REPORTAGE – CUBA. Una macchina turchese nelle mani di Yemajà
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di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 07 agosto 2023 – Il turchese perfetto – La luce è perfetta. La parete turchese del salotto si apre con una porta finestra sul palazzo di fronte, anch’esso di un turchese accecante in quest’ora del giorno. Il sole disegna la sagoma dell’intercapedine e getta sulle piastrelle ocra del pavimento della casa la forma esatta dell’infisso, un abbagliante rettangolo di luce bianca distesa per terra. Intorno alla pozza luminosa e celeste, due sedie a dondolo. L’isola è probabilmente tenuta in equilibrio sull’oceano dal dondolio incessante dei cubani sulle loro sedie preferite. E due poltrone mezzo sfondate protette dalla polvere con larghi rivestimenti beige lavorati all’uncinetto – anche lì sopra, i raggi del sole che arrivano dallo squarcio turchese si uniscono alla trama del tessuto con una tenerezza commovente. Una luce così si incontra raramente. Sarebbe da immortalare subito in una fotografia, una cartolina antica e azzurra da riceverci migliaia di gradimenti sui social o da usare come copertina per un reportage di viaggio. Ma Ada sta raccontando, la sua voce è pacata e ferma mentre, seduta composta in un angolo di penombra fresca della stanza, passa in rassegna le sue preoccupazioni per il Paese, e non la si può interrompere per fotografare la luce perfetta di questo istante nella “casa particular” in cui lavora.
Ada non è il suo vero nome. Indicando il piano superiore del palazzo, che si affaccia sul patio al centro della casa, dice che, se i vicini la sentissero adesso, mentre si lamenta del governo, del cibo che non basta più e della sanità al collasso, nel giro di due ore si troverebbe la polizia sull’uscio, allertata dal Comitato di Difesa della Rivoluzione (CDR) locale. Neanche sua è la casa, dove vive col marito e le due figlie. Per quanto per venire a dormire in questa “casa particular”, una sorta di bed and breakfast sud-americano, il passaparola sia: “A L’Avana, vai nella casa di Ada”. Un appartamento coloniale, tutto colori pastello, porte a vetro, archi, piante e santi esotici appesi agli angoli, nel cuore della città “vieja”, che appartiene in realtà a un cubano emigrato in Florida e che ogni tanto passa da Cuba per controllare i suoi affari. “L’americano”, lo chiamano. “Fino a qualche anno fa, io e la mia famiglia abitavamo in un appartamento più piccolo delle camere da letto di questa casa, vivevamo gli uni sugli altri”, dice Ada. Adesso gestiscono la casa del ricco proprietario, la tengono pulita, accolgono gli ospiti, custodiscono questo simulacro coloniale e tutto quello che rappresenta, come se la muffa azzurra alle pareti la trattenesse cent’anni indietro, insieme al resto della città.
“La gente a Cuba è disperata, ormai sarebbe disposta a tutto”, spiega per giustificare i consigli a non camminare sul bordo delle strade, specie in quelle poco affollate, né a farsi avvicinare da sconosciuti. “Chiunque oggi rivolga la parola ai turisti, lo fa per chiedere soldi”, dice stringendosi nella sua maglietta fluorescente con la scritta “Moschino”, che viene da chiedersi da dove sia arrivata a Cuba con quel marchio lì, una maglietta del genere. Da dove arrivino le cose, con l’embargo che stringe l’isola in questa inedita morsa di fame. Da dove sia arrivato persino il pappagallo sul patio, comparso oggi con la sua gabbietta troppo stretta dopo tre giorni in cui era stato segregato chissà in quale ala della casa, per non appestare con l’odore dei suoi mangimi le nostre colazioni di uova e frutta tropicale. Per i turisti, uova e frutta si tirano sempre fuori da qualche posto sconosciuto, e i pappagalli si nascondono. Per gli abitanti dell’isola, le cose vanno al contrario.
“I prezzi sono diventati insostenibili”. C’è un prima e un dopo nelle parole di Ada. Lei identifica nella pandemia la cesoia che ha drasticamente condannato Cuba alla fame. In un Paese sotto embargo che dipendeva principalmente dal turismo per la sua economia, gli anni di isolamento internazionale hanno lasciato conseguenze drammatiche. “Se fino a tre, quattro anni fa, con “la libreta” avevamo garantiti, per dire, sei chili di riso al mese, adesso il governo ce ne passa mezzo, ma con mezzo chilo di riso come si sopravvive?”, chiede a proposito della tessera annonaria che, dalla rivoluzione in poi, stabilisce per ogni cittadino residente a Cuba la razione di prodotti acquistabili mensilmente a prezzo politico.
Svuotati – I negozi di alimentari sono semideserti. Alcune stanze protette da sbarre metalliche si affacciano sui marciapiedi improvvisando vendite al dettaglio e illegali di “refrescos” e bottiglie d’acqua a 200 pesos l’una (circa un euro e mezzo) dal retrogusto di petrolio o di ammorbidente per i vestiti. Le farmacie hanno sempre la porta d’ingresso spalancata sulla strada per mostrare file di scaffali immancabilmente vuoti. Al bancone, c’è puntualmente un farmacista a mani vuote che guarda inerme un cliente. Fuori un cartello invita gli avventori a portarsi dietro un barattolo da casa in cui versare le compresse e gli sciroppi – se disponibili.
I beni di prima di necessità semplicemente non ci sono, e quei pochi che si trovano in commercio hanno prezzi troppo alti. “Meglio di chi vive in città ci sono sicuramente i contadini che abitano in campagna”, osserva Ada, “che possono almeno prodursi direttamente qualcosa da mangiare”, ma anche per loro la situazione è cambiata bruscamente negli ultimi anni. I prezzi del mercato ortofrutticolo, stabiliti dallo Stato, sono aumentati, infatti, di tre o quattro volte rispetto al passato, mentre è rimasta costante la retribuzione statale agli agricoltori per le stesse materie prime. Per questo sempre più contadini, piuttosto che vendere allo Stato, preferiscono dirottare i loro prodotti sul mercato nero per sperare in guadagni più equi o scelgono, addirittura, di produrre meno per assicurare quasi esclusivamente la sussistenza delle loro famiglie. Intanto, gli alimenti a disposizione sul mercato continuano a ridursi e il loro costo cresce in maniera esponenziale, una legge della domanda e dell’offerta che affama tutti.
Cuba sta combattendo con una crisi economica e umanitaria senza precedenti, paragonabile soltanto a quella del “periodo especial” – la depressione economica che Cuba affrontò a partire dal 1991 dopo la caduta dell’URSS, suo fondamentale alleato politico e commerciale. Nonostante le restrizioni internazionali e un’agricoltura per niente diversificata, basata su zucchero e tabacco, facendo affidamento soprattutto sul turismo, l’isola era riuscita a resistere dignitosamente all’embargo storico. Poi, nel giro di pochi anni, una serie di fattori l’hanno fatta sprofondare nella congiuntura attuale.
Gli anni fatali – Il primo fattore si chiama Donald Trump: durante il suo mandato, ha inasprito le misure contro Cuba che la presidenza Obama aveva alleggerito e ne ha introdotte di nuove. Ha vietato il turismo statunitense nell’isola e abbassato il tetto di denaro che gli emigrati cubani negli States possono inviare ai loro parenti a Cuba. Non solo: agli sgoccioli della sua permanenza alla Casa Bianca, l’ha reinserita nella lista dei Paesi Sponsor del Terrorismo (SSOT), dalla quale Barack Obama l’aveva rimossa nel 2015. A farle compagnia, Corea del Nord, Siria e Iran. Un veto assoluto per gli scambi commerciali con l’isola che ha influenzato anche gli altri attori internazionali, spaventati dalle sanzioni economiche di Washington nei loro stessi confronti qualora avessero continuato a trafficare con l’isoletta nei Caraibi. Da un giorno all’altro, si racconta, il porto di L’Avana si è svuotato di tutte le navi commerciali. Una larga distesa azzurra che prometteva una crisi inedita.
All’effetto Trump si è aggiunta poi la pandemia, una catastrofe per un Paese dipendente dal turismo. Secondo Bloomberg News, il numero di turisti è crollato dai quattro milioni del 2019 ai 356.000 del 2021. Un danno inestimabile. Per richiamarli, è stata abolita la moneta per gli stranieri, il CUC, ed è stato loro concesso di utilizzare la moneta dei cubani, il CUP, a cambi ballerini – prima di 1 dollaro a 25 CUP, poi di 1 a 120, poi a un’arbitrarietà che i turisti li stravolge (ma lo racconterò più avanti). E’ stato persino lanciato un programma di ristrutturazioni per favorire il turismo, ma in assenza di materie prime gli sforzi edilizi non si possono realizzare.
La guerra tra Russia e Ucraina non ha, infine, migliorato la situazione, riducendo ulteriormente le esportazioni e gli aiuti all’isola, un rubinetto ormai asciutto. Anche il soccorso umanitario – le ONG non sono legali, ma lavorano nell’ombra integrandosi con il sistema – si è drasticamente impoverito anche qui, come nel resto del mondo.
Nel maggio 2022, l’amministrazione Biden aveva lanciato “una serie di misure di supporto per la popolazione cubana”, in linea con la nuova politica promessa dal Presidente nei confronti dell’isola. Poco o niente, però, è cambiato nei rapporti tra i due Paesi e le restrizioni per l’economia cubana restano ancora pressoché tutte in vigore. Né Biden ha ancora cancellato Cuba dalla lista degli SSOT.
Il risultato è questa “mancanza”, che assedia tutto. Mi domando molte volte, camminando per le strade di L’Avana, sorseggiando un refresco al mamey (impareggiabile frutto scoperto sull’isola) o gettandomi addosso acqua che sa di ammorbidente, cosa resterebbe se a quest’isola togliessero il turchese e le auto d’epoca. Il Campidoglio che imita quello statunitense, certo, i viali alberati, la Chiesa di San Francesco, ma si tratta di soggetti “inanimati”. Le Lada, forse, le automobili dell’industria russa fondata nel ’66 a Togliatti, scatoline mobili con la classica forma della macchina nei disegni dei bambini: il cofano, i quattro sportelli, il portabagagli, definiti da linee geometriche precise. Mi appassionano forse di più delle auto d’epoca del periodo americano – indubbiamente più fotogeniche, ma affidate ai turisti per giri di mezz’ora a non meno di 50 dollari. Serie, le Lada, sovietiche, con le loro famiglie proletarie dentro, i bambini sui sedili posteriori con le teste tonde, che mi immagino silenziosi o capaci solo di domande di algebra o sull’autobiografia certificata di Bakunin. Un viavai di Lada, forse, ma tutto intorno, comunque, la fame. Una fame che non è giusta mai, in nessuna parte del mondo. E qui o la si affronta o ci si affida a Yemajà.
Nelle mani di Yemajà – Le statue degli Orisha sono disposte lungo le pareti delle due sale al secondo piano del museo Yoruba, nel centro di L’Avana, poco lontano dal Campidoglio. Sono di gesso grigio, forme stilizzate e morbide, avvolte in una semi-penombra afosa. Talvolta il loro altarino è circondato da posticce piante di plastica. Yemajà è in un angolo sulla parete sinistra della prima sala, tiene le mani incrociate sul petto, il suo corpo emerge da un mare stilizzato – non c’è acqua. Gli Orisha sono le divinità ereditate dai cubani dalla mitologia yoruba, che gli schiavi deportati dall’Africa diffusero sull’isola tra il XVII e il XVIII secolo. A contatto con il cristianesimo dei coloni spagnoli, il pantheon degli Orisha si fuse e si integrò con quello dei santi cattolici, dando origine per sincretismo alla cosiddetta “santeria”, una religione che conosce ancora molti adepti tra i cubani, spesso riconoscibili per le loro tuniche bianchissime in giro per l’Avana o Trinidad.
La visita al museo degli Yoruba prevede questo: un giro intorno alle sue sale con sosta e descrizione davanti a ogni statua della divinità che rappresenta e delle sue caratteristiche. Eshù è l’orisha degli incroci della vita, dei bivi, dell’instabilità, ma è anche il messaggero degli dei, una specie di Mercurio; corrisponde a San Michele o a Sant’Antonio – la santeria mi sembra molto devota a Sant’Antonio. Ogun è il dio del fuoco, del ferro e dell’agricoltura, corrispondente a San Paolo e a San Giovanni Battista. Chango è il dio macho della giustizia e del tuono, una sorta di Zeus pronto ad accoppiarsi con qualsiasi creatura divina o terrestre, e così via. Il tour in passato prevedeva probabilmente la visita di altre sale, ma un’intera ala dell’edificio è stata distrutta nel maggio del 2022, quando una fuga di gas provocò l’esplosione del vicino Hotel Saratoga. Almeno 22 persone persero la vita nell’incidente, oltre 60 rimasero ferite. Le macerie di quello che rimane dello storico albergo di lusso formano ancora una montagnetta al lato del museo.
Yemajà è la madre degli dei e la divinità del mare. Può proteggere i naviganti o scatenare tempeste con la sua furia distruttrice. Accanto a lei, la guida del museo, un anziano habanero che schiuma nella sua camicia a maniche lunghe e che porta avanti la visita con un ininterrotto eloquio impastato senza mai concedersi un goccio d’acqua, si ferma con uno sguardo più commosso. “In questo Paese, abbiamo tutti creduto nell’Utopia. Ma quando l’utopia si sgonfia, rimane la realtà. E da questa realtà, le persone scappano”. Yemajà è la divinità dei migranti che si gettano in mare, dei barchini lanciati contro l’oceano in tutte le stagioni dell’anno, di chi preferisce affrontare le tempeste piuttosto che morire di fame. Parla con tono complice, il guardiano del museo, come a strizzare l’occhio a chi, provenendo dal Paese nel cuore del Mediterraneo, sa bene di che carico di morte si parli. “Le stime ufficiali”, dice, “parlano di almeno 250.000 cubani che hanno cercato di raggiungere gli Stati Uniti nell’ultimo anno. I numeri ufficiosi di questi viaggi clandestini, però, sono molto più alti”.
Tra il 2021 e il 2022, il numero di cubani fuggiti negli Stati Uniti è passato da 33.000 a oltre 250.000 persone. Circa il 2% della popolazione cubana, che conta 12 milioni di abitanti, sarebbe emigrata nell’ultimo anno verso gli Stati Uniti. Lasciare Cuba per vie legali è molto complicato, perché il governo applica restrizioni nei confronti di chi entra ed esce dal Paese in nome della “sicurezza nazionale”. Per ottenere un visto bisogna imbarcarsi in una giostra di burocrazia, controlli, indagini famigliari, che spesso si conclude con un diniego da parte delle autorità supportato da argomenti arbitrari. Spesso, l’unica soluzione è fuggire clandestinamente e affidarsi ai trafficanti di esseri umani, investendo nel viaggio tutti i propri risparmi.
Si affronta il mare e poi si viaggia via terra, attraverso le foreste, verso gli Stati Uniti. I confini tra Colombia e Panama e quelli con il Messico sono le zone più pericolose. Da quando il governo del Nicaragua ha sospeso l’obbligo dei visti per i cittadini cubani, molti preferiscono prendere un volo e poi cominciare il loro cammino verso gli Stati Uniti da lì. Nella foresta sono in molti a perdere la vita. Una volta arrivati negli Stati Uniti, i cubani possono, però, sperare di ottenere la nuova cittadinanza nel giro di un anno. La Ley de Ajuste Cubano (Legge di Aggiustamento Cubao), risalente al 1966, permette, infatti, agli immigrati cubani che testimoniano di aver lasciato il Paese d’origine per motivi politici di ottenere la cittadinanza statunitense dopo un anno e un giorno di permanenza negli USA.
“Prendono il mare e partono, muoiono nel viaggio, non diventano nemmeno dei numeri, restano dispersi nell’oceano, per sempre. Ma la gente continua a scappare, perché dopo l’utopia c’è sempre la realtà”, ci dice la nostra guida. Poi si rivolge alla statua e alza le mani verso di lei, mormora o forse è solo il suo gesto a dircelo: “Che li protegga Yemajà!”.
Sopravvivenza o muerte – Sul Malecon, il lungomare di L’Avana lungo 9 chilometri, gli habaneri vengono a pescare non appena il sole insopportabile del giorno inizia ad abbassarsi nella tregua del tramonto. Continuano a lanciare i loro ami nell’oceano almeno fino al suono del “Canonazo” delle 21, la cerimonia dello sparo di cannone dalla fortezza di San Carlos, di fronte alla costa. Noi siamo intenti a fare un conto mentale dei CUP che abbiamo e di quelli che ci serviranno fino alla fine del viaggio, un esercizio che ripeteremo ancora molte volte. Prelevare del contante non è possibile ovunque, le banconote a volte non sono disponibili e lo schermo del bancomat si colora di arancione annunciando un non precisato “errore”, e il cambio per i turisti è arbitrario come il clima nella stagione delle piogge. Quello ufficiale delle banche è di un dollaro o un euro a 125 CUP, ma se ci si è portati degli euro da casa saranno cambiati per 170 CUP a L’Avana, per 200 a Matanzas, per 180 a Santa Clara, e così via. Una peculiare Monopoli dei cambi che disorienta e svantaggia i turisti, formalmente illegale ma gestita alla luce del sole e col tacito benestare del governo.
Siamo quindi lì a ripassare la questione dei cambi, che ci troviamo di fronte, dall’alto lato del Malecon, all’imponente palazzone sovietico dell’Hospital Clinico Quirurgico Hermanos Ameijeiras, il più importante ospedale di tutta Cuba. I piani si accavallano gli uni sugli altri nel monocolore e si confondono. Le finestre tutte uguali e strette forano stanze d’ospedale nelle quali scarseggiano le garze, il disinfettante, il paracetamolo. La sanità gratuita e d’eccellenza è stata uno dei fiori all’occhiello della rivoluzione castrista. Solo tre anni fa, come esempio dell’alto livello della formazione medica di questo Paese, i medici cubani arrivavano in Italia per aiutarla a fronteggiare la pandemia, nel frattempo gli scienziati cubani producevano un vaccino contro il Covid. Se nei porti cubani, però, non arrivano le merci, a farne le spese sono anche i malati.
Ada è stata costretta a fare una colletta con i suoi parenti per comprare i bisturi, i fili di sutura, le garze e i medicinali, quando sua zia è caduta e si è rotta il femore. Quando sua cognata ha partorito con un taglio cesareo, Ada ci racconta che in reparto scarseggiavano i cateteri vescicali e che coi parenti le hanno procurato un tubo di gomma da collegare a una tanica e da infilarle su per l’uretra. I medici sono sottopagati, circa trenta dollari al mese, insufficienti con il caro prezzi dell’inflazione, “E non possono neanche arrotondare lo stipendio investendo in una casa particular o in un’altra attività commerciale”, aggiunge Ada. Malgrado questo, continuano a lavorare – sono gli strumenti che mancano.
La figlia di Ada studia infermieristica. Nel primo pomeriggio tutti i giorni torna dall’ospedale a casa nell’afa di luglio e si ripara al fresco della cucina della casa dell’”americano”. Ada ci racconta che vuole diventare una brava infermiera, ma è sempre più frustrata. Le sue mansioni sono semplici, è al primo anno: prendere la temperatura dei pazienti, misurarne la pressione, e trascrivere i parametri sulla loro scheda. “Ma nell’ambulatorio in cui fa adesso tirocinio non c’è neanche lo sfigmomanometro. Così l’altro giorno ha chiesto al medico come potesse misurare la pressione senza avere lo strumento. Sapete che le ha dovuto rispondere? “Inventatela”. I parametri si prendono così, a occhio.”.
L’Hospital Hermanos Ameijeiras svetta poco dietro alla fila di palazzi storici che sul Malecon stanno cadendo a pezzi uno alla volta per fare spazio ai nuovi hotel di acquirenti privati internazionali. Potrebbe iniziare a cambiare volto proprio da questa costa la Cuba del Presidente Diaz Canel, che con la nuova Carta Costituzionale del 2019 ha riconosciuto la proprietà privata come parte dell’economia del Paese. Il volto dell’Ospedale è, invece, ancora quello sovietico del secolo scorso. La struttura è dedicata ai fratelli Ameijeiras: María Luisa (detta Mara), Manuel Melquíades (Chonchón), Gustavo, Salvador (soprannominato Nené), Enma, Ángel (Machaco), José (Pepincito), Evangelista, Efigenio (detto Ulisse) e Juan Manuel (il Mel). Quest’ultimo partecipò insieme al giovane avvocato Fidel Castro all’assalto alla Caserma Moncada, nella lotta contro il tiranno Batista. Vi rimase ferito e fu giustiziato nei giorni successivi. Suo fratello Efigenio fu tra i fondatori del movimento 26 luglio e partecipò alla spedizione della nave Granma nella Baia dei Porci. Anche Gustavo partecipò alla lotta clandestina contro la dittatura, nella quale perse la vita nel maggio del 1958. Pochi mesi dopo, perse la vita anche il Fratello Angel, anch’egli membro del movimento 26 luglio. Per il Paese, i fratelli Ameijeiras sono eroi nazionali, martiri della resistenza. “Un po’ come i fratelli Cervi da noi”, commentiamo, poco prima che il Canonazo esploda il suo cannone.
Le iguane silenziose della rivoluzione – Dalle città si scappa, a Cuba. Prima che i loro edifici decrepiti ti crollino addosso o che il caldo ti soffochi. I colori pastello delle case vuote non bastano a trattenere, i musei della rivoluzione sono chiusi per ristrutturazione. L’afa spinge verso il mare. Verso Matanzas, col suo nome di sangue, popolata di avvoltoi. Veri padroni del cielo cubano, volano in gruppo, a bassa quota. Vigilano in cerchio sui bambini che nei 45° gradi del mattino si allenano giocando a baseball, “beisbòl”, lo sport nazionale. O camminano nei giardini delle case o sotto gli alberi al bordo delle strade, con le loro teste rosse che emergono come braci dalle pellicce nere. Matanzas, col suo nome di massacri, i suoi ponti e con la sua minuscola casa editrice nella pacifica piazza centrale, che pubblica libri stampati a torchio e rilegati a mano in edizioni uniche, esposte nelle bancarelle in mezzo a quelle dei souvenir.
Si cerca il mare a Cienfuegos, città coloniale francese. Nella cattedrale della città, c’è la statua di una madonna – l’isola comunista è piena di chiese e di santi – alla quale le devote hanno la tradizione di regalare girasoli. Di fronte alla città, dalla parte opposta dell’anello costiero che forma un piccolo abbraccio nel mar dei Caraibi, si intravede il sito di Juraguà. Lì Fidel Castro aveva deciso di fondare il suo sogno nucleare, una centrale che avrebbe dovuto produrre almeno il 15% dell’energia dell’isola. Era l’inizio degli anni ‘80 e con il supporto economico e tecnico dell’URSS si iniziò a costruire sulla costa una vera e propria città nucleare, ma l’impresa era destinata a fallire. Con il crollo dell’Unione Sovietica e il “periodo especial”, i lavori si interruppero, finché nel 1992 Castro annunciò il definitivo abbandono dell’opera, nella quale Cuba aveva investito 1,1 miliardi di dollari. La cittadella, però, oramai esisteva, e continua a farlo: le famiglie degli operai che vi si trasferirono circa 30 anni fa popolano ancora la città occupata da edifici abbandonati e le sue strade deserte. Circa 9.000 abitanti dimenticati dal resto dell’isola, che vivono di pesca recintati nell’antico sogno nucleare.
Nel mare arancione del tramonto di Cienfuegos, di fronte alla sagoma lontana della città fantasma, gli abitanti si immergono in costume a mezzo busto per pescare con la lenza e le mani nude pesci piccoli da farci il brodo. Quando ne prendono uno, lo infilzano intorno a una cannuccia insieme agli altri, poi lanciano di nuovo il filo e aspettano trattenendolo con le dita, mentre i bambini intorno si fanno il bagno. Nel fuoco annacquato di un altro giorno che muore, sembrano lontani i malesseri dell’entroterra. Le carenze che uccidono, l’embargo che isola, la solitudine e le utopie sgonfiate. Nel mare, tutte le energie sono concentrate nel raccogliere pescetti e nell’ammirare le sagome dei figli che si tuffano.
Nella fuga universale verso il mare, poi, i turisti si rifugiano negli “all inclusive” dei Cayos, le isolette disseminate tutte attorno a Cuba e sacrificate alle vacanze dei ricchi occidentali. Lì tutto è miracolosamente disponibile. Sui buffet c’è la carne e ci sono le verdure, c’è il pane fatto a fette e anche in paninetti morbidi al latte, c’è la menta per i Mohito e il cocco per infinite pinacolada – si può avere tutto, all’infinito, finché l’esperienza del soggiorno non è esaurita. La penuria degli alimentari del Vedado o di l’Habana Vieja (due quartieri della città) sembra inverosimile, se a pochi chilometri di distanza, nella stessa terra, gli stranieri possono abbuffarsi di tutto, serviti da accaldatissimi cubani. Esattamente come doveva accadere prima del 1959 nella capitale, negli hotel di lusso per gli americani. Quella stessa disparità rivoltante che portò a mettere a ferro e fuoco l’isola per farne un simbolo, un emblema per generazioni di sinistra in tutto il mondo. Adesso, direttamente da Santa Clara, dove il Che riposa sotto al suo monumento, con un Viazul, un autobus per stranieri, si arriva a Cayo Santa Maria, dove come in un reportage di Wallace donne grassissime e bianche trascorrono le loro giornate affondate in un salvagente in piscina, collegate in videochiamata con qualche amica in Russia o negli States, sorseggiando pigramente un daiquiri.
Per lenire e dimenticare, a Cuba si viaggia sempre verso il mare. Mentre i dondoli incessanti sugli usci di Trinidad e di Matanzas evitano che l’isola vi anneghi dentro. Si fugge verso il mare di Varadero, altra lingua di terra attira-turisti per le sue spiagge abbacinanti, coi suoi cartelli segnaletici in spagnolo e in cirillico. Nella parte cubana della penisola, ogni tanto la realtà spaventosa del Paese si affaccia, quando alla sera nei ristoranti sono rimasti solo i “negros y cristianos” di contorno a piatti vuoti. Il resto, però, è ancora facile dimenticanza. Le famiglie cubane, mescolate ai cristianos stranieri, possono anche qui abbandonarsi a un silenzio pacifico che ottunde le domande. Lasciarsi cullare dalle onde e gettare nell’acqua tutte le lattine di birra che vogliono, senza paura di provocare le ire di Yemajà, perché qui il sentimento ecologico è molto molto più lontano dello spettro del capitalismo. Intanto, intorno tutto è placido. A debita distanza dai resort, continuano a moltiplicarsi le iguanine dalle code arricciate, organizzano congressi notturni nella lingua delle specie in estinzione e si confidano i loro sentimenti proletari, tramando una rivoluzione. Pagine Esteri
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Naufragio Sicilia, 41 morti. Sopravvissuti alla deriva per 4 giorni
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Due uomini, una donna e un minore. Sono le sole 4 persone sopravvissute al naufragio che lo scorso giovedì ha causato la morte di 41 migranti tra cui 3 bambini.
Conosciamo la loro storia grazie a loro, che hanno raccontato come la barca si sia ribaltata dopo sole 6 ore di navigazione a causa di un’onda particolarmente alta. 7 metri di lunghezza, ospitava 45 persone, partite da Sfax in Tunisia, tentavano di raggiungere l’Italia.
Alcuni, una quindicina, indossavano un salvagente ma sono affogati lo stesso, hanno raccontato i 4 naufraghi, provenienti da Costa d’Avorio e Guinea Konakry, alla Guardia Costiera italiana.
Loro sono rimasti in acqua per ore. Poi hanno visto una barca abbandonata, probabilmente lasciata dopo un trasbordo di migranti e sono riusciti a salire. La barca, senza motore, è andata alla deriva per almeno 4 giorni finendo, trascinata dalle correnti, al largo della Libia.
La Guardia Costiera libica, seppur avvisata dalle autorità italiane, non sarebbe intervenuta, secondo la ricostruzione fatta da La Presse.
I sopravvissuti sono stati avvistati ieri da una barca mercantile battente bandiera maltese, la Rimona, che li ha salvati facendoli salire a bordo. Questa mattina sono trasbordati su una motovedetta della Guardia Costiera che li ha portati a Lampedusa.
Nessuna barca né autorità marittima ha avvistato cadaveri in mare. I corpi dei 41 migranti rimarranno, come centinaia di altri, sul fondo del Canale di Sicilia. Pagine Esteri
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Le nuove restrizioni tech di Biden e la reazione della Cina
Ennesime limitazioni agli investimenti statunitensi in aziende cinesi attive su semiconduttori, quantistica e intelligenza artificiale. Pechino la prende male, mentre al summit estivo di Beidaihe si parla di autosufficienza tecnologica
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Ho appena realizzato una piccola presa di coscienza. È passato quasi un mese dall'ultima volta che ho postato su Twitter, in particolare da quando il nome è cambiato in X. C'è stato un momento in cui mi aggiornavo quotidianamente su ciò che stava accadendo su quella piattaforma, ma le cose sono cambiate.Ad essere onesto, ho appena perso interesse. Quando si tratta di tecnologia, il Fediverse sembra superare Twitter in ogni modo. Offre tutto ciò che offre Twitter, ma meglio.
Inoltre, dal punto di vista dei contenuti, trovo che il Fediverso copra tutte le esigenze. Posso facilmente trovare tutte le notizie e le informazioni di cui ho bisogno proprio qui, senza dover andare su Twitter. In realtà è più conveniente in questo modo.
Il motivo principale per cui le persone sembrano usare Twitter è per agitarsi su una sorta di argomento controverso. Ma onestamente, non è la mia tazza di tè. Semplicemente non mi interessa essere coinvolto in tutte le polemiche fabbricate su Twitter.
Il Fediverso soddisfa tutte le mie esigenze di microblogging e lo fa eccezionalmente bene.
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L’offensiva sulle banche è sbagliata, ma Ezra Pound non c’entra
Ad ignorare il contesto, parrebbe un intervento ideologico ispirato da un tic culturale che da tempo caratterizza la Destra oggi di governo. “Attaccare le banche” tassandone i cosiddetti extraprofitti: quel che in giugno il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti escludeva categoricamente, in agosto il governo ha fatto inopinatamente. Si racconta che l’ispiratore dell’intervento sia stato il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari. Uomo di fiducia di Giorgia Meloni, uomo di ampie letture. Pare che tra le sue preferite vi sia quella di Ezra Pound. Il poeta americano, autore dei meravigliosi Cantos, è caro alla destra non solo perché simpatizzò per il Fascismo, opinione che nel dopoguerra gli costò la reclusione, ma soprattutto perché fu ferocemente ostile alle banche.
Parlava di “usura legalizzata”, Pound, sosteneva che i governi avessero fatto della moneta “uno strumento malefico”, teorizzava la “sovranità popolare monetaria”. In Italia, le sue teorie poetiche furono tradotte in tesi economiche da un professore dell’Università di Teramo, Giacinto Auriti, che ai tempi della lira arrivò persino a denunciare per usura la Banca d’Italia . Un uomo profondamente di destra, Auriti, alla cui fonte si abbeverò però anche Beppe Grillo quando era solo un comico ma già esibiva idee “politiche”.
La tassazione del 40% degli extra profitti bancari rappresenta la prima crepa nell’inaspettato idillio tra il governo Meloni e l’establishment nazionale ed internazionale. Un intervento dirigista dello Stato che comprime i margini di libertà del mercato e che, a differenza di quel che accadde con Draghi sugli extraprofitti delle società energetiche, non appare giustificato da una condizione emergenziale straordinaria. L’aumento dei tassi di interesse, e di conseguenza delle rate dei mutui rimasti scriteriatamente a tasso variabile, era infatti largamente annunciato. Si tratta, dunque, di un precedente. Un precedente che un domani potrebbe essere applicato ad altri settori economici “colpevoli” di aver registrato profitto superiori alla media.
Tutta colpa di Ezra Pound? No, affatto. Così fosse, analoga misura non sarebbe stata presa in Spagna dal governo del socialista Sanchez. E soprattutto non sarebbe stata entusiasticamente sostenuta in Italia da tutte le forze politiche. Fanno accezione solo i leader del cosiddetto Terzo Polo e, col senno di poi, Forza Italia, che pure quella norma l’ha ratificata in Consiglio dei ministri.
Se ne ricava, pertanto, una duplice spiegazione: i bilanci pubblici languono e i governi si sentono legittimati a reperire risorse in deroga alle regole non scritte della società aperta e dell’economia di mercato; le banche erano e restano lo spauracchio pubblico per antonomasia, sì che metterle in mora è motivo di sicura popolarità.
Questo, dunque, è il contesto. E in tale contesto Ezra Pound non c’entra: è solo politica. Di buono c’è che i mercati finanziari sembrano averlo capito, e al netto del crollo iniziale dei titoli bancari non dato ulteriore prova di sfiducia.
formiche.net
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Tra Gcap ed esercitazioni, il rapporto più forte tra Italia e Giappone secondo Camporini
Il 2009 fu un anno difficile per l’economia mondiale, e italiana in particolare, e la parola d’ordine per chi gestiva fondi pubblici era “tagliare”. La Difesa fu fortemente penalizzata e si cercò di risparmiare l’impossibile; un provvedimento fu quello della revisione dello schieramento degli addetti militari: alcune sedi vennero accorpate, altre vennero semplicemente chiuse. Tra quelle da chiudere venne presa in considerazione la sede di Tokyo, in quanto i rapporti tra i due Paesi in tema di difesa erano da anni praticamente inesistenti, sia dal punto di vista della cooperazione militare sia da quello industriale. L’importanza dei rapporti bilaterali, tuttavia, era tale da far scartare l’idea ed oggi, a distanza di pochi anni, dobbiamo esserne oltremodo lieti.
Non solo in questo periodo è radicalmente mutato il quadro strategico, ma si sono via via incrementati i rapporti bilaterali, prima con il forte interesse giapponese alla produzione elicotteristica nazionale e poi con lo stabilirsi di relazioni tra i rispettivi vertici della difesa, grazie anche alle occasioni di incontri in fori multilaterali.
Da qui la decisione di Tokyo di inserire allievi piloti militari e istruttori giapponesi nei corsi di addestramento avanzato (Fase IV) presso l’International flight training school (Ifts) che l’Aeronautica militare ha costituito a Decimomannu in partnership con Leonardo.
La decisione giapponese di guardare alla Gran Bretagna e all’Italia per lo sviluppo del proprio futuro sistema da combattimento aereo, il Global combat air programme (Gcap), ha ulteriormente consolidato i crescenti rapporti fra i nostri Paesi in un’ottica di mutua fertilizzazione tecnologica, ma con importantissime conseguenze dal punto di vista operativo: disporre dello stesso sistema d’arma comporta la necessità di un continuo scambio delle rispettive esperienze, al fine di ottimizzare l’output capacitivo offerto dal sistema.
È in questa prospettiva che deve essere guardato il rischieramento sulla base di Komatsu, sulla costa occidentale del Giappone, di un gruppo tattico dell’Aeronautica militare italiana, comprendente quattro F35, un Caew, tre aerorifornitori KC-767A e un C130J, perché soltanto con queste attività congiunte si può sviluppare quella conoscenza reciproca, anche a livello personale, che rende possibile lo scambio di esperienze e di conoscenze e l’affinamento delle tattiche di impiego.
Il rischieramento in sé costituisce un prezioso momento addestrativo, per la complessità logistica della sua organizzazione e della sua esecuzione; e il patrimonio di esperienza che se ne trarrà darà un contributo significativo all’affinamento delle necessarie capacità operative.
Non bisogna certo sottacere anche il significato politico dell’operazione: si è ormai radicato il concetto dell’appartenenza del Giappone alla più ampia comunità delle democrazie sviluppate, con rapporti organici anche nell’ambito militare. Ed è altrettanto chiaro che una delle aree del globo dove si stanno concentrando gli ingredienti per una drammatica crisi è incentrata nelle immediate vicinanze del Giappone che si trova periodicamente ad assistere alle prodezze missilistiche della Corea del Nord e che non può non guardare con estrema preoccupazione alla progressiva nazionalizzazione del Mar della Cina Meridionale da parte di Pechino, con tutte le conseguenze sull’agibilità delle rotte commerciali vitali per Tokyo.
Ovviamente ciò non significa che ci debba essere un coinvolgimento diretto dei Paesi europei, ma che ci si debba impegnare per aiutare le potenze regionali ad acquisire le necessarie capacità militari, questo sì.
Da ciò l’opportunità di forme di addestramento congiunte che possano migliorare la capacità di reazione di ciascun componente.
In quest’ottica, l’effettuazione di esercitazioni complesse con l’impiego di mezzi dell’ultima generazione assume una duplice valenza: quella tecnico-militare e quella di mutuo supporto politico. Per questo motivo l’iniziativa dell’Aeronautica militare, così come quella similare della nostra Marina, merita pieno apprezzamento e costituisce un valido investimento delle risorse necessarie.
Blur The Ballad of Darren
I Blur sono sempre I Blur anche in questo disco meraviglioso The Ballad of Darren da comprare ascoltare, girando il giradischi e velocità inusitate.
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FIRST® LEGO® League, la competizione per promuovere lo sviluppo delle soft skill fondamentali per la costruzione di una dimensione del divertimento e di un ambiente sereno in cui tutti si sentano al posto giusto.
Ministero dell'Istruzione
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Letture asiatiche – Contagio sociale
Il saggio Contagio sociale. Guerra di classe microbiologica in Cina (Nero Edizioni, 2023) propone uno sguardo specificatamente cinese sul Covid-19, partendo dal presupposto che il virus non è causato da elementi insiti nel sistema politico della Repubblica popolare, bensì da un modello economico finalizzato all’accumulazione infinita. Il collettivo Chuang 闯raccoglie mesi di reportage sul campo e interviste in una cronaca puntuale delle prime fasi dell’epidemia a Wuhan, tra i provvedimenti adottati dal governo e le pratiche mutualistiche della popolazione. E analizza anche come la crisi sia funzionale alla costruzione di nuovi modelli di repressione.
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Mutui, lo Stato ingiusto discrimina i terremotati e sostiene i furbi
Oltre ad uccidere 299 persone, il terremoto che nel 2016 scosse l’Italia centrale distrusse o rese inagibili più di 80mila abitazioni e una quantità incalcolabile di attività commerciali. Una tragedia cui si aggiunse la beffa: dover pagare mensilmente le rate di mutui su abitazioni, negozi o capannoni rasi al suolo o comunque inservibili.
Da allora, si sono avvicendati ben sei governi, nessuno dei quali ha ritenuto opportuno spendere un solo euro di denaro pubblico per aiutare famiglie e imprese a sostenere i costi dei mutui sui propri immobili fantasma. Unico sollievo, il fatto che nel 2017 il sistema bancario abbia deciso di sospendere i pagamenti delle rate. Ma le rate sono state sospese, non azzerate. Dunque si accumulano, e alcune banche applicano persino interessi di mora sulle rate congelate.
Di terremoto non si parla più. Solo l’1% delle abitazioni distrutte è stato ricostruito: i cittadini terremotati di Marche, Abruzzo, Umbria e Lazio sono stati inopinatamente abbandonati dallo Stato. Una vergogna senza fine.
In materia di mutui, la discrepanza balza agli occhi. Lo Stato ha ignorato e ignora i bisogni primari di chi ha avuto la vita sconvolta da un evento straordinario (il terremoto), mentre si fa carico di chi è stato toccato da un evento ordinario (l’aumento dei tassi di interesse). C’è qualcosa che non torna.
Per oltre un decennio le famiglie e le imprese italiane hanno potuto contrarre mutui a tassi bassissimi. Chi ha scelto il variabile ne ha avuto vantaggi inimmaginabili in altri tempi. Tecnicamente, si è arricchito. O quantomeno si è impoverito molto meno di chi ha contratto lo stesso mutuo in epoche precedenti. Da almeno un anno, però, si sapeva che quest’anomala condizione paradisiaca sí sarebbe conclusa e che un po’ alla volta i tassi di interesse avrebbero cominciato a salire. Lo diceva la Tv, lo scrivevano i giornali, si spera lo spiegassero anche i consulenti finanziari ai loro clienti. Chi non ha convertito in fisso il proprio tasso variabile, e ancor peggio chi nei mesi scorsi ha sottoscritto un mutuo a tasso variabile anziché fisso, lo ha fatto spinto da una sorta di ottusa bramosia o da una colossale ignoranza. È vero che la cultura finanziaria in Italia scarseggia ed è vero che il governo avrebbe potuto e forse dovuto informare i cittadini, ma in un caso come questo l’ignoranza non è né può essere una giustificazione.
Dirlo è quanto di più impopolare, lo dimostra il fatto che, senza distinzione tra maggioranza e opposizione, tutte, ma proprio tutte le forze politiche abbiano condiviso la scelta del governo di destinare parte del gettito ricavato dalla tassazione degli extra profitti delle banche al sostegno delle famiglie colpite dal rincaro dei mutui. Dirlo è impopolare, non c’è dubbio, ma l’onestà intellettuale impone di farlo: mettere a carico del contribuente, anche di quello che ha convertito per tempo il proprio mutuo pagandone il costo aggiuntivo, il sostegno di chi si è ostinato a contrarre muniti a tasso variabile non è un buon modo di spendere il denaro pubblico e di fare giustizia sociale. Un buon modo sarebbe aiutare i nostri connazionali messi in ginocchio sette anni fa dal terremoto, ma, chissà perché, di loro non si occupa più nessuno.
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Conti in ordine e mercato. Così Leonardo e Fincantieri scalano la classifica mondiale
Leonardo porta l’industria italiana ancora più in alto, nell’Olimpo delle eccellenze mondiali della Difesa. Nei giorni scorsi, la rinomata testata americana, Defense News, ha pubblicato la sua attesa lista annuale nella quale figurano le prime 100 compagnie nel settore della Difesa nel 2023. Tra i protagonisti di questa graduatoria, spiccano in particolare due colossi italiani: Leonardo e Fincantieri, che hanno dimostrato una notevole crescita rispetto allo scorso anno.
ECCELLENZA TRA LE ECCELLENZE
Leonardo si è infatti imposto all’undicesimo posto, guadagnandosi il titolo di prima azienda dell’Unione europea, salendo di un gradino rispetto alla classifica del 2022, quando il gruppo di Piazza Monte Grappa figurava al dodicesimo posto, mentre l’anno ancora prima, il 2021, l’azienda guidata da Roberto Cingolani, al timone di Leonardo dalla scorsa primavera, si era posizionata al tredicesimo posto. Una lenta ma inesorabile scalata, che ha permesso all’ex Finmeccanica di scavalcare altri giganti europei del calibro di Airbus, Thales e Hendsoldt, ma anche i temutissimi colossi cinesi, quali China Aerospace Science and Technology Corporation. Segno che l’industria italiana della Difesa non solo è viva e vegeta, ma decisamente competitiva.
Guardando più nel dettaglio alla speciale selezione di Defense News, al fine di determinare il posizionamento di un’azienda, sono stati considerati i dati richiesti direttamente alle aziende, dalle relazioni annuali e da ricerche ad hoc condotte da enti quali l’International institute for strategic studies (Iiss) o Oliver Wyman. Le informazioni estrapolate riguardano in particolare i ricavi annuali totali e i ricavi derivanti da contratti di Difesa, Intelligence, sicurezza interna e altri accordi di sicurezza nazionale.
L’IMPORTANZA DEI CONTI
Il riconoscimento arrivato da Defense News non poteva non tenere conto del buon andamento dell’azienda negli ultimi mesi. I conti presentati al mercato lo scorso mese, i primi recanti la firma dell’ex ministro dell’Ambiente, già manager di Leonardo prima di essere chiamato al governo da Mario Draghi, raccontano di un’azienda in piena crescita ed espansione.
Piazza Monte Grappa ha infatti chiuso il primo semestre 2023 con ricavi in rialzo del 6,4% anno su anno a 6,9 miliardi di euro e un Ebita di 430 milioni di euro (+5,7%), a fronte di un utile netto di 208 milioni di euro. Numeri che hanno permesso al gruppo di confermare le guidance per fine 2023. Non è finita. Gli altri numeri della semestrale evidenziano un miglioramento del flusso di cassa operativo, che resta negativo per 517 milioni di euro, ma segna un progresso del 46,3% rispetto al dato di -962 milioni di euro del 30 giugno 2022.
Ma è sugli ordini che c’è stato il vero sprint, segno di un credito crescente sul mercato. Il portafoglio ha infatti raggiunto quota 8,7 miliardi di euro (+21,4%), portando il monte ordini a quota 40 miliardi di euro con book to bill pari a 1,3. Quanto al risanamento in atto, l’indebitamento netto di gruppo è sceso del 24% a 3,6 miliardi di euro, grazie al minore assorbimento di cassa. E anche nel 2022 le cose erano andate piuttosto bene: lo scorso anno si è chiuso per Leonardo con un utile netto ordinario salito a 697 milioni (+18,7%), mentre il risultato netto vero e proprio ha registrato un incremento del 58,5% a 932 milioni di euro, a fronte di un ebitda cresciuto a quota 1,2 miliardi di euro (+ 15%).
IL PREMIO DEL MERCATO
Tutto questo non ha potuto che giovare al titolo in Borsa. I mercati, si sa, hanno la vista acuta. Dando una rapida all’andamento del titolo a a Piazza Affari, nell’ultimo mese la capitalizzazione del gruppo è cresciuta del 22%, arrivando a toccare i 13,4 euro ad azione. Solo lo scorso luglio Leonardo scambiava a poco meno di 11 euro ad azione, mentre al momento delle nomine, lo scorso aprile, l’ex Finmeccanica valeva in Borsa poco più di 10 euro ad azione. Di più. A certificare la crescita di Leonardo e il feeling con gli investitori, va detto che negli ultimi mesi il titolo ha guadagnato il 36%, mentre da inizio anno ad oggi il valore del gruppo sui listini è aumentato addirittura del 60%. Insomma, l’ascesa in classifica di Leonardo e Fincantieri, che tra il 2021 e il 2023 è passata dalla posizione 58 alla numero 48, guadagnando ben 10 gradini, non è dunque solo un trionfo individuale per le due aziende, ma invia anche un segnale positivo all’intero comparto industriale del nostro Paese.
IL SUCCESSO CON GLI ELICOTTERI
La narrazione non finisce qui. C’è un ultimo tassello da aggiungere, ovvero il ritorno del gruppo al centro del business degli elicotteri. Leonardo ha infatti recentemente rafforzato nuovamente la sua posizione di leadership nel mercato del trasporto elicotteristico privato con importanti risultati. Durante il salone Labace 2023, l’azienda di piazza Monte Grappa ha infatti annunciato nuovi contratti in America Latina, tra cui la partnership con Gruppomodena S.A. che è diventato distributore ufficiale per vari modelli di elicottero, inclusi AW119Kx, AW109, AW169 e AW139, in Uruguay e in Argentina.
Tale accordo comprende anche la firma di un contratto per due monomotori leggeri AW119Kx e tutti gli elicotteri saranno personalizzati con interni Vip per compiti di trasporto privato e corporate. A ciò si aggiunge la notizia che Leonardo investirà oltre 65 milioni di dollari, in collaborazione con Space Florida, per la realizzazione di una struttura avanzata di supporto post-vendita degli elicotteri, che includerà servizi di riparazione, revisione, collaudo, e un ampio magazzino di parti di ricambio, prevista per il completamento entro la fine del 2024. Motori avanti tutta.
DeCretoni
Sulla tassazione del margine d’interesse, volgarizzato in “tassa sugli extraprofitti” o “tassa sulle banche”, è largamente probabile che sarà eccepita l’incostituzionalità. Un sistema fiscale funziona quando le regole sono chiare e stabili. Qui siamo di fronte a un prelievo da una parte limitato a un anno e dall’altra retroattivo. Una specie di riassunto di cosa non si dovrebbe fare, tanto più che appena due mesi addietro il ministro dell’Economia lo aveva escluso.
Il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha detto che quel prelievo è una conseguenza delle scelte sbagliate della Bce che, a suo dire, non avrebbe dovuto alzare i tassi d’interesse. Ora – a parte che si vorrebbe sapere cosa mai si sarebbe dovuto fare per fermare l’inflazione oppure se si ritiene che quest’ultima sia un beneficio per lavoratori e consumatori – la tesi esposta si scontra direttamente con quanto sostenuto appena la settimana scorsa da Fabio Panetta, designato governatore della Banca d’Italia, il quale propone di fermare la salita dei tassi d’interesse ma di mantenerli ai livelli attuali a lungo, sicché la portata di un solo anno, decisa per la nuova tassa, è incongrua con il presunto obiettivo.
Inoltre ci si dimentica che appena ieri si reclamava il massiccio uso dei soldi dei contribuenti per ‘salvare’ le banche, mentre ora si racconta che si salveranno i contribuenti usando i soldi delle banche. E ci si dimentica che la crescita dei tassi d’interesse ha sì fatto crescere gli interessi generati dai prestiti a tasso variabile, ma ha anche fatto scendere il valore dei titoli del debito pubblico, di cui i bilanci delle banche sono pieni. Insomma: mentre la Bce mostra fiducia sulla buona condizione delle nostre banche, noi si pensa che tale salute sia troppa. Il che – a tacere della retroattività, che di suo è una violazione delle regole – si spera non porti sfortuna.
Né, infine, risulta corretto mettere le banche sullo stesso piano delle imprese energetiche, perché per queste seconde i profitti extra erano dati da un inatteso ed esagerato fenomeno di mercato, mentre il rialzo dei tassi è una decisione istituzionale per niente imprevista.
Quelli varati dal governo, nell’ultimo Consiglio dei ministri prima delle (loro) vacanze, sono degli insaccati legislativi. I Presidenti della Repubblica, uno dopo l’altro, provano a richiamare i governi, uno dopo l’altro, al rispetto del dettato costituzionale, quindi all’omogeneità dei decreti legge, sottolineando che gli insaccati finiscono con l’espropriare il Parlamento di un potere, quello legislativo, che dovrebbe detenere in esclusiva. Ma non c’è verso. Il vizio della prolissità e disomogeneità è talmente diffuso e ripetuto da essere divenuto l’illegittima normalità. Le ultime salsicce, però, hanno un gusto particolare. Fidando nel confondersi dei sapori ci sono anche misure, come quella sulle potenze emissive degli impianti radioelettrici 5G, cui gli odierni decretatori si erano ieri opposti strenuamente. Mentre al palato attento non giungerà come inatteso il nulla di fatto sui taxi. Chi liscia a lungo la bestia corporativa deve poi stare attento a che quella non gli morda la mano. Quindi scaricano tutto sui Comuni – come già era, del resto – ma lo mettono nell’insaccato legislativo per dire: una cosa l’abbiamo fatta.
Ora non resta che mettere l’insaccato sulla griglia delle vacanze agostane, levando così il tanto fumo dell’avere difeso i cittadini dalle mani adunche delle banche, ma restando l’arrosto del consegnarli a stabilimenti balneari che contribuiscono per un nulla al gettito fiscale per le concessioni e poco al giro d’affari (essendo vasta l’evasione), ma alzano eccome il prezzo dei servizi che vendono, protetti dall’assenza di concorrenza nel far meglio fruttare il suolo pubblico. Senza contare lo stuzzichino grigliato offerto a chi un taxi non lo trova a pagarlo, nel mentre con i suoi soldi lo si offre a chi si droga e si ubriaca in discoteca.
La Ragione
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Naufragio Sicilia, 41 morti. Sopravvissuti alla deriva per 4 giorni
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Due uomini, una donna e un minore. Sono le sole 4 persone sopravvissute al naufragio che lo scorso giovedì ha causato la morte di 41 migranti tra cui 3 bambini.
Conosciamo la loro storia grazie a loro, che hanno raccontato come la barca si sia ribaltata dopo sole 6 ore di navigazione a causa di un’onda particolarmente alta. 7 metri di lunghezza, ospitava 45 persone, partite da Sfax in Tunisia, tentavano di raggiungere l’Italia.
Alcuni, una quindicina, indossavano un salvagente ma sono affogati lo stesso, hanno raccontato i 4 naufraghi, provenienti da Costa d’Avorio e Guinea Konakry, alla Guardia Costiera italiana.
Loro sono rimasti in acqua per ore. Poi hanno visto una barca abbandonata, probabilmente lasciata dopo un trasbordo di migranti e sono riusciti a salire. La barca, senza motore, è andata alla deriva per almeno 4 giorni finendo, trascinata dalle correnti, al largo della Libia.
La Guardia Costiera libica, seppur avvisata dalle autorità italiane, non sarebbe intervenuta, secondo la ricostruzione fatta da La Presse.
I sopravvissuti sono stati avvistati ieri da una barca mercantile battente bandiera maltese, la Rimona, che li ha salvati facendoli salire a bordo. Questa mattina sono trasbordati su una motovedetta della Guardia Costiera che li ha portati a Lampedusa.
Nessuna barca né autorità marittima ha avvistato cadaveri in mare. I corpi dei 41 migranti rimarranno, come centinaia di altri, sul fondo del Canale di Sicilia. Pagine Esteri
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Ben(d)edetto del 9 agosto 2023
Alta tensione tra Cina e Filippine sul mar Cinese meridionale
Cannoni ad acqua della guardia costiera di Pechino verso le navi di Manila su acque contese. Anche Marcos Junior dopo l'invasione russa dell’Ucraina ha rafforzato i legami con Washington. Si alza il rischio di incidenti nella regione
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Se la Cina arranca e l’India corre
Una nuova era della globalizzazione si sta aprendo, i segnali abbondano. La Cina vede ridimensionarsi il proprio ruolo di «fabbrica del mondo». Nuovi investimenti delle multinazionali privilegiano altri Paesi emergenti come l’India. Vi si aggiunge una parziale reindustrializzazione dell’Occidente, in particolare per le produzioni che ci servono nella transizione ecologica. In America un milione di posti di lavoro sono già «rimpatriati» dall’estero in due anni, per effetto delle politiche industriali di Biden. Con qualche ritardo, l’Europa segue: in futuro vogliamo avere il controllo di produzioni strategiche e quindi riportarle più vicine a casa nostra. Colpisce il divario tra questi segnali precursori di cambiamenti, e un dibattito italiano che li ignora. Il reddito di cittadinanza, comunque lo si voglia riformare, punta ad attenuare fenomeni di povertà pre-esistenti. Ma come evitare che i «figli dei poveri di oggi» siano costretti anche loro a vivere di assistenza in futuro? A quali mestieri dovremmo indirizzarli e formarli? Il Welfare non deve monopolizzare la nostra attenzione fino al punto di impedirci di preparare il futuro: dove tornerà attuale una vocazione industriale, anche se di tipo nuovo. Gli adattamenti in corso in America, Cina, India, Europa, sono collegati fra loro. L’economista americano Adam Posen lancia una metafora: secondo lui l’economia cinese soffre di «longCovid». È una sindrome che con il vero Coronavirus c’entra solo in parte, perché cominciò molto prima. Dal 2015 a oggi i consumi di beni durevoli (come le automobili) nella Repubblica Popolare si sono ridotti di un terzo. Per gli investimenti delle imprese la caduta è stata ancora più pesante, il loro livello odierno è inferiore di due terzi rispetto a dov’erano nel 2015. Nello stesso periodo la quota del risparmio delle famiglie cinesi in proporzione al Pil è cresciuta del 50%. Il declino si estende su un periodo di otto anni e quindi va ben oltre lo shock della pandemia, chiama in causa dei problemi antecedenti. Quei dati disegnano un quadro di sfiducia: le imprese non riprendono a investire se non in piccola parte, i consumatori non tornano a spendere come prima, invece accantonano risparmio per paura. Di che cosa hanno paura i cinesi? Di un ritorno allo statalismo che riduce la libertà d’iniziativa privata nella seconda economia mondiale. Il clima di sfiducia che cala sull’economia cinese ha altre concause. C’è l’iper-nazionalismo di Xi che genera ostilità verso gli investitori stranieri: la Repubblica Popolare del 2023 è meno accogliente per le imprese estere. C’è la crisi del settore immobiliare. C’è infine l’offensiva che viene da fuori, l’antagonismo degli Stati Uniti (i dazi di Trump dal 2017, poi l’embargo tecnologico di Biden su alcuni semiconduttori). Queste sono aggravanti. Il cambiamento fondamentale secondo Posen è il ritorno di un arbitrio da parte del regime comunista nelle sue interferenze su molte attività economiche. Lo conferma la recente propensione a leggi d’emergenza, in nome della sicurezza nazionale, che da un momento all’altro possono cambiare le condizioni dell’attività d’impresa. «Grazie» a Xi Jinping, l’India diventa una parziale alternativa. Da Apple a Tesla l’elenco delle multinazionali americane che costruiscono fabbriche in India si allunga. Nel corso degli ultimi otto anni la sua produzione elettronica è quasi quadruplicata. L’industria elettronica è proprio il settore su cui punta il premier Narendra Modi per la transizione «farm- to-factory» cioè dai campi alle fabbriche. Nei piani del governo di New Delhi il 60% dell’esodo di manodopera dall’agricoltura dovrebbe essere assorbito dall’elettronica. È un remake di quel che accadde in altri Paesi asiatici, dal Giappone alla Corea del Sud e da Taiwan alla stessa Repubblica Popolare cinese. Nel rimescolamento di ruoli che trasforma le frontiere della globalizzazione, l’Occidente viene coinvolto non solo per le strategie delle sue multinazionali. Prima la pandemia, poi la guerra inUcraina (e la complicità di Xi Jinping con Vladimir Putin) hanno iniettato nelle politiche economiche nuove considerazioni strategiche. Includono la transizione verso la sostenibilità. Non è accettabile una situazione in cui tutte le nostre batterie elettriche, pannelli solari e pale eoliche dipendono dal ben volere di un leader comunista a Pechino. La politica industriale di Biden ha accumulato ormai una potenza di fuoco che si avvicina ai mille miliardi, tanti sono gli aiuti pubblici infilati a vario titolo nelle pieghe di tutte le manovre legislative approvate dal Congresso negli ultimi due anni. L’Europa segue la strada tracciata dagliStati Uniti, un po’ in ordine sparso, ma già i sussidi messi in campo dalla Germania sono ragguardevoli. Reindustrializzare l’Occidente è una bella occasione di crescita se la sappiamo cogliere. L’Italia ha una robusta tradizione manifatturiera. Sta facendo il necessario per rafforzarla, cogliendo le nuove opportunità? Per facilitare il mestiere d’impresa l’elenco delle cose da fare è lungo e dovrebbe figurare al centro del discorso pubblico. Uno dei temi è adeguare la nostra forza lavoro. Il tipo di formazione che ricevono i ragazzi italiani si sta convertendo a questo nuovo modello di sviluppo, dove torneremo anche a progettare, fabbricare, installare cose che finora ci arrivavano su navi porta container da Shanghai? Si parla perfino — giustamente — di un ritorno dell’attività estrattiva, visto che minerali e terre rare per la transizione ecologica esistono anche nel nostro sottosuolo e il monopolio cinese è solo dovuto a scelte politiche. Vent’anni fa l’Italia arrivò impreparata allo shock che fu l’irruzione della Cina nell’economia globale. Oggi la sua parziale ritirata ci pone delle sfide nuove. A seguire il dibattito in corso sul reddito di cittadinanza — che avrebbe potuto svolgersi in termini identici in un’altra epoca — si ha l’impressione che siamo ancora una volta in ritardo.
Corriere della Sera
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Norway to fine Meta nearly $100,000 a day over data use
Norway's data protection agency said on Tuesday (8 August) it would start fining Facebook and Instagram owner Meta nearly $100,000 per day for defying a ban on using users' personal information to target ads.
De-risking e gallio, i rischi per la difesa e la sicurezza nazionale
Due metalli per semiconduttori, con un consumo globale complessivo stimato dall’industria di circa 800 tonnellate all’anno e con un crescente peso nelle tecnologie militari, digitali e green, sono entrati di prepotenza nella ‘guerra’ commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina, mentre l’industria già si prepara per affrontare le potenziali implicazioni dei nuovi controlli sulle esportazioni imposti da Pechino.
A circa una settimana dall’entrata in vigore delle misure imposte dal ministero del Commercio cinese citando interessi di sicurezza nazionale, come si leggeva nella nota pubblicata circa un mese fa, è ancora poco chiaro quali saranno le reali conseguenze sui mercati globali. O cosa sia necessario per ottenere la licenza o comportare un divieto, secondo quanto annunciato dal Ministero. Tuttavia, i produttori cinesi dovranno fornire informazioni dettagliate sui clienti, per verificare quale ne sia l’utilizzo finale, se civile o militare. La Cina potrebbe quindi essere principalmente interessata a controllare i Paesi a cui vengono fornite queste materie prime.
La tempistica dell’annuncio, appena prima della visita in Cina del Segretario al Tesoro statunitense Janet Yellen e un giorno dopo l’annuncio di nuove limitazioni alle esportazioni di apparecchiature avanzate per la produzione di chip, ha portato alcuni operatori di mercato a concludere che la mossa della Cina fosse più simbolica che guidata da motivi pratici. In realtà, la legislazione che introduce restrizioni per le esportazioni di materiali o tecnologie ritenute strategiche o ‘sensibili’ è in vigore da tempo, introdotta nell’ottobre 2020, ma la natura e l’entrata in vigore della misura hanno creato un’enorme incertezza. Più evidente è il controllo della Cina di questo materiale critico, che rischia di creare una vulnerabilità per le supply chain di un numero considerevole di applicazioni e tecnologie.
UN MATERIALE RIVOLUZIONARIO…
Il gallio, così come il germanio, hanno una lunga storia che inizia nell’industria dei semiconduttori. Il primo chip per computer al mondo è stato realizzato nel 1958 con il germanio, anche se è stato rapidamente soppiantato dal silicio, molto più economico e abbondante. Più recentemente, il gallio è stato il primo metallo ad essere adottato su larga scala, sotto forma di arseniuro di gallio (GaAs) e nitruro di gallio (GaN), in una nuova classe di materiali in rapida evoluzione chiamata compaund semiconductors. Ad oggi, il silicio rimane il principale materiale per fabbricare i microchip, con la produzione di wafer al silicio concentrata in Giappone. Ma la scienza dei materiali ha fatto passi da gigante. Oggi il gallio è cruciale per una serie di applicazioni high-tech, dai cavi in fibra ottica alle stazioni per le telecomunicazioni 5G, dalle rilevatori termini ai laser, dai LED ai pannelli solari per satelliti e al controllo dei sistemi di power management per batterie e motori dei veicoli elettrici (EV).
Questa nuova generazione di materiali offre intervalli energetici (band gap nel lessico dell’ingegneria elettronica) più ampi rispetto al silicio per reggere la potenza e le frequenze necessarie nelle applicazioni di amplificazione. Il GaN è anche più efficiente dal punto di vista energetico rispetto al silicio, potendo gestire più tensioni in un’area più piccola. Il gallio, un metallo morbido e bluastro, non compare diffusamente a livello geologico, in quanto viene recuperato come sottoprodotto dell’alluminio dalla lavorazione bauxite, ad un livello di concentrazione molto basso (circa 50 parti per milione). Vi sono alcuni giacimenti di zinco che contengono importanti concentrazioni di gallio, che potrebbero offrire una valida alternativa per diversificare l’attuale fornitura del metallo.
Un recente brief report del Center for Strategic and International Studies (CSIS), think tank di Washington, ricostruisce alcuni importanti dettagli nella storia scientifica e industriale intorno al gallio. Le straordinarie proprietà chimico-fisiche siano state scoperte negli Stati Uniti e con il tempo perfezionate nelle applicazioni end-use dal Defense Advanced Research Project Agency (DARPA) sin dalla fine degli anni 70’. Lo sviluppo dell’arsenuro di gallio è stato al centro della leadership americana nello sviluppo del sistema GPS, dei missili teleguidati e dei radar più avanzati. Anche il nitruro di gallio è stato lanciato, attraverso la ricerca applicata del DARPA, per lo sviluppo di radar ancora più sofisticati. Nel 2019, Raytheon si è assicurata un contratto dal Pentagono da oltre 380 milioni di dollari per lo sviluppo di chip al nitruro di gallio per i missili Patriot dello US Army. Nel 2022 è seguito un contratto da 3,2 miliardi di dollari per equipaggiare fino a 31 navi con radar AN/SPY-6 alimentati a GaN, tra cui i nuovi cacciatorpediniere Arleigh Burke classe Flight III, le portaerei e le navi anfibie della Marina.
Come anticipato, come per il 5G e gli EV, l’importanza del gallio è destinata a crescere. Quasi l’80% del gallio consumato nel mondo è sotto forma di wafer di GaN, GaAs e fosfuro di gallio (GaP), utilizzati principalmente nei semiconduttori e nelle apparecchiature di telecomunicazione. Mentre i continui progressi nella produzione di chip spingono i limiti della legge di Moore, gli esperti del settore considerano i composti di gallio una alternativa per spingere ancora oltre l’avanzamento dell’elettronica miniaturizzata. Questi trend di mercato e tecnologici dovrebbero portare a una crescita annua del 25% del mercato globale dei chip GaN fino al 2030 e si stima, come riporta il CSIS, che le applicazioni per la difesa rappresenteranno circa la metà di questo aumento. Negli USA attualmente vi sono importanti produttori come Wolfspeed e ONsemi, mentre in Europa la tedesca Infineon e l’olandese NXP già sviluppano e producono chip al nitruro di gallio. Seppur queste aziende guardino al mercato civile (automotive e telecomunicazioni), il crescente peso del nitruro di gallio per le tecnologie militari rende la supply chain particolarmente esposta, a sottolineare il valore strategico del gallio per la modernizzazione militare degli Stati Uniti e degli alleati vis-a-vis con Pechino.
CONTROLLATO DALLA CINA…
Secondo i dati dello US Geological Survey, che classifica il gallio come critico sin dal 2018, al 2022 la Cina produceva il 98% del gallio allo stato puro, principalmente come sottoprodotto dell’alluminio. La storia della presa di Pechino su questo materiale strategico segue, infatti, la progressiva delocalizzazione dell’industria siderurgia ed estrattiva che ha consegnato, in un pattern simile, nelle mani di Pechino anche l’estrazione e raffinazione delle terre rare fino alla produzione di magneti permanenti al neodimio (altro punto critico per la base industriale della difesa americana). Grazie a ingenti sussidi governativi e incentivi fiscali, la Cina ha decuplicato la produzione di alluminio (da 4,2 a 40,2 milioni di tonnellate) tra il 2000 e il 2022. Oggi le industrie cinesi, tra cui Chinalco (azienda a controllo statale) forniscono circa il 59% dell’alluminio mondiale.
Table 1 | Analisi del rischio di approvvigionamento delle materie prime. Fonte: CSIS su studio elaborato dallo US Geological Survey.
Avendo conquistato il settore dell’alluminio, la Cina ha così potuto gettare la base per assorbire la produzione globale di gallio. Come? Attraverso l’implementazione, da parte del governo centrale, di una rigorosa politica industriale. I risultati sono evidenti: dal 2005 al 2015 la produzione cinese di gallio è esplosa da 22 tonnellate metriche a 444 tonnellate metriche. La rapida ascesa della Cina nel settore ha creato un eccesso di offerta nel mercato globale, innescando gravi fluttuazioni nei prezzi del gallio per gran parte degli anni 10’ del XXI secolo. Di conseguenza, i principali fornitori nel Regno Unito, Germania, Ungheria e Kazakistan sono stati costretti a chiudere la produzione.
La dimensione relativa di questo mercato non deve ingannare: secondo una stima dello USGS, un’interruzione del 30% delle forniture di gallio potrebbe causare un calo di 602 miliardi di dollari nella produzione economica degli Stati Uniti, pari al 2,1% del prodotto interno lordo. Un leverage economico notevolissimo, senza contare le ricadute sulla sicurezza nazionale qualora si verificassero interruzioni delle forniture per l’industria della difesa. Tra il 2018 e il 2021, gli USA hanno importato gallio metallico per un valore medio di 5 milioni di dollari e wafer all’arsenuro di gallio per 220 milioni di dollari. Cifre che giustificano la convenienza economica delle importazioni, ma non il loro valore strategico: il 53% proveniva dalla Cina, seguita da Giappone (16%), Germania (13%), Ucraina (5%) e altri paesi (16%) secondo i dati della US Critical Mineral Association.
Ma come accaduto per altri minerali e metalli critici, nel giro di un decennio la dipendenza è passata a stadi a maggior valor aggiunto dal momento che il governo cinese ha deciso di investire nel settore, e in piccole-medie imprese innovative, per abilitare il suo sviluppo tecnologico. Per raggiungere questo obiettivo, Pechino sta sostenendo attivamente le aziende cinesi nel superare gli Stati Uniti e i loro alleati per diventare leader mondiale nella produzione di semiconduttori a base di gallio. Il 14° Piano quinquennale, il principale programma economico nazionale cinese pubblicato nel 2021, identifica i semiconduttori ad ampio bandgap – in particolare il GaN un altro composto, il carburo di silicio – come un’area chiave.
L’obiettivo: saltare, a piè pari, il vantaggio tecnologico occidentale basato sulla manifattura di chip basati sul silicio, facendo leva sulle nuove applicazioni (strategiche) del gallio. Un mercato relativamente recente, ma destinato come evidenziato pocanzi a maturare molto velocemente, come per gli EV. Chi riuscirà a costruire vantaggi competitivi, se ne aggiudicherà una buona fetta. L’industria dei veicoli elettrici ha bisogno di gallio metallico da aggiungere ai magneti di terre rare al neodimio ad alte prestazioni nei motori. La domanda è in crescita e, secondo le stime dell’industria, si aggira attualmente intorno alle 130 tonnellate annue. La Cina ne ricava la maggior parte per la sua industria dei magneti, mentre il Giappone ne consuma circa 30 t/a.
“Man mano che l’industria dei semiconduttori passa dal silicio al gallio, la Cina si sta preparando a ad assumere la posizione di leader”, le parole di Hao Xiaopeng dello State Key Laboratory of Crystal Materials.
E LE POSSIBILI CONTROMISURE…
Come riporta il CSIS, lo sforzo della Cina di controllare il mercato è stato multidimensionale, compresi spionaggio e acquisizioni strategiche. Proprio per la criticità del gallio, le autorità statunitensi sono intervenute più volte per tutelare aziende americane ed europee: nel 2010 una giuria federale del Massachusetts aveva condannato due cittadini cinesi per aver esportato illegalmente componenti elettronici vietati per l’esportazione e contenenti tecnologia GaAs a enti militari in Cina. Nel 2015 il Comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti (CFIUS) ha bloccato un’offerta di 2,9 miliardi di dollari da parte di investitori cinesi per la filiale di componenti LED di Philips. Il CFIUS ha citato, a motivazione del suo giudizio negativo, che la Cina ricercasse tecnologia GaN dell’azienda per scopi militari. Sempre il CFIUS ha interdetto un’offerta di 713 milioni di dollari da parte di un’azienda cinese per la filiale statunitense del produttore tedesco di chip GaN Axitron, citando le minacce alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Nel 2018 il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha incriminato due persone per aver sottratto tecnologie riservate a Wolfspeed (e uno dei principali fornitori dell’esercito americano) e destinate a due dei principali centri di sviluppo radar dell’Esercito di Liberazione della Cina (PLA).
Il governo statunitense ha imposto tariffe sulle importazioni di gallio cinese e di molti altri metalli e composti all’inizio della guerra commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina nel 2018. Anche i prodotti chimici e gli ossidi di germanio erano soggetti alle tariffe, inizialmente imposte al 10% e successivamente sono salite al 25%. Sebbene l’obiettivo fosse quello di “creare condizioni di parità”, gli industriali si sono lamentati del fatto che le tariffe hanno aumentato gli oneri per i produttori statunitensi, ma non hanno incrementato l’offerta di metalli e materiali critici.
Come per altri materiali critici, come lito e grafite su cui gli USA, tramite gli incentivi federali dell’Inflation Reduction Act (IRA) cercano di aumentare la produzione domestica, non esistono soluzioni rapide e indolori per diversificare l’offerta e attuare una strategia di de-risking dalla Cina. Il gallio, così come il germanio, viene attivamente riciclato negli Stati Uniti e in Europa. Tra i fornitori figurano l’azienda canadese Neo Performance Materials, la statunitense Indium e la belga Umicore. Pochi giorni dopo l’annuncio delle autorità cinesi sui futuri export controls, i vertici della Commissione europea hanno contattato Mytilineos Energy & Metals, un produttore greco di alluminio, per valutare la possibilità di produrre gallio come sottoprodotto della sua raffineria che trasforma la bauxite in alluminio. L’Europa importa circa il 70% del suo fabbisogno interno dalla Cina.
Tra le soluzioni elecante dal CSIS, vi sono il ricorso al Defense Production Act (DPA) già invocato dall’amministrazione Trump e i seguito da quella Biden per incentivare la produzione di materiali strategici, la collaborazione con i partner oltreoceano come l’Australia, che possiede significative riserve di bauxite, incentivare il riciclo, lo stoccaggio e una maggiore trasparenza nei flussi e nei dati di mercato, lungo tutta la catena del valore. Sforzi necessari, ma che rimarranno complessi per la natura ristretta del mercato, vista da molti operatori come una barriera all’ingresso di fronte allo strapotere cinese.
La Thailandia in attesa: i conservatori puntano a governare
La corte costituzionale ritarda la decisione sulla rinomina di Pita e causa lo slittamento di tutto il processo politico per il voto del primo ministro. Intanto il Pheu Thai ha abbandonato il Move Forward
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Francesca Albanese: «Dentro e fuori dalla cella, la Palestina è un carcere»
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di Michele Giorgio
(questa intervista è stata pubblicata il 3 agosto dal quotidiano Il Manifesto)
«L’occupazione militare israeliana ha trasformato l’intero territorio palestinese occupato in una prigione a cielo aperto, dove i palestinesi sono costantemente rinchiusi e sorvegliati». È questa la denuncia contenuta nell’ultimo rapporto presentato alle Nazioni unite da Francesca Albanese, giurista e Relatrice speciale per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati. Dal 1967, riferisce Albanese, oltre 800.000 palestinesi, compresi bambini, sono stati arrestati e detenuti in base a regole autoritarie applicate dall’esercito israeliano. Alla Relatrice abbiamo rivolto qualche domanda.
Francesca Albanese, la detenzione arbitraria è uno degli aspetti centrali della sua inchiesta
Ho preso in esame in particolare i presupposti normativi per cui la detenzione arbitraria è condotta dalle forze di occupazione israeliane. I palestinesi sono soggetti a lunghe detenzioni anche per aver espresso opinioni, pronunciato discorsi politici non autorizzati. Spesso sono ritenuti colpevoli senza prove, arrestati senza mandato, detenuti senza accusa né processo e brutalizzati durante la custodia. Il focus è sui palestinesi, perché sono i palestinesi ad essere incarcerati nel territorio occupato tanto da Israele quanto dalle autorità palestinesi in Cisgiordania e Gaza. Senza condonare o giustificare in alcun modo gli atti di violenza che commettono i palestinesi, ho riscontrato, come altri prima di me, che la maggior parte dei casi di detenzione non avviene in conseguenza di crimini o reati. Avviene per aver commesso azioni che dal punto di vista del diritto internazionale sono semplici atti di vita ordinaria. Per capirci, parliamo dell’attraversare una zona nel territorio occupato che Israele dichiara per qualche motivo chiusa. Organizzare una riunione di 10 o più persone in cui si parla di temi politici senza l’autorizzazione del governo (militare) comporta l’arresto fino a 10 anni. Il 95% dei palestinesi viene arrestato in prossimità delle colonie israeliane che ormai sono 270 nel territorio occupato, con 750.000 coloni.
Tutto ciò, lei afferma, avviene in un contesto che definisce di «carceralità diffusa».
Sì, descrivo l’ingabbiamento della popolazione. Si pensi al Muro (alzato da Israele in Cisgiordania, ndr), alle colonie che sono costruite per circondare, per strozzare la crescita urbana delle città e dei villaggi palestinesi. Si pensa ai 400 km di strade segregate che non sono accessibili e utilizzabili dai palestinesi e a come spezzino la continuità del territorio palestinese. Poi ci sono i permessi che i palestinesi devono ottenere per costruire una casa, prendere la residenza, andare in una determinata scuola, per viaggiare all’estero, per ricevere visite familiari. Persino le relazioni amorose sono regolate da ordini militari.
Quanto queste detenzioni sono la conseguenza anche della sorveglianza digitale.
Per questo argomento mi sono state utili le testimonianze dei militari dell’associazione (israeliana) Breaking the silence, che ben spiegano come la tecnologia digitale che si è sviluppata negli ultimi 10 -15 anni abbia cambiato il modo di controllare e monitorare i palestinesi. Dal seguire le loro conversazioni su Facebook al monitoraggio dei flussi telefonici. Fino alla triangolazione di tutte le informazioni sulla loro vita, anche i controlli medici. I palestinesi sono facilmente ricattabili perché tutte le loro informazioni private sono nelle mani degli israeliani. Dal 2013 in poi sono aumentati gli arresti preventivi in seguito all’utilizzo dei social media.
I palestinesi denunciano il sistema della doppia giustizia in Cisgiordania: loro sono giudicati dalle corti militari, i coloni dalle corti civili.
Questo dualismo legale che è stato criticato in passato anche dall’ex giudice della Corte suprema israeliana Barack. E ha permesso il cristallizzarsi dell’apartheid. La vita dei palestinesi è regolata da legge marziale. Anche i minori palestinesi vengono portati dinanzi a giudici militari. Ben diverso è il caso dei coloni che pure si macchiano di gravi reati contro i civili palestinesi e le loro proprietà. Raramente sono portati in giudizio. Più che di doppia giustizia dobbiamo parlare di impunità per i coloni israeliani. Pagine Esteri
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Taxi, una riforma a metà
Mentre turisti e cittadini girano in cerca di un taxi per le città bollenti come l’anima vagula e blandula cantata dall’imperatore Adriano, a rischio di diventare pallidula, rigida, nudula, nella defatigante attesa di trovarne uno, oggi il governo dovrebbe emanare un decreto per risolvere in modo categorico e definitivo per tutti il problema dei taxi. Da quel che si apprende, si procederà su due piani: la possibilità per alcuni Comuni di aumentare fino a un massimo del 20% le licenze taxi e come ciliegina l’accordo, patrocinato dal ministero delle Infrastrutture, tra associazioni di discoteche e cooperative taxi per offrire un passaggio gratuito a casa quando la notte si supera il tasso etilico consentito dalla legge per guidare l’automobile. Partiamo dal punto importante vale a dire la riforma dei taxi. L’aumento delle licenze avverrebbe attraverso concorsi
straordinari indetti solo da alcuni grandi Comuni per gli attuali licenziatari, i loro sostituti alla guida e chi è in possesso dei requisiti necessari e si affaccerebbe per la prima volta al mestiere, con preferenza di assegnazione alle prime due categorie; i proventi del “contributo” per le nuove licenze verrebbe poi versato ai tassisti odierni per ristorarli della maggior concorrenza. I Comuni potrebbero poi aggiungere licenze temporanee in caso di grandi eventi, come il Giubileo a Roma o le Olimpiadi a Milano, ma riservate solo a chi ha già la licenza (che evidentemente poi subaffitterà quella temporanea). Infine, ci sarebbe il via libera alla doppia guida, in modo tale che grazie a una sola licenza possano guidare due conducenti in orari diversi, meccanismo già in vigore in alcune città ma che non ha avuto grande successo (forse per alcune limitazioni a esso attaccate). Infine, il governo prevede ulteriori incentivi fiscali per l’acquisto di veicoli non inquinanti: un sussidio non si nega mai. Che dire? Piuttosto di niente meglio piuttosto. Quindi, la doppia guida senza troppi lacciuoli qualche autovettura in più per le strade dovrebbe portarla. Ma limitare il numero di licenze a concorso al 20% in più rispetto ad ora e solo per alcune città non ha molto senso, vista la domanda che si è creata rispetto al servizio disponibile. Inoltre, se i Comuni potranno ma non dovranno bandire nuove licenze – permanenti o temporanee -, rischiano di rimanere in ostaggio della categoria e delle sue proteste, esattamente come ora. Né nulla si preannuncia sulla liberalizzazione dei servizi per gli Ncc (auto a noleggio), flessibilità delle tariffe, piattaforme informatiche. Eppure, la scarsezza di autovetture danneggia i consumatori – incluse le persone più fragili – e l’economia che, a causa della mancanza di offerta, perde Pil potenziale. L’Autorità antitrust (Agcm), che ha aperto l’ennesima indagine per accertare eventuali pratiche restrittive, già da anni ha individuato varie soluzioni per aprire il mercato. Infatti, nel parere del 2017, pur affermando che “non esiste alcun diritto acquisito a una eventuale compensazione nei confronti degli attuali possessori di licenza” (giusto!), l’Agcm si dichiarò “consapevole che la possibilità di successo delle riforme in senso pro-concorrenziale sono strettamente legate all’adozione di misure idonee a limitare quanto più possibile l’impatto sociale dell’apertura del mercato”. Tre furono le proposte: 1) l’assegnazione a ogni tassista di una licenza supplementare con obbligo di rivendita sul mercato; 2) la vendita dello stesso numero di licenze da parte dei comuni con assegnazione del ricavato agli attuali licenziatari; 3) prevedere due tipologie di operatori, quelli gravati da obblighi di servizio pubblico (i tassisti) e quelli liberi (tipoUber), con i secondi che compensano i primi per il privilegio. Un gruppo di deputati (primi firmatari Marattin e Pastorella) ha presentato un ddl ispirato alla prima soluzione (quindi senza oneri per i contribuenti) più altre liberalizzazioni tariffarie, per le piattaforme e per gli Ncc. È la soluzione più semplice e immediata ancorché non perfetta. Tuttavia, quello che bisogna evitare è un’ulteriore falsa riforma che ci lasci più o meno al punto di partenza. Oppure qualche bizzarro esperimento che inciti tutti a uscire un po’ brilli dalla discoteca per scroccare un passaggio in taxi a carico del contribuente (escluso – giustamente – che conducenti o gestori della discoteca ci perdano soldi). Un decreto Mojito in piena regola per confermare che il nostro Paese è il più buffo del mondo.
La Stampa
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Collaborazione aerea più stretta tra Roma e Tokyo. Al via l’esercitazione nell’Indo Pacifico
Italia e Giappone insieme nei cieli dell’Indo-Pacifico. I velivoli dell’Aeronautica militare italiana sono infatti atterrati in Giappone, pronti a cimentarsi nell’esercitazione congiunta con la Japan air self-defense force (Jasdf), che prenderà il via in questi giorni nell’ambito della cooperazione Italia-Giappone. Ad accoglierli all’arrivo alla base aerea giapponese di Komatsu, in segno di amicizia, vi era un velivolo F-15 con la livrea celebrativa del centenario dell’Arma azzurra. L’esercitazione permetterà alle due Forze aeree di addestrarsi insieme su diverse attività in scenari operativi, accrescendo così le reciproche competenze in termini di interoperabilità e di capacità operativa e testando la capacità di expeditionary del nostro Paese nell’operare anche in contesti lontani dai confini nazionali. L’Italia ha infatti portato nel Paese del Sol levante velivoli dalle caratteristiche di impiego molto diverse tra loro, tra cui: tre caccia F-35 provenienti dal 32° Stormo di Amendola e uno dal 6° Stormo di Ghedi, tre KC-767° di cui due in versione tanker, il nuovo Conformal airborne early warning (Caew) G-550 e i velivoli da trasporto tattico C-130J in assetto Sar. La collaborazione stretta tra Roma e Tokyo comprende inoltre la formazione dei piloti presso l’International flight training school (Ifts) a Decimomannu e la partecipazione al progetto Global combat air programme (Gcap) per il caccia di nuova generazione.
Lo schieramento
Gli aerei militari italiani sono partiti il 30 luglio dalle basi di Pratica di Mare, Amendola e Pisa, per poi fare scalo a Doha (Qatar), Malé (Maldive) e Singapore, dove hanno dovuto attendere due giorni che il tifone Khanun perdesse forza e rendesse nuovamente agibili i cieli del Mar Cinese Orientale, permettendo così l’atterraggio finale alla base di Komatsu, nella prefettura di Ishikawa. Lo rischieramento di velivoli così diversi a oltre 10mila chilometri dai confini nazionali, è stata un banco di prova per l’Aeronautica di competenze avanzate di comando e controllo, oltre che una dimostrazione concreta della varietà di assetti che compongono la spina dorsale del potere aerospaziale nazionale. “Oggi è un giorno importante e simbolico per l’aviazione italiana e giapponese” ha commentato l’arrivo dei velivoli il Mission commander del rischieramento in Giappone, Luca Crovatti, riferendosi al raid Roma-Tokyo del 1920. “All’epoca, due coraggiosi piloti italiani arrivarono in Giappone dopo tre mesi di viaggio a bordo di semplici biplani. Quest’anno, nel centenario dell’Aeronautica militare, abbiamo replicato questo viaggio con assetti tra i più avanzati al mondo”. Il colonnello Crovatti ha poi spiegato come si svolgeranno le esercitazioni: “Nei prossimi giorni, i nostri piloti, operatori di volo e tecnici si addestreranno insieme ai colleghi giapponesi della Kōkū Jieitai, per condividere tecniche, obiettivi addestrativi e procedure operative”.
Collaborazione italo-giapponese
A fine giugno, tra l’altro, si sono incontrati a Palazzo Aeronautica a Roma i ministri della Difesa dei Paesi Gcap. Presenti per l’Italia Guido Crosetto, ministro della Difesa, per il Regno Unito Ben Wallace, segretario alla Difesa, e per il Giappone Atsuo Suzuki, viceministro della Difesa. L’incontro si è svolto in un clima positivo, e ha permesso di compiere passi in avanti verso la costituzione del consorzio alla base del Gcap. Il vertice è seguito a quello avvenuto a marzo in Giappone, quando Crosetto e Wallace incontrarono il ministro Yasukazu Hamada per discutere i prossimi passi verso lo sviluppo congiunto del Gcap, a margine del Dsei Japan, la principale manifestazione dedicata al settore della Difesa integrato giapponese. Una nuova riunione a tre potrebbe tenersi entro l’autunno. E, se la rotazione venisse rispettata, si dovrebbe tenere su suolo britannico, con la presenza del viceministro Suzuki.
Il Gcap
Il progetto del Global combat air programme prevede lo sviluppo di un sistema di combattimento aereo integrato, nel quale la piattaforma principale, l’aereo più propriamente inteso, provvisto di pilota umano, è al centro di una rete di velivoli a pilotaggio remoto con ruoli e compiti diversi, dalla ricognizione, al sostegno al combattimento, controllati dal nodo centrale e inseriti in un ecosistema capace di moltiplicare l’efficacia del sistema stesso. L’intero pacchetto capacitivo è poi inserito all’intero nella dimensione all-domain, in grado cioè di comunicare efficacemente e in tempo reale con gli altri dispositivi militari di terra, mare, aria, spazio e cyber. Questa integrazione consentirà al Tempest di essere fin dalla sua concezione progettato per coordinarsi con tutti gli altri assetti militari schierabili, consentendo ai decisori di possedere un’immagine completa e costantemente aggiornata dell’area di operazioni, con un effetto moltiplicatore delle capacità di analisi dello scenario e sulle opzioni decisionali in risposta al mutare degli eventi.
Il programma congiunto
L’avvio del programma risale a dicembre del 2022, quando i governi di Roma, Londra e Tokyo hanno concordato di sviluppare insieme una piattaforma di combattimento aerea di nuova generazione entro il 2035. Nella nota comune, i capi del governo dei tre Paesi sottolinearono in particolare il rispettivo impegno a sostenere l’ordine internazionale libero e aperto basato sulle regole, a difesa della democrazia, per cui è necessario istituire “forti partenariati di difesa e di sicurezza, sostenuti e rafforzati da una capacità di deterrenza credibile”. Grazie al progetto, Roma, Londra e Tokyo puntano ad accelerare le proprie capacità militari avanzate e il vantaggio tecnologico. Ad aprile, tra l’altro, l’Italia ha lanciato la Gcap acceleration initiative per accelerare lo sviluppo di tecnologie relative al Global combat air programme. Destinata a aziende e centri di ricerca, lo scopo dell’iniziativa è raccogliere le migliori proposte volte per la piattaforma Gcap per lavorare insieme a soluzioni innovative che possano essere applicate nel processo di maturazione tecnologica.
Le altre esercitazioni del Giappone
L’esercitazione italiana segue quella in corso sempre in Giappone tra Parigi e Tokyo, la prima tra jet di combattimento tra i due Paesi. La Forza di autodifesa aerea giapponese partecipa con tre caccia F-15 e due F-2, un aereo da trasporto KC-767 e un aereo da trasporto C-2, mentre la Forza aerea e spaziale francese schiera due caccia Dassault Rafale, un aereo da trasporto Airbus A330 Multi-Role Tanker e un aereo da trasporto Airbus A400M, oltre a un contingente di circa 120 militari. L’iniziativa dimostra soprattutto il forte impegno della Francia ad espandere la propria presenza nell’Indo-Pacifico. L’ambito aereo dell’esercitazione franco-giapponese è anche significativo, dal momento che Tokyo fa parte del programma per il caccia di sesta generazione con Italia e Uk Gcap, parallelo (e concorrente) a quello franco-tedesco Fcas. Il ministero della Difesa giapponese ha spiegato che la manovra ha l’obiettivo di “approfondire la cooperazione bilaterale nel campo della difesa a beneficio di un Indo-Pacifico libero e aperto”.
[Foto: Aeronautica militare]
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Letture asiatiche – 5 libri da leggere sotto l’ombrellone
I consigli di China Files con i libri migliori a tema Asia da leggere questa estate 2023 sotto l’ombrellone La letteratura non va in vacanza e così anche la rubrica Letture Asiatiche. Tra i moltissimi libri che ci sono piaciuti nel 2023, qui una selezione di quelli che da divorare in una giornata di relax. Qui vi avevamo parlato di ...
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NIGER. È ricca di minerali la “Cintura del golpe” cara all’Occidente
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della redazione
Pagine Esteri, 6 agosto 2023 – La chiamano la “cintura del golpe”. Comprende gran parte del Sahel, taglia nettamente il continente dividendo i nordafricani dagli africani sub-sahariani. Contiene una abbondanza di depositi minerari, di uranio e petrolio e ha la più alta concentrazione di basi occidentali del continente con in testa Gibuti che ospita militari di molte nazioni, Italia inclusa. Questa vasta regione ha un alto valore strategico in termini di risorse e per la sua posizione è in grado di influenzare sia l’Africa settentrionale che quella sub-sahariana. Da qui il grande interesse dell’Europa a mantenere al potere quei governi e regimi che maggiormente si sono dimostrati pronti a favorire bisogni ed esigenze dell’Occidente. Il Niger teatro alla fine del mese scorso di un golpe, è uno di questi.
Ma questa larga fascia che va da Ovest ed Est dell’Africa è nota anche per la sua forte instabilità. Negli ultimi 5 anni ci sono stati quasi 10 tentativi di colpo di stato. Alcuni hanno avuto successo, altri no. I motivi sono molti e in gran parte legati proprio alle ricchezze minerarie alle quali si faceva riferimento. Pesano anche le lotte tra tribù. I paesi della regione del Sahel sono eterogenei nelle loro popolazioni. Molte tribù competono e negoziano tra loro per il potere e il controllo del paese. E quando i negoziati falliscono, ha luogo il colpo di stato. Spesso gli organizzatori dei golpe usano slogan antifrancesi e anticoloniali per coinvolgere le popolazioni, molto povere, che certo non amano Parigi sempre pronta a sfruttare la regione per i suoi interessi politici ed economici. Un’avversione sulla quale giocano vari Stati per conquistare terreno nella regione, senza dimenticare il ruolo della Compagnia mercenaria Wagner che avrà pure fallito la sua sollevazione contro il Cremlino ma non ha perduto l’enorme influenza che ha in Africa.
Intanto ieri è scaduto l’ultimatum della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao), che aveva dato ai golpisti in Niger sette giorni per mettere fine al colpo di stato del 26 luglio che ha deposto il presidente Mohamed Bazoum. Tuttavia, è improbabile che alle minacce seguano azioni concrete. Il presidente nigeriano Bola Tinubu, che guida anche la Cedeao, ha tagliato le forniture di elettricità al Niger e preme per un intervento militare allo scopo di affermare la sua leadership regionale. Ma non ha ottenuto il via libera del Senato nigeriano all’invio di truppe. Piuttosto i senatori lo hanno esortato a intensificare i negoziati con i golpisti in Niger inviando nuovamente una delegazione a Niamey. Chiedono inoltre che il governo federale intensifichi gli sforzi militari contro l’organizzazione jihadista Boko Haram, vera spina nel fianco della Nigeria.
Altri Paesi africani escludono un intervento militare. “Il Ciad non agirà mai militarmente. Abbiamo sempre sostenuto il dialogo. Il Ciad è un facilitatore”, ha dichiarato Daoud Yaya Brahim, ministro della Difesa. Persino più intrasigenti contro l’uso della forza sono Mali, Burkina Faso e Guinea Conakry, di fatto sostenitori dei golpisti in Niger. L’Algeria spinge per dare più peso alla diplomazia poiché, spiega, “il ricorso alla forza che non farebbe altro che aggravare la situazione del Niger e dell’intera regione”.
La Francia, al contrario, fa pressioni sulla Cedeao per un intervento più deciso, anche militare. La ministra degli Esteri, Catherine Colonna, ha ricevuto il premier del Niger, Ouhoumoudou Mahamadou, al quale ha ribadito il pieno sostegno di Parigi al presidente Bazoum e al suo governo.
Intanto da Niamey è partito per Pratica di Mare il volo KC 767 con 65 militari del contingente italiano in Niger e 10 militari statunitensi. Nella capitale dello Stato africano rimangono 254 militari italiani. Pagine Esteri
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I servizi di questa mattina sul server Poliverso sono stati risolti. Ci scusiamo per il disagio
Buongiorno e buona domenica a tutti gli utenti di poliverso.org che stamattina, a causa di un errore nel processo automatico di rinnovo del dominio e all'incapacità del provider nel segnalare tempestivamente la problematica, e risultato irraggiungibile per alcune ore.
Il server è comunque rimasto in esecuzione e pertanto tutte le attività automatiche già impostate (importazione delle timeline, importazione o ripubblicazione di feed, ripubblicazione su bluesky, etc) hanno continuato a funzionare, ma il server non era comunque raggiungibile da parte dell'utente finale.
Purtroppo le tempistiche per la risoluzione dell'inconveniente ci erano sconosciute, in quanto non erano sotto il nostro controllo, ma dipendevano semplicemente dai tempi di aggiornamento dei DNS. Fortunatamente il disservizio è durato poche ore.
Ci scusiamo ancora per il problema.
Gli amministratori
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La situazione sul campo ucraino, tra controffensiva e tensioni al Cremlino. Il punto di Jean
Molti speravano che la tanto annunciata controffensiva ucraina ripetesse i successi che aveva avuto quella dello scorso settembre nell’area di Kharkiv, con penetrazioni profonde nelle difese russe. Anche prima dell’ammutinamento della Wagner, gli ucraini e i loro sostenitori erano consapevoli della crisi esistente nel vertice politico-militare russo. Lo stesso Putin sembrava incerto e demotivato. Non riusciva a far smettere gli insulti e le pesanti accuse di inefficienza e tradimento rivolte da Prigozhin al Ministro della difesa Shoigu e al Capo di Stato Maggiore Generale (SMG) Gerasimov.
Esse non si erano ancora estese alla critica distruttiva della “narrativa” usata da Putin per giustificare l’aggressione all’Ucraina e che tanto eco trovano in quelli che l’Economist denomina “gli utili idioti putiniani”, numerosi anche in Italia (genocidio dei russofoni da parte di Kiev, minaccia della Nato, inesistenza dell’Ucraina come nazione e sua “scippo” da parte di di nazisti e, secondo Kirill, anche di gay, e così via).
Tutto ciò faceva pensare che una sconfitta anche solo tattica facesse esplodere la crisi e inducesse il Cremlino a trattare. Una completa sconfitta era giudicata impossibile, eccetto nella propaganda di Kiev. Zelensky la propagandava anche perché la riteneva essenziale anche per mantenere unita la coalizione occidentale che lo sostiene. Elemento essenziale era la speranza di una rivolta dei militari russi, unica forza in grado di spodestare Putin dal Cremlino.
Manca in Russia un organismo, come era il Politburo nell’Urss, in grado di sfiduciare un presidente, come accadde a Kruscev due anni dopo la crisi dei missili di Cuba. Finchè Putin rimarrà al potere, qualsiasi accordo è impossibile. Non sono in gioco solo l’obiettivo di trasformare la Russia in una grande potenza globale, ma anche la sua sopravvivenza politica e forse anche fisica. Stranamente, non è stata mai dedicata molta attenzione ai rapporti civili-militari in Russia.
Tensioni fra il Cremlino e la “casta” degli ufficiali sono iniziate una ventina di anni fa e erano esplose quando nel 2001, per la prima volta nella storia russa, la carica ministro della difesa divenuto Sergei Ivanov, non proveniente dal mondo militare, ma ex-capo dell’Fsb e facente parte del “cerchio magico” che aveva seguito Putin da San Pietroburgo a Mosca. La frase pronunciata da Putin in tale occasione (“con la nomina di Ivanov, è iniziata la smilitarizzazione della società russa”) è indicativa delle tensioni esistenti fra le FF.AA. e i Servizi d’intelligence). Si trattava dell’atto conclusivo di un processo iniziatosi con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Europa centrorientale e baltica. Finì allora l’autonomia, di tipo prussiano, della casta degli ufficiali. Nell’Urss, come nell’impero zarista, era “pagata” con l’astensione dalla politica dei militari e con cospicui loro privilegi economici e statutari. Ora vedevano minacciato il loro status.
La drastica ristrutturazione delle FF.AA. fu imposta dal 2007 dal secondo ministro civile della difesa – Anatoly Serdyukov – appartenente anch’esso al “cerchio magico” sanpietroburghese. Al Ministero si verificarono vere e baruffe, con dimissioni del Capo di SMG. La situazione era divenuta tanto insostenibile che Serdyukov dovette essere sostituito da Sergei Shoigu nel 2012, con il mandato di attenuare gli attriti fra Putin e i militari. La frattura però rimase. Si estese al corpo degli ufficiali, rompendone la tradizionale unità. Si crearono lotte per il potere e pesanti faide fra le varie “cordate”.
Ad esempio il gen. Surovikin, scomparso dopo l’ammutinamento della Wagner e ideatore della linea fortificata che ha arrestato la controffensiva ucraina, e il popolare gen. Popov, comandante della 58^ Armata, destituito brutalmente, appartenevano al gruppo dei riformisti di Serdyukov. Sono stati loro a far fallire la controffensiva ucraina e a indurre Kiev a mutarne strategia, dopo i primi baldanzosi e sanguinosi assalti di giugno con mezzi corazzati alle linee fortificate russe. Gli ucraini subirono allora enormi perdite, persero molti soldati e un quinto dei carri e mezzi corazzati ricevuti dall’Occidente, rioccupando solo una minima parte dei territori perduti.
Come Putin anche Zelensky è prigioniero dei propri slogan, non tanto per il morale delle proprie truppe e popolazione, che dimostrano un’incredibile tenuta, quanto per mantenere unita la coalizione che lo sostiene, resa vulnerabile dalla contestazione dei governi che sostengono l’Ucraina. Soprattutto in Europa, molti continuano a credere alla possibilità di compromesso con Putin, che non consista in una resa all’Ucraina e che una vittoria russa possa placare – e non invece stimolare, come credo – gli “appetiti imperiali” di Mosca.
Come quelli di Putin, gli obiettivi di Zelensky non sono mutati: raggiungere il Mar d’Azov e rompere il “ponte terrestre” fra la Russia e la Crimea, da tenere sotto la minaccia delle artiglierie ucraine, rendendone a Mosca troppo onerosa l’annessione. L’odio suscitato dalla brutalità e dai bombardamenti russi sulla popolazione e le infrastrutture ucraine rendono improbabile una riduzione degli obiettivi politici di Zelensky: la rioccupazione di tutto il territorio ucraino del 1991 e la subordinazione di qualsiasi accordo con Mosca a serie garanzie di sicurezza. Lo si voglia o no, ciò implica un coinvolgimento della Nato, che un nuovo governo russo potrebbe accettare solo in cambio di garanzie di sicurezza per la Russia, in pratica con l’impegno della Cina. È su questi che occorrerebbe puntare, offrendo a un nuovo governo russo condizioni accettabili. La richiesta alleata di resa incondizionata rese impossibile una tempestiva rivolta dei generali tedeschi contro Hitler.
Il punto centrale del dibattito sugli aiuti da dare all’Ucraina consiste nell’alternativa fra il fornirle un consistente numero di carri Abrams e F-16, oppure nel darle nuovi mezzi di fuoco terrestre in profondità, nella cui utilizzazione strategica gli ucraini si sono dimostrati molto capaci, come lo sono nell’impiego di drones terrestri e navali, con consistenti effetti più psicologici che militari sui russi. Questi ultimi sono meno resilienti alla minaccia. Non lottano per la sopravvivenza della loro patria come gli ucraini.
La consegna da parte Usa di nuovi e più potenti mezzi di fuoco potrebbe invece aumentare di molto le capacità d’attrito degli ucraini e, in particolare, provocare il collasso logistico delle forze russe. La superiorità ucraina nel fuoco in profondità è diminuita rispetto al passato, perché i missili terrestri disponibili – in particolare quelli dei lanciarazzi multipli Himars (gittata 84 km) – sono a guida Gps, intercettabili e resi imprecisi dalle rinnovate capacità russe di guerra elettronica. I nuovi mezzi che dovrebbero essere dati massicciamente a Kiev sono i Glsdb (Ground Based Small Diameter Bombs), con capacità di lanciare a 150 km una bomba da 113 kg; e l’Atacms (Army Tactical Missile System), con bomba di 227 kg e gittata di 300 Km. Entrambi sono a guida inerziale, non intercettabili dai russi.
Già ora le forze russe denunciano una carenza di munizioni, anche perché i loro depositi, come quelli di carburante, sono gli obiettivi privilegiati delle azioni di fuoco ucraine. L’arrivo dei nuovi mezzi, potrebbe mettere in grave crisi le forze russe, determinando l’“evento” per una rivolta militare armi sta aumentando la centralità della “guerra dei droni”. A parer mio, carri e cacciabombardieri non possono far molto per superare i 30 km di profondità che hanno le linee fortificate russe. Kiev deve accettare il fatto che il blitzkrieg della controffensiva non è possibile, anche perché le perdite dei suoi cittadini-soldati, necessari per la ricostruzione, sarebbero troppo rilevanti.
A parte tutto, gli Abrams hanno un motore a turbina, per la cui manutenzione è necessario personale altamente specializzato. Gli F-16, a parte le efficienti difese controaeree russe, sarebbero vulnerabili alla contro-aviazione russa e non disponibili prima della fine del 2023. A nulla servirebbe una nuova mobilitazione. L’aumento dell’età di leva da 27 a 30 anni non è stato fatto per aumentare gli effettivi militari, ma per evitare che i figli della borghesia, con la scusa di studi e di attività lavorative indispensabili, sfuggano al servizio militare. La Russia non potrebbe addestrare, armare e rifornire i 5 milioni di soldati di cui taluni hanno favoleggiato.