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La situazione di allarme in cui si trovava l’Italia era iniziata già nel 1968
La prima volta che l’onorevole Aldo Moro aveva parlato della strategia dell’attenzione nei confronti del Partito comunista italiano era stato il 21 febbraio del 1969, in una riunione della Direzione della Democrazia cristiana, quando aveva proposto l’inizio di un rapporto nuovo con l’opposizione comunista, basato su «reciproca considerazione» e «dialettica democratica». Le motivazioni che spinsero Moro a formulare questa strategia furono fondamentalmente tre: la prima, di lungo periodo, può essere rintracciata in uno dei capisaldi della cultura politica di Moro, cioè la sua convinzione della necessità di allargare le basi e il consenso dello Stato democratico; le altre due, di breve periodo, sono invece da ricondurre alla percezione che Moro aveva di una profonda crisi del centro-sinistra e alla sua peculiare analisi dei tempi nuovi e dei movimenti in atto nella società italiana <2.
Gli anni Settanta si aprirono così con l’ipotesi, sempre più concreta, del “compromesso storico”, mai approvato dall’ala destra del partito democristiano, rappresentata, tra gli altri, da Giulio Andreotti, che dichiarò che: «Il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica e storica» (3. Ciò che realmente preoccupava Andreotti era l’ingresso del comunismo in quell’area di governo che per circa un trentennio aveva fatto, proprio dell’anticomunismo, il proprio baluardo.
L’idea di uno stretto rapporto con la Democrazia cristiana, avanzata dal neo-segretario Enrico Berlinguer nei primi anni Settanta, non allettava neanche le file del Partito comunista. Il problema era il superamento di quella conventio ad excludendum come ultimo passo nel quadro di un disegno interno al sistema politico nato alle origini della Repubblica <4. Riaffermare la propria piena legittimazione nel sistema politico italiano era diventato un compito prioritario per i comunisti: una legittimazione che solo la Dc, partito egemone del sistema, era in grado di concedere. All’inizio degli anni Settanta, dunque, Berlinguer aveva una strategia ben precisa da perseguire: ottenere quella legittimazione governativa che il Pci non era in grado di procurarsi autonomamente ma poteva raggiungere esclusivamente grazie ad un rapporto privilegiato con il suo storico antagonista. Dal punto di vista sistemico, la debolezza degli esecutivi, già emersa nel corso della V legislatura, basata su maggioranze costituite da Psi, Psdi, Pri e Dc, testimoniava l’urgenza di abbattere le barriere tra maggioranza e opposizione, avviando una fase di consociazione che si traducesse in una coalizione di governo allargata anche ai comunisti: una situazione di emergenza necessitava di un provvedimento eccezionale ma necessario <5.
La situazione di allarme in cui si trovava l’Italia era iniziata già nel 1968, quando le università e le piazze italiane erano diventate teatro di proteste della società civile, degli studenti prima e degli operai poi. Come il sistema istituzionale, anche i movimenti politici estremisti che nacquero in quegli anni seguivano matrici politiche differenti: dai gruppi sovversivi distaccatisi dal Movimento sociale italiano, alle formazioni giovanili del Psi e del Pci, ai gruppi cattolici, alle associazioni degli studenti universitari. Questi ultimi, in particolare, sarebbero diventati i protagonisti della contestazione contro le strutture sociali, del lavoro e dell’istruzione, e le regole che le governavano, ritenute vecchie e inadeguate a soddisfare le esigenze di una generazione nuova, cresciuta in un’epoca di relativa pace e benessere <6. L’oltranzismo di questo movimento aveva portato alla nascita di veri e propri gruppi extraparlamentari di estrema sinistra, come, tra gli altri, Movimento operaio, Lotta continua e Il Manifesto. L’obiettivo di questi gruppi era quello di attuare quel salto rivoluzionario teorizzato da Marx ed Engels che i comunisti non erano riusciti a realizzare, prediligendo la revisione politica e ideologica indicata da Togliatti nella sua idea di “democrazia progressiva”: la costruzione, cioè, di una democrazia organizzata, articolata, caratterizzata da una forte democratizzazione della società e dello Stato, che quindi mettesse da parte gli interessi di classe per soddisfare quelli “collettivi” del paese <7. Il Sessantotto italiano fu, così, il risultato di un malessere radicato nella società, dovuto a quel boom economico degli anni Sessanta che aveva visto la borghesia come principale protagonista. Alle proteste studentesche presto si affiancarono gli scioperi degli operai nelle fabbriche, fino ad arrivare, nel 1969, allo scoppio di quello che è conosciuto come l’autunno caldo. In questo contesto sarebbero emersi i germi di quella che sarebbe stata definita «strategia della tensione» <8: il periodo, cioè, segnato dal susseguirsi di attentati terroristici che avrebbero avuto inizio il 25 aprile 1969 con l’esplosione di due bombe alla Fiera campionaria e alla stazione di Milano sino all’episodio più grave della bomba presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre.
Gli atti terroristici continuarono per tutti gli anni Settanta con impressionante regolarità: solo fino alla metà del 1972 si contarono 271 esplosioni dinamitarde. Il 28 maggio 1974 l’esplosione di una bomba in Piazza della Loggia a Brescia rappresentò uno dei momenti più cruenti nella lotta contro lo Stato. La «strategia della tensione» favorì un radicamento più profondo e tenace nella società italiana del terrorismo di sinistra <9. All’interno degli stessi gruppi dell’estrema sinistra venne a determinarsi una dialettica per la quale il ricorso alla violenza divenne il modo stesso di esistere e di affermarsi rispetto ai gruppi concorrenti. Se, infatti, la responsabilità della strage di Piazza Fontana venne inizialmente attribuita alla sinistra, qualche anno più tardi sarebbe, al contrario, emersa la matrice neofascista di quell’attentato. Si creò così una spirale, un reciproco coinvolgimento e probabilmente anche una qualche forma di collaborazione fra i due estremismi che avrebbero avuto il loro culmine con i tragici eventi del ’78 <10. La formazione di nuclei di potere occulto fu favorita certamente dalla debolezza e dalla fragilità del sistema politico italiano che, a partire dall’inizio degli anni Settanta, preannunciava una crisi della democrazia dei partiti.
[NOTE]2 Giovanni Mario Ceci, Moro e il PCI, Roma, Carocci, 2014.
3 Oriana Fallaci, intervista a Giulio Andreotti nel dicembre 1973, Intervista con la storia, Milano, Rizzoli, 1974.
4 Pietro Scoppola, Una crisi politica e istituzionale, in G. De Rosa e G. Monina, a cura di, L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, sistema politico e istituzioni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003.
5 Simona Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Bari-Roma, Laterza Editori, 1998.
6 Ibidem.
7 Alexander Hobel, La “democrazia progressiva” nell’elaborazione del Partito comunista italiano, «Historia Magistra», n. 18, 2015.
8 Pietro Scoppola, La repubblica dei partiti, Bologna, Il Mulino, 1997.
9 Ivi, p.385.
10 Ibidem.
Il governo Spadolini varò il disegno di legge «dei pentiti»
2018-2019
Gli assassinii di Roberto Peci e dell’Ingegner Taliercio, come anche il sequestro dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo, mostravano come, nel 1981, la minaccia terroristica delle Brigate Rosse non fosse scongiurata, bensì fosse perdurante.
Il nuovo presidente del Consiglio era consapevole di come, nonostante l’attuazione della legislazione d’emergenza (legge Reale e Cossiga tra tutte) avesse costituito, negli anni precedenti, una risposta istituzionale tutto sommato positiva (quanto dibattuta), la ripresa della sfida terroristica aveva contribuito «a rendere più evidenti l’inadeguatezza e la frammentarietà della risposta giurisdizionale» <135. Nello specifico Spadolini indicava in una giustizia in grave crisi, «messa - tra l’altro - in condizione di non poter offrire risposte pronte ed efficaci alla richiesta di chiarezza e di tempestività di tutti i cittadini» <136, il vulnus principale a quel principio ordinatore della stessa democrazia rappresentato dalla certezza del diritto.
A questa minaccia bisognava rispondere attraverso i rimedi giurisdizionali ma soprattutto tramite un raccordo sinergico tra Governo e Parlamento. Questi dovevano essere i pilastri per giungere, innanzitutto, all’approvazione di un nuovo codice di procedura penale «destinato ad eliminare le bardature di un processo inquisitorio e segreto, che la società non accetta più» <137. In Italia era, infatti, ancora in vigore il codice penale fascista del 1930. L’inerzia legislativa aveva così generato non pochi contrasti tra la legge fondamentale e disposizioni del codice in netto contrasto con essa. Seppure delle pronunce della Corte Costituzionale avessero condotto alla soppressione di alcune leggi dal contenuto autoritario, in un clima d’instabilità civile come quello degli anni Settanta, questa discrasia «si era tramutata in varie occasioni emotive in un modo di legiferare incoerente e, per così dire, a passo di gambero» <138.
Il richiamo da parte di Spadolini a una materia così delicata si concretizzò con l’importante modifica operata con la legge del 24 novembre 1981 numero 689, alla quale si aggiunse l’approvazione della legge 743 del 18 dicembre dello stesso anno, che consisteva in una delega al presidente della Repubblica per la concessione di amnistia e di indulto per una serie di reati minori. La legge numero 689, in particolare costituì per il sistema penale una fondamentale riforma che cercò di andare incontro a due esigenze: «far diminuire, con l’introduzione dell’istituito del “patteggiamento”, la durata dei processi - e - ridurre l’affollamento delle carceri, con la depenalizzazione di una serie di reati minori, per i quali si prevedeva la sostituzione delle pene detentive con altre misure». <139
All’impegno per la riforma del codice penale, si aggiunse quello per le cosiddette riforme “senza spese”, tra cui quella sul segreto istruttorio e quella sull’istituto della comunicazione giudiziaria, entrambe oggetto nel tempo di molte distorsioni.
Un versante fu, fra tutti, quello sul quale il governo Spadolini riuscì a ottenere i migliori risultati: «mi riferisco all’offensiva contro i cosiddetti “pentiti” e i loro familiari» <140. L’obiettivo principale dell’esecutivo fu quello di incoraggiare la dissociazione dai gruppi terroristici e favorire il recupero sociale degli elementi che avessero collaborato con l’autorità giudiziaria.
A questo scopo il governo varò il disegno di legge «dei pentiti» il quale, approvato dalle Camere il 29 maggio 1982, prevedeva incentivi e protezione a chi si fosse dissociato dalla lotta armata. La legge, innanzitutto, introduceva la non punibilità per coloro che avessero commesso, per scopi terroristici, il reato di associazione o banda armata, ma avessero poi o disciolto l’associazione o si fossero consegnati senza opporre resistenza. «In secondo luogo, si concedevano le attenuanti per i medesimi reati, con la riduzione della pena fino al massimo di un terzo, o in caso di dissociazione ovvero di collaborazione con l’autorità di polizia o con l’autorità giudiziaria» <141.
Il governo si dimostrò solerte anche per quanto riguarda la lotta alla mafia: venne infatti varata la cosiddetta «legge La Torre», la quale approvata nel 1982, introdusse con il nuovo articolo 416-bis del codice penale, la figura dell’associazionismo di tipo mafioso. Con essa fu inoltre prevista l’istituzione della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, la quale «doveva rappresentare un momento di coordinamento e di indagine su un fenomeno che, specie negli ultimi tempi, aveva colpito al cuore le istituzioni» <142.
L’impegno profuso dal governo Spadolini nei confronti dell’emergenza civile e terroristica, in definitiva, risultò a conti fatti decisivo. Seppure vadano rilevate alcune contraddizioni riguardanti l’utilizzo di una legislazione di emergenza tanto criticata dallo stesso presidente del Consiglio, il merito della definitiva sconfitta delle BR è ascrivile soltanto all’operato del governo Spadolini e ai suoi provvedimenti. A tal proposito, sottolinea in particolare Ascheri che «la sconfitta delle Br in tempi brevi è stata solo opera dello strumento legislativo creato dal governo Spadolini: la legge “dei pentiti, appunto» <143. Un successo tra l’altro coronato dalla liberazione, da parte delle forze dell’ordine, del generale americano della NATO James Lee Dozier rapito dalle Brigate Rosse il 17 dicembre 1981. Lo stesso Spadolini, intervenuto al Senato nell’aprile 1983 ribadirà con orgoglio: «la democrazia italiana ha certamente realizzato un grande successo: la vittoria politica sul terrorismo. La più grave minaccia sull'avvenire delle nostre libere istituzioni, cioè il partito armato, è stata politicamente debellata: grazie all'impegno efficace delle forze dell'ordine, grazie alla solidarietà operante del mondo del lavoro e delle sue proiezioni politiche, grazie alla linea della fermezza, contro inammissibili tentazioni trattativiste, non meno che alla sagacia e all'accortezza degli strumenti legislativi predisposti, a cominciare dalla legge sui pentiti» <144.
[NOTE]135 C. Ceccuti, Giovanni Spadolini. Discorsi Parlamentari, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 175.
136 Ibidem.
137 Ibidem.
138 G. Ascheri, Giovanni Spadolini: prima presidenza laica, Editalia, Roma, 1988, p. 151.
139 R. Aureli, «L’attività legislativa dei Governi Spadolini», in U. La Malfa (a cura di), Annali dell’Istituto Ugo La Malfa, Volume XVI, Unicopli, Milano, 2001, p. 133.
140 C. Ceccuti, Giovanni Spadolini. Discorsi Parlamentari, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 178.
141 R. Aureli, «L’attività legislativa dei Governi Spadolini», in U. La Malfa (a cura di), Annali dell’Istituto Ugo La Malfa, Volume XVI, Unicopli, Milano, 2001, p. 132.
142 Ivi, p. 131.
143 G. Ascheri, Giovanni Spadolini: prima presidenza laica, Editalia, Roma, 1988, p. 153.
144 senato.it/service/PDF/PDFServe…
Mattia Gatti, Una rilettura dei governi Spadolini nel quadro della crisi del sistema politico italiano, Tesi di Laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico
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