In Cina e in Asia – La Cina elabora un piano per riduzione di emissioni di metano
La Cina elabora un piano per riduzione di emissioni di metano
Per Xi la salvaguardia nazionale è legata al settore energetico e ferroviario
Il G7 vuole relazioni stabili con Pechino
La fuga delle multinazionali dalla Cina
La cooperazione militare hi-tech tra Russia e Cina
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EU Digital Identity Regulation (eIDAS): Pirates don’t support blank cheque for surveillance of citizens online!
The EU Parliament and EU Council yesterday struck a political deal on the reform of the EU Digital Identity Regulation (eIDAS 2). A new digital identity wallet app is to allow EU citizens to access public and private digital services such as Facebook or Google, and pay online. The deal was made even though more than 500 scientists and numerous NGOs in an open letter „strongly warn against the currently proposed trilogue agreement, as it fails to properly respect the right to privacy of citizens and secure online communications“ – criticism which the Pirate Party Members of the European Parliament underline.
“This regulation is a blank cheque for surveillance of citizens online, endangering our privacy and security online”, comments Pirate Party lawmaker Patrick Breyer. “Browser security is being undermined, and overidentification will gradually erode our right to use digital services anonymously. Mark Zuckerberg should have no right to see our ID! Entrusting our digital lives to the government instead of Facebook and Google is jumping out of the frying pan and into the fire. This deal sacrifices essential requirements the European Parliament had put forward to make the eID app privacy-friendly and secure. The EU misses the opportunity to establish a trustworthy framework for modernization and digitization. We will watch the implementation very closely.”
Pirates Mikulas Peksa and Patrick Breyer worked until the last minute to try and fix at least some of the numerous risks of the EU digital identity scheme. In a major victory, Member States will not be obliged to assign a single unique ID number to every citizen. Signing up for the eID app will be voluntary, and it will remain possible to access public and private services by other existing identification and authentication means. The app client will be open source.
Overall though the scheme remains a blank cheque for surveillance of citizens online: As hundreds of scientists publicly warn and contrary to what the EU claims, web browser manufacturers could be forced to expose our securely encrypted Internet use (including intimate and sensitive activities) to government surveillance. This is an unacceptable attack on secure encryption. The eID apps can also be used to monitor our digital lives because there is no requirement of unobservability. The content of our eID wallets (potentially bringing together personal banking data, medical prescriptions and criminal records) could be monitored via central databases because we have no right to store documents exclusively on our personal devices.
The lure of conveniently signing in to private digital services using a single official eID app is a trap. Overidentification will gradually erode our right to use digital services anonymously which currently keeps us safe from criminal activity, unauthorised disclosure, identity theft, stalking and other forms of abuse of personal data. The eID app will not allow for multiple, truly separate user profiles which vulnerable persons rely on.
The server-side code of the eID wallet will not have to be open source, meaning the public cannot know what the code actually does and if it is safe.
In view of all this, the new EU eID app will not be trustworthy and will fail to sufficiently encourage the development of digital and eGovernment services in Europe – much to the Pirates regret.
See also the assessment of the deal published by NGO epicenter.works
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ONU. Dei 46 paesi più poveri 33 sono in Africa
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della redazione
(foto di Stefan Magdalinski)
Pagine Esteri, 9 novembre 2023 – Nell’ ultima relazione della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD), 46 paesi sono designati come “economie meno sviluppate”. Trentatre sono situati in Africa, l’Asia ne conta nove, tre sono nel Pacifico e uno nei Caraibi. L’agenzia delle Nazioni Unite ha annunciato la classificazione evidenziando che queste nazioni sono perciò ammissibili a varie concessioni, tra cui l’accesso preferenziale al mercato, agli aiuti e all’assistenza tecnica speciale.
Il rapporto sottolinea che solo sei nazioni sono riuscite a lasciare la posizione di Paese meno sviluppato negli ultimi 25 anni: Botswana, Capo Verde, Maldive, Samoa, Guinea Equatoriale e Vanuatu.
Nel 2021, le spese relative agli oneri sul debito di queste economie povere sono aumentate a 27 miliardi di dollari, segnando un aumento del 37% rispetto ai 20 miliardi di dollari dell’anno precedente. E i paesi stanziano quasi il doppio per coprire gli oneri rispetto all’assistenza sanitaria e all’istruzione messe insieme. La pressione sulle loro finanze è attribuibile a molteplici crisi globali, tra cui l’emergenza climatica, la dipendenza dalle esportazioni di materie prime e il calo degli investimenti esteri.
L’UNCTAD chiede misure globali per affrontare le sfide economiche e sociali dei paesi meno sviluppati, sottolineando la necessità di un approccio sostenibile e multilaterale al dilemma del debito. La relazione sottolinea la funzione critica delle istituzioni, in particolare delle banche centrali, nello stimolare la mobilitazione delle risorse nazionali. Sottolinea inoltre l’importanza di reindirizzare i flussi finanziari verso iniziative che promuovano cambiamenti strutturali verdi all’interno di queste nazioni vulnerabili. Infine si appella alla cooperazione internazionale per garantire che i paesi meno sviluppati possano uscire dalle difficoltà finanziarie mentre lavorano per un futuro sostenibile dal punto di vista ambientale ed economicamente sostenibile. Pagine Esteri
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Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: lezione del prof. Giuseppe Sobbrio sul tema “Saggio sulla Libertà”
Quarto appuntamento dell’edizione 2023 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e la Fondazione Bonino-Pulejo. Il corso, giunto alla sua tredicesima edizione, si articolerà in 15 lezioni, che si svolgeranno sia in presenza che in modalità telematica, dedicate alle opere degli autori più rappresentativi del pensiero liberale.
La quarta lezione si svolgerà giovedì 9 novembre dalle ore 17 alle ore 18.30, presso l’Aula n. 6 del Dipartimento “COSPECS” (ex Magistero) dell’Università di Messina (sito in via Concezione n. 6, Messina); dell’incontro sarà altresì realizzata una diretta streaming sulla piattaforma ZOOM (ID Riunione 817 3306 8640 – Passcode 855442).
La lezione sarà tenuta dal prof. Giuseppe Sobbrio (Emerito di Economia Pubblica presso l’Università di Messina, nonché componente del Comitato Scientifico della Fondazione Luigi Einaudi), con una relazione sull’opera “Saggio sulla Libertà” di John Stuart Mill.
La partecipazione all’incontro è valida ai fini del riconoscimento di 0,25 CFU per gli studenti dell’Università di Messina.
Come da delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina e della Commissione “Accreditamento per la formazione” di AIGA, è previsto il riconoscimento di n. 12 crediti formativi ordinari in favore degli avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Messina per la partecipazione all’intero corso.
Per ulteriori informazioni riguardanti la Scuola di Liberalismo di Messina, è possibile contattare lo staff organizzativo all’indirizzo mail SDLMESSINA@GMAIL.COM
Pippo Rao Direttore Generale della Scuola di Liberalismo di Messina
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Telecamere private, Garante: no alla ripresa di aree pubbliche. Le telecamere “ascoltavano” anche le conversazioni dei passanti
Un cittadino aveva installato sul muro esterno della propria abitazione alcune telecamere che potevano riprendere l’area pubblica antistante con un parco giochi e una piazza. L’intervento dell’Autorità segue la segnalazione di una stazione dei Carabinieri e ricorda che quando si installano sistemi di videosorveglianza in ambito personale o domestico, oltre a rispettare la riservatezza dei vicini, è necessario prestare la massima attenzione a non riprendere aree pubbliche.
Tenuto conto del fatto che la condotta ha esaurito i suoi effetti, avendo egli provveduto subito dopo l’apertura dell’istruttoria a sostituire la telecamera precedentemente installata con una fissa puntata verso l’ingresso, il Garante ha limitato il suo intervento al solo ammonimento.
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È stata appena rilasciata la versione 1.1.0 del plugin ActivityPub per WordPress
Tra le modifiche più importanti spicca quella del supporto agli allegati audio 🔈 e video 📼
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Le università digitali come fattore di riduzione delle diseguaglianze: presentato in Senato il paper della Fle
Da un lato i costi elevati per l’affitto di una stanza o di una casa, che hanno portato gli studenti in questi mesi a protestare nelle principali città italiane, dall’altro la difficoltà di conciliare lo studio con il lavoro. Senza contare le difficoltà negli spostamenti interni nelle grandi città. Oggi in Italia esiste una “barriera naturale” che ostacola l’accesso all’istruzione universitaria, fattore questo che crea un divario sociale significativo con impatti diretti sulle future opportunità professionali dei giovani. Per far fronte a tali criticità molti si rivolgono alle università digitali che, negli anni, aumentando la qualità del livello di insegnamento, hanno aumentato in modo esponenziale il numero dei loro iscritti e laureati. È quanto emerge dal rapporto “Le università digitali come fattore di riduzione delle disuguaglianze” elaborato dalla Fondazione Luigi Einaudi e presentato questa mattina nella Sala Nassiriya del Senato.
“Il mondo cambia, importanti università pubbliche e private si attrezzano per raggiungere i propri studenti a distanza. Nell’era dello smart working, la domanda crescente sta affinando e qualificando l’offerta delle università digitali, oggi più che mai intese come fattore di riduzione delle diseguaglianze territoriali e sociali”, ha detto Andrea Cangini, segretario generale della Fondazione Luigi Einaudi.
Il paper, facendo un’analisi dettagliata delle statistiche riguardanti il numero di iscritti e laureati in Italia, con particolare attenzione alle relative percentuali di genere, età e provenienze geografiche e sociali, approfondisce le opportunità offerte dalla didattica digitale e ne evidenzia i punti di forza sotto il profilo dell’organizzazione degli studi, della sostenibilità economica e della digitalizzazione, in un contesto nel quale la percentuale di laureati in Italia rispetto alla popolazione ci vede in coda alla media europea, sorpassati in negativo dalla sola Romania.
A testimoniare la crescita degli atenei digitali, si legge nel paper, è “il numero di studenti iscritti nelle undici università digitali riconosciute, che è passato – dati Ustat (Ufficio Statistica del MUR) – da poco più di 40mila nel 2012 agli oltre 160mila nel 2021, un numero quindi più che quadruplicato”.
Nel corso dell’incontro Alessandra Ghisleri ha illustrato i risultati di un’indagine sul tema elaborata da Euromedia Research, che sottolinea come “il 27,5% dei giovani intervistati, fascia di età 17-24 anni, ritiene che le università digitali rappresentino il simbolo del cambiamento radicale che ha investito la nostra società in modo particolare dopo il Covid e che ‘il ‘remoto’ diventerà la normalità”.
Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, durante il suo intervento ha detto: “L’insegnamento a distanza è una grande occasione che si offre ai nostri giovani e a tutti coloro che vogliono migliorare la loro conoscenza e acquisire un titolo di studio. Abbiamo già visto nel recente passato, durante il Covid, quanto siano importanti gli strumenti digitali”. Il senatore Roberto Marti ha messo a disposizione la commissione Cultura del Senato, che presiede, per “approfondire il tema della crescita delle università digitali in Italia come strumento di riduzione delle disuguaglianze”. “Appuntamenti come questo, e ricerche come quella elaborata dalla Fondazione Einaudi, sono convito servano a costruire sempre di più l’idea che in una società aperta, che vuole crescere e dare opportunità ai cittadini, le università digitali costituiscano una novità importante che va coltivata e sostenuta”, ha detto invece il presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, Nazario Pagano.
Hanno partecipato all’incontro, in veste di relatori, il senatore Giulio Terzi di San’Agata, presidente della Commissione Politiche dell’Unione europea, che in apertura di convegno ha ringraziato la Fondazione Einaudi “da sempre promotrice dei valori liberali”, Paolo Miccoli, presidente di United, l’associazione delle università telematiche e digitali, e Gian Marco Bovenzi, ricercatore della Fondazione Luigi Einaudi.
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La Polonia ammoderna le sue difese aeree. Un’opportunità anche per l’Italia
La Polonia rinnoverà i propri sistemi di difesa aerea affidandosi a Mbda, in un accordo da oltre quattro miliardi di sterline. La società ha infatti finalizzato un accordo con Polska grupa zbrojna (Pgz) per supportarla nella realizzazione del programma di difesa aerea per le Forze armate polacche chiamato Narew. “La dimensione e l’ambizione del progetto sono davvero imponenti: costruire uno scudo di difesa aerea polacco utilizzando i missili della famiglia Camm che proteggeranno i cieli della Polonia”, ha commentato Eric Béranger, ceo di Mbda. Anche il nostro Paese, partner del consorzio europeo di Mbda, sarà protagonista dell’iniziatica, che si baserà sul Camm-Er, realizzato in cooperazione tra Italia e Regno Unito. Come spiegato da Giovanni Soccodato, executive group sales & business development director di Mbda e managing director di Mbda Italia “la componente industriale italiana sarà coinvolta nella produzione per le fasi iniziali del programma”. Per l’intera filiera italiana, che va oltre la sola Mbda Italia, questo significa che il valore complessivo della partecipazione al programma sarà di circa un quarto dell’intero ammontare.
Nelle intenzioni di Varsavia, infatti, il programma dovrà garantire al Paese un sistema di difesa aerea mobile altamente avanzato, in grado di affrontare le minacce moderne e future fino a distanze superiori ai quaranta chilometri utilizzando il Camm-Er. Lo scorso settembre l’agenzia di procurement polacca aveva affidato i contratti esecutivi al consorzio Narew-Pgz. Oggi, l’accordo tra Mbda e Pgz porta avanti il percorso di cooperazione strategica avviato nel 2017 tra le due società, e prevedrà il trasferimento di tecnologia e la crescita associata nelle industrie polacche, aprendo la strada a profondi legami tra i Paesi coinvolti nel campo dei sistemi d’arma complessi. L’accordo permetterà al consorzio Pgz-Narew di realizzare più di mille missili Camm-Er per la difesa aerea e oltre cento lanciatori. “Il trasferimento di tecnologia –ha continuato Béranger – trasformerà le capacità sovrane polacche nei sistemi d’arma complessi, e siamo profondamente orgogliosi della fiducia accordataci dalla Polonia ed entusiasti per il futuro della nostra partnership”.
“Questo accordo conferma la validità del Camm-Er come sistema evoluto a maggiore range, sviluppato con il contributo di MBDA Italia ed adottato anche dalle nostre Forze Armate”, ha commentato ancora Giovanni Soccodato, aggiungendo come “Ci sarà un parziale transfer of technology, con un progressivo trasferimento in Polonia di alcune attività dedicate esclusivamente ai sistemi polacchi, analogamente a quanto avviene in Uk”. Come spiegato dal manager italiano, queste attività si aggiungeranno a quanto previsto per la fornitura dei sistemi al cliente nazionale. “Anche per questo e per aumentare la capacità complessiva di realizzare questi sistemi, sono previsti investimenti nei nostri stabilimenti, in particolare presso il sito del Fusaro a Napoli, e la realizzazione di una linea di integrazione pirica del missile, presso lo stabilimento Aid di Noceto” ha concluso Soccodato.
PANAMA. Proteste e scioperi contro una miniera, finora quattro morti
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di Redazione
Pagine Esteri, 8 novembre 2023 – Due persone che partecipavano a una protesta antigovernativa a Panama sono state uccise ieri aggravando una tensione sociale già elevatissima. Il 20 ottobre scorso la rabbia per un lucroso contratto minerario ha scatenato infatti massicce manifestazioni popolari nel paese separato nel 1903 dalla Colombia dagli Stati Uniti affinché Washington potesse agevolmente controllare il Canale realizzato per unire gli oceani Atlantico e Pacifico.
Le vittime sarebbero due insegnanti che stavano presidiando alcune barricate piazzate sull’Autostrada Panamericana all’altezza di Chame, 80 km a sud-ovest della capitale. Secondo i testimoni un uomo si sarebbe fermato davanti alla barricata, sarebbe sceso dalla sua auto e avrebbe sparato ai due manifestanti con una pistola. Nei giorni scorsi erano già morti altri due manifestanti, investiti da alcuni autoveicoli durante i blocchi stradali. Numerosi sono anche i feriti causati dalla repressione delle proteste da parte delle forze dell’ordine, che hanno spesso fatto uso di manganelli, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni.
Le autorità del paese hanno informato dell’arresto di un uomo accusato del duplice omicidio senza però fornire alcun elemento sulla sua identità. In un comunicato pubblicato sui social l’Associazione degli insegnanti di Panama (ASOPROF) ha dichiarato che l’autore della sparatoria sarebbe un cittadino con doppia nazionalità, statunitense e panamense.
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Nel mirino una concessione mineraria ad una multinazionale canadese
Nelle ultime due settimane decine di migliaia di persone hanno partecipato alle manifestazioni indette contro l’aggiudicazione di una concessione ad una filiale locale della multinazionale canadese First Quantum Minerals per lo sfruttamento della più grande miniera di rame di tutta l’America Centrale, in un clima di forte malcontento nei confronti del governo.
Lo scorso anno era stato l’aumento del prezzo del cibo, delle medicine e del carburante deciso dal governo di Laurentino Cortizo a scatenare la rabbia della popolazione, ed ora le proteste sono esplose di nuovo. Era dal 1987, quando migliaia di panamensi scesero in strada contro la dittatura del generale Manuel Noriega, che non si registravano proteste così partecipate e radicali.
Secondo l’associazione panamense dei dirigenti aziendali, i blocchi stradali istituiti dai manifestanti hanno causato alle imprese perdite giornaliere fino a 80 milioni di dollari, mentre lo sciopero degli insegnanti ha obbligato il governo a chiudere le scuole per una settimana in tutto il paese.
I funzionari governativi hanno esortato la popolazione a porre fine alle proteste, ma i sindacati dei lavoratori edili e degli insegnanti, insieme alle comunità indigene, hanno promesso di continuare a scendere in piazza fino all’annullamento del contratto First Quantum.
Il nuovo contratto, concordato lo scorso 20 ottobre e sostenuto da una legge varata dal governo di Panama, garantisce all’impresa canadese una concessione mineraria di 20 anni con un’opzione di estensione per altri 20, in cambio del versamento annuale di 375 milioni di dollari nelle casse del paese.
La compagnia mineraria assicura che contribuisce per il 5% del PIL all’economia del paese e che dal 2019 produce circa 300.000 tonnellate di concentrato di rame all’anno, pari al 75% delle esportazioni totali del minerale.
La miniera a cielo aperto di Cobre Panama
Le preoccupazioni per l’ambiente e per il benessere delle comunità indigene
La miniera di “Cobre Panama” ha iniziato a funzionare nel 2019 e si trova nel distretto costiero di Donoso, nella provincia di Colon, sulla costa caraibica all’interno di un parco teoricamente protetto.
I manifestanti denunciano che la miniera danneggerà ulteriormente l’ambiente naturale, inquinerà l’acqua e l’aria e distruggerà la biodiversità, e temono che il contratto avvantaggi le imprese straniere e non le comunità locali e indigene. Infine le associazioni degli agricoltori denunciano che il massiccio consumo di acqua da parte dell’attività mineraria minaccia la produzione di riso e l’allevamento del bestiame, industrie essenziali che già soffrono a causa della crescente siccità.
Le realtà sociali e sindacali che hanno scatenato le proteste denunciano il trattamento di favore garantito alla First Quantum e l’esiguità della contropartita richiesta all’impresa in cambio della lucrosa concessione. Inoltre il movimento di protesta chiede una moratoria generale alla attribuzione di nuove concessioni minerarie per garantire la salvaguardia dell’ambiente.
Il presidente Cortizo, sperando di placare i manifestanti, la scorsa settimana ha firmato una moratoria sulle nuove concessioni minerarie per l’estrazione di metalli che si applica a 13 nuove richieste pendenti, ma non a quella della First Quantum.
Nel 2021 la Corte Suprema del paese centramericano aveva dichiarato incostituzionale il precedente contratto stipulato con la multinazionale, che poi è stato rinegoziato e approvato durante l’estate dal locale parlamento. Il nuovo contratto è però ora all’esame della Corte Suprema, che potrebbe pronunciarsi sulla sua costituzionalità già il mese prossimo. Nei giorni scorsi, però, il presidente Laurentino Cortizo ha annunciato l’intenzione di indire un referendum nazionale domenica 17 dicembre «affinché i panamensi decidano… se la legge 406 sull’attività mineraria deve essere annullato o meno». Pagine Esteri
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Aiuti umanitari a Gaza. L’Italia invia la nave-ospedale Vulcano
Dopo le parole di vicinanza al popolo palestinese, e di netta distanza da Hamas, arriva l’impegno umanitario italiano. Partirà, infatti, da Civitavecchia nave Vulcano, della Marina militare, unita che vede a bordo un intero ospedale, con tanto di sale operatorie. A darne l’annuncio, il ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso di una conferenza stampa a Roma. “Mandiamo nave Vulcano il più vicino possibile alle zone interessate dal conflitto, un atto concreto dopo le parole e un segnale evidente di cosa l’Italia pensa” sul versante dell’aiuto umanitario da inviare ai civili. Una iniziativa italiana che è stata subito condivisa con gli altri Paesi, europei, Nato e arabi. “Le porte sono aperte al contributo di tutti – ha detto il ministro – il nostro vuole essere il primo passo, ma non vogliamo essere gli unici, semmai i primi”. Anzi, ha aggiunto il ministro che “non saremmo assolutamente disturbati qualora qualcuno ci superasse in aiuti umanitari”. Per l’Italia, ha aggiunto Crosetto, si tratta di “partire per dare un segnale concreto”.
Nave Vulcano
A bordo del Vulcano ci saranno 170 militari, con trenta membri del personale sanitario della Marina. A questi si aggiungerà una ulteriore trentina tra medici e infermieri delle altre Forze armate, che raggiungeranno il Vulcano una volta a destinazione. La nave, infatti, è attrezzata per svolgere ogni tipo di attività medica, dalle operazioni alla diagnostica. A bordo, inoltre, saranno trasportati medicinai e aiuti destinati alla popolazione civile. “Ma non finisce qua” ha sottolineato il ministro. L’intenzione, infatti, è quella di far seguire alla nave anche un ospedale da campo a terra. “Lo Stato maggiore della Difesa sto attrezzando e coordinando l’invio di una struttura ospedaliera a terra, in accordo con i palestinesi, da impiantare sul terreno di Gaza, vicino a dove c’è la necessità” ha spiegato Crosetto. Il Vulcano, infatti, raggiungerà in un primo momento Cipro, per poi avvicinarsi “il più possibile” alla costa palestinese, da dove potrà imbarcare, curare e ritrasferire a terra coloro che ne avranno bisogno, di concerto con le autorità locali e la Croce e Mezzaluna rosse.
Il sostegno italiano
Del resto, ha ricordato Crosetto, l’Italia ha chiesto anche nei consessi internazionali di aprire il valico di Rafah: “La Presidenza del consiglio, il ministero degli Esteri, e in generale il governo italiano sono stati tra i primi a chiedere l’apertura del valico, e i primi a offrire aiuti umanitari” tramite l’invio di due C-130 dell’Aeronautica militare. Per Crosetto, sono attività che il governo del Paese sta portando avanti “per cercare di buttare acqua sul fuoco”, un approccio che segue quello tenuto dalla comunità internazionale. Come sottolineato il ministro, infatti “tutti stanno chiedendo di distinguere tra la popolazione e Hamas”, aggiungendo come “uno stato di diritto si muova secondo le regole, una ulteriore cosa che lo differenza dai terroristi”, pur comprendendo le difficoltà che incontra Israele nel muoversi a Gaza “dove i cunicoli nascondono i centri di controllo di Hamas sotto siti civili od ospedali”.
Coordinamento internazionale
L’obiettivo, allora, è muoversi in uniformità con tutti gli altri Paesi, occidentali e arabi, per frenare l’escalation andare ad aiutare “chi con tutto questo non c’entra nulla”. Una risposta dai Paesi coinvolti si è già avuta, ha riportato il ministro, con due Paesi che invieranno navi militari e del personale sanitario a sostegno delle attività del Vulcano. Apprezzamenti e aperture si sono avute anche relativamente all’ospedale da campo. “Il desiderio è che scoppi una gara di solidarietà tra i Paesi occidentali e arabi, senza divisioni, per aiutare la popolazione civile di Gaza che sta subendo questo conflitto senza colpa”. L’arrivo di una nave-ospedale, tra l’altro, “non può che essere accettata di buon grado sia dai palestinesi che da Israele” ha detto il ministro.
Albagia
L’idea è buona, ma si rischia di sprecarla. Appostare centri di raccolta in Albania, per gli immigrati ancora da identificare e classificare, non ha nulla a che vedere con la smargiassata fallimentare del Ruanda fatta dagli inglesi (per la cronaca: non ce li trasferirono, in compenso si sono buttati soldi del contribuente). Quella parte della sinistra che ha tirato in ballo Guantanamo ha tutta l’aria di sapere poco sia di Guantanamo che degli eventuali centri albanesi. Affrontare il tema dell’immigrazione a botte di propaganda non è soltanto inutile ma anche autodistruttivo, come dimostra il fatto che non si riesce a fare nulla che anche lontanamente somigli alle suggestioni che si alimentarono.
Veniamo all’Albania e ai problemi che pone, cercando di mettere a fuoco l’opportunità che offre. Il meccanismo resta quello di sempre: quanti si trovano in mare e in pericolo vengono salvati – dalle imbarcazioni della Marina militare, della Guardia costiera o da altre che si trovano a incrociarli, Ong comprese – per essere quindi condotti in un punto di raccolta che li metta in sicurezza e dove procedere all’identificazione. Tutto come prima. Gestione e costi dei centri in Albania saranno italiani e su questo si tratta di capire, perché attualmente, per i centri in Italia e per il trasferimento degli sbarcati, disponiamo di contributi europei.
Da anni sostengo che sarebbe saggio creare zone extraterritoriali, meglio ancora se a gestione e giurisdizione europee, proprio per non far sbarcare le persone nella giurisdizione italiana, il che comporta vincoli che scattano immediatamente. Ad esempio: il provvedimento d’espulsione e l’ordine di rimpatrio sono provvedimenti amministrativi, in quanto tali ricorribili al Tribunale amministrativo e tanti saluti all’efficacia. Sostenendolo da tempo non ho nulla da obiettare all’Albania, ma se poi si aggiunge che la giurisdizione sarà italiana si sarà fatta un’operazione costosa e inutile. Non cambia niente.
L’Albania, del resto, è oggi fuori dall’Unione europea, sicché una persona che uscisse da quei centri non sarebbe, come capita in Italia, sul territorio europeo, così innescando tutte le problematiche dei movimenti secondari (da un Paese Ue all’altro, senza permessi in quello di primo arrivo). Ma l’Albania è prossima all’ingresso, sicché questo ‘vantaggio’ sarebbe temporaneo. La cosa ha un senso se la si pensa, fin da subito, come permanente, dato che permanente è e sarà l’immigrazione.
Illustrando l’iniziativa, la presidente del Consiglio ha sottolineato non soltanto la sua coerenza con le norme e la solidarietà interna all’Ue, ma anche la sua esemplarità nella collaborazione fra Paesi Ue ed extra Ue. Il cambio di linguaggio, rispetto ad appena ieri, merita il plauso. Ma il punto delicato dell’intera faccenda è stabilire chi decide chi fare entrare e chi ha la forza di respingere gli altri. Su questo il protocollo fra Albania e Italia non ci alleggerisce minimamente. Allora lo si usi come innesco di una decisione europea, creando una giurisdizione specifica per gli ingressi in massa dentro i confini comuni, velocizzando l’accoglienza per i profughi e per quanti abbiamo bisogno e convenienza di accogliere, rendendo realistica la prospettiva di respingimento per gli altri. Non potranno essere contrari gli europei che cercano lavoratori e che credono nell’umanità del diritto. Non potranno essere contrari gli europei che reclamano chiusure, senza avere la forza di praticarle.
Se non così concepito l’accordo sarà un boomerang: 39mila persone sono una frazione degli sbarcati; mantenerli e gestirli in Albania costerà più che farlo in Italia; l’indotto economico sarà degli albanesi; i centri, una volta riempiti, diventeranno piaghe.
Non si deve avere l’alterigia, la boria, l’albagia di far credere di avere la soluzione immediata per tutto. Serve l’affidabilità delle cose che si fanno per limitare i danni e coprire i bisogni nazionali. Che sono crescenti. Il resto è propaganda, che diventerà delusione.
La Ragione
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Tra budget e produzione. Le sfide dell’industria della Difesa europea
Il ritorno della guerra in Europa ha messo in evidenza come l’industria della difesa non abbia attualmente la capacità di produrre le risorse necessarie per sostenere un conflitto militare prolungato e ad alta intensità. La guerra non ha solo imposto un aumento della spesa militare, ma ha anche reso necessaria all’industria europea una rapida transizione da una produzione di materiale bellico orientato a operazioni a bassa intensità verso la produzione di materiale progettato per la condotta di conflitti convenzionali contro avversari di pari livello. Questa transizione, tuttavia, non è affatto facile: molte linee di produzione in settori chiave (come le munizioni) erano infatti state chiuse per mancanza di ordini, visto che i paesi europei tendevano a importarle da produttori extraeuropei. L’industria della difesa europea ha quindi chiesto ai governi piani di lungo periodo per garantire ordini sufficienti a riaprire le linee di produzione.
Il problema è che concentrarsi sul colmare i gap militari nel breve periodo potrebbe portare a sottovalutare i necessari investimenti nel lungo periodo: nel 2021, i governi Europei hanno speso un totale di 52 miliardi di euro per gli investimenti nel settore della difesa, di cui soltanto nove miliardi di euro è stato speso per ricerca e lo sviluppo. Questo potrebbe mettere l’Europa in una posizione di svantaggio rispetto a Usa e Cina, che si stanno concentrando su investimenti in tecnologie come l’intelligenza artificiale, soprattutto attraverso una crescente sinergia tra l’industria militare e commerciale. È invece essenziale che i decisori europei mantengano un equilibrio virtuoso tra investimenti nel breve e lungo periodo, ad esempio aumentando il budget del Fondo Europeo per la Difesa e i suoi investimenti nelle tecnologie emergenti e dirompenti.
Per produrre le risorse necessarie per ottenere un’autonomia strategica, poi, l’Unione europea deve essere in grado di procedere con una maggiore integrazione del mercato della difesa. Ad oggi, infatti, i paesi europei continuano ad acquistare più da fornitori extra-Ue che da fornitori Ue. Gli acquisti da paesi terzi rappresentano il 70% del totale nel periodo 2022-2023, di cui il 63% da un unico fornitore, gli Usa. Procedere con una maggiore integrazione del mercato richiede il superamento di due principali sfide. La prima consiste nel forte divario tra grandi e piccoli paesi all’interno dell’Ue. A causa della complessità tecnologica e dei grandi investimenti necessari per essere competenti in questo campo, l’industria della difesa è concentrata attorno a pochi e grandi gruppi industriali. Quando si parla di integrazione del mercato della difesa Europea o di autonomia strategica nel campo della difesa, ci si riferisce in realtà a un’industria fortemente concentrata in pochi grandi paesi (Francia, Germania e Italia). I paesi medi e piccoli europei, che non possiedono una significativa industria della difesa sono quindi incentivati a diversificare le fonti di approvvigionamento, acquistando a volte da industrie europee e a volte da produttori extraeuropei. Tali paesi non hanno incentivi strutturali per sostenere l’integrazione del mercato, che potrebbero portarli a diminuire le loro possibilità di scelta. Questi (dis)incentivi strutturali rendono difficile l’integrazione del mercato della difesa.
La seconda sfida riguarda il rapporto con gli alleati chiave. L’industria della difesa europea deve tenere in considerazione che il perimetro dell’Ue non coincide con quello della sicurezza europea. Ciò è particolarmente evidente nel ruolo del Regno Unito e della sua industria della difesa dopo Brexit. Il Regno Unito e la Francia avevano iniziato a lavorare insieme su un progetto per un caccia di sesta generazione, ma, dopo la Brexit, i due paesi hanno deciso di dividere le loro strade. La Francia si è unita a Germania e Spagna per sviluppare il Future combat air system (Facs). La Gran Bretagna si è unita a Italia e Giappone per sviluppare il Global combat air programme (Gcap). Questa biforcazione nella scelta del caccia di sesta generazione ha infatti portato l’Italia a fare una scelta difficile tra la fedeltà al blocco dell’Ue e i suoi legami industriali e strategico-operativi con la Gran Bretagna. I costi e la complessità tecnologica rendono difficile la sostenibilità di entrambi i progetti e allontanano i prospetti per una consolidata industria della difesa Europea. L’autonomia strategica in ambito di difesa deve avere un carattere flessibile, che consenta l’integrazione e l’interazione con alleati chiave come il Regno Unito e gli Usa
L’articolo è un estratto dell’approfondimento curato dal Centro studi Geopolitica.info per l’Osservatorio di politica internazionale del Parlamento sul tema dell’autonomia strategica europea (disponibile qui in versione integrale), le cui conclusioni sono state firmate dal direttore di Formiche e Airpress, Flavia Giacobbe.
AL SHIFA. Il principale ospedale di Gaza è un campo per sfollati
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Reportage dell’agenzia Reuters
(foto dell’agenzia Wafa, traduzione dall’inglese a cura della redazione)
Stipati sotto ripari di tela improvvisati nel parcheggio, dormendo nei corridoi o sui pianerottoli, trascorrendo le ore del giorno nelle scale, stendendo la biancheria sul tetto – migliaia di sfollati di Gaza riempiono ogni spazio dell’Ospedale Al Shifa.
L’ospedale principale di Gaza City si è trasformato in un gigantesco rifugio per le persone le cui case sono state bombardate, o che temono che lo saranno, durante l’assalto militare israeliano alla Striscia di Gaza entrato nel suo secondo mese. “Siamo scappati di casa a causa dei forti attacchi aerei”, ha detto Um Haitham Hejela, una donna rifugiata con i bambini piccoli in una tenda improvvisata realizzata con tessuto, spago e stuoie. “La situazione peggiora giorno dopo giorno”, ha detto. “Non c’è né cibo né acqua. Quando mio figlio va a prendere l’acqua fa la fila per tre o quattro ore. Hanno colpito i panifici, non abbiamo il pane”.
I giornalisti Reuters in visita all’ospedale martedì (ieri) hanno visto persone distese su entrambi i lati dei corridoi, che lasciavano solo uno spazio ristretto per consentire a chiunque di camminare, effetti personali immagazzinati nelle scale e sui davanzali delle finestre e pile di sacchi della spazzatura. L’impressione forte era quella di un affollamento estremo. Questa situazione non riguarda solo lo Shifa. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che 122.000 sfollati di Gaza abbiano trovato rifugio negli ospedali, nelle chiese e in altri edifici pubblici in tutta la Striscia, con altri 827.000 nelle scuole.
La guerra è stata innescata da un attacco del 7 ottobre contro Israele da parte dei combattenti di Hamas che hanno ucciso 1.400 persone e preso in ostaggio altre 240. In risposta, Israele ha lanciato un attacco aereo, marittimo e terrestre contro Hamas che, secondo i funzionari di Gaza, ha ucciso più di 10.000 persone nella fascia costiera densamente popolata.
Medics transport an injured Palestinian child into Al-Shifa hospital in Gaza City following an Israeli airstrike on October 11, 2023, as raging battles between Israel and the Hamas movement continued for the fifth consecutive day. Medical supplies, including oxygen, were running low at Gaza’s overwhelmed Al-Shifa hospital as the death toll from five days of ferocious fighting between Hamas and Israel rose sharply on October 11 with Israel keeping up its bombardment of Gaza after recovering the dead from the last communities near the border where Palestinian militants had been holed up. Photo by Atia Darwish apaimages
DALLA PAURA ALLA PAURA
Per gli ospedali, la crisi degli sfollati sta aggravando una situazione già catastrofica, con carenza di forniture mediche ed elettricità a causa dell’arrivo quotidiano di un numero enorme di pazienti gravemente feriti. Il personale sta ricorrendo a misure disperate, come eseguire interventi chirurgici senza anestesia.
Ad Al Shifa, gli sfollati affermano di essere venuti in cerca di sicurezza, ma di non sentirsi al sicuro a causa degli attacchi aerei nelle vicinanze e dell’avvicinarsi dell’esercito israeliano.
Israele sostiene di aver circondato Gaza City con le sue forze armate. L’ esercito israeliano accusa il movimento islamico Hamas di nascondere gli ingressi di tunnel e i suoi centri operativi all’interno di Al Shifa, cosa che Hamas ha negato.
“Siamo passati di paura in paura”, ha detto Um Lama, una madre in lutto rifugiata in un corridoio con diversi bambini e parenti più anziani. Sua figlia Lama è stata tra le vittime dell’attacco aereo di venerdì ad una un’ambulanza appena fuori dal cancello dell’ospedale. Il direttore dello Shifa ha detto che 15 persone sono state uccise e 60 ferite. Israele invece afferma di aver preso di mira un’ambulanza che trasportava combattenti di Hamas. La Mezzaluna Rossa Palestinese ha detto che l’ambulanza faceva parte di un convoglio che tentava di evacuare persone gravemente ferite.
“Guardate la nostra situazione. È questa la vita che stiamo vivendo? Non abbiamo cibo, né elettricità né acqua. Dormiamo nei corridoi”, ha detto Um Lama. Israele ha intimato agli abitanti di Gaza che vivono ancora nel nord della Striscia di spostarsi nel sud, anch’esso bombardato anche se meno intensamente. Martedì, durante una conferenza stampa, a un portavoce militare israeliano ono state fatte domande sulle notizie di bombe esplose sullo Shifa durante la notte.
“Sono consapevole che è successo. Probabilmente c’era qualche esigenza operativa”, ha detto. “Stiamo cercando di convincere le persone ad andarsene, questo è tutto quello che posso dire al riguardo. Questo è il tipo di messaggio con cui le persone cercano di uscire da lì”.
Tuttavia le donne rifugiate in ospedale affermano che, nonostante le terribili condizioni di vita e la paura, non hanno intenzione di andarsene perché non hanno nessun posto dove andare e nessun posto è sicuro.
“Siamo forti. Qualunque cosa facciano con noi, non lasceremo Al Shifa. Hanno tagliato l’acqua, l’elettricità, niente cibo, ma noi siamo forti. Possiamo mangiare solo biscotti e noci. Possiamo mangiare qualsiasi cosa”, ha detto Hejela.
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Tenacemente Tuvalu
L'arcipelago polinesiano, che sta finendo sott'acqua, ha cambiato la costituzione per continuare a esistere anche senza una terra. Una sfida diretta a tutti i concetti di nazione
L'articolo Tenacemente Tuvalu proviene da China Files.
In Cina e Asia – Ministeriale G7 a Tokyo, Blinken chiede unità su Ucraina e Gaza
I titoli di oggi: Ministeriale G7 a Tokyo, Blinken chiede unità su Ucraina e Gaza Belt and Road, la Cina rivaluta il debito La portaerei Shandong passa dal Giappone e raggiunge il mar Cinese meridionale Giappone, la Chiesa dell’Unificazione propone una compensazione da 67 milioni di dollari Cina, il bilancio di Fmi: economia in calo e rischi su debito locale ...
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Il futuro dei social è decentralizzare. L'articolo di Chiara Crescenzi su GuerrediRete
...Ma questa situazione rappresenta soltanto una minima parte di quello che accade davvero sulle piattaforme decentralizzate, che contrastano la diffusione di contenuti tossici opponendogli l’empowerment di comunità forti e coese. È abbastanza evidente, quindi, che decentralizzare sia oramai un imperativo per le piattaforme di social media, ammesso che queste ci tengano ad avere con sé i propri utenti. “Lo paragono alla crescita del cibo biologico e coltivato in modo sostenibile – ha dichiarato Bill Ottman, fondatore e amministratore delegato di Minds, piattaforma di social media parzialmente decentralizzata, commentando la diffusione di app federate -. Trent’anni fa, la gente diceva: ‘Non so di cosa stai parlando e non so perché dovrebbe preoccuparmi’. E ora, alla gente importa”.
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La falsa promessa di ChatGPT, di Noam Chomsky, Ian Roberts e Jeffrey Watumull
In breve, ChatGPT ed i suoi compagni sono costituzionalmente incapaci di bilanciare creatività e limiti. Essi o generano in eccesso (producendo sia verità che falsità, sostenendo assieme decisioni etiche o non etiche), oppure generano per difetto (esibendo disimpegno per ogni decisione e indifferenza per le conseguenze). Considerata l’amoralità, la finta scienza e l’incompetenza linguistica di questi sistemi, non si sa se ridere o piangere della loro popolarità.
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Non c’è via d’uscita per i dittatori. Il post di Branko Milanovic
In un interessante articolo che ha twittato ieri, Kaushik Basu discute, usando un modello matematico, un vecchio problema: come i governanti una volta che sono al potere non possono lasciarlo anche se lo vogliono, perché la loro strada, e la loro permanenza al potere, è cosparsa di cadaveri che chiederanno tutti vendetta (metaforicamente) se il governante dovesse dimettersi. Inoltre, dato che il numero delle malefatte e degli immaginari o reali nemici si moltiplica per ogni periodo aggiuntivo al potere, essi hanno bisogno di ricorrere ad una sempre maggiore repressione per restare al potere.
non c’è niente che si possa offrire ai dittatori per farli recedere. Essi devono continuare a governare finché o muoiono in pace nei loro letti – e dopo la morte vengono o vilipesi o celebrati (alcune volte, entrambe le cose) – o finché non vengono rovesciati, o si imbattono nel proiettile di un assassino. Una volta che si è sulla vetta, non c’è via d’uscita. Essi sono divenuti prigionieri, come i molti altri che hanno gettato in carcere
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Cari giovani, il benessere dell’Occidente non è una “colpa”
Continuano in tutto l’Occidente i cortei pro-Palestina dove si sostiene Hamas e se ne legittima la violenza. Tra i giovani il movimento non si placa. Le denunce contro l’antisemitismo cadono nel vuoto. Anche per ignoranza. Un docente americano, di fronte a studenti che giustificano la mattanza di civili israeliani del 7 ottobre, ha evocato i «pogrom». Si è sentito chiedere: «Cosa sono?». Un pezzo di America progressista vive una crisi di coscienza, non sa come parlare alla propria gioventù, radicalizzata al punto da esaltare i terroristi.
L’antisemitismo è solo una parte della spiegazione di quanto succede nelle scuole, nelle università e nelle piazze, sui social. Colpisce il dialogo tra una mamma di Atlanta e una insegnante, tutt’e due elettrici democratiche, riportato sul New York Times. La mamma è sgomenta nello scoprire che la scuola indottrina a senso unico, con docenti che demonizzano Israele e legittimano le stragi di Hamas. L’insegnante le risponde così: «Starò sempre dalla parte di chi ha meno potere, meno ricchezza. Questo vale a prescindere dagli atti estremi commessi da alcuni militanti, esasperati a furia di vedere il proprio popolo morire».
Il dialogo tra la madre e la professoressa americane fornisce una spiegazione della straripante solidarietà per i palestinesi, che non esita a perdonare le stragi di innocenti israeliani. «Stare sempre dalla parte dei deboli» è un principio che va ben oltre i confini della sinistra, abbraccia valori di altri mondi come quello cristiano. È fondamentale per capire le giovani generazioni, e avviare un dialogo sul grande abbaglio di cui sono prigioniere.
Il principio per cui i più poveri hanno sempre ragione non viene applicato solo a favore dei palestinesi e contro Israele. Ha generato conseguenze in molti altri campi: dall’immigrazione clandestina alle politiche verso la criminalità, fino all’atteggiamento verso i Paesi ex coloniali che sembrano aver diritto a risarcimenti perpetui (a prescindere dall’uso dissennato che le loro classi dirigenti fanno di quei risarcimenti).
La ricchezza dell’Occidente, o quella di Israele, è diventata la prova schiacciante di una colpa; si accompagna alla certezza che questo benessere è il frutto di crimini contro l’umanità. Applicando questo dogma a tutto l’Occidente, la storia degli ultimi secoli dalla Rivoluzione industriale in poi è un vasto romanzo criminale, degno di Émile Zola: un paesaggio infernale di sfruttamento abietto, sofferenze, guerre coloniali, saccheggio delle risorse naturali. Nulla di buono ha fatto l’Occidente visto che la sua opulenza è legata alla miseria degli altri e al riscaldamento climatico. Tra le conseguenze di questa narrazione abbiamo l’illegittimità etica delle frontiere nazionali (come possiamo negare l’ingresso ai poveri della terra, se la loro sofferenza l’abbiamo creata noi?) e l’urgenza di bloccare lo sviluppo economico foriero di un’Apocalisse ambientale. Queste convinzioni animano tanti giovani.
Il confronto con queste generazioni — e con i loro insegnanti — deve abbracciare la storia dell’Occidente, del perché siamo quello che siamo. Senza la nostra Rivoluzione industriale, quella cosa orribile che ha insozzato il pianeta, oggi non sarebbero vivi tre miliardi di cinesi e indiani, o un miliardo e mezzo di africani: è la nostra agricoltura moderna a base di fertilizzanti e macchinari a consentire la loro alimentazione; è la nostra medicina ad avere ridotto la mortalità e allungato la longevità. I miracoli economici asiatici che hanno sollevato dalla miseria metà del pianeta sono accaduti copiando il modello scientifico e imprenditoriale dell’Occidente. Senza la nostra economia di mercato, che usa innovazioni per creare ricchezza , non esisterebbero le tecnologie verdi che consentono un futuro con meno emissioni carboniche. Schiavismo e colonialismo, praticati da tutte le civiltà umane (tra cui arabi, turchi, cinesi e russi) sono stati denunciati e superati in Occidente da forme più avanzate di capitalismo: il Nord anti-schiavista negli Usa aveva un’economia superiore al Sud delle piantagioni; l’America del 1956 impedì l’aggressione di Inghilterra-Francia-Israele contro l’Egitto di Nasser perché il modello Usa si fondava sul superamento dei vecchi imperi coloniali. Delle ex colonie capaci di spettacolare progresso economico, culturale, civile, in Asia, sono diventate in certi casi perfino più ricche di noi: non hanno praticato la cultura del vittimismo.
«I deboli hanno sempre ragione» si applica in modo perverso al confronto tra Israele e i suoi vicini. L’odierna ricchezza israeliana è recente. Nella prima fase della sua storia il Paese era socialista e povero. Il boom israeliano dagli anni Ottanta in poi è fatto di innovazione e imprenditorialità. La condizione dei palestinesi, la loro mancanza di diritti, è ingiusta e inaccettabile ma non spiega la prosperità d’Israele. I Paesi arabi suoi vicini hanno spesso aizzato l’antisemitismo per invidia e per dirottare l’attenzione dall’inettitudine delle proprie classi dirigenti. Da anni era iniziata una revisione, alcune classi dirigenti arabe avevano cominciato a considerare Israele come un modello da imitare anziché un nemico da distruggere. Purtroppo non hanno fatto in tempo a rieducare le loro masse e oggi la piazza araba è un ostacolo sulla strada di un ritorno alla pace.
In Occidente urge un dialogo con i nostri giovani: su cosa siamo noi, perché siamo arrivati fin qui. Una parte dei genitori americani stanno dedicando un’attenzione nuova ai programmi d’insegnamento. Proprio mentre Cina, Russia e Turchia riscrivono i propri manuali scolastici per renderli ancora più impregnati d’orgoglio nazionale e di autostima, è giusto che da noi s’insegni a odiare la civiltà occidentale? Per conquistare consenso nel Grande Sud globale che ci volta le spalle, dovremo cominciare a ricostruirlo tra i nostri ragazzi e sui banchi di scuola.
L'articolo Cari giovani, il benessere dell’Occidente non è una “colpa” proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Epilogo
L’agonia è stata lunga e dolorosa, ora siamo all’epilogo. Ci saranno sussulti giudiziari, ma più indirizzati a salvare i propri soldi che non a salvare un’azienda oramai depredata e spezzata. Sebbene in negativo, questa è una storia istruttiva, perché un grande patrimonio italiano è stato distrutto a cura degli italiani. Quanti temono l’assalto dei “capitali stranieri” possono qui osservare gli effetti nefandi degli assalti italiani senza capitali.
Nel 1999 Telecom Italia era il sesto operatore globale delle telecomunicazioni, fatturava 27 miliardi all’anno e aveva un debito di 8 miliardi, basso. Era stata costruita grazie all’intervento pubblico (Iri-Stet) – quindi con i soldi dei contribuenti – e si manteneva grazie ai soldi dei clienti. Ergo sempre dei cittadini italiani, cui si aggiunsero i cittadini di quei Paesi in cui la fiorente multinazionale di allora era entrata. Eravamo noi i “capitali stranieri” capaci di fare conquiste. Ora fattura 15 miliardi l’anno e se ne porta sul groppone 21 di debiti. Un’enormità accumulata non facendo investimenti, ma caricando sulla società scalata i debiti contratti dagli scalatori del 1999. Quelli che l’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, chiamò «capitani coraggiosi» e che erano corsari con un’idea creativa delle regole del mercato, compreso il fatto che furono trovati a vendere (per farne scendere il prezzo) le azioni che affermavano di volere comprare.
Al momento della cessione al mercato delle azioni pubbliche si era stabilito che nessuno potesse avere più dell’1% delle azioni, ma al momento della scalata totalitaria si fece finta di non averlo mai detto. Questo è il bello di certe culture illiberali e nemiche del mercato: sono talmente convinte che il mercato sia predazione e sopraffazione che quando assistono ad azioni di quel tipo le pensano di mercato. Nella stagione in cui le regole europee aprivano, finalmente, alla concorrenza – quella in cui le tariffe sono scese moltissimo – anziché alla competizione ci si dedicò alla spoliazione.
Ora il Consiglio d’amministrazione ha deciso di vendere la rete – realizzata con i soldi degli italiani – in modo da diminuire l’indebitamento di 14 miliardi. Il socio di maggioranza relativa (i francesi di Vivendi, con il 23,7% delle azioni) si oppone e chiede l’intervento giudiziario. Ma lo sguardo di quel socio è rivolto ai soldi persi nell’investimento, non al futuro della rinominata Tim. E del resto, che passi l’idea di vendere la rete e tenere i servizi, piuttosto che quella di vendere i servizi per tenere la rete (ipotesi avanzata dal fondo Merlyn), comunque è un epilogo. Quel che allora ci capitò di denunciare e prevedere diventa purtroppo realtà.
Almeno si evitino ulteriori errori. Lo è il fatto che i soldi dei contribuenti continuino a essere usati per diventare soci dell’acquirente americano, Kkr. Lo Stato non deve puntare a fare il socio di minoranza, con il 20%, ma a esercitare controlli, a verificare che la rete sia sviluppata e non risistemata e rivenduta. Non ha senso volere essere soci quando i consiglieri d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti neanche prendono parte alla decisione di vendere. Non lo ha essere nell’azionariato di una società e della sua concorrente, come capita partecipando a Open Fiber, improvvidamente voluta dal governo Renzi, frutto di soldi Enel (ricordate le reti che dovevano passare dal contatore elettrico?) e poi sbolognata alla Cdp. E nemmeno stabilire che Kkr pagherà 2,5 miliardi in più se sarà fatta la fusione con Open Fiber, ovvero con i soci dei propri soci, subordinando il tutto al parere dell’Antitrust. Se si fosse ascoltato chi evidenziava il conflitto d’interessi non ci si troverebbe in queste condizioni.
L’interesse pubblico è portare i servizi della pubblica amministrazione in digitale e in Rete, nonché garantire portata e accesso a innovatori italiani che lavorano nei servizi. E per farlo non si deve essere soci, ma si deve essere lo Stato che non si è stati capaci di essere.
La Ragione
L'articolo Epilogo proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Spese per la Difesa. Se non cambia il trend, il 2% rischia di slittare. L’allarme di Crosetto
Le Forze armate italiane devono tornare a essere uno strumento militare, il principale baluardo per la difesa e la deterrenza in termini di sicurezza nazionale. Ad affermarlo è stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, intervenuto in audizione davanti alle commissioni Difesa della Camera e Affari Esteri e Difesa del Senato. Nell’ottica del ministro, dunque, è necessario per il Paese un profondo processo di rinnovamento e trasformazione: “Pensavamo di aver superato la fase in cui le Forze armate dovevano assolvere la funzione di difesa del Paese, prendendo la direzione di una Protezione civile 4.0, ma ci siamo accorti che così non è”. Un cambio di paradigma reso necessario dal contesto internazionale più fragile. Probabilmente, ha annotato Crosetto, “se non fosse accaduto nulla in Ucraina non ci saremmo posti il problema di riequilibrare l’assetto delle Forze armate con la stessa urgenza”, ma sta di fatto che il momento attuale lo impone.
L’obiettivo del 2%
È partendo da questo presupposto che il ministro ha voluto lanciare l’allarme sul requisito del 2% del Pil da destinare alla Difesa, un impegno preso con la Nato nel 2014 e da allora costantemente reiterato, e che con gli attuali trend di spesa rischia di allontanarsi sempre più. “Il 2 % è centrale, ma siamo molto lontani: l’obiettivo sarà “impossibile nel 2024 e difficile anche per il 2028”, data, quest’ultima, individuata dal precedente governo come momento in cui l’Italia si è impegnata ad adeguarsi alla previsione Nato. Il processo di rinnovamento della Difesa deve avere un sostegno finanziario adeguato, ha affermato il ministro, cha ha poi registrato come la Difesa italiana dedichi alla ricerca “un ventesimo di quello che dedica la Francia, e lascio perdere i paragoni con gli Stati Uniti”. Una limitatezza di risorse che costringe persino a “cannibalizzare il parco mezzi per la ricerca di ricambi”. È in questo quadro che si inseriscono i venticinque miliardi di euro richiesti dal dicastero attraverso il Documento programmatico pluriennale per la Difesa.
Oltre la polemica
Di fronte a questo scenario, il ministro Crosetto ha ribadito la sua posizione di svincolare le spese per la Difesa da patto di stabilità. “Sono stato il più sincero tra i ministri della Difesa a dire ‘forse non ce la facciamo’, a fronte della situazione di bilancio”, ha evidenziato Crosetto. “Il ragionamento che l’Italia può fare in Europa è sottolineare come l’aumento degli stanziamenti per la Difesa sia un obiettivo di investimento imposto dall’esterno che non può essere in contrasto con le necessità di spesa in altri settori”. Un tema che, secondo Crosetto, andrebbe discusso anche a livello nazionale. “Le spese per la Difesa non possono diventare argomento di discussione politica, dobbiamo superare la stucchevole polemica ideologica che associa alle spese per la difesa solo un concetto di costo”. Per il ministro, infatti, questi investimenti sono “un valore strategico per il Sistema Paese, con un impatto positivo anche sullo sviluppo economico.
Il ruolo dell’industria
Tra l’altro, ha sottolineato ancora Corsetto, “l’industria della difesa rappresenta un asset per il Paese nell’attuale contesto geopolitico” grazie soprattutto al suo impegno nella ricerca per programmi di sviluppo tecnologico. In particolare, la Difesa dovrà “continuare lo sviluppo di capacità strategiche, evolvendosi soprattutto verso la frontiera dei nuovi domini, come quello cibernetico, subacqueo e dell’intelligenza artificiale”. Per questo, ha detto Crosetto, “il ministero della Difesa e quello per le Imprese e il Made in Italy dovranno migliorare la cooperazione in termini di industria militare”.
Nuovo approccio al reclutamento
A fronte del mutato contesto internazionale, tra l’altro, nel prossimo futuro potrebbe essere addirittura necessario aumentare il numero del personale delle Forze armate. Una necessità che chiama in causa anche le condizioni contrattuali del comparto Difesa. “Non è possibile affrontare gli attuali problemi con le regole del pubblico impiego” ha detto Crosetto, evidenziando le difficoltà che riscontrano le Forze armate nell’attirare nuovi talenti. “Occorre pensare che non si può affrontare il mondo che si ha davanti con gli stessi strumenti che valgono per altri comparti”. La soluzione, per Crosetto, è strutturare concorsi “in cui le persone sappiano fin dall’inizio di avere una prospettiva di impiego da soldati, con alcuni tipi di arruolamento fatti in modo diverso”, facendo riferimento ai corpi speciali, il cui lavoro non “può essere paragonato al pubblico impiego”.
TURCHIA. Il processo all’oppositrice politica che rischia due ergastoli per aver denunciato la tortura di Stato
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 7 novembre 2023. Si è svolta alle 9.30 di questa mattina, le 11.30 in Turchia, l’udienza al tribunale di Istanbul per Ayten Öztürk, l’oppositrice politica turca che ha denunciato di essere stata rapita e torturata dalla polizia.
È stata assolta dall’accusa di “propaganda per un’organizzazione terroristica”, formulata in seguito alla pubblicazione di un libro in cui denuncia gli abusi subiti. Resta in attesa della pronuncia della Corte sull’altro processo in cui è imputata e per il quale rischia due ergastoli aggravati.
L’interesse pubblico e internazionale che negli ultimi mesi è cresciuto intorno al suo caso, ha inciso, secondo gli avvocati di Ayten, sulla decisione presa dal giudice. Decine di persone hanno assistito all’udienza, mentre la maggior parte dei sostenitori dell’imputata, ai quali non è stato permesso entrare, hanno atteso la sentenza fuori dall’aula.
Giornalisti, rappresentanti politici turchi e osservatori internazionali hanno ascoltato con attenzione le arringhe degli avvocati di Ayten Öztürk e le sue dichiarazioni finali, nelle quali ha domandato ai giudici perché fosse lei l’imputata e non i boia che l’hanno torturata. Solo pochi giorni fa i suoi avvocati sono riusciti a individuare ad Ankara il centro segreto di detenzione nel quale è stata trattenuta e abusata per sei mesi.
Da quando ha cominciato a denunciare di aver subito torture, Ayten è stata vittima di un forte accanimento giudiziario: attualmente è agli arresti domiciliari da più di due anni e rischia due ergastoli con accuse pretestuose.
“Grazie al sostegno internazionale oggi abbiamo ottenuto questo successo – ha dichiarato l’avvocata Seda Saraldi – e se il sostegno aumenterà, potremo vincere anche il processo più importante”.
“Continueremo insieme, internazionalmente, la lotta per scovare e chiudere i centri segreti di tortura – ci ha detto Ayten -, e insieme vinceremo”.
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Poggipolini sbarca negli Usa con Houston Precision Fasteners
Poggipolini S.p.A. ha comunicato oggi di aver firmato l’accordo per l’acquisizione della statunitense Houston Precision Fasteners, azienda leader nella produzione di fissaggi critici e speciali, stampati a caldo, e in componenti meccanici di precisione. Per la chiusura dell’operazione si attende il vaglio del Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti (Cfius), chiamato a verificare le implicazioni per la sicurezza nazionale degli investimenti esteri.
Si tratta, come sottolinea l’azienda in una nota, di un’operazione unica per una pmi italiana, che permetterà al gruppo bolognese, specializzato in fissaggi critici e componenti innovativi e che già vanta clienti come Leonardo, Boeing, Safran e Ferrari, di perseguire un posizionamento d’eccellenza in mercati internazionali, innovativi e strategici come quelli dell’aerospazio e della difesa. Negli anni, infatti, Houston Precision Fasteners si è imposta come supplier di riferimento per player principali nel mercato statunitense dell’aerospazio e della difesa, come SpaceX, Blue Origin, Boeing, Lockheed Martin, Bombardier Aerospace, Axiom, Northrop Grumman, Bell e da distributori leader della supply chain.
La visione di Poggipolini Spa di accelerare la propria crescita e di potenziare una proposta di valore innovativa nell’intera catena del valore del mercato aerospaziale è marcatamente espressa in questa acquisizione strategica, specialmente nei settori dello Spazio e della Difesa, spiega la nota. Houston Precision Fasteners, con la sua presenza consolidata in Houston, porterà preziosa conoscenza del mercato, una clientela in rapida espansione e un team di esperti professionisti. La crescita per linee esterne iniziata nel 2022 con l’acquisizione di Aviomec (Mornago, Varese) e oggi con Houston Precision Fasteners porta il gruppo Poggipolini ad avere un 75% di fatturato estero e un 25% di fatturato in Italia. Aerospace e Difesa rappresentano i mercati core, un una quota del 75% di fatturato. Seguono Automotive 15% e Motorsport con il 5%.
“Raggiungere un posizionamento transatlantico è fondamentale per continuare a crescere in un mercato così strategico e che oggi rappresenta il nostro core business”, ha dichiarato Michele Poggipolini, amministratore delegato di Poggipolini S.p.A. “Integrando l’esperienza e le soluzioni all’avanguardia di Houston Precision Fasteners siamo pronti a stabilire nuovi standard di settore”, ha aggiunto. “L’obiettivo è scalare il mercato potenziando al massimo le nostre tecnologie. Il mercato statunitense è fondamentale per la nostra crescita strategica a lungo termine e collaborare con HPF è molto stimolante: entrambe le società concordano su valori e aspirazioni. Si tratta di un passo importante per una pmi italiana. Siamo pronti a cambiare gli scenari”, ha concluso.
Perché Israele ha dormito: dal The Venetian a Washington, l'intelligence si è occupata più della character assassination dei propri critici che della difesa dai propri nemici armati
@Politica interna, europea e internazionale
Un futuro film sul massiccio fallimento dell’intelligence israeliana del 7 ottobre potrebbe intitolarsi Tutto tranquillo sul fronte di Gaza . Per mesi, se non anni, i membri di Hamas avevano segretamente pianificato la loro fuga da Gaza, a lungo definita la prigione israeliana a cielo aperto per i palestinesi. Ma, mentre nel corso degli anni l’intelligence israeliana intensificava la sua guerra segreta contro americani innocenti, allo stesso modo prestava sempre meno attenzione ad Hamas. Relativamente tranquilli dietro le alte mura e il filo spinato di Gaza, presumevano che i suoi membri fossero diventati docili e sottomessi. Un'epidemia minore, e loro avrebbero semplicemente inviato armi e veicoli corazzati e avrebbero "falciato l'erba".
Politica interna, europea e internazionale reshared this.
Luciano Canfora – La democrazia dei signori
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L'articolo Luciano Canfora – La democrazia dei signori proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Netanyahu: dopo la guerra Israele controllerà “la sicurezza di Gaza a tempo indeterminato”
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di newarab.com
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato ieri che il suo Paese si assumerà la “responsabilità complessiva” della sicurezza di Gaza per un periodo indefinito dopo la fine della guerra contro l’enclave palestinese.
“Israele avrà, per un periodo indefinito, la responsabilità generale della sicurezza”, ha dichiarato in un’intervista televisiva con ABC News trasmessa lunedì. “Quando non abbiamo questa responsabilità sulla sicurezza, ciò che succede è l’eruzione del terrore di Hamas su una scala che non potevamo immaginare”, ha aggiunto.
L’esercito israeliano ha attaccato senza sosta Gaza via aria, terra e mare dal 7 ottobre, quando Hamas ha lanciato un attacco transfrontaliero. Il bilancio delle vittime a Gaza ha superato le 10.000 persone, ha dichiarato lunedì il ministero della Sanità di Gaza, tra cui più di 4.000 bambini.
Nell’intervista di lunedì, Netanyahu ha contestato le cifre del ministero della Sanità (Gaza), che secondo lui includono probabilmente “diverse migliaia” di combattenti palestinesi, anche se non ha citato alcuna prova a supporto di questa affermazione.
Nonostante i crescenti appelli per un cessate il fuoco da parte del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e di altri leader mondiali, Netanyahu ha dichiarato di non essere favorevole.
“Non ci sarà alcun cessate il fuoco – cessate il fuoco generale – a Gaza senza il rilascio dei nostri ostaggi”, ha dichiarato. “Per quanto riguarda le pause tattiche, piccole, un’ora qui, un’ora là, le abbiamo già avute in passato”, ha detto. Israele potrebbe accettare delle pause per permettere l’ingresso di beni umanitari a Gaza o per consentire agli ostaggi di lasciare il territorio palestinese assediato, ha aggiunto.
Alla domanda se dovesse assumersi la responsabilità (politica,ndr) dell’attacco del 7 ottobre, Netanyahu ha risposto “naturalmente”. Non è una questione e deve essere risolta dopo la guerra”, ha detto, aggiungendo che il suo governo non ha “chiaramente” rispettato l’obbligo di proteggere il suo popolo.
L’articolo originale in lingua inglese è consultabile al link seguente
newarab.com/news/netanyahu-isr…
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Giorgia Meloni e la guerra informativa dei russi. L’analisi del generale Tricarico
Che nell’imminenza dei fatti tutti parlassero di “scherzo telefonico” alla presidente Meloni è più che comprensibile e quindi scusabile.
Che però ancora oggi tale termine venga usato per riferirsi ad un vero e proprio attacco malevolo al vertice di governo è meno perdonabile ed indice soprattutto di una colpevole inconsapevolezza, di una maniera superficiale di fare informazione, di un non stare al passo con i tempi di chi dovrebbe invece vegliare come un cane da guardia su ogni segnale che sia spia di un rischio per la collettività.
Che è il seguente: l’attacco alla presidente Meloni è catalogabile come un evento di information warfare, di guerra dell’informazione, condotto da un gruppo filo russo noto come TA499, che vede nella compagine due cittadini russi noti pubblicamente con i nomignoli di Vovan e Lexus.
Attivo dal 2021, il gruppo criminale ha prediletto in passato principalmente l’arma delle e-mail, per condurre a termine operazioni contro obiettivi occidentali.
Esso si è reso responsabile di campagne divulgative volte a preservare l’immagine della Russia e di Putin nelle varie controversie o circostanze, ed in particolare, in occasione dell’invasione russa dell’Ucraina, a divulgare narrative che sostenessero le ragioni del Cremlino.
Uno “scherzo” ben riuscito nel tempo è stato quello di indire conference call registrate, utilizzando tecniche di social engineering, tra esponenti governativi statunitensi, europei, esponenti di vertice di società, persone famose ed altro.
Per conferire le caratteristiche di verosimiglianza ed attendibilità all’inganno propinato, TA499 ha fatto ricorso all’intelligenza artificiale creando dei veri e propri avatar dalle sembianze di reali personaggi pubblici. Il Gruppo non ha invece profuso molta tecnologia nel ricostruire le voci dei personaggi chiamati in causa, contando sulla scarsa conoscenza che ognuno aveva della voce dell’altro e quindi ponendosi al riparo da sorprese che qualche voce potesse essere riconosciuta come falsa.
Le riunioni iniziavano in maniera formalmente corretta, andavano avanti con tale cifra fin quando i soggetti target non venivano “spremuti” a fondo, facendo loro dire tutto il possibile sulla tematica di interesse dei criminali.
Come detto, le attività malevole di TA499 si sono concentrate negli ultimi tempi su personaggi di spicco, principalmente istituzionali, aventi un ruolo di primo piano nella guerra russo ucraina.
Altro che comici! Veri e propri professionisti del crimine, asservito a questo o quel dossier di spessore internazionale.
Lo scherzo è semmai quello subito dal povero Francesco Talo’, il Capo dell’Ufficio del Consigliere Diplomatico. La Presidenza del Consiglio ha da rimproverarsi non di non aver evitato uno scherzo alla presidente, -che sarebbe stato grave in sé – ma di non aver riconosciuto e frustrato – in maniera più incolpevole- un vero e proprio attacco malevolo, rubricabile senza ombra di dubbio come un atto di guerra in tempo di pace con la quale prima o poi sarà meglio prendere dimestichezza.
Presentazione del libro “Non diamoci del Tu – La separazione delle carriere” – 20 novembre 2023, Torino
Intervengono, unitamente all’autore:
LUCA ASVISIO, President Ordine Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Torino
ANNA CHIUSANO, Past President Camera Penal Piemonte Occidentale e Valle D’Aosta
ANDREA MALAGUTI, Direttore Quotidiano “La Stampa”
CESARE PARODI, Procurator aggiunto presso la Procura della Repubblica di Torino
ALESSANDRO PRUNAS TOLA, Consigliere Prima Sezione Penal Corte d’Appello di Torino
Evento accreditato per il riconoscimento de crediti formativi
Iscrizioni mediante la piattaforma RICONOSCO
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Political advertising: EU won’t ban voter manipulation and microtargeting
Yesterday, the EU Parliament and Council agreed on new rules on transparency and targeting of political advertising. The Parliament was able to secure a publicly accessible library of online political advertising, but targeting political messages based on the individual preferences, weaknesses, situation and personality of every user will remain legal (so-called surveillance advertising). Patrick Breyer, EU lawmaker and digital freedom fighter for the Pirate Party, who co-negotiated the regulation in the Civil Liberties Committee (LIBE), takes stock:
“The targeting rules are a farce. The digital manipulation of elections in the style of Cambridge Analytica, targeted disinformation before referendums such as Brexit, contradictory election promises to different voter groups – all of this remains legal. Anti-democratic and anti-european movements will benefit most: they can continue to use surveillance advertising to target hate messages and lies at voters who are susceptible to them in order to undermine our democracy. Here, the short-sighted self-interest of those in power and the surveillance capitalist interests of big tech have combined to create a toxic mixture for democracy.”
The agreed targeting rules in detail:
- The existing prohibition in the Digital Services Act of analysing the user’s political opinion, sexual orientation or health for advertising purposes remains in place. In practice, however, political advertising tends to be based on matching interests and other correlations, which remains legal. Even Cambridge Analytica did not analyse the political opinion of users before Trump’s election as US president, but rather their personalities.
- The user consent already required under the General Data Protection Regulation (GDPR) remains a precondition for being allowed to tailor political advertising to the individual situation of the user and profiling their digital lives. Surveillance data from third-parties may not be used. For the first time, Parliament could implement a ban on annoying consent banners if the user rejects personalised political advertising via their browser settings (“do not track”). Parliament was also able to ensure that consent to political surveillance advertising may not be made a precondition for accessing websites (“tracking walls”).
“Every user will be able to decide in favour of or against political surveillance advertising,” explains Breyer. “In the best-case scenario, yesterday’s agreement heralds the beginning of the end of annoying cookie banners and tracking walls. We can build on this foundation in the ePrivacy negotiations and extend these rules to all banners. In the worst case scenario, the new rules will be undermined by suggestively designed consent banners and consent clauses hidden deep in terms and conditions. Letting individual internet users decide on the protection of democratic elections is a dangerous failure of the legislator, for which the EU Commission and EU governments are responsible.”
The new rules will come into force in 2025.
In Cina e Asia – L’Ue fa appella alla stabilità strategica per affrontare rivalità con Pechino
Ue fa appella alla stabilità strategica per affrontare rivalità con Pechino Cina: più controlli sull’export di terre rare Lo “zar dell’economia cinese” negli Usa per stabilizzare le relazioni Ripartono i colloqui tra i leader di Australia e Cina Fuga di capitali stranieri dalla Cina Cina, dirigente di azienda di livestreaming in isolamento Terremoto in Nepal: la comunità scientifica avverte dei ...
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businessinsider.com/insurance-…
pirati.io/2023/10/accordo-stor…
freenet.org/blog/882/zero-know…
Nelle Cronache della settimana:
- In UK l’Online Safety Bill è legge, guai in arrivo per le comunicazioni cifrate
- Il Regolamento eIDAS e la cybersicurezza “FIAT”
- In Canada la polizia potrà accedere alle telecamere private
Nelle Lettere Libertarie: La posizione libertaria sul confitto Hamas-Israele
Scenario OpSec della settimana: Luca desidera proteggere le sue parole chiave (seed words) di Bitcoin da hacker, ladri, agenti di polizia e disastri naturali. Vuole anche assicurarsi che, nel caso in cui lui muoia, le parole chiave siano conservate in sicurezza e sua moglie possa recuperarle anche senza di lui.
In UK l’Online Safety Bill è legge, guai in arrivo per le comunicazioni cifrate
Nel Regno Unito è da poco legge l’Online Safety Bill, uno strano mix tra il Digital Services Act e il Chatcontrol di matrice europea. Come da sempre accade, l’Online Safety Bill propone di contrastare la pedofilia online e i contenuti terroristici a fronte di una pervasiva sorveglianza e ingerenza nella vita delle persone.
Proprio come potrebbe accadere per il Chatcontrol, la legge inglese rischia di mettere in serio pericolo la diffusione di servizi di chat e comunicazioni cifrate come Signal e Whatsapp. La sezione 1211 della legge obbliga infatti i fornitori di questi servizi a usare tecnologie per identificare contenuti terroristici e pedopornografici sulle loro piattaforme e nelle comunicazioni degli utenti.
Per servizi come Signal e Whatsapp significa in pratica costruire una backdoor nei loro stessi sistemi di crittografia end-to-end per poter sorvegliare e analizzare le comunicazioni degli utenti.
Meredith Whittaker, presidente di Signal Foundation, commenta così la nuova legge:
“We’re really worried about people in the U.K. who would live under a surveillance regime like the one that seems to be teased by the Home Office and others in the U.K.”
Purtroppo, il rischio è che i prossimi saremo noi.
Il Regolamento eIDAS e la cybersicurezza “FIAT” di stampo europeo
Il testo del Regolamento eIDAS europeo, che tratta di temi legati all’identità digitale, è da poco stato approvato a porte chiuse durante i triloghi tra le istituzioni europee e potrebbe diventare presto legge.
la_r_go* reshared this.
Il James Webb e Chandra hanno trovato il buco nero più distante mai rilevato nei raggi X | AstroSpace
«La notevole massa del giovane buco nero in UHZ1, insieme alla quantità di raggi X prodotta e alla luminosità rilevata da Webb, confermano le previsioni teoriche fatte nel 2017 riguardo a un “buco nero fuori misura” che si è formato direttamente dal collasso di una massiccia nube di gas. Ulteriori studi sono in corso per analizzare questo particolare oggetto cosmico. E per sfruttare questi risultati (insieme ad altri) per una comprensione sempre maggiore del nostro Universo ai suoi primordi.»
Maronno Winchester
in reply to The Privacy Post • • •Un bordello lisergico di links che sembra fatto apposta per scoraggiare la lettura - e che invece merita un trattamento di tutto riguardo, cazzo.
poliverso.org/display/0477a01e…
@la_r_go
The Privacy Post
2023-11-07 07:08:05
la_r_go*
in reply to Maronno Winchester • • •@pierostrada
vero
ho boostato e salvato il link per 'dopo' ma non se ne esce vivi
@privacypost