berlino). L’urgenza dei Paesi europei di dotarsi di carri armati aggiornati alle sfide contemporanee, inoltre, mette a repentaglio il futuro del programma. Invece di attendere i decenni necessari a progettare e mettere in produzione i Mgcs, le capitali del Vecchio continente potrebbero scegliere di comprare immediatamente mezzi già disponibili. È il caso della Polonia, che l’anno scorso ha deciso di acquistare 250 carri americani Abrams M1A2.

Sempre secondo il quotidiano francese, l’ingresso italiano nel progetto è presentato come un ultimatum di Parigi a Berlino sul futuro del programma: “Prendere o lasciare”. Per La Tribune, si tratterebbe di un tentativo dei francesi di riequilibrare il rapporto con i partner tedeschi, in particolare con Rheinmetall, facendo leva su citati ottimi rapporti tra Parigi e Roma – con quest’ultima descritta come “il nuovo partner preferito” della Francia – basati sui progetti comuni come il missile Aster di Mbda, la partecipazione italiana ai missili franco-britannici Fman/Fmc e soprattutto l’aggiornamento di mezza vita di quattro Fremm, due francesi e due italiane (il Doria e il Duilio).

L’Italia, dal canto suo, può però vantare buoni rapporti anche con la controparte tedesca, in particolare nel settore terrestre, come dimostra la decisione del governo di acquistare i carri armati Leopard 2A8 a partire dal 2024, da affiancare ai 125 carri Ariete modernizzati in versione C2. Come spiegato dal generale Salvatore Farina, già capo di Stato maggiore dell’Esercito, l’obiettivo è arrivare ad avere circa 256 sistemi Mbt in grado di equipaggiare quattro reggimenti carri. La scelta di procedere lungo il doppio binario Ariete/Leopard risponde alla necessità di accelerare i tempi, con i primi due reggimenti dotati di C2 modernizzati già entro il 2028, anno in cui dovrebbero essere introdotti i primi Leopard, evitando gap operativi.

Ma la partita è tutt’altro che limitata a Francia, Germania e Italia, e potrebbe anzi rappresentare un modello virtuoso verso la deframmentazione della difesa europea. Un obbiettivo fondamentale non solo per le ambizioni di costruzione di una Difesa comune da parte dei Paesi del Vecchio continente, ma anche in chiave Nato, con il potenziamento delle capacità di deterrenza europee e una contemporanea riduzione delle risorse necessarie. L’avere in dotazione equipaggiamenti il più possibile uguali o simili, infatti, non solo facilita il loro impiego sul campo (con gli operatori di Paesi diversi in grado di lavorare immediatamente su apparecchi anche di nazionalità diversa), ma rende molto più semplice anche la catena logistica, dai pezzi di ricambio, alla manutenzione, al munizionamento. La possibilità, inoltre, di produrre la piattaforma contemporaneamente in più Paesi accelererebbe anche l’entrata in servizio dei singoli modelli mettendo a sistema le linee di produzione europee, senza l’aggravio economico di dover attivare ex-novo delle linee produttive all’interno di un singolo Paese.

La convergenza sul Mgcs potrebbe anche facilitare in futuro un avvicinamento dei programmi paralleli sul caccia di sesta generazione Fcas (franco-tedesco) e Gcap (con Italia, Giappone e Regno Unito). Anche qui i ritardi accumulati dal Fcas potrebbero portare Parigi e Berlino ad aprirsi a collaborazioni più estese, anche alla luce dello slancio che invece sta caratterizzando l’evoluzione del Gcap.


formiche.net/2023/08/italia-ca…



Paul Lieberman – Gangster Squad


L'articolo Paul Lieberman – Gangster Squad proviene da Fondazione Luigi Einaudi. https://www.fondazioneluigieinaudi.it/paul-lieberman-gangster-squad/ https://www.fondazioneluigieinaudi.it/feed


Taiwan Files – Gou (Foxconn) candidato presidente. Compromessi tra Lai, Usa e Pechino


Taiwan Files – Gou (Foxconn) candidato presidente. Compromessi tra Lai, Usa e Pechino 8992397
Terry Gou candidato alle elezioni presidenziali taiwanesi: i motivi della scelta e gli scenari sul voto. Il viaggio del vicepresidente Lai Ching-te tra Usa e Paraguay, con la reazione di Pechino: entrambi di basso profilo. La rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)

L'articolo Taiwan Files – Gou (Foxconn) candidato presidente. Compromessi tra Lai, Usa e Pechino proviene da China Files.



BAHRAIN. Centinaia di prigionieri politici in sciopero della fame contro “Il lento omicidio”


Oltre 800 detenuti protestano contro le condizioni di vita terribili e le soluzioni insufficienti proposte dal governo L'articolo BAHRAIN. Centinaia di prigionieri politici in sciopero della fame contro “Il lento omicidio” proviene da Pagine Esteri. htt

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

Di Urooba Jamal – Al Jazeera

Pagine Esteri, 29 agosto 2023 – Ebrahim Sharif ricorda ancora di aver visto sangue sui muri della prigione militare in cui era stato incarcerato, poco dopo aver manifestato durante le proteste della Primavera Araba del Bahrein del 2011. L’allora segretario generale del più grande partito politico di sinistra del paese del Golfo – National Democratic Action Society (Wa’ad) – fu arrestato insieme ad altri leader della protesta dell’epoca che vennero processati e incarcerati da tribunali militari.

8991618
Ebrahim Sharif

“Siamo stati torturati duramente”, racconta Sharif ad Al Jazeera, descrivendo le percosse e le molestie sessuali che ha subito, così come le elettrocuzioni a cui sono stati sottoposti alcuni dei suoi compagni. Poco dopo lo svolgimento di un’inchiesta indipendente, il leader dell’opposizione e altri che avevano preso parte alle massicce proteste a favore della democrazia, sono stati trasferiti nel sistema carcerario civile e solo allora la tortura è cessata.

Le cose sono andate decisamente meglio in queste prigioni per diversi anni, dice Sharif, con i prigionieri che potevano lasciare le celle durante il giorno per pregare nella moschea, usare la biblioteca o giocare a calcio all’aperto. Ma, aggiunge, le condizioni sono peggiorate dopo lo scoppio di una rivolta nel 2015.

Quasi un decennio dopo, secondo il centro per i diritti umani Bahrain Institute for Rights and Democracy (BIRD) di Londra, i prigionieri – molti dei quali languono nel sistema carcerario dal 2011 – sono confinati nelle loro celle fino a 23 ore al giorno, senza cure mediche e senza accesso all’istruzione. Istituto per i diritti e la democrazia (BIRD). Alcuni sono anche tenuti in isolamento.

A causa del peggioramento delle condizioni, dall’inizio di agosto più di 800 prigionieri politici hanno organizzato il più ampio sciopero della fame mai realizzato in Bahrein, molti dei quali sono detenuti nella prigione più grande del paese, il Centro di Riforma e Riabilitazione di Jau.

Anche le famiglie dei prigionieri sono scese in piazza per protestare, chiedendo il rilascio dei loro cari.

Lunedì, dopo 22 giorni di sciopero della fame, le autorità del Bahrein si sono incontrate con gruppi di pressione per discutere le riforme. Ma i prigionieri affermano che queste proposte difficilmente rispondono alle loro preoccupazioni e hanno affermato di voler continuare la protesta. “La rabbia per questa ingiustizia non è più confinata tra le mura delle prigioni. Questo ora è un problema nelle strade del Bahrein”, dice ad Al Jazeera il direttore dell’advocacy di BIRD, Sayed Ahmed Alwadaei.

8991621
Manifestazione a sostegno dei detenuti in sciopero della fame

“Un lento omicidio”

Mentre Sharif ha avuto la “fortuna” di non aver trascorso più di cinque anni e mezzo in prigione, altri sono stati condannati all’ergastolo. Tra loro c’è Abdulhadi al-Khawaja, candidato al Premio Nobel per la pace che Alwadaei definisce un “padre” del movimento per i diritti umani in Bahrein.

“La negazione delle cure mediche è un omicidio lento”, ha detto ad Al Jazeera Maryam al-Khawaja, la figlia di Abdulhadi, che ora vive in Danimarca. “Sì, lo sciopero della fame espone mio padre a un rischio maggiore di infarto. Ma era già a rischio perché gli stavano negando l’accesso a un cardiologo”.

Abdulhadi al-Khawaja non è estraneo agli scioperi della fame, il più lungo dei quali è durato 110 giorni nel 2012. Ora8991623 non sarebbe in grado di resistere così a lungo, ha detto Maryam, a causa del suo stato di salute, che comprende aritmia cardiaca, glaucoma e dolore cronico a causa delle placche metalliche nella mascella dopo numerose percosse da parte delle autorità carcerarie.

Le proteste, dice Alwadaei, hanno guadagnato slancio, con il numero di scioperanti della fame raddoppiato da quando lo sciopero è iniziato il 7 agosto. Secondo un elenco di scioperanti della fame compilato da BIRD e analizzato da Al Jazeera, attualmente vi prendono parte 804 prigionieri.

L’incontro di lunedì tra il governo e i gruppi di pressione ha fatto ben poco per mettere fine allo sciopero della fame.

Il ministro degli Interni, generale Shaikh Rashid bin Abdullah Al Khalifa, ha incontrato il presidente dell’Istituto nazionale per i diritti umani e il presidente della Commissione per i diritti dei prigionieri e dei detenuti. Si è discusso dei servizi sanitari per i detenuti, di una revisione dell’attuale sistema di visite e dell’aumento del tempo giornaliero all’aperto da un’ora a due ore. Al Khalifa ha inoltre sottolineato “la cooperazione in corso tra il Ministero dell’Interno e il Ministero dell’Istruzione nel fornire programmi e servizi educativi ai detenuti e nel facilitare il completamento dei loro studi a tutti i livelli”.

Ma Alwadaei ha detto che l’incontro è avvenuto “troppo tardi” e che il governo non è ancora riuscito a soddisfare le richieste fondamentali dei prigionieri.

“Sulla base delle conversazioni con i prigionieri seguite alla dichiarazione del Ministero dell’Interno, è chiaro che lo sciopero della fame continuerà finché il governo non affronterà le loro lamentele seriamente e in buona fede”, dice. “Finora non hanno preso sul serio nessuna delle richieste centrali dei detenuti in sciopero”.

“Il governo non dove sottovalutare la precaria condizione dei prigionieri e la rabbia nelle strade. Se un prigioniero muore, la situazione andrà fuori controllo”, aggiunge Alwadaei.

Al momento della pubblicazione di questo articolo, le autorità del Bahrein non avevano risposto alla richiesta di Al Jazeera di commentare le accuse di tortura e rifiuto di cure mediche ai detenuti.

Amnistia per i detenuti

Lo sciopero ha suscitato preoccupazione da parte dell’alleato del Bahrein, gli Stati Uniti, con un portavoce del Dipartimento di Stato americano che all’inizio di questo mese ha dichiarato di essere “consapevole e preoccupato per le notizie di questo sciopero della fame”. Secondo Maryam al-Khawaja, tuttavia, gli alleati occidentali del Bahrein, compresi gli Stati Uniti, hanno a lungo trascurato le violazioni dei diritti umani nel paese, sostenendo la nazione del Golfo e consentendo il verificarsi di tali abusi.

8991625
Maryam Al Khawaja

“Non saremmo dove siamo se… il governo non ricevesse il tipo di sostegno che riceve dall’Occidente – è come se fosse in grado di evitare qualsiasi tipo di reale responsabilità internazionale per i crimini che ha commesso”, afferma al Khawaya.

Maryam ricorda ancora quella volta nel 2011 in cui suo padre fu picchiato fino a perdere i sensi davanti a lei e alla sua famiglia quando è stato arrestato. La rivolta (in Bahrain) è avvenuta mentre la famiglia al-Khawaja viveva ancora in Bahrein, essendovi tornata nel 2001 dopo un periodo di esilio in Danimarca.

All’epoca poterono tornare perché il governo del Bahrein aveva concesso un’amnistia generale, liberando tutti i prigionieri e favorendo così il ritorno di molti esuli.

Maryam, che è stata detenuta e successivamente rilasciata dopo le pressioni internazionali quando ha tentato per l’ultima volta di visitare il Bahrein nel 2014, spera in un’altra amnistia generale per suo padre e gli altri prigionieri. Altrimenti, ha paura che possa morire in prigione.

Sono state le traversie di suo padre e l’attivismo per i diritti umani durato tutta la vita che l’hanno ispirata a diventare anche lei una attivista dei diritti umani, una storia simile per molti altri nella regione che lo avevano incontrato, ha detto. “Ho incontrato persone del Golfo che mi hanno detto che volevano impegnarsi nel campo dei diritti umani grazie a mio padre, perché lo hanno incontrato e lui le ha ispirate”, ha detto Maryam.

Anche Ebrahim Sharif, che per un periodo ha condiviso la cella con al-Khawaja, ha la preoccupazione che i prigionieri in sciopero della fame possano morire e continua a parlare apertamente contro le ingiustizie che lui stesso ha subito. “Hanno una scelta – afferma – possono mettermi in prigione o lasciarmi dire quello che penso. Non credo che vogliano mettermi in prigione, quindi parlo liberamente il più possibile”. Pagine Esteri

Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint

L'articolo BAHRAIN. Centinaia di prigionieri politici in sciopero della fame contro “Il lento omicidio” proviene da Pagine Esteri.



PRIVACYDAILY


N. 146/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: L’Alta Corte irlandese ha respinto l’accusa alla Data Protection Commission (DPC) di non aver indagato a fondo su un reclamo presentato cinque anni fa in relazione a una presunta violazione massiva dei dati da parte del colosso di Internet Google.Il reclamo sul trattamento dei dati personali da parte... Continue reading →


di Luigi Saragnese - Dal “Corriere” a “Repubblica” è una sola la voce di condanna che si leva in questi giorni contro lo “scandalo” dei diplomif


Eritrea, la Cina inaugura un nuovo progetto minerario


L’ambasciatore cinese in Eritrea, Cai Ge, ha tagliato il nastro per inaugurare ufficialmente la nuova miniera polimetallica dell’Eritrea: il progetto Asmara. La Asmara Mining Share Company , titolare del progetto Asmara in Eritrea, è una joint venture 60:

L’ambasciatore cinese in Eritrea, Cai Ge, ha tagliato il nastro per inaugurare ufficialmente la nuova miniera polimetallica dell’Eritrea: il progetto Asmara. La Asmara Mining Share Company , titolare del progetto Asmara in Eritrea, è una joint venture 60:40 tra la cinese SRBM e la statale ENAMCO.

Il progetto ospita quattro depositi conosciuti a Emba Derho, Adi Nefas, Gupo e Debarwa.

Si prevede che la miniera avrà una durata di 17 anni, producendo circa 381.000 tonnellate di rame, 850.000 tonnellate di zinco, 436.000 once d’oro e 11 milioni di once d’argento.

Nella Fase 1A, il rame di alta qualità verrà estratto dal giacimento di Debarwa con metodi a cielo aperto, frantumato e caricato in container e trasportato per 120 km fino all’impianto portuale di Massaua per la spedizione e la vendita a una fonderia in Cina (una processo noto come spedizione diretta del minerale o “DSO”).

Riepilogo dello studio di fattibilità del progetto Asmara:
Lo studio di fattibilità del Progetto Asmara (lo “Studio”) datato in vigore dal 16 maggio 2013 (modificato a marzo 2014), ha dimostrato che l’estrazione mineraria dei quattro giacimenti avanzati che compongono il Progetto Asmara (Emba Derho, Adi Nefas, Gupo Gold e Debarwa) e la lavorazione del minerale in una posizione centrale vicino al grande giacimento di Emba Derho è economicamente solido con un valore attuale netto al lordo delle imposte (“NPV”) di 692 milioni di dollari (utilizzando un tasso di sconto del 10%) e con un tasso di rendimento interno al lordo delle imposte (“IRR”) del 34%. Il VAN al netto delle imposte è di 428 milioni di dollari con un IRR del 27%.

Lo studio delinea un’operazione mineraria iniziale in tre fasi che inizierebbe con la Fase 1A di produzione di DSO di rame di alta qualità dal deposito di Debarwa, seguita dalla Fase 1B di lisciviazione in cumulo di oro in prossimità della superficie, dalla Fase 2 di produzione di rame supergenico, quindi di zinco e rame ad un ritmo di produzione completo di 4 milioni di tonnellate all’anno.

A pieno regime, la miniera di Asmara produrrà una produzione media annua di 65 milioni di libbre (29.000 tonnellate) di rame, 184 milioni di libbre (83.000 tonnellate) di zinco, 42.000 once d’oro e 1 milione di once d’argento nei primi 8 anni.


FONTE: tesfanews.net/china-new-asmara…


tommasin.org/blog/2023-08-28/e…



Etiopia, oltre 4 milioni di sfollati interni, fonte IOM


Secondo i nuovi dati delle Nazioni Unite, più di quattro milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case in Etiopia, principalmente a causa del conflitto o della siccità. Il Rapporto sugli sfollati nazionali dell’Organizzazione interna

Secondo i nuovi dati delle Nazioni Unite, più di quattro milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case in Etiopia, principalmente a causa del conflitto o della siccità.

Il Rapporto sugli sfollati nazionali dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che copriva il periodo da novembre 2022 a giugno 2023, afferma che un totale di 4,38 milioni di persone erano sfollate interne.

“Il conflitto è la causa principale degli sfollati e ha provocato lo sfollamento di 2,9 milioni di sfollati interni (66,41%), seguito dalla siccità che ha provocato lo sfollamento di 810.855 sfollati interni (18,49%)”, si legge nel rapporto, pubblicato mercoledì.

Più di un milione sono gli sfollati nella regione del Tigray, devastata dalla guerra, inclusa nei dati per la prima volta da settembre 2021, ha aggiunto.

La regione più settentrionale dell’Etiopia è stata devastata da due anni di combattimenti tra le forze filogovernative e i ribelli del Tigray fino alla firma di un accordo di pace nel novembre dello scorso anno.

La regione orientale della Somalia ospita il maggior numero di sfollati a causa della siccità, pari a quasi 543.000, secondo il rapporto dell’OIM.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, in Etiopia, il secondo paese più popoloso dell’Africa, sono 28,6 milioni le persone bisognose.

Ma la risposta umanitaria rimane “significativamente sottofinanziata” con solo il 27% raccolto dei circa 4 miliardi di dollari necessari, ha detto in una dichiarazione all’inizio di questa settimana il coordinatore residente delle Nazioni Unite per l’Etiopia Ramiz Alakbarov.


FONTE: barrons.com/news/over-four-mil…


tommasin.org/blog/2023-08-28/e…