La Fondazione Einaudi sigla un protocollo d’intesa con il Comune di Naso
La Fondazione Luigi Einaudi ha firmato un protocollo d’intesa con il Comune di Naso (ME) che permetterà al Comune siciliano di valorizzare al meglio il proprio patrimonio culturale e di fornire nuovi approfondimenti legati a tematiche di attualità e progetti formativi agli studenti di ogni ordine e grado. Negli intenti del protocollo c’è infatti l’organizzazione di gruppi di ricerca, osservatori, convegni, seminari e mostre. La Fondazione promuoverà iniziative che punteranno a stimolare il dibattito pubblico sui temi di attualità, della giustizia, della storia e dell’economia. Il Comune è pronto ad ospitare studiosi, storici, politici e rappresentanti delle istituzioni.
Rassegna stampa
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È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione e del Merito
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🔶 Il Ministro Valditara inaugura il primo polo didattico in campo agrario in Italia
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Ministero dell'Istruzione
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L’Altra Asia – Uno, nessuno, centomila Prabowo Subianto
Le tante facce (problematiche) del futuro presidente dell'Indonesia, Prabowo Subianto e le altre storie dai paesi meno raccontati del continente.
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In Cina e Asia – Guerra in Ucraina, Wang Yi incontra il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba
I titoli di oggi: Guerra in Ucraina, Wang Yi incontra il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba Capodanno lunare: viaggi in Cina sopra i livelli del 2019 Palau chiede i finanziamenti americani per continuare a riconoscere Taiwan La Commissione Europea avvia indagine contro azienda cinese accusata di distorsione del mercato unico Giappone, lanciato con successo il nuovo razzo H3 Guerra ...
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Nell’insediamento di Har Bracha si cementa l’alleanza tra coloni israeliani e cristiani sionisti
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Reportage di Michele Giorgio*
(nella foto di Michele Giorgio in evidenza, la colonia israeliana di Har Bracha)
Pagine Esteri, 19 febbraio 2024 – Raggiungere la colonia israeliana di Har Bracha, nel cuore della Cisgiordania occupata, è più semplice da Tel Aviv che da Gerusalemme. Grazie alla «statale» n°5, costruita apposta per i coloni, dalla città costiera si arriva allo svincolo di Tappuach, a pochi chilometri da Nablus, in meno di trenta minuti. Si passa accanto all’insediamento di Ariel, la sua area industriale, Barkan, e diversi villaggi palestinesi, chiusi e isolati dal Muro costruito da Israele. Quindi nei pressi Tappuach, battezzato così dalle autorità di occupazione, si svolta a sinistra e percorsi alcuni chilometri si giunge nell’area in cui si concentrano alcune delle colonie più militanti: Yizhar, Kedumim, Elon Moreh, Itamar e Har Bracha, costruita su una collina che domina Nablus. La città cisgiordana più grande dopo Hebron, circondata dall’esercito israeliano dal 7 ottobre, è proprio lì sotto. Tra qualche settimana i coloni avranno a disposizione l’intera tangenziale fatta costruire dal governo Netanyahu che permetterà loro di aggirare la cittadina di Hawara, uno dei punti di maggior tensione e violenze della Cisgiordania nel 2023.
«Grazie a quella strada, eviteremo Huwara e i disordini provocati dagli arabi» ci dice ricevendoci ad Har Bracha, il colono Nir Lavi. Si riferisce all’uccisione da parte di palestinesi armati, a fine febbraio del 2023, di un israeliano in quella zona, seguita dall’assalto di Huwara da parte di centinaia di coloni, giunti da ogni parte della Cisgiordania, che diedero fuoco o tentarono di farlo a decine di case e negozi e a circa 150 automobili palestinesi. Fu ucciso un abitante e feriti diversi altri. Per Lavi i violenti «sono solo gli arabi». «Andiamo avanti comunque» ci dice fiducioso. Anzi, aggiunge, «qui in Samaria e nella Giudea (i nomi biblici con i quali i coloni chiamano la Cisgiordania palestinese, ndr) siamo tranquilli, la vita scorre senza sussulti anche se molti dei nostri ora sono in uniforme per combattere Hamas (a Gaza) e Hezbollah. Al nord e al sud di Israele si sta peggio che qui, al centro del paese».
Lavi, 52 anni, è uno storico portavoce di Har Bracha, fondato nel 1984. «Mio padre – racconta – ha combattuto per conquistare la Samaria e la Giudea, per riportare sotto il nostro controllo la terra donata da Dio agli ebrei. Har Bracha è un caposaldo del nostro ritorno». Alla fine degli anni ’90 ha fondato la «Har Bracha Estate Winery», una casa vinicola che, nonostante il boicottaggio del Bds e le restrizioni varate dall’Unione europea contro i prodotti delle colonie, esporta negli Stati uniti, Francia, Olanda e altri paesi. «In Italia poco o nulla, ma contiamo di entrare anche nel vostro mercato», afferma sorridendo. «All’inizio producevamo solo 5mila bottiglie all’anno, ora 90mila e quest’anno oltre 100mila. Il nostro è un vino di grande qualità». Per dimostrarlo ci porta nel ristorante della colonia. Sui tavoli tante bottiglie vuote e i resti di un pranzo per 40 persone. «Abbiamo ricevuto una delegazione di membri di servizi di sicurezza israeliani e stranieri e come vedi hanno gradito parecchio il nostro vino: 45% Carbernet, 45% Merlot e 10% Petit Verdot» dice con orgoglio.
Cristiani evangelici statunitensi aiutano a vendemmiare nelle colonie israeliane (foto di Heather Meyers)
La casa vinicola e le produzioni agricole di Har Bracha e di altre colonie israeliane possono contare su un alleato decisivo per garantire la vendemmia e la raccolta di frutta ed ortaggi, senza dover ricorrere alla manodopera palestinese. Si chiama HaYovel (Il Giubileo), un’associazione statunitense di cristiani evangelici e sionisti, che provvede a inviare nei vigneti di Nir Lavi e di altri produttori centinaia di volontari che lavorando nelle colonie contribuiscono alla «realizzazione della profezia». Vedono nel moderno Stato ebraico e nel suo dominio su tutta la Palestina storica (la biblica Eretz Israel), il «ritorno degli ebrei nella Terra Promessa», la condizione per il realizzarsi delle profezie con il ritorno di Cristo e il trionfo del Regno di Dio. All’interno di questo «disegno divino» i palestinesi non hanno alcun diritto, anzi, Israele deve negare loro qualsiasi sovranità, anche su un solo chilometro quadrato di terra. Questa «missione per conto di Dio» HaYovel permette di compierla a un costo di 1.200 dollari a persona per un periodo di 2 settimane a lavorare volontariamente nelle colonie. Chiediamo di parlare con Josh, figlio di Tommy Wallace, fondatore di HaYovel. All’inizio si mostra disponibile. «Certo, con molto piacere, va bene, posso tra un po’, ora sono occupato» ci dice con apparente gentilezza. Aspettiamo. Ma scompare e non risponde a telefonate e messaggi. Proviamo con Luke Hilton, un altro membro di Ha Yovel. «Perché no, ok. Magari più tardi, appena finisco una riunione», ci assicura. Sparisce anche lui, legge ma non risponde ai nostri messaggi.
Un cowboy giunto dall’Arkansas rilascia una intervista video all’agenzia del movimento dei coloni israeliani
Non amano i giornalisti non israeliani i leader dei sempre più numerosi e folti gruppi di cristiani evangelici sionisti, specie quelli americani. Li considerano dei nemici e, nel migliore dei casi, incapaci di comprendere il loro «impegno religioso» per Israele e il compimento delle profezie. Ma devono tenere conto anche di un’altra «complicazione» che giunge proprio dai loro amici israeliani. Malgrado siano sostenitori della colonizzazione dei Territori palestinesi occupati – che sostengono anche con decine di milioni di dollari, tra donazioni e sussidi – sono guardati con sospetto dalle gerarchie religiose ebraiche timorose che dietro questi volontari cristiani ci sia l’intenzione di «diffondere il Vangelo». Nelle scorse settimane ha scatenato proteste la foto scattata, e finita sui social, ad un gruppo di cowboy, con i cappelloni e il look tradizionale, giunto dall’Arkansas e dal Montana grazie a HaYovel per prendersi cura degli allevamenti e del lavoro agricolo nelle colonie. Shannon Nuszen, direttrice dell’organizzazione contro-missionaria Beyneynu, ha espresso forti sospetti sulle attività di HaYovel al punto da accusare Tommy Waller di fare proselitismo tra gli ebrei. I cowboy, perciò, sono finiti nell’ombra e sono rientrati dopo pochi giorni negli Usa. Non è bastato a HaYovel affermare di operare sotto la supervisione del rabbino Eliezer Melamed di Har Bracha.
Il colono Nir Lavi, che di Waller è buon un amico, non appare preoccupato. I volontari cristiani della Geulà (Redenzione) comunque non mancano. E nel suo ristorante ha lavoratori thailandesi. «Dopo l’attacco di Hamas erano andati via, poi sono tornati, ancora più numerosi». Lui ed altri coloni di Har Bracha si dicono convinti che il 7 ottobre, l’offensiva a Gaza e gli scontri al confine con il Libano abbiano convinto gli israeliani «degli errori commessi in passato» da non ripetere più. Gli Accordi di Oslo, esortano, «vanno eliminati subito e definitivamente e con essi l’Autorità nazionale palestinese». La Cisgiordania, aggiungono, è parte della «terra del popolo ebraico e su di essa va estesa subito la giurisdizione israeliana», ossia va annessa allo Stato di Israele, «senza badare alle pressioni straniere». E della nuova colonizzazione israeliana di Gaza si dovrà discutere, ma in futuro, «è presto ora». Nir Lavi ci saluta esortandoci ad apprezzare l’aria fresca e pulita che si respira ad Har Bracha. «Siamo nella nostra bella terra e non ce ne andremo mai», ci ripete un paio di volte. Guidando verso lo svincolo di Tappuach passiamo davanti al posto di blocco militare israeliano nei pressi di Huwara. Una ventina di auto palestinesi sono in fila per i «controlli di sicurezza». I coloni invece sfilano veloci verso Tel Aviv. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2024 dal quotidiano Il Manifesto
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LIVE Olimpia Milano-Napoli, Finale Coppa Italia basket 2024 in DIRETTA: sarà Davide contro Golia
CLICCA QUI PER AGGIORNARE LA DIRETTA LIVE Si chiude un primo tempo che vede Napoli meritatamente avanti, con Milano che sbaglia troppo in attacco e in difesa e con un paio di fischi che hanno innervosito la panchina vede i campani allungare.Duccio Fumero (OA Sport)
Antonino Campaniolo 👣 reshared this.
Prova scritta di Storia della filosofia del giorno 21 febbraio 2024 (Corso di laurea in Educazione sociale e tecniche dell’intervento educativo)
Il giorno 21 febbraio 2024 si terrà la prova scritta di Storia della filosofia, valida per gli studenti iscritti al corso di laurea in Educazione sociale e tecniche dell’intervento educativo; come…fabiosulpizioblog
Asili nido, pochi posti pubblici e costi proibitivi l Pressenza
"Occorre ampliare l’attuale disponibilità dei posti negli asili comunali, rendere sostenibili i costi per le famiglie, superare la scarsa flessibilità degli orari, essere operativi anche durante l’estate. E occorre, soprattutto, porre in essere cambiamenti nelle strutture e nei servizi a supporto alle famiglie (asili, scuole, servizi post scolastici e così via) e ripensare totalmente il nostro welfare."
Come rendere utile l’inutile dibattito sulla difesa Ue. L’analisi di Castiglioni (Iai)
Negli ultimi giorni, le dichiarazioni dell’ex presidente statunitense Donald Trump sulla Nato hanno scosso l’opinione pubblica in Europa. Durante un discorso elettorale a Conway, in Carolina del Sud, il tycoon ha fatto intendere che la difesa militare garantita dall’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica con lui alla Casa Bianca non sarebbe più accordata automaticamente agli alleati ma diverrebbe soggetta a un semplice criterio: chi investe in difesa (raggiungendo il celebre 2% del prodotto interno lordo) meriterebbe l’aiuto americano, mentre gli altri ne sarebbero esclusi.
Il vecchio e forse futuro inquilino della Casa Bianca ha così agitato uno spettro che dalla Seconda guerra mondiale a oggi aleggia sull’Europa, ossia l’incertezza di un pieno coinvolgimento americano in caso di invasione del continente. Da questa parte dell’Atlantico le reazioni dei governi sono state preoccupate, ma nel complesso poco serie. C’è stato chi, come il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il primo ministro polacco Donald Tusk, ha condannato le dichiarazioni di Trump, per poi concentrarsi però sulla parte costruttiva del messaggio, ossia l’appello rivolto agli alleati europei di raggiungere il 2% al più presto. Su una linea ancora più decisa il primo ministro estone Kaja Kallas, che ha definito la provocazione di Trump una salutare “sveglia per l’Europa” che dovrebbe iniziare a prendere sul serio gli investimenti per la Nato. C’è poi stato chi, come Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha provato a ridimensionare le dichiarazioni, definendole semplice propaganda elettorale. C’è infine chi, come il governo italiano per bocca di Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, ha gettato il cuore oltre l’ostacolo parlando della necessità di un esercito europeo; un appello complementare a quello del presidente francese Emmanuel Macron che ha spronato (nuovamente) gli Stati membri dell’Unione europea costruire un “pilastro europeo” della Nato. In generale, sembra che le consultazioni del “triangolo di Weimar” tra Francia, Germania e Polonia siano state la reazione più seria e strutturata ai messaggi provenienti da Washington, con lo scopo di rassicurare i Paesi che si sentono più esposti nei confronti della Russia sull’esistenza di un “nucleo di difesa” europeo, che però al momento è volontario e non strutturato. Il dibattito su una difesa europea, ancor prima di partire, si è già arenato.
Questo è poco sorprendente per una serie di ragioni che giova ricordare. Il primo problema, si sa, è il problema di compatibilità tra una difesa europea e la Nato. Se avessimo due strutture parallele dovremmo non solo creare una duplicazione di tutte le gerarchie di comando, ma anche destinare una parte dei fondi per la difesa attualmente spesi per esercitazioni o attività Nato a favore di una difesa europea. Il secondo problema è la quantità di risorse a disposizione in caso di conflitto. Infatti, mentre tutti si concentrano sul preponderante ruolo degli Stati Uniti nell’Alleanza, nessuno considera che ci sono nella Nato nazioni come il Regno Unito o la Turchia che non sono parte dell’Unione europea ma possono attuare una notevole deterrenza, politica e militare. C’è poi il terzo problema di fondo, che si pone dagli anni Cinquanta, che è quello dell’ombrello nucleare. Ovviamente gli europei non vogliono sentire questa parola, ragion per cui gli esperti si permettono a malapena di sussurrarla, ma la Russia (così come la Cina) sono potenze con grandi arsenali nucleari, mentre l’Europa sembra terrorizzata persino dall’uso civile dell’energia atomica, senza parlare della costruzione di ordigni militari. Al momento tra gli Stati membri dell’Unione europea solo la Francia possiede questo genere di armi, e in una quantità così limitata e con una dottrina strategica così poco chiara che nessun governo europeo potrebbe fare affidamento su questo ombrello protettivo, anche se il governo francese dichiarasse apertamente di essere disponibile a usare questi vettori per proteggere gli altri membri dell’Unione europea (chiarezza, tra l’altro, che non c’è e non c’è mai stata).
Dopo le parole di Trump, i sostenitori di una difesa europea hanno giustamente gioco facile a chiedere un’alternativa alla Nato, confortati anche da molti studi che ipotizzano i benefici di una forza armata europea (a partire da un risparmio complessivo e un’efficienza maggiore). Gran parte di questo beneficio dal punto di vista economico e tecnologico viene dallo sviluppo e acquisto di armamenti europei comuni; una possibilità che c’entra poco o nulla con la Nato e che non richiede nessuna revisione dei Trattati ma solo determinazione politica.
Tuttavia, i governi europei su questa partita non sono interessati tanto dai numeri, quanto dalle implicazioni politiche e strategiche. Politicamente, nessun capo di Stato europeo oggi si distanzierebbe volontariamente dalla Nato e quindi l’opzione “europea” per la difesa rimane una scelta che l’Europa potrà forse subire, ma solo se spinta da eventi eccezionali. Sul breve periodo, il vuoto lasciato dalla Nato potrebbe infatti essere riempito solo da una struttura difensiva nel complesso più debole e meno efficiente dell’Alleanza; scartata l’ipotesi di un esercito europeo, il quale è ovviamente impossibile nel breve periodo senza una politica estera comune, rimane la possibilità di un’alleanza a comando dell’Unione europea e basata sul contributo di eserciti nazionali e un controllo unificato, proprio come la Nato. Questo presupposto ci porta alle implicazioni strategiche, che sono appunto la mancanza di deterrenza nucleare europea e il necessario coinvolgimento degli alleati euro-mediterranei della Nato in un nuovo equilibrio di sicurezza continentale. Sia il piano politico sia quello strategico spingono gli europei a un sostanziale immobilismo e alla speranza che questo momento di crisi transatlantica passi, come è stato atre volte nella storia.
Il dibattito sulla difesa europea è destinato a rimanere marginale e inutile finché se non si offriranno alle legittime preoccupazioni dei governi (soprattutto quelli che si sentono più minacciati) una risposta seria nell’immediato e non fatta da piani fumosi e ambiziosi. E l’unica risposta possibile, a oggi, non parte dall’Unione europea ma necessariamente dalla Nato. Questa soluzione porta alla creazione di un pilastro europeo dell’Alleanza Atlantica, che possa coinvolgere l’Unione europea ma lasci spazio agli alleati extra-Ue, in primis il governo di Londra. La strada del pilastro europeo, sostenuta tra l’altro dalla Francia, non rappresenta di certo la svolta epocale auspicata dai più europeisti, ma ha il vantaggio di essere pratica, di offrire risposte sul breve periodo e di poter iniziare a responsabilizzare le istituzioni europee in un settore nuovo come la difesa. Questa “Nato europea”, nel caso in cui gli eventi ci forzassero ad attivarla “distaccandola” dagli Stati Uniti, sarebbe (non facciamo illusioni) indubbiamente più debole della Nato e offrirebbe meno garanzie, a partire dall’ombrello atomico.
Tuttavia, nel caso in cui dovessimo fare di necessità virtù, sarà meglio avere questa struttura come “piano B” che lasciare in pericolo popoli europei amici e alleati, che siano a Est o nel Mediterraneo. In questo quadro, per la serietà del dibattito, quello che si dovrebbe evitare è usare strumentalmente le parole di Trump per prendere in giro i cittadini europei. Non c’è infatti nessuno scenario possibile in cui si crei una “Nato europea” (che dovrebbe essere abbastanza efficiente da proteggere il continente senza gli Stati Uniti) e spendere meno del 2% in difesa attualmente chiesto da Washington. Allo stesso modo, non c’è nessun mondo possibile in cui l’Europa si possa difendere da sola senza almeno considerare la minaccia nucleare come un’opzione sul tavolo. Da ultimo e forse ancora più importante, non c’è nessuna possibilità che gli europei si difendano da soli se manca la volontà di sacrificarsi gli uni per gli altri in nome di una solidarietà tra popoli e non solo tra governi alleati.
Esercito professionale o ritorno della leva? Il bivio spiegato dal gen. Caruso
Tra i tanti interrogativi che la guerra in Ucraina sta portando con sé, uno tra tutti sta alimentando il dibattito sui possibili futuri modelli di difesa. La guerra in corso ha evidenziato una complessa intersezione di sfide strategiche, tecnologiche e geopolitiche che i Paesi occidentali dovranno affrontare al più presto per garantire la propria sicurezza e difesa. Il conflitto ucraino ha comportato incredibili perdite umane e materiali, evidenziando la brutalità e l’alta intensità dei conflitti moderni. Queste perdite hanno sollevato interrogativi sulla sostenibilità degli attuali eserciti occidentali e sulla necessità di adattare i modelli di difesa per affrontare potenziali minacce future.
Eserciti professionali o coscrizione obbligatoria?
Il dibattito tra mantenere eserciti professionali, piccoli e super specializzati, oppure ritornare alla coscrizione obbligatoria per formare eserciti di massa capaci di sopportare grandi perdite, è diventato sempre più rilevante. La guerra in Ucraina suggerisce che entrambi gli approcci hanno i loro meriti e limitazioni in contesti specifici.
Le recenti dichiarazioni del generale britannico Sir Patrick Sanders, Chief of the General Staff in uscita, e la successiva smentita del primo ministro Rishi Sunak riflettono la tensione e il dibattito in corso sui futuri modelli di difesa. Questo dibattito che si estende oltre il Regno Unito, influenzando le discussioni strategiche in tutta l’Europa e negli Stati Uniti, evidenzia anche una discrasia tra il mondo della politica e quello militare. Parte della politica non è del tutto preparata a gestire i cambiamenti che un rafforzamento delle capacità di difesa mediante riservisti avrebbe sulla società civile e solleva questioni importanti sulle implicazioni di tali politiche di difesa. Questa differenza di opinioni potrebbe avere molteplici effetti, sia a livello di percezione pubblica che di realizzazione pratica delle politiche di difesa.
La lezione ucraina
La guerra in Ucraina ha evidenziato l’importanza della flessibilità strategica, della resilienza, della capacità di adattamento e dell’uso delle nuove tecnologie. Ma ha sancito anche che la quantità è importante tanto quanto la qualità. L’enorme impiego di materiali, equipaggiamenti e munizioni associato ad un impressionante sacrificio di perdite umane, stanno consigliando agli eserciti occidentali di considerare come equilibrare forze specializzate e la capacità di mobilitare rapidamente grandi numeri di truppe.
L’uso di droni, la guerra elettronica e altre tecnologie avanzate hanno sottolineato il ruolo cruciale che la tecnologia gioca nei conflitti moderni. Quali dovrebbero essere gli investimenti che i Paesi occidentali dovrebbero fare nelle nuove tecnologie, nel personale qualificato e contemporaneamente garantirsi quella quantità, umana e materiale, che sembrerebbe tanto necessaria in un conflitto moderno?
In medio stat virtus: verso nuovi modelli di difesa
Se è impossibile pensare di tornare agli eserciti di massa come nel passato – irragionevole pensare di addestrare personale all’impiego di armi con tecnologie avanzate nel breve tempo di una leva obbligatoria –, altrettanto impossibile affidarsi solo a piccoli eserciti professionali che, per quanto preparati, non sopporterebbero un impiego prolungato in un conflitto di lunga durata. Inutile negarlo, l’esercito ucraino non è più quello del 24 febbraio di due anni fa. Decimato dal conflitto in corso, possiamo parlare di un esercito ucraino 2.0, se non addirittura 3.0. Rimpolpato e sostituito con richiami di personale riservista, oppure mobilitato dalla vita civile per combattere una guerra per la sopravvivenza, non ci sono quasi più le stesse persone che iniziarono il conflitto. Ecco perché i Paesi occidentali potrebbero dover esplorare nuovi modelli di difesa che integrino eserciti professionali con capacità di riserva, investendo sia nelle tecnologie avanzate che nella capacità di mobilitare rapidamente forze di massa. Ciò potrebbe includere l’adozione di approcci innovativi per la formazione – per esempio, tecnologie di realtà virtuale e realtà aumentata e addestramento basato su intelligenza artificiale – ma anche la comprensione che la preparazione alla guerra moderna richiede più della semplice competenza fisica e tattica; richiede anche agilità mentale, capacità decisionali avanzate fino ai minimi livelli e una profonda comprensione delle complessità geopolitiche, tecnologiche e umane che definiscono i conflitti contemporanei.
In sintesi, la guerra in Ucraina ha svolto il ruolo di catalizzatore per una riflessione profonda sui modelli di difesa futuri, spingendo i Paesi occidentali a bilanciare diversi approcci per affrontare le minacce emergenti in un panorama geopolitico in rapido cambiamento. La soluzione potrebbe risiedere in una combinazione di forze professionali specializzate e la capacità di mobilizzare rapidamente eserciti di massa, sostenuta da investimenti significativi in tecnologie avanzate e nella preparazione alla guerra elettronica e asimmetrica.
La visione italiana
L’approccio italiano al problema della difesa e della preparazione militare, in particolare alla luce delle recenti tensioni internazionali e del conflitto in Ucraina, è stata chiaramente articolata dal ministro della Difesa, Guido Crosetto. Il ministro propone un modello di difesa che preveda l’integrazione di riservisti, evidenziando la necessità per l’Italia di adottare un approccio più flessibile e reattivo alle minacce militari contemporanee. Il ministro sottolinea l’importanza di una forza di riserva addestrata e pronta all’impiego, capace di integrarsi rapidamente con le forze armate regolari in caso di necessità. Questa visione riflette la giusta consapevolezza del fatto che i conflitti moderni richiedono non solo tecnologie avanzate e forze specializzate, ma anche la capacità di mobilitare rapidamente un numero superiore di truppe per rispondere a minacce impreviste o a emergenze.
L’approccio proposto dal ministro mira a rafforzare la resilienza e la capacità di difesa dell’Italia attraverso un sistema di riservisti simile al modello israeliano. Questo sistema permetterebbe di avere a disposizione un’ampia base di personale militare addestrato, che possa essere rapidamente mobilitato in caso di crisi, senza dipendere esclusivamente dalle forze armate regolari. L’introduzione di un sistema di riservisti ben addestrati e pronti all’impiego rappresenta un passo importante verso una maggiore capacità di risposta e resilienza delle forze armate italiane. Lo scopo è di rispondere efficacemente alle mutevoli dinamiche della sicurezza internazionale nel contesto di una strategia di difesa che guarda al futuro senza trascurare le lezioni del passato.
Quali le conseguenze sulla società civile?
L’introduzione o l’espansione di un sistema di riservisti, simile a quello proposto dal ministro Crosetto, richiede non solo una preparazione militare, ma anche un ampio supporto e comprensione da parte della società civile. La mobilitazione di civili come riservisti comporta una significativa trasformazione del rapporto tra i cittadini e le forze armate, con profonde implicazioni per il tessuto sociale, l’identità nazionale e la percezione della sicurezza.
Per superare questa sfida, è essenziale un impegno proattivo nell’educare e coinvolgere la popolazione riguardo le necessità di difesa e le responsabilità civili in contesti di sicurezza nazionale. Questo può includere campagne di informazione pubblica, dibattiti parlamentari trasparenti e iniziative di coinvolgimento comunitario che mirino a costruire un consenso sull’importanza di un sistema di riservisti e sulla sua gestione etica e democratica.
La politica e la consapevolezza del proprio ruolo
La sfida per la politica consiste nel navigare queste acque insidiose, bilanciando la necessità di rafforzare la difesa nazionale con la tutela dei valori democratici e civili. È cruciale che la classe politica nella sua interezza sia capace di comunicare efficacemente i motivi di tali cambiamenti, i benefici per la sicurezza nazionale e le garanzie per i diritti e le libertà individuali. A livello legislativo, è necessario che i politici lavorino per sviluppare un quadro normativo che regoli efficacemente il servizio della riserva, assicurando che sia equo, volontario o basato su principi di giusta mobilitazione, e che rispetti gli obblighi internazionali in materia di diritti umani. Questo richiede una visione politica lungimirante e la capacità di anticipare e affrontare le complesse questioni legali, etiche e sociali che un tale sistema comporta. Mancare anche solo uno di questi passi potrebbe portare a incomprensioni nella società civile, minando il necessario sostegno popolare a queste fondamentali politiche di difesa.
Servizio di leva per i giovani italiani?
I giovani italiani si devono preoccupare di ricevere la famosa cartolina e partire per il servizio di leva? Se il dibattito in corso riflette una tendenza osservata in altri Paesi europei, dove si discute anche del ritorno alla coscrizione obbligatoria, credo che la via italiana punti piuttosto a un’espansione delle forze di riserva come mezzo per affrontare le nuove sfide della sicurezza globale.
Qualsiasi scelta venga fatta, la preparazione della parte politica a gestire l’impatto di un rafforzato sistema di difesa sulla società civile è fondamentale per il successo di tali iniziative. La collaborazione tra settori militari e politici, insieme al coinvolgimento attivo della società civile, è essenziale per costruire una difesa nazionale resiliente migliorandone l’efficacia, l’efficienza e la flessibilità e che garantisca i valori democratici e civili. La sfida sta nel garantire che queste politiche siano attuate in modo che rafforzino non solo la sicurezza nazionale, ma anche la coesione sociale e la fiducia pubblica nelle istituzioni democratiche.
Davide Giacalone – Gli scudi
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Monaco. L’Occidente alla ricerca del “nemico” per tenere insieme i pezzi l Contropiano
"Un nemico come la Russia per un po’ di tempo può aiutare a tenere insieme i pezzi ma a lungo andare potrebbe non funzionare più come catalizzatore di interessi comuni. Proprio un commentatore russo sulla Novosti, più o meno due anni fa, sottolineava che il problema dell’Occidente era il tempo: troppo poco per concludere il conflitto in Ucraina, troppo lungo per alimentarlo. Un problema che la Russia ha dimostrato di non avere."
rag. Gustavino Bevilacqua reshared this.
Crescono morti e infortuni sul lavoro l l'interferenza
"Sono anni che il punto di vista assunto sul lavoro è quello delle associazioni datoriali e molti pensano, per combattere morti e infortuni, a una sorta di sistema premiante per le aziende virtuose in materia di salute e sicurezza attribuendo loro ulteriori e massicci sgravi fiscali. Eppure, anni di aiuti alle imprese non sono serviti a salvaguardare l’occupazione e a rendere sicuro il lavoro, siamo allora certi che l’aiuto economico e fiscale sia lo strumento giusto per imporre pratiche e culture della sicurezza?"
Di tutto si parla, fuorché di Europa
La Commissione europea ha presentato una bozza di riforma della governance economica delle istituzioni comunitarie. Il Parlamento europeo ha approvato la riforma dei Trattati, compreso il famigerato Patto di stabilità. Il consiglio dell’Unione europea e il Parlamento europeo hanno siglato un nuovo Patto migrazioni e asilo. Mario Draghi ha avuto dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, l’incarico di mettere a punto un progetto sulla competitività dell’industria comunitaria. La guerra in Ucraina e il possibile disimpegno americano dalla Nato rendono quantomai urgente il tema della Difesa comune europea. Il Green Deal mostra luci e ombre e richiede con tutta evidenza una revisione strategica anche alla luce delle sue implicite conseguenze geopolitiche…
Sono tutti temi recenti. Temi che incombono sul futuro dell’Unione e che toccano direttamente l’interesse nazionale degli Stati membri. Temi che, se la politica fosse una cosa seria, verrebbero sviscerati dai partiti nella campagna elettorale per le elezioni europee di giugno. E invece… Invece, di tutto si parla tranne che di questi argomenti.
Si parla molto di chi, non si parla affatto di cosa. Si attende l’annuncio della candidatura di Giorgia Meloni al pari di quello di Elly Schlein in ossequio ad un antico malcostume che vede i leader politici nazionali concorrere ad incarichi che non andranno a ricoprire. Mentre, ed anche questo è un antico malcostume tipicamente italiano, chi verrà eletto a Bruxelles impegnerà le proprie migliori energie non nell’attuare politiche europee all’europarlamento, ma nel tentativo di rientrare al più presto in patria con la casacca del parlamentare nazionale. La logica è quella domestica. Una logica politicistica, per cui l’unica cosa che conta è la conta. La conta in sé: la conta dei voti che i singoli partiti otterranno e i conseguenti rapporti di forza nelle e tra le coalizioni. I voti intesi come fine ultimo delle elezioni, non come mezzo per realizzare delle politiche precise.
Poi, certo, entrando nel vivo la campagna elettorale si occuperà anche di Europa. Ma c’è da credere che la maggior parte dei leader e dei singoli candidati lo faranno alimentando il latente euroscetticismo dell’elettorato. Soprattutto quello di centrodestra. Si farà così un danno, un danno di immagine, all’Europa e si impedirà all’elettore di esprimere il proprio voto sulla base di un ponderato esame delle singole posizioni relative ai temi imprescindibili oggi al vaglio delle istituzioni europee. Come se non ci riguardassero. Come se l’Europa non fossimo noi.
Formiche.net
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Raymond Aron, lungimiranza di un liberale realista
Quando, alla fine degli anni ’60, esplose la contestazione studentesca con quel che seguì in tutta Europa, negli ambienti della parigina Rive Gauche era diffuso uno slogan: “Meglio aver torto con Sartre piuttosto che aver ragione con Aron”. Oggi nessuno vorrebbe sottoscrivere una affermazione del genere. Mentre il ricordo di Jean-Paul Sartre è ridotto al rango di testimonianza delle illusioni delle prime generazioni del dopoguerra, la considerazione per il pensiero di Raymond Aron (1905-83) è andata crescendo e consolidandosi nel tempo, un po’ ovunque. E ciò sia pure attraverso “letture” diverse della sua speculazione.
Come fa notare Agostino Carrino nel recente saggio Raymond Aron (IBL Libri, pagg. 172, euro 14) di “letture” se ne potrebbero individuare almeno tre: neokantiana, neoaristotelica e machiavelliano-tocquevilliana. Ma io credo che al di là delle etichette il carattere immediatamente riconoscibile della speculazione aroniana sia il realismo politico. Egli infatti si è formato sul pensiero dei grandi maestri del realismo, da Machiavelli a Tocqueville fino a Weber. E ciò anche se l’incontro intellettuale per lui più stimolante e denso di conseguenze fu proprio quello con Max Weber (1864-1920), avvenuto nella Germania weimariana dell’inizio degli anni ’30.
Aron era giunto a Berlino da Parigi con un dottorato e un bagaglio di frequentazioni intellettuali – da Sartre a Nizan, da Lagache a Marrou – varie e interdisciplinari. A Berlino scoprì la filosofia tedesca: le sue letture oscillarono attorno a due poli: Husserl e Heidegger da una parte, e i sociologi, la scuola neokantiana, Rickert e Weber, dall’altra parte. Weber, che proveniva dal neokantismo, lo affascinò per la sua visione della storia universale, l’attenzione all’epistemologia, le riflessioni sulla condizione esistenziale dell’individuo. In tarda età, ricordando quell’esperienza, egli avrebbe scritto che “leggendo Max Weber” gli sembra di sentire “i frastuoni, gli scricchiolii della nostra civiltà”.
La lezione weberiana, soprattutto, gli fece scoprire due imperativi ai quali egli, Aron, avrebbe sempre conformato la propria condotta di studioso e di commentatore: da un lato, la volontà di osservare e cogliere la verità nel reale e, dall’altro lato, l’intenzione di agire come uno spectateur engagé. In Germania potè assistere alla fine della Repubblica di Weimar, una repubblica – come si disse allora – senza repubblicani: una repubblica – lo avrebbe scritto nelle sue memorie – dominata da una intellighenzia di sinistra che “odiava troppo il capitalismo e non temeva abbastanza il nazismo” per assumersi la difesa del regime. L’avvento al potere di Hitler cominciò a farlo riflettere: rimase colpito dalla naturalezza o indifferenza con cui i tedeschi accoglievano il brulicare di uniformi brune nella capitale.
A quell’epoca Aron si professava ancora progressista, temeva contatti e collusioni con la destra, continuava a frequentare i colleghi di studio impegnati a sinistra. Poi, a chi gli rimproverava certi ambigui compagni di viaggio, avrebbe risposto: “Si scelgono gli avversari, non si scelgono gli alleati”. Rientrato in Francia, il recupero del patriottismo dell’infanzia e della famiglia in opposizione al pacifismo e al mal definito socialismo era cosa fatta. Gli anni in Germania avevano avuto grande peso nella sua educazione politica perché si era reso conto che la politica è irriducibile alla morale. Il nazismo gli aveva mostrato la “potenza delle forze irrazionali” e Weber gli fece capire che bisognava prestare attenzione non tanto alle “proprie intenzioni” quanto alle “conseguenze delle proprie scelte”.
Nel ’38 Aron pubblicò un libro di grande interesse: Introduzione alla filosofia della storia. Accanto alla teorizzazione del relativismo storico e al rigetto di ogni concezione deterministica del divenire, vi sosteneva una tesi che ne chiarisce le scelte intellettuali. Per poter “pensare politicamente” in una società – osservava – è necessario optare prima fra l’accettazione e il rifiuto del tipo di società nella quale si vive. Aron optò in favore della società democratico-liberale e l’intera sua produzione è divenuta una sorta di filosofia della libertà, un inno alla libertà.
Come ben dimostra Carrino, Aron può essere definito “un liberale realista”, nemico di ogni dogmatismo ideologico. Le sue opere – dal celeberrimo L’oppio degli intellettuali (1953), impietoso saggio di critica al comunismo e alle utopie progressiste, pubblicato un anno prima del discorso di Kruscev al XX congresso del Pcus, fino alle ultime, tra cui mi piace ricordare il bellissimo In difesa di un’Europa decadente (1977) – sottintendono questa scelta di campo in favore della vecchia cara Europa, minacciata dal pericolo di autodistruzione da quando il morbo del “sinistrismo” si era impadronito della sua classe intellettuale impedendole equità e chiarezza di giudizio.
Per Aron l’anticomunismo fu un punto fermo: “lo professo senza rimorsi”, scrisse. Lucido e impietoso analista della politica, Aron in fondo, malgrado la sua vicinanza al gollismo da un certo momento in poi, non svolse mai attività politica vera e propria, neppure come consigliere di un principe. Eppure, il peso delle sue teorie si è fatto sentire e continuerà a farsi sentire.
La schiera dei suoi allievi e continuatori è molto nutrita: da Jean-Claude Casanova, che dirige la bella rivista Commentaire fondata da Aron nel ’76, a Pierre Manent, dal grande storico François Furet ad Alain Besançon sino alla figlia Dominique Schnapper, sociologa e politologa di fama internazionale. Non fu per caso – mi sembra – che Henry Kissinger gli inviò una copia dei suoi ricordi apponendovi questa dedica: “To my teacher”, al mio maestro. Meglio non si sarebbe potuto omaggiare un pensatore come lui che novello Tocqueville ci aiuta non soltanto a penetrare nei recessi più segreti del nostro tempo, ma anche a liberarci dai cascami ideologici del secolo passato.
Il Giornale
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Muoiono pazienti nell’ospedale Nasser, sotto il controllo completo dell’esercito israeliano
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AGGIORNAMENTI
Ore 12
Il Ministero della Sanità ha fatto sapere che un quinto paziente dell’ospedale Nasser è morto a causa della mancanza di elettricità, che non consente l’utilizzo dei macchinari medici essenziali per la sopravvivenza delle persone in terapia intensiva.
Pagine Esteri, 16 febbraio 2024. L’esercito israeliano ha preso il totale controllo dell’ospedale Nasser a Khan Younis. Sei pazienti di terapia intensiva e tre neonati potrebbero morire da un momento all’altro a causa della mancanza di energia elettrica dovuta all’embargo israeliano durato settimane. Il Ministro della Sanità palestinese ha fatto sapere che i generatori hanno smesso di funzionare e che l’alimentazione elettrica è completamente interrotta. Questo significa che tutti i macchinari, compresi i respiratori e le incubatrici, hanno smesso di funzionare. Sono già quattro, secondo fonti mediche, i pazienti morti questa mattina nel reparto di terapia intensiva a causa della mancanza di ossigeno.
Il Ministero ha aggiunto che ritiene Israele responsabile della vita dei pazienti e dello staff medico, dato che l’ospedale è sotto il completo controllo dell’esercito. Aggiungendo che due donne, in queste ore, hanno partorito in condizioni “disumane”, senza acqua, cibo né supporto medico adeguato, mentre l’esercito sta trasformando l’edificio del reparto maternità in una sala operativa militare, costringendo tutti i pazienti a lasciare l’ala dell’ospedale.
Il Ministero palestinese ha fatto appello alla comunità internazionale, perché “intervenga per salvare i pazienti e i medici dell’ospedale Nasser prima che sia troppo tardi“.
Il portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, ha dichiarato che fino ad ora non sono state trovate prove che dimostrino che Hamas abbia nascosto ostaggi nella struttura sanitaria. In realtà, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, i militari non starebbero cercando persone vive ma solo i corpi di alcuni ostaggi morti a Gaza, secondo informazioni che affermano di aver ricevuto da un prigioniero palestinese sotto interrogatorio.
In tarda mattinata l’esercito ha fatto sapere di aver arrestato decine di persone all’interno dell’ospedale, definendole “terroristi di Hamas”. Tra i fermati ci sarebbero anche medici che lavorano nella struttura.
Hamas ha dichiarato di non aver mai utilizzato l’ospedale a scopi militari e ha sottolineato di aver più volte chiesto all’ONU e alle organizzazioni internazionali di formare una commissione di inchiesta indipendente che potesse verificare le accuse accedendo liberamente al nosocomio. A tale richiesta non sarebbe mai seguita una risposta.
Intanto, nelle ultime 24 ore, sono state 112 le persone uccise nella Striscia di Gaza e 157 i feriti. Il totale delle vittime è salito a 28.775 persone.
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In Cina e Asia – Tour di Wang Yi in Europa. Tappe in Germania, Spagna e Francia
I titoli di oggi: Tour di Wang Yi in Europa. Tappe in Germania, Spagna e Francia Finanza, Micheal Burry scommette su big tech cinesi nonostante calo delle azioni Spring festival, per i giovani è l’occasione per cambiare tradizioni Cina, tour di Wang Yi in Europa. Tappe in Germania, Spagna e Francia Capodanno lunare, Shanghai “importa” manodopera dalle zone rurali per sostenere ...
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28 ONG esortano le autorità di protezione dei dati dell'UE a respingere il "paga o va bene" su Meta Il Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB) emetterà presto quello che probabilmente sarà il suo parere più significativo fino ad oggi
L’ingiustizia economica si sta radicando nel mondo arabo
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di Nur Arafeh* – carnegie-mec.org
(traduzione di Federica Riccardi, foto di Adelita Mead)
Il malcontento socio-economico è aumentato in diversi paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Nel 2019 si è registrata un’ondata di proteste in paesi, tra cui Sudan, Iraq, Libano, Marocco, Giordania e Algeria, che non hanno vissuto le rivolte arabe del 2010-2011. Oltre a rivendicare cambiamenti nei loro sistemi politici, i manifestanti chiedevano una revisione completa dei sistemi economici, denunciando l’impennata dei prezzi, le disparità di ricchezza, l’appropriazione delle risorse e dei flussi di rendita da parte delle élite e l’assenza di giustizia economica.
Il Medio Oriente e il Nord Africa sono caratterizzati da una disuguaglianza economica eccezionalmente elevata rispetto ad altre regioni del mondo. La pandemia COVID-19, la guerra in Ucraina e le conseguenti crisi del debito, del cibo e dell’energia che hanno colpito la regione hanno ulteriormente esacerbato le disparità socioeconomiche. Ciò ha lasciato i segmenti più vulnerabili ed emarginati della popolazione a fronteggiare la scarsità di cibo, le fluttuazioni dei prezzi, l’aumento delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici, la scarsità d’acqua, il degrado del territorio e la limitata spesa governativa per i servizi pubblici. La lotta alle disuguaglianze non è stata una priorità dei governi della regione. Tuttavia, dovrebbe esserlo, viste le implicazioni per la crescita economica, la coesione sociale e il potenziale indebolimento delle istituzioni rappresentative e il conseguente consolidamento dei regimi populisti.
LA REGIONE PIÙ DISEGUALE DEL MONDO
La regione del Medio Oriente e del Nord Africa è tra le più diseguali al mondo. Uno studio, che ha cercato di misurare l’entità e l’evoluzione della concentrazione del reddito nella regione tra il 1990 e il 2016, ha rilevato che circa il 64% del reddito totale è andato al 10% dei percettori di reddito, rispetto al 37% dell’Europa occidentale, al 47% degli Stati Uniti e al 55% del Brasile. Nel frattempo, il 50% della popolazione della regione ha ricevuto solo il 9% del reddito complessivo, rispetto al 18% in Europa.
Questi alti livelli di concentrazione del reddito derivano sia dalla disuguaglianza all’interno dei paesi che tra i paesi stessi, in particolare tra gli stati più ricchi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e altri stati con popolazioni più numerose. Tuttavia, anche escludendo i paesi del CCG dall’analisi, i livelli di disuguaglianza rimangono molto elevati, con il 10% dei percettori di reddito che riceve più del 50% del reddito regionale totale per tutto il periodo 1990-2016. Il divario di reddito è evidente anche se si guarda al coefficiente Gini in Medio Oriente e Nord Africa, che misura il grado di disuguaglianza economica nei paesi. Tra il 2015 e il 2020, il coefficiente Gini è rimasto nell’intervallo tra il 65% e il 75% in diversi paesi arabi, con il 100% che riflette la massima iniquità.
Queste tendenze dei livelli di disuguaglianza sono state associate a una contrazione della classe media nella regione. La dimensione della classe media ha iniziato a diminuire intorno al 2013 ed è scesa al di sotto del 40% negli ultimi anni, mentre i paesi, soprattutto quelli a basso e medio reddito (LMIC), sono alle prese, tra le tante sfide, con ricorrenti crisi del debito, austerità, aumento dei livelli di povertà, servizi pubblici sottofinanziati, distribuzione ineguale delle risorse, conflitti, aumento dell’economia informale, alti tassi di disoccupazione, sistemi fiscali iniqui e cambiamenti climatici.
Queste disuguaglianze si sono ulteriormente aggravate e consolidate durante la pandemia COVID-19, che ha colpito in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili, tra cui i poveri, i rifugiati e coloro impegnati nel settore informale. Mentre 16 milioni di persone sono state spinte in condizione di povertà durante la pandemia, facendo salire il numero totale di indigenti nella regione a oltre 116 milioni, la metà più povera della popolazione del Medio Oriente e del Nord Africa ha visto la propria ricchezza ridursi di un terzo. Il residente medio della regione, a sua volta, ha visto una diminuzione della propria ricchezza di circa il 28%.
Nel frattempo, i ricchi della regione hanno aumentato il loro controllo su beni e società finanziarie. Tra il 2019 e il 2022 la loro ricchezza netta è aumentata del 60%, mentre i miliardari hanno beneficiato di un incremento del 22% del patrimonio, a testimonianza dell’acuirsi del divario in Medio Oriente e Nord Africa a seguito della pandemia.
Ad esempio, mentre il crollo economico e finanziario del Libano dal 2019 ha fatto cadere in povertà il 60% della popolazione, la ricchezza netta delle persone più ricche del Paese è quasi raddoppiata tra il 2020 e il 2022. Allo stesso modo, mentre l’Egitto è alle prese con una crisi del debito e del costo della vita, i ricchi hanno visto la loro ricchezza aumentare di oltre la metà nello stesso periodo, proprio come in Giordania. Secondo il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale, i paesi arabi rappresentano la metà dei sedici paesi del mondo che, dopo la pandemia, hanno registrato l’aumento più significativo della disuguaglianza in termini di distribuzione della ricchezza.
L’estremo livello di concentrazione della ricchezza nella regione è evidenziato dal fatto che la ricchezza combinata dei tre individui più facoltosi della regione, pari a 26,3 miliardi di dollari durante la pandemia, ha superato la ricchezza totale dei 222,5 milioni di cittadini più indigenti, pari a 25,5 miliardi di dollari.
Questi alti livelli di iniquità sono ulteriormente aggravati dall’impennata del debito nella regione. A ciò si aggiungono la riduzione dello spazio fiscale, gli alti tassi di inflazione, le svalutazioni monetarie e la crisi del costo della vita, che hanno caratterizzato il Medio Oriente e il Nord Africa (in particolare i paesi a basso reddito) negli ultimi anni, soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina.
PERCHÉ LA DISUGUAGLIANZA È IMPORTANTE
Affrontare la disuguaglianza dovrebbe essere una preoccupazione cruciale per i paesi della regione, che hanno però ampiamente trascurato il problema. Il motivo per cui è prioritario ridurre le disuguaglianze è che riguardano la giustizia sociale, ma anche perché le disparità socioeconomiche hanno profonde conseguenze economiche, sociali e politiche che influenzeranno lo sviluppo a lungo termine del Medio Oriente e del Nord Africa.
La disuguaglianza economica è un fattore causale strutturale dell’instabilità globale e delle crisi finanziarie. È stato dimostrato che si traduce in strutture economiche instabili e meno efficienti, che soffocano la crescita economica e la partecipazione delle persone al mercato del lavoro. Poiché i ricchi, che detengono una quota maggiore di reddito, tendono a spendere una parte minore del loro reddito rispetto ai poveri, la distribuzione ineguale del reddito finisce per diminuire la domanda aggregata e può quindi ostacolare la crescita economica. La disuguaglianza economica pregiudica anche gli sforzi di riduzione della povertà e porta alla perdita del potenziale produttivo e a un’allocazione inefficiente delle risorse.
Sul fronte sociale, questi divari economici sono riconosciuti per i loro effetti sulla mobilità sociale, portando alla trasmissione di opportunità diseguali da una generazione all’altra. Inoltre, crea trappole della povertà, in cui gli individui che si trovano all’estremità inferiore dello spettro di reddito rimangono intrappolati in un ciclo di indigenza, poiché l’assenza di risorse porta a ulteriori limitazioni delle stesse.
In particolare, in Medio Oriente e Nord Africa, la concentrazione del reddito e della ricchezza nelle mani di pochi ha portato all’emergere di una società duale, in cui una categoria di persone può accedere a servizi privati di buona qualità, come l’istruzione, la sanità e altri servizi di base, mentre un’altra può accedere solo a servizi di base di qualità molto inferiore, solitamente forniti in modo inadeguato dal settore pubblico. Creando scissioni all’interno della società, la disuguaglianza economica erode il senso di comunità, riduce la coesione sociale e alimenta tensioni e conflitti, aprendo la strada alla disintegrazione della società, ai disordini politici e a una generale precarietà.
Combattere l’elevata disuguaglianza è fondamentale anche perché, con le fratture che crea all’interno dell’economia e della società, è stata associata all’emergere di plutonomie, sistemi in cui un piccolo segmento ricco della popolazione beneficia principalmente della crescita economica. Poiché la distribuzione del reddito e della ricchezza determina in larga misura la distribuzione del potere nei sistemi politici, questo porta a due risultati.
In primo luogo, si crea un circolo vizioso in cui la disuguaglianza economica porta alla disuguaglianza politica, permettendo ai ricchi di usare il potere politico per radicare i loro interessi economici nelle istituzioni sociali e proteggere così il loro status, il che non fa che rafforzare ulteriormente le disuguaglianze economiche. Questo fenomeno viene talvolta definito “trappola della disuguaglianza“, che permette di evitare che i ricchi scivolino verso il basso nella scala socioeconomica, impedendo al contempo la mobilità verso l’alto degli indigenti.
Un secondo risultato è che la disuguaglianza politica, in un momento in cui le disparità economiche sono più accentuate, mette sempre più a rischio le istituzioni rappresentative ed erode la fiducia nelle istituzioni pubbliche. Diversi studi hanno infatti dimostrato che la disuguaglianza economica tende a rafforzare il potere autocratico ed è uno dei fattori chiave alla base del malcontento popolare e del crescente populismo nel mondo. Di conseguenza, si potrebbe ipotizzare che in Medio Oriente e in Nord Africa l’aumento della disuguaglianza possa essere un fattore trainante dell’ondata degli uomini forti in politica e del crescente successo di figure populiste che capitalizzano il risentimento e la frustrazione della popolazione.
Senza politiche efficaci, gli attuali alti livelli di disuguaglianza non solo persisteranno, ma molto probabilmente aumenteranno ulteriormente. Il cambiamento climatico rischia di esacerbare questa tendenza, poiché colpirà in modo sproporzionato i poveri e i più vulnerabili, che sopporteranno il peso dell’aumento delle temperature, del degrado dei terreni e dei problemi legati alla disponibilità e ai prezzi del cibo. Anche l’intelligenza artificiale, le tecnologie digitali emergenti e l’automazione potrebbero aggravare le disuguaglianze, in quanto potrebbero aumentare in modo sproporzionato i guadagni dei lavoratori ad alto reddito e dei proprietari di capitali.
Pertanto, è della massima urgenza affrontare la disuguaglianza nella regione intraprendendo serie riforme strutturali radicate nel perseguimento della giustizia economica. Una riforma urgente, tra le tante, prevede l’ampliamento dello spazio fiscale e il potenziamento della mobilitazione delle risorse interne, soprattutto allargando la base imponibile e rendendo il sistema fiscale più progressivo per garantire una struttura fiscale più equa. La diversificazione delle fonti di finanziamento pubblico consentirebbe agli stati di aumentare la spesa per la sicurezza sociale, l’assistenza sociale e l’istruzione, che sarebbero fondamentali per migliorare il benessere sociale e combattere le diverse dimensioni della disuguaglianza.
In assenza di tali riforme, e in presenza di un continuo disinteresse dei governi per il problema della disuguaglianza, si profila all’orizzonte una crisi significativa per la regione.
LINK ORIGINALE
carnegie-mec.org/2024/02/02/ec…
*Nur Arafeh è borsista presso il Malcolm H. Kerr Carnegie Middle East Center, dove il suo lavoro si concentra sull’economia politica della regione MENA, sulle relazioni tra imprese e Stati, sulle strategie di costruzione della pace, sul nesso sviluppo-sicurezza e sulle questioni tra Palestina e Israele.
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Ma scusa, caro Draghi, tu sai che l’Europa è piccola e debole e la getti in una guerra a rischio nucleare con la Russia?
A causa della guerra in Ucraina, l'Europa è più debole e piccola di prima.
Alessandro Orsini
Un'agenzia di credito tedesca guadagna milioni grazie alla manipolazione illegale dei clienti L'azienda utilizza disegni manipolativi per impedire alle persone di ottenere una copia gratuita dei loro dati in conformità con la legge
Chi è Carmine Masiello, nuovo capo di Stato maggiore dell’Esercito
Sarà il generale Carmine Masiello il nuovo capo di Stato maggiore dell’Esercito. L’avvicendamento con il generale Pietro Serino avverrà nel giro di un paio di settimane, con la scadenza del mandato triennale (fissata al 27 febbraio). La nomina da parte del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro Guido Crosetto. Sulla tabella di marcia di Serino il compito di guidare l’Esercito in un contesto complesso per la Difesa italiana, nel contrasto a minacce in rapida evoluzione, in vista soprattutto del processo di modernizzazione dei sistemi e delle dottrine dell’Esercito per il prossimo futuro, a partire dalla modernizzazione delle piattaforme e dei sistemi d’arma nel nuovo paradigma del multidominio.
Il profilo
Nato il 28 giugno 1963 a Casagiove, in provincia di Caserta, il generale Masiello è sottocapo di Stato maggiore della Difesa. In precedenza è stato vice direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza dal 2018. Dal 2016 al 2018 è stato consigliere militare del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Ufficiale di artiglieria, ha iniziato la sua carriera nel 185º reggimento artiglieria paracadutisti Folgore. Tra gli incarichi svolti, è stato capo Ufficio generale del capo di Stato maggiore dell’Esercito dal 2011 al 2015, e successivamente della Difesa fino al 2016. Tra i ruoli operativi, il generale Masiello ha comandato il Regional Command West in Afghanistan dall’aprile al settembre 2011, e la brigata paracadutisti Folgore, dove in precedenza aveva comandato il 185º Reggimento paracadutisti ricognizione acquisizione obiettivi “Folgore”
L’eredità
Serino prenderà il posto del generale Serino, arrivato a palazzo Esercito nel 2021, dopo tre anni come capo di gabinetto del ministro della Difesa da ottobre 2018, con Elisabetta Trenta e poi Lorenzo Guerini. Serino lascerà il vertice della Forza armata in un momento di profonda modernizzazione per l’intera Difesa italiana, e in particolare per la dimensione terrestre. La guerra in Ucraina ha riportato l’attenzione sull’importanza che le forze di terra ancora rivestono all’interno della pianificazione operativa dei conflitti, ma le nuove tecnologie impiegate sui campi di battaglia dell’Europa orientale sottolineano al contempo l’importanza di avere messi terrestri moderni e dotati delle nuove tecnologie all’avanguardia per essere interconnessi e capaci di agire nel multidominio.
Esercito 4.0
Il generale Serino lascia in eredità anche il concept paper Esercito 4.0, presentato a settembre 2022, nel quale si indicano i prossimi passi per l’evoluzione della Forza armata. “Lo scoppio di una guerra convenzionale a poche centinaia di chilometri dai nostri confini ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica la rinnovata esigenza di assicurare alla Difesa uno strumento terrestre credibile, efficace, pronto e, se necessario, in grado di combattere in ambienti in continua evoluzione”, spiega infatti l’ex capo di Sme nel teso. Il documento individua cinque macro-aree su cui concentrare risorse e impegno nel medio periodo: manovra a contatto, in profondità e nella terza dimensione, difesa integrata e logistica distribuita. “Tale sviluppo non potrà prescindere dalla consapevolezza dell’ingresso ‘prepotente’ nella condotta delle operazioni dei nuovi domini cyber e spazio, nonché della combinazione di opportunità e insidie che li caratterizza”.
Prossimi programmi
Tra principali programmi che dovranno essere portati avanti dal generale Masiello, spicca quello della modernizzazione della componente da combattimento pesante, dai mezzi corazzati per la fanteria fino ai carri armati. L’Italia, infatti, sta modernizzando i propri carri Ariete e a partire da quest’anno saranno acquistati i carri armati Leopard 2A8. A questo si accompagna il progetto di sviluppo della futura generazione di piattaforme per veicoli blindati, tra le quali l’Mgcs (Main ground combat system) – progetto franco-tedesco dal quale l’Italia è rimasta finora esclusa ma sul quale ci sono da tempo gli interessi della Difesa e dell’industria di settore – nella consapevolezza, più volte segnalata anche dai vertici della Difesa, che nessun Paese europeo può farcela da solo quando si tratta di programmi d’armamento di prossima generazione. Il livello tecnologico raggiunto da tutte le piattaforme, tra cui spicca la necessaria digitalizzazione e integrazione dei singoli sistemi all’interno del più grande e complesso scenario multidominio, richiedono infatti lo sforzo congiunto di più Paesi al fine di avere strumenti efficaci e sostenibili. Questa dimensione, inoltre, per quanto riguarda il settore terrestre, non si limita ai soli carri armati, investendo direttamente anche i veicoli blindati per la fanteria, così come i sistemi di difesa contraerea terrestri e le piattaforme elicotteristiche per il supporto alle forze di terra.
Una “Legge terrestre”
Sul potenziamento della capacità di combattimento pesante dell’Esercito si concentra anche l’ultimo Documento programmatico della Difesa 2023-2025 presentato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto. Quello che emerge dai numeri e dalle impostazioni del Dpp, infatti, è lo sforzo di ammodernamento e potenziamento dello strumento militare, chiamato ad affrontare il ritorno della sfida convenzionale nell’orizzonte delle minacce, e per la quale le Forze armate devono essere messe nelle condizioni di affrontarla. Uno sforzo che segue anni di focus sui conflitti a bassa intensità e operazioni di contro-insorgenza. Tra i principali gap individuati, e da tempo segnalati dall’intero comparto militare, c’è l’adeguamento della componente pesante delle forze di terra in ogni sua parte, che infatti registra la maggior parte dei programmi di previsto avvio (budget complessivo di quattro miliardi e 623 milioni), a cominciare dall’acquisto dei carri armati da battaglia Leopard 2 e dai veicoli da combattimento per la fanteria Aics (Armored infantry combat system), che dovranno sostituire i Dardo. Due programmi che insieme valgono circa dieci miliardi di euro.
Verso un polo terrestre?
Inoltre, il ministro della Difesa ha di recente registrato come proprio nel settore terrestre l’Italia potrebbe giocare un ruolo da protagonista collaborando con le realtà industriali del Vecchio continente in vista del rafforzamento della difesa europea. Crosetto ha infatti sottolineato come tutti i governi abbiano fatto “interventi che consentono all’Italia di avere un potenziale investimento che permette alla nostra industria di consolidarsi e fare alleanze europee”. Proprio riferendosi alla scelta del carro armato tedesco Leopard, il ministro aveva auspicato la “potenziale creazione di un polo terrestre italo-franco- tedesco”.
Presentazione del libro “Epicarmo Corbino e le delizie del protezionismo”
INTERVERRANNO
ANTONIO MAGLIULO, Università di Firenze
ROBERTO RICCIUTI, Università di Verona
LUCA TEDESCO, Università Roma Tre
MODERA
SIMONE MISIANI, Università di Teramo
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LIBANO. 10 civili, tra cui cinque bambini, uccisi da raid aerei israeliani
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di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 15 febbraio 2024 – Il movimento sciita Hezbollah ha avvertito oggi che Israele “pagherà il prezzo” dell’uccisione di 10 civili, tra cui cinque bambini, nel sud del Libano, il giorno più sanguinoso per i civili libanesi in quattro mesi di scontri lungo il confine libanese-israeliano. Sette civili sono stati uccisi a Nabatieh ieri sera, quando un attacco israeliano sulla città meridionale ha colpito un edificio a più piani. I morti appartenevano alla stessa famiglia allargata e includevano tre bambini. Altre tre civili, una donna e i suoi figli, erano stati uccisi poco prima a Suwaneh. Almeno tre i militanti di Hezbollah uccisi, tra cui, pare, un comandante militare.
Ieri una militare israeliana era stata uccisa da razzi lanciati dal Libano contro una base dell’esercito a Safed, in Galilea. Altre otto persone erano rimaste ferite.
Poco dopo jet da combattimento israeliani hanno martellato con bombe e missili il Libano del sud, prendendo di mira in particolare Nabatieh e le zone di Jubal Safi, Kfar Dunin, Basliya, Sawana e Adashit Al Qusayr.
“Il nemico pagherà il prezzo di questi crimini”, ha detto oggi un alto rappresentante di Hezbollah, Hassan Fadlallah, aggiungendo che il movimento sciita ha il “diritto legittimo di difendere il suo popolo”.
In Israele si levano alte le voci che chiedono una guerra aperta al Libano e ad Hezbollah. Il capo del Consiglio regionale di Mateh Asher, Moshe Davidovich, che è anche presidente di un forum delle città al confine settentrionale, ha chiesto al governo “di svegliarsi”. Senza sicurezza, non c’è il nord”, ha aggiunto.
Il capo del consiglio regionale di Merom HaGalil, Amit Sofer, ha invitato le forze armate a colpire con forza Hezbollah “dal confine fino al fiume Litani”. Secondo Sofer è necessario creare una zona smilitarizzata nel sud del Libano.
Hezbollah ieri aveva avvertito che gli attacchi israeliani «non rimarranno senza risposta». Secondo un suo dirigente Hashem Safieddin «Alcuni immaginano di poter raggiungere obiettivi che non sono riusciti a raggiungere, né nel 2006, né tra il 2006 e il 2023». Ma, ha aggiunto Safieddin, «ancora una volta si sbagliano…il nemico non raggiungerà nessuno dei suoi obiettivi perché la Resistenza è e sarà presente, forte e pronta, su tutti i fronti». Si è riferito alle richieste fatte dal gabinetto di guerra israeliano e all’iniziativa francese per riportare la calma al confine tra il Libano e lo Stato ebraico. Tutto questo, spiegava ieri il quotidiano di Beirut, Al Akhbar, vicino a Hezbollah, nascerebbe dall’idea che Israele sia il vincitore del conflitto in corso e che, pertanto, il movimento sciita dovrà fare concessioni perché «sconfitto». Secondo il giornale, la Francia cerca di affermare un suo ruolo di mediazione tra Israele e Hezbollah. In realtà, aggiunge, non farebbe altro che rappresentare le condizioni poste da Tel Aviv.
Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri francese Stephane Sigourney è arrivato a Beirut, portando la proposta di Parigi. Il documento di due pagine dal titolo «Accordi di sicurezza tra Libano e Israele» punta, con un processo in tre fasi, all’applicazione della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiuse la guerra del 2006 tra Israele ed Hezbollah. In particolare, all’arretramento delle posizioni e delle armi del movimento sciita di 10 chilometri dalla Linea Blu, il confine tra i due paesi, assieme al dispiegamento di 15.000 soldati dell’esercito libanese in ogni zona a sud del fiume Litani. In cambio, Israele cesserebbe i suoi attacchi. Hezbollah vede questa proposta come una «resa totale» alle condizioni del suo nemico e rifiuta l’iniziativa francese e le altre, sostanzialmente simili, presentate da altri paesi occidentali. Pagine Esteri
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The Mourning After - Lately / Quit Bazar 7"
Pronti alla bisogna per assolvere nel migliore dei modi tale irrinunciabile esigenza ecco qui per me e per noi tutti, direttamente da quel di Sheffield, i veterani e collaudatissimi Mourning After ed il loro 7" licenziato in questi giorni dalla Rogue Records.
iyezine.com/the-mourning-after…
The Mourning After - Lately / Quit Bazar 7"
Pronti alla bisogna per assolvere nel migliore dei modi tale irrinunciabile esigenza ecco qui per me e per noi tutti, direttamente da quel di Sheffield, i veterani e collaudatissimi Mourning After ed il loro 7" licenziato in questi giorni dalla Rogue…In Your Eyes ezine
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