TUNISIA. Si dà fuoco in segno di protesta. Il Paese nella morsa di Saied e della povertà
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 21 aprile 2023 – Tornare al fuoco – E’ morto giovedì 13 aprile per le ustioni di terzo grado riportate su tutto il corpo Nizar Issaoui, 35 anni, ex calciatore tunisino. Si era dato fuoco tre giorni prima davanti al distretto di polizia di Haffouz, un villaggio della regione di Kairouan nella Tunisia centrale, filmando con il cellulare fino alla fine il suo atto di protesta contro lo “stato di polizia” nel Paese. Fino alla fine: il volto sconvolto, le ultime frasi di denuncia, poi le fiamme improvvise sulla felpa scura, le urla dei presenti, il silenzio.
Una vita per il calcio, dalle giovanili fino alle squadre più importanti del campionato, poi il ritiro dallo sport e un’attività come agente di commercio. Era stato accusato di “terrorismo” dalle autorità tunisine dopo essersi lamentato pubblicamente del prezzo delle banane fissato da un commerciante a quasi 10 dinar al chilo (quasi 3 euro), il doppio del prezzo massimo fissato dal governo. “Per un litigio con qualcuno che vende le sue banane a dieci dinar, vengo accusato di terrorismo in una stazione di polizia. Terrorismo per una lamentela sulle banane”, lo si sente dire in un video postato sui social. Sarebbe stata quest’accusa a spingerlo, in un clima di proteste ed estrema tensione sociale, a suicidarsi dandosi fuoco. Poco prima, su Facebook, aveva scritto di “essersi condannato a morte”: “Non ho più energie. Fate sapere alla polizia che la sentenza sarà eseguita oggi stesso”.
La notizia del suicidio dell’ex calciatore ha fomentato la rabbia della popolazione tunisina, già mobilitata da mesi in proteste e scioperi contro il governo di Saied. I suoi funerali si sono trasformati in uno scontro tra i manifestanti e la polizia, che ha disperso la folla lanciando gas lacrimogeni.
Ritorna il fuoco nelle piazze in Tunisia, il fuoco che rievocando antichi incendi politici e sociali spaventa, terrorizza il potere, e potrebbe spingere il Presidente Saied a inasprire ulteriormente il pugno di ferro sul Paese nel tentativo di mantenersi saldo sulla sua poltrona. Era il 17 dicembre del 2010, oltre dodici anni fa, quando Mohamed Bouazizi, un fruttivendolo di 26 anni, si immolava sulla piazza del villaggio di Sidi Bouzid come Nizar Issaoui ha fatto pochi giorni fa. Il fuoco appiccato sul suo corpo avrebbe poi definitivamente infiammato la rivoluzione tunisina e in breve, da quella piazzetta sconosciuta in Tunisia, tutti i moti della primavera araba. La primavera sarebbe poi esitata nel ripristino dei vecchi regimi, se possibile più violenti e autoritari, o in estenuanti guerre civili, terreno fertile per la nascita di movimenti terroristici sanguinari, salvo che per quella che, almeno fino a qualche tempo fa, era considerata l’unica eccezione, il solo successo della rivoluzione che aveva sollevato il mondo arabo: la democrazia in Tunisia.
La rabbia e la fame – Le premesse che scatenarono la rivoluzione tunisina ci sono di nuovo tutte: l’inflazione sui prezzi alimentari, il taglio agli stipendi, la disoccupazione, la povertà. A queste si aggiunge, di nuovo, la repressione dell’opposizione politica e delle libertà fondamentali come quella di espressione. L’accusa di terrorismo e il presunto pestaggio in una stazione di polizia di un ex calciatore che si era lamentato del prezzo degli alimenti rappresentano l’emblema dell’esasperazione di un’intera popolazione.
Proteste in Tunisia, fonte Twitter
Nel 2021, il Presidente tunisino Kais Saied, al potere dal 2019, ha sciolto il Parlamento e si è attribuito pieni poteri costituzionali. L’anno dopo di quello che è stato considerato un colpo di stato ha introdotto una nuova Costituzione di stampo islamista che ha rafforzato ulteriormente i suoi poteri. Le elezioni del 2022 sono state una farsa. Nelle piazze, i manifestanti sempre più spesso chiedono le dimissioni del Presidente che in pochi anni ha definitivamente distrutto i frutti della primavera, ma la repressione continua a inasprirsi. Non solo con la violenza fisica sulle folle che protestano, ma anche attraverso una fitta rete di arresti per presunto “terrorismo” mirata a imbavagliare gli oppositori politici, i giornalisti, gli intellettuali.
Da febbraio a oggi, sono stati condannati al carcere almeno 20 “dissidenti”: tra di loro, aveva provocato particolare clamore l’arresto del direttore generale della principale emittente radio tunisina, Mosaique FM. Tra il 17 e il 18 aprile scorso, la polizia tunisina ha, inoltre, arrestato Rached Ghannouchi, il leader del principale partito di opposizione Ennahda, e poco dopo altri tre suoi funzionari. La repressione non mira ad arrestarsi.
“Basta stato di polizia!”, gridano i manifestanti nelle piazze, ma sono anche e soprattutto i motivi economici a scatenare malcontento e proteste. La Tunisia sta, infatti, attraversando la più severa crisi economica dal 2011. Il tasso di inflazione ha superato il 10% e il debito pubblico sta arrivando al 90% del PIL. Numeri che continuano a gonfiarsi quotidianamente e per i quali nei mesi scorsi le trattative del Paese di Saied con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Unione Europea sono state frenetiche. Mentre ammiccava all’Unione Europea come garante della protezione delle coste occidentali dagli sbarchi e contrattava su un prestito da 1,9 miliardi di dollari con il FMI per condizioni imposte a suo dire “inaccettabili”, Saied era riuscito a febbraio a strappare alla Banca Mondiale un finanziamento di 120 milioni di dollari per il sostegno alle piccole e medie imprese. Già a marzo, però, sempre la Banca Mondiale ha congelato una parte delle sue missioni in Tunisia: un prezzo da pagare per il razzismo senza precedenti promulgato dal Presidente tunisino, che secondo l’Istituto di Washington viola i suoi “valori di inclusione, rispetto, anti-razzismo in tutte le sue forme”.
La propaganda razziale tunisina e quella comunione di intenti con l’Italia – Schiacciato dalle proteste dei dissidenti politici e dalla rabbia sociale per la fame dilagante nel Paese, nelle scorse settimane Saied ha, infatti, optato per l’antica strategia di dirottare l’odio sui migranti, sugli stranieri. Anche nell’agenda politica tunisina, infatti, all’ordine del giorno c’è la difesa della razza. Al punto da far lanciare Saied in accuse razziali di inaudita gravità: nelle sue parole, “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana” sarebbero responsabili di “violenza, crimini e comportamenti inaccettabili” nel Paese. Non solo: l’intento criminale dei sud-africani sarebbe, secondo Saied, quello di sostituire la popolazione autoctona, facendo della Tunisia ““un altro stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”.
La conseguenza delle sue dichiarazioni è stata un’ondata di aggressioni, che molto rievocano i pogrom, da parte della popolazione tunisina contro gli immigrati sud-sahariani, improvvisamente responsabili di tutti i mali patiti dal Paese. Le reazioni delle organizzazioni internazionali come Amnesty International sono state tempestive, e anche la Banca Mondiale si è trovata, infine, costretta a congelare i suoi aiuti.
A difendere la Tunisia, però, continua a pensarci l’Italia, per il cui governo il Paese nord-africano rappresenta un fondamentale alleato per la sua politica contro gli sbarchi e in cui tra l’altro va recentemente di moda, come in Tunisia, il dibattito sulla presunta “sostituzione etnica”. L’Italia è tra l’altro il primo partner commerciale del Paese di Saied. E’ proprio per questa particolare vicinanza e i multipli interessi condivisi, che a farsi da garante di fronte al Fondo Monetario Internazionale per la Tunisia è stato proprio il governo Meloni. Il FMI aveva, infatti, chiesto a Saied un impegno nel taglio dei sussidi statali e nella privatizzazione delle compagnie pubbliche perché venisse erogato il suo prestito da 1.9 miliardi, un impegno che Saied non si è voluto assumere, troncando poco diplomaticamente il dialogo con l’Agenzia.
A fare da paciere, ci pensa la diplomazia italiana col suo pressing. L’ultima missione in questo senso risale al 13 aprile scorso, quando il ministro degli esteri Tajani ha ospitato alla Farnesina il suo omologo tunisino Nabil Ammar. Dopo l’incontro, Tajani ha ribadito quanto la Tunisia meriti il prestito internazionale e ha rassicurato sulle riforme progettate da Saied. “L’Italia è pronta a fare tutto ciò che è in suo potere per sostenere politicamente la Tunisia”, ha affermato, una dichiarazione su una comunione di intenti che alla luce della situazione politica in Tunisia dovrebbe allarmare. Per Tajani, però, i pogrom contro le minoranze sud-sahariane e gli arresti dei dissidenti sembrerebbero non esistere, dal momento che ci ha tenuto a parlare di “democrazia” nel Paese di Saied e ha chiosato, all’agenzia Nova, con una frase che suonerebbe ironica se non fosse tragica: “Non mi pare che ci siano state condanne a morte in Tunisia come è successo in Iran”. Un’ottima motivazione per garantire per la Tunisia di Saied agli occhi del mondo. Poco importa se i morti, come i suicidi incendiari, cominciano ad esserci, i quartieri dei migranti vengono presi d’assalto e le carceri si riempiono di prigionieri politici.
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TERRITORI OCCUPATI. Francesca Albanese: “Occorre applicare il diritto internazionale, no ai doppi standard dei media”
Foto di Shireen Yassin/ONU
Pagine Esteri, 21 aprile 2023 – Le violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele e il silenzio su di esse mantenuto di solito da gran parte dei media, sono al centro dell’intervista che Dalia Ismail ha realizzato con Francesca Albanese, giurista e Relatrice speciale del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, dopo la morte a Tel Aviv di un giovane avvocato italiano, Andrea Parini, investito e ucciso, non si sa ancora se intenzionalmente, da un palestinese con cittadinanza israeliana.
Da un lato i media hanno dedicato ampio spazio al presunto attentato compiuto a Tel Aviv e dall’altro hanno ignorato quanto accadeva nella Spianata delle moschee di Gerusalemme dove la polizia ha brutalmente picchiato, ferito e arrestato centinaia di fedeli.
In questo momento di dolore e confusione, è importante che tutti agiscano con contegno e rispetto per le vittime. Si deve attendere una rigorosa indagine sulle circostanze che hanno portato alla morte di Alessandro Parini. Fino a quando non si sia chiarita la dinamica dei fatti, bisognerebbe evitare di etichettare l’episodio come “terrorismo”. In generale, e anche in questo contesto specifico, Israele applica una definizione molto ampia di terrorismo ai palestinesi, violando i principi fondamentali di certezza del diritto, mens rea, materialità del reato e proporzionalità della pena. Come dimostra il caso della morte di Parini, c’è sovente una presunzione di colpevolezza nei confronti dei palestinesi fino a prova contraria, perché nella logica del governo israeliano, i palestinesi sono associati ontologicamente alla resistenza e al terrorismo, indipendentemente dalla contestualizzazione di ogni evento. Questa visione propugnata da successivi governi israeliani ha influenzato fortemente il dibattito politico in Italia e i nostri media, che associano i palestinesi e ogni azione, anche quando non implichi l’uso della forza, al terrorismo. Tuttavia, lo stesso non accade quando sono gli israeliani a perpetrare o autorizzare atti che mirino a diffondere il terrore e la paura in una popolazione al fine di raggiungere uno scopo ideologico. Il doppio standard applicato in questo modo dimostra una mancanza di profondità analitica e una preoccupante ignoranza dei fatti, sia attuali che storici. È importante mettere in evidenza questa problematica e agire di conseguenza, senza distogliere lo sguardo dalle vere questioni di rilevanza internazionale e dal diritto come strumento indispensabile per la risoluzione dei conflitti.
A suo parere come si potrebbe definire ciò che è accaduto a Tel Aviv? “Attentato” è il termine appropriato dato che non si conosce nulla dell’indagine e anche se sia ancora in corso una indagine obiettiva sulla morte di Andrea Parini?
Ci sono versioni discordanti, risultati di indagini preliminari che si contraddicono. Attendo il risultato finale delle indagini augurandomi che siano trasparenti e rigorose. Altra cosa interessante è il fatto che il palestinese alla guida dell’auto, era un palestinese del ’48 ovvero di cittadinanza israeliana. Cioè un palestinese che, secondo la narrazione israeliana e che è promossa anche qui in Italia, non è per niente discriminato. Significativo, no? Qual è la condizione dei palestinesi del’48 vivendo proprio nel ventre dell’occupante? Sono per alcuni sensi più privilegiati degli altri ma rimangono a tutti gli effetti cittadini di serie B, da quando nel 2018 è passata la legge “Israele Stato-Nazione degli Ebrei”. Il mio mandato comprende la situazione nel territorio palestinese occupato dal 1967 e pertanto non include i Palestinesi cittadini di Israele. Quindi non mi compete una disamina approfondita sul livello di discriminazione cui questi ultimi sono soggetti. Tuttavia vi sono diversi rapporti (per esempio, Amnesty International e ESCWA) che documentano tale discriminazione nei confronti dei Palestinesi cittadini di Israele. Ma c’è anche un consenso sul fatto che la discriminazione nei confronti dei Palestinesi sotto occupazione militare dal 1967 sia ben più severa perché include la legge marziale e l’esistenza di corti militari per giudicare i Palestinesi della Cisgiordania e un blocco marittimo, terrestre e aereo imposto da Israele su Gaza che dal 2006 limita l’accesso dei palestinesi ivi residenti a beni di prima necessità, compresi cibo, acqua, medicine e attrezzature mediche. È chiaramente importante mantenere l’attenzione sulla situazione di tutti i palestinesi sotto il controllo israeliano (incluso quelli in Israele) perché nessuno dovrebbe essere discriminato in virtù della propria identità nazionale.
Come si spiega il disinteresse dei principali media italiani per il violento pestaggio dei fedeli compiuto dalla polizia israeliana alla moschea di Al Aqsa.
Ci sono diversi fattori che potrebbero contribuire all’assenza di copertura mediatica sui recenti eventi a Gerusalemme Est e alla moschea di Al Aqsa da parte dei media italiani principali. Potrebbe essere che le redazioni dei media italiani non considerino la questione israelo-palestinese una priorità o che esistano pressioni politiche e/o economiche che ne limitino la copertura. Potrebbe inoltre esserci una mancanza di conoscenza e di competenza tra i giornalisti italiani riguardo alla questione. Non escludo casi di autocensura da parte di giornali e giornalisti, a causa della strategia di bollare qualsiasi discussione critica sulle politiche ed azioni dello Stato israeliano come antisemita. Resta il fatto chela maggioranza dei media tradizionali in Italia parla della questione israelo-palestinese attraverso la narrazione di fatti specifici, quasi sempre quando sono coinvolte vittime israeliane, senza discutere il contesto storico e fattuale, e le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale perpetrate dall’esercito israeliano o dai coloni a danno del popolo palestinese. In tal senso la narrazione è vicina a quella propugnata dai governi israeliani, ed ignora tanto i palestinesi che gli israeliani critici delle politiche del governo, quanto centinaia di risoluzioni e rapporti ONU e di organismi non governativi. È molto importante continuare ad incoraggiare i media a fornire una copertura equilibrata e accurata dei fatti e i lettori a rimanere critici e cercare informazioni da diverse fonti per avere una visione più completa dei fatti.
Per gran parte della stampa occidentale un morto israeliano sembra pesare sulla bilancia di più rispetto a un morto palestinese, anzi a tanti morti palestinesi. Come se lo spiega?
Effettivamente questo doppio standard da parte di molti media italiani ed europei è un problema grave e preoccupante che contribuisce alla percezione distorta della realtà e alla mancanza di equilibrio nella copertura mediatica. Questa dinamica è stata resa accettabile al pubblico attraverso la narrativa predominante che enfatizza la minaccia percepita da Israele e minimizza la sofferenza dei palestinesi. Pertanto, la narrazione dominante nei media spesso dipinge i palestinesi come terroristi o agitatori, mentre gli Israeliani vengono dipinti come vittime. Ciò contribuisce alla deumanizzazione dei Palestinesi e alla diminuzione dell’empatia nei loro confronti. Un fattore che credo contribuisca a questa dinamica sono i gruppi di pressione pro-israele in molti paesi occidentali, che influiscono sulla copertura mediatica e sulle politiche dei governi. Questi gruppi additano qualsiasi critica allo stato israeliano come antisemitismo, creando un clima di intimidazione e di censura delle voci che esprimono opinioni diverse. Inoltre, la logica del conflitto falsa la natura asimmetrica della relazione tra Israele, Paese industrializzato e potente, e i Palestinesi, popolo oppresso e dal potere limitato. Questa asimmetria si riflette anche nella copertura mediatica, dove le morti di israeliani sono enfatizzate rispetto alle centinaia di palestinesi uccisi durante il conflitto.
Nel diritto internazionale, la legittima difesa comprendente anche l’utilizzo della reazione armata. La difesa della propria integrità territoriale e indipendenza politica è contemplata da una norma consuetudinaria che trova conferma nell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Se ne è parlato molto nell’ultimo anno riguardo al conflitto in Ucraina. Perché nel caso palestinese viene sistematicamente delegittimato l’utilizzo delle armi?
La legittimità dell’uso della forza per l’autodifesa è una questione fondamentale del diritto internazionale. Secondo il principio del jus ad bellum (termine latino che si riferisce alle circostanze in cui è lecito usare la forza militare da parte degli stati) l’uso della forza è legittimo solo in caso di una minaccia effettiva o imminente di attacco armato, e solo se l’uso della forza impiegata è necessario e proporzionato a tale attacco o minaccia imminente. Questo principio si applica anche all’occupazione militare, che, indipendentemente dalle circostanze della sua introduzione, costituisce essa stessa un uso della forza che deve rispettare i prerequisiti della legittima difesa.
La Striscia di Gaza è sotto assedio dal 2007 e le alture del Golan siriane sono sempre occupate da Israele nonostante la risoluzione 497 del Consiglio di sicurezza dell’ONU che dichiara nulla e senza effetti legali internazionali l’annessione israeliana di quella parte di territorio siriano. Quanto contano realmente le risoluzioni dell’Onu? E perché è impossibile farle rispettare?
La forza del diritto internazionale risiede nella capacità degli Stati di farlo applicare. In mancanza di una effettiva pressione da parte della comunità internazionale, Israele può continuare un’occupazione militare sempre più pressante in patente violazione del diritto internazionale, incluso i principi fondanti dell’ONU. Questo rappresenta una minaccia all’efficacia del diritto internazionale e all’autorità delle Nazioni Unite come organismo garante degli equilibri internazionali. L’eccezionalismo riservato ad Israele contribuisce a creare danni irreparabili al diritto internazionale e alla possibilità di risolvere conflitti nel rispetto delle leggi internazionali.
Il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) promuove il boicottaggio di Israele in risposta alle sue politiche nei confronti dei palestinesi. Israele respinge il boicottaggio e combatte il BDS. Lei pensa che quella del movimento BDS sia una campagna legittima?
Il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) è una campagna di pressione non violenta che mira a porre fine all’occupazione israeliana del territorio palestinese, al riconoscimento dei diritti dei palestinesi e alla fine della discriminazione contro di loro. Molti gruppi e individui a livello internazionale si sono uniti alla campagna del BDS, e questo ha suscitato una forte reazione da parte di Israele e alcuni suoi alleati, che hanno persino cercato di criminalizzare il BDS e le sue attività di solidarietà nei confronti dei palestinesi. Detto questo, il successo effettivo del boicottaggio é difficile da valutare in modo rigoroso visto che dipende da molti fattori. In ogni caso, il fatto che la campagna BDS sia stata in grado di suscitare una reazione così forte suggerisce che stia avendo un impatto significativo sulla discussione internazionale sui diritti dei palestinesi e sull’occupazione israeliana.
Amnesty, Human Rights Watch e anche l’Ong israeliana B’Tselem accusano Israele di praticare l’Apartheid contro i palestinesi. Israele replica descrivendo questa accusa una forma di antisemitismo. Qual è il suo giudizio?
Dalla documentazione di vari episodi di attacchi ad hominem sferrati ai critici delle pratiche del governo israeliano verso i palestinesi si evince che uno degli strumenti chiave per castigare il dibattito su Israele/Palestina in Occidente sia stata la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA/ Alleanza Internazionale della Memoria dell’Olocausto). Tale definizione, oltre a non essere chiara, accorpa all’antisemitismo qualsiasi tipo di critica alle pratiche del governo israeliano. Purtroppo, tante istituzioni, incluso atenei e scuole pubbliche di ogni ordinamento (molti in buona fede altri sotto pressione politica) hanno adottato l’IHRA, strumento pericolosissimo per la libertà d’espressione e inadeguato a proteggere gli ebrei dall’antisemitismo che ancora esiste ed è reale. L’Italia ha un ordinamento giuridico solido e una costituzione che sono gli strumenti principi per la protezione da discriminazione e antisemitismo. Non serve una definizione, per altro criticatissima da centinaia di intellettuali e studiosi, prevalentemente storici della Shoah, del Genocidio ed esperti di religione e cultura ebraica, a proteggere dall’antisemitismo soprattutto quando questa é estremamente problematica e pericolosa come l’IHRA. Gli spazi del dibattito pubblico devono rimanere luoghi di esercizio del pensiero libero, e dovrebbero dunque rimanere indenni alle logiche e agli interessi della politica. Pagine Esteri
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Un ufficiale Italiano volerà alla base della Us Space Command
Cresce il legame tra Italia e Usa nello spazio. Lo testimonia il Memorandum of agreement (Moa) per l’assegnazione di un ufficiale di collegamento italiano presso l’United States Space Command (Usspacecom). A siglare l’accordo per il nostro Paese è stato il Capo ufficio generale spazio dello Stato maggiore della Difesa, il generale Davide Cipelletti, mentre in rappresentanza degli Stati Uniti vi era il comandante dello Usspacecom, il generale James Dickinson. Tale iniziativa rappresenta non solo un importante catalizzatore della cooperazione con gli Usa, ma anche un’opportunità per sviluppare nuove sinergie con altri Paesi presenti presso il comando spaziale statunitense.
Si rafforza la cooperazione in orbita
Nel dettaglio, l’ufficiale di collegamento condividerà con l’Usspacecom le competenze e le conoscenze acquisite grazie alle Forze armate italiane e si occuperà di facilitare le comunicazioni tra le unità spaziali di Roma e Washington. Non solo, sosterrà inoltre le opportunità di partnership che potranno aprirsi tra i due Paesi nel settore spaziale così come della Difesa. Gli ufficiali di collegamento con l’estero sono interlocutori diretti del quartier generale, in questo caso la Peterson air force base, e l’ufficiale italiano servirà come rappresentante nazionale per tutti gli aspetti della cooperazione tra l’Italia e lo Usspacecom per quanto riguarda l’uso militare dello spazio.
Gli altri memorandum
“Nello scenario geopolitico attuale, lo spazio è un dominio strategico che richiede collaborazione tra Alleati. L’importante accordo sottoscritto tra lo Stato maggiore della Difesa e l’Us Space Command consentirà di sviluppare sinergie e facilitare scambio di esperienze”. Così ha commentato il nuovo memorandum oltreoceano il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Quella che lega Italia e Usa nel settore spaziale è in realtà una relazione di collaborazione di lunga data, che ha portato a risultati molto significativi, tra gli ultimi quelli della missione Artemis. Sono infatti diversi i memorandum stretti tra Roma e Washington. Da quello per l’accesso al servizio cifrato del Gps, allo scambio di dati e informazioni di Space situational awareness (Ssa), fondamentale per effettuare manovre orbitali in sicurezza evitando il rischio di collisioni con altri satelliti operativi e la conseguente produzione di detriti (debris) spaziali.
Simposio spaziale
A fare da sfondo del memorandum è stata la 38esima edizione dello Space Symposium, che si sta svolgendo a Colorado Springs e a cui partecipa una delegazione italiana dello Stato maggiore della Difesa, guidata proprio dal generale Cipelletti. L’Ufficio generale spazio accentra infatti in sé le funzioni connesse all’elaborazione della dottrina, all’avvio di nuovi programmi, così come allo sviluppo di partnership nazionali e internazionali e all’evoluzione delle capacità spaziali. Il Simposio si propone di riunire i principali stakeholder del comparto, quali i leader del settore spaziale commerciale, governativo e militare provenienti da tutto il mondo per promuovere un forum di discussione per affrontare e pianificare le future conquiste e sfide in campo spaziale.
Filippine. Il Partito Comunista denuncia: “i nostri leader torturati e uccisi”
di Redazione
Pagine Esteri, 20 aprile 2023 – Il Partito comunista delle Filippine (Cpp), che dal 1969 conduce una guerriglia a bassa intensità contro il governo, ha confermato oggi la morte dei suoi leader, Benito Tiamzon e Wilma Austria-Tiamzon, accusando le forze armate di averli torturati e uccisi lo scorso 21 agosto.
Il Partito ha riferito tramite una nota di aver dovuto condurre mesi di indagini per poter confermare la morte del presidente del suo comitato centrale, Benito “Ka Laan” Tiamzon (71 anni), e di Wilma (70 anni), nota anche come “Ka Bagong-tao”, che del partito era segretaria generale.
Prima dell’annuncio ufficiale del Cpp, diffuso ieri, si supponeva che i due leader fossero morti nell’esplosione di una imbarcazione al largo della costa di Samar durante un blitz condotto dalle forze armate filippine.
Ora, dopo l’indagine, il partito nega questa ricostruzione e sostiene che i due leader e altri otto membri della formazione siano stati attaccati dalle forze armate mentre viaggiavano verso Catbalong. Catturati dai militari, sarebbero stati torturati e uccisi, e i loro cadaveri caricati su una imbarcazione a motore che è stata fatta esplodere.
«Secondo le informazioni raccolte dal Comitato centrale, i Tiamzon hanno subito pesanti percosse per mano dei loro sequestratori. Rapporti interni citano testimoni che hanno visto come i volti e i corpi delle vittime fossero dilaniati, apparentemente colpiti con oggetti contundenti», afferma la nota del Cpp.
«I corpi già senza vita dei Tiamzon e del loro gruppo sono stati scaricati su un motoscafo pieno di esplosivo e trascinati da Catbalogan a metà strada verso l’isola di Taranganan prima che venisse fatta esplodere» ha riferito Marco Valbuena, capo ufficio stampa del Cpp.
Assieme ai leader del partito, sono stati uccisi anche il segretario subregionale dell’Est, Visayas Joel Arceo, e membri del quartier generale centrale della guerriglia. I Tiamzon erano già stati arrestati dalle autorità filippine nel 2014, ma erano poi stati rilasciati dopo due anni per consentire loro di partecipare a colloqui di pace col governo filippino all’epoca della presidenza di Rodrigo Duterte.
I negoziati sono in seguito naufragati, e nel 2020 i Tiamzon sono stati condannati per la cattura di alcuni ufficiali dell’esercito nel 1988, condanna cui è seguita una vasta caccia all’uomo culminata nella loro cattura e uccisione. – Pagine Esteri
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La falsa contrapposizione tra Europa e Usa
Bene ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a sottolineare, nel suo discorso tenuto durante la visita in Polonia, che “l’aggressione russa riguarda tutti i paesi che si richiamano alla libertà delle persone e dei popoli”. Ed è decisivo, va aggiunto, per la sopravvivenza stessa dell’Unione europea. Da come si concluderà la barbara aggressione scatenata dalla Russia di Putin nei confronti dell’Ucraina dipenderà se il mondo di domani sarà più o meno favorevole al perdurare del progetto di un’Europa unita. Nel mondo che ci aspetta, l’Unione rappresenterà ancora l’avanguardia di una tendenza verso la progressiva affermazione della supremazia della legge sulla forza, oppure sarà invece l’anacronistico residuo di un trend declinante, un esperimento destinato a estinguersi perché “unfit to survive”?
E’ tutta qui la questione. Ed è un punto che travalica e trascende qualunque considerazione sulla necessaria “autonomia strategica dell’Unione”, perché ci smuove da quella sorta di “comfort zone” nella quale troppe considerazioni sull’atteggiamento europeo nei confronti della guerra sembrano illudersi di potersi rintanare. Se il mondo che verrà sarà o meno ospitale nei confronti del progetto europeo dipenderà anche dalle decisioni che oggi sapremo assumere e dalla fermezza che sapremo mantenere riguardo ai nostri princìpi. Viviamo già in una realtà che è costituita di scatole cinesi (o di matrioske, se si preferisce un’altra immagine) in cui la sicurezza e le prospettive delle singole democrazie nazionali dipendono in maniera strutturale dalla saldezza delle istituzioni europee e dalla tenuta del Patto atlantico. Ma di cinese o di russo, queste scatole e queste bamboline non hanno proprio nulla, perché la loro natura è totalmente occidentale.
La sfida che i dispotismi hanno lanciato alle democrazie liberali non riguarda la continuità dell’interdipendenza planetaria, ma le modalità e i princìpi in base ai quali essa verrà governata. Stiamo già sperimentando le difficoltà che incontra l’Unione europea – la più audace novità istituzionale dopo quella dello stato costituzionale teorizzata da Montesquieu a metà del XVIII secolo – nell’ambito di un sistema internazionale che resta ancora definito dall’egemonia dell’ordine liberale. Qualcuno può forse illudersi che tali difficoltà diventerebbero meno gravose da affrontare all’interno di un ordine ispirato ai princìpi del dispotismo? Credo sarebbe difficile poterlo argomentare.
Contrapporre l’europeismo all’atlantismo non significa solo ignorare e falsificare la storia, che ha visto il primo potersi trasformare in realtà al riparo della protezione offerta dal secondo. Implica anche ipotecare la sopravvivenza del “nostro mondo”, e gettare le premesse di un fallimento dal quale potremmo non risollevarci. Il nostro mondo non è minacciato dalla sostituzione etnica o da altre bufale strampalate che rivelano l’incapacità di liberarsi dai residui tossici di una subcultura fascistoide. E neppure lo è da nessuna nuova edizione del vecchio rottame del complotto “demoplutogiudaicomassonico”, che oggi si pretenderebbe incarnata da George Soros. Il nostro mondo – e i valori e i princìpi che lo rendono possibile – è sottoposto all’attacco dei dispotismi dei loro disvalori, che vorrebbero rigettarci in un girone dantesco fatto di violenza e sopraffazione dal quale siamo riusciti a liberarci a costo di immani sacrifici ridefinendo l’essenza dell’occidente nella triade costituita da democrazia rappresentativa, economia di mercato e società aperta.
Questa è la minaccia esistenziale che stiamo fronteggiando. Questa è la posta in gioco in questa guerra in Ucraina: una posta in gioco non diversa da quella che le democrazie dovettero affrontare nella lotta contro i totalitarismi che, nel 1939, sfociò nella Seconda guerra mondiale e che vide, per nostra fortuna, soccombere la Germania nazista e l’Italia fascista sua alleata. Una lotta che sembrò definitivamente vinta nel 1991, con il crollo del totalitarismo sovietico e che invece oggi si ripropone in una nuova e più difficile fase. In questa terza fase, l’Europa unita è chiamata, nella sua inedita e articolata soggettività politica, a dimostrare di volere e poter fare la differenza, per consolidare il suo – ovvero il nostro – futuro.
L'articolo La falsa contrapposizione tra Europa e Usa proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Sarà natale
Lasciamo perdere il colore politico e facciamo finta che se ne parli non solo seriamente, ma anche concretamente. È un gran bene che si voglia incentivare la partecipazione femminile al lavoro, oggi molto bassa, assai sotto la media europea e contribuente a metterci in fondo alla coda in quanto a partecipazione complessiva. Ed è un gran bene volere incentivare la natalità. Ma “incentivare” non significa nulla. Come?
La prima cosa è osservare l’accoppiata e capirne la natura: in un colpo solo lavoriamo meno, abbiamo meno donne occupate e facciamo meno figli. Non solo, quindi, non è il lavoro a distrarre o allontanare dalla filiazione, ma si fanno più figli in Paesi europei dove si lavora di più e più donne sono al lavoro. Quindi buttiamo dalla finestra qualche luogo comune che acceca troppi militanti del partito preso. E guardiamo altre esperienze: la Germania aveva un mercato del lavoro simile al nostro, con scarsezza di donne impegnate e scarsezza complessiva di lavoratori, ed hanno affrontato il problema varando forme contrattuali estremamente elastiche (anche con i “mini-lavori”) e aumentando l’immissione di immigrati. Risultato: dopo anni si ritrovano con più lavoratrici e meno scarsezza (che permane) di manodopera, nonché ad alzare il salario minimo. È chiaro, dalle parti del governo? Non è: o le donne o gli immigrati, ma le donne e gli immigrati. I dati tedeschi sono a disposizione di chi voglia occuparsene senza andare avanti a mosca cieca.
Poi c’è il versante non contrattuale, ma relativo ai servizi. I figli non si deve solo farli nascere (che è facile), ma anche crescerli (che è più lungo e complicato). Asili, scuole, tempo pieno, mense, sport, trasporti. Tutti capitoli del Pnrr. Però gli asili sono già pericolanti, con i comuni in grave difficoltà progettuale e amministrativa. Per incentivare la natalità si devono risolvere quei problemi, non far decollare le cicogne o irrigare i cavoli. Al momento ricordo che: a. per il ministro Fitto è tutto in ordine e in tempo (voglia il cielo); b. per il ministro Zangrillo le proposte di modifica del Pnrr arrivano a fine mese, ma con calma; c. per la Lega si dovrebbero prendere meno soldi; d. intanto il governo ne chiede di più sul lato Repower Eu. Più continua questo frullato, meno si pensa il futuro sia tranquillo e meno ci si dispone a ripopolarlo.
Sul lato opposto dell’arco vitale ci sono gli anziani, che crescono di numero e richiedono servizi e disponibilità sanitarie. Il che, anche in questo caso, rientra nei piani Pnrr, ma chiede anche più immigrati. Chi se ne chieda il perché faccia un salto nelle apposite residenze o guardi la composizione del mondo degli infermieri. Senza quei servizi qualcuno resta di guardia all’anziano, che sarà fonte di reddito grazie alla pensione (che i nipoti non avranno), ma farà preferire una rendita alla produzione. E porta male.
Pare il ministro dell’economia s’appresti a proporre fiscalità per la natalità. Interessante. Leggeremo con attenzione. Osserviamo che: 1. i bonus non risolvono neanche uno dei problemi indicati e partono dal presupposto indimostrato che non si facciano figli per mancanza di soldi.
2. se (come si legge) si dovesse sgravare dalle tasse chi fa figli, supponendo si stia parlando dell’Irpef, questa sarebbe una misura a favore dei “ricchi” (secondo il fisco), perché i poveri, grande maggioranza contabile, già non pagano Irpef. Sarebbe una strana misura.
Il tutto tenendo presente che, salvo colpi di scena, la genitorialità è una libera scelta insindacabile, che si può esercitare grazie al progresso e che ha senso solo con la ricchezza (i poveri veri figliano pure troppo). Escludendo che per far fare figli ci si voglia impoverire, ne discende che l’incentivazione consiste nel liberare dalle costrizioni successive al natale, lasciandone intatta la magia. Non servono predicozzi, ma spinta alla crescita e ragionevole positività guardando il futuro. Il resto è colore. Ma molto sbiadito e noiosamente ripetitivo nella sua inutilità.
L'articolo Sarà natale proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
L’importanza del soldato e investimenti Ue. Il punto sulla Difesa all’evento con Serino
A oltre un anno dall’inizio dell’invasione russa di Kiev, è giunto il momento di fare una riflessione accurata delle capacità necessarie alla Difesa per affrontare le sfide del prossimo futuro, e in particolare quelle della componente terrestre, che ha visto un ritorno della centralità strategica sui cambi di battaglia ucraini. È quanto sottolineato dal capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Pietro Serino, nel corso dell’evento “Difesa terrestre. Un piano europeo tra investimenti e competitività”, organizzato da Formiche e Airpress a Spazio Europa, promosso da FDA Beretta e con la partnership della Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Un momento di riflessione sulla dimensione terrestre che ha visto il generale Serino confrontarsi con Carlo Ferlito, direttore generale di Fabbrica d’Armi Pietro Beretta; Andrea Margelletti, presidente Centro studi internazionali (Cesi); con le conclusioni di Matteo Perego di Cremnago, sottosegretario alla Difesa, e la moderazione di Flavia Giacobbe, direttore delle riviste Formiche e Airpress.
Parola d’ordine: equilibrio
“La parola che voglio valorizzare è equilibrio” ha detto ancora il capo di Stato maggiore dell’Esercito. Un equilibrio che deve caratterizzare “lo strumento militare nazionale nella sua interezza, e quello terrestre nello specifico, che deve essere equilibrato e deve considerare tutte le condizioni di impiego, nessuna meno dell’altra”. Secondo il generale, in passato si è data priorità ad alcune caratteristiche a scapito di altre, ma i moderni scenari aperti dalla guerra in Ucraina impongono un ripensamento del trend. Oggi “il focus deve essere su tutto lo spettro di missioni affidate all’Esercito, i cui nuovi compiti non si sono sostituiti ai precedente, si sono aggiunti”. Il generale ha infatti ricordato i numerosi impegni della Forza armata, sia sul territorio nazionale, sia all’estero, dal Nord Africa al Medio Oriente e ai Balcani, dove tra l’altro l’Italia esprime anche ruoli di comando come in Iraq e in Kosovo. Certamente la guerra in Ucraina ha dimostrato la necessità della componente pesante, ha confermato Serino, tuttavia questo deve essere solo uno degli assi di potenziamento della Forza armata, senza abbandonare quanto raggiunto finora e che continua ad essere necessario. Dal punto di vista europeo, “l’Ue deve capire se vuole e crede in una capacità militare comune, e questo richiederà una seconda rinuncia di sovranità, dopo quella monetaria: quella tecnologica”. Se continuerà la competizione tra nazioni, con ciascuna impegnata “a portare avanti il suo piccolo elemento, scopriremo domani che lavorare tutti insieme sarà più difficile”.
Il sistema-soldato
“Quando si parla di sistemi terrestri si pensa al carro armato e all’artiglieria pesante, non si pensa al soldato”, ha detto Carlo Ferlito, ricordando come invece ci sia bisogno di considerare l’uomo come “sistema, inserito in un insieme di sistemi complessi che operano nello scenario multidominio”. In questo campo il nostro Paese è all’avanguardia, grazie “al lavoro svolto con il progetto Soldato futuro, trasformato poi in Forza Nec, che ha creato la visione del soldato come sistema”. In Italia oggi è attivo una configurazione del militare portata avanti dal consorzio per Soldato sicuro, “che si occupa di mettere assieme le capacità dell’industria per fornire tutto l’equipaggiamento del soldato”. All’intero di questo consorzio (gestito al 38% da Beretta e al 68% da Leonardo) è coordinata l’intera filiera italiana che si occupa delle forniture per l’equipaggiamento del soldato, non solo le armi, ma anche “la suite per l’abbigliamento, visori notturni e diurni, munizioni”. Questa eccellenza italiana, tra l’latro, potrebbe essere portata anche a livello europeo, dove l’importante sarà anche poter contare “su una filiera europea sicura”. Per fare ciò, indispensabile per l’industria è poter contare “su programmi di lunga durata, necessari per costruire investimenti e fare innovazione”.
Le lezioni ucraine
Per Andrea Margelletti, “questo conflitto ha posto degli interrogativi, e dobbiamo domandarci se stiamo andando nella giusta direzione alla luce di un mondo completamente diverso”. L’Ucraina ha cambiato lo scenario di sicurezza globale, per il quale sarà necessario affrontare le necessità e potenziare le capacità di agire della Difesa. “Dobbiamo immaginare reparti nuovi per un mondo nuovo, assicurandoci che quello che sappiamo fare sia anche quello che dobbiamo fare”. Fondamentale sarà anche il ruolo dell’Europa, e “di una governance europea”, necessaria “se vogliamo avere un Difesa europea”, e soprattutto di una sincronizzazione delle industrie del Vecchio continente.
Investimenti europei
Il contesto terrestre rappresenta un elemento importante della Difesa, soprattutto nel suo necessario approccio alle operazioni multi-dominio, ha ricordato Matteo Perego di Cremnago nelle sue conclusioni, sottolineando come “non può esistere la Difesa associata ad un singolo elemento/dimensione, soprattutto oggi che le minacce ibride e convenzionali sono multi dominio”. Per questo è necessario “assicurare gli investimenti per dotare le forze armate delle capacità per operare nel futuro contesto interconnesso”. Tutto questo “ebbe ispirare l’elaborazione e l’attuazione di un piano europeo di investimenti”, seguendo in particolare gli indirizzi e le decisioni raccolte dalla Bussola strategica del 2022, dandole piena attuazione. “L’Ue deve prepararsi al meglio alle sfide emergenti – ha continuato Perego – provvedendo a proteggersi dalle minacce ibride, rafforzando la dimensione di sicurezza e difesa, accrescendo la mobilita militare nel Vecchio continente e dando seguito agli investimenti racchiusi nella Bussola”. Questo potrebbe rappresentare anche per l’Italia una grande possibilità, grazie alle sue “risorse intellettive e creative con le sue aziende per la Difesa comprese le Pmi”, affinché sia un processo “vincente e stimolante per il bene non solo della Difesa e sicurezza nazionale ma anche per l’economia del Paese”.
Accollati
A forza di dire che si mette il costo dei consumi odierni e del debito pubblico sulle spalle dei figli non ci si è accorti che i figli siamo noi. La nostra spesa per pagare gli interessi sul debito pubblico non è solo la più alta d’Europa, in rapporto al prodotto interno lordo, ma è più del doppio della media. Significa che, mediamente, ciascun italiano di oggi, non i nostri figli, ha 1012 euro in meno in tasca l’anno, rispetto a un tedesco; 733 in meno rispetto a uno spagnolo; anche se solo 153 meno di un francese (e si spera sia chiaro con chi abbiamo interessi in comune, rispetto alla riscrittura del patto di stabilità).
Che i tassi d’interesse sarebbero saliti era scontato, ma quelli europei sono ancora sotto i praticati in Usa o Uk. Inoltre abbiamo a disposizione la linea di credito europea Ngeu, che costa meno degli attuali valori di mercato, e una quota a fondo perduto. Abbiamo gli strumenti, quindi, per fare la sola cosa sensata: puntare a far crescere la ricchezza nazionale più velocemente del costo del debito, in modo da riassorbirlo gradualmente. Ed è qui che arriva lo stupefacente e si sente sostenere lo sconcertante.
Si sente dire: sapete che c’è? I fondi europei costano sì meno del debito preso sul mercato, ma tocca lavorarci e investirli, perché non ci rinunciamo? Poi tocca anche fare le riforme, ma perché non si fanno gli affari loro? Tanto s’è trovata la formula magica: saranno gli immigrati a pagare tutto. Dopo anni passati a parlare di muri e chiusure, accadono due cose: il governo di destra conferma quel che si trova scritto, da lustri, in tutti i Documenti di economia e finanza, ovvero che i conti pubblici si tengono in equilibrio solo se si mettono molti più immigrati al lavoro (170mila, ogni anno, tutti gli anni); poi arriva il presidente dell’Inps a sostenere che saranno gli immigrati a pagarci le pensioni. Entusiasmo avvincente, ma non ci hanno capito niente.
Tridico, Inps, è il più sincero. Non crede, gli chiedono, che il reddito di cittadinanza, da lei sostenuto, sia fallito? No, risponde, è solo mancato il contorno: gli uffici del lavoro, le politiche di formazione e quelle attive del lavoro. Ha ragione, ha funzionato solo il dare (buttare) quattrini, presi a prestito. Che come fallimento non è neanche normale, ma una bancarotta materiale e morale. E questa è l’Italia che ora dice: facciamo pagare gli immigrati. Non sia mai che le pensioni le facciamo pagare agli evasori fiscali e previdenziali, quelli condoniamoli.
Il prof. Luca Ricolfi, che potete leggere qui a fianco, aveva elaborato un concetto avvincente: la società signorile di massa. Ovvero una società in cui tutti si è signori, scaricando i lavori pesanti o sgradevoli sugli immigrati, pagandoli poco. Ora pure debito e pensioni. Come dire: entrate senza fare rumore, non sporcate, non disturbate e pagate. Temo che si sia al passo successivo, rispetto a quanto descritto da Ricolfi, siamo alla: nobiltà decadente di massa. I soli a viaggiare, conoscere il mondo, spendere molto e non produrre un accidente, vendendo prima le terre e poi il diroccato maniero avito.
Ben triste la nostra sorte se vivessimo per accollarci ad altri. La nostra vocazione deve essere quella che si vede al salone del mobile e nelle esportazioni: innovazione, coraggio, inventiva. Ma per riuscirci serve studio, lavoro, passione e fatica. Fatica. Accollati si diventa subordinati. Se un briciolo d’orgoglio c’è ancora nella politica capiscano tutti, a destra e sinistra, che l’Italia ha bisogno d’essere scossa non consolata, spronata non assistita, alleggerita non gravata. La società della rendita, basata sul debito, rende schiavi. Oggi, non in un futuro indefinito. Pensare di evitarlo schiavizzando altri non è neanche inaccettabile, è proprio da scemi.
L’Italia che pedala non fa distinzioni fra indigeni o immigrati, nei diritti e nei doveri, sa che il lavoratore va rispettato e il mantenuto scaricato. Oltre che civile, quell’Italia, è consapevole del proprio interesse.
L'articolo Accollati proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
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Israele rafforza i legami con l’Azerbaigian in vista di una guerra con l’Iran
di Michele Giorgio
(nella foto di archivio il premier israeliano Benyamin Netanyahu con il presidente azero Ilham Aliyev)
Pagine Esteri, 20 aprile 2023 – A Baku per rafforzare i rapporti già stretti con l’Azerbaigian, quindi ad Ashgabat per inaugurare l’ambasciata israeliana in Turkmenistan ad appena 20 chilometri dal confine con l’Iran. È stato, tra martedì e oggi, un inizio settimana intenso per Eli Cohen con il quale il ministro degli esteri israeliano ha provato a compensare in Asia centrale le battute di arresto subite dagli Accordi di Abramo nelle ultime settimane. L’Arabia saudita, candidata nelle speranze del governo di estrema destra guidato da Benyamin Netanyahu, ad aderire alla normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e Stato ebraico, si sta riconciliando con l’Iran nemico di Israele e a inizio settimana ha ricevuto a Riyadh i leader del movimento islamico Hamas. Il trattato di pace con il Sudan, precipitato in violenti scontri tra i militari golpisti, appare più lontano rispetto alle tappe che proprio Cohen aveva fissato a Khartoum appena qualche settimana fa.
Cohen ieri ha dichiarato che è sul tavolo una sua visita a Riyadh anche se la data non è stata fissata. A diversi analisti le sue parole sono apparse un modo per parare i colpi e fare pressioni sulla monarchia Saud.
A Baku invece le cose vanno sempre meglio per Israele e i suoi piani strategici militari ed economici. Della delegazione al seguito di Cohen hanno fatto parte anche una trentina di imprenditori. Una presenza che dichiara l’intenzione israeliana di aumentare oltre alla vendita di armi all’Azerbaigian – si devono anche alle forniture di droni killer i successi militari di Baku a danno degli armeni nella regione contesa del Nagorno-Karabakh – anche gli scambi commerciali che si aggirano al momento intorno ai 200 milioni di dollari all’anno. Gli azeri inoltre coprono il 30% del fabbisogno israeliano di petrolio.
Cohen a Baku ha incontrato il presidente Ilham Aliyev e diversi ministri, due settimane dopo l’inaugurazione dell’ambasciata azera a Tel Aviv, la prima in Israele di un paese a maggioranza sciita. I media israeliani hanno dato parecchio spazio al viaggio del ministro degli esteri a Baku descrivendolo come una risposta alla «crescente influenza dell’Iran nella regione». «Israele e Azerbaigian stanno rafforzando la loro alleanza politica e di sicurezza» si legge in un comunicato diffuso da Cohen, «ho incontrato il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e abbiamo parlato delle sfide strategiche che condividiamo, in primo luogo la sicurezza regionale e la lotta al terrorismo». Quindi il ministro israeliano è andato al punto centrale. L’Azerbaigian, ha detto, «gode di una posizione strategica nel Caucaso meridionale».
Più volte si è parlato dell’Azerbaigian, che mantiene rapporti tesi con Teheran, come di una possibile base per un attacco israeliano alle centrali atomiche iraniane. Baku ha smentito, anche di recente, questa opzione. Tuttavia la distanza e la necessaria violazione dello spazio aereo di alcuni paesi, rendono complesso un raid di cacciabombardieri da Israele fino all’Iran. Problemi che si risolverebbero se gli aerei da combattimento dovessero decollare dall’Azerbaigian. In quel caso Aliyev sa che il suo paese subirebbe la rappresaglia dell’Iran. Al momento, e su questo non ci sono dubbi, Israele mantiene una forte presenza di intelligence a Baku e Tehran ha irrigidito ulteriormente la sua linea nei confronti dell’Azerbaigian. I due paesi hanno avuto colloqui di recente per allentare la tensione ma i rapporti restano difficili.
Cohen ieri è andato in Turkmenistan, direttamente dall’Azerbaigian, diventando il primo rappresentante del governo israeliano a visitare lo Stato dell’Asia centrale in quasi 30 anni. L’ultimo ministro israeliano a recarsi ad Ashgabat era stato Shimon Peres nel 1994, tre anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Pagine Esteri
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Le norme Covid usate per la repressione: studentessa condannata per una protesta | L'Indipendente
"La manifestazione si era svolta nell’ambito di una giornata nazionale di proteste a seguito della morte di Lorenzo Parelli, lo studente deceduto nel corso delle attività di alternanza scuola-lavoro, alla quale avevano aderito centinaia di migliaia di studenti. [...] La decisione di punire una sola persona nell’ambito di una manifestazione altamente partecipata spoliticizza il significato della protesta, riducendone la portata alla semplice responsabilità personale di un individuo o due."
Spose bambine. In Sud Asia la metà di quelle del mondo intero
La pandemia di Covid-19 e la crisi economica hanno di gran lunga peggiorato la situazione delle giovani donne nei paesi del Sud Asia.
Le ultime stime rilasciate mercoledì dall’UNICEF hanno rivelato che i matrimoni precoci sono aumentati nella regione, arrivando a raggiungere il 45% del totale mondiale.
Un dato impressionante che ci racconta di 290 milioni di bambine costrette a diventare mogli per povertà e per mancanza di alternative. La chiusura delle scuole a causa del Covid-19 ha peggiorato una situazione già tragica, alla quale si è aggiunta la crisi. Non esiste futuro per le ragazze, che vengono dunque percepite solo come un peso economico per le famiglie che hanno difficoltà a sopravvivere.
In questa situazione il matrimonio combinato è spesso visto come unica soluzione possibile al problema. L’UNICEF ha lanciato l’allarme, chiedendo alle istituzioni di intervenire per mettere un freno alla pratica.
“Il fatto che in Asia meridionale si registri il più alto numero al mondo di matrimoni infantili è a dir poco tragico”, ha dichiarato Noala Skinner, direttrice regionale dell’UNICEF per l’Asia meridionale. “Il matrimonio infantile blocca il percorso di apprendimento delle ragazze, mette a rischio la loro salute e il loro benessere e compromette il loro futuro”.
I matrimoni infantili riguardano sia i maschi che le femmine ma queste ultime, in confronto, sono coinvolte in numero largamente maggiore. In Sud Asia quasi la metà (il 45%) delle ragazze tra i 20 e i 24 anni sono state costrette a sposarsi prima dei 18 anni. Una su cinque prima dei 15 anni.
L’UNICEF ritiene indispensabile una discussione sul fenomeno che permetta di mettere in campo reti di protezione sociale per contrastare la povertà. L’istruzione deve essere garantita e accessibile per tutti i bambini e le bambine. Le norme legali e l’educazione sessuale, inoltre, devono garantire il processo di cambiamento nel sud dell’Asia. Pagine Esteri
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Proseguono gli incontri con L'Ora di Costituzione! Il tema della terza lezione è sui Rapporti etico-sociali (dall’art.29 all’art. 47).
Seguite qui la diretta streaming dalle ore 10.30 ▶️ youtube.
Ministero dell'Istruzione
Proseguono gli incontri con L'Ora di Costituzione! Il tema della terza lezione è sui Rapporti etico-sociali (dall’art.29 all’art. 47). Seguite qui la diretta streaming dalle ore 10.30 ▶️ https://www.youtube.Telegram
La povertà è la quarta causa di morte della popolazione negli Stati Uniti | Diogene
"L’analisi ha rilevato che solo le malattie cardiache, il cancro e il fumo erano associati a un numero maggiore di decessi rispetto alla povertà. Obesità, diabete, overdose di droga, suicidi, armi da fuoco e omicidi, tra le altre comuni cause di morte, erano meno letali della povertà."
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Mad Kime design 2023
La collaborazione ormai consolidata tra In Your Eyes ezine, Incontroluce Serigrafia e Mad Kime propone anche quest’ anno il vostro capo dell’ estate.
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Mad Kime design 2023 Tshirt
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Marongiu & i Sporcaccioni - Welcome to Bisiacaria
Marongiu & i Sporcaccioni sono i ragazzi del bar che fanno musica nel tempo libero, e che hanno i nostri problemi, ma li sfogano raccontando la vita di provincia attraverso una musica davvero piacevole e che ti rende leggero, nel senso che parla di cose che chi ha vissuto e vive in provincia vede ogni giorno. @Musica Agorà
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Concorso Nazionale "La legalità come strumento di realizzazione personale", rivolto agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado di istruzione.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Concorso Nazionale "La legalità come strumento di realizzazione personale", rivolto agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado di istruzione.Telegram
Fr.#27 / La buona e doverosa sorveglianza
Parere positivo per la sorveglianza dei dati sugli abbonamenti al trasporto pubblico
Con un recente comunicato il Garante Privacy ci informa di aver dato parere positivo all’invio telematico dei dati sugli abbonamenti ai mezzi pubblici all’Agenzia delle Entrate. La comunicazione dei dati degli abbonamenti di tutti i cittadini italiani sarebbe propedeutica alla compilazione della dichiarazione dei redditi precompilata.
Le comunicazioni saranno facoltative per soggetti pubblici e privati peri periodi d’imposta 2023 e 2024 e poi obbligatorie a partire dal periodo d’imposta 2025 e riguardano i trasporti locali, interregionali e regionali.
Certo, è strano però che il Garante non abbia sollevato alcuna contestazione a questa comunicazione massiva di dati, considerando che non più di tre anni fa criticava duramente lo schema dell’Agenzia delle Entrate per la fatturazione elettronica, adducendo proprio l’enorme potere informativo e di profilazione derivante dall’accentramento di dati:
prevedono la profilazione di tutti i contribuenti, anche minori d’età, e […] si ritiene invece necessario, attesi i rischi elevati per i diritti e le libertà degli interessati approfondire separatamente l’istruttoria al fine di acquisire ulteriori elementi di valutazione, al fine di individuare idonee garanzie…1
In ogni caso, sono certo che col parere positivo del Garante non ci sarà alcun rischio e potremo dormire sonni tranquilli, consapevoli che è tutto per il bene comune.
Anche Privacy Chronicles ha ricevuto parere positivo dal Garante Privacy. No, non è vero. Ma è un bene o un male?
Per fortuna ci protegge anche da ChatGPT, perché quello sì che è pericoloso.
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A New York arrivano i robot spioni
La polizia di New York si è recentemente dotata di alcuni giocattoli tecnologici che entreranno presto a far parte dell’armamentario dei buoni agenti impegnati a preservare la sicurezza della città2.
Saranno due robot diversi, che fanno cose diverse. Ci sarà “Digidog”, chiamato anche Spot, che aiuterà gli agenti a gestire situazioni pericolose evitando di mettere a repentaglio la loro vita. Spot è un robot-cane di cui si parla da molti anni, sviluppato da Boston Dynamics — azienda molto famosa nel campo della robotica.
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Spot è probabilmente tra i robot più avanzati al mondo e può fare un sacco di cose, come andare in ricognizione con telecamere e sensori vari. Pare che secondo il Sindaco sia cruciale per mantenere la città sicura:
The robotic mobile K-9 device is part of a number of technological rollouts the city said is "crucial" in keeping the city safe.
Viene da chiedersi quali siano state le valutazioni sulle quali hanno deciso che adottare un robot-cane fosse assolutamente fondamentale per la sicurezza della città. Data l’utilità cruciale di Spot, dobbiamo aspettarci che i pastori tedeschi delle unità cinofile saranno presto sostituiti da questo gran bel pezzo di (costosa) tecnologia?
Il secondo pezzo è invece più goffo ma decisamente più spione di Spot. Si chiama K5 Autonomous Security Robot (ASR) ed è letteralmente una cabina mobile di sorveglianza che grazie all’intelligenza artificiale potrà anche riconoscere potenziali minacce alla sicurezza pubblica. Dicono che verrà usato in campus, centri commerciali e altri luoghi strategici che hanno bisogno di più sorveglianza. C’è sempre bisogno di più sorveglianza, no?
Sicuramente servirà un po’ di tempo per abituarsi a queste presenze, ma non ho dubbi che i buoni cittadini di New York ne saranno in grado. D’altronde, i loro cugini cinesi sono già ben abituati da tempo a vedere girare in città robot automatizzati per la sorveglianza di massa. Però hey, è per la nostra sicurezza.
Anche Roma si dà all’espropriazione digitale
Dopo Venezia, Milano e Bologna, anche a Roma arriva il virus dell’espropriazione digitale. Secondo la Presidente del I Municipio di Roma il turismo deve essere limitato; Roma non può essere un dormitorio per turisti. Strano, considerando che fino a qualche tempo fa tutti ci raccontavano di come il turismo fosse l’oro dell’Italia.
In ogni caso, la soluzione espropriativa è molto semplice e sempre la stessa: codici identificativi, piattaforme digitali, limiti agli affitti e all’apertura di B&B, monitoraggio continuativo. Secondo la Bonaccorsi infatti è necessario e assolutamente urgente obbligare i “portali online e i motori di ricerca a pubblicare solo annunci delle strutture dotate di codice identificativo rilasciato dal comune”.
C’è da dire che rispetto al Sindaco di Venezia almeno non ha ancora minacciato gli abitanti di ritrovarsi il picchetto di agenti della guardia di finanza h24 davanti al portone di casa.
Ma non lamentatevi: lo fanno per il vostro bene.
Vuoi supportare Privacy Chronicles? Dona qualche satoshi con il tuo wallet LN preferito. Scansiona il QR Code oppure clicca qui!
Meme del giorno
Citazione del giorno
“The world, viewed philosophically, remains a series of slave camps, where citizens – tax livestock – labor under the chains of illusion in the service of their masters.”
Stefan Molyneux
Articolo consigliato
Il cielo sotto Skynet
Skynet esiste già, ed è in Cina. È questo il nome con cui amichevolmente ci si riferisce al sistema interconnesso di sorveglianza presente su tutto il territorio cinese. Un nome, una garanzia, direi. Mi piace sempre parlare di Cina, perché credo che purtroppo sia una…
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2 months ago · 8 likes · 2 comments · Matte Galt
Purtroppo al @journalismfest di Perugia di quest'anno non si parlerà di #Assange! Ma noi di @Assange_Italia ci saremo lo stesso a distribuire volantini per #FreeAssangeNOW
Raggiungeteci anche voi al volantinaggio per #FreeAssange
@Giornalismo e disordine informativo
Noi ci saremo
- giovedì 20 Aprile davanti al Palazzo dei Priori, Auditorium San Francesco al Prato Hotel Brufani
- e sabato 22 in occasione della trasmissione Propaganda Live, insieme ad Amnesty Perugia
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UK data reform bill revived after lengthy legislative delay
The UK’s data reform bill, set to revamp the country’s post-Brexit data protection regime, was debated in Parliament on Monday (17 April) after being shelved for several months.
Deerhoof - Miracle-Level
I fatti dicono che: Miracle-Level è il diciannovesimo album in studio dei Deerhoof ed è il loro primo cantato interamente in giapponese. C’è di che meravigliarsi, ma non di che impaurirsi. Tolti i testi, di cui la maggior parte di noi non capirà un acca,¹ la musica è quella dei Deerhoof che abbiamo imparato ad amare, appena appena più pop e diretta di quella fuoriuscita dalle prove precedenti, ma sempre piacevolmente unica e bislacca. E il giapponese sembra aderire come un guanto alle strutture sghembe, alle melodie appiccicose e a quelle malinconiche, agli scatti rumoristici più o meno imprevisti, alla voce di Satomi Matsuzaki ovviamente, ma pure, incredibilmente, a quella di Greg Saunier. @Musica Agorà
iyezine.com/deerhoof-miracle-l…
Deerhoof - Miracle-Level - 2023
Tolti i testi, di cui la maggior parte di noi non capirà un acca, la musica è quella dei Deerhoof che abbiamo imparato ad amare, appena appena più pop e diretta di quella fuoriuscita dalle prove precedenti, ma sempre piacevolmente unica e bislaccaleodurruti (In Your Eyes ezine)
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Parole belle, giuste e definitive di Luciana Littizzetto su Enea, il bambino
#CTCF
Puoi ascoltarle su Raiplay dal minuto 1:59:36:
raiplay.it/video/2023/04/Che-t…
Oppure leggerle qui:
"Caro Enea, bel cicciottino di 2 kg e mezzo, cucciolo di specie umana, super-millenial, classe 2023. Piccolo avannotto che dai le tue prime bracciate nel mare tempestoso della vita.
Perché la tua mamma dopo averti tenuto nella sua pancia per nove mesi ha pensato che saresti stato meglio lontano da lei. Credo che questa decisione le sia costata molto cara, sai Enea. Così ti lasciato in una culla per la vita a Milano.
Le culle per la vita non ci sono solo a Milano sai. Ci sono in tante città d’Italia. Ci sono a Napoli, Varese, Parma, Padova, Firenze e Roma. Più di una in ogni regione. E funzionano così: Appena la mamma appoggia il bambino in quella piccola cuccia calda scatta un sensore collegato con l’ospedale più vicino che allerta i medici che intervengono subito.
Per questo non credere mai a quelli che dicono che la tua mamma ti ha abbandonato. Non ti ha abbandonato, ti ha affidato. Son due verbi molto diversi sai…quando crescerai lo capirai.
Abbandonare significa mettere in pericolo, fregarsene di cosa succederà dopo, vuol dire che non te ne importa niente.
Affidare invece è diverso. È avere così tanta fiducia nell’altro da chiedergli di custodire la cosa che più ti sta a cuore.
Semplicemente le mani di mamma hanno incontrato altre mani. È stata una catena d’amore Enea caro.
Non succede solo a te sai. Pensa che in Italia capita a 400 bambini all’anno. E la maggior parte trova una nuova famiglia già dall’ospedale.
Sai, per noi adulti la vita è un casino e a volte siamo costretti a fare cose che non vorremmo. Sembra strano dirlo a te che di settimane su questa terra ne hai così poche ma ti assicuro che più invecchi più le cose si complicano.
Non so come mai la tua mamma l’abbia fatto e se vogliamo davvero rispettarla non dobbiamo neanche chiedercelo. Al contrario. Dobbiamo custodire il suo segreto con rispetto, silenzio e soprattutto compassione.
Sappi comunque che mamma, con il suo gesto pieno di amore e di dolore, ha messo in moto una catena di protezione che nei decenni in Italia abbiamo reso sempre più forte…
E che parte dagli ospedali, fino ad arrivare ai tribunali dei minori, agli assistenti sociali, ai genitori affidatari, a quelli adottivi.…
E questa catena sta dentro una cosa che si chiama Stato e serve apposta per tutelare i diritti di tutti, neonati, bambini, mamme e papà perduti e fragili. Famiglie tradizionali e famiglie non tradizionali.
Perché non è vero che la società non esiste. Esiste eccome. E dobbiamo fidarci di lei.
Porti un nome importante, Enea, il nome di un signore fuggito da una città in fiamme per cercare una nuova vita e una nuova casa… la stessa cosa è capitata a te… quell’altro Enea ce l’ha fatta, sono sicura che ce la farai anche tu.
Ti auguro di diventare tutto ciò che si sogna da bambini: astronauta, calciatore, Harry Potter, pilota di Ferrari, dentista di Leoni in Africa, rockstar come i Maneskin…sosia di Chiattillo o mimo ai semafori.
Sono certa che avrai al tuo fianco una mamma e un papà al 100% che ti ameranno moltissimo. Ti ameranno un botto. Non dubitarne mai neanche un secondo.
Purtroppo la vita a volte somiglia alla scuola guida: le partenze in salita sono difficili, certo, ma se impari a farle, poi non ti spaventa più nulla.
Benvenuto pulcino di Pasqua. Ti riempiamo di baci. Luciana."
GLI INSEGNANTI DANESI USANO LE APP PER CONTROLLARE L'UMORE DEI PROPRI STUDENTI
Ci sono poche prove che una quantificazione di questo tipo possa essere utilizzata per risolvere problemi sociali e promuovere l'abitudine all'autosorveglianza fin dalla tenera età potrebbe alterare radicalmente il rapporto dei bambini con se stessi e tra di loro in un modo che li fa sentire peggio. piuttosto che migliore. "Difficilmente possiamo andare in un ristorante o a teatro senza che ci venga chiesto come ci sentiamo dopo e spuntando caselle qua e là", afferma Karen Vallgårda, professore associato all'Università di Copenaghen che studia storia della famiglia e dell'infanzia. "C'è una quantificazione delle emozioni e delle esperienze che sta crescendo, ed è importante che ci chiediamo se questo sia l'approccio ideale quando si tratta del benessere dei bambini".
NB: Gli scolari danesi sono nel bel mezzo di una crisi di salute mentale che uno dei più grandi partiti politici del paese ha definito una sfida "uguale all'inflazione, alla crisi ambientale e alla sicurezza nazionale". Nessuno sa perché, ma in pochi decenni il numero di bambini e giovani danesi affetti da depressione è più che sestuplicato. Un quarto degli alunni della nona elementare riferisce di aver tentato l'autolesionismo. (il problema non è circoscritto alla Danimarca: gli episodi depressivi tra gli adolescenti statunitensi sono aumentati di circa il 60% tra il 2007 e il 2017, e anche i tassi di suicidio tra gli adolescenti sono aumentati di circa il 60% nello stesso periodo). preoccupazioni" sullo stato mentale dei bambini che vedono nel loro lavoro e ha avvertito che se non si interviene immediatamente, "non vedono alcuna speranza per invertire la tendenza negativa".
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Teachers in Denmark are using apps to audit their students’ moods
Companies say the software can help improve well-being, but some experts worry it could have the opposite effect.Arian Khameneh (MIT Technology Review)
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Phantom of the Paradise
Questo film è la storia di quel sound..., dell'uomo che lo creò, della ragazza che lo cantò e del mostro che lo rubò.
Questo è l'intro di apertura del musical dal regista Brian De Palma ,prodotto dalla 20th century Fox nel 1974, (andato in onda in Italia nel 1989) e uno dei pochi musical che ho più apprezzato (io che non adoro i musical)e che sono andata a scovare per curiosità dopo che un amico americano ci aveva chiesto di partecipare ad una tribute per il 50' anniversario dell'uscita.
iyezine.com/phantom-of-the-par…
Phantom of the Paradise 1974
Phantom of the Paradise: Questo film è la storia di quel sound..., dell'uomo che lo creò, della ragazza che lo cantò e del mostro che lo rubò.La Misse (In Your Eyes ezine)
Le riforme previdenziali come lotta di classe alla rovescia | La Fionda
"Siamo davanti a una sorta di subalternità ideologica dei sindacati rispetto agli interessi padronali, questa subalternità non si manifesta solo con l’assenza del conflitto ma attraverso richieste che alla fine non incrementano potere di acquisto e di contrattazione."
Alternanza alla base NATO di Sigonella: studenti a scuola di guerra | Senza Tregua
"In un contesto in cui la Sicilia riconferma il record negativo di dispersione scolastica, con picchi del tasso di abbandono che raggiungono il 25% a Catania, la priorità del governo regionale sembra essere quella di educare i giovani alla guerra. In una regione in cui disoccupazione e lavoro nero affossano le condizioni di vita di migliaia di proletari e in cui il lavoro è per lo più precario, pare non esserci alternativa per le classi popolari: emigrare, arruolarsi, o andare ad alimentare la filiera bellica che per ragioni strategiche proprio in Sicilia è particolarmente sviluppata."
Carlo Calenda, Matteo Renzi e il Rolex dei poli superflui
Si noti lo slogan alle spalle dei due ben vestiti. Di serio, nel loro caso, pare ci sia più che altro il bisogno di una revisione complessiva del regime alimentare.
Nello stato che occupa la penisola italiana le gazzette di metà aprile 2023 intrattengono i sudditi col volare di stracci tra i ben nutriti nella foto qui sopra.
Al di là dei link indispensabili alla comprensione dei contenuti pubblicati in questa sede, non è nostra abitudine trarre materiale da gazzette. In questo caso però riportiamo l'epitaffio del loro "progetto politico" pubblicato proprio da una di esse, perché abbastanza coincidente con quanto avrebbe potuto dire sull'argomento qualsiasi persona seria. Nel testo originale ricorre il nome dello stato che occupa la penisola italiana; come nostra abitudine ce ne scusiamo in anticipo con i lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.
Marco Travaglio - Il Polo superfluoLa morte annunciata del Terzo Pelo o Terzo Coso è ancor più trascurabile della sua nascita. Trattandosi di un polo superfluo, il divorzio fra il De Gaulle dei Parioli e il De Rege di Rignano è molto meno allarmante di quello fra Boldi e De Sica. Molto più affascinanti sono gli spingitori dei due Nessuno: giornaloni, tg e talk che li han pompati fino a convincerli di essere qualcuno: campioni del Riformismo, alfieri del Moderatismo, idoli del Grande Centro. Sono loro che li hanno rovinati, chiamandoli “Terzo Polo” sulla fiducia e illudendoli di avere “praterie” sterminate: bastava che si accoppiassero per crescere e moltiplicarsi.
Vincono i 5Stelle? Praterie. Cade il Conte-1? Praterie. Nascono Azione e Italia Viva? Praterie. Cade il Conte-2? Praterie. Arriva Draghi? Praterie. Cade Draghi? Praterie. Calenda va con Letta? Praterie. Calenda va con Renzi? Praterie. Vince Meloni? Praterie. Schlein leader Pd? Praterie. B. ricoverato? Praterie. Dove siano esattamente queste praterie, sfugge ai più. L’unica certezza è che, se esistono, sono disabitate. O popolate di gente che ha sulle palle sia Ollio sia Ollio: persone normali. Resta da capire chi frequentino i giornalisti per convincersi che i due caratteristi abbiano un radioso futuro.
È vero che Carletto sparava: “Puntiamo al 13%, Meloni non governerà mai e tornerà Draghi”, salvo poi incolpare gli elettori perché votano tutti fuorché lui. È vero che il fu Matteo vaticinava: “Facciamo il botto, nel 2024 saremo primo partito, il M5S è morto”. Ma, anziché ridergli in faccia e relegarli nelle brevi, i media li prendevano sul serio. Corriere a tutta prima: “Ciclone Calenda sul centrosinistra” (non scoreggina: ciclone), “Strategia di Renzi per una svolta ‘alla Pirlo’” (con la o). Folli: “Il magnete Calenda” (non pongo: magnete). Il profeta Riotta: “Il centro di Calenda e Renzi sembra ben vivo… potrebbe animare a sorpresa la scena politica”. Foglio: “Il Centrocampo Calenda” (3 pagine su 4). Polito el Drito: “L’accordo Letta-Calenda riequilibra in parte una gara sbilanciata a favore del centrodestra”. Francesco Merlo e la sua lingua: “Calenda aspira all’eredità dei papi laici o forse luterani, Ugo La Malfa, Visentini, Spadolini, la buona amministrazione, il rigore dei conti e il cattivo carattere che è stato una grande risorsa italiana, una specie di lievito di progresso” (o di birra).
Paginone sulla Stampa: “Cantiere Draghi bis”. Paginone su Rep: “Calenda, l’uomo mercato corteggiato da tutti”, con foto dei suoi tatuaggi (“La A di Azione presa dagli Avengers, lo squalo e SPQR”), dettagli biografici (“A 16 anni fece una figlia”) e rivelazioni dell’eroico ragazzo padre: “Le cambiavo i pannolini e la allattavo”. Precoce com’è, aveva già le tette. Ora si allatta da solo.
"Meglio finirla qui, almeno non ci ruberemo i #Rolex", pare abbia concluso Carlo Calenda, uno che nelle consultazioni amministative per la città di Roma di un paio di anni fa mandò in giro per chiacchierate tra amici (difficile poterle definire comizi elettorali) un ventenne con al polso uno di quei cosi di metallo che segnano le ore ma che costano come un appartamento (qui su Archive). Una passione piuttosto diffusa tra i ricchi, questa di quei cosi di metallo.
Quello che il poco attento Calenda e il boy scout di Rignano non hanno capito (o hanno fatto finta di non capire, o hanno sperato non fosse necessario capire) è che l'elettorato che ha al polso uno di quei cosi di metallo che segnano le ore ma che costano come un appartamento è ridotto e già conteso. Ed è in via di ulteriore restringimento data l'incessante erosione dei redditi.
I due ben vestiti si sono comportati come due torsoli degli anni Ottanta. Voci che arrivano da una stolta età dell'abbondanza in cui c'erano le banche in doppiopetto grigio con un'orchidea all'occhiello di ogni lavoratore. Adesso non ci sono più nemmeno le banche, e il poco personale rimasto sta facendo l'impossibile per non essere licenziato a un anno dalla pensione.
Più facile che invece che un'orchidea, all'occhiello abbia un orcodìo.
E che non pensi certo a questi due, al loro "partito" e ai pezzi di metallo che gli piace mostrare in giro.
Leo
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