In Cina e Asia – Quasi ultimato primo porto a gestione cinese del Sud America
Quasi ultimato primo porto a gestione cinese del Sud America
Cina, Russia primo fornitore di petrolio greggio nel 2023
Giamaica, Wang Yi conclude il tour inaugurale
Cina, 13 morti nell'incendio di un istituto privato
Cina, un laboratorio di ricerca simula attacchi contro portaerei americane con l'ausilio di armi spaziali
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GUATEMALA. Sconfitta la tattica golpista, Arévalo si prepara a combattere la corruzione
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di Tiziano Ferri
Paine Esteri, 16 gennaio 2024. Alla fine ha giurato. Bernardo Arévalo, presidente eletto del Guatemala, evita, per il momento, il prolungato tentativo di golpe architettato contro di lui. E
contro la democrazia guatemalteca. Nel paese si sta consumando, come negli ultimi anni in altri stati latinoamericani, un episodio di lawfare, cioè l’utilizzo del potere giudiziario per sovvertire il risultato del voto. A volte succede quando il
governo è in carica, come in Brasile con Dilma Rousseff, altre volte a ridosso del giuramento presidenziale, come capitato in Honduras con Xiomara Castro.
Nel caso di Arévalo, i problemi iniziano da prima della sua elezione, quando il suo movimento Semilla (sinistra) è privato della personalità giuridica con l’accusa di firme false per la propria registrazione. L’accusa della procura arriva
all’indomani del primo turno delle presidenziali (25 giugno 2023), quando il candidato anti-corruzione, dato dai sondaggi all’ottavo posto, arriva inaspettatamente secondo. Seguono denunce, riconteggio dei voti, occupazione di uffici elettorali da parte della polizia, un processo che alla fine conferma il risultato del primo turno, e quindi il ballottaggio del 20 agosto per
Arévalo. Al secondo turno il candidato del movimento Semilla vince con il 61%, con la sconfitta Sandra Torres (già primera dama dal 2008 al 2011) che non riconosce il risultato. Il conflitto tra procura, tribunale supremo elettorale e corte costituzionale, per non riconoscere la legittimità del presidente e del suo
partito, continua per tutti i mesi che separano l’elezione di Arévalo dal giorno del giuramento, fissato per il 14 gennaio. Da un lato, dei parlamentari corrotti contrari a lasciare il potere, sostenuti da parte della magistratura, dall’altro gli
organi di controllo elettorale, la pressione internazionale e le manifestazioni di piazza (animate dai popoli nativi) per il rispetto della volontà popolare.
La tattica golpista, una volta riconosciuta dal tribunale supremo l’elezione di Arévalo, punta a far decadere i congressisti eletti nel movimento Semilla, così impossibilitati a ricevere il giuramento del nuovo presidente.
La convulsa giornata di ieri parte da qui. Il presidente eletto ha già denunciato il tentativo di golpe dal settembre scorso, perciò sa che il giorno
dell’insediamento non scorrerà via liscio. La cerimonia è prevista per il mattino, con presidenti di altri paesi latinoamericani invitati, consapevoli di ciò che sta succedendo. Mentre la piazza dinanzi al congresso si riempie di manifestanti accorsi per festeggiare, gli oppositori all’interno mettono le catene alle porte
per sequestrare gli eletti del movimento Semilla.
Arévalo fa sapere che il giuramento è rimandato alle 16, e chiede ai cittadini di mantenere la calma, cosciente che eventuali disordini di piazza possono favorire chi lavora per il caos istituzionale. Il tempo passa, la situazione non si sblocca, e la protesta cresce, davanti alla polizia in assetto antisommossa. Boric, Petro, Castro, e gli
altri mandatari invitati alla cerimonia chiedono che la democrazia e la volontà popolare espressa col voto siano rispettate, emettendo un comunicato firmato anche dal segretario dell’Organizzazione degli stati americani (Oea) e dall’alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell. Col sole già tramontato da
ore, in diretta dal teatro del centro culturale Miguel Ángel Asturias, appare sui maxischermi il giuramento di Bernardo Arévalo (e della vicepresidente Karin Herrera) nelle mani del nuovo presidente del congresso, l’esponente di Semilla Samuel Pérez. Migliaia di persone, in piazza a Città del Guatemala, possono
festeggiare con balli e fuochi d’artificio, al termine di una giornata impegnativa.
Il governo che Arévalo si appresta a presiedere includerà diverse tendenze politiche, poiché gli eletti di Semilla non hanno la maggioranza al congresso, necessaria per l’approvazione delle leggi. La compattezza della coalizione
governativa è solo uno dei problemi del nuovo corso: funzionari, politici e magistrati ostili si batteranno per mantenere privilegi e corruzione, come si è visto negli ultimi mesi. Ormai giunte le 5 del mattino, Arévalo è andato in piazza per ringraziare i capi ancestrali, protagonisti di una resistenza di 106 giorni in difesa della democrazia. Dovrà ricambiare con una politica di vero cambiamento, se vuole mantenerne l’appoggio, e provare a portare a termine
un mandato pieno di insidie.
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STATI UNITI-GAZA-RUSSIA. Seymour Hersh: I costi politici delle guerre di Biden
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di Seymour Hersh*
(traduzione di Federica Riccardi)
(foto di archivio dell’ambasciata Usa a Tel Aviv)
Pagine Esteri, 22 gennaio 2024 – Donald Trump ha vinto alla grande in Iowa questa settimana, come chiunque abbia un briciolo di buon senso sapeva che sarebbe accaduto, nonostante i giorni di disonesti e noiosi “wishful thinking” di CNN e MSNBC, e di alcuni organi di stampa, sulla possibilità di un’impennata di Haley in Iowa che si sarebbe potuta trasferire in New Hampshire. Ma non se ne parla.
Il candidato repubblicano sarà Donald Trump, a meno che non venga fermato dai tribunali, e a questo punto le probabilità sono che egli, se non imbrigliato, si aggiudicherà la vittoria a novembre e potrebbe portare con sé la Camera e il Senato. La risposta dei Democratici, con poche eccezioni, è stata quella di entrare in uno stato di negazione. Nel mio mondo di Washington, il disastro incombente viene messo da parte dai democratici fedeli che insistono sul fatto che Biden ha già battuto Trump una volta e può farlo di nuovo. Chi si lamenta, o nota con dovere, la mancanza di vitalità politica della vicepresidente Kamala Harris si sente dire che è razzista o misogino.
I risultati iniziali di Biden – leggi che hanno migliorato la vita quotidiana di milioni di americani in condizioni di disperato bisogno – sono stati cancellati da una serie di errori di politica estera che derivano dall’ignoranza e dalla viscerale russofobia che ha fatto sì che lui e i suoi assistenti di politica estera si rifiutassero di assicurare al Presidente russo Vladimir Putin, prima che premesse il grilletto, che gli Stati Uniti non avrebbero mai sostenuto l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Questo sarebbe stato sufficiente, con un’elaborazione più completa, per impedire al sovrano russo di lanciare una guerra tutt’altro che necessaria.
Lo scorso novembre, un’analisi condotta da Michael von der Schulenburg, funzionario delle Nazioni Unite in pensione, Hajo Funke, politologo, e dal generale Harald Kujat, il più alto ufficiale tedesco della Bundeswehr e della NATO prima del suo pensionamento, ha concluso che una soluzione della guerra era possibile nel marzo 2022, un mese dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Il documento, i cui risultati sono stati ampiamente riportati in Europa ma non negli Stati Uniti, ha affermato che i colloqui sono stati sabotati dalle obiezioni della NATO, dell’amministrazione Biden e del governo britannico, allora guidato dal primo ministro Boris Johnson.
Ciononostante, sono ancora in corso colloqui di pace segreti tra i principali generali di Russia e Ucraina, con un accordo sullo scambio di prigionieri in procinto di essere raggiunto. Il rilascio di prigionieri di guerra americani da parte del Vietnam del Nord è stato il fattore chiave per la fine della guerra. Non è chiaro quale sia la posizione dell’amministrazione Biden su questo accordo. Non si sa nemmeno se il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky sia in qualche modo coinvolto nei colloqui. A questo punto sembra improbabile.
Il sostegno di Biden a Israele e alla sua risposta selvaggiamente sproporzionata – i pesanti bombardamenti che continuano tuttora – agli orrori del raid di Hamas del 7 ottobre è ufficiale: “Vi copriamo le spalle”, ha detto al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, riferendosi alle bombe e alle altre armi che continuano ad affluire in Israele, recentemente senza l’approvazione del Congresso, come previsto dalla legge. Il Presidente parla di un cessate il fuoco, ma non ha fatto alcuna richiesta specifica a Tel Aviv. Milioni di persone in tutto il mondo, tra cui migliaia di persone in America, hanno protestato contro il sostegno dell’America alla guerra di Israele, ma il Presidente non si è fermato. La migliore difesa che riesce a trovare è sostenere di aver effettivamente sollevato la questione del cessate il fuoco con gli israeliani.
L’espressione più chiara della visione di Biden sulle responsabilità americane dopo il 7 ottobre si è avuta in un discorso televisivo pronunciato il 19 ottobre, dopo la sua seconda, brevissima visita a Tel Aviv, quando lui e il Segretario di Stato Antony Blinken hanno partecipato a una riunione sulla sicurezza nazionale israeliana. Era un momento in cui la ferocia dei bombardamenti israeliani sulle case e sugli edifici di Gaza City, con le loro migliaia di vittime civili, aveva appena iniziato a sollevare interrogativi. Israele stava chiaramente rispondendo all’attacco di Hamas prendendo di mira tutto ciò che si trovasse a Gaza.
“So che abbiamo delle divisioni in casa”, ha detto Biden. “Dobbiamo superarle. Non possiamo permettere che unaa politica meschina, partigiana e rabbiosa intralci le nostre responsabilità di grande nazione. Non possiamo e non vogliamo lasciare che terroristi come Hamas e tiranni come Putin vincano. Mi rifiuto di permettere che ciò accada”. Ha chiesto al Congresso uno stanziamento di 100 miliardi di dollari per gli aiuti all’estero, che includa finanziamenti sia per Israele che per l’Ucraina.
Nelle ultime due settimane Biden ha deciso di ordinare alla Marina statunitense di attaccare gli Houthi dello Yemen, che da settimane lanciano missili nel tentativo di costringere alcune delle maggiori compagnie di navigazione del mondo a evitare la scorciatoia di dieci giorni tra l’Occidente e l’Estremo Oriente, non rischiando più di navigare attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez. I missili non si fermeranno, dicono gli Houthi, fino a quando Israele non porrà fine ai suoi bombardamenti e non consentirà il flusso di cibo, acqua, medicinali e altri aiuti salvavita ai terrorizzati civili di Gaza. Al momento in cui scriviamo, ci sono state tre serie di attacchi, via mare e via aria, da parte di navi e aerei americani e britannici. Gli Houthi, sciiti rivoluzionari i cui lanciamissili sono mobili e possono essere facilmente nascosti, sono ancora in azione. Il New York Times ha riferito questa settimana che il proseguimento della campagna degli Houthi “ha reso evidente quanto possa essere difficile eliminare la minaccia per la navigazione nel Mar Rosso e nelle sue vicinanze”.
Gli strateghi del Pentagono avrebbero fatto bene a consultare i sauditi prima di bombardare lo Yemen. Come scrive Bernard Haykel, professore di studi sul Medio Oriente a Princeton, in un saggio del 2021, i sauditi consideravano “un po’ erroneamente” gli Houthi come una pura “proxi force” iraniana, simile a Hezbollah, la milizia sciita che oggi svolge un ruolo politico di primo piano in Libano e che è ancora vista da Israele come una minaccia importante. “Gli Houthi sono effettivamente stretti alleati dell’Iran, ma hanno un’ideologia decisamente più radicale di trasformazione della società. . . . In effetti, il programma rivoluzionario degli Houthi può essere paragonato a quello dei Vietcong”.
I Viet Cong? Haykel invoca i guerriglieri che hanno affrontato con successo gli Stati Uniti, con molti aiuti da parte del Vietnam del Nord, dopo oltre un decennio di brutali combattimenti che sono costati all’America 58.000 caduti e la morte di 1,6 milioni di soldati vietnamiti, 260.000 soldati cambogiani e 2 milioni di civili nella regione.
In una guerra iniziata nel 2015 dall’allora ministro della Difesa Mohammed bin Salman, oggi principe ereditario, e caratterizzata da incessanti bombardamenti sauditi su obiettivi Houthi, i sauditi hanno avuto bisogno di ben sette anni prima di rassegnarsi e cercare un accordo con gli Houthi. L’America è stata un alleato saudita fondamentale in quella guerra, fornendo intelligence, armi e rifornimento aereo per i jet da combattimento sauditi. Un fattore importante per l’accordo è stata la continua capacità degli Houthi, nonostante il costante bombardamento saudita, di lanciare missili che hanno colpito obiettivi chiave, molti dei quali legati alla produzione di petrolio, nell’Arabia Saudita orientale.
Gli strateghi americani di oggi dispongono di molti più strumenti e intelligence di quelli disponibili all’apice della guerra del Vietnam, ma i primi giorni di conflitto nel Mar Rosso hanno replicato l’esperienza dei sauditi. L’America e la Gran Bretagna attaccano gli obiettivi con missili e razzi calibrati con precisione, ma tutto ciò non serve a ridurre la capacità di attacco degli Houthi: il fenomeno Viet Cong.
Due punti sembrano chiari, anche in questa fase iniziale della nuova guerra di Biden: non ci sarà un’invasione di terra americana nello Yemen e nessuno alla Casa Bianca di Biden può essere sicuro di quali risultati otterrà l’attacco agli Houthi. Le principali compagnie di navigazione del mondo potrebbero decidere di evitare il rischio di un colpo diretto fatale, per quanto improbabile, e investire nei dieci giorni e nel carburante extra per evitare la scorciatoia del Mar Rosso. I costi, soprattutto in termini di prezzo a cascata sulla benzina qui in America, sono difficili da prevedere, ma qualsiasi balzo significativo di tale prezzo sarebbe un altro chiodo nella bara politica di Biden.
La settimana scorsa ho sollevato la questione delle possibilità politiche di Biden con un petroliere veterano, un vecchio amico che mi ha detto: “Non bisogna mai sottovalutare gli Houthi. Non temono la mancanza di rispetto”.
Quindi, cosa si può presumere con certezza che il Presidente sapesse della storia degli Houthi, immuni alle minacce e alle bombe, mentre approvava quella che potrebbe essere una guerra difficile e forse intrattabile con una setta religiosa fanatica? La risposta probabile è: non molto.
Il Presidente si rende conto che gli attacchi guidati dagli americani contro gli Houthi, anche se avranno successo, non cancelleranno il danno politico che sta subendo per il suo continuo sostegno a una guerra persa in Ucraina? Anche questo sembra improbabile. E ancora più significativa è la domanda se non si renda conto del costo, soprattutto in termini del voto dei giovani, della sua riluttanza a smettere di fornire armi a Israele e a chiedere un cessate il fuoco a Netanyahu, che ha proclamato che Israele continuerà la guerra finché tutti gli elementi di Hamas non saranno distrutti? Netanyahu è sostenuto in questa sua ostinata posizione dalla maggioranza della popolazione in Israele.
Biden può ritenere che la sua capacità di mantenere la rotta sia essenziale per vincere un secondo mandato, ma ci sono molte persone, molto coinvolte nella raccolta di fondi ad alto livello per i Democratici, che non sono d’accordo. Questi addetti ai lavori sanno che l’ex Presidente Barack Obama, che non ammetterà mai pubblicamente la portata della sua insoddisfazione, teme che le possibilità di vincere la corsa contro Trump stiano diminuendo a meno che non ci sia un cambiamento di strategia, a cominciare dal convincere Biden a rinunciare al controllo delle finanze della campagna. Questo è visto come un primo passo per prenderne il controllo – e forse convincere il presidente in carica a farsi da parte. Pagine Esteri
Link originale:
seymourhersh.substack.com/p/th…
*E’ un famoso giornalista investigativo americano, autore di 11 libri. Ha ottenuto il riconoscimento nel 1969 per aver denunciato il massacro di civili inermi a My Lai e il suo insabbiamento da parte degli Stati uniti durante la guerra del Vietnam. Per quella rivelazione ha ricevuto nel 1970 il Premio Pulitzer. Nel 2004, ha dettagliato torture e abusi compiuti dai militari Usa sui prigionieri ad Abu Ghraib in Iraq. Nel 2013 Hersh rivelò che le forze ribelli siriane, piuttosto che il governo, avevano attaccato i civili con gas sarin a Ghouta. Nel 2015 ha dato un resoconto alternativo del raid statunitense in Pakistan che uccise Osama bin Laden.
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L’austerità fa un’altra vittima: attacco ai consultori l Coniare Rivolta
"Di fronte ad una macelleria sociale meticolosamente programmata per gli anni avvenire e scolpita nella pietra dal nuovo patto di stabilità europeo, un dettaglio rivela con chiarezza l’ipocrisia del mantra della scarsità delle risorse: le spese militari sono e saranno escluse nei prossimi anni dal computo dei limiti della spesa pubblica. Non la sanità, non l’ambiente, non i diritti delle donne, non l’istruzione, non il lavoro, ma le armi."
#laFLEalMassimo – Episodio 111: Innovazione e Concorrenza
In apertura ricordo sempre che una rubrica che parla di libertà non può ignorare come l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia costituisca un’aggressione ai danni di un popolo sovrano e una minaccia per tutte le società aperte del mondo libero.
In questo episodio vorrei suggerire un collegamento tra gli interventi di Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa San Paolo, intervenuto al Word Economic Forum di Davos e quello di Fabio Panetta, governatore della Banca d’Italia insediato da poco.
Entrambi si occupano dell’economia italiana e delle sfide che si trova a fronteggiare. Messina guarda della riduzione dei tassi di interesse che potrebbe tardare rispetto alle attese dei mercati, esprime fiducia della capacità del paese di resistere e indica come principale criticità la dimensione del debito pubblico, che andrebbe ridotto attraverso un piano di privatizzazioni (anche se questa parola tabù non viene pronunciata in modo esplicito. Panetta vede la crescita italiana sotto l’1% e suggerisce di rivedere il modello di sviluppo del paese anche attraverso il reshoring, cioè, riportando in Italia una parte delle produzioni attualmente localizzate all’estero e evidenziando anche le necessità di modernizzazione del paese.
Entrambi gli interventi denotano una visione dirigista e quasi presuppongono un ambiente chiuso e autoreferenziale, ignorando il convitato di pietra della concorrenza internazionale e degli incentivi alla libera circolazione delle persone e delle merci.
Non è la volontà di un funzionario o il dettato di una legge che può decidere dove andranno le imprese a produrre e quanto siano capaci gli individui di innovare. Questi risultatidipendono dalla combinazione di incentivi determinata dalle regole e dalle istituzioni del paese oltre che dalla concorrenza dei sistemi alternativi e degli operatori che vi risiedono.
L’Italia è oggi un sistema ostile al cambiamento e all’innovazione dal quale innovatori e risk taker espatriano e nel quale è sempre meno conveniente produrre, per modificare questo assetto è necessaria una vera e propria rivoluzione culturale, posto che anche la classe dirigente comprende a fatica le trasformazioni in atto nel resto del mondo. Anche la riduzione del debito, sicuramente auspicabile, andrebbe realizzata trattando i risparmiatori italiani come interlocutori consapevoli e informati e non come il solito parco buoi al quale addossare i costi di un Gattoparto che cerca di cambiere tutto affinchè nulla cambi.
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RECENSIONE : MENGO T – CARTOLINE EP-TRULLETTO RECORDS
Capolavoro psichedelico di provincia, molti mondi in quattro canzoni, che si sentire e risentire, per tutti gli esploratori del mistero che non sono tornati per intero.
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RECENSIONE : ALESSANDRO ADELIO ROSSI – ÒPARE
Alessandro Adelio Rossi - Òpare: Un’esperienza sonica dove i sensi si perdono all’ interno di stanze vuote, messaggi provenienti da altre dimensioni ed altri universi
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RECENSIONE : JUNTA – JUNTA
RECENSIONE : JUNTA – JUNTA
Gli Junta sono un gruppo hc newyorchese molto solido e parecchio rumoroso, qui al debutto sulla lunga distanza con il disco omonimo che esce per la Sentient Ruin Laboratories.
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ContAbilità
Si faccia molta attenzione a giocare con i conti, altrimenti ci si ritrova come il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, a sostenere che il debito è una droga che rende schiavi, dopo che per anni il suo partito ha lasciato intendere che drogarsi di debito sia un atto di libertà. Ora non si lasci intendere che gli obbiettivi di crescita 2024, fissati nella legge di bilancio, sono difficilmente raggiungibili a causa delle guerre, perché non lo erano già quando sono stati scritti e far finta che non sia così porta male. L’abilità nel tenere i conti – in questo caso pubblici – consiste nella capacità di conciliare il possibile con il necessario. Se si usa l’abilità per lasciare intendere cose diverse dal reale poi si resta prigionieri del proprio stesso inganno, come capita con il debito.
La legge di bilancio è stata varata il 30 dicembre scorso. Nei venti giorni successivi, a parte l’anno, non è cambiato niente. Le guerre in corso sono le stesse, esattamente nella condizione che già descrivevamo. Basterà prendere i numeri de “La Ragione” e scoprire che già da novembre scrivevano dei terroristi yemeniti Houthi e dei loro attentati alla libera navigazione commerciale, eseguiti grazie a quattrini e armi forniti dall’Iran. La novità è la reazione occidentale, ma non è quella che cambia le carte dell’economia. Semmai, a proposito, è interessante vedere quanti – giustamente – si dolgono dei problemi a Bab el-Mandeb, ovvero le non casuali Porte del Lamento, ma molti di loro hanno passato anni a maledire la globalizzazione e l’arrivo di merci e semilavorati da Est. Avevano torto, si guardano dal dirlo – e passi – ma rinunciano anche a pensarci.
Quel 30 dicembre, inoltre, erano già conclamati la crisi tedesca e il loro bordeggiare la recessione. Crisi innescata dall’incepparsi di un modello energetico, ma anche da altre vulnerabilità. Eppure quanti oggi dicono che cresciamo meno perché la Germania tira di meno sono gli stessi che per anni hanno seminato veleno sui tedeschi e strillato che il loro governo non avrebbe dovuto aiutare le imprese. Forse la nostra convenienza era altra. Non è la prima volta che la Germania è il malato d’Europa e non sarà la prima volta che si riprenderà, ma sarebbe bello che non ci fosse una moltitudine pronta a dire una cosa e il suo contrario.
Infine, il 30 dicembre i tassi erano già saliti (pur rimanendo inferiori a quelli statunitensi o inglesi) e già si sapeva che il loro calo sarebbe stato possibile una volta assicuratisi che l’inflazione non uscisse fuori controllo, come era capitato. C’è da aggiungere che legare così direttamente il calo del debito e il quadrare dei conti al calo – futuro – dei tassi d’interesse è come dire di non avere alcun controllo dei propri conti, sperando che maree e correnti portino in qualche insenatura e non in mare aperto.
Sapevamo tutto, tanto che noi, sulla base dei dati che andavamo leggendo, potevamo qui scrivere: l’1,2% di crescita, nel 2024, non è realistico. Sicché i conti vanno aggiustati in modo che la conseguenza non sia una crescita – anziché la prevista diminuzione – del peso percentuale del debito sul Prodotto interno lordo.
Ora il ministro dell’Economia va a Davos e dice: «Se scoppia una guerra al mese sarà difficile» raggiungere quell’obiettivo. Nessuno può negargli l’abilità nel parlare politicamente dei conti, ma la contabilità sanno tenerla anche gli altri e se le acque continuano a essere calme è perché non c’è ragione di dubitare della copertura difensiva europea e perché Meloni e von der Leyen appaiono come coppia affiatata e dotata di futuro. Ma, ancora una volta: questo è l’opposto di quel che vuole una parte della maggioranza di governo, specie nel partito di Giorgetti.
Farebbero bene a trovare il tempo di occuparsene e risolvere, senza tirare in ballo le guerre. Anche per evitare che finisca come il ‘fine vita’, ove la pietà per la sofferenza non è riuscita a superare la voluttà d’usare il tema per colpire l’avversario interno. Al partito, naturalmente.
La Ragione
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Ministero dell'Istruzione
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Spesa e difesa
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VIDEO JENIN. Tra i detriti del campo profughi devastato dai raid israeliani
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Pagine Esteri, 20 gennaio 2024. Il campo profughi di Jenin è uno dei luoghi più emblematici del conflitto, della diaspora palestinese e dell’occupazione israeliana della Cisgiordania. I raid dell’esercito, già numerosi prima del 7 ottobre, sono diventati quotidiani dall’inizio della guerra di Gaza.
Quando i militari invadono il campo profughi con i mezzi corazzati e i cecchini, gli scontri a fuoco con i combattenti palestinesi arrivano a durare ore, o addirittura giorni. I cecchini israeliani si appostano sui tetti delle case e i bulldozer distruggono le strade, bucando l’asfalto fino a raggiungere la rete idrica, rendendola inservibile. Anche la rete elettrica viene danneggiata e le macerie vengono spostate dalle ruspe, fino a ostruire le strade e rendere impossibile il passaggio delle automobili e delle ambulanze.
Ma i raid e i razzi telecomandati non colpiscono solamente i combattenti palestinesi. Il 7 gennaio un drone ha ucciso 7 persone. Tra di esse 4 fratelli, Rami Darwish di 22 anni, Ahmed di 24, Hazza di 27, e Alaa di 29. Il servizio video da Jenin di Eliana Riva.
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🔴Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 18 gennaio 2024 l’Avviso di indagine conoscitiva in materia di webscraping.
👉Al via la possibilità di inviare osservazioni, commenti ed eventuali proposte operative
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Vi racconto il loschissimo Jet SR-71 Blackbird, incubo dei radar sovietici
Allacciate bene le cinture perché oggi si vola a più di tre volte la velocità del suono. Sì, avete capito bene, perché il Lockheed SR-71 “Blackbird” era in grado di viaggiare alla (folle) velocità di Mach 3.35 (circa di 3500 km/h) durante la missione! Sintesi di tutta la migliore tecnologia americana, l’SR-71 è stato l’incubo dei radaristi e delle batterie missilistiche sovietiche e non, che negli anni hanno sparato oltre 4000 missili senza mai abbatterlo, ed era così veloce che nessun aereo intercettore ebbe mai la possibilità di acciuffarlo. Ma andiamo con ordine e partiamo dalla storia di questo leggendario aereo.
LA GUERRA FREDDA
Come da tradizione, anche la storia del Blackbird è una storia di spie o, meglio, una storia per le spie perché SR-71 fu progettato e realizzato per operazioni di spionaggio aereo, ovvero ricognizioni aeree dei territori nemici, specialmente quelli dell’Unione Sovietica. Agli inizi della Guerra Fredda, infatti, la Cia era alla ricerca di un ricognitore strategico che fosse più veloce degli U-2 in servizio e che, inoltre, fosse “non individuabile” e “non abbattibile”.
IL PROGETTO ARCHANGEL
La Cia si rivolse quindi alla Lockheed che lanciò il Progetto Archangel guidato da Kelly Johnson, capo dell’unità Skunk Works, la divisione della Lockheed dedicata ai velivoli sperimentali. I vari prototipi degli aerei sviluppati vennero denominati con le sigle A-1, A-2, A-3 e così via fino al dodicesimo, l’A-12, che fu selezionato come definitivo e ne furono ordinati 12 modelli dando l’avvio al programma speciale per la produzione degli aerei-spia (Black Projects) denominato OXCART.
L’-A12
L’A-12 volò per la prima volta a Groom Lake, la celeberrima Area 51, il 25 aprile 1962 e divenne pienamente operativo nel novembre 1965. La prima operazione militare dell’A-12 fu la Black Shield svoltasi nel corso della guerra in Vietnam che consistette nel fotografare le postazioni missilistiche SAM nel Vietnam del Nord, da un’altezza di 24.000 m a Mach 3.1; in seguito, partecipò ad altre 21 operazioni militari, sempre nel corso del medesimo conflitto. Prestò servizio anche sui cieli della Corea del Nord in missioni destinate alla ricognizione delle forze armate del paese e fotografò anche la nave-spia USS Pueblo dopo la sua cattura da parte di navi nordcoreane, ma questa è un’altra storia.
SR – STRATEGIC RECONNAISSANCE
Gli ingegneri della Skunk Works avevano però ulteriormente sviluppato il progetto dell’A-12 ideando altre versioni: un ricognitore, un intercettore e un bombardiere. Le ultime due vennero scartate in fase di progettazione mentre la prima, la versione da ricognizione, venne messa in produzione con la sigla SR-71 dove SR stava per Strategic Reconnaissance.
IL LOSCHISSIMO SR-71 BLACKBIRD
Fu così che nacque l’SR-71 Blackbird, un aereo da ricognizione strategico ad altissima velocità, massima sintesi della tecnologia americana dell’epoca che volò per la prima volta il 22 dicembre 1964 a Palmdale, in California ed entrò in servizio nel gennaio 1966.
I PRIMORDI DELLA TECNOLOGIA STEALTH
Rispetto all’A-12, il Blackbird era più lungo di circa 180 cm e pesava 15.000 libbre in più a pieno carico ma soprattutto fu il primo ad essere progettato con criteri stealth: la forma dell’aereo fu infatti modificata per ridurre al minimo la riflessione radar, vennero studiati degli appositi materiali radar-assorbenti chiamati RAM e venne utilizzata per la prima volta una particolare vernice nera stealth, conosciuta come “Iron ball”, composta da microscopiche sferette rivestite di ferrite e carbonile di ferro, che assorbiva le onde radar.
UNA VIRATA PIU’ LARGA DELLO STATO DELL’OHIO
Spinto da due Pratt&Whitney J58-1, turboreattori convertibili in statoreattori, l’SR-71 era capace di superare Mach 3, cioè una velocità di 1.020 M/S: per intenderci a Mach 3.2, l’aereo era più veloce di un proiettile 30/06 sparato dal fucile M1 Garand della Seconda Guerra Mondiale, che aveva una velocità iniziale di 2.800 piedi al secondo, ed era talmente rapido che a quella velocità la sua virata in quota era più larga dello stato dell’Ohio.
IL TITANIO SOVIETICO
A oltre Mach 3 le superfici esterne dell’aereo raggiungevano temperature superiori ai 300°C e perciò gli ingegneri della Skunk decisero di utilizzare il titanio al posto dell’allumino per il rivestimento; ma c’era un problema: gli Stati Uniti non producevano il titanio e il primo produttore era niente po’ po’ di meno che l’Unione Sovietica! Entrò così di scena la CIA che creò una società di comodo in Europa per importarlo negli States…. ma anche questa, è un’altra storia.
RISCALDAVA ANCHE IL CIBO
Per resistere alle elevate temperature i finestrini del Blackbird furono realizzati con il quarzo perché il vetro comune a 300°C si sarebbe rotto; ma queste temperature così elevate furono, per certi versi, un beneficio per i piloti perché durante le missioni lunghe e faticose potevano riscaldare i loro pasti semplicemente appoggiando il cibo al finestrino!
… E PERDEVA ANCHE CARBURANTE!
Subito prima del decollo e dopo l’atterraggio del Blackbird si verificavano perdite di carburante, ma ciò era voluto: i serbatoi erano progettati per diventare stagni grazie alla dilatazione termica durante il volo ad alta velocità, evitando così la rottura dei serbatoi stessi. Per evitare che l’elevata temperatura dei pannelli esterni riscaldasse l’intero aereo, il carburante veniva pompato in intercapedini tra tali pannelli e la struttura dell’aereo, prima di essere mandato ai motori per essere bruciato, fungendo così da fluido refrigerante.
PNEUMATICI D’ARGENTO
Per resistere alla temperatura, la gomma degli pneumatici del carrello di atterraggio dell’SR-71 venne ricoperta con una vernice color argento composta da alluminio in polvere. L’aggiunta di alluminio allo pneumatico garantiva un punto di infiammabilità molto più elevato, aiutandolo a resistere all’elevato calore causato dall’attrito con il terreno durante l’atterraggio a velocità estreme. Ogni pneumatico costava $ 2.300 e durava per circa 15 atterraggi completi. Per rallentare ulteriormente l’atterraggio il Blackbird era dotato anche di un enorme paracadute di trascinamento.
LA POTENTISSIMA APPARECCHIATURA FOTOGRAFICA
Essendo un aereo da ricognizione con lo scopo di localizzare, identificare e fotografare bersagli come edifici militari, caserme, basi aeree, ecc. ecc, l’SR-71 fu dotato di un enorme set di telecamere, radar e altri sensori. Uno dei suoi straordinari sensori ottici era l’Optical Bar Camera (OBC), una fotocamera ad alta risoluzione, progettata per creare una mappatura continua di una striscia di terreno larga circa 120 km. Altro gioiellino installato sul Blackbird era la Technical Objective Camera (TEOC) un apparecchio fotografico ad altissima risoluzione, orientabile, in grado di scattare fotografie estremamente dettagliate del territorio sottostante.
HABU
Durante la sua carriera, la base operativa principale dell’SR-71 fu quella di Kadena, sull’isola di Okinawa in Giappone. Qui i cittadini nipponici, vedendo decollare e atterrare il Blackbird, iniziarono a chiamarlo “Habu”, perché il suo colore e le sue linee distintive ricordavano il velenosissimo serpente presente sull’isola.
I VOLI IN EUROPA
Le operazioni europee partivano invece dalla base della RAF di Mildenhall, Inghilterra e avevano due rotte: una era lungo la costa occidentale norvegese e lungo la penisola di Kola, dove erano situate diverse grandi basi navali della flotta settentrionale della Marina sovietica, l’altra sul Mar Baltico, che era conosciuta come “Baltic Express”, uno stretto tratto di spazio aereo internazionale vicino alla Svezia utile per raggiungere gli altri obiettivi in Unione Sovietica.
L’INCIDENTE SUL BALTICO
Il 29 giugno 1987 un SR-71, mentre era in missione, ebbe un’avaria proprio sulla Baltic Express. Il pilota, per evitare di essere intercettato dai sovietici, virò verso lo spazio aereo della Svezia dove venne raggiunto da due aerei JA 37 Viggen svedesi allertati dal loro controllo radar. I Viggen volarono accanto al Blackbird e osservarono che uno degli enormi motori a reazione dell’SR-71 era esploso durante il volo, inficiandone la sua capacità operativa. Arrivarono però anche dei Mig-25 sovietici con l’ordine di abbatterlo o di costringerlo all’atterraggio, ma i Viggen svedesi formarono una scorta per difendere l’SR-71 che atterrò sano e salvo nella Germania occidentale dove fu poi recuperato dall’aeronautica americana.
RECORD DEI RECORD
Nel corso della loro carriera operativa, i 32 esemplari costruiti entrarono più volte nel Guinness dei Primati, stabilendo un’ampia serie di record ancora oggi rimasti imbattuti: massima quota di tangenza in volo sostenuto (26.000 m) e massima velocità di volo raggiunta (3.529 km/h). A questi vanno aggiunti altri record di velocità su alcune tratte, fra cui quello stabilito dal Maggiore dell’aeronautica statunitense James V. Sullivan e il Maggiore Noel F. Widdifield: i due nel 1974 riuscirono a coprire in 1 ora 54 min 56 secondi la rotta fra New York e Londra, stabilendo il record per il volo più veloce sull’Atlantico. La velocità media lungo il percorso di 5.570,80 km fu di 2.908,02 km/h.
IL RITIRO
Troppo costoso da mantenere l’SR-71 fu ritirato dall’aeronautica militare dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Il 6 marzo 1990 un Blackbird, prima del suo trasferimento al National Air and Space Museum dello Smithsonian Institution nei pressi dell’Aeroporto Internazionale di Washington-Dulles, stabilì gli ultimi record: da West Coast ad East Coast – Distanza: 3.869 km, Tempo: 1h07’53,69″, Velocità media: 3.417 km/h (Mach 2,8); Da S. Louis a Cincinnati – Distanza: 500 km, Tempo: 8’31,97″, Velocità Media: 3.524 km/h (Mach 2,9); Da Kansas City a Washington D.C. – Distanza: 1.516 km, Tempo: 25’58,53″, Velocità Media: 3.501 km/h (Mach 2,93). Altri SR-71 dismessi sono custoditi all’interno di alcuni musei dell’aviazione negli Stati Uniti mentre un A-12 è esposto sull’USS Intrepid, oggi sede dell’Intrepid Sea-Air-Space Museum, ormeggiata a Manhattan.
L’SR-72 “IL FIGLIO DEL BLACKBIRD”
Nel 2013 la Lockheed Martin ha annunciato il successore dell’SR-71: il Blackbird SR-72, denominato “Son of Blackbird”, un UAV ipersonico progettato per l’intelligence, la sorveglianza e la ricognizione. Sebbene l’SR-72 sia ancora in fase di sviluppo, l’azienda ha dichiarato che un prototipo potrebbe volare già nel 2025 ed entrare in servizio nel 2030. Il velivolo potrà lanciare missili ipersonici e sarà dotato di un sistema di propulsione in grado di far decollare il jet da fermo a Mach 6; ciò renderebbe il “Figlio del Blackbird” circa due volte più veloce del precedente.
Il giorno in cui la mia mente è diventata open source
Ripubblico qui su Friendica una vecchia traduzione dell'articolo "Il giorno in cui la mia mente è diventata open source" di Phil Shapiro
Qui il testo originale: opensource.com/life/12/4/day-m…, distribuito con licenza Creative Commons by-sa
Avevo letto l'articolo per la prima volta su Framablog nella traduzione francese di Alexis Kauffmann
Buona lettura 😀
Ricordo chiaramente il giorno esatto in cui la mia mente è diventata open source. Era una giornata fresca e soleggiata del novembre 1973. Dopo le lezioni alla scuola media, ho chiamato il mio migliore amico, Bruce Jordan e gli ho chiesto: “Posso venire a giocare adesso?” Bruce ha risposto: “Certo.” Sono saltato sulla mia bicicletta Schwinn, rossa e senza cambio e ho pedalato come un matto per tre chilometri fino alla casa di Bruce. Sono arrivato senza fiato, ma felice.
Era divertente giocare con Bruce, perché lui stava sempre inventando nuovi giochi da giocare sia all'interno che all'esterno. Non c'è mai stato un momento di noia a casa di Bruce. Così, quando quel giorno ci siamo seduti per giocare a Scarabeo, Bruce ha proposto spontaneamente: “Prendiamo ciascuno 10 lettere invece di 7, questo migliorerà molto il gioco». Ho protestato, "Ma le regole sulla scatola del gioco dicono che puoi prendere solo 7 lettere.”
Bruce subito ha risposto: “Quelle stampate sulla scatola non sono regole. Quelle sono regole suggerite. Tu ed io siamo liberi di migliorarle”. Ero un po’ stupito. Non avevo mai sentito prima un’ idea simile. “Ma le regole sulla scatola non sono scritte da adulti che sono molto più intelligenti di noi?” ho protestato.
Bruce mi ha spiegato con disinvoltura: “Le persone che hanno inventato questo gioco non sono più intelligente di me e di te, anche se sono adulti. Siamo in grado di creare per questo gioco regole migliori delle loro. Regole molto migliori”.
Ero ancora un po' scettico, fino a quando Bruce ha detto: “Senti, se questo gioco nei primi cinque minuti non è molto più divertente, torneremo a giocare il gioco con le regole della scatola.” Che mi sembrava un modo intelligente di procedere.
E in effetti, le regole di Bruce per Scarabeo hanno reso il gioco molto più divertente da giocare.
A metà, non ho potuto fare a meno di chiedergli: “Se le regole per Scarabeo possono essere migliorate, si possono migliorare anche le regole degli altri giochi?”
Bruce ha risposto: “Le regole di tutti i giochi possono essere migliorate. Non solo, tutto ciò che vedi nel mondo intorno a te, progettato dalla mente umana, tutto può essere migliorato. Tutto si può migliorare.”
Ascoltando queste parole, un fulmine mi ha attraversato la mente. In pochi secondi, la mia mente è diventata open source. In quel momento preciso ho saputo qual era lo scopo della mia vita e il mio destino: cercare intorno a me le cose che potevano essere migliorate, e quindi migliorarle.
Quando quella sera sono montato sulla mia bicicletta Schwinn per tornare a casa, la mia mente era intossicata da idee e possibilità. Avevo imparato più da Bruce Jordan in quel giorno di quanto avessi imparato in un intero anno di scuola. Venticinque anni prima che la frase “open source” venisse coniata, Bruce Jordan aveva reso open source la mia mente. Gli sarò sempre grato per questo.
Tornando a casa quella sera, ho deciso che nella mia vita avrei rivolto le mie energie ad ampliare le opportunità di apprendimento al di fuori della scuola, perché a volte l'apprendimento e le realizzazioni più significative avvengono al di fuori delle mura scolastiche. Oggi lavoro in una biblioteca pubblica nella zona di Washington DC e ogni giorno parlo con gli studenti delle scuole elementari e medie che si fermano per dire ciao. Ogni tanto incontro studenti la cui mente è ricettiva alle grandi idee. Quando succede, pianto dei piccoli semi nelle loro menti e li mando per la loro strada. Spetta a loro coltivare quei semi. Il mio ruolo è quello di piantare dei semi di idee nelle loro menti. Il loro ruolo è quello di osservare quei semi germogliare e scegliere se annaffiarli o no.
Ho imparato un'altra lezione importante da Bruce Jordan. Nello stesso anno, mi ha chiesto se volevo giocare a frisbee baseball. “Che cos'è il frisbee baseball?” ho chiesto incuriosito. Bruce mi ha risposto: “Non lo so, ma sembra un gran bel gioco. Creeremo le regole mentre andiamo verso il campo da baseball.”
In effetti, Bruce ha inventato le regole per il frisbee baseball mentre camminavamo lungo l'isolato che ci separava dal campo da baseball. E abbiamo giocato la partita con grande gioia fino a quando si riusciva a malapena a vedere il frisbee nel cielo serale. Quello che ho imparato da Bruce quel giorno è di non avere paura di andare avanti quando il tuo istinto ti dice che troverai delle cose buone che ti aspettano. Bruce era assolutamente sicuro che ci saremmo divertiti moltissimo a giocare a frisbee baseball. Ed è stato proprio così.
L'open source è un movimento per il software, ma è anche molto di più di questo. E’ un modo ottimista di guardare ad ogni oggetto e idea costruiti dall'uomo. Tutto può essere migliorato da cima a fondo. Tutto quello che serve è un po’ di creatività e la volontà di applicare la nostra mente al compito.
Vogliamo provarci? Le regole originali di ogni gioco sono stampate sulla scatola, ma queste regole sono solo dei suggerimenti. Sono migliorabili e devono essere migliorate per quanto possibile.
#OpenSource #giochi #apprendimento
@macfranc @Alexis Kauffmann @scuola@a.gup.pe
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Proposta di riforma per la privacy e la ricerca scientifica – Tavolo Salute di State of Privacy
Dal Tavolo Salute di “State of Privacy”, sono emerse le seguenti 3 sfide e 3 azioni correlate:
Proposta di riforma per la privacy e la ricerca scientifica - Tavolo Salute di State of Privacy
PROPOSTA DI MODIFICA LEGISLATIVA IN MATERIA DI PROTEZIONE DEI DATI RELATIVI ALLA SALUTE E RICERCA SCIENTIFICA OSSERVAZIONALE RETROSPETTIVA IN AMBITO MEDICO, BIOMEDICO ED EPIDEMIOLOGICO: EMENDAMENTO ALL'ART.Istituto Italiano Privacy
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Ministero dell'Istruzione
#NoiSiamoLeScuole questa settimana è dedicato al plesso scolastico “Giovanni Modugno” dell’I.C. “Rita Levi Montalcini” di Bitritto (BA) e al plesso “Giovanni XXIII” della Scuola secondaria di I grado “Cotugno-Carducci-Giovanni XXIII” di Ruvo di Pugli…Telegram
Come corre (finalmente) l’industria della difesa europea
“A marzo la Commissione presenterà una strategia per l’industria della difesa”. L’annuncio della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, da Stoccolma, si inserisce all’interno di un moto riformatore che, seppure in ritardo, ha preso avvio all’interno delle consapevolezze europee. La concomitanza di eventi esterni di un certo peso, come le guerre in Ucraina e in Medio Oriente, può fungere da acceleratore di un’esigenza che è presente ormai da tempo e che non è più ulteriormente procrastinabile, anche in considerazione del fatto che l’elemento della pace si è andato assottigliando sempre di più, sia ai nostri confini meridionali che orientali dell’Ue.
Perché più difesa
Già la bozza dedicata alla sicurezza e alla difesa nelle conclusioni del Consiglio europeo dello scorso dicembre aveva previsto un quadro normativo per il settore industriale della difesa europea. L’obiettivo è coordinare gli acquisti congiunti e aumentare l’interoperabilità e la capacità produttiva dell’industria europea della difesa.
Non solo Gaza o Kyiv, anche l’emergenza legata agli attacchi dei ribelli houthi influisce su tale esigenza. Lo ha sottolineato qualche giorno fa il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani al question time sul tema della libertà di navigazione sul Mar Rosso, a proposito di “una minaccia alle porte di casa che ci ricorda che per giocare un ruolo più decisivo dobbiamo dotarci in prospettiva di una autentica difesa comune europea”.
Tesi che si ritrova nelle parole che l’amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani, ha affidato pochi giorni fa al Ft quando ha spiegato che l’Unione Europea deve semplificare l’industria della difesa poiché attualmente “è ostacolata dalla concentrazione degli Stati membri sulle proprie industrie nazionali”. Secondo l’ex ministro la guerra in Ucraina “ha funzionato come un campanello d’allarme per l’industria europea”.
Pesco
La cooperazione strutturata permanente chiamata Pesco (Permanent Structured cooperation) è nata nel 2017 ed è stata basata su progetti di collaborazione con impegni vincolanti: prevede infatti squadre di risposta rapida, un sistema di sorveglianza marittima, un comando medico europeo, l’assistenza reciproca nella cyber-sicurezza e una scuola di intelligence europea. Il consiglio affari generali dello scorso autunno ha approvato le direttrici di marcia per affrontare i nuovi dossier alla voce difesa, comprese le minacce per la sicurezza marittima, tramite un’azione di interoperabilità Ue sommata ad una maggiore cooperazione con Nato.
Mossa che, dal punto di vista politico, ha inteso anche lanciare un forte messaggio all’esterno, ovvero a big players che operano nei suddetti teatri di guerra. Particolare attenzione verrà dedicata alla difesa navale tramite “lo sviluppo delle capacità civili e militari nel campo della sicurezza marittima, coinvolgendo l’industria, se del caso”.
Come acquistare
Il nodo, in secondo luogo, verte il modo con cui procedere agli acquisti. Una strada è stata indicata dal presidente francese, Emmanuel Macron, che due giorni fa si è detto favorevole a nuovo debito comune europeo per finanziare la difesa. In sostanza ha proposto la soluzione degli eurobond basati su priorità industriali, come appunto la difesa.
Lo scorso settembre inoltre il Parlamento europeo aveva approvato in via definitiva la legge sul rafforzamento dell’industria europea della difesa attraverso appalti comuni (Edirpa). Si tratta di un regolamento, già concordato con il Consiglio il 27 giugno 2023, che dà vita ad un braccio operativo europeo da 300 milioni che sostenga in concreto l’industria europea della difesa tramite appalti comuni. Vi sono alcuni parametri da rispettare: il costo dei componenti Ue o dai Paesi associati non deve essere inferiore al 65% del valore del prodotto finale. In secondo luogo appaltatori e subappaltatori non devono essere soggetti al controllo di un paese terzo o di un’entità non associata, ma devono essere in Ue o in un Paese associato.
Steadfast Defender è la più grande esercitazione Nato dalla Guerra Fredda. Ecco i dettagli
Nei prossimi mesi avrà luogo la più grande esercitazione mai realizzata dall’Alleanza Atlantica sin dalla fine della guerra fredda. I numeri parlano chiaro: nell’edizione 2024 di Steadfast Defender sarà ancora più grande di quanto preventivato nei mesi scorsi. Nelle fasi iniziali di pianificazione di quest’operazione simulata si parlava di circa 40.000 soldati; oggi il numero è più che raddoppiato, con il previsto coinvolgimento nelle manovre militari di oltre 90.000 uomini provenienti da tutti i Paesi membri dell’Alleanza, più la Svezia. Accanto a questi saranno coinvolte più di 50 navi, dalle portaerei ai cacciatorpedinieri, più di 80 jet da combattimento, elicotteri e droni, e almeno 1.100 veicoli da combattimento, tra cui 133 carri armati e 533 veicoli da combattimento di fanteria. L’ultima esercitazione di dimensioni simili è stata Reforger nel 1988, con 125.000 partecipanti.
Ad annunciare le nuove cifre è stato Cristopher Cavoli, il Supreme Allied Commander Europe (Saceur, il più alto grado militare del sistema di difesa integrato dell’Allenza Atlantica), durante una conferenza pubblica svoltasi pochi giorni fa in occasione dell’avvio dell’esercitazione, prevista per la prossima settimana. Con essa “la Nato dimostrerà la propria capacità di difesa dello spazio euro-atlantico in caso di minaccia militare, trasferendo truppe dagli Stati Uniti in direzione dell’Europa. Una chiara dimostrazione della nostra unità, della nostra forza e della nostra determinazione a proteggerci reciprocamente, a proteggere i nostri valori e l’ordine internazionale basato sul diritto” ha affermato il militare statunitense.
Cavoli ha anche annunciato che la Allied Reaction Force, la neo-istituita forza multinazionale e multidominio che fornisce ulteriori opzioni per rispondere rapidamente alle minacce e alle crisi in tutte le direzioni in tutto il territorio dell’Alleanza, si appoggerà al comando italiano del Nato Rapid Deployment Corps.
Gli alleati hanno approvato i piani regionali al vertice di Vilnius del 2023, ponendo fine a una lunga era in cui l’Alleanza non aveva percepito la necessità di piani di difesa su larga scala, poiché i Paesi occidentali erano impegnati in altri tipi di conflitti come quelli in Afghanistan e Iraq, e non vedevano la Russia post-sovietica non rappresentasse più una minaccia esistenziale.
Durante la seconda parte di Steadfast Defender, un’attenzione particolare sarà rivolta al dispiegamento della forza di reazione rapida della Nato sul fianco orientale dell’alleanza, e in particolare nei territori di Polonia e Stati Baltici, considerati più a rischio di un potenziale attacco russo. Altri territori su cui sarà posto il focus sono la Germania (come centro di smistamento dei rinforzi in arrivo) e i Paesi siti ai margini dell’alleanza, come Romania e Norvegia.
Norvegia che sarà invece, assieme a Finlandia e Svezia, uno dei teatri principali di Nordic Response, la seconda esercitazione Nato prevista per quest’anno. All’esercitazione, conosciuta come Cold Response fino allo scorso anno, parteciperanno più di 20.000 truppe della Nato provenienti da 14 diversi Paesi membri, accompagnate da 50 navi da guerra, sottomarini e altre imbarcazioni e più di 110 jet da combattimento, elicotteri e altri aerei. Nordic Response darà agli alleati l’opportunità di imparare a operare in questo ambiente vasto e complicato, di testare nuovi equipaggiamenti e tattiche e, infine, di prepararsi a lavorare e combattere senza problemi l’uno accanto all’altro.
Il nuovo reato di non-violenza
Nella sua foia legiferante e nella sua irresistibile produzione di nuovi reati (in termini sofisticati: panpenalismo), il governo Meloni ha raggiunto un altro primato. Tra le quindici inedite fattispecie penali introdotte o in via di introduzione c’è una norma che, secondo il giurista Paolo Borgna, non ha precedenti nei codici degli stati democratici. È quella prevista dall ’art. 18 del disegno di legge in materia di sicurezza, approvato dal Consiglio dei Ministri qualche settimana fa. Quell’articolo intende punire gli atti di «resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti», commessi da detenuti.
Si consideri quel «anche passiva». Ciò significa, a esempio, che un recluso sollecitato a consumare il pasto, se si rifiutasse di farlo, sarebbe sanzionato, e pesantemente. È una disposizione davvero inquietante: innanzitutto perché pretende di interferire con la sfera più intima dell’individuo. Quella, cioè, dove vengono assunte le decisioni più delicate, dove si esercita il libero arbitrio, dove si sceglie di obbedire o dissentire, di accettare o rifiutare, di conformarsi o astenersi. Ovvero qualcosa che appartiene ai fondamenti stessi della personalità umana.
C’è, poi, un’altra ragione che rende odiosa quella norma: nel faticosissimo e impervio processo di emancipazione dalla mentalità delinquenziale la «resistenza anche passiva» — ovvero la rinuncia alla violenza — rappresenta, per il detenuto, una tappa fondamentale della presa di coscienza e dell’integrazione in un sistema di relazioni sociali non criminali.
Di conseguenza, il recluso che si astiene dal cibo o che non si reca in cortile per l’ora d’aria può essere sanzionato penalmente e, così, ricacciato indietro, in una dimensione dove la sola risorsa per affermare i propri diritti apparirà il ricorso alla forza. Contro altri o contro sé stessi. Nel 2023 i suicidi sono stati 68, l’anno precedente 84. Nel corso dei primi diciotto giorni del 2024 già 7 detenuti si sono tolti la vita e un altro è deceduto a seguito di uno sciopero della fame.
La vicenda più tragica — semmai fosse possibile una gerarchia dell’orrore — è quella di Matteo Concetti, uccisosi mentre si trovava in una cella di isolamento del carcere di Ancona Montacuto: e appena poche ore dopo che i suoi familiari si erano rivolti a tutte le autorità e a tutte le istituzioni che un genitore può immaginare di sensibilizzare per salvare la vita di un figlio.
Concetti, 23 anni, aveva un disturbo bipolare e un sofferto passato di borderline, tra microcriminalità e dipendenze, tra ricoveri e comunità. Avrebbe dovuto scontare ancora otto mesi e, dopo un periodo in regime di detenzione domiciliare, era stato riportato in cella a causa del ritardo di un’ora nel ritorno alla propria abitazione.
Leggete l’intervista rilasciata dalla madre di Concetti, Roberta Faraglia, ad Alessandra Ziniti su queste pagine. È un eccezionale documento di amore genitoriale e, allo stesso tempo, di dignità umana e di intransigente coscienza civile. Vi si trova un dolore immenso e un rigoroso atto di accusa contro il sistema penitenziario e la sua natura patogena e letale. Un luogo insensato e mortifero.
Dice la madre di Concetti che, nell’incontro precedente di poche ore la sua morte, il giovane dichiarava di essere stato «picchiato da un agente mentre altri due lo tenevano fermo» e che «non gli davano le sue medicine». Tra sopraffazione e incuria «hanno lasciato che si suicidasse».
Nel novembre scorso, nel carcere di Sanremo, Alberto Scagni, paziente psichiatrico, subì violenze per ore a opera dei compagni di cella. Ancora incuria e gestione disastrosa della componente più vulnerabile della popolazione detenuta. Una quota di reclusi che costituisce quasi il 10 percento deltotale. E che risulta pressoché priva di adeguate terapie e di una sufficiente assistenza. Secondo l’associazione Antigone, nel complesso delle carceri italiane, le ore di sostegno psichiatrico sono circa dieci a settimana per ogni cento detenuti, e diciotto quelle per il supporto psicologico.
Il quadro generale dice questo: il 42,4 percento dei reclusi consuma psicofarmaci e in particolare sedativi e, secondo la rivista «Altreconomia», la spesa complessiva relativa a tali trattamenti supera i due milioni di euro per anno. Questo mentre la popolazione detenuta, dopo un breve periodo di contenimento, ha ripreso a crescere e ha superato ormai le 60.000 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 51.249 posti e di una capienza effettiva poco superiore ai 47.000.
Sono numeri che certificano inequivocabilmente il collasso del sistema, ma nessuno sembra curarsene.
In altre parole il circuito penitenziario sembra non avere più scampo e la sua irreversibile rovina è tra i fattori più importanti della crisi dei nostri sistemi di sicurezza collettiva. Una cosa è certa: non saranno i nuovi reati di «incendio boschivo» e di «deturpamento e imbrattamento» di muri a salvarci.
L'articolo Il nuovo reato di non-violenza proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Nasce STEREO, l'istanza Funkwhale di Kenobit
Oggi lanciamo ufficialmente STEREO, un'istanza #funkwhale per l'underground italiano (e non solo).Ho preparato delle slide per comunicarlo su Instagram, ma le pubblico anche qui perché il messaggio è quello.
STEREO è nostro. È appena nato ma abbiamo una marea di dischi da caricare, proposti da amicǝ, alleatǝ e in generale gente che si è stufata di regalare bellezza a Spotify.
Provatelo!
STEREO.KENOBIT.IT
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Ministero dell'Istruzione
📣 #IscrizioniOnline: importante successo della Piattaforma #Unica. Le domande inserite sul portale, alle 8 di questa mattina, sono state oltre 231.000.Telegram
Export della difesa. Oltre l’ideologia, serve una riflessione politica. L’opinione del gen. Tricarico
Non stupisce che Vignarca e company, un sodalizio di associazioni pacifiste più rumoroso che folto, continui con il fuoco di sbarramento sulla legge 185/90 e sulle iniziative parlamentari volte ad avviare una serie di miglioramenti all’attuale disposto di legge. Fanno semplicemente il loro lavoro.
Quello che stupisce è che sull’argomento non ci sia dibattito pubblico, né tanto meno consapevolezza e quindi cultura, con il risultato che le tesi a volte esclusivamente ideologiche di Vignarca e seguaci divengano la narrativa dominante e acquisiscano proseliti a non finire a cominciare dal mondo politico, stranamente collocato per l’occasione in un campo largo.
Nello specifico, l’impegno del momento dei paladini della pace a prescindere e senza condizioni, è quello di aprire un robusto fuoco di sbarramento sulle attività parlamentari ergendosi ad istituzione dello Stato, a partito politico di opposizione, quasi che le piazze non siano più il loro unico e naturale ambiente. “Impugneremo il testo di legge, se questa formulazione verrà confermata fino alla fine” confida Vignarca ad Avvenire.it del 18 gennaio. Impugneremo?Dove, e con quale potestà?
I temi del dibattere riguardano in particolare la reintroduzione del Cisd (Comitato interministeriale per lo scambio di armamenti per la Difesa) nel processo decisionale sull’autorizzazione delle operazioni commerciali di esportazione ed il ruolo degli istituti bancari nel finanziamento di dette attività.
Nel primo caso chiunque, con un minimo di senso dello Stato o, in assenza di questo, con un minimo di raziocinio, plaudirebbe al fatto che le decisioni finali circa una attività di esportazione di materiali della Difesa siano allocate presso un consesso di Ministri di rango sotto la guida del vertice di governo, anziché nell’ufficio di un funzionario della Farnesina di medio livello cui le pressioni politiche, mediatiche o appunto del pacifismo, finiscono per inibire le capacità di discernimento e decisione.
E se non ci vuole molto a capire questo primo punto, ancora più agevole risulta la comprensione del secondo.
Agli inizi del 2000, tre istituti bancari decisero di sospendere le operazioni di finanziamento delle esportazioni di armamento.
A nulla valsero, in una apposita riunione convocata a Palazzo Chigi, cui parteciparono presidente e direttore generale di Abi di allora, Sella e Zadra, le argomentazioni volte a far recedere gli istituti bancari dalla decisione, che tra l’altro riguardava attività perfettamente allineate al disposto di una legge italiana, appunto la 185/90.
A nulla valse soprattutto l’avvertimento che così facendo le banche, ed il movimento pacifista dietro di loro, avrebbero realizzato una perfetta eterogenesi dei fini. Infatti, venendo a mancare le informazioni sui finanziamenti da parte di queste banche e non essendo gli istituti stranieri cui le società esportatrici si sarebbero rivolte tenute a relazionare il governo italiano, la Relazione annuale del governo al Parlamento sarebbe risultata monca di un allegato importante, quello delle operazioni bancarie degli istituti obiettori, e quindi l’intera attività avrebbe perduto un importante dato di controllo. E di trasparenza nella percezione pacifista.
Di fatto, non solo i tre istituti non recedettero dalla loro decisione, ma il fenomeno che poi prese il nome di “banche armate”, si estese considerevolmente fino ad oggi in cui Vignarca e company lamentano la possibile omissione dell’indicazione degli istituti bancari nella Relazione Annuale.
Chi è causa del suo mal pianga sé stesso verrebbe da dire.
In conclusione, sarebbe giunto il momento per il nostro Paese di avviare, dopo queste prime schermaglie, una revisione seria della 185/90, una revisione che tenga conto della vera rivoluzione occorsa dal 1990 ad oggi nelle relazioni internazionali e negli equilibri geopolitici, una revisione che possa contare su un riequilibrio delle parti in causa nei processi autorizzativi, in cui la politica si riappropri delle sue prerogative rioccupando gli spazi che per troppi anni ha lasciato al movimentismo, anche per questo divenuto un fattore serio di inibizione della volontà dello Stato e della tutela dei suoi interessi.
Il puzzle Africa nella "guerra mondiale a pezzetti" l L'Antidiplomatico
"Se ci si sforza di osservare con più attenzione provando a capire chi si muove dietro le quinte, ci si rende conto che in tutte le aree di grande crisi le grandi potenze giocano una partita senza esclusione di colpi e senza lesinare uomini e mezzi. L'Africa, dunque, come un campo di battaglia silenzioso (anche a causa dell'indifferenza dei nostri mass media) ma non per questo meno insanguinato e meno pericoloso di altri teatri bellici. Un continente ancora una volta piegato ai giochi di potere di altre capitali che sono pronte a sacrificare l'ancora fragile sviluppo di questa area del mondo."
GAZA. Gli obiettivi dell’offensiva israeliana: Netanyahu vuole dal «fiume al mare»
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di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 19 gennaio 2024 – «Per la vittoria ci vorranno mesi, ma siamo determinati ad ottenerla». Benyamin Netanyahu non cambia una virgola della linea che porta avanti dal 7 ottobre. Anche ieri sera ha ripetuto che non scenderà a compromessi, vuole una «vittoria totale su Hamas». «La guerra continua su tutti i fronti – ha detto il primo ministro israeliano – fermare la guerra senza raggiungere i nostri obiettivi danneggerà la sicurezza dello Stato per generazioni, creerà un messaggio di debolezza e il prossimo massacro sarà solo questione di tempo». Infine, ha ribadito che Israele dopo la guerra controllerà la sicurezza della Striscia di Gaza e tutti gli insediamenti ebraici a ovest del fiume Giordano. «Un primo ministro deve essere in grado di dire ‘no’ quando necessario, anche ai nostri migliori amici». Frasi che riaffermano il “no” di diritti dei palestinesi e allo Stato di Palestina. E smentiscono la possibilità di una politica più flessibile che gli alleati americani, almeno a parole, chiedono a Israele per il transito dall’Egitto degli aiuti umanitari indispensabili per la popolazione di Gaza sprofondata in una emergenza umanitaria gravissima a causa dell’offensiva militare in corso.
Sono minime le possibilità di un cessate il fuoco generale e di un eventuale accordo per la liberazione degli ostaggi israeliani in cambio della scarcerazione di prigionieri politici palestinesi. Netanyahu, secondo l’emittente statunitense Nbc News, ha respinto la proposta del segretario di Stato Usa, Antony Blinken, di normalizzare le relazioni con l’Arabia saudita in cambio dell’accettazione da parte dello Stato ebraico di un «percorso» per la nascita dello Stato palestinese indipendente. Durante l’incontro, Blinken avrebbe reagito al rifiuto di Netanyahu, affermando che Hamas «non può essere rimosso solo con mezzi militari» e che il mancato riconoscimento da parte dei leader israeliani del dossier palestinese «porterà alla ripetizione della storia».
A Gaza, intanto, si muore ancora sotto le bombe. La battaglia più violenta è a Khan Younis. Anche oggi altri morti e feriti tra i civili palestinesi. Le forze israeliane avanzano nella principale città meridionale di Gaza e i colpi di artiglieria e le cannonate cadono vicino all’ospedale Nasser, uno delle poche strutture sanitarie ancora funzionanti nella Striscia, scatenando il panico tra i pazienti e gli sfollati che vi hanno trovato un rifugio. I bombardamenti continuano nel nord e nell’est della città e, per la prima volta, ieri hanno preso di mira la zona occidentale in cui i carri armati israeliani sono avanzati in profondità prima di ritirarsi.
L’ong Medici Senza Frontiere riferisce che all’ospedale Nasser, i pazienti e gli sfollati fuggono in preda al panico. «Secondo il chirurgo di Msf, all’ospedale di Nasser, le forze israeliane hanno bombardato pesantemente l’area accanto all’ospedale senza ordine di evacuazione, causando la fuga in preda al panico dei pazienti e di molte delle migliaia di civili sfollati che avevano cercato rifugio al Nasser» ha detto l’associazione medica. A Rafah, più a sud, dove oltre due milioni di abitanti di Gaza sono stipati in una piccola area al confine egiziano, sono stati portati via 16 corpi avvolti in sudari bianchi. Metà dei fagotti erano minuscoli e contenevano i corpi di bambini piccoli. «Ieri giocavo con i bambini laggiù. Sono morti tutti, sono l’unico ancora vivo», ha raccontato Mahmoud Al Zemeli, 10 anni. A più di tre mesi dall’inizio di una guerra che ha ridotto in macerie gran parte della Striscia di Gaza, Israele afferma di voler ridurre le sue operazioni di terra e di passare a tattiche su scala più ridotta. Ma prima di farlo, sembra determinato a catturare tutta Khan Younis, che ora sarebbe la base principale dei combattenti di Hamas e del loro capo Yahya Sinwar. Le perdite palestinesi sono elevatissime ma anche
Si aggrava ulteriormente la crisi umanitaria con aree di Gaza isolate e difficili da raggiungere a causa dei bombardamenti dove si soffre la fame, avvertono le Nazioni unite. La popolazione di Rafah al confine con l’Egitto è passata da 300 mila a oltre 1,2 milioni di persone, il quadruplo rispetto al periodo precedente la guerra. Secondo quanto riferito dall’Unrwa (Onu), i palestinesi sfollati cercano riparo in campi e tende sovraffollate. È salito 24.762 il bilancio dei morti a Gaza dallo scorso 7 ottobre. Pagine Esteri
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Qui la Guida ▶ unica.istruzione.gov.it/it/ori…
Ministero dell'Istruzione
Prima di effettuare le #IscrizioniOnline, sulla Piattaforma #Unica è possibile scoprire tutti i percorsi disponibili nel sistema scolastico italiano. Qui la Guida ▶ https://unica.istruzione.gov.it/it/orientamento/guida-alla-sceltaTelegram
Le PMI dell’ASEAN nell’economia circolare
Più che un semplice modello di produzione, l’economia circolare potrebbe presentarsi come una strategia di sopravvivenza mirata a frenare la deriva distruttiva dell’ecosistema terrestre. Si tratta di un sistema produttivo alternativo a quello del “take-make-dispose” in quanto si basa sui concetti di riduzione, riutilizzo e riciclaggio delle risorse impiegate nel ciclo di vita del prodotto. Quindi, che il futuro del ...
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In Cina e Asia – Mar Rosso, dagli Houthi rassicurazioni alle navi cinesi e russe
Mar Rosso, dagli Houthi rassicurazioni alle navi cinesi e russe
L'Australia smentisce i commenti di Pechino su un incidente navale di novembre
Cina, circa il 70% dei cinesi supporta la leadership di Xi Jinping
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TAIWAN. Lai è un presidente dimezzato
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di Michelangelo Cocco
(questo articolo è stato pubblicato in origine da Rassegna Cina)
Pagine Esteri, 19 gennaio 2023 – Con la vittoria di William Lai Ching-te di sabato scorso, il Partito progressista democratico (Dpp) ha conquistato per la terza volta consecutiva la presidenza di Taiwan. Non era mai successo nella storia dell’isola, dove il Dpp e i nazionalisti del Kuomintang (Kmt) l’avevano mantenuta al massimo per due mandati di fila. Lai l’ha spuntata grazie all’incapacità del Kmt e del Partito popolare (Tpp) di presentare un candidato unitario: è stato eletto con il 40,05% delle preferenze, Hou Yu-ih del Kmt ha ottenuto il 33,49% e Ko Wen-jie del Tpp il 26,45%.
Il Dpp ha subìto un’emorragia di voti, passando dagli 8.170.231 (il 57,13 per cento) delle presidenziali di quattro anni fa a 5.586.019. Complessivamente il Kmt e il Dpp ne hanno ottenuti 8.361.487 (il 59,95%). Le elezioni legislative, che si sono svolte assieme alle presidenziali, hanno dato vita a un parlamento (113 seggi) in cui il Dpp ne avrà 51 (-10), il Kmt 52 (+14) e il Tpp 8 (+3).
Questo significa che Lai (che si insedierà il prossimo 20 maggio) dovrà scegliere i ministri (che saranno nominati il 1° febbraio) tenendo conto dei nuovi rapporti di forza nell’unica camera (lo Yuan legislativo) e che dovrà scendere a patti con le opposizioni su tutto – dalla politica economica alle relazioni con la Repubblica popolare cinese – se vorrà far passare i provvedimenti del suo governo.
Le reazioni di Pechino e Washington alla vittoria di Lai – più “indipendentista” rispetto alla sua predecessora Tsai Ing-wen – sono state improntate alla prudenza, come suggerito dai guardrail piazzati il 15 novembre scorso nell’incontro tra Xi Jinping e Joe Biden a San Francisco. Il governo cinese ha riaffermato l’inviolabilità del principio “una sola Cina”, mentre Biden ha dichiarato: «Non sosteniamo l’indipendenza» di Taiwan. Con il presidente democratico in corsa per la riconferma (negli Usa si voterà il 5 novembre), è probabile che nei prossimi mesi la sua amministrazione frenerà le iniziative del Dpp che potrebbero apparire a Pechino più “provocatorie”.
Due giorni dopo la vittoria di Lai, Taiwan ha subìto lo schiaffo di Nauru: il micro-stato insulare della Micronesia ha riconosciuto la Rpc invece di Taiwan, lasciando quest’ultima riconosciuta ufficialmente come Repubblica di Cina solo da undici staterelli più il Vaticano.
I risultati delle elezioni presidenziali e legislative di Taiwan del 13 gennaio
Le associazioni imprenditoriali taiwanesi hanno subito invitato il presidente eletto a promuovere una politica più pragmatica nei confronti della Rpc, a ripensare cioè il “de-risking”, la riduzione della dipendenza dalla Cina per quanto riguarda commercio e investimenti promossa negli ultimi anni.
Nei prossimi mesi Pechino insisterà – attraverso una costante opera di moral suasion, e con strumenti di pressione economica e commerciale – per il rispetto da parte di Taiwan del “Consenso del 1992” raggiunto tra rappresentanti del partito comunista e del Kmt, potendo contare dopo otto anni su una solida sponda parlamentare a Taipei, dove sia il Kmt che il Tpp sono favorevoli alla ripresa del dialogo interrotto nel 2016, con l’elezione di Tsai Ing-wen. Pagine Esteri
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C'è del ghiaccio sepolto all'equatore di Marte? I MEDIA INAF
"Si tratta del più grande deposito di acqua mai rilevato in questa porzione del pianeta: se si sciogliesse, potrebbe coprire la superficie di Marte con uno strato d’acqua profondo da 1,5 a 2,7 metri. Sulla Terra, una simile massa di acqua sarebbe sufficiente a riempire il Mar Rosso."
Threads, il nuovo social network text-based rivale di Twitter si dovrebbe distinguere per la federazione e la privacy
Oltre alle caratteristiche innovative, come la "federazione" e l'utilizzo del protocollo #ActivityPub, #Threads solleva importanti questioni riguardo alla privacy e ai rischi associati all'iscrizione. Esaminiamo a fondo gli aspetti che definiscono Threads e il suo impatto sulle esperienze digitali degli utenti.
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Sfrontati
Il tema non è bello, ma fuggirne lo peggiora. Pone inaggirabili problemi politici, che una parte dovrebbe far valere sull’altra, mentre si ha l’impressione che se li risparmino a vicenda. Vivere in pace non è una condizione naturale ma una conquista, un delicato prevalere della ragione sulla forza, degli interessi commerciali sulle allucinazioni nazionalistiche, ideologiche o mistiche. La pace si conserva mettendo la deterrenza al posto della guerra, predisponendo la forza militare, regolandone l’uso e contando in questo modo di farla valere senza doverla dispiegare. Ed è su quel che serve a conservare la pace che c’è pericolosa confusione.
Le guerre sono tutte brutte, ma non tutte uguali. Si dice che dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo avuto la più lunga stagione di pace, ma vale solo per noi: in realtà non c’è stato un solo giorno senza guerre. Ma anche dove riguardavano nostri interessi, non attentavano alla nostra sicurezza. Lo scenario è cambiato, purtroppo.
La criminale offensiva scatenata da Putin in Ucraina non è una qualsiasi guerra, ma una scelta che ha nel mirino l’ordine seguito all’ultimo conflitto mondiale. Lì si è aperto un inferno le cui disastrose conseguenze si liberano anche a fronte del fallimento dell’attacco russo e della trasformazione dell’invasore in difensore delle poche terre che è riuscito a invadere. È l’inferno ucraino ad avere portato l’Iran nella posizione di fornitore essenziale di armi ai russi (assieme alla Corea del Nord) e, quindi, ad avere suggerito l’opportunità di usare Hamas per il colpo di maglio a Israele, giustamente considerato un bastione occidentale in Medio Oriente. Lo stesso Iran che ha finanziato e armato gli Houthi yemeniti, capaci di mettere a repentaglio la sicurezza dei trasporti nel Mar Rosso, quindi arrecando un danno immediato alla prosperità e produttività delle nostre libere economie. Non si tratta di focolai separati, ma di fronti collegati. E destinati ad allargarsi, come dimostra l’attacco iraniano in Pakistan.
Tutto questo porta a un aumento delle spese militari. Sia per alimentare la resistenza del fronte ucraino – la cui caduta non riguarderebbe solo gli ucraini, ma noi direttamente, con una drammatica perdita di sovranità e sicurezza in casa nostra – sia per evitare quel che il nostro ministro della Difesa va ripetendo, ovvero che appaia vuoto l’arsenale. L’aumento della spesa militare non è soltanto una questione economica – tanto più che siamo anche produttori di sistemi difensivi – ma eminentemente politica. E qui si viene all’incredibile vuoto nella nostra discussione pubblica.
Ci sta eccome che la maggioranza di destra non conceda tregua alla sinistra, sulla spesa militare e sulla fornitura di aiuti all’Ucraina. Ci sta perché la sinistra ha avuto il Ministero della Difesa fino a ieri mattina, perché ha condiviso la scelta di stare al fianco degli ucraini e perché sono stati molti i suoi governi che hanno sottoscritto l’assicurazione – data in sede Nato – di portare al 2% la spesa militare. Chiedere conto dei cambiamenti è mettere in evidenza l’incoerenza e, quindi, l’inaffidabilità.
Ci sta che la sinistra ponga alla destra il tema dell’integrazione europea, perché quello è il solo razionale livello di difesa della sovranità (monetaria e difensiva), quello il solo ambito in cui la spesa può contare su economie di scala (e su un più vasto mercato), quella la sola alternativa a tornare alla divisione dell’Europa in aree di influenza, con minore sovranità. Chiedere conto delle castronerie dette in passato (e di talune ripetute) è mettere in evidenza l’incoerenza, quindi l’inaffidabilità.
È pur interessante discutere delle candidature alle europee, purché solo fino a un certo punto e sebbene riguardi solo ed esclusivamente i partitanti. Mentre fissare la propria posizione sul fronte della sicurezza, segnalando la sfrontatezza di certe giravolte, sarebbe essenziale. Ma, all’evidenza, meno attraente, dovendosi riconoscere che serve più spesa e maggiore integrazione Ue.
La Ragione
L'articolo Sfrontati proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Etica bancaria, il carteggio Malagodi-Mattioli
Concluso il cinquantenario della scomparsa di Raffaele Mattioli, non vengono meno gli interessi per ulteriori approfondimenti su uno dei principali banchieri italiani del Novecento. Nell’archivio dellaFondazione Luigi Einaudi di Roma emerge il carteggio fra Mattioli e Giovanni Malagodi che fu il suo principale collaboratore alla Banca Commerciale Italiana, soprattutto nei difficili anni 30. Molto importante, in particolare per l’etica e il risparmio, è una lettera di Mattioli a Malagodi sullo scandalo Giuffrè, l’ex bancario autore delle truffe che, negli anni 50, colpirono soprattutto sacerdoti e suore. Il 12 gennaio 1959 Mattioli scrisse a Malagodi: «Caro Giovanni, ho letto attentamente la relazione Giuffrè e non posso che confermarti il parere negativo che già ti diedi circa l’opportunità di modificare la legge bancaria (…) La Commissione accerta che il Giuffrè non ha esercitato il credito, non è quindi incappato nelle sanzioni previste dall’art. 96 della legge bancaria», ma, continua (pag. 22), «poiché il caso Giuffrè è «un fenomeno abnorme» che può recar nocumento, «direttamente o di riflesso», alle normali attività delle aziende di credito, ci vorrebbe un’“integrazione” della legge bancaria per tutelare il risparmio «contro forme organizzate di rastrellamento di capitali», ecc. Ora, la legge bancaria regola l’attività delle banche e se anche le banche avessero avuto un nocumento qualsiasi dall’attività del Giuffrè, riconosciuto non-banchiere, ne sarebbero state le vittime, ma in nessun modo le complici, nemmeno involontarie.
Aggravare e complicare le norme che regolano l’attività delle banche, vorrebbe dire prendersela con le vittime (putative), non con il colpevole. E già recherebbe gravissimo, sicuro nocumento al buon nome delle banche qualunque provvedimento ad esse relativo che volesse giustificarsi con il caso Giuffrè. «Ma –si dice – è a protezione
delle banche che s’invocano nuove regolamentazioni (…) Se per “rastrellare” capitali a detrimento del sistema bancario occorre offrire interessi come quelli pagati (o promessi)dal Giuffrè, il pericolo è immaginario. (…) La misura degli interessi offerti dal Giuffrè è la prova incontestabile che egli non faceva il banchiere: non avrebbe mai potuto impiegare i fondi“rastrellati” allo stesso saggio. Che cosa pensavano dunque quelli che gli portavano quattrini? Che avesse il segreto per vincere alla roulette? Che avesse scoperto la pietra filosofale? Certamente no».«Che cosa c’entra con tutto questo la legge bancaria?» – scriveva ancora Mattioli – «(…) Alle banche lo scandalo Giuffrè – nonostante le insistenze quotidiane sulla “anonima banchieri” – non ha fatto male alcuno, anzi è stato un giovamento. Non è serio chiedere che la vigilanza sulle attività bancarie venga estesa e rafforzata per colpire anche chi non svolge attività bancaria. Si arriverebbe così a un intervenzionismo aprioristico ed esasperato, che deformerebbe e smusserebbe proprio quegli organi di vigilanza e controllo che già esistono e funzionano ai fini di ciò che li fa esistere.
Si intralcerebbe un’attività sana, lecita, di sua natura espansiva, per la fisima di prevenire, meglio, per darsi l’aria di voler prevenire imprevedibili, truffaldine irregolarità (“fenomeni abnormi”). Per i delinquenti ci sono le leggi penali (anche i
ladri rastrellano fondi!), le leggi di polizia, le leggi fiscali». «È tutelato dalla legge» – aggiungeva Mattioli – «chi i propri soldi li porta alle banche. Ma ognuno è libero di fare con i propri soldi quel che vuole; e se li dà a un imbroglione, si accomodi pure. Equando scoppierà l’imbroglio, le leggi esistenti – civili e penali – sono quelle che debbono“rendergli giustizia”. Ma non la legge bancaria, quella non regola l’attività degli imbroglioni – e non può aspirare a regolarla. La legge bancaria non è per usurai, strozzini, giocolieri, benefattori – ma è legge intesa a regolare l’attività delle banche, cioè di chi fa credito e per far credito raccoglie quattrini. La legge stabilisce che chi fa credito raccogliendo quattrini deve essere iscritto nell’apposito albo – e se chi fa credito raccogliendo quattrini non è iscritto all’albo incappa appunto negli artt. 87 e 96 della legge bancaria. Ed è una legge molto restrittiva che ha funzionato e funziona egregiamente. Si vuole renderla inefficiente?» rilevava Mattioli. Nel carteggio fra Mattioli e Malagodi, negli anni in cui Giovanni non era più in Comit, ma nelleIstituzioni della Repubblica, molta parte riguarda, oltre all’economia e alla finanza, la storia e la cultura che accomunavano i loro
interessi e passioni ideali. Di particolare significato è una lettera del 5 febbraio 1968 di Malagodi a Mattioli, allora Presidente della Banca Commerciale, in cui gli segnala che il nipote di Giovanni Giolitti, Architetto Chiaraviglio, stava mettendo in ordine il carteggio fra Giovanni Giolitti e Alfredo Frassati che era stato Direttore de «La Stampa» di Torino nei primi decenni del Novecento e molto vicino a Giolitti.
Mattioli, anche a fine anni 60, continuava ad avvalersi della competenza bancaria di Malagodi chiedendogli anche pareri preventivi sulle attività e sulle innovazioni da inserire nella BancaCommerciale Italiana, in particolare sull’importanza «del capitale di una banca come presidio e garanzia dei depositi».La questione era particolarmente importante e complessa, poiché allora la Banca Commerciale apparteneva al mondo
delle Partecipazioni Statali e, quindi, le decisioni relative al capitale della banca implicavano procedure complesse. Il 24 aprile 1972, proprio nei giorni dell’uscita di Mattioli dal vertice della Banca Commerciale, Malagodi scrisse una lettera molto riservata all’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone in cui proponeva «di nominare alla prima occasione possibile Senatore a vita il nostro comune amico Raffaele Mattioli. Tu ne conosci i grandissimi meriti verso l’Italia, sia sul piano culturale, sia sul piano della politica economica e di conseguenza sociale. Lo conosci e lo apprezzi anche personalmente, per le sue doti veramente insigni di animo e di mente. Sai anche quanto sia valido e vigoroso. Quanto a me sono 46 anni che lo conosco, che lo apprezzo e gli voglio bene, che lavoro con lui da vicino e da lontano, nella professione bancaria o nella concordia discorde delle opinioni – entrambi però sempre sul piano di una intransigente intuizione di libertà. So che è una decisione che rileva nella tua competenza esclusiva.Perciò ti faccio questa proposta in via confidenziale…» Purtroppo, Mattioli scomparve un anno dopo, il 27 luglio 1973, e non ebbe tempo di poter ricevere l’importante riconoscimento.
Il Sole 24 Ore
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FPF Files Comments with the Consumer Financial Protection Bureau Regarding Personal Financial Data Rights
On December 21st, 2023, the Future of Privacy Forum filed comments with the Consumer Financial Protection Bureau (CFPB) in response to the notice of proposed rulemaking (NPRM) regarding personal financial data rights. FPF’s comments focus on promoting privacy as a core tenet in the U.S. open banking ecosystem in order to protect individuals’ personal information while enhancing user trust.
This NPRM is the latest milestone in the Bureau’s multi-year effort to create a regulatory framework for open banking in the U.S. using its Section 1033 authority. Section 1033 was passed as part of the Consumer Financial Protection Act (CFPA) of 2010 and it governs access to a person’s data held by a consumer financial services provider. The CFPB’s proposed rule requires data providers, such as banks, card issuers, and digital wallets, to share certain kinds of consumer financial data (e.g., transactions information and account balance) with authorized third parties at the consumer’s request. As the CFPB sets out, “[t]his proposed rule aims to . . . push for greater efficiency and reliability of data access across the industry to reduce industry costs, facilitate greater competition, and support the development of beneficial products and services.”1
In our submission, FPF provides several recommendations to the CFPB, including:
- Encouraging the development of industry standards for third party privacy rules and data provider denials of access requests;
- Supporting an opt-in standard and use of de-identified data, while providing an approach for high-risk uses;
- Clarifying an approach to address ‘dark patterns’ to discourage consumer manipulation;
- Strengthening the phase-out of and directly prohibiting third parties from engaging in screen scraping of data from online consumer accounts; and
- Harmonizing various privacy rules that result in numerous and different notices and choices.
FPF’s comments are the culmination of over a year of meetings with key stakeholders in the open banking ecosystem. Both build upon earlier recommendations that FPF made in response to the Bureau’s “Outline of Proposal and Alternatives Under Considerations for the Personal Financial Data Rights Rulemaking,” which was a prerequisite to the NPRM. Last year, FPF also released an infographic, “Open Banking And The Customer Experience,” visualizing the U.S. open banking ecosystem and the challenges affecting it, which are also addressed in FPF’s latest comment.
1Required Rulemaking on Personal Financial Data Rights, 88 Fed. Reg. 74796, 74843 (Oct. 31, 2023).
Attacco del Pakistan in Iran, 9 morti
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di Redazione
Pagine Esteri, 18 gennaio 2024 – L’Iran ha convocato l’incaricato d’affari dell’ambasciata di Pakistan a Teheran per chiedere spiegazioni sugli attacchi sferrati questa notte dalle forze armate pakistane contro presunti obiettivi terroristici nella provincia di Sistan e Balochistan, nel sud dell’Iran.
Gli attacchi, una evidente risposta a quelli sferrati il 16 gennaio dall’Iran contro alcuni obiettivi nel Belucistan, sono stati confermati dal ministero degli Esteri pakistano, secondo cui gli attacchi sferrati in territorio iraniano hanno portato all’uccisione di alcuni terroristi «nell’ambito di un’operazione di intelligence dal nome in codice Marg Bar Sarmachar (“Morte ai ribelli”)». «Negli ultimi anni il Pakistan ha costantemente espresso grave preoccupazione per i rifugi sicuri utilizzati dai terroristi di origine pakistana che si autodefiniscono ‘Sarmachar’ nei territori non governati all’interno dell’Iran» afferma una nota del governo pakistano.
Secondo le autorità iraniane, però, i missili pakistani contro l’area di Saravan hanno ucciso nove persone, tra cui quattro bambini e tre donne. Testimoni hanno affermato sui social media che almeno sette località vicino a Saravan – compresi i villaggi di Shamsar e Haghabad, e un’area vicino alla base di Saravan delle guardie rivoluzionarie – sono state presi di mira dalle forze di Islamabad.
Ieri il governo del Pakistan aveva annunciato la decisione di richiamare il suo ambasciatore in Iran. La portavoce del ministero degli Esteri pachistano, Mumtaz Zahra Baloch, ha riferito anche che l’ambasciatore iraniano a Islamabad, attualmente in Iran, per il momento potrebbe non tornare. Inoltre, sono state sospese tutte le visite ad alto livello in corso o previste per i prossimi giorni tra i due Paesi. – Pagine Esteri
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In Cina e in Asia – Blinken: "Maggiore collaborazione tra Cina e Usa nel prossimo anno”
I titoli di oggi: Blinken: “Maggiore collaborazione tra Cina e Stati Uniti nel prossimo anno” Cina, Shein sotto indagine per trattamento dei dati Cina, la produzione hi-tech segna la crescita più bassa mai registrata Iran e Cina hanno firmato un protocollo di intesa sulle forze di polizia Un laboratorio cinese ha mappato il Covid-19 due settimane prima delle comunicazioni ufficiali ...
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Corno d’Africa: l’Etiopia accende una nuova miccia nella polveriera
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 18 gennaio 2024 – L’accordo firmato il primo gennaio tra Etiopia e Somaliland – uno stato della Somalia che rivendica la propria indipendenza da Mogadiscio – per dotare Addis Abeba di uno sbocco al mare ha già provocato una seria crisi regionale che rischia di degenerare nell’ennesimo conflitto armato.
Uno sbocco al mare per fare grande l’Etiopia
L’utilizzo del grande porto di Berbera, la città costiera del Somaliland oggetto delle mire di Addis Abeba, concederebbe all’Etiopia un accesso diretto al Golfo di Aden e quindi al Mar Rosso, una delle rotte economicamente più redditizie e importanti anche dal punto di vista strategico. L’intesa potrebbe avere infatti anche un risvolto militare, come testimonia un recente incontro tra i capi di stato maggiore degli eserciti dei paesi contraenti. Nell’area di 20 chilometri di coste che il Somaliland assegnerebbe all’Etiopia per 50 anni, o secondo alcune fonti a Lughaya, nella regione di Adal, Addis Abeba ha intenzione di costruire una base navale.
L’intesa preoccupa molti paesi
Non stupisce che il progetto abbia suscitato, oltre a quella somala, la contrarietà di diversi paesi – dagli Stati Uniti al Regno Unito, dall’Egitto alla Turchia all’Arabia Saudita – che considerano contraria ai propri interessi una crescita del ruolo geopolitico dell’Etiopia e la destabilizzazione della regione.
Il memorandum rischia inoltre di far entrare Addis Abeba in contraddizione con la Cina, con cui negli ultimi anni l’Etiopia ha sviluppato relazioni preferenziali. Non solo il Somaliland è riconosciuto solo da Taiwan, territorio a sua volta rivendicato da Pechino, ma l’accordo consente ad Addis Abeba di bypassare del tutto Gibuti, paese che finora ha assicurato l’85% delle importazioni e delle esportazioni etiopi e nel quale è presente la più grande base militare cinese all’estero, inaugurata nel 2017. É anche vero che senza uno sbocco al mare l’Etiopia rischia di rimanere in gran parte tagliata fuori dalle potenzialità offerte dalla “Belt and Road Initiative”, l’enorme progetto infrastrutturale guidato proprio dalla Cina.
Il Somaliland spera nell’effetto domino
Secondo vari media regionali, tra cui il sito “Garowe Online”, nei prossimi giorni il primo ministro etiope Abiy Ahmed intende visitare Berbera. La stessa visita di Ahmed costituirebbe una forma di legittimazione per la regione de facto indipendente, rappresentando quindi un’inaccettabile provocazione per la Somalia. Il Somaliland sorge sui territori occupati e amministrati dall’Impero Britannico dal 1884 al 1960, quando la regione ottenne l’indipendenza ma decise di unirsi a quelle liberatesi dal dominio italiano per formare la Repubblica di Somalia. Presto però le tensioni sfociarono in una sanguinosa guerra civile finché nel 1991 l’ex Somalia Britannica ha tagliato completamente fuori Mogadiscio dalla gestione della regione. Da molti anni, poi, il Somaliland è impegnato anche in un conflitto a bassa intensità, causato da contrapposte rivendicazioni territoriali, con il confinante Puntland, stato somalo che pure accampa pretese indipendentiste da Mogadiscio.
Il governo del Somaliland punta molto sull’intesa con Addis Abeba. Nei giorni scorsi, in un’intervista concessa al quotidiano “Observer”, il ministro degli Esteri di Hargheisa (la capitale dell’entità indipendentista) Essa Kayd ha sottolineato che in cambio della concessione all’Etiopia dell’utilizzo di Berbera, il governo etiope dovrà riconoscere formalmente la sovranità del Somaliland. Hargheisa spera che il passo possa generare un effetto domino in Africa e nel resto del mondo spianando la strada ad un ampio riconoscimento internazionale.
Manifestazione in Somalia contro l’intesa tra Etiopia e Somaliland
La “prigione geografica” è una “ingiustizia storica”
Per ora il premier etiope sembra cauto sul riconoscimento formale del Somaliland, ma Ahmed insiste sull’urgenza di risolvere quella definisce «un’ingiustizia storica», ricordando che a partire dal 1993 – quando l’indipendenza dell’Eritrea sottrasse all’Etiopia centinaia di km di coste – il suo paese è diventato il più grande al mondo senza accesso al mare e che «quest’errore minaccia l’esistenza stessa del popolo etiope». «Nel 2030 avremo 150 milioni di abitanti, che non possono vivere in una prigione geografica» ha affermato il leader etiope.
Ad ottobre il governo etiope ha presentato in parlamento un documento intitolato “Interesse nazionale dell’Etiopia: principi e contenuti” nel quale per la prima volta la rivendicazione di un accesso al mare veniva tramutata in azione concreta.
Tra la fine di ottobre e i primi di novembre, il governo etiope ha poi avanzato alla Somalia, all’Eritrea, al Sudan, al Kenya e a Gibuti la richiesta di concedergli l’uso di alcune porzioni delle loro coste, ricevendo però in cambio dei secchi dinieghi. A quel punto le attenzioni di Addis Abeba si sono concentrate sul Somaliland che, pur essendo uno stato indipendente solo de facto, si è dimostrato interessato alla proposta.
La miccia accesa da Ahmed rischia di accendere il Corno d’Africa
La strategia di Ahmed però rischia ora di accendere una nuova miccia in una regione dove sono già attivi numerosi conflitti e dove altri potrebbero esplodere. La stabilità stessa dell’Etiopia è minata dagli scontri etnici e tribali in numerose regioni, a partire dal Tigray e dall’Oromia, e le condizioni economiche del paese sono peggiorate a tal punto che per pagare l’affitto del territorio concesso dal Somaliland Addis Abeba ha offerto una parte delle azioni della propria compagnia aerea e della Ethio-Telecom.
Nei giorni scorsi il governo somalo ha ottenuto dal proprio parlamento un documento che dichiara “nullo” l’accordo siglato da Etiopia e Somaliland. In un intervento televisivo, poi, il premier Hamza Abdi Barre ha dichiarato che in caso di «intervento etiope in territorio somalo» Mogadiscio sarà costretta ad una risposta militare. Nei giorni scorsi il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud aveva già affermato che Mogadiscio «è in grado di combattere contemporaneamente i terroristi di al Shabaab e gli invasori etiopi».
In realtà da alcuni anni un numeroso contingente di truppe etiopi è presente nelle regioni meridionali somale per affiancare, insieme agli eserciti di altri paesi africani, il debole governo di Mogadiscio nel contrasto alle bande di fondamentalisti islamici. Secondo varie segnalazioni le truppe etiopi schierate nel sud della Somalia starebbero già rafforzando la propria presenza e scavando trincee.
La sortita etiope e la dura reazione somala hanno spinto gli organismi regionali a convocare riunioni urgenti dirette a impedire l’allargamento della crisi. Ieri è stata la Lega Araba a riunire la propria direzione, precedendo di un giorno il vertice dell’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (Igad, che riunisce i paesi del Corno d’Africa), convocato in Uganda dal governo di Gibuti che esprime attualmente la presidenza di turno dell’organismo. Sia l’Igad sia l’Unione Africana hanno esortato i due paesi a non esasperare la crisi dopo il richiamo da parte somala dell’ambasciatore ad Addis Abeba. Ma il ministero degli Esteri etiope ha fatto sapere che non parteciperà al meeting ad Entebbe, adducendo difficoltà logistiche.
Inoltre ieri le autorità somale preposte al controllo del traffico aereo hanno bloccato un volo dell’Ethiopian Airlines diretto ad Hargeisa, che secondo alcune indiscrezioni ospitava a bordo dei rappresentanti diplomatici etiopi.
Repressione in Somaliland contro i contrari all’intesa
Invece le autorità del Somaliland hanno arrestato l’ex ministro dell’Agricoltura, Ahmed Mumin, a causa delle sue dichiarazioni negative a proposito dell’accordo firmato da Ahmed e dal leader locale Muse Bihi Abdi. L’arresto dell’esponente politico segue quello di diverse persone, tra cui alcuni giornalisti, che hanno espresso la propria contrarietà all’accordo con Addis Abeba. Il ministro della Difesa, Abdiqani Mohamud Aateeye, si è invece dimesso contro quella che definisce una minaccia alla sovranità del Somaliland.
La contesa sulla Gerd
Per tentare di convincere i paesi vicini a concedere all’Etiopia l’agognato sbocco al mare, Ahmed ha proposto di barattare alcune delle quote della Grande Diga della Rinascita Etiope(Gerd) che Addis Abeba ha realizzato sul Nilo Azzurro, fortemente contestata però da Egitto e Sudan che accusano il vicino di ridurre la portata del fiume e di mettere a rischio il proprio approvvigionamento idrico e la propria agricoltura. Ma poi, approfittando del relativo coinvolgimento dell’Egitto nella gravissima crisi di Gaza e della guerra civile in corso in Sudan, Addis Abeba ha avviato nei giorni scorsi il processo di completamento dei lavori che apre la strada al quinto e definitivo riempimento del bacino della grande infrastruttura. Il ministro degli Esteri etiope Demeke Mekonnen ha accusato l’Egitto per il fallimento dei negoziati intavolati negli ultimi mesi.
All’opposto, il governo egiziano ha denunciato che le azioni “unilaterali” di Addis Abeba riguardo al riempimento e alla gestione della diga costituiscono una “guerra esistenziale” per l’Egitto e minacciano la sua stabilità.
La controffensiva somala
Dopo l’annuncio dell’intesa tra Etiopia e Somaliland, il presidente somalo Mohamud ha lanciato una controffensiva diplomatica diretta ad assicurarsi il sostegno dei paesi dell’area che hanno dei contenziosi con Addis Abeba, in particolare l’Eritrea – che pure ha partecipato con le sue truppe alla guerra lanciata da Ahmed contro il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray – e l’Egitto.
Mohamud ha ricevuto a Mogadiscio una delegazione egiziana e poi è volato ad Asmara per consolidare le relazioni con il dittatore Isaias Afewerki, che in Eritrea garantisce da tempo ai soldati somali l’addestramento necessario al contrasto militare dei miliziani integralisti di al Shabaab affiliati ad al Qaeda. In un comunicato, i delegati del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi hanno ribadito un «incrollabile sostegno alla sovranità, all’unità e all’integrità territoriale della Somalia».
Anche il governo di Gibuti ha ovviamente espresso «preoccupazione» per la mossa etiope.
L’Etiopia, invece, dovrebbe poter contare sul sostegno degli Emirati Arabi Uniti, che hanno ceduto ad Addis Abeba armi e droni durante l’offensiva in Tigray e che vantano già una presenza militare e commerciale a Berbera, grazie ad un patto del 2019 che affidava il 51% della gestione del porto al gigante emiratino della logistica DP World, il 19% all’Etiopia e il 30% al Somaliland. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria
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