Ipersonica, sfide e opportunità. La lezione dell’Aeronautica militare
Quella dei missili ipersonici è la vera sfida del settore aerospaziale del futuro, una minaccia che obbliga tutti i Paesi a investire nello sviluppo di capacità di difesa e deterrenza. È quanto emerge dal confronto dedicato al tema dall’Aeronautica militare, in occasione della chiusura delle celebrazioni per il Centenario dell’Arma azzurra. Come sottolineato dal capo di Stato maggiore dell’AM, generale Luca Goretti, il prossimo dominio di operazioni per la Forza armata, “è lo spazio”, dove “mentre alcune nazioni operano in maniera dinamica e onesta, altre cercano di capire come sfruttare le orbite per ottenere una prevalenza strategica”, anche attraverso l’uso dei sistemi ipersonici. Diventa quindi fondamentale capire come difenderci, ha proseguito Goretti “e far comprendere a chi ha certe mire che non conviene compiere un tipo di azioni ostili perché saremo in grado di fare la stessa cosa”, trasportando oltre l’atmosfera il classico concetto di deterrenza.
Le sfide…
Parliamo, dunque, di “missili ipersonici plananti, posizionati in orbita e capaci di scendere poi verso terra, particolarmente manovranti e difficili da intercettare” ha spiegato il capo Ufficio generale spazio dello Stato maggiore della Difesa, il generale Davide Cipelletti. Facendo il paragone con i missili balistici intercontinentali. Mentre questi ultimi partono dalla superficie, raggiungono l’orbita e poi rientrano nell’atmosfera percorrendo molti chilometri di decine di – dando perciò ai sistemi di sorveglianza il tempo di reagire – le nuove piattaforme ipersoniche partono già dall’orbita, e sono capaci di raggiungere i propri obiettivi in pochi minuti. “Per affrontare questi sistemi – ha detto ancora Cipelletti – bisogna tracciarli in ogni momento mentre sono in orbita, con tempi di reazione molto ristretti”.
… e le opportunità dell’ipersonica
Di fronte a questo scenario, la tecnologia diventa allo stesso tempo una minaccia e un’opportunità. Come sottolineato dal presidente di Lockheed Martin, Michael Williamson, sebbene “in tutto il mondo, le forze alleate si trovano di fronte a minacce di livello simmetrico in rapida evoluzione progettate per eludere le difese e neutralizzare le risorse” è altrettanto vero che “le armi ipersoniche d’attacco e di difesa consentono alle forze alleate di rispondere allo stesso modo”. Il vero rischio, ha sottolineato allora il condirettore generale di Leonardo, Lorenzo Mariani, “è far parte o meno di questo progresso tecnologico quantico, a livello di Paese, di industria e di Forze armate”. Affrontare il problema, dunque, diventa una questione non solo di sviluppare un intercettore in grado di volare alla stessa velocità del missile ipersonico, ma ci vogliono anche i sistemi in grado di individuare e seguire il volo della minaccia. Una complessità che chiama in causa non solo i sensori classici, ma anche le soluzioni di intelligenza artificiale in grado di analizzare rapidamente una gran mole di dati.
Servono le collaborazioni
Naturalmente servono i fondi “ma non basta” ha sottolineato ancora Mariani, aggiungendo come serva “collaborazione tra industria, Forze armate, politica e università, anche a livello internazionale, guardando in particolare alla relazione transatlantica”, dal momento che “nessun Paese può farcela da solo”. Per il managing director di MBDA Italia, Giovanni Soccodato, è allora “importante capire con quali Paesi è possibile mettere insieme capacità, competenze, investimenti per poter realizzare in temi rapidi una risposta a quella che sta diventando un’urgenza operativa estremamente importante”.
La mossa dell’orso: arriva Xi ma la Cina si riprende i panda
Entra Xi Jinping, escono i panda. Gli Stati uniti si preparano ad accogliere il principale rivale, ma devono lasciar partire gli amati animali, simbolo della diplomazia cinese da oltre un millennio.
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In Cina e Asia – Cina, continua la fase di "deflazione”. Colpito anche il manifatturiero globale
I titoli di oggi: Cina, continua la fase di deflazione Nuovi chip “depotenziati” di Nvidia per la Cina Dal Pacifico allo Stretto di Taiwan: nuova rotta per la portaerei cinese Shandong Icbc colpita dagli hacker russi I panda dello zoo di Washington tornano in Cina Gli Usa non arretrano dall’Asia-Pacifico. Al via nuovi colloqui con l’India Pakistan, prestati dalla ...
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Guerra. Voci da Gaza
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(Traduzione a cura di Federica Riccardi)
insaniyyat.org/voices-from-gaz…
Insaniyyat, Society of Palestinian Anthropologists
Dall’inizio dell’attuale, feroce, guerra israeliana contro la popolazione di Gaza, familiari e amici, compresi i membri della nostra comunità Insaniyyat, hanno cercato con ansia di avere notizie dei propri cari in tutta Gaza. Di seguito sono riportate le trascrizioni di messaggi di testo personali, note vocali e post sui social media che gli amici e i cari di Gaza sono riusciti a inviare in risposta; messaggi intermittenti composti nel bel mezzo dei bombardamenti e della distruzione, mentre erano sopraffatti dalle notizie di continue morti, anche di amici e parenti, senza elettricità, cibo, acqua, rifugio sicuro e speranza. Offriamo umilmente queste voci da Gaza sotto assedio che attestano l’immensa sofferenza dei gazawi, ma anche il loro sconfinato coraggio e la loro volontà di sopravvivere. Nelle parole dell’avvocato per i diritti umani di Gaza, Raji Sourani, che parla dal profondo di questa “guerra”: “Sono così orgoglioso del mio popolo, di un coraggio e di una forza incredibili…
Sono orgoglioso del mio popolo, perché con tutta la forza di Israele, l’esercito più forte del Medio Oriente, contro Gaza, i suoi 365 chilometri quadrati, e dopo un blocco di 16 anni nell’area più densamente popolata della Terra, che manca di tutto, sono ancora forti, stanno ancora sopravvivendo… Abbiamo morte dappertutto, nelle strade e nel cielo – e le morti vengono dal cielo, dal mare, dall’artiglieria… Non si sono arresi… Sono molto orgoglioso di essere gazawi. Sono molto orgoglioso di essere palestinese”
Raed Issa*, artista
Venerdì 13 ottobre
Grazie, cari amici, per i vostri messaggi e mi scuso per non aver risposto perché non c’è internet, né elettricità, né acqua, né sicurezza!!!
(Amore in tempo di guerra)
Vogliamo rassicurarvi: Se ci chiedete come stiamo – stiamo ancora, lode a Dio, non bene!!! I bombardamenti e l’orrore non si fermano né di notte né di giorno!!! Gaza è miserabile e aspetta la liberazione di Dio!!! Cosa possiamo dirvi! Dei nostri bambini che fanno mille e una domanda! O dei loro semplici bisogni che non possiamo soddisfare! O di come dormono la notte sotto i boati degli aerei della morte e i terremoti che provocano a causa del loro odio nero. E le scene disumane di bambini innocenti, così come gli edifici e le aree residenziali che sono diventati cenere o i ricordi che hanno cancellato? O della sposa che non conclude il suo matrimonio! O di una madre che ha perso tutti i suoi figli. O di intere famiglie che sono state cancellate dall’anagrafe! O del corteo funebre di un martire che è passato di qui poco fa. O delle famiglie sfollate, che non sanno dove andare, cosa mangiare o come bere, quando ce l’hanno, o se c’è il tempo per mangiare e bere, tutte cose che al momento sono la preoccupazione minore. È vero che il tempo è lungo, molto lungo, e a volte la notte sembra durare quanto un mese lunare senza elettricità. E la passiamo a parlare delle Mille e una notte! E non c’è tempo per l’amore, la cultura e l’educazione! Persino la speranza e l’arte sono prigioniere! Siamo ancora sotto shock, possiamo solo aspettare e aspettare cosa!!! Ci sono buone notizie che sollevano il morale o ci sono notizie di un’altra tragedia qui o là. E per seguire tutto ciò che accade sul terreno non possiamo far altro che aspettare e siamo molto, molto, impegnati in questa lunga, lunghissima, attesa che determina il nostro destino all’ombra del silenzio e dell’indifferenza internazionale. L’angoscia è grande, il dolore è acuto e la calamità è immensa. Non abbiamo altra scelta per la libertà che la pazienza e la preghiera. Perché non abbiamo altra scelta”.
* Raed Issa è un artista contemporaneo nato nel campo profughi di al Breij e vive a Gaza City con la moglie e i figli. La sua arte esplora i temi della vulnerabilità, della perdita e del lutto di una vita sotto assedio e in guerra, ed è stata esposta in Palestina, Giordania, Svizzera, Australia e Irlanda. È fondatore del programma di belle arti della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese a Gaza e membro fondatore del collettivo di arte contemporanea di Gaza Eltiqa. Durante la guerra di Israele del 2014 contro Gaza, la sua casa e gran parte delle sue opere d’arte sono state distrutte. Per vedere l’opera di Raed, per saperne di più leggi qui.
A.*, Giornalista e traduttore
I seguenti sono messaggi vocali che A. ha inviato agli amici tra il 12 e il 15 ottobre 2023:
Giovedì 12 ottobre
La situazione a Gaza è molto critica, soprattutto dopo la dichiarazione minacciosa di Avichay Adraee, capo della divisione dei media arabi del portavoce dell’IDF, che ha invitato i gazawi a evacuare verso il sud della Striscia. Tutti i palestinesi di Gaza che vivono vicino ai confini erano già fuggiti verso il centro e poco dopo i bombardamenti israeliani hanno spazzato via l’intera area di Al Rimal, solitamente il luogo più sicuro del centro di Gaza City. Si tratta di un esodo nazionale di massa. I palestinesi sono bloccati per le strade, alcuni portano con sé bambini, altri una misera bottiglia d’acqua vuota, altri ancora i loro familiari anziani. I numeri della fuga verso il sud della Striscia sono straordinari, un’area già sovrappopolata che non sarà in grado di assorbire tutti coloro che fuggono lì.
Ho bucato una gomma e, guardandomi intorno, sono sbalordito dall’enorme numero di civili bloccati.
La loro situazione è straziante.
A tutto questo si aggiunge il fatto che Israele sta uccidendo personale medico e giornalisti. Finora hanno bombardato più di 12 ambulanze.
Non abbiamo internet, non abbiamo corrente, non abbiamo elettricità. Stanno bombardando i generatori elettrici e le unità di fornitura di Internet.
Non riusciamo a metterci in contatto tra noi e i giornalisti perdono la connessione.
La situazione è molto grave.
Israele ha commesso oltre 23 massacri, spazzando via intere famiglie, tutti civili. Stanno bombardando case e palazzi, senza avvisare i residenti.
Oltre il 60% delle vittime sono bambini e donne. A Gaza stanno commettendo un genocidio, una pulizia etnica, proprio come nella Nakba del 1948.
Non c’è un solo posto sicuro a Gaza in questo momento. Nessuno è al sicuro. Israele sta usando tattiche di panico con le famiglie. Contattattano le famiglie, di 40 o più membri, le chiama e chiede loro di evacuare. A volte si tratta di un messaggio preregistrato. A quel punto migliaia di persone iniziano a cercare di fuggire per salvarsi la vita, poi corrono a cercare un riparo e poi il bombardamento avviene da un’altra parte senza alcun preavviso.
Non avvertono, bombardano a piacimento.
Questa volta è la guerra più sanguinosa, stanno bombardando intere unità abitative, alti edifici di appartamenti, come le Palestine Towers, che ospitavano 82 famiglie prima di essere completamente rase al suolo. Quelle famiglie ora non hanno più una casa. Dove dovrebbero andare?
Stanno prendendo di mira molti alti edifici residenziali.
Come giornalista, sono paralizzato e non riesco a seguire tutte le notizie. A causa della mancanza di connessione, sto scrivendo i miei servizi su carta! Non c’è internet, non c’è elettricità, i computer portatili sono morti, la connessione è saltata.
Molte delle notizie che stiamo cercando di coprire e inviare non vengono nemmeno ricevute.
Non posso garantire che il mio reportage vi raggiunga e, anche se lo facesse, non sono sicuro di essere vivo quando lo farà.
Abbiamo appena ricevuto una telefonata da un amico che sta andando nel sud della Striscia e ci ha detto che le forze d’occupazione stanno uccidendo i palestinesi sulle strade principali mentre cercano di fuggire verso sud. È un esodo, una Nakba, una distruzione totale.
Come potete sentire intorno a me, nella mia casa, ci sono attualmente più di 50 palestinesi che cercano rifugio qui, come potete sentire dalle voci dei bambini che piangono. Anche i nostri vicini ospitano più di 50 persone. Intere famiglie vengono spazzate via a Gaza. Le testate giornalistiche stanno cercando di contattarmi, ma non sono riuscito a rispondere o a mettermi in contatto con loro.
Finora nessun palestinese di Gaza ha vissuto questo massacro senza perdere almeno una persona cara o un familiare.
Le case delle mie due sorelle sono state completamente distrutte. Stamattina sono andate a controllare e non hanno trovato nulla. Il fidanzato della figlia di mio zio è stato martirizzato e non abbiamo più notizie di lui. Siamo in uno stato di shock, anche come giornalista, non ho parole.
Dov’è l’Occidente? Dove sono i diritti umani che predicano? Dov’è il diritto internazionale? E le organizzazioni internazionali? Dov’è l’ONU? Tutte quelle entità che pretendono di stare dalla parte dell’umanità. Quello che viene commesso è sicuramente un crimine di guerra e una violazione del diritto internazionale. È un genocidio e deve essere immediatamente fermato.
Riteniamo tutti i governi arabi e occidentali responsabili di aver ulteriormente sostenuto l’occupazione e di averle permesso di commettere queste atrocità contro l’umanità.
Non sono sicuro che resterò qui ancora a lungo, questa potrebbe essere il mio ultimo messaggio vocale.
Sabato 14 ottobre (mattina)
…Ci è stato detto di dirigerci a sud e mentre la gente si dirigeva lì, i soldati israeliani hanno preso di mira e ucciso alcuni di loro – circa 70 martiri e più di 200 feriti, la maggior parte dei quali sono donne e bambini.
Rimaniamo nella nostra casa – ci rifiutiamo di lasciare la nostra casa. Non permetteremo che si verifichi un’altra Nakba. La situazione è così difficile: non c’è acqua né elettricità dall’inizio della guerra. Ora cerchiamo l’acqua potabile… ma è molto difficile trovarla. Quindi, stiamo cercando di conservare l’acqua che abbiamo – chiediamo a tutti di conservare l’acqua e di non usarla a meno che non sia assolutamente necessario lavarla. Questa è la situazione in cui ci troviamo.
Sabato 14 ottobre (sera)
… ho ricevuto la notizia che un mio caro amico è stato martirizzato. Era un giovane brillante, davvero un giovane brillante. Mi fa sentire così sconfitto. Sono così triste. Lavorava con [il gruppo italiano di solidarietà di skateboard] Gaza Freestyle quando sono venuti a Gaza – lo conoscono. Era uno scrittore di We Are Not Numbers e scriveva per Palestine Chronicle. Ho scritto un post sul mio account, ho aggiunto una foto di noi due insieme e ho taggato il suo account. La sua pagina è fantastica – i suoi post erano così belli. Che la sua anima possa riposare in pace. È stato ucciso insieme ai suoi familiari.
Ho appreso la notizia della sua morte dagli Stati Uniti… Posso connettermi a Internet solo pochi minuti ogni 5-6 ore… Un suo parente negli Stati Uniti mi ha inviato la notizia su di lui. Gli ho detto che era una bugia, gli ho inviato il mio numero e gli ho detto: “Se fai sul serio, chiamami”. Quando mi ha chiamato stava piangendo e mi ha detto che aveva ricevuto la notizia che Yousef e la sua famiglia erano stati martirizzati. Anche loro ospitavano degli sfollati nella loro casa di Beit Lahiya. Sono stati uccisi tutti senza preavviso: l’intera casa è stata bombardata con loro dentro. La maggior parte di loro, donne e bambini, sono stati martirizzati sul posto. Alcuni di loro sono ancora sotto le macerie… Che la sua anima possa riposare in pace.
Domenica 15 ottobre (mattina)
Ciao, spero che stiate tutti bene – caro Dio, prego per la fine di questa situazione. Davvero, siamo esausti, non ce la facciamo più. Grazie a Dio oggi è stato relativamente calmo, nella notte ci sono stati alcuni bombardamenti ma nel complesso la notte è stata tranquilla. Sono ancora nella mia casa a Gaza [City], molte persone sono fuggite a sud, ma molte sono rimaste qui a nord dopo aver visto il massacro di 70 persone e più di 200 feriti sulla strada verso sud – la gente si è spaventata, comprese le persone che avevano intenzione di fuggire e hanno deciso di rimanere qui. E poi ci sono stati tanti bombardamenti nel Sud, tanti bombardamenti e bombardamenti e bombardamenti, massacri, tante persone martirizzate, tante persone uccise. Questo per dire che le persone che hanno lasciato Gaza sono andate a sud e hanno cercato rifugio presso le persone residenti lì e poi sono state tutte bombardate. Ci sono anche persone fuggite a sud che sono tornate a Gaza [City]. L’UNRWA ha annunciato che fornirà servizi solo nel sud, ritirandosi completamente dal nord. Il Programma Alimentare Mondiale dice di avere cibo per 1,3 milioni di persone bloccate al valico di Rafah e altri dicono che ci sono medicine bloccate al valico. Siamo tutti stanchi di parlare. La gente ha fame. Nei negozi di Gaza non c’è più nulla, anche se si hanno soldi, non c’è più nulla da comprare, soprattutto le cose di base, i beni di prima necessità. Tutti stanno riducendo al minimo ciò che mangiano. E la gente non mangia e non beve perché non vuole andare in bagno. Ascoltate, tagliare l’elettricità e internet è più facile che tagliare l’acqua. Così hanno tagliato l’acqua. Ma l’acqua che esce dai rubinetti non è potabile, non lo è mai stata. Di solito la gente prende l’acqua potabile dai camion dell’acqua che girano per le strade. Ora i camion dell’acqua non possono circolare per le strade a causa della distruzione, gli autisti e il personale dei camion dell’acqua sono stati uccisi e gli autisti dei camion dell’acqua hanno paura di muoversi. I pochi pozzi d’acqua dolce a Gaza non possono essere raggiunti… L’acqua che la gente ha (acqua residua in serbatoi di stoccaggio), quell’acqua, sapete che ci sono studi che dicono che il 79% di essa non è sicura da bere per gli esseri umani e gli animali. La gente sta iniziando a bere quell’acqua non sicura: è una catastrofe. Nessuno può lavarsi. Non ci si può nemmeno lavare le mani prima di mangiare, si è coperti di polvere e sporcizia e non ci si può lavare, non ci si può pulire per pregare, i vestiti non si possono lavare. Non c’è acqua. È un problema enorme, catastrofico.
Domenica 15 ottobre (pomeriggio)
Il problema del mancato arrivo degli aiuti sta uccidendo soprattutto negli ospedali. Ci sono stati 10 medici martirizzati, così come le ambulanze, molte delle quali sono state attaccate. Quindi – sapete cosa sta facendo la gente? C’è un attacco aereo su un edificio – così qualcuno nelle vicinanze sale in macchina e va a portare fuori la gente – perché le ambulanze non possono arrivare abbastanza velocemente, non ce ne sono abbastanza e molte strade sono distrutte, i veicoli non possono passare. Quindi, forse l’avete visto, le persone trasportano i feriti e i morti nelle loro auto, sui carretti, su qualsiasi cosa abbiano per portarli all’ospedale. Ma poi all’ospedale non c’è più posto, non ci sono letti per i malati e i feriti. Non c’è spazio per i cadaveri. Negli ospedali i malati e i feriti vengono messi per terra. Per quelli che hanno ferite più leggere, fanno il minimo indispensabile e dicono loro: “Andate, andate a casa, ci sono persone con ferite più gravi”. I poveri medici lavorano 24 ore al giorno, giorno dopo giorno, non hanno un attimo di riposo e chiedono l’elemosina di forniture mediche, chiedono aiuto – sono sopraffatti. E il numero di martiri, di morti, dove li metti? Gli obitori dell’ospedale sono pieni. Quindi, cosa hanno iniziato a fare: hanno preso i camion dei gelati e hanno impilato i corpi uno sull’altro. I camion sono freddi e non c’è altro posto dove mettere i corpi.
Domenica 15 ottobre (sera)
La situazione umanitaria è devastante. Ci sono tantissime case distrutte e bombardamenti continui. Molti medici sono stati uccisi e ora sono costretti a scegliere chi salvare da sotto le macerie. Ci sono stati più di dieci ospedali che hanno ricevuto chiamate dall’IDS per evacuare, ospedali! Ma i medici dicono che noi restiamo, non possiamo portare i pazienti, dove li porteremmo? Noi restiamo qui con loro, non li abbandoneremo.
Mentre i volontari e i medici cercano di soccorrere i feriti e di portare via i martiri e pur sapendo che potrebbero esserci ancora persone vive sotto le macerie, sono costretti ad andarsene perché ricevono una richiesta di aiuto in altre aree dove la possibilità di salvare vite umane è più alta… non hanno scelta. È una vera catastrofe. E il mondo sta a guardare… non fanno entrare nemmeno gli aiuti umanitari. Non si tratta di essere occidentali o arabi o palestinesi, si tratta di umanità e diritti umani.
Almeno vediamo che il mondo è in fiamme e reagisce là fuori, questo è di grande sostegno per noi qui.
Vi prego di continuare a manifestare, di non interrompere la vostra dimostrazione di solidarietà nei nostri confronti. Ci è di grande conforto sapere che siete presenti là fuori.
Non so come facciano coloro che si bevono la propaganda unilaterale ad essere tranquilli con la loro coscienza… la sofferenza che ho visto oggi è indescrivibile.
Venerdì 20 ottobre
…Il mio telefono, Jawwal, si è spento da ieri, quando è tornata l’elettricità è stato fantastico, così ho potuto ricaricare il mio telefono. In realtà non si tratta di elettricità, ma di un motore che porta elettricità una volta al giorno per un’ora.
Sto bene, fino ad ora… questa sera è stata molto difficile. Questa mattina sono rimasta scioccato dalla notizia della mia cara amica che è stata martirizzata. È una poetessa e una persona davvero eccezionale, che Allah abbia pietà di lei, è stata martirizzata… e addirittura tutti hanno iniziato a scrivere su Facebook e sui social media “Se sarò martirizzato, per favore ricordatevi di me”. O persone che scrivono “So che sarò martirizzato”, è qualcosa di incredibile, è come se non sapessimo se siamo in un film o se è un incubo. è qualcosa di surreale. Mi chiedo: “È possibile che tutto questo sia un incubo? Finirà? Tutto questo finirà davvero?”. D’altra parte, la speranza è qui con il dolore e la sofferenza…
Ieri hanno liberato due prigionieri, una donna e sua figlia, entrambe americane, e sono arrivati degli aiuti. Sicuramente è stato il risultato di un accordo. I bombardamenti diminuiscono, ma solo di giorno, di notte tornano. Questa notte, mentre guardo, il cielo è tutto rosso [per i bombardamenti], quindi è tutto molto strano, è surreale, per davvero siamo entrati in qualcosa che sembra incosciente.
Ieri hanno bombardato l’ospedale, ma la gente si è rifiutata di uscire.
Oggi una delle migliori aree residenziali di Gaza è stata cancellata, ripulita, letteralmente, Tel el Alia. La casa di mia cugina è stata rasa al suolo, lei, il marito e le tre figlie hanno trovato rifugio nell’ospedale di Al Aqsa. Ieri l’ho chiamata e mi ha detto: “Stiamo qui… volete bombardare? Stiamo qui, dove andremo?”.
Mi sono arrabbiato molto per le persone che sono state uccise nella chiesa. Sapete, loro (i cristiani) sono molto pochi a Gaza, sono tutti molto rispettati, ho molti amici della comunità. C’è un giovane che è stato martirizzato e che conosco. Stavo parlando con un mio amico in modo da ottenere il permesso di andare lì per Middle East Eye. Gli ho detto che volevo parlare con Majd e lui mi ha detto che Majd è in terapia intensiva e che sua madre è stata martirizzata. Questa notizia ci ha rattristato molto, tutti i bombardamenti e le distruzioni, l’ospedale e la chiesa ci hanno rattristato ancora di più…
* A. è un giovane giornalista e traduttore laureato in letteratura inglese all’Università islamica di Gaza. A. ha chiesto a Insaniyyat di non rivelare la sua identità a causa del timore diffuso che i giornalisti a Gaza siano attivamente presi di mira da Israele. Si veda ad esempio il precedente dei bombardamenti nel 2021 di sedi di importanti di media e l’uccisione della famiglia del capo ufficio di Al Jazeera Gaza, Wael Al-Dahdouh, il 25 ottobre 2023.
Andaleeb Adwan*, femminista, scrittrice ed educatrice
I seguenti sono i messaggi Whatsapp che Andaleeb ha potuto inviare tra l’8 e il 17 ottobre 2023:
Lunedì 9 ottobre
…Io e le bambine, i miei nipoti, la loro madre e i suoi genitori, suo cugino con la moglie e i figli siamo intrappolati nel seminterrato della loro casa che si trova vicino all’Università islamica e tutti i bombardamenti sono proprio accanto a noi. La situazione è indescrivibile, l’orrore va oltre ogni immaginazione, la casa è stata gravemente danneggiata e c’è molta distruzione intorno a noi e sopra di noi. Mio figlio Muhammed, il giornalista, è nel cortile dell’ospedale al-Shifa dove si è riparato con gli altri giornalisti che hanno dovuto evacuare i loro uffici dopo essere stati avvertiti.
… tra l’altro siamo in questa situazione da mezzogiorno
… ma sono distrutta, i miei nervi sono a pezzi e ho detto che vi scriverò.
… Non si può dormire, gli attacchi aerei non ci danno la possibilità di farlo. Andiamo in bagno a due a due, per paura.
…. Con noi ci sono due dei miei nipoti e un’altra bambina e un altro bambino, figli dello zio di mia nuora: in tutto quattro bambini.
(Passano 10 minuti senza bombardamenti)
… [Potete andarvene?]
… No, è difficile uscire… le strade sono disastrate… le macchine non possono circolare… e siamo nell’oscurità più totale e non c’è luce per le strade.
… molte persone hanno cercato di uscire e sono rimaste intrappolate nelle strade.
… stanno facendo una cosa [bombardamento a schema] chiamata cintura di fuoco in diverse aree, dividono i quartieri in cellule isolandole l’una dall’altra
… buon Dio, che abbiano finito
… stiamo aspettando la mattina
Martedì 11 ottobre (mattina)
… Siamo fuggiti dall’edificio perché vogliono bombardare i due edifici che si trovano dall’altra parte della strada.
… abbiamo camminato a lungo tra le distruzioni in modo che Mohammed sapesse come raggiungerci con un’auto e portarci all’hotel al Dera.
Martedì 11 ottobre (sera)
… Grazie a Dio stiamo bene e i bambini stanno bene e sono felici di essere riuniti al loro padre
… e siamo riusciti a lavare via la polvere e la sporcizia
… questo per dire che la nostra situazione è molto migliorata grazie a Dio
Mercoledì 12 ottobre
… Buongiorno. Ieri a mezzanotte siamo dovuti scappare dall’albergo perché volevano bombardare la zona. Siamo andati in una casa con altre persone da parenti di mia nuora. Poco dopo volevamo tornare in albergo – Hahhahaha – ho una perdita di sensibilità incredibile!
… Sai, Israele non ha prezzo e noi palestinesi non valiamo nulla. Il nostro sangue è così a buon mercato.
… Siamo tornati in albergo e dopo mezz’ora hanno bombardato con bombe al fosforo un edificio esattamente di fronte a noi. Stavamo soffocando e siamo fuggiti di nuovo dall’albergo ed eccoci qui a casa dello zio di mia nuora.
… Io sto bene… Tutti stanno bene… Spero che questa notte sia tranquilla.
Venerdì 14 ottobre
Grazie a Dio siamo arrivati sani e salvi a Rafah, sono con la mia famiglia, gli Adwan.
Lunedì 16 ottobre
… Buongiorno, stiamo bene
… Non abbiamo abbastanza acqua potabile, nessuno qui ha l’acqua potabile
… Due dei bambini si sono ammalati, hanno febbre e diarrea
… Dio ci liberi
Martedì 17 ottobre
… Dall’alba ci sono stati bombardamenti intorno a noi
… ci sono tanti, tantissimi, morti e feriti
… ci sono tanti morti e feriti
Martedì 31 ottobre (mattina)
La notte è andata bene
Ma adesso
I bombardamenti sono vicini
Non c’è elettricità e i generatori per strada sono completamente silenziosi perché non c’è gas o gasolio.
Abbiamo installato pannelli solari per ricaricare i cellulari e batterie per alcune luci a LED intorno a noi di notte.
Lunghe file per il pane fin dal mattino, perché ci vuole molto tempo e un sacchetto di pane costa il doppio.
Internet va e viene ed è molto debole.
E l’acqua non è sicura da bere e noi la compriamo al doppio del prezzo e usiamo roba di plastica per non dover lavare i piatti
E raccogliamo l’acqua usata per tirare lo sciacquone del bagno
E il sonno è costantemente disturbato
…
M e A e i loro due figli sono con me
E il collega di M, sua moglie e i suoi tre figli, e la figlia di mia sorella con due bambini, e suo fratello che vive nello stesso edificio, nell’appartamento di fronte al nostro, e ha 6 figli.
Sì, siamo una folla intera.
E mio cugino paterno, il padre di mia nipote, la cui madre, mia sorella, è morta, e la sua attuale moglie sono al primo piano.
*Andaleeb Adwan è un’attivista di lunga data per i diritti delle donne e la democrazia a Gaza. È fondatrice e direttrice del Community Development and Media Center di Gaza City, che lavora con giovani e donne per promuovere lo spazio democratico e l’espressione di sé attraverso i media cittadini socialmente consapevoli. Si veda il suo post dalla guerra israeliana del 2021 su Gaza qui e un’intervista del 2012 qui.
S.*, Operatrice comunitaria con bambini e giovani
Di seguito sono riportati i messaggi Whatsapp che S. ha potuto inviare agli amici tra il 10 e il 26 ottobre 2023:
13 ottobre (pomeriggio)
La casa è piena.
È piena come una scatola di sardine.
Niente internet dopo le 12.
Nessuna preoccupazione.
15 ottobre
Stanno uccidendo le famiglie
Intere famiglie
La moglie di Jalil e i suoi figli
I nostri vicini
Tutti loro
Sto soffrendo
L’ONU e il CICR sono fuggiti e hanno lasciato la gente indietro
Sono triste
Voglio piangere, ma devo gestire la situazione
Voglio dimenticare quello che ho visto
Non si può immaginare
Oltre la realtà
Non posso credere a ciò che sto vedendo
Grande non è la parola giusta
No, non grande
Di più più più più
Puoi dirlo a Fayrouz
Non posso dirle della famiglia di Jalil.
Lei li conosce
17 ottobre
Acqua e cibo?
Niente
Molto poco
Una razione per ciascuno, anche per le galline
Ma niente per le piante
…
Beh, la razione varia
Ci sono persone con problemi ai reni, anziani e bambini
…
Il mio caffè è la mia razione
Oggi la giornata è andata avanti cercando di risolvere il problema dell’acqua
L’energia solare è stata colpita
Se riesco a ripararla in parte, il problema dell’acqua può essere risolto.
In televisione vedevo i sopravvissuti e le persone che li aiutavano, ma qui non ci sono più soccorritori, ora il sopravvissuto salva quello accanto a lui.
È una merda
Niente Tarzan dalla fine della giungla
Capite cosa voglio dire
Sto solo chiarendo
18 ottobre
Siamo andati a dormire nel 2023 e ci siamo svegliati nel 1948
21 ottobre
La situazione oggi è di merda
I bombardamenti non si fermano
Oggi ci hanno fatto entrare i sudari per le sepolture
Per davvero, non metaforicamente
Due camion su venti [la prima consegna di aiuti umanitari]
No, non c’è bisogno di sudari perché i martiri non vengono messi nei sudari e i cristiani vengono sepolti con i loro vestiti.
Inoltre non è la cosa più importante, oggi ci sono le fosse comuni.
I dettagli non sono importanti, ma a volte è importante riflettere.
Gli aiuti non sono arrivati e quelli che sono arrivati oggi credo fossero solo per il sud e il bisogno più grande è nel nord e nella città di Gaza.
Non c’è pane, non c’è acqua, non ci sono pannolini per anziani e bambini, latte, plastica per coprire le finestre se la casa non è completamente distrutta, coperte, materassi, elettricità, biancheria intima, vestiti, assorbenti igienici e cibo in scatola.
Immaginatevi di svegliarvi in un deserto e di dover vivere in modo essenziale
La cosa bella è che la gente ha creato una rete di protezione, ma è arrivata la guerra e la gente era già povera in partenza, sia chi ospitava sia chi era ospitato.
Niente medicine di tutti i tipi, anestesia, contraccettivi, tutto quello che si può immaginare.
Caffè scuro senza cardamomo
Pastelli e giocattoli per bambini
khalas
E gas e diesel
Da ieri le operazioni si fanno senza anestesia
E per le ferite da schegge che si trovano in punti meno pericolosi del corpo: [saranno trattate] dopo la guerra
La priorità per le cure è per le persone che hanno una maggiore speranza di vita
21 ottobre (tarda sera)
Personalmente, voglio una tazza di buon caffè e voglio dormire due ore ininterrotte e senza svegliarmi terrorizzato.
Ho smesso di saper dire frasi lunghe
Dimentico come una matta
Oggi ho lasciato il lavoro
Mi sembrava di aver perso la strada
No, non è l’età, lo giuro.
dopo sabato dimentico molto di più che dal mio ultimo compleanno
Lo giuro
…
Dico che forse è bene che tu venga.
Intorno a me sono morte tante persone
Amici, colleghi e conoscenti
Potremmo essercene andati tutti
Il cerchio è diventato molto piccolo
I bambini sono invecchiati molto la scorsa settimana
…
Immaginate se potessi venire in macchina e portare la famiglia
Al Nilo
…Messaggio inoltrato:
“#Attenzione: A partire da domani domenica, una confezione di pane da 3 chili sarà venduta al prezzo di 4 shekel da pagare al proprietario del panificio, in seguito a un accordo tra l’UNRWA e i proprietari dei panifici dopo che l’UNRWA ha fornito loro la farina.
I panifici inizieranno a vendere secondo questo accordo, a partire dall’alba di domani, domenica 22/10/2023. I panifici sono…
[Sono elencati 18 panifici situati nel sud].
Grazie, Egitto.
22 ottobre
Il mio collega che era come un fratello è stato martirizzato
Un artista mi ha spezzato il cuore
Non abbiamo dormito
Hanno ucciso gli sfollati in fondo alla strada
La mia testa sta per esplodere
23 ottobre
Voglio dormire
Sono stanca
Sto per morire
Hanno detto che questa notte finirà a mezzanotte
24 ottobre (mattina)
Orrore
24 ottobre (sera)
Non credo di poter dormire
Ho del lavoro da fare
Il mio collega che lavora in emergenza con me – le sue figlie sono sotto le macerie
E suo padre è stato martirizzato
E sua moglie è stata martirizzata
E i bombardamenti continuano
E stanno bombardando vicino al nostro rifugio al lavoro – è pieno di bambini
45 minuti dopo
13 martiri vicino al rifugio
26 ottobre (mattina)
Mi dispiace che i giorni siano sempre più duri e che la perdita e la tristezza aumentino.
Ma il mio collega Ahmed ha tirato fuori sua figlia da sotto le macerie dopo 36 ore.
Si chiama Afaf, forse ha 9 anni.
Le notti sono terrificanti e i giorni sono terrificanti
La piccola Afaf sta bene
E ha ridato il buonumore a suo padre
Racconta le storie di 36 ore
Sta bene e ha ridato vita e speranza a tutti.
Ieri eravamo tutti depressi nel rifugio e all’improvviso è arrivata la notizia della piccola Afaf, così abbiamo fatto festa, ma poi all’improvviso abbiamo saputo che Dima, una giovane sposa incinta di un mese, era sotto le macerie.
C’era tristezza e poi hanno detto che era stata martirizzata con suo marito, il suo bambino non ancora nato e il resto della famiglia.
È stato difficile
Così me ne sono andata
Perché conosco Dima
È della nostra famiglia
E un’amica di mia nipote, Rana.
Non potevo
Poi le notizie sono aumentate e il numero di persone che conosciamo, vicine e lontane, che sono sotto la guerra e sono state martirizzate o sotto le macerie o qualcos’altro dai dettagli della guerra.
Così ero un po’ stanca
Ma oggi sto meglio
Sono occupata perché devo aprire un nuovo rifugio.
E il primo compito è l’acqua
Voglio dire, mi hai chiesto
Quindi ti rispondo
…
Mi piacerebbe camminare lungo al Nilo
Se possibile, signora…
Una nota sul metodo
Insaniyyat pubblica solo i dispacci di persone che hanno dato il permesso esplicito di farlo. Non abbiamo potuto pubblicare molti messaggi che ci sono stati inviati perché non siamo riusciti a raggiungere le persone, soprattutto durante il blackout dell’elettricità e delle comunicazioni imposto collettivamente da Israele a tutta la Striscia di Gaza per 32 ore il 27-28 ottobre.
Abbiamo anche notato un cambiamento nella volontà dei giornalisti di condividere le informazioni che li riguardano individualmente. Questo cambiamento è stato particolarmente evidente dopo che un attacco aereo israeliano ha ucciso i membri della famiglia di Wael Dahdouh, il principale corrispondente da Gaza per Al Jazeera. Subito dopo l’uccisione, il 26 ottobre, Dahdouh ha dichiarato: “Si vendicano di noi con i nostri figli?”.
Si ringrazia Insaniyyat, Society of Palestinian Anthropologists per aver concesso il permesso di tradurre e pubblicare questo articolo.
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L'articolo Guerra. Voci da Gaza proviene da Pagine Esteri.
Palestina Papers | L'Indipendente
"La creazione di una nazione ebraica in Palestina venne teorizzata dal pensatore Theodor Herzl e presentata al Congresso sionista mondiale di Basilea nel 1897. Importante annotare che non tutti gli ebrei sono sionisti e alcune correnti ortodosse dell’ebraismo (ad esempio gli askenaziti) si opposero fin dall’inizio all’idea di creare una nazione ebraica in quanto, nella loro visione religiosa, la Terra Promessa sarebbe stata ottenuta dal popolo ebraico solo con il ritorno del messia. Gruppi di ebrei contro il sionismo sono molto attivi ancora oggi, come il Jewis Voice for Peace."
L’Europa si prepara al post Stazione spaziale. Ecco l’accordo per Starlab
Mentre si avvicina la data di dismissione della Stazione spaziale internazionale, l’Europa non vuole trovarsi impreparata, e a Siviglia si è detta pronta ad aprire a una maggiore collaborazione con i privati proprio in vista del futuro delle stazioni orbitanti. Nel contesto del Summit Esa nella città spagnola, infatti, l’agenzia europea ha siglato con Airbus e Voyager Space un memorandum d’intesa volto a esplorare le potenzialità dell’utilizzo di Starlab, uno dei tre progetti selezionati dalla Nasa per una stazione commerciale realizzato da Nanoracks (le altre due sono di Blue Origin e di Northrop Grumman), potenziando la sinergia pubblico-privata e aprendosi alla commercializzazione di segmenti tecnologico-spaziali storicamente riservati al settore pubblico.
Cos’è Starlab?
Starlab è una stazione spaziale commerciale per attività commerciali in orbita bassa, progettata e annunciata da Nanoracks ideata con lo scopo di succedere alla Stazione spaziale internazionale, garantendo così un certo grado di continuità con le attività odierne della Iss, una volta che questa non sarà più operativa. Il lancio della stazione commerciale è previsto per il 2028 e la sua operatività per il 2029. Il progetto, supportato dalla Nasa con 160 milioni di dollari, oltre a Nanoracks vede la collaborazione di alcune delle più grandi compagnie spaziali globali come Lockheed Martin, Airbus defence and space, Northrop Grumman e Voyager Space.
Accordi spaziali
L’accordo trilaterale tra Esa, Airbus e Voyager Space siglato a Siviglia, dunque, mira a incrementare le opportunità di collaborazione tra l’agenzia europea e le compagnie che svilupperanno Starlab in modo da garantire all’Europa un proprio accesso allo spazio quando nel 2031 la Stazione spaziale internazionale verrà decommissionata. In un’era post-Iss, infatti, il memorandum prevede la possibilità per l’Esa, le singole agenzie degli Stati membri e agli astronauti europei di accedere alla stazione spaziale commerciale. Incluse nell’accordo anche la creazione di un sistema di trasporto cargo e la cooperazione in ricerca spaziale, scientifica e tecnologica.
La rilevanza per l’industria europea
L’Europa collabora alla Stazione spaziale internazionale da più di vent’anni attraverso il proprio know-how e la sua tecnologia avanzata. L’accordo riflette l’intenzione di mettere in moto un processo di transizione che accompagni l’obsolescenza dell’Iss e permetta all’Europa di partecipare attivamente alla creazione del suo sostituto commerciale. Come registrato dal direttore generale dell’Esa, Josef Aschbacher, a margine della firma dell’accordo: “L’Esa guarda con fiducia all’iniziativa industriale transatlantica per la creazione della stazione spaziale commerciale Spacelab e al potenziale che il coinvolgimento europeo può avere sia per le industrie europee sia per la stessa stazione”.
La rivoluzione cargo
In particolare l’inclusione del servizio cargo da e verso Starlab, prevista dal memorandum, è un’iniziativa che si sposa con la scelta dell’Esa – annunciata a durante il Summit a Siviglia – di indire competizioni per lo sviluppo di servizi cargo per l’Iss. Decisione, questa, definita dall’ingegnere Marcello Spagnulo, in un’intervista rilasciata ad Airpress, “l’iniziativa di maggior rilievo positivo a Siviglia” in quanto necessaria per garantire all’Europa “una propria autonomia nel volo spaziale umano e robotico”.
ISRAELE. Ondata di arresti tra i leader politici arabi
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Pagine Esteri, 9 novembre 2023. L’ex parlamentare della Knesset, il politico arabo israeliano Mohammad Barakeh, presidente dell’Alto comitato di controllo per i cittadini arabi di Israele, è stato arrestato questa mattina da agenti di polizia israeliani mentre era a bordo della sua automobile.
Insieme a lui tra ieri e oggi, sono stati arrestati 4 importanti membri di Balad, il partito politico israeliano che si occupa dei diritti dei cittadini arabi di Israele, tra cui il leader Sami Abu Shehadeh, l’ex leader Mtanes Shehadehe, il vicesegretario generale del partito, Yousef Tartour e l’ex parlamentare Haneen Zoabi. Anche un altro membro del Comitato di controllo, Mahmoud Mawasi, è stato trattenuto dalla polizia.
In un comunicato le forze armate israeliane hanno affermato che Mohammad Barakeh è stato arrestato per aver sfidato l’ordine della polizia tentando di organizzare una manifestazione illegale che avrebbe potuto “incitare disordini e danneggiare l’ordine pubblico”.
Barakeh, intendeva organizzare, ieri a Nazareth, un sit-it contro la guerra a Gaza. L’ex leader del partito Hadash, parlamentare israeliano dal 1999 al 2015, ha informato ieri il comandante della polizia di Nazareth che l’Alto Comitato di Controllo intendeva organizzare un piccolo raduno che non prevedeva più di 50 partecipanti. Nella sua comunicazione Barakeh ha sottolineato che, proprio secondo la legge israeliana, una manifestazione con meno di 50 partecipanti non necessita di permessi.
Hassan Jabareen, che si occupa dell’assistenza legale per Barakeh e per gli altri leader politici arrestati ha dichiarato: “Assistiamo all’attuazione sul campo di un divieto draconiano da parte della polizia, con l’intento di mettere a tacere ogni forma di critica e sopprimere la libertà di espressione e di riunione dei cittadini palestinesi e dei loro leader. Queste detenzioni sono palesemente illegali e mirano chiaramente a ostacolare l’attività politica palestinese che rientra nei limiti della legge”.
Circa 1,2 milioni di palestinesi detengono la cittadinanza israeliana e costituiscono circa il 20 per cento della popolazione del Paese. Pagine Esteri
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GAZA. Esodo a sud, migliaia a piedi verso una salvezza che non c’è
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di Michele Giorgio
(questo articolo è stato pubblicato in origine da Il Manifesto*)
Pagine Esteri, 9 novembre 2023 – Migliaia di civili palestinesi, un flusso lungo chilometri, donne con in braccio i figli, anziani a passo lento, uomini stremati dalla fatica e dalla sete, perché l’acqua è difficile da trovare, anche ieri hanno abbandonato il nord di Gaza ridotto in macerie, senza più neppure le panetterie. Un esodo che ha riportato alla memoria di tanti le scene della Nakba nel 1948 e volto a raggiungere il sud della Striscia, alla ricerca della salvezza che nessuno potrà mai garantire a questa gente sino a quando continueranno i bombardamenti aerei israeliani. I nuovi arrivati a sud hanno trovato poco o nulla per rifocillarsi. Manca tutto e serve tutto. Si sono avviati alle mense all’aperto delle associazioni di carità sperando di poter mangiare qualcosa. Foto che hanno fatto il giro del mondo mostravano ieri bambini palestinesi con ciotole in mano in attesa di un pugno di riso e un po’ di pane.
Terminate le poche ore in cui i comandi israeliani permettono di percorrere il «corridoio sicuro» sulla superstrada Salah Edin, il flusso di sfollati dal nord si è subito interrotto. Gli oltre due milioni di palestinesi si sono rifugiati in ogni luogo possibile, per sottrarsi al buio totale della notte di Gaza illuminata dai bagliori delle esplosioni delle bombe che portano la morte. Raid aerei che potrebbero fermarsi ma solo per poche ore, al massimo un paio di giorni. Non una tregua. Non la vuole Israele e neppure l’Amministrazione Biden, come ha ribadito il Segretario di Stato Blinken. Solo una «pausa umanitaria» di 24-48 ore per permettere la distribuzione di aiuti alla popolazione in cambio della liberazione di una dozzina dei 241 ostaggi israeliani e stranieri nelle mani di Hamas e di altre organizzazioni. Sarebbe questa l’intesa che Qatar ed Egitto, con il sostegno dell’Amministrazione Biden, avrebbero raggiunto con il movimento islamico. Ieri sera, sempre secondo queste indiscrezioni, si attendeva la risposta di Israele che potrebbe accettare, anche per le pressioni dell’Amministrazione Biden che vuole riportare a casa gli americani prigionieri a Gaza. Ci sono anche voci di trattative per calmare il confine tra Libano e Israele dove ieri l’esercito israeliano e i combattenti di Hezbollah si sono scambiati razzi anticarro e cannonate.
Il gabinetto di guerra guidato da Benyamin Netanyahu mette le mani avanti. Sarà solo una breve interruzione dell’attacco contro Gaza, poi i bombardamenti e l’avanzata dei carri armati dentro la Striscia procederanno senza altri impedimenti. Non ci sono limiti di tempo all’operazione di terra che Israele sta conducendo, ha ribadito Benny Gantz, uno dei membri dell’esecutivo ristretto formato dal premier Netanyahu per combattere la guerra contro Hamas ma di fatto contro tutti i palestinesi di Gaza. Si tratta, ha detto Gantz a un gruppo di giornalisti a Tel Aviv, «di una guerra esistenziale, sia in termini di sicurezza di Israele, sia per preservare i valori sionisti e democratici dello Stato» che, a suo dire, sarebbero minacciati da Hamas, la cui distruzione resta «l’obiettivo strategico» dell’offensiva militare in corso che ha causato quasi 11mila morti e oltre 25mila feriti tra i palestinesi, oltre alla distruzione totale o parziale di decine di migliaia di case e palazzi.
I media internazionali cominciano ad allentare l’attenzione sulle conseguenze per i civili dell’enorme potenza militare dispiegata da Israele: è operativa l’intera 252esima divisione della riserva, non accadeva dall’invasione israeliana del Libano nel 1982. Eppure, ieri ci sono state altre stragi di civili sotto le bombe sganciate dagli F-16 e dai droni. I palestinesi hanno riferito di 20 uccisi nell’ennesimo bombardamento sul campo profughi di Jabaliya e della famiglia Hatoum decimata da una bomba caduta sulla sua abitazione a poche decine di metri dall’ospedale Shifa che Israele ritiene una copertura per una base di Hamas. Decine di morti e feriti in altri raid aerei a nord come a sud di Gaza, in particolare a Deir Al Balah.
Israele, che ha perduto a Gaza 33 soldati dall’inizio dell’offensiva di terra, continua a diffondere comunicati di successi militari e di progressi nell’accerchiamento di Hamas e della sua leadership. Il suo esercito avrebbe distrutto 130 pozzi e gallerie sotterranee usate dai militanti del movimento islamico ed eliminato un altro comandante nemico. Gli account social vicini alle Forze armate e ai servizi di intelligence ieri scrivevano che le distruzioni di massa hanno talmente cambiato la faccia del nord di Gaza che gli uomini di Hamas, uscendo dai tunnel, non riconoscerebbero il luogo in cui si trovano a combattere. Non è questa però l’impressione che si ricava guardando un video diffuso ieri dalle Brigate Qassam, l’ala militare di Hamas. Le immagini mostrano giovani con lanciarazzi che colpiscono con precisione carri armati e mezzi corazzati. Non è chiaro se le esplosioni che si intravedono abbiano provocato danni o perdite tra gli equipaggi dei mezzi israeliani. In ogni caso indicano che Hamas mette a segno azioni di guerriglia, oltre a lanciare razzi verso Israele: non ha smesso di farlo un solo giorno dal 7 ottobre. Le Brigate Qassam sostengono anche di aver causato perdite significative a una unità israeliana caduta in un agguato a Sheikh Ajleen, a sud di Gaza city.
Dal Libano, Saleh Aruri, il numero due della direzione politica del movimento islamico, in uniforme da combattimento, ha assicurato ieri che «non avranno fine gli attacchi» ai reparti israeliani entrati a Gaza. Due leader politici di Hamas, intervistati dal New York Times, hanno detto di considerare un successo l’attacco nel sud di Israele il 7 ottobre in cui sono rimasti uccisi 1400 soldati e civili. Secondo Khalil al-Hayya, sarebbe stato necessario «per cambiare l’intera equazione e non limitarsi ad avere uno scontro…Siamo riusciti a rimettere sul tavolo la questione palestinese e ora nessuno nella regione è tranquillo». Pagine Esteri
*ilmanifesto.it/esodo-a-sud-mig…
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Cosa ci raccontano le prime immagini di Euclid? | AstroSpace
"Con la sua ampia copertura del cielo e i suoi cataloghi di miliardi di stelle e galassie, il valore scientifico dei dati raccolti dalla missione va infatti oltre l’ambito della cosmologia. Il database che Euclid fornirà alla comunità astronomica mondiale permetterà anche di aiutare negli ambiziosi obbiettivi di altre missioni in corso. Come quella del James Webb, e future, come quelle dell’European Extremely Large Telescope, dello Square Kilometre Array, del Vera C. Rubin Observatory e, nello spazio, del telescopio spaziale Nancy Grace Roman."
Attentato a Kabul: almeno 7 morti e decine di feriti, 11 ricoverati nell’ospedale di Emergency
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Lo Stato Islamico ha rivendicato l’attacco, il secondo in poche settimane contro la comunità sciita hazara. Il racconto di Stefano Sozza, direttore del progetto Afghanistan della ONG.
di Valeria Cagnazzo
Anabah, Pagine Esteri, 8 novembre 2023 – La violenza è tornata a scuotere le strade di Kabul. La sera del 7 novembre scorso, un minivan che trasportava civili è esploso nel quartiere a maggioranza hazara di Dasht-e-Barchi. Sono almeno 7 i morti nell’incidente e circa 20 i feriti, ha dichiarato Khalid Zadran, portavoce del dipartimento di sicurezza della capitale. Di questi, 11 sono stati trasportati nel Centro chirurgico per vittime di guerra che Emergency gestisce nella città dal 2001.
“Ieri (7 novembre, ndr) verso le 19.00 abbiamo ricevuto la notizia di un’esplosione”, racconta Stefano Sozza, direttore del programma Afghanistan di Emergency, nel suo ufficio di un altro ospedale in Afghanistan della ONG, quello di Anabah. “Dopo circa 20 minuti dall’incidente, sono iniziati ad arrivare i primi pazienti. Se c’è un’esplosione, i feriti vengono portati nel nostro centro chirurgico che è l’ospedale di riferimento per feriti di guerra in città, che si tratti di feriti da schegge, proiettili, arma bianca. Se ci sono casi più critici e sono disponibili ospedali più vicini alla zona dell’attentato, questi vengono prima stabilizzati e successivamente portati da noi. In totale ieri ne abbiamo ricevuti 11, 10 uomini e una donna. Uno di loro era in condizioni critiche e lo è tuttora. Ha subito l’amputazione di una gamba, non siamo riusciti a salvargli l’arto. Aveva poi sul corpo diverse “shell injuries” (ferite da scheggia, ndr) profonde.”
A proposito di queste ferite, spiega che “questi ordigni esplosivi, come quello che è stato collocato sotto al minivan esploso ieri sera, sono spesso farciti di oggetti acuminati come chiodi e quando l’esplosione avviene queste minuscole schegge taglienti possono essere proiettate anche a metri di distanza. Spesso arrivano pazienti con schegge conficcate ovunque, nel volto, nell’addome. In base alle condizioni del paziente, facciamo dei raggi per capire dove sono localizzate queste “shells” e in base alla sede i pazienti vengono condotti in sala operatoria per ricevere una laparotomia se la sede interessata è l’addome, una craniotomia se è interessata la testa come nel caso del paziente di ieri, e così via”.
“Nel caso di ferite superficiali, come per gli altri dieci pazienti che abbiamo ricevuto nel nostro ospedale ieri sera, si procede solitamente a un “debridement”, la pulizia delle ferite per evitare conseguenze a breve e lungo termine. Alcuni feriti dell’attentato sono già stati dimessi, altri sono ancora ricoverati in osservazione, il più critico, invece, è intubato in terapia intensiva e non sappiamo ancora se ce la farà o meno”.
L’attentato è stato rivendicato dallo Stato Islamico, come già era successo alla fine di ottobre per un episodio analogo nella stessa area. Il quartiere di Dasht-e-Barchi a maggioranza hazara sciita era già stato colpito il 26 ottobre scorso, quando un ordigno era esploso in una sala da boxe, provocando 4 morti e almeno 7 feriti gravi. In quel caso, l’ospedale di Emergency non aveva ricevuto pazienti.
Dall’inizio del 2023, due “mass casualties” sono state gestite dall’ospedale di Emergency a Kabul. Un numero estremamente inferiore, ammette Stefano Sozza, rispetto a quelli ai quali l’ONG era stata abituata nella sua lunga attività umanitaria nel Paese e anche rispetto al solo 2022, quando per 28 volte il nostro ospedale ha ricevuto vittime di attentati o esplosioni, con il coinvolgimento di oltre 380 pazienti. In una “mass casualty”, un ospedale mette in pausa le attività ordinarie per rispondere al flusso massiccio di pazienti in entrata con un possibile alto numero o un’alta frequenza. . “Nel gennaio del 2023, l’attentato si è verificato a meno di un chilometro dal nostro ospedale. La notizia, pertanto, in quel caso ci è arrivata all’istante, dall’esplosione che abbiamo sentito dalla nostra struttura. Si è trattato di una delle maggiori mass casualties negli ultimi due anni, in cui siamo stati costretti ad adibire anche la mensa dei dipendenti per accogliere i feriti. In quella occasione, si trattava di un attacco suicida fuori dal Ministero degli affari esteri, quindi con un target prettamente politico, in seguito al quale abbiamo ricevuto 47 pazienti. In marzo, il nostro ospedale di Kabul è stato interessato da un’altra mass casualty: questa volta si trattava di un attentato con un ordigno improvvisato collocato all’ingresso di un centro commerciale, mirato a colpire quindi soprattutto civili. Ne abbiamo accolti 15. Da aprile a ottobre, la situazione sembrava essersi stabilizzata”.
Dal ritiro delle truppe americane dal Paese e dall’ascesa dei talebani nell’agosto del 2021, è innegabile che il numero di attentati si sia drasticamente ridotto, tanto che nel centro per vittime di guerra di Kabul si curano oggi molto spesso feriti da incidenti stradali o da colpi di arma da fuoco esplosi in ambienti domestici o per faide familiari o criminalità. L’esplosione del minivan si registra, però, a una distanza troppo ravvicinata da quella precedente di ottobre, rivendicata dallo stesso gruppo terroristico e contro lo stesso quartiere, per non destare la preoccupazione di una recrudescenza delle violenze nel Paese. Lo Stato Islamico di Korasan è il gruppo in prima linea contro il regime talebano, responsabile di una strategia del terrore che fa vittime, come sempre, soprattutto tra i civili. Accanto ad esso, si schierano, però, tanti altri gruppi di opposizione dell’attuale governo de facto: piccoli, frammentati tra loro, troppo poveri per mettere in discussione il potere talebano, ma potenzialmente letali e in ascesa. Non resta che sperare che il lungo inverno afghano faccia la sua parte, e che, come è già successo in passato, con la sua neve rallenti possibili nuove ondate di violenza.
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In Cina e in Asia – La Cina elabora un piano per riduzione di emissioni di metano
La Cina elabora un piano per riduzione di emissioni di metano
Per Xi la salvaguardia nazionale è legata al settore energetico e ferroviario
Il G7 vuole relazioni stabili con Pechino
La fuga delle multinazionali dalla Cina
La cooperazione militare hi-tech tra Russia e Cina
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EU Digital Identity Regulation (eIDAS): Pirates don’t support blank cheque for surveillance of citizens online!
The EU Parliament and EU Council yesterday struck a political deal on the reform of the EU Digital Identity Regulation (eIDAS 2). A new digital identity wallet app is to allow EU citizens to access public and private digital services such as Facebook or Google, and pay online. The deal was made even though more than 500 scientists and numerous NGOs in an open letter „strongly warn against the currently proposed trilogue agreement, as it fails to properly respect the right to privacy of citizens and secure online communications“ – criticism which the Pirate Party Members of the European Parliament underline.
“This regulation is a blank cheque for surveillance of citizens online, endangering our privacy and security online”, comments Pirate Party lawmaker Patrick Breyer. “Browser security is being undermined, and overidentification will gradually erode our right to use digital services anonymously. Mark Zuckerberg should have no right to see our ID! Entrusting our digital lives to the government instead of Facebook and Google is jumping out of the frying pan and into the fire. This deal sacrifices essential requirements the European Parliament had put forward to make the eID app privacy-friendly and secure. The EU misses the opportunity to establish a trustworthy framework for modernization and digitization. We will watch the implementation very closely.”
Pirates Mikulas Peksa and Patrick Breyer worked until the last minute to try and fix at least some of the numerous risks of the EU digital identity scheme. In a major victory, Member States will not be obliged to assign a single unique ID number to every citizen. Signing up for the eID app will be voluntary, and it will remain possible to access public and private services by other existing identification and authentication means. The app client will be open source.
Overall though the scheme remains a blank cheque for surveillance of citizens online: As hundreds of scientists publicly warn and contrary to what the EU claims, web browser manufacturers could be forced to expose our securely encrypted Internet use (including intimate and sensitive activities) to government surveillance. This is an unacceptable attack on secure encryption. The eID apps can also be used to monitor our digital lives because there is no requirement of unobservability. The content of our eID wallets (potentially bringing together personal banking data, medical prescriptions and criminal records) could be monitored via central databases because we have no right to store documents exclusively on our personal devices.
The lure of conveniently signing in to private digital services using a single official eID app is a trap. Overidentification will gradually erode our right to use digital services anonymously which currently keeps us safe from criminal activity, unauthorised disclosure, identity theft, stalking and other forms of abuse of personal data. The eID app will not allow for multiple, truly separate user profiles which vulnerable persons rely on.
The server-side code of the eID wallet will not have to be open source, meaning the public cannot know what the code actually does and if it is safe.
In view of all this, the new EU eID app will not be trustworthy and will fail to sufficiently encourage the development of digital and eGovernment services in Europe – much to the Pirates regret.
See also the assessment of the deal published by NGO epicenter.works
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ONU. Dei 46 paesi più poveri 33 sono in Africa
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della redazione
(foto di Stefan Magdalinski)
Pagine Esteri, 9 novembre 2023 – Nell’ ultima relazione della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD), 46 paesi sono designati come “economie meno sviluppate”. Trentatre sono situati in Africa, l’Asia ne conta nove, tre sono nel Pacifico e uno nei Caraibi. L’agenzia delle Nazioni Unite ha annunciato la classificazione evidenziando che queste nazioni sono perciò ammissibili a varie concessioni, tra cui l’accesso preferenziale al mercato, agli aiuti e all’assistenza tecnica speciale.
Il rapporto sottolinea che solo sei nazioni sono riuscite a lasciare la posizione di Paese meno sviluppato negli ultimi 25 anni: Botswana, Capo Verde, Maldive, Samoa, Guinea Equatoriale e Vanuatu.
Nel 2021, le spese relative agli oneri sul debito di queste economie povere sono aumentate a 27 miliardi di dollari, segnando un aumento del 37% rispetto ai 20 miliardi di dollari dell’anno precedente. E i paesi stanziano quasi il doppio per coprire gli oneri rispetto all’assistenza sanitaria e all’istruzione messe insieme. La pressione sulle loro finanze è attribuibile a molteplici crisi globali, tra cui l’emergenza climatica, la dipendenza dalle esportazioni di materie prime e il calo degli investimenti esteri.
L’UNCTAD chiede misure globali per affrontare le sfide economiche e sociali dei paesi meno sviluppati, sottolineando la necessità di un approccio sostenibile e multilaterale al dilemma del debito. La relazione sottolinea la funzione critica delle istituzioni, in particolare delle banche centrali, nello stimolare la mobilitazione delle risorse nazionali. Sottolinea inoltre l’importanza di reindirizzare i flussi finanziari verso iniziative che promuovano cambiamenti strutturali verdi all’interno di queste nazioni vulnerabili. Infine si appella alla cooperazione internazionale per garantire che i paesi meno sviluppati possano uscire dalle difficoltà finanziarie mentre lavorano per un futuro sostenibile dal punto di vista ambientale ed economicamente sostenibile. Pagine Esteri
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Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: lezione del prof. Giuseppe Sobbrio sul tema “Saggio sulla Libertà”
Quarto appuntamento dell’edizione 2023 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e la Fondazione Bonino-Pulejo. Il corso, giunto alla sua tredicesima edizione, si articolerà in 15 lezioni, che si svolgeranno sia in presenza che in modalità telematica, dedicate alle opere degli autori più rappresentativi del pensiero liberale.
La quarta lezione si svolgerà giovedì 9 novembre dalle ore 17 alle ore 18.30, presso l’Aula n. 6 del Dipartimento “COSPECS” (ex Magistero) dell’Università di Messina (sito in via Concezione n. 6, Messina); dell’incontro sarà altresì realizzata una diretta streaming sulla piattaforma ZOOM (ID Riunione 817 3306 8640 – Passcode 855442).
La lezione sarà tenuta dal prof. Giuseppe Sobbrio (Emerito di Economia Pubblica presso l’Università di Messina, nonché componente del Comitato Scientifico della Fondazione Luigi Einaudi), con una relazione sull’opera “Saggio sulla Libertà” di John Stuart Mill.
La partecipazione all’incontro è valida ai fini del riconoscimento di 0,25 CFU per gli studenti dell’Università di Messina.
Come da delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina e della Commissione “Accreditamento per la formazione” di AIGA, è previsto il riconoscimento di n. 12 crediti formativi ordinari in favore degli avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Messina per la partecipazione all’intero corso.
Per ulteriori informazioni riguardanti la Scuola di Liberalismo di Messina, è possibile contattare lo staff organizzativo all’indirizzo mail SDLMESSINA@GMAIL.COM
Pippo Rao Direttore Generale della Scuola di Liberalismo di Messina
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Telecamere private, Garante: no alla ripresa di aree pubbliche. Le telecamere “ascoltavano” anche le conversazioni dei passanti
Un cittadino aveva installato sul muro esterno della propria abitazione alcune telecamere che potevano riprendere l’area pubblica antistante con un parco giochi e una piazza. L’intervento dell’Autorità segue la segnalazione di una stazione dei Carabinieri e ricorda che quando si installano sistemi di videosorveglianza in ambito personale o domestico, oltre a rispettare la riservatezza dei vicini, è necessario prestare la massima attenzione a non riprendere aree pubbliche.
Tenuto conto del fatto che la condotta ha esaurito i suoi effetti, avendo egli provveduto subito dopo l’apertura dell’istruttoria a sostituire la telecamera precedentemente installata con una fissa puntata verso l’ingresso, il Garante ha limitato il suo intervento al solo ammonimento.
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Le università digitali come fattore di riduzione delle diseguaglianze: presentato in Senato il paper della Fle
Da un lato i costi elevati per l’affitto di una stanza o di una casa, che hanno portato gli studenti in questi mesi a protestare nelle principali città italiane, dall’altro la difficoltà di conciliare lo studio con il lavoro. Senza contare le difficoltà negli spostamenti interni nelle grandi città. Oggi in Italia esiste una “barriera naturale” che ostacola l’accesso all’istruzione universitaria, fattore questo che crea un divario sociale significativo con impatti diretti sulle future opportunità professionali dei giovani. Per far fronte a tali criticità molti si rivolgono alle università digitali che, negli anni, aumentando la qualità del livello di insegnamento, hanno aumentato in modo esponenziale il numero dei loro iscritti e laureati. È quanto emerge dal rapporto “Le università digitali come fattore di riduzione delle disuguaglianze” elaborato dalla Fondazione Luigi Einaudi e presentato questa mattina nella Sala Nassiriya del Senato.
“Il mondo cambia, importanti università pubbliche e private si attrezzano per raggiungere i propri studenti a distanza. Nell’era dello smart working, la domanda crescente sta affinando e qualificando l’offerta delle università digitali, oggi più che mai intese come fattore di riduzione delle diseguaglianze territoriali e sociali”, ha detto Andrea Cangini, segretario generale della Fondazione Luigi Einaudi.
Il paper, facendo un’analisi dettagliata delle statistiche riguardanti il numero di iscritti e laureati in Italia, con particolare attenzione alle relative percentuali di genere, età e provenienze geografiche e sociali, approfondisce le opportunità offerte dalla didattica digitale e ne evidenzia i punti di forza sotto il profilo dell’organizzazione degli studi, della sostenibilità economica e della digitalizzazione, in un contesto nel quale la percentuale di laureati in Italia rispetto alla popolazione ci vede in coda alla media europea, sorpassati in negativo dalla sola Romania.
A testimoniare la crescita degli atenei digitali, si legge nel paper, è “il numero di studenti iscritti nelle undici università digitali riconosciute, che è passato – dati Ustat (Ufficio Statistica del MUR) – da poco più di 40mila nel 2012 agli oltre 160mila nel 2021, un numero quindi più che quadruplicato”.
Nel corso dell’incontro Alessandra Ghisleri ha illustrato i risultati di un’indagine sul tema elaborata da Euromedia Research, che sottolinea come “il 27,5% dei giovani intervistati, fascia di età 17-24 anni, ritiene che le università digitali rappresentino il simbolo del cambiamento radicale che ha investito la nostra società in modo particolare dopo il Covid e che ‘il ‘remoto’ diventerà la normalità”.
Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, durante il suo intervento ha detto: “L’insegnamento a distanza è una grande occasione che si offre ai nostri giovani e a tutti coloro che vogliono migliorare la loro conoscenza e acquisire un titolo di studio. Abbiamo già visto nel recente passato, durante il Covid, quanto siano importanti gli strumenti digitali”. Il senatore Roberto Marti ha messo a disposizione la commissione Cultura del Senato, che presiede, per “approfondire il tema della crescita delle università digitali in Italia come strumento di riduzione delle disuguaglianze”. “Appuntamenti come questo, e ricerche come quella elaborata dalla Fondazione Einaudi, sono convito servano a costruire sempre di più l’idea che in una società aperta, che vuole crescere e dare opportunità ai cittadini, le università digitali costituiscano una novità importante che va coltivata e sostenuta”, ha detto invece il presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, Nazario Pagano.
Hanno partecipato all’incontro, in veste di relatori, il senatore Giulio Terzi di San’Agata, presidente della Commissione Politiche dell’Unione europea, che in apertura di convegno ha ringraziato la Fondazione Einaudi “da sempre promotrice dei valori liberali”, Paolo Miccoli, presidente di United, l’associazione delle università telematiche e digitali, e Gian Marco Bovenzi, ricercatore della Fondazione Luigi Einaudi.
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La Polonia ammoderna le sue difese aeree. Un’opportunità anche per l’Italia
La Polonia rinnoverà i propri sistemi di difesa aerea affidandosi a Mbda, in un accordo da oltre quattro miliardi di sterline. La società ha infatti finalizzato un accordo con Polska grupa zbrojna (Pgz) per supportarla nella realizzazione del programma di difesa aerea per le Forze armate polacche chiamato Narew. “La dimensione e l’ambizione del progetto sono davvero imponenti: costruire uno scudo di difesa aerea polacco utilizzando i missili della famiglia Camm che proteggeranno i cieli della Polonia”, ha commentato Eric Béranger, ceo di Mbda. Anche il nostro Paese, partner del consorzio europeo di Mbda, sarà protagonista dell’iniziatica, che si baserà sul Camm-Er, realizzato in cooperazione tra Italia e Regno Unito. Come spiegato da Giovanni Soccodato, executive group sales & business development director di Mbda e managing director di Mbda Italia “la componente industriale italiana sarà coinvolta nella produzione per le fasi iniziali del programma”. Per l’intera filiera italiana, che va oltre la sola Mbda Italia, questo significa che il valore complessivo della partecipazione al programma sarà di circa un quarto dell’intero ammontare.
Nelle intenzioni di Varsavia, infatti, il programma dovrà garantire al Paese un sistema di difesa aerea mobile altamente avanzato, in grado di affrontare le minacce moderne e future fino a distanze superiori ai quaranta chilometri utilizzando il Camm-Er. Lo scorso settembre l’agenzia di procurement polacca aveva affidato i contratti esecutivi al consorzio Narew-Pgz. Oggi, l’accordo tra Mbda e Pgz porta avanti il percorso di cooperazione strategica avviato nel 2017 tra le due società, e prevedrà il trasferimento di tecnologia e la crescita associata nelle industrie polacche, aprendo la strada a profondi legami tra i Paesi coinvolti nel campo dei sistemi d’arma complessi. L’accordo permetterà al consorzio Pgz-Narew di realizzare più di mille missili Camm-Er per la difesa aerea e oltre cento lanciatori. “Il trasferimento di tecnologia –ha continuato Béranger – trasformerà le capacità sovrane polacche nei sistemi d’arma complessi, e siamo profondamente orgogliosi della fiducia accordataci dalla Polonia ed entusiasti per il futuro della nostra partnership”.
“Questo accordo conferma la validità del Camm-Er come sistema evoluto a maggiore range, sviluppato con il contributo di MBDA Italia ed adottato anche dalle nostre Forze Armate”, ha commentato ancora Giovanni Soccodato, aggiungendo come “Ci sarà un parziale transfer of technology, con un progressivo trasferimento in Polonia di alcune attività dedicate esclusivamente ai sistemi polacchi, analogamente a quanto avviene in Uk”. Come spiegato dal manager italiano, queste attività si aggiungeranno a quanto previsto per la fornitura dei sistemi al cliente nazionale. “Anche per questo e per aumentare la capacità complessiva di realizzare questi sistemi, sono previsti investimenti nei nostri stabilimenti, in particolare presso il sito del Fusaro a Napoli, e la realizzazione di una linea di integrazione pirica del missile, presso lo stabilimento Aid di Noceto” ha concluso Soccodato.
PANAMA. Proteste e scioperi contro una miniera, finora quattro morti
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di Redazione
Pagine Esteri, 8 novembre 2023 – Due persone che partecipavano a una protesta antigovernativa a Panama sono state uccise ieri aggravando una tensione sociale già elevatissima. Il 20 ottobre scorso la rabbia per un lucroso contratto minerario ha scatenato infatti massicce manifestazioni popolari nel paese separato nel 1903 dalla Colombia dagli Stati Uniti affinché Washington potesse agevolmente controllare il Canale realizzato per unire gli oceani Atlantico e Pacifico.
Le vittime sarebbero due insegnanti che stavano presidiando alcune barricate piazzate sull’Autostrada Panamericana all’altezza di Chame, 80 km a sud-ovest della capitale. Secondo i testimoni un uomo si sarebbe fermato davanti alla barricata, sarebbe sceso dalla sua auto e avrebbe sparato ai due manifestanti con una pistola. Nei giorni scorsi erano già morti altri due manifestanti, investiti da alcuni autoveicoli durante i blocchi stradali. Numerosi sono anche i feriti causati dalla repressione delle proteste da parte delle forze dell’ordine, che hanno spesso fatto uso di manganelli, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni.
Le autorità del paese hanno informato dell’arresto di un uomo accusato del duplice omicidio senza però fornire alcun elemento sulla sua identità. In un comunicato pubblicato sui social l’Associazione degli insegnanti di Panama (ASOPROF) ha dichiarato che l’autore della sparatoria sarebbe un cittadino con doppia nazionalità, statunitense e panamense.
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Nel mirino una concessione mineraria ad una multinazionale canadese
Nelle ultime due settimane decine di migliaia di persone hanno partecipato alle manifestazioni indette contro l’aggiudicazione di una concessione ad una filiale locale della multinazionale canadese First Quantum Minerals per lo sfruttamento della più grande miniera di rame di tutta l’America Centrale, in un clima di forte malcontento nei confronti del governo.
Lo scorso anno era stato l’aumento del prezzo del cibo, delle medicine e del carburante deciso dal governo di Laurentino Cortizo a scatenare la rabbia della popolazione, ed ora le proteste sono esplose di nuovo. Era dal 1987, quando migliaia di panamensi scesero in strada contro la dittatura del generale Manuel Noriega, che non si registravano proteste così partecipate e radicali.
Secondo l’associazione panamense dei dirigenti aziendali, i blocchi stradali istituiti dai manifestanti hanno causato alle imprese perdite giornaliere fino a 80 milioni di dollari, mentre lo sciopero degli insegnanti ha obbligato il governo a chiudere le scuole per una settimana in tutto il paese.
I funzionari governativi hanno esortato la popolazione a porre fine alle proteste, ma i sindacati dei lavoratori edili e degli insegnanti, insieme alle comunità indigene, hanno promesso di continuare a scendere in piazza fino all’annullamento del contratto First Quantum.
Il nuovo contratto, concordato lo scorso 20 ottobre e sostenuto da una legge varata dal governo di Panama, garantisce all’impresa canadese una concessione mineraria di 20 anni con un’opzione di estensione per altri 20, in cambio del versamento annuale di 375 milioni di dollari nelle casse del paese.
La compagnia mineraria assicura che contribuisce per il 5% del PIL all’economia del paese e che dal 2019 produce circa 300.000 tonnellate di concentrato di rame all’anno, pari al 75% delle esportazioni totali del minerale.
La miniera a cielo aperto di Cobre Panama
Le preoccupazioni per l’ambiente e per il benessere delle comunità indigene
La miniera di “Cobre Panama” ha iniziato a funzionare nel 2019 e si trova nel distretto costiero di Donoso, nella provincia di Colon, sulla costa caraibica all’interno di un parco teoricamente protetto.
I manifestanti denunciano che la miniera danneggerà ulteriormente l’ambiente naturale, inquinerà l’acqua e l’aria e distruggerà la biodiversità, e temono che il contratto avvantaggi le imprese straniere e non le comunità locali e indigene. Infine le associazioni degli agricoltori denunciano che il massiccio consumo di acqua da parte dell’attività mineraria minaccia la produzione di riso e l’allevamento del bestiame, industrie essenziali che già soffrono a causa della crescente siccità.
Le realtà sociali e sindacali che hanno scatenato le proteste denunciano il trattamento di favore garantito alla First Quantum e l’esiguità della contropartita richiesta all’impresa in cambio della lucrosa concessione. Inoltre il movimento di protesta chiede una moratoria generale alla attribuzione di nuove concessioni minerarie per garantire la salvaguardia dell’ambiente.
Il presidente Cortizo, sperando di placare i manifestanti, la scorsa settimana ha firmato una moratoria sulle nuove concessioni minerarie per l’estrazione di metalli che si applica a 13 nuove richieste pendenti, ma non a quella della First Quantum.
Nel 2021 la Corte Suprema del paese centramericano aveva dichiarato incostituzionale il precedente contratto stipulato con la multinazionale, che poi è stato rinegoziato e approvato durante l’estate dal locale parlamento. Il nuovo contratto è però ora all’esame della Corte Suprema, che potrebbe pronunciarsi sulla sua costituzionalità già il mese prossimo. Nei giorni scorsi, però, il presidente Laurentino Cortizo ha annunciato l’intenzione di indire un referendum nazionale domenica 17 dicembre «affinché i panamensi decidano… se la legge 406 sull’attività mineraria deve essere annullato o meno». Pagine Esteri
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Aiuti umanitari a Gaza. L’Italia invia la nave-ospedale Vulcano
Dopo le parole di vicinanza al popolo palestinese, e di netta distanza da Hamas, arriva l’impegno umanitario italiano. Partirà, infatti, da Civitavecchia nave Vulcano, della Marina militare, unita che vede a bordo un intero ospedale, con tanto di sale operatorie. A darne l’annuncio, il ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso di una conferenza stampa a Roma. “Mandiamo nave Vulcano il più vicino possibile alle zone interessate dal conflitto, un atto concreto dopo le parole e un segnale evidente di cosa l’Italia pensa” sul versante dell’aiuto umanitario da inviare ai civili. Una iniziativa italiana che è stata subito condivisa con gli altri Paesi, europei, Nato e arabi. “Le porte sono aperte al contributo di tutti – ha detto il ministro – il nostro vuole essere il primo passo, ma non vogliamo essere gli unici, semmai i primi”. Anzi, ha aggiunto il ministro che “non saremmo assolutamente disturbati qualora qualcuno ci superasse in aiuti umanitari”. Per l’Italia, ha aggiunto Crosetto, si tratta di “partire per dare un segnale concreto”.
Nave Vulcano
A bordo del Vulcano ci saranno 170 militari, con trenta membri del personale sanitario della Marina. A questi si aggiungerà una ulteriore trentina tra medici e infermieri delle altre Forze armate, che raggiungeranno il Vulcano una volta a destinazione. La nave, infatti, è attrezzata per svolgere ogni tipo di attività medica, dalle operazioni alla diagnostica. A bordo, inoltre, saranno trasportati medicinai e aiuti destinati alla popolazione civile. “Ma non finisce qua” ha sottolineato il ministro. L’intenzione, infatti, è quella di far seguire alla nave anche un ospedale da campo a terra. “Lo Stato maggiore della Difesa sto attrezzando e coordinando l’invio di una struttura ospedaliera a terra, in accordo con i palestinesi, da impiantare sul terreno di Gaza, vicino a dove c’è la necessità” ha spiegato Crosetto. Il Vulcano, infatti, raggiungerà in un primo momento Cipro, per poi avvicinarsi “il più possibile” alla costa palestinese, da dove potrà imbarcare, curare e ritrasferire a terra coloro che ne avranno bisogno, di concerto con le autorità locali e la Croce e Mezzaluna rosse.
Il sostegno italiano
Del resto, ha ricordato Crosetto, l’Italia ha chiesto anche nei consessi internazionali di aprire il valico di Rafah: “La Presidenza del consiglio, il ministero degli Esteri, e in generale il governo italiano sono stati tra i primi a chiedere l’apertura del valico, e i primi a offrire aiuti umanitari” tramite l’invio di due C-130 dell’Aeronautica militare. Per Crosetto, sono attività che il governo del Paese sta portando avanti “per cercare di buttare acqua sul fuoco”, un approccio che segue quello tenuto dalla comunità internazionale. Come sottolineato il ministro, infatti “tutti stanno chiedendo di distinguere tra la popolazione e Hamas”, aggiungendo come “uno stato di diritto si muova secondo le regole, una ulteriore cosa che lo differenza dai terroristi”, pur comprendendo le difficoltà che incontra Israele nel muoversi a Gaza “dove i cunicoli nascondono i centri di controllo di Hamas sotto siti civili od ospedali”.
Coordinamento internazionale
L’obiettivo, allora, è muoversi in uniformità con tutti gli altri Paesi, occidentali e arabi, per frenare l’escalation andare ad aiutare “chi con tutto questo non c’entra nulla”. Una risposta dai Paesi coinvolti si è già avuta, ha riportato il ministro, con due Paesi che invieranno navi militari e del personale sanitario a sostegno delle attività del Vulcano. Apprezzamenti e aperture si sono avute anche relativamente all’ospedale da campo. “Il desiderio è che scoppi una gara di solidarietà tra i Paesi occidentali e arabi, senza divisioni, per aiutare la popolazione civile di Gaza che sta subendo questo conflitto senza colpa”. L’arrivo di una nave-ospedale, tra l’altro, “non può che essere accettata di buon grado sia dai palestinesi che da Israele” ha detto il ministro.
Albagia
L’idea è buona, ma si rischia di sprecarla. Appostare centri di raccolta in Albania, per gli immigrati ancora da identificare e classificare, non ha nulla a che vedere con la smargiassata fallimentare del Ruanda fatta dagli inglesi (per la cronaca: non ce li trasferirono, in compenso si sono buttati soldi del contribuente). Quella parte della sinistra che ha tirato in ballo Guantanamo ha tutta l’aria di sapere poco sia di Guantanamo che degli eventuali centri albanesi. Affrontare il tema dell’immigrazione a botte di propaganda non è soltanto inutile ma anche autodistruttivo, come dimostra il fatto che non si riesce a fare nulla che anche lontanamente somigli alle suggestioni che si alimentarono.
Veniamo all’Albania e ai problemi che pone, cercando di mettere a fuoco l’opportunità che offre. Il meccanismo resta quello di sempre: quanti si trovano in mare e in pericolo vengono salvati – dalle imbarcazioni della Marina militare, della Guardia costiera o da altre che si trovano a incrociarli, Ong comprese – per essere quindi condotti in un punto di raccolta che li metta in sicurezza e dove procedere all’identificazione. Tutto come prima. Gestione e costi dei centri in Albania saranno italiani e su questo si tratta di capire, perché attualmente, per i centri in Italia e per il trasferimento degli sbarcati, disponiamo di contributi europei.
Da anni sostengo che sarebbe saggio creare zone extraterritoriali, meglio ancora se a gestione e giurisdizione europee, proprio per non far sbarcare le persone nella giurisdizione italiana, il che comporta vincoli che scattano immediatamente. Ad esempio: il provvedimento d’espulsione e l’ordine di rimpatrio sono provvedimenti amministrativi, in quanto tali ricorribili al Tribunale amministrativo e tanti saluti all’efficacia. Sostenendolo da tempo non ho nulla da obiettare all’Albania, ma se poi si aggiunge che la giurisdizione sarà italiana si sarà fatta un’operazione costosa e inutile. Non cambia niente.
L’Albania, del resto, è oggi fuori dall’Unione europea, sicché una persona che uscisse da quei centri non sarebbe, come capita in Italia, sul territorio europeo, così innescando tutte le problematiche dei movimenti secondari (da un Paese Ue all’altro, senza permessi in quello di primo arrivo). Ma l’Albania è prossima all’ingresso, sicché questo ‘vantaggio’ sarebbe temporaneo. La cosa ha un senso se la si pensa, fin da subito, come permanente, dato che permanente è e sarà l’immigrazione.
Illustrando l’iniziativa, la presidente del Consiglio ha sottolineato non soltanto la sua coerenza con le norme e la solidarietà interna all’Ue, ma anche la sua esemplarità nella collaborazione fra Paesi Ue ed extra Ue. Il cambio di linguaggio, rispetto ad appena ieri, merita il plauso. Ma il punto delicato dell’intera faccenda è stabilire chi decide chi fare entrare e chi ha la forza di respingere gli altri. Su questo il protocollo fra Albania e Italia non ci alleggerisce minimamente. Allora lo si usi come innesco di una decisione europea, creando una giurisdizione specifica per gli ingressi in massa dentro i confini comuni, velocizzando l’accoglienza per i profughi e per quanti abbiamo bisogno e convenienza di accogliere, rendendo realistica la prospettiva di respingimento per gli altri. Non potranno essere contrari gli europei che cercano lavoratori e che credono nell’umanità del diritto. Non potranno essere contrari gli europei che reclamano chiusure, senza avere la forza di praticarle.
Se non così concepito l’accordo sarà un boomerang: 39mila persone sono una frazione degli sbarcati; mantenerli e gestirli in Albania costerà più che farlo in Italia; l’indotto economico sarà degli albanesi; i centri, una volta riempiti, diventeranno piaghe.
Non si deve avere l’alterigia, la boria, l’albagia di far credere di avere la soluzione immediata per tutto. Serve l’affidabilità delle cose che si fanno per limitare i danni e coprire i bisogni nazionali. Che sono crescenti. Il resto è propaganda, che diventerà delusione.
La Ragione
L'articolo Albagia proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
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Tra budget e produzione. Le sfide dell’industria della Difesa europea
Il ritorno della guerra in Europa ha messo in evidenza come l’industria della difesa non abbia attualmente la capacità di produrre le risorse necessarie per sostenere un conflitto militare prolungato e ad alta intensità. La guerra non ha solo imposto un aumento della spesa militare, ma ha anche reso necessaria all’industria europea una rapida transizione da una produzione di materiale bellico orientato a operazioni a bassa intensità verso la produzione di materiale progettato per la condotta di conflitti convenzionali contro avversari di pari livello. Questa transizione, tuttavia, non è affatto facile: molte linee di produzione in settori chiave (come le munizioni) erano infatti state chiuse per mancanza di ordini, visto che i paesi europei tendevano a importarle da produttori extraeuropei. L’industria della difesa europea ha quindi chiesto ai governi piani di lungo periodo per garantire ordini sufficienti a riaprire le linee di produzione.
Il problema è che concentrarsi sul colmare i gap militari nel breve periodo potrebbe portare a sottovalutare i necessari investimenti nel lungo periodo: nel 2021, i governi Europei hanno speso un totale di 52 miliardi di euro per gli investimenti nel settore della difesa, di cui soltanto nove miliardi di euro è stato speso per ricerca e lo sviluppo. Questo potrebbe mettere l’Europa in una posizione di svantaggio rispetto a Usa e Cina, che si stanno concentrando su investimenti in tecnologie come l’intelligenza artificiale, soprattutto attraverso una crescente sinergia tra l’industria militare e commerciale. È invece essenziale che i decisori europei mantengano un equilibrio virtuoso tra investimenti nel breve e lungo periodo, ad esempio aumentando il budget del Fondo Europeo per la Difesa e i suoi investimenti nelle tecnologie emergenti e dirompenti.
Per produrre le risorse necessarie per ottenere un’autonomia strategica, poi, l’Unione europea deve essere in grado di procedere con una maggiore integrazione del mercato della difesa. Ad oggi, infatti, i paesi europei continuano ad acquistare più da fornitori extra-Ue che da fornitori Ue. Gli acquisti da paesi terzi rappresentano il 70% del totale nel periodo 2022-2023, di cui il 63% da un unico fornitore, gli Usa. Procedere con una maggiore integrazione del mercato richiede il superamento di due principali sfide. La prima consiste nel forte divario tra grandi e piccoli paesi all’interno dell’Ue. A causa della complessità tecnologica e dei grandi investimenti necessari per essere competenti in questo campo, l’industria della difesa è concentrata attorno a pochi e grandi gruppi industriali. Quando si parla di integrazione del mercato della difesa Europea o di autonomia strategica nel campo della difesa, ci si riferisce in realtà a un’industria fortemente concentrata in pochi grandi paesi (Francia, Germania e Italia). I paesi medi e piccoli europei, che non possiedono una significativa industria della difesa sono quindi incentivati a diversificare le fonti di approvvigionamento, acquistando a volte da industrie europee e a volte da produttori extraeuropei. Tali paesi non hanno incentivi strutturali per sostenere l’integrazione del mercato, che potrebbero portarli a diminuire le loro possibilità di scelta. Questi (dis)incentivi strutturali rendono difficile l’integrazione del mercato della difesa.
La seconda sfida riguarda il rapporto con gli alleati chiave. L’industria della difesa europea deve tenere in considerazione che il perimetro dell’Ue non coincide con quello della sicurezza europea. Ciò è particolarmente evidente nel ruolo del Regno Unito e della sua industria della difesa dopo Brexit. Il Regno Unito e la Francia avevano iniziato a lavorare insieme su un progetto per un caccia di sesta generazione, ma, dopo la Brexit, i due paesi hanno deciso di dividere le loro strade. La Francia si è unita a Germania e Spagna per sviluppare il Future combat air system (Facs). La Gran Bretagna si è unita a Italia e Giappone per sviluppare il Global combat air programme (Gcap). Questa biforcazione nella scelta del caccia di sesta generazione ha infatti portato l’Italia a fare una scelta difficile tra la fedeltà al blocco dell’Ue e i suoi legami industriali e strategico-operativi con la Gran Bretagna. I costi e la complessità tecnologica rendono difficile la sostenibilità di entrambi i progetti e allontanano i prospetti per una consolidata industria della difesa Europea. L’autonomia strategica in ambito di difesa deve avere un carattere flessibile, che consenta l’integrazione e l’interazione con alleati chiave come il Regno Unito e gli Usa
L’articolo è un estratto dell’approfondimento curato dal Centro studi Geopolitica.info per l’Osservatorio di politica internazionale del Parlamento sul tema dell’autonomia strategica europea (disponibile qui in versione integrale), le cui conclusioni sono state firmate dal direttore di Formiche e Airpress, Flavia Giacobbe.
AL SHIFA. Il principale ospedale di Gaza è un campo per sfollati
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Reportage dell’agenzia Reuters
(foto dell’agenzia Wafa, traduzione dall’inglese a cura della redazione)
Stipati sotto ripari di tela improvvisati nel parcheggio, dormendo nei corridoi o sui pianerottoli, trascorrendo le ore del giorno nelle scale, stendendo la biancheria sul tetto – migliaia di sfollati di Gaza riempiono ogni spazio dell’Ospedale Al Shifa.
L’ospedale principale di Gaza City si è trasformato in un gigantesco rifugio per le persone le cui case sono state bombardate, o che temono che lo saranno, durante l’assalto militare israeliano alla Striscia di Gaza entrato nel suo secondo mese. “Siamo scappati di casa a causa dei forti attacchi aerei”, ha detto Um Haitham Hejela, una donna rifugiata con i bambini piccoli in una tenda improvvisata realizzata con tessuto, spago e stuoie. “La situazione peggiora giorno dopo giorno”, ha detto. “Non c’è né cibo né acqua. Quando mio figlio va a prendere l’acqua fa la fila per tre o quattro ore. Hanno colpito i panifici, non abbiamo il pane”.
I giornalisti Reuters in visita all’ospedale martedì (ieri) hanno visto persone distese su entrambi i lati dei corridoi, che lasciavano solo uno spazio ristretto per consentire a chiunque di camminare, effetti personali immagazzinati nelle scale e sui davanzali delle finestre e pile di sacchi della spazzatura. L’impressione forte era quella di un affollamento estremo. Questa situazione non riguarda solo lo Shifa. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che 122.000 sfollati di Gaza abbiano trovato rifugio negli ospedali, nelle chiese e in altri edifici pubblici in tutta la Striscia, con altri 827.000 nelle scuole.
La guerra è stata innescata da un attacco del 7 ottobre contro Israele da parte dei combattenti di Hamas che hanno ucciso 1.400 persone e preso in ostaggio altre 240. In risposta, Israele ha lanciato un attacco aereo, marittimo e terrestre contro Hamas che, secondo i funzionari di Gaza, ha ucciso più di 10.000 persone nella fascia costiera densamente popolata.
Medics transport an injured Palestinian child into Al-Shifa hospital in Gaza City following an Israeli airstrike on October 11, 2023, as raging battles between Israel and the Hamas movement continued for the fifth consecutive day. Medical supplies, including oxygen, were running low at Gaza’s overwhelmed Al-Shifa hospital as the death toll from five days of ferocious fighting between Hamas and Israel rose sharply on October 11 with Israel keeping up its bombardment of Gaza after recovering the dead from the last communities near the border where Palestinian militants had been holed up. Photo by Atia Darwish apaimages
DALLA PAURA ALLA PAURA
Per gli ospedali, la crisi degli sfollati sta aggravando una situazione già catastrofica, con carenza di forniture mediche ed elettricità a causa dell’arrivo quotidiano di un numero enorme di pazienti gravemente feriti. Il personale sta ricorrendo a misure disperate, come eseguire interventi chirurgici senza anestesia.
Ad Al Shifa, gli sfollati affermano di essere venuti in cerca di sicurezza, ma di non sentirsi al sicuro a causa degli attacchi aerei nelle vicinanze e dell’avvicinarsi dell’esercito israeliano.
Israele sostiene di aver circondato Gaza City con le sue forze armate. L’ esercito israeliano accusa il movimento islamico Hamas di nascondere gli ingressi di tunnel e i suoi centri operativi all’interno di Al Shifa, cosa che Hamas ha negato.
“Siamo passati di paura in paura”, ha detto Um Lama, una madre in lutto rifugiata in un corridoio con diversi bambini e parenti più anziani. Sua figlia Lama è stata tra le vittime dell’attacco aereo di venerdì ad una un’ambulanza appena fuori dal cancello dell’ospedale. Il direttore dello Shifa ha detto che 15 persone sono state uccise e 60 ferite. Israele invece afferma di aver preso di mira un’ambulanza che trasportava combattenti di Hamas. La Mezzaluna Rossa Palestinese ha detto che l’ambulanza faceva parte di un convoglio che tentava di evacuare persone gravemente ferite.
“Guardate la nostra situazione. È questa la vita che stiamo vivendo? Non abbiamo cibo, né elettricità né acqua. Dormiamo nei corridoi”, ha detto Um Lama. Israele ha intimato agli abitanti di Gaza che vivono ancora nel nord della Striscia di spostarsi nel sud, anch’esso bombardato anche se meno intensamente. Martedì, durante una conferenza stampa, a un portavoce militare israeliano ono state fatte domande sulle notizie di bombe esplose sullo Shifa durante la notte.
“Sono consapevole che è successo. Probabilmente c’era qualche esigenza operativa”, ha detto. “Stiamo cercando di convincere le persone ad andarsene, questo è tutto quello che posso dire al riguardo. Questo è il tipo di messaggio con cui le persone cercano di uscire da lì”.
Tuttavia le donne rifugiate in ospedale affermano che, nonostante le terribili condizioni di vita e la paura, non hanno intenzione di andarsene perché non hanno nessun posto dove andare e nessun posto è sicuro.
“Siamo forti. Qualunque cosa facciano con noi, non lasceremo Al Shifa. Hanno tagliato l’acqua, l’elettricità, niente cibo, ma noi siamo forti. Possiamo mangiare solo biscotti e noci. Possiamo mangiare qualsiasi cosa”, ha detto Hejela.
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Tenacemente Tuvalu
L'arcipelago polinesiano, che sta finendo sott'acqua, ha cambiato la costituzione per continuare a esistere anche senza una terra. Una sfida diretta a tutti i concetti di nazione
L'articolo Tenacemente Tuvalu proviene da China Files.
In Cina e Asia – Ministeriale G7 a Tokyo, Blinken chiede unità su Ucraina e Gaza
I titoli di oggi: Ministeriale G7 a Tokyo, Blinken chiede unità su Ucraina e Gaza Belt and Road, la Cina rivaluta il debito La portaerei Shandong passa dal Giappone e raggiunge il mar Cinese meridionale Giappone, la Chiesa dell’Unificazione propone una compensazione da 67 milioni di dollari Cina, il bilancio di Fmi: economia in calo e rischi su debito locale ...
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Il futuro dei social è decentralizzare. L'articolo di Chiara Crescenzi su GuerrediRete
...Ma questa situazione rappresenta soltanto una minima parte di quello che accade davvero sulle piattaforme decentralizzate, che contrastano la diffusione di contenuti tossici opponendogli l’empowerment di comunità forti e coese. È abbastanza evidente, quindi, che decentralizzare sia oramai un imperativo per le piattaforme di social media, ammesso che queste ci tengano ad avere con sé i propri utenti. “Lo paragono alla crescita del cibo biologico e coltivato in modo sostenibile – ha dichiarato Bill Ottman, fondatore e amministratore delegato di Minds, piattaforma di social media parzialmente decentralizzata, commentando la diffusione di app federate -. Trent’anni fa, la gente diceva: ‘Non so di cosa stai parlando e non so perché dovrebbe preoccuparmi’. E ora, alla gente importa”.
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La falsa promessa di ChatGPT, di Noam Chomsky, Ian Roberts e Jeffrey Watumull
In breve, ChatGPT ed i suoi compagni sono costituzionalmente incapaci di bilanciare creatività e limiti. Essi o generano in eccesso (producendo sia verità che falsità, sostenendo assieme decisioni etiche o non etiche), oppure generano per difetto (esibendo disimpegno per ogni decisione e indifferenza per le conseguenze). Considerata l’amoralità, la finta scienza e l’incompetenza linguistica di questi sistemi, non si sa se ridere o piangere della loro popolarità.
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Non c’è via d’uscita per i dittatori. Il post di Branko Milanovic
In un interessante articolo che ha twittato ieri, Kaushik Basu discute, usando un modello matematico, un vecchio problema: come i governanti una volta che sono al potere non possono lasciarlo anche se lo vogliono, perché la loro strada, e la loro permanenza al potere, è cosparsa di cadaveri che chiederanno tutti vendetta (metaforicamente) se il governante dovesse dimettersi. Inoltre, dato che il numero delle malefatte e degli immaginari o reali nemici si moltiplica per ogni periodo aggiuntivo al potere, essi hanno bisogno di ricorrere ad una sempre maggiore repressione per restare al potere.
non c’è niente che si possa offrire ai dittatori per farli recedere. Essi devono continuare a governare finché o muoiono in pace nei loro letti – e dopo la morte vengono o vilipesi o celebrati (alcune volte, entrambe le cose) – o finché non vengono rovesciati, o si imbattono nel proiettile di un assassino. Una volta che si è sulla vetta, non c’è via d’uscita. Essi sono divenuti prigionieri, come i molti altri che hanno gettato in carcere
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Cari giovani, il benessere dell’Occidente non è una “colpa”
Continuano in tutto l’Occidente i cortei pro-Palestina dove si sostiene Hamas e se ne legittima la violenza. Tra i giovani il movimento non si placa. Le denunce contro l’antisemitismo cadono nel vuoto. Anche per ignoranza. Un docente americano, di fronte a studenti che giustificano la mattanza di civili israeliani del 7 ottobre, ha evocato i «pogrom». Si è sentito chiedere: «Cosa sono?». Un pezzo di America progressista vive una crisi di coscienza, non sa come parlare alla propria gioventù, radicalizzata al punto da esaltare i terroristi.
L’antisemitismo è solo una parte della spiegazione di quanto succede nelle scuole, nelle università e nelle piazze, sui social. Colpisce il dialogo tra una mamma di Atlanta e una insegnante, tutt’e due elettrici democratiche, riportato sul New York Times. La mamma è sgomenta nello scoprire che la scuola indottrina a senso unico, con docenti che demonizzano Israele e legittimano le stragi di Hamas. L’insegnante le risponde così: «Starò sempre dalla parte di chi ha meno potere, meno ricchezza. Questo vale a prescindere dagli atti estremi commessi da alcuni militanti, esasperati a furia di vedere il proprio popolo morire».
Il dialogo tra la madre e la professoressa americane fornisce una spiegazione della straripante solidarietà per i palestinesi, che non esita a perdonare le stragi di innocenti israeliani. «Stare sempre dalla parte dei deboli» è un principio che va ben oltre i confini della sinistra, abbraccia valori di altri mondi come quello cristiano. È fondamentale per capire le giovani generazioni, e avviare un dialogo sul grande abbaglio di cui sono prigioniere.
Il principio per cui i più poveri hanno sempre ragione non viene applicato solo a favore dei palestinesi e contro Israele. Ha generato conseguenze in molti altri campi: dall’immigrazione clandestina alle politiche verso la criminalità, fino all’atteggiamento verso i Paesi ex coloniali che sembrano aver diritto a risarcimenti perpetui (a prescindere dall’uso dissennato che le loro classi dirigenti fanno di quei risarcimenti).
La ricchezza dell’Occidente, o quella di Israele, è diventata la prova schiacciante di una colpa; si accompagna alla certezza che questo benessere è il frutto di crimini contro l’umanità. Applicando questo dogma a tutto l’Occidente, la storia degli ultimi secoli dalla Rivoluzione industriale in poi è un vasto romanzo criminale, degno di Émile Zola: un paesaggio infernale di sfruttamento abietto, sofferenze, guerre coloniali, saccheggio delle risorse naturali. Nulla di buono ha fatto l’Occidente visto che la sua opulenza è legata alla miseria degli altri e al riscaldamento climatico. Tra le conseguenze di questa narrazione abbiamo l’illegittimità etica delle frontiere nazionali (come possiamo negare l’ingresso ai poveri della terra, se la loro sofferenza l’abbiamo creata noi?) e l’urgenza di bloccare lo sviluppo economico foriero di un’Apocalisse ambientale. Queste convinzioni animano tanti giovani.
Il confronto con queste generazioni — e con i loro insegnanti — deve abbracciare la storia dell’Occidente, del perché siamo quello che siamo. Senza la nostra Rivoluzione industriale, quella cosa orribile che ha insozzato il pianeta, oggi non sarebbero vivi tre miliardi di cinesi e indiani, o un miliardo e mezzo di africani: è la nostra agricoltura moderna a base di fertilizzanti e macchinari a consentire la loro alimentazione; è la nostra medicina ad avere ridotto la mortalità e allungato la longevità. I miracoli economici asiatici che hanno sollevato dalla miseria metà del pianeta sono accaduti copiando il modello scientifico e imprenditoriale dell’Occidente. Senza la nostra economia di mercato, che usa innovazioni per creare ricchezza , non esisterebbero le tecnologie verdi che consentono un futuro con meno emissioni carboniche. Schiavismo e colonialismo, praticati da tutte le civiltà umane (tra cui arabi, turchi, cinesi e russi) sono stati denunciati e superati in Occidente da forme più avanzate di capitalismo: il Nord anti-schiavista negli Usa aveva un’economia superiore al Sud delle piantagioni; l’America del 1956 impedì l’aggressione di Inghilterra-Francia-Israele contro l’Egitto di Nasser perché il modello Usa si fondava sul superamento dei vecchi imperi coloniali. Delle ex colonie capaci di spettacolare progresso economico, culturale, civile, in Asia, sono diventate in certi casi perfino più ricche di noi: non hanno praticato la cultura del vittimismo.
«I deboli hanno sempre ragione» si applica in modo perverso al confronto tra Israele e i suoi vicini. L’odierna ricchezza israeliana è recente. Nella prima fase della sua storia il Paese era socialista e povero. Il boom israeliano dagli anni Ottanta in poi è fatto di innovazione e imprenditorialità. La condizione dei palestinesi, la loro mancanza di diritti, è ingiusta e inaccettabile ma non spiega la prosperità d’Israele. I Paesi arabi suoi vicini hanno spesso aizzato l’antisemitismo per invidia e per dirottare l’attenzione dall’inettitudine delle proprie classi dirigenti. Da anni era iniziata una revisione, alcune classi dirigenti arabe avevano cominciato a considerare Israele come un modello da imitare anziché un nemico da distruggere. Purtroppo non hanno fatto in tempo a rieducare le loro masse e oggi la piazza araba è un ostacolo sulla strada di un ritorno alla pace.
In Occidente urge un dialogo con i nostri giovani: su cosa siamo noi, perché siamo arrivati fin qui. Una parte dei genitori americani stanno dedicando un’attenzione nuova ai programmi d’insegnamento. Proprio mentre Cina, Russia e Turchia riscrivono i propri manuali scolastici per renderli ancora più impregnati d’orgoglio nazionale e di autostima, è giusto che da noi s’insegni a odiare la civiltà occidentale? Per conquistare consenso nel Grande Sud globale che ci volta le spalle, dovremo cominciare a ricostruirlo tra i nostri ragazzi e sui banchi di scuola.
L'articolo Cari giovani, il benessere dell’Occidente non è una “colpa” proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Epilogo
L’agonia è stata lunga e dolorosa, ora siamo all’epilogo. Ci saranno sussulti giudiziari, ma più indirizzati a salvare i propri soldi che non a salvare un’azienda oramai depredata e spezzata. Sebbene in negativo, questa è una storia istruttiva, perché un grande patrimonio italiano è stato distrutto a cura degli italiani. Quanti temono l’assalto dei “capitali stranieri” possono qui osservare gli effetti nefandi degli assalti italiani senza capitali.
Nel 1999 Telecom Italia era il sesto operatore globale delle telecomunicazioni, fatturava 27 miliardi all’anno e aveva un debito di 8 miliardi, basso. Era stata costruita grazie all’intervento pubblico (Iri-Stet) – quindi con i soldi dei contribuenti – e si manteneva grazie ai soldi dei clienti. Ergo sempre dei cittadini italiani, cui si aggiunsero i cittadini di quei Paesi in cui la fiorente multinazionale di allora era entrata. Eravamo noi i “capitali stranieri” capaci di fare conquiste. Ora fattura 15 miliardi l’anno e se ne porta sul groppone 21 di debiti. Un’enormità accumulata non facendo investimenti, ma caricando sulla società scalata i debiti contratti dagli scalatori del 1999. Quelli che l’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, chiamò «capitani coraggiosi» e che erano corsari con un’idea creativa delle regole del mercato, compreso il fatto che furono trovati a vendere (per farne scendere il prezzo) le azioni che affermavano di volere comprare.
Al momento della cessione al mercato delle azioni pubbliche si era stabilito che nessuno potesse avere più dell’1% delle azioni, ma al momento della scalata totalitaria si fece finta di non averlo mai detto. Questo è il bello di certe culture illiberali e nemiche del mercato: sono talmente convinte che il mercato sia predazione e sopraffazione che quando assistono ad azioni di quel tipo le pensano di mercato. Nella stagione in cui le regole europee aprivano, finalmente, alla concorrenza – quella in cui le tariffe sono scese moltissimo – anziché alla competizione ci si dedicò alla spoliazione.
Ora il Consiglio d’amministrazione ha deciso di vendere la rete – realizzata con i soldi degli italiani – in modo da diminuire l’indebitamento di 14 miliardi. Il socio di maggioranza relativa (i francesi di Vivendi, con il 23,7% delle azioni) si oppone e chiede l’intervento giudiziario. Ma lo sguardo di quel socio è rivolto ai soldi persi nell’investimento, non al futuro della rinominata Tim. E del resto, che passi l’idea di vendere la rete e tenere i servizi, piuttosto che quella di vendere i servizi per tenere la rete (ipotesi avanzata dal fondo Merlyn), comunque è un epilogo. Quel che allora ci capitò di denunciare e prevedere diventa purtroppo realtà.
Almeno si evitino ulteriori errori. Lo è il fatto che i soldi dei contribuenti continuino a essere usati per diventare soci dell’acquirente americano, Kkr. Lo Stato non deve puntare a fare il socio di minoranza, con il 20%, ma a esercitare controlli, a verificare che la rete sia sviluppata e non risistemata e rivenduta. Non ha senso volere essere soci quando i consiglieri d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti neanche prendono parte alla decisione di vendere. Non lo ha essere nell’azionariato di una società e della sua concorrente, come capita partecipando a Open Fiber, improvvidamente voluta dal governo Renzi, frutto di soldi Enel (ricordate le reti che dovevano passare dal contatore elettrico?) e poi sbolognata alla Cdp. E nemmeno stabilire che Kkr pagherà 2,5 miliardi in più se sarà fatta la fusione con Open Fiber, ovvero con i soci dei propri soci, subordinando il tutto al parere dell’Antitrust. Se si fosse ascoltato chi evidenziava il conflitto d’interessi non ci si troverebbe in queste condizioni.
L’interesse pubblico è portare i servizi della pubblica amministrazione in digitale e in Rete, nonché garantire portata e accesso a innovatori italiani che lavorano nei servizi. E per farlo non si deve essere soci, ma si deve essere lo Stato che non si è stati capaci di essere.
La Ragione
L'articolo Epilogo proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Spese per la Difesa. Se non cambia il trend, il 2% rischia di slittare. L’allarme di Crosetto
Le Forze armate italiane devono tornare a essere uno strumento militare, il principale baluardo per la difesa e la deterrenza in termini di sicurezza nazionale. Ad affermarlo è stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, intervenuto in audizione davanti alle commissioni Difesa della Camera e Affari Esteri e Difesa del Senato. Nell’ottica del ministro, dunque, è necessario per il Paese un profondo processo di rinnovamento e trasformazione: “Pensavamo di aver superato la fase in cui le Forze armate dovevano assolvere la funzione di difesa del Paese, prendendo la direzione di una Protezione civile 4.0, ma ci siamo accorti che così non è”. Un cambio di paradigma reso necessario dal contesto internazionale più fragile. Probabilmente, ha annotato Crosetto, “se non fosse accaduto nulla in Ucraina non ci saremmo posti il problema di riequilibrare l’assetto delle Forze armate con la stessa urgenza”, ma sta di fatto che il momento attuale lo impone.
L’obiettivo del 2%
È partendo da questo presupposto che il ministro ha voluto lanciare l’allarme sul requisito del 2% del Pil da destinare alla Difesa, un impegno preso con la Nato nel 2014 e da allora costantemente reiterato, e che con gli attuali trend di spesa rischia di allontanarsi sempre più. “Il 2 % è centrale, ma siamo molto lontani: l’obiettivo sarà “impossibile nel 2024 e difficile anche per il 2028”, data, quest’ultima, individuata dal precedente governo come momento in cui l’Italia si è impegnata ad adeguarsi alla previsione Nato. Il processo di rinnovamento della Difesa deve avere un sostegno finanziario adeguato, ha affermato il ministro, cha ha poi registrato come la Difesa italiana dedichi alla ricerca “un ventesimo di quello che dedica la Francia, e lascio perdere i paragoni con gli Stati Uniti”. Una limitatezza di risorse che costringe persino a “cannibalizzare il parco mezzi per la ricerca di ricambi”. È in questo quadro che si inseriscono i venticinque miliardi di euro richiesti dal dicastero attraverso il Documento programmatico pluriennale per la Difesa.
Oltre la polemica
Di fronte a questo scenario, il ministro Crosetto ha ribadito la sua posizione di svincolare le spese per la Difesa da patto di stabilità. “Sono stato il più sincero tra i ministri della Difesa a dire ‘forse non ce la facciamo’, a fronte della situazione di bilancio”, ha evidenziato Crosetto. “Il ragionamento che l’Italia può fare in Europa è sottolineare come l’aumento degli stanziamenti per la Difesa sia un obiettivo di investimento imposto dall’esterno che non può essere in contrasto con le necessità di spesa in altri settori”. Un tema che, secondo Crosetto, andrebbe discusso anche a livello nazionale. “Le spese per la Difesa non possono diventare argomento di discussione politica, dobbiamo superare la stucchevole polemica ideologica che associa alle spese per la difesa solo un concetto di costo”. Per il ministro, infatti, questi investimenti sono “un valore strategico per il Sistema Paese, con un impatto positivo anche sullo sviluppo economico.
Il ruolo dell’industria
Tra l’altro, ha sottolineato ancora Corsetto, “l’industria della difesa rappresenta un asset per il Paese nell’attuale contesto geopolitico” grazie soprattutto al suo impegno nella ricerca per programmi di sviluppo tecnologico. In particolare, la Difesa dovrà “continuare lo sviluppo di capacità strategiche, evolvendosi soprattutto verso la frontiera dei nuovi domini, come quello cibernetico, subacqueo e dell’intelligenza artificiale”. Per questo, ha detto Crosetto, “il ministero della Difesa e quello per le Imprese e il Made in Italy dovranno migliorare la cooperazione in termini di industria militare”.
Nuovo approccio al reclutamento
A fronte del mutato contesto internazionale, tra l’altro, nel prossimo futuro potrebbe essere addirittura necessario aumentare il numero del personale delle Forze armate. Una necessità che chiama in causa anche le condizioni contrattuali del comparto Difesa. “Non è possibile affrontare gli attuali problemi con le regole del pubblico impiego” ha detto Crosetto, evidenziando le difficoltà che riscontrano le Forze armate nell’attirare nuovi talenti. “Occorre pensare che non si può affrontare il mondo che si ha davanti con gli stessi strumenti che valgono per altri comparti”. La soluzione, per Crosetto, è strutturare concorsi “in cui le persone sappiano fin dall’inizio di avere una prospettiva di impiego da soldati, con alcuni tipi di arruolamento fatti in modo diverso”, facendo riferimento ai corpi speciali, il cui lavoro non “può essere paragonato al pubblico impiego”.