La Fiera del libro di Francoforte cancella la premiazione della scrittrice palestinese: “più spazio a voci israeliane”
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di Eliana Riva
Era stato assegnato alla scrittrice palestinese Adania Shibli, per il suo libro “Un dettaglio minore“, il prestigioso premio letterario LiBeraturpreis, riservato ad autori e autrici del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia. L’agenzia letteraria Litprom, aveva deciso di consegnarle il premio il 20 ottobre, durante la prestigiosissima Fiera del libro di Francoforte, che ogni anno organizza insieme ad altri attori. La giuria ha scelto proprio lei perché, “crea un’opera d’arte composta formalmente e linguisticamente in modo rigoroso che racconta il potere dei confini e ciò che i conflitti violenti causano alle e con le persone. Con grande attenzione, dirige lo sguardo verso i piccoli dettagli, le banalità che ci permettono di intravedere le vecchie ferite e cicatrici che si trovano dietro la superficie“.
Ieri l’agenzia ha fatto sapere che il premio non le verrà più consegnato. La motivazione? “La guerra in Israele”. Il direttore della Fiera di Francoforte, Juergen Boos, ha precisato di voler “rendere le voci ebraiche e israeliane particolarmente visibili alla fiera del libro”. Venerdì, oltre alle 1.300 vittime israeliane fino a quel momento accertate, erano stati già 1.900 i palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza, tra i quali 614 bambini. Un bilancio purtroppo destinato nei giorni successivi a salire fino a raggiungere, oggi, domenica 15, tra le 1.400-1.500 vittime israeliane e 2.228 morti palestinesi a Gaza.
Dopo le proteste degli editori arabi e delle associazioni che li rappresentano, che hanno comunicato che non parteciperanno alla Fiera del libro di Francoforte, l’agenzia Litprom ha fatto un passo indietro, specificando che la cerimonia di assegnazione si farà ma in seguito, quando riusciranno “a trovare un format e un’impostazione adatti per l’evento”. Questo può vuol dire, come altre volte è accaduto, che la presentazione del libro non sarà consentita con la presenza della sola autrice ma che proveranno a imporle, pena la cancellazione definitiva della cerimonia, una presenza israeliana, cosa che trasformerebbe l’evento letterario in una sorta di dibattito politico, facendone perdere il significato. Dalle dichiarazioni del direttore Juergen Boos non pare che questa singolare “par condicio culturale” valga anche per gli eventi che, in misura consistente, ospiteranno autori israeliani.
La scrittrice palestinese Adania Shibli aveva già ricevuto due nomination per il National Book Award, nel 2020, e per l’International Booker Prize nel 2021. Il suo romanzo, Un dettaglio minore, tradotto dall’arabo al tedesco nel 2020 ed edito in Italia da La nave di Teseo, parte dal racconto della storia vera di una giovane beduina palestinese violentata e uccisa dai soldati israeliani nel 1949.
Di seguito l’articolo scritto per Pagine Esteri dopo la pubblicazione della traduzione italiana.
È dei particolari che raramente si parla quando si affronta la condizione dei palestinesi in Israele, nei Territori Occupati e a Gaza.
Eppure, i dettagli sono essenziali per capire cosa significhi vivere sotto occupazione, farsi un’idea chiara del livello di fallimento dei negoziati di pace, per leggere intero il quadro ideato e pianificato dall’occupante.
Solo i particolari possono mostrare a noi, lontani, quello che è più difficile da capire: come avviene che la straordinarietà si converta in quotidianità, come accade che il modo di vivere e persino quello di pensare siano trasformati, piegati giorno dopo giorno alla consuetudine della sopraffazione, delle ingiustizie e della violenza.
Adania Shibli con “Un dettaglio minore”, finalista al National Book Awards 2020, ci mostra questi particolari, portandoci a spasso tra il passato e il presente, tra i luoghi che esistevano e non ci sono più, cancellati persino i nomi e chiuse da cubi di cemento le strade di ingresso. Tutto comincia da una storia del 1949 nel Negev, quando alcuni soldati israeliani si trasferiscono tra le dune del deserto ossessionati dalla missione di scovare e uccidere gli arabi rimasti nella zona sud-occidentale. Giornate e chilometri passati a girare in tondo e a perlustrare il nulla, fino a quando qualcosa trovano. Qualcuno, anzi. I beduini del deserto. Tutti uccisi tranne una ragazza. La storia terribile di questa ragazza e la sua tragica fine si legheranno all’esistenza di una giovane donna di Ramallah che tenterà molti anni dopo di scoprire la verità su ciò che accadde 25 anni prima che lei nascesse. In una Palestina cambiata, ingabbiata dai checkpoint, divisa in zone e in abitanti di serie A, B, C, con diversi diritti, diverse possibilità e diversi documenti, la donna di Ramallah inizia un viaggio pericoloso, vincendo l’abitudinarietà e le sue paure, con una macchina a noleggio, una carta d’identità prestata da una collega e due cartine geografiche: Israele oggi, la Palestina ieri.
L’attenzione ossessiva ai dettagli è ciò che la spinge a muoversi, l’incapacità di definire i contorni, i limiti tra una cosa e l’altra, forse per sfuggire alla realtà globale e al dramma collettivo che la circonda, fatti, appunto, di limiti e limitazioni da rispettare rigorosamente per prevenire conseguenze spiacevoli. Ma lei non riesce bene a muoversi tra quei limiti, non controlla le sue emozioni, le sue ansie e preferisce chiudersi in una solitudine consuetudinaria, che la rassicura e non le crea difficoltà. Un giorno, ad esempio, riesce miracolosamente a raggiungere l’ufficio nonostante la zona fosse stata posta sotto coprifuoco dall’esercito israeliano: malgrado l’ansia e la paura la avvolgano, ha imparato che è fondamentale dimostrarsi calma e decisa e che è necessario, a volte, scavalcare muri e barriere. In ufficio un collega entra nella sua stanza e spalanca la finestra. È per evitare che i vetri esplodano: l’esercito ha avvertito che colpiranno e distruggeranno un edificio lì vicino, perché vi si sono barricati tre ragazzi. L’edificio esplode, il boato è spaventoso, i ragazzi muoiono, le pareti dell’ufficio tremano e una nuvola di polvere invade la sua stanza. L’unico dettaglio su cui riesce a soffermarsi è quella polvere e con calma e pazienza ripulisce tutto prima di rimettersi semplicemente a lavorare.
Il viaggio verso l’accampamento dei coloni nel Negev la porta su una strada conosciuta, che non percorre però da anni. Il tempo sufficiente per non riuscire più a riconoscere quei luoghi, cambiati, trasformati con la forza degli espropri e delle colonie, paesaggi stravolti, storie cancellate. La cartina palestinese riporta i nomi dei villaggi che esistevano prima del 1948, anno della Catastrofe palestinese, della nascita dello Stato ebraico. Tanti nomi. Conosce persone originarie di alcuni di quei villaggi tra Yafa e Askalan, di altri villaggi invece non sa nulla e mai nulla potrà sapere. Sulla cartina israeliana a inghiottirli tutti c’è una vastissima zona verde prima e un mare giallo e vuoto dopo, nient’altro. Di palestinese non è rimasto nulla. Né i nomi sui cartelli stradali né i cartelloni pubblicitari. Neanche i terreni sono più palestinesi. Gli insediamenti sono israeliani.
Al Museo di Storia dell’Esercito israeliano è possibile vedere le divise e le armi usate nel 1948 e seguire la storia cinematografica israeliana degli anni ’30-’40 che incoraggiava l’immigrazione ebraica. In una pellicola un gruppo di coloni costruisce strutture su una distesa prima desertica, ne nasce un insediamento e per festeggiarlo le persone si prendono per mano e ballano in cerchio. La donna di Ramallah riavvolge il nastro all’indietro e poi lo manda avanti: costruisce l’insediamento e poi lo smantella, lo ricostruisce e lo ri-smantella ancora, ancora e ancora.
Ormai vicino Gaza, sente da lontano il suono dei bombardamenti ma è un suono diverso da quello a cui è abituata, senza la polvere, senza il fragore: solo ciò che non sente e vede le fa comprendere quanto sia lontana da quello che le è familiare, da casa. Guarda da lontano Rafah, Gaza e tenta di riempirsene gli occhi, per spiegarlo a quei colleghi che da anni aspettano l’autorizzazione per poter rientrare.
I limiti da non superare, i confini stabiliti, il militare, il civile, l’accampamento, il campo fatto di lamiere e un pacchetto di gomme da masticare porteranno la donna di Ramallah a scoprire sul destino della ragazza beduina più di quanto avesse voluto.
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Allarme nel Caucaso: l’Azerbaigian sta per invadere l’Armenia?
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 20 ottobre 2023 – La riconquista da parte dell’Azerbaigian del Nagorno-Karabakh, enclave armena che dopo 30 anni ha cessato di essere una repubblica di fatto indipendente da Baku lo scorso 20 settembre, non sembra aver riportato la calma nella regione, anzi.
Dagli USA voci di una imminente invasione
Secondo il quotidiano “Politico”, a inizio ottobre il segretario di Stato americano Antony Blinken avrebbe avvisato un piccolo gruppo di parlamentari sulla possibilità che l’Azerbaigian proceda presto ad un’invasione dell’Armenia. L’amministrazione Biden ha smentito, ma poi il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha avvisato Baku sulle «gravi conseguenze» derivanti la violazione dell’integrità territoriale armena.
Di nuovo, rispetto all’allarme lanciato da Blinken, c’è ora che il regime di Ilham Aliyev potrebbe approfittare della crisi mediorientale per portare a termine, impunito, un obiettivo strategico di Baku: l’occupazione del sud dell’Armenia.
In numerose occasioni lo stesso dittatore azero ha definito la provincia meridionale armena di Syunik come “Zangezur occidentale”, reclamandone la sovranità. Lo stesso ha fatto a proposito della capitale armena Erevan, definita in realtà «una città storicamente azera».
Aliyev issa la bandiera azera sull’Artsakh
Dopo che le sue truppe hanno sbaragliato le difese della Repubblica di Artsakh in appena 24 ore, decretando la fine della plurisecolare presenza armena nella regione e la precipitosa fuga di più di 100 mila abitanti terrorizzati dalla possibile pulizie etnica, il 15 ottobre il leader azero si è recato a Stepanakert, l’ex capitale del Nagorno-Karabakh ridotta ormai a città fantasma. Nella ribattezzata Khankendi, Aliyev ha issato la bandiera azera e calpestato quella armena, radioso per la vittoria che, ha spiegato, ha esaudito un desiderio coltivato per 20 anni, cioè da quando sostituì il padre Heydar alla guida del regime.
Una “grande Turchia” dal Mediterraneo alla Cina
Ora Baku sembrerebbe voler approfittare del contesto internazionale e dell’estrema debolezza dell’Armenia per invaderla, occupandone i territori meridionali; otterrebbe così la continuità territoriale con il Nakhchivan, provincia azera che sorge ad ovest del territorio armeno, per raggiungere il quale da decenni i convogli in partenza da Baku devono attraversare il nord dell’Iran, paese con il quale l’Azerbaigian ha rapporti non proprio idilliaci.
L’Iraninfatti, che pure si è tenuta fuori dal conflitto azero-armeno, teme assai la possibile continuità territoriale che proietterebbe l’influenza economica, politica e militare turca fino all’Asia centrale costellata di ex repubbliche sovietiche turcofone e fino al cosiddetto “Turkestan orientale”, cioè la regione cinese dello Xinjiang abitata dagli Uiguri musulmani, bypassando completamente Russia e Iran.
Inoltre Teheran rimprovera ad Aliyev la sua alleanza con Israele e la concessione a Tel Aviv di alcune basi, in territorio azero, dalle quali gli israeliani spiano l’Iran. Da tempo Israele fornisce quasi il 70% delle armi acquistate dall’Azerbaigian, che in cambio fornisce a Tel Aviv il 40% degli idrocarburi importati. Nel frattempo Baku caldeggia un avvicinamento ulteriore tra la Turchia – il principale sponsor dell’espansionismo azerbaigiano – e Israele, che però proprio in questi giorni il massacro dei palestinesi di Gaza da parte di Tsahal mette a dura prova.
Per tentare di dissuadere Aliyev dall’aggredire Erevan, Teheran negli ultimi mesi ha tentato di intavolare con Baku una trattativa per la normalizzazione quantomeno delle relazioni commerciali, promettendo una via più rapida per le merci e gli idrocarburi azeri nel loro transito verso ovest attraverso il territorio iraniano. Aliyev non sembra tirarsi indietro.
Ilham Aliyev e Recep Tayyip Erdogan
Continue minacce all’Armenia
Però al tempo stesso il regime azero continua a mandare messaggi aggressivi all’Armenia, accusata di ostacolare la continuità territoriale con il Nakhchivan e di continuare ad occupare 8 villaggi azeri, che si trovano in 5 piccole exclave azerbaigiane in territorio armeno.
In realtà l’Azerbaigian occupa 215 chilometri quadrati di territori strappati alla Repubblica di Armenia, per la maggior parte nell’aggressione militare condotta contro Erevan nel settembre 2022, quando si impossessò di alture strategiche che consentirebbero alle truppe di Baku di bersagliare obiettivi armeni anche a grande distanza.
Mentre a Baku, sostengono alcuni analisti che monitorano i cieli, continuano ad arrivare cargo israeliani carichi di armi di ultima generazione, le truppe armene dispongono di difese obsolete. Difficilmente la promessa di Macron di inviare armi a Erevan – ammesso che si concretizzi – cambierà di molto i rapporti di forza.
Erevan e Mosca sempre più distanti
Mosca, da parte sua, ha da tempo mollato l’Armenia, avamposto cristiano nel Caucaso islamico ormai abbandonata al suo destino in virtù di vari fattori. Da una parte la volontà di punire il governo di Nikol Pashinyan, filoccidentale e ulteriormente avvicinatosi a Washington e Bruxelles dopo che nel 2020 la Russia si era ben guardata dal bloccare l’aggressione militare azera che condusse alla perdita, da parte dell’Artsakh, della maggior parte dei territori conquistati negli anni ’90. Ora ci si è messa anche l’adesione alla Corte Penale Internazionale – che Pashinyan afferma di voler utilizzare per denunciare i crimini di guerra azeri – ad allontanare i due paesi. All’ultima riunione della CSI (la Confederazione degli Stati Indipendenti guidata da Mosca) Pashinyan non si è fatto vedere. Per tutta risposta la Russia blocca da settimane le merci armene dirette all’interno della Federazione e accampa scuse per non consegnare a Erevan armi che gli armeni hanno già pagato, per quanto a prezzo di favore, in quanto entrambi i paesi aderiscono al Trattato per la Sicurezza Collettiva dal quale però Pashinyan si è ormai di fatto ritirato visto l’immobilismo dell’alleanza militare nei confronti dell’aggressività azera.
L’alleanza tra Russia e Azerbaigian
Dissidi politici a parte, inoltre, Mosca non vuole inimicarsi la Turchia, con la quale negli ultimi anni ha intavolato una altalenante ma utile relazione che accentua la già consistente distanza tra Erdogan e l’Alleanza Atlantica. Per non parlare poi degli interessi economici e commerciali della Russia in Azerbaigian in un momento delicato come quello venutosi a creare dopo l’invasione dell’Ucraina. Pochi giorni prima che le truppe di Mosca violassero i confini di Kiev, Russia e Azerbaigian hanno firmato un importante trattato politico-militareallargato poi al fronte energetico: l’Azerbaigian acquista già ingenti quantità di gas russo – potendo così destinare all’esportazione quello estratto in patria – e presto farà lo stesso con il petrolio, consentendo a Mosca di aggirare l’embargo sugli idrocarburi decretato da UE e USA.
Profughi armeni in fuga dal Nagorno-Karabakh
L’Armenia rischia il tracollo
Se davvero Aliyev decidesse di infliggere a Erevan un ulteriore colpo invadendo il paese e occupandone le regioni meridionali, l’Armenia potrebbe opporre davvero una flebile resistenza, non potendo contare né su ingenti risorse economiche utili a riempire gli arsenali né su alleati internazionali di peso disponibili a mettersi di traverso.
Nelle ultime settimane sia l’amministrazione Biden sia il governo francese sia i dirigenti delle istituzioni europee hanno aumentato la pressione su Baku affinché desista dai bellicosi propositi. Washington, ad esempio, ha sospeso il rinnovo della deroga che le consente di eludere il Freedom Support Act, provvedimento che impedirebbe di fornire aiuti militari all’Azerbaigian aggirato sistematicamente dal 2002.
Ma la finestra apertasi dopo la sconfitta dell’Artsakh e l’esplosione delle crisi in Ucraina e Palestina, potrebbe rappresentare un’occasione davvero troppo ghiotta per convincere Erdogan e Aliyev a rinunciare ad una vittoria che cambierebbe in maniera netta gli equilibri politici, economici e militari di tutto il Caucaso.
Sarebbe una catastrofe per l’Armenia che potrebbe addirittura collassare come paese. Ma anche per Putin, che pure negli ultimi anni non ha voluto e potuto intervenire per bloccare le pretese dell’alleato azero, si tratterebbe di un colpo significativo alla sua influenza nel Caucaso, dove l’egemonia di Turchia e Azerbaigian diventerebbe difficile da contrastare.
Per ora i vari attori internazionali fanno qualche timido passo: Parigi ha annunciato che aprirà presto un ufficio dell’addetto militare a Erevan e un consolato a Syunik, unendosi così a Iran e Russia. Ma nessun paese, da oriente a occidente, ha finora imposto sanzioni a Baku, anche se il parlamento europeo ha approvato nei giorni scorsi una risoluzione in tal senso.
Intanto le truppe azere, il 23 e 24 ottobre, hanno in programma esercitazioni congiunte con alcuni reparti dell’esercito turco in Nakhchivan e nel Nagorno-Karabakh. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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REPORTAGE. A Khan Younis, i civili palestinesi lottano per superare una crisi “insopportabile”
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Di Ruwaida Kamal Amer* – +972
(foto Xinhua)
(traduzione di Federica Riccardi)
Gli effetti devastanti della guerra di Gaza su Khan Younis aumentano di giorno in giorno. Le persone care lasciano questa vita e migliaia di persone fuggono verso sud, aggravando la già terribile crisi umanitaria. I civili chiedono a gran voce di essere salvati da questa catastrofe – ma qualcuno ci sente?
Centinaia di migliaia di gazawi sono fuggiti verso sud da venerdì, quando l’esercito israeliano ha ordinato ai cittadini del nord di Gaza di evacuare. Centinaia di persone si sono rifugiate nelle scuole dell’UNRWA, altre nell’ospedale medico Nasser e altre ancora nelle case di amici e parenti. In pochi giorni, la popolazione di Khan Younis – la città più grande nella parte meridionale della Striscia – è aumentata drasticamente.
Khalid Al-Bura’y, un padre 35enne di Gaza City, è stato costretto a trasferire la sua famiglia più volte nell’ultima settimana e mezza. “Quando è iniziata la guerra, ci siamo rifugiati nella scuola dell’UNRWA [a Gaza City]”, ha detto. “Ma in seguito le scuole non erano più sicure, poiché molte di esse erano state gravemente danneggiate [dagli attacchi aerei israeliani]. Allora le forze di occupazione ci hanno ordinato di fuggire verso sud, ed è per questo che mi sono trasferito con la mia famiglia e quella di mio fratello in una scuola dell’UNRWA nella zona ovest di Khan Younis”.
Al-Bura’y ha sottolineato che le condizioni della scuola sono insostenibili. “La vita qui è estremamente difficile. Non c’è acqua potabile. Non c’è corrente e le comunicazioni con il mondo esterno sono quasi interrotte. Non possiamo sopportare questa situazione. Abbiamo bambini che vogliono mangiare e qui non c’è nulla di ciò di cui abbiamo bisogno. Il clima sta diventando sempre più freddo e non ci sono abbastanza coperte. I miei figli si ammaleranno”.
I rifugi sovraffollati possono portare a devastanti effetti secondari sulla salute pubblica, con segnalazioni già effettuate sulla diffusione di malattie infettive, tra cui il vaiolo. “Prima della guerra contro Gaza, il vaiolo si era diffuso nelle scuole tra gli studenti”, ha detto Suad Muhsen, una madre di 37 anni. “All’epoca stavo attenta ai miei figli, ma quando è iniziata la guerra e ci siamo rifugiati nelle scuole, ho notato [un’eruzione cutanea da vaiolo] su alcuni bambini e ho avuto paura che i miei figli si infettassero. La situazione medica e umanitaria delle scuole dell’UNRWA è estremamente grave. A causa della carenza d’acqua, è difficile mantenere l’igiene. Stiamo soffrendo cercando di sopravvivere in ogni modo possibile”.
Altri non sono riusciti nemmeno a trovare un riparo. A Khan Younis ci sono a malapena abbastanza posti letto per accogliere l’afflusso di persone in fuga dal nord di Gaza, e alcuni sono costretti a dormire per strada.
Mohammed Abu-Arar, originario di Khuza’a, una città a est di Khan Younis, dorme per strada con i suoi vicini e la sua famiglia dall’inizio della guerra. “Non sappiamo nulla delle nostre case, se sono state distrutte o meno”, ha detto. “Dormire per strada è terribile, ma non abbiamo altra scelta. Le scuole dell’UNRWA erano già affollate e lo sono diventate ancora di più a causa delle persone in fuga dal nord di Gaza. Resteremo in strada fino alla fine della guerra”. Se saranno colpiti dagli attacchi aerei israeliani, ha detto Abu-Arar, condivideranno semplicemente lo stesso destino di coloro che sono stati uccisi in questa guerra. “Le nostre vite non sono più preziose di quelle di tutte le vittime”.
“Hanno mirato alla sua casa”
Tutti a Gaza hanno perso persone che conoscevano. Il mio insegnante di chimica dell’undicesimo anno, Mahmoud Al-Masry, se n’è andato. Era un insegnante adorabile, brillante e gentile, che ci guidava in questa materia difficile. Viveva a Khan Younis, dove un’intera generazione di studenti ha pianto per la sua morte.
Isra’a Al-Najjar, 31 anni, ha raccontato i suoi ricordi di Al-Masry. “Mentre guardavo il telegiornale di lunedì [16 ottobre] sera, ho visto la foto del mio insegnante e sono rimasta scioccata”, ha detto. “Ricordo il suo sorriso timido e la sua tranquillità durante le lezioni, le parole che usava per incoraggiarci. Non ho mai pensato per un momento che avremmo perso questo prezioso insegnante. La nostra mente non può sopportare tutte le perdite di questa dolorosa guerra. Tutti i miei amici hanno pianto per la morte del nostro insegnante. Come potevamo immaginare che non l’avremmo più rivisto per le strade di Khan Younis?”.
“Gli aerei da guerra della forza di occupazione hanno attaccato i civili in questo modo selvaggio”, ha continuato Al-Najjar. “Hanno mirato alla sua casa. Era con i suoi figli e nipoti”. L’attacco aereo ha ucciso più di una dozzina di persone. Questa famiglia non c’è più.
“Martedì mattina alle 7, il giorno dopo l’uccisione del mio insegnante, ho sentito un’enorme esplosione vicino a casa mia, nel quartiere di Al-Fukhari. Siamo usciti tutti in strada per cercare di trovare i vicini, temendo altri missili. Abbiamo visto che l’attacco aereo aveva colpito la casa del nostro vicino, Bassam Abu Aker”. Bassam, sua moglie, i suoi cinque figli e sua nipote sono stati uccisi. Suo figlio Odeh, 12 anni, è l’unico sopravvissuto.
“Vogliamo sfamare tutti quelli che sono fuggiti”
Nonostante il loro dolore e le continue violenze, i residenti di Khan Younis cercano di fornire aiuto a coloro che sono fuggiti dal nord di Gaza. Jameel Abu Asi, ad esempio, cucina 2.000 pasti ogni giorno e li distribuisce in tutta la città a coloro che sono arrivati dal nord.
“Questa iniziativa è stata lanciata dalla mia famiglia dopo che gli aerei da guerra israeliani hanno bombardato il nostro ristorante” nel 2014, ha spiegato Abu Asi. “Non potevamo riparare i danni e riaprire il ristorante, così abbiamo deciso di cucinare i pasti e distribuirli alle persone in fuga nelle scuole dell’UNRWA. I residenti di Khan Younis mi portano gli ingredienti e io cucino. Lavoriamo dalle prime ore del mattino fino a sera.
*Ruwaida Kamal Amer è una giornalista freelance di Khan Younis.
L’articolo originale può essere letto al link seguente:
972mag.com/khan-younis-humanit…
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Allarme nel Caucaso: l’Azerbaigian sta per invadere l’Armenia?
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 20 ottobre 2023 – La riconquista da parte dell’Azerbaigian del Nagorno-Karabakh, enclave armena che dopo 30 anni ha cessato di essere una repubblica di fatto indipendente da Baku lo scorso 20 settembre, non sembra aver riportato la calma nella regione, anzi.
Dagli USA voci di una imminente invasione
Secondo il quotidiano “Politico”, a inizio ottobre il segretario di Stato americano Antony Blinken avrebbe avvisato un piccolo gruppo di parlamentari sulla possibilità che l’Azerbaigian proceda presto ad un’invasione dell’Armenia. L’amministrazione Biden ha smentito, ma poi il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha avvisato Baku sulle «gravi conseguenze» derivanti la violazione dell’integrità territoriale armena.
Di nuovo, rispetto all’allarme lanciato da Blinken, c’è ora che il regime di Ilham Aliyev potrebbe approfittare della crisi mediorientale per portare a termine, impunito, un obiettivo strategico di Baku: l’occupazione del sud dell’Armenia.
In numerose occasioni lo stesso dittatore azero ha definito la provincia meridionale armena di Syunik come “Zangezur occidentale”, reclamandone la sovranità. Lo stesso ha fatto a proposito della capitale armena Erevan, definita in realtà «una città storicamente azera».
Aliyev issa la bandiera azera sull’Artsakh
Dopo che le sue truppe hanno sbaragliato le difese della Repubblica di Artsakh in appena 24 ore, decretando la fine della plurisecolare presenza armena nella regione e la precipitosa fuga di più di 100 mila abitanti terrorizzati dalla possibile pulizie etnica, il 15 ottobre il leader azero si è recato a Stepanakert, l’ex capitale del Nagorno-Karabakh ridotta ormai a città fantasma. Nella ribattezzata Khankendi, Aliyev ha issato la bandiera azera e calpestato quella armena, radioso per la vittoria che, ha spiegato, ha esaudito un desiderio coltivato per 20 anni, cioè da quando sostituì il padre Heydar alla guida del regime.
Una “grande Turchia” dal Mediterraneo alla Cina
Ora Baku sembrerebbe voler approfittare del contesto internazionale e dell’estrema debolezza dell’Armenia per invaderla, occupandone i territori meridionali; otterrebbe così la continuità territoriale con il Nakhchivan, provincia azera che sorge ad ovest del territorio armeno, per raggiungere il quale da decenni i convogli in partenza da Baku devono attraversare il nord dell’Iran, paese con il quale l’Azerbaigian ha rapporti non proprio idilliaci.
L’Iraninfatti, che pure si è tenuta fuori dal conflitto azero-armeno, teme assai la possibile continuità territoriale che proietterebbe l’influenza economica, politica e militare turca fino all’Asia centrale costellata di ex repubbliche sovietiche turcofone e fino al cosiddetto “Turkestan orientale”, cioè la regione cinese dello Xinjiang abitata dagli Uiguri musulmani, bypassando completamente Russia e Iran.
Inoltre Teheran rimprovera ad Aliyev la sua alleanza con Israele e la concessione a Tel Aviv di alcune basi, in territorio azero, dalle quali gli israeliani spiano l’Iran. Da tempo Israele fornisce quasi il 70% delle armi acquistate dall’Azerbaigian, che in cambio fornisce a Tel Aviv il 40% degli idrocarburi importati. Nel frattempo Baku caldeggia un avvicinamento ulteriore tra la Turchia – il principale sponsor dell’espansionismo azerbaigiano – e Israele, che però proprio in questi giorni il massacro dei palestinesi di Gaza da parte di Tsahal mette a dura prova.
Per tentare di dissuadere Aliyev dall’aggredire Erevan, Teheran negli ultimi mesi ha tentato di intavolare con Baku una trattativa per la normalizzazione quantomeno delle relazioni commerciali, promettendo una via più rapida per le merci e gli idrocarburi azeri nel loro transito verso ovest attraverso il territorio iraniano. Aliyev non sembra tirarsi indietro.
Ilham Aliyev e Recep Tayyip Erdogan
Continue minacce all’Armenia
Però al tempo stesso il regime azero continua a mandare messaggi aggressivi all’Armenia, accusata di ostacolare la continuità territoriale con il Nakhchivan e di continuare ad occupare 8 villaggi azeri, che si trovano in 5 piccole exclave azerbaigiane in territorio armeno.
In realtà l’Azerbaigian occupa 215 chilometri quadrati di territori strappati alla Repubblica di Armenia, per la maggior parte nell’aggressione militare condotta contro Erevan nel settembre 2022, quando si impossessò di alture strategiche che consentirebbero alle truppe di Baku di bersagliare obiettivi armeni anche a grande distanza.
Mentre a Baku, sostengono alcuni analisti che monitorano i cieli, continuano ad arrivare cargo israeliani carichi di armi di ultima generazione, le truppe armene dispongono di difese obsolete. Difficilmente la promessa di Macron di inviare armi a Erevan – ammesso che si concretizzi – cambierà di molto i rapporti di forza.
Erevan e Mosca sempre più distanti
Mosca, da parte sua, ha da tempo mollato l’Armenia, avamposto cristiano nel Caucaso islamico ormai abbandonata al suo destino in virtù di vari fattori. Da una parte la volontà di punire il governo di Nikol Pashinyan, filoccidentale e ulteriormente avvicinatosi a Washington e Bruxelles dopo che nel 2020 la Russia si era ben guardata dal bloccare l’aggressione militare azera che condusse alla perdita, da parte dell’Artsakh, della maggior parte dei territori conquistati negli anni ’90. Ora ci si è messa anche l’adesione alla Corte Penale Internazionale – che Pashinyan afferma di voler utilizzare per denunciare i crimini di guerra azeri – ad allontanare i due paesi. All’ultima riunione della CSI (la Confederazione degli Stati Indipendenti guidata da Mosca) Pashinyan non si è fatto vedere. Per tutta risposta la Russia blocca da settimane le merci armene dirette all’interno della Federazione e accampa scuse per non consegnare a Erevan armi che gli armeni hanno già pagato, per quanto a prezzo di favore, in quanto entrambi i paesi aderiscono al Trattato per la Sicurezza Collettiva dal quale però Pashinyan si è ormai di fatto ritirato visto l’immobilismo dell’alleanza militare nei confronti dell’aggressività azera.
L’alleanza tra Russia e Azerbaigian
Dissidi politici a parte, inoltre, Mosca non vuole inimicarsi la Turchia, con la quale negli ultimi anni ha intavolato una altalenante ma utile relazione che accentua la già consistente distanza tra Erdogan e l’Alleanza Atlantica. Per non parlare poi degli interessi economici e commerciali della Russia in Azerbaigian in un momento delicato come quello venutosi a creare dopo l’invasione dell’Ucraina. Pochi giorni prima che le truppe di Mosca violassero i confini di Kiev, Russia e Azerbaigian hanno firmato un importante trattato politico-militareallargato poi al fronte energetico: l’Azerbaigian acquista già ingenti quantità di gas russo – potendo così destinare all’esportazione quello estratto in patria – e presto farà lo stesso con il petrolio, consentendo a Mosca di aggirare l’embargo sugli idrocarburi decretato da UE e USA.
Profughi armeni in fuga dal Nagorno-Karabakh
L’Armenia rischia il tracollo
Se davvero Aliyev decidesse di infliggere a Erevan un ulteriore colpo invadendo il paese e occupandone le regioni meridionali, l’Armenia potrebbe opporre davvero una flebile resistenza, non potendo contare né su ingenti risorse economiche utili a riempire gli arsenali né su alleati internazionali di peso disponibili a mettersi di traverso.
Nelle ultime settimane sia l’amministrazione Biden sia il governo francese sia i dirigenti delle istituzioni europee hanno aumentato la pressione su Baku affinché desista dai bellicosi propositi. Washington, ad esempio, ha sospeso il rinnovo della deroga che le consente di eludere il Freedom Support Act, provvedimento che impedirebbe di fornire aiuti militari all’Azerbaigian aggirato sistematicamente dal 2002.
Ma la finestra apertasi dopo la sconfitta dell’Artsakh e l’esplosione delle crisi in Ucraina e Palestina, potrebbe rappresentare un’occasione davvero troppo ghiotta per convincere Erdogan e Aliyev a rinunciare ad una vittoria che cambierebbe in maniera netta gli equilibri politici, economici e militari di tutto il Caucaso.
Sarebbe una catastrofe per l’Armenia che potrebbe addirittura collassare come paese. Ma anche per Putin, che pure negli ultimi anni non ha voluto e potuto intervenire per bloccare le pretese dell’alleato azero, si tratterebbe di un colpo significativo alla sua influenza nel Caucaso, dove l’egemonia di Turchia e Azerbaigian diventerebbe difficile da contrastare.
Per ora i vari attori internazionali fanno qualche timido passo: Parigi ha annunciato che aprirà presto un ufficio dell’addetto militare a Erevan e un consolato a Syunik, unendosi così a Iran e Russia. Ma nessun paese, da oriente a occidente, ha finora imposto sanzioni a Baku, anche se il parlamento europeo ha approvato nei giorni scorsi una risoluzione in tal senso.
Intanto le truppe azere, il 23 e 24 ottobre, hanno in programma esercitazioni congiunte con alcuni reparti dell’esercito turco in Nakhchivan e nel Nagorno-Karabakh. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Reblog via Pirati.io Il tweet pubblicato poco fa dal dipartimento diritti umani delle Nazioni Unite è la migliore risposta alle chiacchiere di Ylva Johansson @Privacy Pride «Strumenti e servizi crittografati end-to-end proteggono tutti noi dalla criminalità, dalla sorveglianza e da altre minacce. I governi dovrebbero promuoverne l’uso anziché imporre la scansione lato client e altre misure che...
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Voto sul chatcontrol rinviato: enorme successo in difesa della privacy digitale della corrispondenza!
La votazione per il regolamento #CSAR aka #Chatcontrol è stata ancora una volta posticipata. Gli stati🇪🇺 non hanno trovato un accordo che consenta di avere la maggioranza. 🇮🇹 non pervenuta nel dibattito.
(grazie a @Pietro Biase :fedora: per la segnalazione)
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Voto sul controllo della chat rinviato: enorme successo in difesa della privacy digitale della corrispondenza!
La votazione per il regolamento #CSAR aka #Chatcontrol è stata ancora una volta posticipata. Gli stati🇪🇺 non hanno trovato un accordo che consenta di avere la maggioranza.Pirati.io
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Le contraddizioni dell’UE: è un gigante regolatorio ma un nano finanziario
Si discute e si discuterà sui vincoli europei al bilancio nazionale (il Patto di stabilità e crescita da rivedere), ma c’è un altro aspetto della finanza europea che è rilevante, quello del bilancio dell’Unione. Quest’ultimo è oggi alimentato dalle contribuzioni degli Stati membri in relazione alla loro ricchezza, da dazi doganali sulle importazioni dall’esterno dell’Unione, da una quota dell’Iva riscossa dagli Stati e da altre minori entrate. Esso riguarda 27 nazioni, ma è inferiore alla somma dei bilanci delle regioni italiane. Per rendersi conto delle proporzioni del problema, ricordo che l’Italia ha solo il 13 per cento della popolazione europea, ma ha un bilancio di dimensioni circa sei volte superiore a quello dell’Unione.
Queste non sono le uniche contraddizioni. L’Unione è un gigante regolatorio, ma un nano finanziario: disciplina quasi ogni aspetto della vita delle nazioni europee, fino alla qualità delle acque di balneazione, ma non ha una propria politica redistributiva. I mercati dei Paesi europei sono uniti; vi sono un’unione bancaria e un’unione monetaria; ma il bilancio europeo è di dimensioni molto modeste, rispetto allo sviluppo raggiunto dall’Europa in termini di territorio, popolazione e poteri.
L’euro è una moneta senza Stato, ma c’è da chiedersi se un potere pubblico sovranazionale, che tiene sotto controllo 27 Stati, possa sopravvivere senza un bilancio di dimensioni adeguate ai suoi obiettivi e ai suoi compiti crescenti. Il bilancio, governando entrate e spese, è l’unico strumento che consente una funzione redistributiva sia tra i cittadini, sia tra le regioni, sia tra le nazioni europee, come già fa, in parte, con le politiche di coesione che favoriscono le zone meno sviluppate, qual è il Sud dell’Italia. Per rendersi conto dell’importanza del bilancio per ogni potere pubblico, sia substatale (ad esempio, una regione), sia statale, sia sovrastatale, e per capire quanto sia rilevante l’allocazione delle risorse per ogni gestione pubblica, basta considerare il dibattito che accompagna l’analogo strumento in Italia.
Negli ultimi anni, qualche progresso è stato compiuto. In risposta alla pandemia, l’Unione si è dotata di strumenti finanziari, in particolare tramite l’indebitamento, per realizzare gli interventi per l’occupazione (Sure), per quelli diretti alle nuove generazioni (Next generation EU, un piano di investimenti erogati agli Stati membri), per l’acquisto dei vaccini, per gli aiuti militari all’Ucraina, per l’agenda verde e per quella digitale, tutti interventi che richiedono risorse, impongono una centralizzazione delle responsabilità di bilancio e una capacità finanziaria centrale.
Una Unione sempre più stretta non può quindi limitarsi a disporre vincoli ai bilanci statali, ma deve avere un proprio bilancio degno delle dimensioni dell’Unione Europea per offrire quei «beni pubblici europei» che gli Stati non possono produrre individualmente. Questo bilancio, al quale dovrebbero contribuire i cittadini europei, potrebbe rappresentare in futuro un ottimo scudo anche per i bilanci degli Stati, come quello italiano, che — a causa dell’alto debito pubblico — non sono sottoposti soltanto ai vincoli dell’Unione, ma debbono anche rispettare i vincoli che derivano dai mercati: più spese a livello europeo darebbero luogo a meno spese a livello nazionale, alleviando quindi la pressione sui bilanci degli Stati.
Gli articoli 313-324 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea regolano già oggi il bilancio, e ne disciplinano la procedura (che passa attraverso decisioni del Parlamento europeo e del Consiglio per l’approvazione), nonché la responsabilità della Commissione per l’esecuzione.
Per finanziare un bilancio di maggiori dimensioni, c’è bisogno di più entrate stabili. La recente proposta della Commissione di una base imponibile armonizzata per la tassazione delle imprese — denominata Befit — può essere l’occasione per dotare l’Unione europea di adeguate «risorse proprie» per finanziare le maggiori spese a livello centrale o come garanzia per l’emissione di debito comune (in quest’ultimo caso, tuttavia, una revisione del Trattato sembra inevitabile).
Il raccordo necessario tra bilancio europeo e vincoli europei ai bilanci nazionali dipenderà dalla prossima revisione del Patto di stabilità e di crescita e dalla sua applicazione perché sane regole finanziarie sono la condizione per devolvere più compiti e risorse all’Unione europea.
Dunque, vi sono tutte le premesse perché l’Unione possa trarre vigore da un bilancio proprio, di dimensioni corrispondenti al prodotto interno lordo dell’intera area europea, aumentando le proprie entrate, sia fiscali sia derivanti dall’indebitamento, e rafforzando così il proprio ruolo di grande intermediario finanziario, capace di svolgere una funzione di supporto della doppia transizione verde e digitale, investire nella difesa e nella sicurezza e condurre una politica redistributiva tra cittadini, regioni e Stati europei.
In attesa di decisioni più radicali della Commissione, del Consiglio e del Parlamento dopo le elezioni del prossimo giugno, la rapida approvazione della revisione a metà percorso del bilancio pluriennale dell’Unione, proposta dalla Commissione, sarebbe un primo passo nella buona direzione.
In un lucido saggio su «Un nuovo mutamento di struttura della sfera pubblica politica», appena pubblicato in traduzione italiana, a cura di Marina Calloni, dall’editore Raffaello Cortina, il grande filosofo tedesco Jürgen Habermas ha scritto che «le paure del declino sociale e il timore di non essere in grado di far fronte alla inesorabile complessità dei cambiamenti sociali accelerati», «consigliano agli Stati nazionali riuniti nell’Unione Europea la prospettiva di una maggiore integrazione, nel tentativo di recuperare quelle competenze perse a livello nazionale nel corso di questo sviluppo, creando nuove capacità di azione politica a livello transnazionale».
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“Da amico a nemico”: Palestinesi in Israele sospesi dal lavoro a causa della guerra
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di Ylenia Gostoli
Pubblicato su Al-Jazeera il 15 ottobre 2023
(Traduzione a cura di Federica Riccardi) –
Pagine Esteri, 17 ottobre 2023. Sabato 7 ottobre, Noura* si è recata al lavoro come al solito di buon mattino nell’ospedale in Israele dove lavora da più di due anni. L’operatrice sanitaria palestinese aveva dato una rapida occhiata al telegiornale, ma nella fretta di arrivare in tempo al lavoro non aveva compreso appieno la portata di quanto stava accadendo nel Paese: un attacco del gruppo armato palestinese Hamas al sud di Israele che avrebbe causato la morte di almeno 1.300 persone in Israele. In risposta, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha lanciato una campagna di bombardamenti mortali sulla Striscia di Gaza che ha ucciso più di 2.300 palestinesi e ha imposto un assedio totale all’enclave, bloccando le forniture di cibo, medicinali e carburante. Un’invasione di terra sembra imminente.
Ma sabato mattina Noura non era a conoscenza di nulla di tutto ciò. I gruppi armati palestinesi lanciano periodicamente razzi nel sud di Israele, che vengono per lo più intercettati dal sistema di difesa missilistica del Paese, noto come Iron Dome.
Così, quando una collega visibilmente scossa ha parlato a Noura dell’accaduto, lei ha risposto dicendole: “Non è la prima volta” – una risposta che ora riconosce essere stata priva di empatia.
Ma quando sono emersi ulteriori dettagli e la natura senza precedenti dell’attacco è diventata più chiara, Noura è stata convocata nell’ufficio del suo manager, le è stato detto di lasciare il lavoro e di non tornare fino a nuovo ordine, a causa di quella conversazione precedente con la sua collega.
“Mi sono sentita molto offesa, non potevo credere che mi stesse succedendo questo”, ha detto Noura, che è una degli 1,2 milioni di palestinesi cittadini di Israele – circa il 20% della popolazione del Paese.
“Mi sento discriminata“, ha continuato. “Giorno dopo giorno, non te ne accorgi più. Ma lo senti quando succede una cosa del genere. Sai che automaticamente ti trasformi da amico a nemico”.
Poco dopo, ha ricevuto una lettera dalla direzione dell’ospedale, che Al Jazeera ha esaminato, in cui veniva convocata per un’udienza per formalizzare la sua sospensione per aver violato il codice disciplinare dell’istituto, sostenendo l’attacco di Hamas.
Noura ha negato di aver mai pronunciato le parole di cui è stata accusata.
“La cosa che mi ha offeso di più è che quando mi hanno convocata per l’incontro avevano già deciso, la decisione era stata presa. Non hanno voluto ascoltare”, ha detto Noura a proposito dell’udienza, prevista a breve.
Ha parlato con Al Jazeera a condizione di anonimato perché, nonostante tutto, spera di poter essere ascoltata in modo equo e di mantenere il suo lavoro.
Decine di reclami
Noura non è sola. Avvocati e organizzazioni per i diritti umani in Israele hanno ricevuto decine di denunce da parte di lavoratori e studenti che, da sabato scorso, sono stati bruscamente sospesi da scuole, università e luoghi di lavoro a causa di post sui social media o, in alcuni casi, di conversazioni con i colleghi.
Le lettere inviate da alcuni istituti o uffici, esaminate da Al Jazeera, citavano i post scritti sui social media e il presunto sostegno al “terrorismo” come motivo della sospensione immediata “fino a quando la questione non sarà indagata”. In alcuni casi, i destinatari sono stati convocati a comparire davanti a una commissione disciplinare.
“Persone che hanno lavorato per tre, quattro, cinque anni si sono ritrovate a ricevere lettere in cui si diceva di non presentarsi al lavoro a causa di ciò che avevano pubblicato”, ha dichiarato ad Al Jazeera Hassan Jabareen, direttore di Adalah, del Legal Centre for Arab Minority Rights in Israel, da Haifa, città del nord del Paese.
In alcuni casi, “si dice che le udienze si terranno in una data successiva, ma non si [specifica] quando”, ha detto. “L’udienza dovrebbe tenersi prima di ottenere la decisione”.
Adalah è a conoscenza di almeno una dozzina di lavoratori sospesi da sabato scorso in circostanze simili, per lo più a causa di post sui social media. Ha inoltre ricevuto le denunce di circa 40 studenti palestinesi delle università e dei college israeliani che hanno ricevuto lettere di espulsione o sospensione dalle loro istituzioni.
Wehbe Badarni, direttore del sindacato dei lavoratori arabi nella città settentrionale di Nazareth, ha dichiarato ad Al Jazeera che il sindacato sta seguendo più di 35 denunce, tra cui studenti e lavoratori di ospedali, alberghi, stazioni di servizio, ristoranti e call center.
In una lettera visionata da Al Jazeera, un’azienda aveva convocato un dipendente per un’udienza telefonica per “esaminare la possibilità di terminare il rapporto di lavoro con l’azienda” a causa di “post che sostengono attività terroristiche e incitamento”.
“L’incitamento al terrorismo è un’accusa grave che deve essere provata in tribunale”, ha dichiarato Salam Irsheid, avvocato di Adalah. “A nostro avviso, ciò che sta accadendo in questo momento non è legale”.
‘Atmosfera di terrore’
Un altro operatore sanitario con cui Al Jazeera ha parlato a Tel Aviv ha detto che sta facendo tutto il possibile per mantenere un basso profilo, per paura di punizioni. “Nessuno parla della situazione, ogni mattina mi trovo di fronte a facce scontrose e arrabbiate, considerando che sono l’unico palestinese che lavora lì”, ha detto ad Al Jazeera.
“Le notizie sono terribili, ma quando sono al lavoro cerco di far finta che tutto sia solo una notizia. Non posso davvero esprimere o parlare di ciò che sta accadendo”, ha detto. “Dall’ultima guerra [nel 2021] tutti tengono un profilo basso”.
Physicians for Human Rights Israel, un’organizzazione no-profit fondata più di tre decenni fa a Jaffa, ha gestito diversi casi di sospensione di operatori sanitari dal 2021, dopo l’ultima guerra tra Hamas e Israele, secondo la presidente del consiglio di amministrazione, la dottoressa Lina Qassem Hasan.
In un caso di alto profilo, Ahmad Mahajna, medico dell’ospedale Hadassah di Gerusalemme, è stato sospeso per aver offerto dolci a un adolescente palestinese che si trovava sotto la custodia della polizia nell’ospedale, dove veniva curato per ferite da arma da fuoco dopo un presunto attacco. “C’è un’atmosfera di terrore, la gente ha paura”, ha detto la dottoressa Qassem ad Al Jazeera.
Il 12 ottobre era prevista una visita bimestrale a Gaza con il suo gruppo per i diritti umani. La visita di medici e psicologi di questo mese è stata annullata dopo l’attacco di Hamas. Invece, si è trovata a curare i pazienti evacuati dalle loro case nel sud di Israele.
Una stazione radio locale l’ha intervistata durante la sua visita. “In questa intervista, ho detto che ciò che Hamas ha fatto è un crimine di guerra ai miei occhi, e che vedo anche che ciò che Israele fa a Gaza è un crimine di guerra”, ha detto.
“Due ore dopo l’intervista, ho ricevuto una telefonata dal mio datore di lavoro”, ha detto Qassem, che esercita anche la professione di medico in una clinica. Non le è stato chiesto di smettere di parlare con i media, ma “è stato come un avvertimento per me che devo stare attenta, sai, che [loro] seguono quello che [io] faccio “.
I cittadini palestinesi di Israele hanno storicamente affrontato discriminazioni sistemiche, tra cui la cronica mancanza di investimenti nelle loro comunità con – secondo Adalah – più di 50 leggi che sono pregiudizievoli nei loro confronti.
Eppure “il razzismo si è ulteriormente accelerato”, ha dichiarato l’avvocato Sawsan Zaher ad Al Jazeera. “Quello che stiamo vedendo ora è qualcosa che non abbiamo mai visto prima”.
“Il solo fatto di esprimere la propria opinione, anche se non si tratta necessariamente di incitamento ai sensi del codice penale… ora è sufficiente per l’accusa di esprimere sostegno non solo ad Hamas, ma al popolo palestinese in generale”, ha aggiunto.
Zaher ha detto che la gente ha sempre più “paura di parlare arabo” in pubblico.
Anche Noura è solita tenere la testa bassa.
“In ogni situazione in cui c’è un incidente o qualcosa che accade, cerchiamo di non parlarne affatto. Cerchiamo di dimenticarlo, di metterlo in secondo piano perché sappiamo che verremo giudicati se diremo una parola”, ha detto Noura.
“Questa volta è stato un mio errore rispondere”.
*Il nome è stato cambiato su richiesta della persona per evitare potenziali ritorsioni.
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Presentazione della Scuola di Liberalismo 2023 di Mesina – RTP Giornale
Un punto
Per un punto Martin perse la cappa. È divenuto un modo di dire popolare, a intendere che per un dettaglio si può perdere molto. Martino perse il priorato (XVI secolo) per avere collocato male la punteggiatura, sovvertendo il significato della frase, sicché la porta del convento anziché rimanere sempre aperta, non rifiutando l’ingresso a nessun onesto, sembrò dover restare chiusa, rifiutando l’ingresso specialmente agli onesti. Povero Martino. Ma poveri anche noi, perché un punto è lì a indicarci che stiamo perdendo fiumi di soldi e, con loro, anche la testa.
Il 16 ottobre scorso la Commissione europea ha raccolto i progetti di bilancio di ciascun Paese dell’Unione. Di quello italiano abbiamo scritto, mettendo in evidenza la fragilità di una riduzione minimale del peso del debito sul Prodotto interno lordo, a fronte di una previsione di crescita nel 2024 che appare assai ottimistica. Purtroppo il dibattito successivo non si è concentrato su quel decisivo aspetto, preferendo o l’illustrazione dei vari benefici – senza troppo badare né all’efficacia né alla sostenibilità – oppure gli aspetti politicisti, che mandano in sollucchero politici e commentatori che disdegnano il far di conto. Come ad esempio la bislacca storia degli emendamenti, che il governo intenderebbe interdire ai parlamentari della propria maggioranza (tanto non li può proibire, siamo certi che ne saranno presentati e se la risposta sarà un dissennato rifiuto del confronto parlamentare ciò potrebbe minare la maggioranza stessa). Tutta roba per dibattiti tanto alati quanto volatili.
Ma se si prendono i numeri presentati da ciascun Paese, pur con il beneficio d’inventario delle previsioni su sé stessi (come le nostre), un brivido corre lungo la schiena. Un punto percentuale dovrebbe inquietare e far suonare tutti gli allarmi. Invece nulla.
Colpisce il fatto che nel 2024 l’Italia dovrebbe essere, con la Finlandia, il Paese che cresce meno. Significativo, ma è anche vero che veniamo da tre anni in cui si è cresciuti più della media europea o comunque più di altri grandi Paesi, per non dire della Germania. Il guaio vero non è essere in coda alla crescita, che ci può pure stare, ma esserlo nel tempo in cui i soldi europei di Next Generation Eu, impiegati secondo il Pnrr – ovvero il Piano italiano d’investimenti (e riforme) – dovrebbero dare una spinta alla crescita. Ma questa roba pare abbia annoiato il pubblico e anche gli attori politici, come se “l’occasione irripetibile” sia divenuta “il fastidio trascurabile”. Il guaio aggiuntivo è che si è in fondo alla classifica con una previsione del +1,2%, che ben difficilmente raggiungeremo. E non si cominci a tirare in ballo le guerre, perché sono cose note e dette da prima.
Il punto di caduta è un altro: la Grecia spende nel 2023 il 3,3% della ricchezza prodotta per pagare il costo del debito, mentre conta di spenderne il 3,2% nel 2024; noi spendiamo quest’anno il 3,8% e contiamo di spenderne nel 2024 il 4,2%. Ma non basta, perché prevediamo di vedere crescere quel peso al 4,6% nel 2026. Si tratta di quasi 104 miliardi di euro spesi per la gioia d’essersi troppo indebitati. E non è vero che il costo cresce per le scelte operate dalla Banca centrale europea, che valgono per tutti e anche per la Grecia: cresce perché il debito non scende al ritmo previsto.
Lo spread è divenuto un totem mal interpretato. Se sale si dice che i mercati “bocciano il governo”, se scende che lo “promuovono”, e questa danza tribale la praticano gli uni e gli altri. Ma, appunto, sale e scende restando troppo alto. I 100 e più miliardi non scendono, ma salgono e basta. Quel punto di differenza con la Grecia è un buco nero scavato dall’irresponsabilità.
In un Paese assennato quello sarebbe il centro della preoccupazione, dell’attenzione e del dibattito, confrontando ricette diverse per rimediare. Qui gareggiano ricette diverse per fare più debito. Magari pensando che sia una specie di affermazione della sovranità, laddove ne è la tomba.
La Ragione
L'articolo Un punto proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Ministero dell'Istruzione
#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta di una scuola moderna, inclusiva, senza barriere architettoniche, attenta ai diversi stili di apprendimento e con laboratori tematici: sarà così l’Istituto comprensivo di Sant’Elpidio a Mare, in provincia d…Telegram
Un chip che funziona come un cervello. Così gli Usa si svincolano dall’Asia
Un nuovo modo di intendere i microprocessori, che fonde insieme memoria e capacità di processamento delle informazioni, imitando le sinapsi del cervello umano, potrebbe essere la risposta Usa nella competizione con la Cina nel campo dei microchip. Il prototipo, chiamato NorthPole chip, presentato da Ibm apre la strada allo sviluppo di sistemi che non avranno bisogno di cloud o Internet per la loro “intelligenza”, potendo fare affidamento direttamente sulle proprie capacità di immagazzinare e processare le informazioni in maniera autonoma. Per la Difesa, questo significa poter dotare le proprie Forze armate di strumenti praticamente immune alle capacità degli avversari di agire nello spettro elettromagnetico. In pratica, si tratta di rendere l’equipaggiamento dei soldati (come, per esempio, i visori notturni) o i sistemi unmanned (droni e robot) del tutto inattaccabili da offensive cyber o di jamming.
Come un cervello
Imitando quanto avviene all’interno delle connessioni sinaptiche di un cervello umano, Ibm ha creato “una architettura di inferenza neurale che sfuma il confine [tra memoria e processamento] eliminando la memoria off-chip, intrecciando il calcolo con la memoria on-chip e apparendo esternamente come una memoria attiva”, hanno spiegato i ricercatori su Science. Questo elemento, oltre a rendere molto più sicuri i chip, consente al tempo stesso un grosso risparmio energetico. Rispetto alla capacità di calcolo di un cervello umano, un computer impiega quantità molto maggiori di energia, e questo è un grosso limite per le applicazioni dell’IA in moltissimi campi, uno fra tutti i trasporti o (nel caso militare) i droni. Inoltre, l’evoluzione tecnologica sta raggiungendo il limite massimo di quanti transistor (i dispositivi utilizzati per realizzare i circuiti elettronici) si possano montare su un unico chip. Il NorthPole di Ibm promette di risolvere entrambi i problemi, ottimizzando in un singolo dispositivo risparmio energetico, spazio ridotto e velocità di calcolo, permettendogli di lavorare a una maggiore efficienza anche rispetto a chip con un numero maggiore di nodi.
L’interesse del Pentagono
Questo tipo di chip è definito neuromorfico (cioè, “a forma di cervello”), e fa parte di un programma avviato nel 2008 dalla Darpa statunitense, il Synapse program, finanziato fino al 2014 con cinquanta milioni di dollari. Dal 2019, il Pentagono ha aumentato il suo investimento fino a novanta milioni. “Con l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa – ha spiegato l’assistente segretario alla Difesa per le Tecnologie critiche, Maynard Holliday – il dipartimento ha riconosciuto la necessità di questo tipo di architetture, specialmente per quegli ambienti contestati dove i nostri segnali potrebbero essere disturbati. Continuare a essere in grado di processare informazioni diventa un vantaggio”.
Chip più intelligenti e capaci di essere indipendenti dalle reti possono aumentare le capacità di numerosi sistemi militari, dai droni, ai robot, all’equipaggiamento dei soldati, potenziando la loro capacità di interagire con i dati esterni. L’aumento delle informazioni che questi processori sarebbero in grado di processare, inoltre, potrebbe portare alla nascita di sensori capaci di registrare un numero maggiore di input, audio, video, infrarossi, sonar e così via, con un consumo molto ridotto di energia. Questi sistemi possono “distinguere le persone in una foto, classificare gli audio, il tutto senza l’aiuto di Internet”.
L’indipendenza dall’Asia
Il nuovo chip, inoltre, porta con sé un vantaggio strategico cruciale: riduce la dipendenza degli Stati Uniti dall’Asia per quanto riguarda il mercato dei microprocessori. Consentendo di fare di più con meno, il NorthPole consente alle Forze armate di avere un rifornimento di chip producibili a livello domestico. Una considerazione fondamentale, dal momento che una delle principali preoccupazioni degli strateghi di Washington è assicurare il rifornimento di chip in caso di invasione cinese di Taiwan. L’isola, infatti, è uno dei principali supplier mondiali di microprocessori avanzati. Un’eventuale interruzione della catena di rifornimento, dovuta a un’ipotetica invasione cinese, metterebbe a rischio persino la capacità Usa di reagire a difesa di Taipei.
Elezioni Argentina: Milei mette alla prova 40 anni di democrazia
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di Massimo D’Angelo –
Pagine Esteri, 20 ottobre 2023. Nel 2023 l’Argentina festeggia 40 anni ininterrotti di democrazia. È il periodo più lungo nella storia del Paese da quando è caduto l’ultimo regime militare, dopo la disastrosa guerra delle Falkland/Malvinas nel 1982. La democrazia ha resistito anche alla devastante crisi economica del 2001, che ha visto cinque Presidenti della Repubblica succedersi in soli 11 giorni. Sicuramente un ottimo motivo di cui essere orgogliosi. Tuttavia, domenica 22 ottobre le argentine e gli argentini si recheranno a votare per scegliere il nuovo – o la nuova – presidente della Repubblica, e molti temono che i festeggiamenti per i successi democratici possano essere rovinati dalla vittoria del favorito Javier Milei, almeno al primo turno.
Il sistema elettorale del Paese prevede che prima delle presidenziali si tengano le Primarie Aperte Simultanee Obbligatorie (PASO), attraverso le quali le coalizioni politiche scelgono la propria classe dirigente. Il 13 agosto 2023, gli argentini hanno votato alle primarie che hanno visto affermarsi l’attuale Ministro dell’Economia Sergio Massa per la coalizione peronista progressista; la securitaria Patrizia Bullrich, ex Ministra della Sicurezza nel governo di centro destra guidato da Mauricio Macri (2015-2019) e Javier Milei, outsider, economista libertario di estrema destra, alla guida di un partito populista personalistico, che si è imposto come la vera sorpresa di questo ciclo elettorale.
Le elezioni si celebreranno nel mezzo dell’ennesimo momento delicato per l’economia del Paese: a febbraio 2023 l’inflazione ha raggiunto il 102,5% e i prezzi di molti beni di consumo sono raddoppiati dal 2022. Inoltre, non appena il governo ha imposto un tetto ai prezzi dei principali generi alimentari per controllarne la crescita, le difficoltà economiche e la povertà sono esplose. Tra i vari problemi, c’è stata anche un’impennata del 20% dei prezzi della carne che ha contribuito alla crisi dell’importantissimo settore alimentare. Così a marzo, a causa delle continue pressioni economiche, il Fondo Monetario Internazionale ha approvato un salvataggio di 6 miliardi di dollari, come parte di un più ampio pacchetto da 44 miliardi. Questa situazione ha contribuito ad approfondire le divisioni nel Paese, in una delle nazioni già da tempo più polarizzate al mondo. Ma ciò che più ha sorpreso di questa tornata elettorale, è il fatto che nessuno dei principali leader politici abbia voluto candidarsi alla presidenza, forse proprio a causa della delicatissima situazione economico finanziaria.
I leader politici fuggono
Il primo a tirarsi fuori è stato l’attuale presidente Alberto Fernández, della coalizione peronista progressista. Fernández si è ritirato dopo i risultati fallimentari della propria politica economica, del calo dei consensi e dei conflitti all’interno della sua stessa coalizione. Altre sfide che hanno caratterizzato l’intera sua presidenza sono state l’aumento della povertà e l’impennata dell’inflazione. Inoltre, il mandato di Fernández è stato segnato dai profondi contrasti con la sua vicepresidente, già presidente (2007-2015) Cristina Fernández de Kirchner. Kirchner, da molti riconosciuta come la vera leader della coalizione, è stata condannata a sei anni di carcere per corruzione. Anche lei ha scelto di non candidarsi, evitando di essere coinvolta in quello che ha definito un “gioco perverso” e una “facciata democratica” che avrebbe potuto portare alla sua estromissione dalla vita pubblica per mano giudiziaria. Infine, l’ex presidente della coalizione conservatrice 2015-2019 Mauricio Macri, che in passato era riuscito a sconfiggere i peronisti, ha deciso di non correre, promettendo invece di lavorare per facilitare la creazione di una forte coalizione di centro destra. Il fatto che le maggiori figure politiche delle coalizioni storiche principali si siano fatte da parte ha senza dubbio aiutato figure politiche meno conosciute di emergere all’interno dell’agone politico, facilitate dalla difficilissima congiuntura politica che il paese sta attraversando.
Chi è Javier Milei?
Javier Milei è un economista di 53 anni che in passato ha anche lavorato per il World Economic Forum. Si è subito affermato come politico la cui visione libertaria di estrema destra si è fatta strada in modo significativo nel panorama politico argentino. Nel 2019, Milei ha fondato il suo partito, La Libertad Avanza. Superando ogni aspettativa, alle primarie di agosto 2023 si è assicurato il 30% dei voti, arrivando primo. Milei si è posizionato politicamente tra la coalizione di centro-destra guidata da Patricia Bullrich, che ha ottenuto il 28,27% dei voti, e il partito peronista di Sergio Massa, che ha ottenuto il 27,27%.
Milei si è detto favorevole all’abolizione della banca centrale, alla totale dollarizzazione del Paese (per quanto i critici sostengano che il paese non disponga di sufficienti riserve di dollari), e a politiche controverse come la legalizzazione della vendita di organi umani. Inoltre, è contrario all’aborto, da poco legalizzato nel paese. Gli analisti individuano nel suo carisma anticonvenzionale e nella sua promessa di totale cambiamento la ragione del suo successo presso l’elettorato in difficoltà sociale ed economica.
Nonostante la sua formazione universitaria e professionale degna della migliore classe dirigente, Milei si presenta come l’underdog della politica argentina. E condivide molti dei tratti tipici dei leader populisti di tutto il mondo, tra cui la fortissima retorica anti-establishment (spesso parla di ‘casta’). I suoi slogan recitano frasi del tipo: “abbiamo avuto 40 anni di fallimenti, non ditemi che questa volta sarà diverso”. Oppure che “il problema centrale è che la soluzione del problema è nelle mani dello stesso problema, cioè dei politici”.
I paragoni con Trump o con il più vicino Bolsonaro abbondano. Ma il confronto più azzeccato a Milei, in realtà, appare quello con l’attuale candidato repubblicano statunitense Ron De Santis, il quale ha studiato in prestigiose università americane e ha indirizzato la sua traiettoria politica utilizzando una fortissima narrativa anti-establishment, anti woke e contro il politicamente corretto. Infatti, come è spesso tipico, i populisti contemporanei provengono dalle classi sociali mainstream, ma ritengono fondamentale proiettare un’immagine distinta da quello che è il corrotto e avido establishment.
Sebastián Mazzuca della Johns Hopkins University concorda sul fatto che gli analisti dovrebbero evitare di saltare a conclusioni affrettate quando confrontano Javier Milei con altri leader regionali. Sebbene sia vero che Milei segue il percorso consolidato di molti leader populisti in tutto il mondo, ci sono delle differenze notevoli. Innanzitutto, Milei ha fondato il suo partito personale non appoggiandosi ad apparati già esistenti. Inoltre, a differenza ad esempio di Trump, Milei è un economista esperto. Tuttavia, sebbene capisca forse ‘troppo’ di economia, dovrebbe imparare rapidamente a tradurre questa conoscenza teorica in programmi politici pratici fattibili. Infine, e soprattutto, Mazzuca fa notare come la follia di Trump del 6 gennaio si sia scontrata con le solide istituzioni indipendenti statunitensi di lunga tradizione: burocrazie civili e militari, informatori di ogni genere e colore e, soprattutto, giustizia. L’Argentina, al contrario, è dominata da un debole Stato patrimoniale. Pertanto, la resistenza istituzionale all’irrazionalità trumpiana sarebbe meno robusta e ciò potrebbe portare a conseguenze allarmanti.
Quale scenario?
L’inaspettata ascesa di Milei alle primarie ha travolto il panorama politico argentino. Il risultato inatteso potrebbe influenzare in modo significativo le prossime elezioni presidenziali di ottobre. Tuttavia, molti analisti ritengono che l’esiguo margine tra le tre fazioni principali renda difficile prevedere un qualsiasi vincitore. Ciò che è probabile, è che se nessuno Milei non riuscisse a ottenere il 45% dei voti al primo turno, allora si passerebbe a un ballottaggio, nel quale le possibilità di coalizzarsi tutti contro l’outsider potrebbero risultare vincenti. Ciò che è certo, è che nel pieno delle difficoltà economiche e l’aumento dello scontro politico, l’elettorato argentino ha lanciato un avvertimento forte alle élites al potere. L’aspetto più evidente rimane il fallimento del modello a due coalizioni, ormai stanco, nel rivitalizzare il panorama politico argentino. Il peronismo rimane legato a Cristina Kirchner, mentre la coalizione di destra è priva di una leadership efficace dopo Macri. La decisione della leadership principale di non concorrere alla presidenza ha spianato la strada a Milei.
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La Cina rimpatria i fuggiaschi nordcoreani
Per J.M. Missionary Union, molte delle espulsioni sarebbero avvenute simultaneamente nelle città cinesi di Tumen, Hunchun, Changbai, Dandong e Nanping, nella serata del 9 ottobre. Secondo Human Rights Watch quelli accertati sarebbero un’ottantina: la maggior parte dei fuggiaschi sono donne e affrontano il “grave rischio di detenzione nei campi di lavoro, di tortura, volenze sessuali, sparizioni forzate ed esecuzioni.”
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In Cina e Asia – Xi vuole cooperare con i paesi arabi per una "soluzione duratura” a Gaza
Conflitto Israele-Hamas, la Cina è pronta a cooperare con i paesi arabi per una "soluzione duratura"
L'Afghanistan vuole entrare nella BRI
Ambasciata cinese negli Usa: "Vertice Biden-Xi possibile solo con il rispetto di 4 interessi fondamentali"
Pentagono: "La Cina avrà 1000 testate operative entro il 2030"
Il Canada ritira dall'India 41 diplomatici
Navi russe e di Hong Kong indagate per danneggiamento al gasdotto sottomarino nel golfo di Finlandia
La BRI diventa un'autostrada per lo yuan. E l'Argentina ne approfitta
Dopo il divieto della Cina, Tokyo potrebbe affidare ai detenuti la lavorazione delle capesante
Corea del Nord, il ministro degli Esteri russo Lavrov incontra Kim
Filippine, l'esercito formerà un comando specializzato contro i cyberattacchi
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LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 14. Biden chiederà 14 miliardi di aiuti militari per Israele. In forse invio oggi aiuti per Gaza
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AGGIORNAMENTI 20 OTTOBRE
ORE 9
L’esercito israeliano afferma di aver colpito più di un centinaio di obiettivi nella Striscia di Gaza. Ha bombardato anche in Libano dove ha ucciso un “miliziano di Hezbollah”. Dopo 11 ore dall’ultimo lancio, questa mattina sono partiti da Gaza alcuni razzi verso il sud di Israele.
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della redazione
Pagine Esteri, 20 ottobre 2023 – Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, invierà al Congresso una richiesta di emergenza per approvare nuovi finanziamenti a sostegno di Israele ed Ucraina. Durante un discorso alla nazione, Biden ha detto che si tratta di “un investimento che andrà a beneficio della sicurezza nazionale per le generazioni a venire, e che contribuirà a costruire un mondo prospero per i nostri figli”. Le autorità di Washington, ha continuato, faranno in modo che Israele abbia “tutti gli strumenti per proteggere il proprio popolo per tutto il tempo necessario”. Tutti gli attori nella regione, ha aggiunto, devono sapere che Israele è “più forte che mai, e questo contribuirà a prevenire ulteriori escalation”.
Secondo il giornale Haaretz di Tel Aviv, il sostegno militare americano potrebbe arrivare fino a 14 miliardi di dollari.
L’agenzia d’informazione economica “Bloomberg” scrive che Israele sta riconsiderando i piani per l’invasione di Gaza dopo la visita di Biden e del Segretario di stato Blinken. L’offensiva di terra sembrava imminente qualche giorno fa e il ministro della difesa Yoav Gallant, ancora ieri, ha ribadito che l’ordine di attacco arriverà presto. Ora, secondo “Bloomberg”, è in corso un ripensamento a causa delle pressioni degli Stati uniti. L’agenzia scrive che dietro le dichiarazioni americane di sostegno incondizionato e all’invio di portaerei e militari Usa nella regione, l’Amministrazione Biden avrebbe invitato alla cautela il governo Netanyahu pur condividendo l’obiettivo di distruggere l’infrastruttura dellìala militare di Hamas a Gaza fatta di una fitta rete di gallerie sotterranee costruite nel corso degli anni. Allo stesso tempo, gli Stati uniti chiedono di minimizzare le vittime civili palestinesi, migliaia di due settimane di bombardamenti aerei. Ed evitare che il conflitto si allarghi al Libano aprendo un secondo fronte che (potrebbe coinvolgere le stesse forze armate statunitensi) e vanificare la normalizzazione tra Israele e i Paesi arabi che Washington porta avanti. Biden durante gli incontri avuti mercoledì con Netanyahu e gli altri membri del gabinetto di guerra israeliano ha discusso varie “alternative” all’invasione di terra di Gaza.
Due giorni fa il ministro degli Esteri Cohen ha ipotizzato la creazione di una “fascia di sicurezza” attorno a Gaza, anziché occupare la Striscia.
Non è certo, anzi sembra slittare, il primo ingresso oggi di aiuti umanitari a Gaza attraverso il valico di Rafah con l’Egitto. Le autorità del Cairo spiegano che ci sono ancora “dettagli” da discutere. Per alcune fonti, l’Egitto vuole avere la certezza che non ci saranno attacchi aerei durante la consegna dei rifornimenti nella Striscia che dovrebbero effettuare 20 dei circa 200 autocarri in attesa sul versante egiziano del confine. Pagine Esteri
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La Fiera del libro di Francoforte cancella la premiazione della scrittrice palestinese: “più spazio a voci israeliane”
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di Eliana Riva
Era stato assegnato alla scrittrice palestinese Adania Shibli, per il suo libro “Un dettaglio minore“, il prestigioso premio letterario LiBeraturpreis, riservato ad autori e autrici del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia. L’agenzia letteraria Litprom, aveva deciso di consegnarle il premio il 20 ottobre, durante la prestigiosissima Fiera del libro di Francoforte, che ogni anno organizza insieme ad altri attori. La giuria ha scelto proprio lei perché, “crea un’opera d’arte composta formalmente e linguisticamente in modo rigoroso che racconta il potere dei confini e ciò che i conflitti violenti causano alle e con le persone. Con grande attenzione, dirige lo sguardo verso i piccoli dettagli, le banalità che ci permettono di intravedere le vecchie ferite e cicatrici che si trovano dietro la superficie“.
Ieri l’agenzia ha fatto sapere che il premio non le verrà più consegnato. La motivazione? “La guerra in Israele”. Il direttore della Fiera di Francoforte, Juergen Boos, ha precisato di voler “rendere le voci ebraiche e israeliane particolarmente visibili alla fiera del libro”. Venerdì, oltre alle 1.300 vittime israeliane fino a quel momento accertate, erano stati già 1.900 i palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza, tra i quali 614 bambini. Un bilancio purtroppo destinato nei giorni successivi a salire fino a raggiungere, oggi, domenica 15, tra le 1.400-1.500 vittime israeliane e 2.228 morti palestinesi a Gaza.
Dopo le proteste degli editori arabi e delle associazioni che li rappresentano, che hanno comunicato che non parteciperanno alla Fiera del libro di Francoforte, l’agenzia Litprom ha fatto un passo indietro, specificando che la cerimonia di assegnazione si farà ma in seguito, quando riusciranno “a trovare un format e un’impostazione adatti per l’evento”. Questo può vuol dire, come altre volte è accaduto, che la presentazione del libro non sarà consentita con la presenza della sola autrice ma che proveranno a imporle, pena la cancellazione definitiva della cerimonia, una presenza israeliana, cosa che trasformerebbe l’evento letterario in una sorta di dibattito politico, facendone perdere il significato. Dalle dichiarazioni del direttore Juergen Boos non pare che questa singolare “par condicio culturale” valga anche per gli eventi che, in misura consistente, ospiteranno autori israeliani.
La scrittrice palestinese Adania Shibli aveva già ricevuto due nomination per il National Book Award, nel 2020, e per l’International Booker Prize nel 2021. Il suo romanzo, Un dettaglio minore, tradotto dall’arabo al tedesco nel 2020 ed edito in Italia da La nave di Teseo, parte dal racconto della storia vera di una giovane beduina palestinese violentata e uccisa dai soldati israeliani nel 1949.
Di seguito l’articolo scritto per Pagine Esteri dopo la pubblicazione della traduzione italiana.
È dei particolari che raramente si parla quando si affronta la condizione dei palestinesi in Israele, nei Territori Occupati e a Gaza.
Eppure, i dettagli sono essenziali per capire cosa significhi vivere sotto occupazione, farsi un’idea chiara del livello di fallimento dei negoziati di pace, per leggere intero il quadro ideato e pianificato dall’occupante.
Solo i particolari possono mostrare a noi, lontani, quello che è più difficile da capire: come avviene che la straordinarietà si converta in quotidianità, come accade che il modo di vivere e persino quello di pensare siano trasformati, piegati giorno dopo giorno alla consuetudine della sopraffazione, delle ingiustizie e della violenza.
Adania Shibli con “Un dettaglio minore”, finalista al National Book Awards 2020, ci mostra questi particolari, portandoci a spasso tra il passato e il presente, tra i luoghi che esistevano e non ci sono più, cancellati persino i nomi e chiuse da cubi di cemento le strade di ingresso. Tutto comincia da una storia del 1949 nel Negev, quando alcuni soldati israeliani si trasferiscono tra le dune del deserto ossessionati dalla missione di scovare e uccidere gli arabi rimasti nella zona sud-occidentale. Giornate e chilometri passati a girare in tondo e a perlustrare il nulla, fino a quando qualcosa trovano. Qualcuno, anzi. I beduini del deserto. Tutti uccisi tranne una ragazza. La storia terribile di questa ragazza e la sua tragica fine si legheranno all’esistenza di una giovane donna di Ramallah che tenterà molti anni dopo di scoprire la verità su ciò che accadde 25 anni prima che lei nascesse. In una Palestina cambiata, ingabbiata dai checkpoint, divisa in zone e in abitanti di serie A, B, C, con diversi diritti, diverse possibilità e diversi documenti, la donna di Ramallah inizia un viaggio pericoloso, vincendo l’abitudinarietà e le sue paure, con una macchina a noleggio, una carta d’identità prestata da una collega e due cartine geografiche: Israele oggi, la Palestina ieri.
L’attenzione ossessiva ai dettagli è ciò che la spinge a muoversi, l’incapacità di definire i contorni, i limiti tra una cosa e l’altra, forse per sfuggire alla realtà globale e al dramma collettivo che la circonda, fatti, appunto, di limiti e limitazioni da rispettare rigorosamente per prevenire conseguenze spiacevoli. Ma lei non riesce bene a muoversi tra quei limiti, non controlla le sue emozioni, le sue ansie e preferisce chiudersi in una solitudine consuetudinaria, che la rassicura e non le crea difficoltà. Un giorno, ad esempio, riesce miracolosamente a raggiungere l’ufficio nonostante la zona fosse stata posta sotto coprifuoco dall’esercito israeliano: malgrado l’ansia e la paura la avvolgano, ha imparato che è fondamentale dimostrarsi calma e decisa e che è necessario, a volte, scavalcare muri e barriere. In ufficio un collega entra nella sua stanza e spalanca la finestra. È per evitare che i vetri esplodano: l’esercito ha avvertito che colpiranno e distruggeranno un edificio lì vicino, perché vi si sono barricati tre ragazzi. L’edificio esplode, il boato è spaventoso, i ragazzi muoiono, le pareti dell’ufficio tremano e una nuvola di polvere invade la sua stanza. L’unico dettaglio su cui riesce a soffermarsi è quella polvere e con calma e pazienza ripulisce tutto prima di rimettersi semplicemente a lavorare.
Il viaggio verso l’accampamento dei coloni nel Negev la porta su una strada conosciuta, che non percorre però da anni. Il tempo sufficiente per non riuscire più a riconoscere quei luoghi, cambiati, trasformati con la forza degli espropri e delle colonie, paesaggi stravolti, storie cancellate. La cartina palestinese riporta i nomi dei villaggi che esistevano prima del 1948, anno della Catastrofe palestinese, della nascita dello Stato ebraico. Tanti nomi. Conosce persone originarie di alcuni di quei villaggi tra Yafa e Askalan, di altri villaggi invece non sa nulla e mai nulla potrà sapere. Sulla cartina israeliana a inghiottirli tutti c’è una vastissima zona verde prima e un mare giallo e vuoto dopo, nient’altro. Di palestinese non è rimasto nulla. Né i nomi sui cartelli stradali né i cartelloni pubblicitari. Neanche i terreni sono più palestinesi. Gli insediamenti sono israeliani.
Al Museo di Storia dell’Esercito israeliano è possibile vedere le divise e le armi usate nel 1948 e seguire la storia cinematografica israeliana degli anni ’30-’40 che incoraggiava l’immigrazione ebraica. In una pellicola un gruppo di coloni costruisce strutture su una distesa prima desertica, ne nasce un insediamento e per festeggiarlo le persone si prendono per mano e ballano in cerchio. La donna di Ramallah riavvolge il nastro all’indietro e poi lo manda avanti: costruisce l’insediamento e poi lo smantella, lo ricostruisce e lo ri-smantella ancora, ancora e ancora.
Ormai vicino Gaza, sente da lontano il suono dei bombardamenti ma è un suono diverso da quello a cui è abituata, senza la polvere, senza il fragore: solo ciò che non sente e vede le fa comprendere quanto sia lontana da quello che le è familiare, da casa. Guarda da lontano Rafah, Gaza e tenta di riempirsene gli occhi, per spiegarlo a quei colleghi che da anni aspettano l’autorizzazione per poter rientrare.
I limiti da non superare, i confini stabiliti, il militare, il civile, l’accampamento, il campo fatto di lamiere e un pacchetto di gomme da masticare porteranno la donna di Ramallah a scoprire sul destino della ragazza beduina più di quanto avesse voluto.
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“Basta armi a Israele”: dirigente del Dipartimento di stato Usa si dimette
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di Redazione
Pagine Esteri, 19 ottobre 2023 – Josh Paul, dirigente dell’ufficio del Dipartimento di Stato americano che gestisce i trasferimenti di armi ai paesi alleati, ha annunciato le sue dimissioni in polemica con la decisione dell’amministrazione Biden di inviare un ingente quantitativo di armi e munizioni a Israele. Proprio oggi, riferiscono le agenzie di stampa, un cargo di Washington che trasportava mezzi blindati destinati all’esercito israeliano è atterrato all’aeroporto Ben Gurion.
Il funzionario statunitense ha motivato la sua decisione spiegando che il «cieco sostegno» a Israele sta portando a decisioni politiche «miopi, distruttive, ingiuste e contraddittorie rispetto agli stessi valori che sosteniamo pubblicamente».
Il dirigente ha spiegato le sue ragioni nella lettera di dimissioni presentata al Dipartimento di Stato: «la risposta che Israele sta dando, e con essa il sostegno americano sia a quella risposta sia allo status quo dell’occupazione, porterà solo a sofferenze maggiorie più profonde sia per il popolo israeliano che per quello palestinese» ha scritto l’uomo che per 11 anni ha ricoperto l’incarico di direttore del settore Affari pubblici e parlamentari dell’ufficio affari politico-militari del Dipartimento di Stato.
«Temo che stiamo ripetendo gli stessi errori commessi negli ultimi decenni e mi rifiuto di farne parte per un periodo più lungo» ha scritto Josh Paul.
In un’intervista, poi, il funzionario ha ricordato che Israele sta mettendo in atto un blocco totale di Gaza che impedisce alla popolazione di accedere a beni di prima necessità, come l’acqua, il cibo, l’elettricità e il carburante, violando così il diritto internazionale. Washington dovrebbe quindi applicare una serie di leggi federali che pure impongono lo stop alla fornitura di armi ai paesi che violano i diritti umani: «Il problema con tutte queste disposizioni è che spetta al ramo esecutivo stabilire se si sono verificate violazioni dei diritti umani. La mossa di prendere una decisione non spetta a qualche entità accademica apartitica e non c’è alcun incentivo affinché il presidente determini effettivamente qualcosa» ha spiegato Paul, secondo il quale comunque l’amministrazione Biden ha anche deciso di ignorare numerose convenzioni internazionali in nome di un sostegno incondizionato a Tel Aviv che considera inaccettabile. – Pagine Esteri
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Ad Hamas non importa nulla della gente di Gaza
Nel 1957, dopo aver preso il premio Nobel, Albert Camus disse di credere nella giustizia ma che prima della giustizia avrebbe difeso sua madre. È un episodio molto noto e nel suo ultimo libro, I miei eroi, Pierluigi Battista l’ha ripercorso nel dettaglio. Camus era nato e cresciuto in Algeria e aveva sempre sostenuto la causa dell’indipendenza algerina, anche in tempi in cui a Parigi non era tanto di moda.
Ma quando gli indipendentisti algerini cominciarono a colpire civili a casaccio, Camus si sfilò. Fu molto criticato e peggio, irriso per la fiacchezza morale di un filosofo capace di anteporre le ragioni piccole del suo tinello a quelle grandi della storia. Ma Camus parlava invece dell’enormità di sacrificare le vite di chi non c’entra niente in nome di un’istanza più alta: nessuna istanza, diceva, è così alta da giustificare la mattanza indiscriminata, nessuna è così alta da permetterci di disporre della vita della madre altrui.
Non si può non pensare a Camus guardando le immagini di Gaza. Con una complicazione in più: Hamas e i suoi amici non aspettano altro che la mattanza per additare al mondo il nazismo sionista e trovare alleati per la soluzione finale. Nulla gli importa, da decenni, della gente di Gaza. Non ripetete gli errori che abbiamo commesso noi dopo l’11 settembre, ha detto ieri Joe Biden a Bibi Netanyahu. Quindi? È cecità, ha scritto giustamente Giuliano Ferrara, dire a Israele che cosa non fare, e quanto a che cosa fare aggiungere “non lo so”. Se chiedete a qualcuno che dovrebbe fare ora Israele, più spesso risponderà “non lo so”. Se lo chiedessero a me, direi “non lo so”.
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Prorogato il termine del concorso "Programma #iosonoAmbiente". Il termine per la presentazione delle candidature è stato spostato alle ore 12 del 31 ottobre 2023 secondo le modalità indicate nel decreto di proroga.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Prorogato il termine del concorso "Programma #iosonoAmbiente". Il termine per la presentazione delle candidature è stato spostato alle ore 12 del 31 ottobre 2023 secondo le modalità indicate nel decreto di proroga.Telegram
FPF Submits Comments to the FEC on the Use of Artificial Intelligence in Campaign Ads
On October 16, 2023, the Future of Privacy Forum submitted comments to the Federal Election Commission (FEC) on the use of artificial intelligence in campaign ads. The FEC is seeking comments in response to a petition that asked the Agency to initiate a rulemaking to clarify that its regulation on “fraudulent misrepresentation” applies to deliberately deceptive AI-generated campaign ads.
FPF’s comments follow an op-ed FPF’s Vice President of U.S. Policy Amie Stepanovich and AI Policy Counsel Amber Ezzell published in The Hill on how generative AI can be used to manipulate voters and election outcomes, and the benefits to voters and candidates when generative AI tools are deployed ethically and responsibly.
Pirates: Torturing animals for fur must be banned
Strasbourg, 19/10/2023 – Pirate Party MEPs are joined by Pirate Party representatives from Germany and Luxembourg in supporting the European Citizens’ Initiative “Fur Free Europe”[1], which was debated today in the European Parliament. The initiative was signed by more than 1.7 million European citizens from 18 countries and must now be addressed by the European Commission. In 2021, the last measured year, the number of animals killed for fur was still 44 million per year. They are also kept in appalling conditions, according to Fur Free Europe.
Marcel Kolaja, Member and Quaestor of the European Parliament, comments:
“In my opinion, such cruelty simply does not belong in 21st century Europe. EU citizens obviously see it the same way and I am very glad that they have made that clear with their petition. I hope that the European Commission will now finally address the problem and present us with a clear plan to end the unnecessary suffering of animals. This is the ideal time to do so, because Russia used to buy most of its fur from the European Union. But interest has declined significantly due to the sanctions. The regions for which this sector was an important source of income are therefore desperately looking for a way out. And if the Commission also proposes support for the transition to another business sector, that will help everyone involved – people and animals alike.”
Marc Goergen, Pirate Party Member of the Chamber of Deputies in Luxembourg, comments:
“As Luxembourgish Pirates, we continue to advocate for a fur-free world in our country, in Europe and outside of the EU. During our first year in parliament in 2019, we asked the government in a motion to prohibit the sale of fur in Luxembourg, citing article 36 of the TFUE. Our motion was defeated, but we will continue to advocate for the abolition of animal cruelty. With a new government in place, we urge them to set a deadline for the retailing of fur in Luxembourg.”
Anja Hirschel, top candidate of the Pirate Party Germany for the 2024 European elections, comments:
“Animals of various species, simply called fur animals according to their use, are kept in farms under conditions that are simply cruel. And this for a product, that can long since be replaced by high quality alternatives. No one needs real fur except the animals born with it. Moreover, it has not only been clear since the Covid pandemic that fur farms, like other factory farms, harbour a danger for all of us that should not be underestimated: viruses find it easier to cross species boundaries there. It is in our best interest to do something about this. To really get there, we have to keep an eye on the entire supply chain. This of course includes imports from non-EU countries.”
German Pirate Party MEP Patrick Breyer comments:
“Fur farms and farmed fur products are completely out of date and have no place in our modern society. Apart from the cruel conditions for the animals that are kept there until they are killed, such facilities also have a significant impact on humans and animals alike as disease carriers. The EU Commission is now called to act, almost 2 million EU citizens must not go unheard! I call for a legislative proposal of the von der Leyen Commission that will finally put an end to this unethical and shameful industry.”
Fur farms are currently banned in 14 EU countries, but are for example still legally permitted in Germany under certain conditions. Finland, Poland, Lithuania and Spain, on the other hand, are among the most problematic countries, the initiative says. The European Commission must take up a citizens’ initiative if it collects more than 1 million verified signatures from more than 7 member states.
[1] furfreealliance.com/fur-free-e…
Fra raid, assalti e sospetti, i lavoratori della Striscia prigionieri in Cisgiordania
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di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 19 ottobre 2023 – Gli altri abitanti di Gaza, quelli senza lavoro, li guardavano con invidia fino a un paio di settimane fa. E loro si reputavano «fortunati». Certo, andare in Israele come manovale non è quello che desidera un palestinese di Gaza che amerebbe trovare un’occupazione nella sua terra, vicino casa. Però con la disoccupazione ai livelli più alti di sempre e una famiglia da mantenere, attraversare il valico di Erez per recarsi in un cantiere a Tel Aviv o in altre città israeliane ti garantisce la sopravvivenza. Oggi quei 21mila palestinesi di Gaza in possesso del permesso di lavoro israeliano, sono tra le vittime della guerra. A migliaia sono stati, di fatto, arrestati e cacciati da Israele nelle ore successive all’attacco di Hamas il 7 ottobre e poi scaricati ai posti di blocco all’ingresso delle principali città della Cisgiordania. Sono lontani dalle loro famiglie minacciate dai raid aerei. Vivono ammassati nelle palestre e locali pubblici. E in quanto abitanti di Gaza, perciò considerati «potenziali sostenitori di Hamas», devono guardarsi dalle retate israeliane e dalla diffidenza dell’Autorità nazionale palestinese.
Ne sa qualcosa Ahmed A., 45 anni di Bani Suheila nei pressi di Khan Yunis, a sud di Gaza. «(I poliziotti israeliani) Sono arrivati nella notte tra domenica e lunedì all’alloggio che condivido con altri manovali» racconta «ci urlavano di tutto, ci colpivano con i fucili. Abbiamo preso in tutta fretta le nostre cose e in un attimo ci siamo ritrovati su di un furgone. Una volta arrivati a Qalandiya (tra Gerusalemme e Ramallah) ci hanno detto di scendere subito e di incamminarci verso il campo profughi». In quelle ore lo stesso avveniva in più punti lungo la linea verde tra Israele e Cisgiordania. L’aiuto dei palestinesi che abitano nelle aree a ridosso dei posti di blocco è stato essenziale per una prima assistenza. Poi sono intervenute le municipalità e i sindacati.
Secondo i dati in possesso tre giorni fa da Laila Ghannam, governatrice di Ramallah e al-Bireh, quasi 600 lavoratori palestinesi di Gaza si trovano a Ramallah, Hebron, Nablus e Jenin. Il numero poi è cresciuto a 2-3mila. Solo ora cominciano a trovare delle sistemazioni meno precarie. Spesso in piccoli hotel. Le forze di sicurezza israeliane dopo averli espulsi adesso li tiene sotto stretto controllo non mancando di effettuare rastrellamenti e arresti. Come è avvenuto lunedì notte a Hebron: 30 lavoratori, ospitati in un istituto professionale, sono finiti in manette. Domenica invece è stata l’Anp ad organizzare, per motivi oscuri, il «trasferimento» da Ramallah a Gerico dei manovali di Gaza. «Lo facciamo per proteggervi e a Gerico starete meglio, in locali ben attrezzati», spiegavano i poliziotti dell’Anp tra lo scetticismo dei lavoratori. Così in 300 sono scappati, preferendo stare a Ramallah da dove, pensano, sarà più facile tornare a Gaza. Quando e come però nessuno lo sa, il valico di Erez è in gran parte distrutto e non si passa mentre resta l’angoscia per le famiglie sotto i bombardamenti. Qualcuno ha appreso della morte di congiunti o dello sfollamento della propria famiglia verso il sud di Gaza.
Ieri la tv Canale 12 stimava in 4mila i lavoratori di Gaza portati in centri di detenzione israeliani. I servizi di sicurezza cercano prove di un loro coinvolgimento nel lavoro di intelligence svolto da Hamas prima dell’attacco di dieci giorni fa.
La vicenda dei manovali espulsi da Israele aggiunge un altro tassello al difficile mosaico della Cisgiordania in questi giorni dove si segue con dolore e rabbia l’attacco a Gaza. La tensione sale giorno dopo giorno. Dal 7 ottobre più di 50 palestinesi cisgiordani sono stati uccisi in quelli che l’esercito israeliano, dispiegato con migliaia di uomini sul territorio, descrive come scontri che «minacciavano la vita dei soldati». Una versione smentita dai palestinesi che parlano di militari dal «grilletto facile», che «sparano subito» e, più di tutto, accusano i coloni di aver ucciso almeno due persone, padre e figlio, nel villaggio di Qusra. La chiusura delle città palestinesi è molto rigida. A cominciare da Hebron, divisa dal 1997 in due zone, H1 controllata dall’Anp e H2 dall’esercito israeliano e dove vivono, con 25mila palestinesi, alcune centinaia di coloni legati all’estrema destra religiosa. I militari hanno chiuso i posti di blocco tra le case e quelli che conducono all’esterno. Circa mille famiglie sono sotto stretta sorveglianza e una parte di queste cercano rifugio da parenti nella H1. Issa Amro, noto attivista e coordinatore di «Gioventù contro gli insediamenti», vive nel quartiere di Tel Armida all’interno della H2. Riferisce che «l’esercito consente alle persone di lasciare le proprie case solo per un’ora ogni 48 ore nell’area tra Bab al-Zawiya fino alla Tomba dei Patriarchi. «Gli abitanti – ci ha detto – non possono andare al lavoro, gli studenti alle scuole e gli ammalati dal medico. C’è aperto solo un posto di controllo e l’attesa in fila può richiedere più di un’ora e mezza».
* questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano IL MANIFESTO
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Ministero dell'Istruzione
#Scuola, ieri al Quirinale il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha conferito il Premio “Alfieri del Lavoro” a 25 studentesse e studenti che hanno concluso la Scuola secondaria di II grado con il massimo dei voti.Telegram
Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: Presentazione della XIII Edizione della Scuola di Liberalismo di Messina e lezione del Prof. Giuseppe Gembillo sul tema “Il sofisma e la libertà”
Giovedi 19 ottobre, alle ore 11,00, presso l’Aula Cannizzaro dell’Università degli Studi, si terrà la Conferenza Stampa di presentazione della XIII edizione della Scuola di Liberalismo della Fondazione Luigi Einaudi di Messina organizzata col patrocinio dell’Ateneo e della Fondazione Bonino-Pulejo.
Saranno il direttore generale della Scuola Pippo RAO e il direttore scientifico Pippo Gembillo a presentarla.
Parteciperanno all’incontro con la Stampa: Enzo Palumbo, membro della Commissione Giustizia della Fondazione Einaudi, Edoardo Milio, responsabile relazioni istituzionali, Gabriella Sorti, responsabile del Comitato di Segreteria, Francesco Sarà, responsabile Comunicazione, Dario Mustica, rappresentante degli
studenti, i membri del Comitato organizzatore: Daniela Cucè Cafeo, Angelica Esposito, Giovanni Marino, Giuseppe Scibilia e Gianni Toscano, il Prof. Angelo Miceli e l’Avv. Giuseppe Pedullà, in rappresentanza del Liceo paritario “Empedocle”.
Saranno presenti anche i Presidenti degli Ordini professionali che hanno concesso il loro patrocinio: Architetti, Avvocati, Ingegneri, Medici e Notai.
Pippo Rao
L'articolo Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: Presentazione della XIII Edizione della Scuola di Liberalismo di Messina e lezione del Prof. Giuseppe Gembillo sul tema “Il sofisma e la libertà” proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Firenze: Donata Bianchi e gli indigeni bianchi
Il 18 ottobre 2023 a Firenze si ciarla gazzettescamente di insurrezione in consiglio comunale da parte delle formazioni politiche "occidentaliste".
Ovviamente non insorge nessuno.
Si frigna, al limite.
Si inveisce.
Qualche volta, nei casi proprio gravi, si sbraita.
Il frignare, le invettive, lo sbraitare hanno a motivo qualche frase pronunciata da tale #DonataBianchi, eletta per il PD - #PartitoDemocratico.
Per il PD, non per l'Avanguardia Armata per la Distruzione dei Valori Occidentali.
Insomma, Donata Bianchi si è detta convinta che stanti i mutamenti demografici e la crescente presenza di individui nati fuori dallo stato che occupa la penisola italiana, sarebbe il caso di provvedere a un'estensione del #suffragio.
Apriti cielo.
Chi scrive ha una esperienza più che decennale come scrutatore, e può tranquillamente affermare che anche nelle condizioni attuali dall'affluenza mancano intere classi che non hanno motivo di interessarsi a un'offerta politica modellata su una torma di vecchi ringhiosi con la TV sempre accesa, le doppiette nella vetrinetta in soggiorno, un #cane mordace nella resede del terratetto condonato e il cartello "Attenti al cane e al padrone" che poi finisce in televisione anche quello la volta che finalmente si decidono ad ammazzare la moglie dopo aver infingardamente temporeggiato per decenni.
In queste condizioni non è certo da meravigliarsi se l'accenno a un allargamento del suffragio da parte di Donata Bianchi ha causato le ire di formazioni politiche che devono il loro successo esclusivamente al mantenimento di una pluridecennale cappa di emergenza e di allarme nutrita ogni giorno dall'intero settore gazzettiero.
In Cina e Asia – BRI Forum, la Cina promuovere una governance globale per l’IA
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