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La battaglia UE contro le auto a combustione: retroscena e polemiche al Parlamento europeo


Una battaglia dura quella dell’auto elettrica che si è risolta con l’approvazione del Parlamento europeo della messa al bando della vendita di auto a combustione a partire dal 14 febbraio 2035. Un “San Valentino” che resterà negli annali della storia d’Europa. Hanno votato in 340 a favore dell’abolizione delle auto a carburante, i contrari sono […]

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Borsa: canapa, USA e Canada entrambe in lieve positivo


Le due principali piazze borsistiche a livello mondiale nel settore della Canapa, chiudono entrambe con un andamento positivo, bisogna però, anche annotare che si tratta di chiusure positive alquanto timide, mostrano ancora una persistente volatilità e difficoltà nel decifrare il medio e lungo termine, così come si è pressati attualmente nel breve termine, nel valutare […]

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USA: Twitter permetterà annunci per prodotti a base di cannabis e THC


Con un importante cambiamento di politica, Twitter permette alle aziende di cannabis “approvate” e legali e ad altri inserzionisti di pubblicare annunci negli Stati Uniti per prodotti, accessori e servizi regolamentati a base di THC e CBD, ha reso noto la piattaforma di social media. Il nuovo cambiamento di politica di Twitter che permette la […]

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Ucraina, il confronto con la Russia e la Grande Strategia degli Stati Uniti


Nell’ultimo anno si sono verificati due cambiamenti discreti ma drammatici nella strategia degli Stati Uniti: gli Stati Uniti non cercano più di dare priorità alla cooperazione con la Russia e non si aspettano più di prevenire una maggiore cooperazione Russia-Cina. Il sostegno all’Ucraina diventa fondamentale come parte di una strategia complessiva progettata per degradare le […]

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InGiustizia


Istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sulla malagiustizia è la cosa più inutile immaginabile. S’incassa un presunto successo immediato, salvo perdere poi tempo, accertare quello che sappiamo benissimo e non rimediare a un bel niente. Se il mi

Istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sulla malagiustizia è la cosa più inutile immaginabile. S’incassa un presunto successo immediato, salvo perdere poi tempo, accertare quello che sappiamo benissimo e non rimediare a un bel niente. Se il ministro Nordio non si sbriga a presentare i testi, che portino nel legislativo la realizzazione di quel che ha programmaticamente esposto, si ritroverà macinato da mille urgenze quotidiane, tutte richiedenti pezze e senza possibili soluzioni. La maggioranza di governo pesterà l’acqua nel mortaio, le opposizioni pesteranno i piedi guardandosi bene dall’esporre proposte fattibili, tutti si cimenteranno nel solito sport del moralismo senza etica e saremo sempre fermi non in mezzo al guado, ma in mezzo al guano.

Due parole sull’ultimo (di una lunghissima serie) processo che ha riguardato Silvio Berlusconi: è semplicemente insensato che il contribuente finanzi da anni procedimenti privi di ragionevolezza. Il meretricio non è reato, se volete sapere tutto di questa materia e dei suoi risvolti pratici non dovete prendere libri di diritto, ma un capolavoro di Dino Buzzati: “Un amore” (1963). Ad Antonio piace pensarsi il padrone, ma Adelaide (detta Laide) lo intorta che è una bellezza. Se questa cavolata giudiziaria fosse durata una dozzina d’anni solo per Berlusconi, andrei ad abbracciarlo quale vittima e coglierei l’occasione per manifestargli il disgusto per quanto ha detto sull’Ucraina. Ma riguarda tutti e non possiamo abbracciarci collettivamente. Quindi serve cambiare, non lamentare.

Come? Anche qui, usate la letteratura: “Diario di un giudice” (1955), scritto da Dante Troisi. Non c’è nulla di nuovo, salvo la degenerazione metastatica del male. Fino a quando esisterà un potere irresponsabile di quel che fa, ogni degenerazione sarà possibile e ogni corretto funzionamento impossibile. Oramai anche Beppe Grillo va dicendo che i procedimenti penali riguardanti suoi familiari sono attacchi politici (citofoni a Bonafede, si feliciti per quel che lui stesso ha combinato e si congratuli per l’inciviltà grazie alla quale i suoi familiari sarebbero rimasti sotto processo per il resto della loro vita).

Il giudice deve sempre essere indipendente, ma non irresponsabile. Le sentenze che scriverà devono restare frutto del suo libero convincimento. Se continua a sbagliarle e vengono puntualmente riformate si tratta di un incapace e lo si invita a cambiare mestiere. I procuratori non sono giudici, ma magistrati (quando il giornalismo sarà meno analfabeta ci guadagnerà molto il livello della nostra vita collettiva). Gestendo l’accusa hanno in mano la parte immediata e più spettacolare della giustizia. Un mestiere difficile e che va rispettato, ma se continui a portare sul banco degli imputati cittadini che saranno assolti anche tu vai a fare un’altra cosa, perché crei danno e costi inutili alla giustizia. Contano i risultati. Quindi via il falso dell’obbligatorietà dell’azione penale. Una società funziona se la giustizia funziona, non se i magistrati si travestono da moralizzatori. Tanto più che quel mondo s’è dimostrato infestato e la dipendenza dalle correnti, a scopi carrieristici, è pestilenziale.

Una opposizione che volesse far politica avrebbe la strada spianata, pungolando Nordio a passare dalle parole ai fatti. In questo modo verificherebbe se la maggioranza è pronta a seguirlo o lo hanno mandato avanti perché non aveva e non ha alcuna forza politica. Se le riforme si faranno, se si introdurrà la separazione delle carriere e la responsabilità sarà un gran bene per il Paese e chi se ne importa di chi se ne prenderà il merito. Se non ci si riuscirà l’opposizione avrà un’occasione per far politica e non star lì a fracassarci l’anima su chi debba essere il prossimo egolatra sconfitto.

La politica non è l’opera dei Pupi. Darsi del Marrano facendo cozzare le corazze e ripetendolo tre volte al giorno è scena che ha fatto scappare gli elettori. Di tutti. Entrino nel merito. O cessino il disturbo.

La Ragione

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Guerra in Ucraina: se la veda l’Europa


Invece di una rapida vittoria russa, la seconda invasione russa dell’Ucraina sembra trasformarsi in un lungo slugfest. Dopo che i soldati ucraini hanno sorprendentemente sventato l’offensiva della Russia su Kiev, la capitale dell’Ucraina, gli allegri Stati Uniti hanno radunato le nazioni della NATO per fornire agli ucraini decine di miliardi di tecnologia bellica. Dopo alcuni […]

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Fulminati


Stupisce lo stupore. E se non stupisce comunque disturba la superficialità, la grossolanità e la demagogia un tanto al chilo. Lasciamo perdere la politica, che si è tristemente abituati a quanti sperano d’essere creduti quando dicono una cosa e il suo opp

Stupisce lo stupore. E se non stupisce comunque disturba la superficialità, la grossolanità e la demagogia un tanto al chilo. Lasciamo perdere la politica, che si è tristemente abituati a quanti sperano d’essere creduti quando dicono una cosa e il suo opposto, ma qui è una gara populista cui partecipa anche il mondo dell’informazione. Sono gradite le opinioni diverse, ma non le informazioni false, monche o ammiccanti.

L’Europa, dunque, ci toglie le nostre vetture nel 2035. Che non è l’Europa, ma un voto del Parlamento europeo, dove ci si divide per opinioni politiche e non per nazionalità, così come in quello italiano non ci si divide per regioni. Il voto del Parlamento europeo arriva dopo la proposta della Commissione europea, che è già passata al Consiglio europeo. Sede nella quale è stata condivisa dal governo italiano, nell’ottobre del 2022, dopo un consueto negoziato fra i diversi interessi ed esigenze (al Ministero delle attività produttive sedeva l’attuale ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti, che, se la memoria non m’inganna, milita nella Lega). La parte relativa alle autovetture è solo un tassello del più generale piano per la decarbonizzazione, con scadenza 2050 e diverse tappe intermedie. Piano che, alla sua adozione, non destò l’opposizione italiana e semmai in diversi lo ritennero in parte rinunciatario. Quindi non è una novità, è già stato approvato dal governo italiano e quella continua a chiamarsi “Unione europea”, non “Europa”, di cui noi continuiamo ad essere parte, sicché non ci impone un bel niente. In ogni caso le vetture a benzina ci saranno anche nel 2055, sempre che trovino un distributore di carburante, perché dal 2035 cesseranno le immatricolazioni, non la circolazione.

Fa specie trovare questo linguaggio approssimativo e stoltamente oppositivo su testate che talora s’impancano a dar lezioni ci coerenza europeista. Semmai sarebbe stato il caso di sottolineare le novità che il voto parlamentare ha introdotto, come gli stadi intermedi di accertamento e controllo che tutto fili liscio, come la necessità di piani finanziari che assecondino la transizione.

E veniamo agli interessi, di cui già parlammo quando la direttiva fu inviata al Parlamento e gli altri, evidentemente, non se ne accorsero. L’attuale mercato delle vetture non lo si conserva neanche volendo, tanto è vero che tutte le case produttrici già affiancano l’ibrido e l’elettrico. Se si allungano i tempi non si fa che ritardare la competitività dei nostri produttori, facendo un regalo a quelli allocati in altre aree del mondo. La favola che la direttiva sarebbe un regalo alla Cina presuppone l’ignoranza di quel mondo. Intanto perché il leader tecnologico si trova, semmai, negli Stati Uniti. Poi perché non stiamo parlando delle batterie che alimentano bici e monopattini (eravamo noi contro quei bonus, anche perché si davano soldi del contribuente a produzioni orientali), ma di accumulatori dove abbiamo noi un vantaggio tecnologico. Che si tratta di tradurre in produttivo, da qui le tappe intermedie.

Le case produttrici non dicono che è sbagliata la direttiva, ma ne approfittano per chiedere sovvenzioni. Cosa ben diversa. Mentre se ne lamenta una parte dell’indotto, perché chi produce pezzi di motore sarà spiazzato, se non riconverte. Ma l’Italia ha un indotto automobilistico vasto, che perderemmo veramente se i produttori europei restassero indietro.

Tutto bene? No. Perché c’è un enorme lavoro da fare nella produzione di energia e nella rete delle colonnine per le ricariche. E perché non c’è ragione al mondo per escludere in sede politica altre soluzioni tecnologiche, come l’idrogeno e i combustibili bio. Il tutto a tacere della questione ambientale, che i medesimi organi d’informazioni trattano con toni accorati, ma in altre pagine. Non comunicanti.

Se la comunità politica talora non brilla per lucidità e coerenza è perché parte di una classe dirigente abitata anche da questo giornalismo. Se si vota e legge di meno, forse una ragione c’è.

La Ragione

L'articolo Fulminati proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Le minoranze etiopi rimangono timorose nonostante l’accordo di pace


“Le persone non si sentono al sicuro, quindi stanno cercando di proteggersi.” Quando è scoppiata la guerra nella regione settentrionale del Tigray in Etiopia nel…

“Le persone non si sentono al sicuro, quindi stanno cercando di proteggersi.”

Quando è scoppiata la guerra nella regione settentrionale del Tigray in Etiopia nel novembre 2020, i residenti della città di Adebay, vicino al confine con l’Eritrea, si sono svegliati al suono degli spari e dei motori in moto.

I soldati eritrei picchiavano i civili e li costringevano a salire su camion militari, hanno riferito due testimoni a The New Humanitarian. Hanno stimato che fino a 70 persone fossero state rapite quella notte da Heletkoka, un quartiere alla periferia di Adebay.

Le vittime erano Kunama, un piccolo gruppo etnolinguistico che si trova a cavallo del confine tra Etiopia ed Eritrea. Circa 5.000 Kunama si erano stabiliti in Etiopia nei primi anni 2000 , in fuga dall’espropriazione della terra e dalla coscrizione militare ( spesso indefinita ) dell’Eritrea .

Quando è iniziata la guerra del Tigray del 2020, il governo etiope ha permesso alle forze eritree di attraversare il confine per combattere il loro nemico comune: il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF). Ma i soldati eritrei hanno anche rapito i rifugiati Kunama, riportandoli con la forza in Eritrea.

Quindici persone sono riuscite a sfuggire al raid su Adebay quella notte, compiendo un pericoloso viaggio a piedi verso il Sudan orientale, stabilendosi nei campi profughi intorno alla città di Gedaref. Tra loro c’era Muna*, che si identifica come Kunama.

Due anni dopo, non è più vicina al ritorno a casa. Nonostante un accordo di pace firmato a novembre tra il governo federale e il TPLF per porre fine alla guerra, come molti altri rifugiati delle comunità minoritarie, è ancora preoccupata per la sua sicurezza in Etiopia.

Nessuna fiducia nell’accordo di pace


Si stima che la guerra, combattuta contro il TPLF dalle forze federali sostenute dagli alleati regionali eritrei e amhara, abbia ucciso direttamente centinaia di migliaia di persone. Innumerevoli altri hanno subito gli effetti di ricaduta del conflitto durato due anni, incluso un blocco de facto che ha lasciato milioni di persone senza un adeguato accesso a cibo e medicine.

Tra le vittime c’erano Kunama, Irob, Qemant e Agew, gruppi minoritari che vivono principalmente nelle regioni etiopi del Tigray e dell’Amhara. In un conflitto caratterizzato dalla soppressione dell’informazione , si sa poco della violenza che queste comunità hanno subito e delle minacce che continuano a subire.

“Dopo la guerra, vuoi stare con la tua gente”


I rifugiati in Sudan hanno detto a The New Humanitarian che dubitano che saranno al sicuro, protetti e rappresentati politicamente nell’Etiopia postbellica.

Diverse comunità minoritarie hanno risposto a queste paure in modi diversi. Alcuni si stanno ritirando nelle proprie comunità, agitandosi per una maggiore autonomia politica. Altri si stanno armando o si stanno allineando con altri gruppi armati non inclusi nell’accordo di pace. Alcuni temono di non poter mai tornare. Tutti furono travolti in una guerra che non avevano creato loro.

Aida* e Fissha* sono di Irob, una comunità di circa 30.000 persone che vive lungo il confine montuoso dell’Etiopia con l’Eritrea. Se tornano in Etiopia, non torneranno in città diverse come quelle che hanno lasciato nel Tigray occidentale, una regione che è stata testimone di alcuni dei combattimenti più feroci. “Dopo la guerra, vuoi stare con la tua gente”, ha detto Fishha.

Prima dell’inizio del conflitto, Aida e Fissha si erano trasferite da Irob in una cittadina vicino a Dansha, nel Tigray occidentale, in cerca di lavoro. La regione è ufficialmente parte del Tigray, ma storicamente la vicina regione di Amhara l’ha rivendicata come propria.

Quando le forze amhara e federali sono arrivate nell’area all’inizio della guerra, le case delle due donne sono state saccheggiate da Fano, una milizia della regione amhara. Sono stati sparsi anche volantini che avvertivano i tigrini che avevano una settimana per andarsene o sarebbero stati uccisi.

Poiché Irob è culturalmente vicino ai tigrini, Aida e Fissha credevano che anche loro sarebbero stati presi di mira. Quando tre dei parenti maschi di Aida sono stati duramente picchiati dai soldati etiopi, la famiglia spaventata ha preso la difficile decisione di lasciare l’Etiopia.

Tuttavia, se il governo etiope potesse garantire la sua sicurezza, Aida ha detto che sarebbe tornata nel Tigray occidentale. Le piaceva il suo lavoro di insegnante e aveva una vita dignitosa nella comunità. Ma Fishha rise all’idea: “Sarai l’unico Irob rimasto a Dansha!”

Continua l’occupazione eritrea


Nessun rifugiato Irob crede che sia sicuro tornare nella propria regione d’origine. È una delle poche aree del Tigray che rimane ancora inaccessibile alle agenzie umanitarie, secondo il Tigray Regional Emergency Coordination Centre, un gruppo di ONG internazionali e locali e funzionari del governo regionale.

“Gli eritrei occupano ancora metà di Irob”, ha detto Tesfaye Awala, presidente della Irob Anina Civil Society , un’organizzazione basata sulla diaspora. Crede che l’Eritrea stia cercando di “cancellare” la comunità Irob e stabilire una zona cuscinetto militare nei loro altipiani strategici. In una rara conferenza stampa a Nairobi la scorsa settimana, il presidente eritreo Isaias Afwerki ha eluso le domande riguardanti la presenza dell’Eritrea nel Tigray.

“Sarai l’unico Irob rimasto a Dansha!”


Le aggressioni sessuali da parte delle forze eritree sono persistite nonostante l’accordo di pace. Un sacerdote che ha aiutato le donne sopravvissute allo stupro ad accedere ai medici locali ha detto a The New Humanitarian che le donne stanno ancora fuggendo da Irob. I sopravvissuti hanno camminato per giorni per evitare i blocchi stradali eritrei diretti a Dawhan, la capitale di Irob.

Il fatto che il ritiro delle forze eritree non sia stato esplicitamente menzionato nell’accordo di pace di novembre è motivo di preoccupazione sia per i rifugiati Irob che per quelli Kunama in Sudan. Sono preoccupati che le loro comunità rimangano ancora vulnerabili ad attacchi e rapimenti transfrontalieri.

“L’accordo di pace dice che l’esercito etiope dovrebbe proteggere il confine”, ha detto a The New Humanitarian Tesfaye, l’attivista della società civile. “Ma come possono proteggerci quando hanno collaborato con i nostri aggressori?”

Proprio la scorsa settimana, un rifugiato Kunama ha detto a The New Humanitarian che continuano a ricevere segnalazioni di rapimenti da parte di soldati eritrei intorno a Sheraro. La città è vicina al campo di Shimelba , che ha ospitato i rifugiati di Kunama fino a quando non è stato bruciato nel dicembre 2020 mentre era sotto il controllo delle forze eritree.

Lottare per l’autodeterminazione


Nel frattempo, nella regione di Amhara, anche le comunità di Qemant e Agew sono state travolte dalle violenze legate alla guerra del Tigray. I civili sono stati uccisi e sfollati dall’esercito etiope, dalle forze regionali di Amhara e dalla milizia di Fano, che li hanno accusati di sostenere il TPLF.

La violenza durante la guerra ha aggravato le tensioni preesistenti sulla terra, l’identità culturale e la rappresentanza politica ad Amhara. Le fazioni di Qemant e Agew hanno ora preso le armi per combattere per il proprio “stato regionale”, che secondo la costituzione dell’Etiopia significa che possono formare forze di sicurezza su base regionale e avere una rappresentanza federale.

Etenesh*, una rifugiata Qemant sulla sessantina, ha tremato raccontando la morte del marito durante un attacco delle forze federali e regionali alla città di Gubay . I militanti di Fano hanno ucciso il marito davanti a lei, e ora occupano la sua casa. “L’hanno tagliato con i coltelli”, ha detto, mentre le lacrime le rigavano il viso. Non è mai riuscita a seppellire il suo corpo.

“L’Etiopia è una federazione di etnie e tutti meritano di sentirsi al sicuro vivendo in qualsiasi parte del paese”.


Lei e dozzine di altri rifugiati Qemant hanno detto a The New Humanitarian che non possono tornare a casa nelle città pattugliate dalle stesse forze di sicurezza che hanno attaccato le loro comunità. La violenza contro i civili ha contribuito a galvanizzare il sostegno all’Esercito di liberazione del Qemant (QLA) . Continua a lottare per reclamare le terre occupate dalle milizie e ottenere lo stato regionale per i Qemant, che ora si ritiene siano oltre 172.000 – la loro popolazione è stata contata l’ultima volta nel 1994 .

Anche le comunità di Agew nell’Amhara sudoccidentale hanno subito attacchi da parte delle forze di sicurezza di Fano e Amhara. I terreni agricoli sono stati sequestrati e gli è stato impedito di parlare la loro lingua, hanno detto a The New Humanitarian gli attivisti per i diritti di Agew. Queste esperienze hanno aiutato a sostenere il Fronte di Liberazione Agew (ALF), che sta anche cercando l’autodeterminazione regionale per i circa 900.000 Agew.

“Credevo in un’identità etiope”, ha detto Mola Mekonen, un’attivista di Agew in esilio in Australia. “Ora mi identifico di più come Agew.”

Alla fine del 2021, i gruppi politici Qemant e Agew si sono uniti pubblicamente a una coalizione “federalista” nella diaspora guidata dal TPLF. La coalizione comprendeva l’Esercito di Liberazione Oromo (OLA) e altre sette organizzazioni i cui membri ritengono che un sistema federale decentralizzato sia necessario per proteggere la diversità etnico-linguistica dell’Etiopia.

Mentre il conflitto andava avanti, i membri armati della coalizione iniziarono a collaborare in Etiopia. Il governo regionale di Amhara vede questi gruppi come una minaccia alla loro sicurezza.

L’ascesa dell’OLA


In base all’accordo di pace , il TPLF è obbligato a interrompere il sostegno ad altri gruppi armati. Di conseguenza, QLA e ALF hanno perso un potente sostenitore. Ma i membri della coalizione hanno detto a The New Humanitarian che continueranno a lavorare con altri gruppi che sostengono i diritti di “autodeterminazione” in Etiopia.

Per ora, dicono che la loro scommessa migliore è l’OLA, la cui insurrezione in Oromia non è coperta dall’accordo di pace e si è intensificata da quando l’accordo è stato raggiunto. Un rappresentante dell’OLA, che vive fuori dall’Etiopia, ha affermato che sono state condotte operazioni di addestramento congiunte con l’ALF nell’Oromia occidentale.

Ma la durata di queste nuove alleanze non è chiara. Un rifugiato Qemant ha notato che il TPLF ha fatto poco per proteggere i Qemant quando hanno guidato il governo federale dell’Etiopia dal 1991 al 2019, ed era arrabbiato per il fatto che i Qemant fossero esclusi dal processo di pace.

“L’Etiopia è una federazione di etnie e tutti meritano di sentirsi al sicuro vivendo in qualsiasi parte del paese”, ha affermato un ricercatore etiope che ha chiesto l’anonimato per timore di rappresaglie. “Le persone non si sentono al sicuro, quindi stanno cercando di proteggersi”.

L’accordo di pace richiede all’Etiopia di adottare una politica di “giustizia di transizione” per combattere l’impunità per i crimini commessi. Ma la proposta di responsabilità del governo federale rimane vaga. Ha impedito a una squadra investigativa delle Nazioni Unite di accedere all’Etiopia, suggerendo che tale lavoro potrebbe minare le istituzioni nazionali.

Attivisti e rifugiati non sono d’accordo. Dicono che la guerra abbia distrutto la fiducia nelle istituzioni statali, comprese le forze di sicurezza, quindi il coinvolgimento esterno nelle indagini potrebbe aiutare a stabilire i fatti e ricostruire la fiducia. Questo sembra improbabile che accada. Anche il TPLF, una volta così esplicito sulla necessità di indagini indipendenti, ora parla molto meno di responsabilità.

I rifugiati hanno preoccupazioni più immediate. Etenesh, che ha visto suo marito morire, vuole semplicemente tornare a casa in una comunità sicura dove i suoi assassini non vagano più per le strade che prima camminavano insieme.

Per ora resterà in Sudan, accanto a tanti profughi colpiti dalla guerra ma esclusi dalla pace.

*I nomi sono stati modificati per proteggere le identità reali delle persone per motivi di sicurezza.

A cura di Obi Anyadike.


FONTE: thenewhumanitarian.org/news-fe…


tommasin.org/blog/2023-02-17/l…




Scuola di Liberalismo 2023 – Lorenzo Infantino, “I limiti della conoscenza e la libertà individuale di scelta”


Il liberalismo ha come suo prioritario obiettivo la limitazione del potere pubblico, perché il potere illimitato presuppone l’esistenza di un essere o di essere onniscienti” Prof. Lorenzo Infantino Il 16 febbraio 2023 si è tenuta nell’aula Malagodi la pri
Il liberalismo ha come suo prioritario obiettivo la limitazione del potere pubblico, perché il potere illimitato presuppone l’esistenza di un essere o di essere onniscienti”

Prof. Lorenzo Infantino


Il 16 febbraio 2023 si è tenuta nell’aula Malagodi la prima lezione della Scuola di Liberalismo della Fondazione Luigi Einaudi. Davanti a un folto pubblico in presenza e in collegamento, il professor Lorenzo Infantino ci ha parlato dei limiti della conoscenza e della libertà individuale di scelta.
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Israele e la strategia di Leonardo per l’innovazione. Parla Savio


A inizio febbraio Leonardo ha rinsaldato i rapporti con Israele sul tema dell’innovazione, un settore dove Tel Aviv può vantare un ecosistema unico al mondo fatto di 7mila start up, centinaia di acceleratori e decine di incubatori attivi. Il gruppo di Pia

A inizio febbraio Leonardo ha rinsaldato i rapporti con Israele sul tema dell’innovazione, un settore dove Tel Aviv può vantare un ecosistema unico al mondo fatto di 7mila start up, centinaia di acceleratori e decine di incubatori attivi. Il gruppo di Piazza Monte Grappa ha infatti sottoscritto due accordi con Israeli Innovation Authority, un’agenzia pubblica a supporto tecnico e finanziario di progetti innovativi, e con Ramot, una technology transfer company per la valorizzazione della proprietà intellettuale dell’università di Tel Aviv. Gli accordi si inseriscono nella più ampia strategia di rafforzamento di Leonardo nel mondo, come descritto ad Airpress da Enrico Savio, chief strategy and market Intelligence officer di Leonardo.

Di cosa si occuperanno e quali sono gli obiettivi delle due intese?

Gli accordi in oggetto si inseriscono nel quadro della strategia di rafforzamento di Leonardo nel mondo come global player, anche attraverso la leva dell’innovazione e quindi la creazione di rapporti strutturali con gli ecosistemi di innovazione più avanzati. Israeli Innovation Authority (Iia) è l’autorità delegata dal governo israeliano alla promozione dell’innovazione e con l’accordo firmato il 1° febbraio abbiamo voluto rafforzare e ampliare il campo di collaborazione, previsto dall’accordo del 2014, anche ad altri campi dell’innovazione incluso lo scouting di start up. Inoltre, per rendere immediatamente operativo l’accordo, stiamo già lavorando con Iia allo scouting di start up per il programma di accelerazione di Leonardo che si chiama Business innovation factory che quest’anno si focalizza sui verticali di Simulation & gamification, Cybersecurity & networking, ambiti di eccellenza delle start up israeliane.

L’accordo con Ramot che è il technology transfer office dell’università di Tel Aviv, si focalizza su progetti di ricerca su temi di interesse per Leonardo come il cyber, il quantum, i materiali avanzati, i sistemi di guida autonoma, e qualora la collaborazione sia fruttuosa potremmo valutare l’apertura di un Leonardo Lab in Israele. Ramot per Leonardo è un altro gateway sull’innovazione israeliana potendo contare su 30mila studenti di cui 16mila ricercatori, 1,600 brevetti, e con un tessuto di founder di start up di livello mondiale; infatti, si classifica sesto nel mondo per numero di studenti che fondano una start up e settimo per studenti che fondano una start up con valutazioni superiori ai cinquanta milioni di dollari.

Le partnership sembrano inserirsi nel solco dell’operazione Leonardo Drs-Rada. Qual è, in questo senso, il ruolo di Israele nella strategia di crescita del Gruppo a livello internazionale, vista anche l’importanza dell’ecosistema di start up innovative di Tel Aviv?

Per lo sviluppo ed il rafforzamento di Leonardo nel mondo siamo passati da un approccio opportunistico guidato dalla sola opportunità commerciale a un approccio strategico che mira a una presenza strutturale di lungo periodo utilizzando tutte le leve a disposizione del gruppo, incluso l’innovazione, le mergers and acquisitions (M&A), le partnership strategiche, oltre al peso delle relazioni diplomatiche, istituzionali e governative tra l’Italia ed il Paese prescelto. È chiaro che l’approccio strategico richiede investimento di tempo e di risorse importanti e per sua natura deve essere selettivo. Infatti, a valle di un’analisi rigorosa, oltre ai Paesi domestici per il gruppo, quali Italia, Stati Uniti, Regno Unito e Polonia, abbiamo definito una lista ristretta di Paesi strategici sui quali investire, tra i quali Israele.

L’acquisizione di Rada si inserisce in questo quadro strategico di localizzazione di Leonardo che oggi può contare su circa trecento risorse locali, sul contributo di prodotti e tecnologie all’avanguardia, oltre all’opportunità di aver potuto utilizzare il veicolo di Rada già quotato al Nasdaq ed alla borsa di Tel Aviv per quotare DRS, operazione che avevamo sospeso perché non sussistevano le condizioni. A questo si aggiunge la leva dell’innovazione e quindi la volontà di Leonardo di costruire rapporti strutturali con ecosistemi di Innovazione nei paesi capaci di contribuire al piano strategico Be Tomorrow 2030 che mira a rafforzare il posizionamento competitivo del Gruppo utilizzando anche l’innovazione aperta.

Non abbiamo avuto dubbi ad ingaggiare l’ecosistema di innovazione di Israele che è diventato un modello virtuoso e motore della crescita del Paese, contribuendo al 15% del Pil, al 50,4% dell’export, occupa circa il 10,4% della forza lavoro su una popolazione di nove milioni e mezzo. Inoltre, come startup Nation, consta di oltre settemila start up, 428 fondi di venture capital, più di cento acceleratori, 37 incubatori, quasi cinquecento centri di ricerca e sviluppo di multinazionali, 17 programmi di Transfer of technology, nove università pubbliche.

Le collaborazioni si concentrano soprattutto nei settori strategici della difesa, della cyber-sicurezza e dell’aerospazio. Quali ricadute ci si aspetta sul piano delle tecnologie?

Le collaborazioni con Israele terranno in considerazione da una parte, le necessità di Leonardo di attingere all’open innovation come contributo all’innovazione. Ricordo che Leonardo investe ogni anno in di ricerca e sviluppo il 12, 13% (12,8% nel 2021) del fatturato per un valore pari a 1,8 miliardi di euro nel 2021, e dall’altro le specificità e le eccellenze di Israele inserite in un disegno complessivo che include sia i Paesi domestici sia gli altri Paesi strategici. I temi citati di Simulation & gamification, Cybersecurity & networking sono i verticali della Call for startup che abbiamo lanciato a gennaio 2023 per selezionare dieci team che entreranno nel programma di accelerazione della Business innovation factory Bif23. Quest’anno per promuovere la call faremo un road show in cinque tappe cominciamo da Napoli, proseguiamo con Milano, Monaco, Tel Aviv e finiamo con Londra tutte città in Paesi domestici o strategici. L’adesione è libera e coloro interessati a partecipare ai road show o ad applicare alla Bif23 possono andare sul sito di Leonardo Accelerator.

Una partnership resa possibile anche dal supporto della diplomazia dei due Paesi. Un esempio di sinergia pubblico-privata da mettere a sistema anche per il futuro?

Il supporto delle istituzioni, del governo, dei ministeri e della diplomazia sono tasselli fondamentali per lo sviluppo strategico del gruppo nel mondo. Ci muoviamo in contesti geopolitici complessi dove la competizione è feroce non solo tra aziende ma tra sistemi-Paesi. Basti pensare a come Francia, Regno Unito e Stati Uniti si muovono sullo scacchiere internazionale. Dobbiamo essere tutti co-interessati a favorire la crescita delle grandi aziende nazionali come Leonardo perché ciò vuol dire contribuire alla crescita economica, occupazionali e di competenze dell’Italia migliorando la competitività e la sostenibilità del sistema paese nel suo complesso.

Quali saranno i prossimi passi avviati dalla stipula degli accordi?

Con l’Israeli Innovation Authority come detto siamo già al lavoro per trovare start up di interesse per il programma di accelerazione Bif23 che partirà a maggio, durerà sei mesi e prevede anche la realizzazione di un Proof of concept. Ci auguriamo che ai nastri di partenza a maggio potremo avere almeno una start up Israeliana. Inoltre, come anticipato il 28 febbraio avremo il roadshow della Bif23 a Tel Aviv dove vogliamo far conoscere il gruppo Leonardo agli operatori dell’innovazione in Israele, presentare il programma di accelerazione e attrarre le start up di interesse.


formiche.net/2023/02/strategia…



Se il processo mediatico prevale sul processo reale


Finirà che a difendere i giudici, alla fine, resterà solo il Cav. I numerosi commenti indignati ospitati dai giornali cosiddetti progressisti sul caso dell’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby Ter confermano una tendenza preoccupante present

Finirà che a difendere i giudici, alla fine, resterà solo il Cav.
I numerosi commenti indignati ospitati dai giornali cosiddetti progressisti sul caso dell’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby Ter confermano una tendenza preoccupante presente all’interno di una particolare categoria giornalistica che per assenza di fantasia potremmo definire con una formula spericolata ma forse efficace: i postini delle procure (Pdp), i giornalisti abituati cioè a presentarsi di fronte all’opinione pubblica travestiti da buche delle lettere dei magistrati.

Nel caso in questione, la tesi esposta dagli indignati di turno è quella di considerare tutto sommato irrilevante la sentenza di assoluzione di
Berlusconi: i fatti, si dice, sono alla luce del sole e non basta una semplice assoluzione, o una semplice svista di qualche magistrato superficiale, come se garantire un giusto processo sia solo un formalismo e non l’essenza dello stato di diritto, per cancellare tutto ciò che è emerso dal processo. E dunque, si dice, nessun dubbio, nessun arretramento: ciò che conta non è la stupida sentenza, ciò che conta è ciò che l’inchiesta ha magnificamente scoperchiato. E lo schema logico del partito del Pdp in fondo è fin troppo semplice: fare della magistratura inquirente l’unica depositaria della verità, dare al processo mediatico un’importanza superiore rispetto al processo reale e considerare tutto ciò che si discosta della verità veicolata dal processo mediatico come un rumore di fondo tipico delle fake news.

Nella cosiddetta giustizia sbrigativa, conta il processo celebrato sui media, non quello celebrato nelle aule dei tribunali, e sulla base di questo schema consolidato, e avallato da alcuni importanti giornali italiani, come Repubblica, come la Stampa, come il Fatto (non sussiste) quotidiano, è possibile continuare ad alimentare in scioltezza una verità alternativa rispetto a quella reale. Conta ciò che si apprende dalle indagini, non l’esito delle indagini. Conta quello che i media raccontano di un processo, non come finisce il processo. Conta la sentenza del tribunale del popolo, non quella del tribunale vero. Ed è anche per questa ragione che l’Italia della buca delle lettere delle procure si ostina da anni a perdere tempo a seguire inchieste che vivono solo nei teoremi del circo mediatico-giudiziario.

Processo sulla Trattativa uno: Carabinieri del Ros accusati di favoreggiamento per la ritardata perquisizione del covo di Riina (l’arresto di Riina è del 1993, l’assoluzione è del 2006).
Processo sulla Trattativa due: Carabinieri del Ros accusati di aver mancato più volte la cattura di Bernardo Provenzano (il presunto non arresto di Provenzano è del 1995, l’assoluzione dei Carabinieri del Ros è del 2017).
Processo sulla Trattativa tre: l’ex ministro Mannino accusato di aver intavolato una trattativa tra lo stato e la mafia (le prime indagini scattano nel 1991, l’assoluzione è del 2020).
Processo sulla Trattativa quattro: i Carabinieri del Ros accusati di “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti” (l’accusa di aver tramato con Cosa nostra, per Mori, Subranni e De Donno, risale al 1994, l’assoluzione è del 2022).

Processo Rubyuno (Berlusconi viene indagato nel 2010 per concussione e viene assolto nel 2015).
Processo Ruby ter (Berlusconi viene assolto in primo grado nel 2023 dall’accusa di corruzione in atti giudiziari dopo undici anni di indagini). Processo “Mafia Capitale” (nel 2020, dopo cinque anni di indagini e di processi, la Cassazione ha escluso il carattere mafioso degli atti criminali commessi a Roma).
Processo Eni-Nigeria (nel 2022 i vertici di Eni, dopo undici anni di indagini, sono stati assolti perché il fatto non sussiste dall’accusa di aver corrotto società petrolifere e politici nigeriani).
Processo Saipem-Algeria (nel 2020 la Cassazione conferma l’assoluzione per i vertici di Saipem per una presunta tangente relativa al 2007). Processo corruzione Finmeccanica (nel 2019 viene confermato dalla Cassazione il proscioglimento per gli ex vertici di Finmeccanica accusati dal 2013 di corruzione internazionale, e che per quell’accusa hanno passato alcuni mesi in carcere).
Processo Boschi-Etruria (il papà dell’ex ministro Maria Elena Boschi finì nel tritacarne giudiziario nel 2015, accusato di bancarotta fraudolenta, ed è stato assolto nel 2022 con formula piena).
Processo Ubi Banca: nel 2021 il tribunale di Bergamo assolve trenta imputati su trentuno al termine del processo sulle presunte irregolarità nella gestione dell’istituto di credito, nel frattempo incorporata in Intesa Sanpaolo (tra gli assolti il banchiere Giovanni Bazoli).

Nell’Italia della giustizia sbrigativa, le sentenze sono solo un’inutile perdita di tempo che rischia di spingere l’opinione pubblica a occuparsi dell’unica fonte di verità possibile: i processi celebrati sui media e non quelli celebrati nelle aule di tribunale. Finirà che a difendere i giudici, alla fine, resterà solo il Cav.

Il Foglio

L'articolo Se il processo mediatico prevale sul processo reale proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



I due Hotel Francfort di David Leavitt


Dopo sei anni di silenzio, nel 2013 Leavitt torna con “I due Hotel Francfort”, un romanzo ambientato nel giugno del 1940, sui modi in cui le persone possono cambiare in circostanze eccezionali e non essere più le stesse.

È la fotografia di un’Europa alla viglia del disastro, che fa fatica a tenere in vita gli ultimi equilibri mentre dai confini di molte nazioni risuonano colpi di mortaio; una storia immersa nell’atmosfera tanto precaria quanto seducente del neutrale porto di Lisbona, città affollata di espatriati preoccupati di quello che stanno per perdere, in attesa di essere portati in salvo a New York dalla nave SS Manhattan. @L’angolo del lettore

iyezine.com/i-due-hotel-francf…

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La proposta di acquisizione di iRobot (produttore dell’aspirapolvere Roomba) da parte di Amazon potrebbe detestare forti preoccupazioni per la privacy nella Commissione Europea. Lo scrive il Financial Times, sostenendo che la società americana avrebbe ricevuto già una richiesta di informazioni rispetto a questa nuova operazione da 1,7 miliardi di dollari. E questa mossa della Commissione...


La proposta di acquisizione di iRobot (produttore dell’aspirapolvere Roomba) da parte di Amazon potrebbe detestare forti preoccupazioni per la privacy nella Commissione Europea. Lo scrive il Financial Times, sostenendo che la società americana avrebbe ricevuto già una richiesta di informazioni rispetto a questa nuova operazione da 1,7 miliardi di dollari. E questa mossa della Commissione...


Firenze: le foibe furono una vendetta


A #Firenze hanno intitolato ai "#martiri delle #foibe" uno slargo con un muro sbrecciato lordo di #graffiti, usato come parcheggio e come ricettacolo per i cassonetti della spazzatura.
Un gesto più di scherno che di omaggio.
Ogni tanto qualcuno spezza o danneggia in altro modo la targa con il nome, che nel febbraio 2023 è stato sostituita per la terza volta almeno.
Giusto in tempo perché venisse corretta con la scritta "#Vendetta".
Una valutazione gelida e realistica. Imporre a Firenze i piagnistei della propaganda difficilmente avrebbe portato a risultati diversi: in città è diffusa da decenni, specie tra le persone serie, la propensione a non sentire alcuna appartenenza per lo stato che occupa la penisola italiana e a comportarsi di conseguenza nei confronti dei suoi propagandisti.



YO LA TENGO – THIS STUPID WORLD


iyezine.com/yo-la-tengo-this-s…

Questa prima parte di 2023, per fortuna, non ci sta riservando soltanto addii dolorosi a musicisti amati (Van Conner, Tom Verlaine e altri) ma anche eccellenti ritorni discografici, e uno di questi, senza dubbio, è rappresentato dal nuovo disco degli statunitensi Yo La Tengo, ormai veterani indie rockers sulle scene da quasi quattro decadi, che hanno dato alla luce il loro diciassettesimo album ufficiale, “This stupid world“. @Musica Agorà

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Il Consiglio dei Ministri ha approvato oggi il decreto che ridisegna in parte la governance del #PNRR, presentato dal Ministro per gli Affari Europei Raffaele Fitto.
#pnrr

Poliverso & Poliversity reshared this.



Oggi a Milano per il workshop promosso da ABILab e CERTFin “Fronteggiare la minaccia ransomware nelle organizzazioni finanziarie”. L’incontro è stato l’occasione per approfondire, insieme ad esperti del settore, le fasi che consentono di fronteggiare efficacemente un attacco randomware.Durante l’evento è stato presentato il CERTFin Ransomware Playbook, che raccoglie numerose best practice presenti in letteratura...


ZEROGROOVE – EVERYDAY- KACZYNSKI EDITIONS 2023


Torniamo ad esplorare il fantastico mondo della Kaczynski Editions, un’etichetta davvero altera nel panorama underground italiano e lo facciamo con il disco di Zerogroove intitolato “Everyday”. Zerogroove è il progetto solista di uno dei due fondatori dell’etichetta, Giuseppe Fantini. @Musica Agorà

iyezine.com/zerogroove-everyda…

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Pubblicata #ThePETGuide, la guida dell' ONU sulle tecnologie di miglioramento della #privacy per operare statistiche ufficiali


Il task team UNCEBD Privacy Enhancing Techinques ha pubblicato un pamphlet con metodologie e approcci per mitigare i rischi per la privacy quando si utilizzano dati sensibili o riservati, che sono collettivamente indicati come tecnologie di miglioramento della privacy (PET).

@Etica Digitale

Agli Uffici nazionali di statistica (NSO) sono affidati dati che hanno il potenziale per guidare l'innovazione e migliorare i servizi nazionali, la ricerca e i benefici sociali. Tuttavia, c'è stato un aumento delle minacce informatiche sostenute, reti complesse di intermediari motivati ​​a procurarsi dati sensibili e progressi nei metodi per reidentificare e collegare i dati a individui e tra più fonti di dati. Le violazioni dei dati erodono la fiducia del pubblico e possono avere gravi conseguenze negative per individui, gruppi e comunità.

Le statistiche ufficiali sono una fonte attendibile di informazioni per i governi di tutto il mondo per prendere decisioni informate e basate sui dati. Pertanto, l'ampiezza delle informazioni viene raccolta da una serie di fonti di dati come indagini sulle famiglie e sulle imprese, censimenti della popolazione, economici o agricoli, una varietà di registri amministrativi o persino dati del settore privato. Tali fonti di dati sono gli input per la compilazione di statistiche e indicatori sull'economia, l'ambiente e la società. In molti modi, le statistiche ufficiali offrono un'istantanea dello sviluppo e del tasso di progresso di un paese. Naturalmente, quanto più dettagliato è il livello dei dati di input, tanto più sfumate possono essere le statistiche ufficiali. Tuttavia, la raccolta, il trattamento e la diffusione di dati spesso sensibili devono proteggere la privacy delle persone e delle imprese. Inoltre, considerando gli uffici nazionali di statistica (NSO) come parte degli ecosistemi di dati nazionali e internazionali, gli NSO potrebbero potenzialmente condividere molti più dati se in grado di proteggere la loro privacy. Questo inevitabile compromesso è il fulcro di questo documento, o più concisamente: come possiamo utilizzare la tecnologia per mitigare i rischi per la privacy e fornire garanzie dimostrabili sulla privacy durante l'intero ciclo di raccolta, elaborazione, analisi e distribuzione di informazioni potenzialmente sensibili.

Questo documento esplora gli attuali approcci alla protezione dei dati (ad esempio, l'anonimizzazione dei dati, il calcolo delle parti di input, i controlli e gli accordi contrattuali) e le relative limitazioni. Al fine di facilitare la sperimentazione su progetti pilota e una collaborazione efficace su casi d'uso del "mondo reale", il Task Team delle tecniche di tutela della privacy delle Nazioni Unite ha fondato il laboratorio PET delle Nazioni Unite.

Vengono introdotte due grandi categorie di PET (ad es. privacy di input, privacy di output), tra cui calcolo multipartitico sicuro, crittografia omomorfica, privacy differenziale, dati sintetici, apprendimento distribuito, zero-knowledge proof e ambienti di esecuzione attendibili.

Vengono presentati studi di casi dettagliati che comprendono una vasta gamma di casi d'uso in tutti i settori, sfruttano combinazioni di PET e coinvolgono la collaborazione tra le parti (come più NSO che lavorano insieme, NSO che lavorano con altre agenzie governative e NSO che lavorano con organizzazioni del settore privato). Quindici casi di studio descrivono implementazioni che si trovano nella fase concettuale o pilota e tre che sono state implementate in ambienti di produzione.

Questo documento fornisce una panoramica delle attività di definizione degli standard e identifica diversi nuovi standard rilevanti per il trattamento dei set di dati, compresi gli standard in fase di sviluppo e alcuni che sono un prodotto del principio di precauzione applicato alla definizione degli standard per l'intelligenza artificiale (IA).

Data l'espansione dell'attività che si occupa di PET e il contesto in cui possono essere applicati, gli standard sono presentati in due parti. La prima identifica gli standard essenziali con sezioni sulla crittografia e sulle tecniche di sicurezza. Il secondo considera gli standard indirettamente correlati che potrebbero influenzare l'ambiente - tecnico e organizzativo - in cui i PET possono essere implementati, con argomenti secondari su cloud computing, big data, governance, intelligenza artificiale e qualità dei dati. Per coloro che sono interessati al "quadro più ampio", è disponibile una sezione aggiuntiva sugli standard correlati.

Qui il link per scaricare la guida

Scarica la guida



La povertà educativa in Italia è un problema, ma si potrebbe risolvere | L'Indipendente

"In un Paese con disparità territoriali profonde, un forte multiculturalismo di seconda generazione (sono circa 1,3 milioni i bambini stranieri o italiani per acquisizione) si auspica un intervento puntuale e ottimizzato, su strutture, personale e approcci. Non si tratta solo di risanare il giovane patrimonio umano in contesti periferici e creare un nuovo ecosistema di servizi per l’infanzia, adeguato alle nuove generazioni; occorre, come individuato dall’Osservatorio, considerare i giovani come risorse e non solo fasce da tutelare, attuare un cambiamento partecipativo e di ascolto, indirizzando i fondi alle reali necessità che chiede il nostro futuro."

lindipendente.online/2023/02/1…



Oggi si celebra “M’illumino di Meno”, la Giornata Nazionale che Rai Radio2 con il programma Caterpillar organizza annualmente per diffondere la cultura della sostenibilità ambientale e del risparmio delle risorse.


La coscienza morta


Si applica anche a noi, adesso.

"From the accumulated evidence one can only conclude that conscience as such had apparently got lost in Germany, and this to a point where people hardly remembered it and had ceased to realize that the surprising "new set of German values" was not shared by the outside world. This, to be sure, is not the entire truth. For there were individuals in Germany who from the very beginning of the regime and without ever wavering were opposed to Hitler; no one knows how many there were of them — perhaps a hundred thousand, perhaps many more, perhaps many fewer — or their voices were never heard. They could be found everywhere, in all strata of society, among the simple people as well as among the educated, in all parties, perhaps even in the ranks of the N.S.D.A.P."
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"E tutto sta a dimostrare che la coscienza in quanto tale era morta, in Germania, al punto che la gente non si ricordava più di averla e non si rendeva conto che il “nuovo sistema di valori” tedesco non era condiviso dal mondo esterno. Naturalmente, questo non vale per tutti
i tedeschi: ché ci furono anche individui che fin dall'inizio si opposero senza esitazione a Hitler e al suo regime. Nessuno sa quanti fossero (forse centomila, forse molti di piu, forse molti di meno) poiché non riuscirono mai a far sentire la loro voce. Potevano trovarsi dappertutto, in tutti gli strati della popolazione, tra la gente semplice come tra la gente colta, in tutti i partiti e forse anche nelle file del partito nazista."



Fr.#20 / Di artiste e prostitute digitali


Nel frammento di oggi: nuove professioni digitali, con conseguenze reali / Meme e citazione del giorno.

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Artiste di strada, ma digitali


In questi giorni sono venuto a conoscenza di un fenomeno peculiare che ha preso piede in Cina. Non saprei esattamente come definirlo, quindi faccio prima a farvelo vedere:

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Cosa sta succedendo? Quelle sono delle ragazze che stanno cantando, scherzando e chattando coi loro fan online. In streaming, sul marciapiede.

Perché? Beh, pare che sia merito di un nuovo algoritmo.

Non farti fregare dall’algoritmo, iscriviti a Privacy Chronicles.

La piattaforma cinese di streaming che usano queste ragazze infatti è dotata di un sistema di localizzazione che permette agli utenti di cercare streamer nelle loro vicinanze. Questo significa che chi fa streaming in zone più ricche avrà evidentemente una probabilità più alta di ricevere donazioni cospicue rispetto a chi invece si limita a streamare da casa sua, magari in un quartiere povero.

Ecco allora spiegato il motivo per cui decine di ragazze decidono di lavorare in strada piuttosto che nella comodità delle loro stanze.

La peculiarità è che molte di loro, come spiegato da Naomi Wu, non sono in condizioni di povertà. Anzi, spesso hanno un lavoro normale che fanno durante il giorno. D’altronde, l’attrezzatura che alcune si portano dietro è anche abbastanza costosa.

Insomma, non bisogna fare confusione: queste ragazze sono più vicine a delle artiste di strada che a delle mendicanti. La differenza, rispetto agli artisti di strada tradizionali, è che le loro performance vengono viste e apprezzate da remoto, da persone a 500 metri da loro o dall’altra parte della Cina.

Questo caso peculiare può insegnarci una cosa: gli incentivi funzionano. Funzionano così bene che una professione nata grazie al digitale si sta trasformando in uno strano ibrido phygital che incentiva decine di ragazze a mettersi in strada con luci e strumenti per lo streaming.

Forse bisognerebbe iniziare a riflettere sul potere diretto e indiretto che questi algoritmi hanno sulla nostra vita, e soprattutto ponderare sulle attuali e future capacità dei nostri governi di influenzare il comportamento di milioni di persone semplicemente attraverso sistemi di economia comportamentale e ingegneria sociale — come quelli già sperimentati anche in Italia.

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Prostitute digitali, conseguenze reali


Sempre rimanendo nel tema delle nuove professioni digitali, vale la pena riportare una notizia di questi giorni che arriva dagli Stati Uniti: pare che a una ragazza, modella su OnlyFans, sia stata negata la Visa per l’accesso agli Stati Uniti.

La Visa è in pratica un’autorizzazione che deve avere chiunque voglia viaggiare verso gli Stati Uniti e che viene allegata al passaporto. In alcuni casi, quando sussistono situazioni particolari, la Visa può essere negata. Ad esempio nel caso in cui la persona abbia ricevuto condanne o sia accusata di altre attività illecite, come il contrabbando.

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Oppure, come successo per la ragazza in questione, se la persona ha realizzato attività di prostituzione durante i 10 anni precedenti alla richiesta di Visa o se il suo viaggio sia in qualche modo finalizzato a compiere atti di prostituzione.

Non voglio entrare nella diatriba infinita sul considerare o meno l’attività su OnlyFans al pari della prostituzione, ma a quanto pare le autorità degli Stati Uniti la considerano tale. Ciò che conta qui è la capacità delle autorità governative di sorvegliare e analizzare i motivi del viaggio di una persona straniera, le sue attività professionali (magari anche secondarie) e il suo passato — fino a dieci anni prima!

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Non mi stupisce che gli Stati Uniti facciano tali discriminazioni: è noto che i collettivisti-statalisti confondono sempre (volontariamente) il piano della moralità con quello della legalità. E questo impatta la libertà delle persone.

5434856Scansiona il QR code con il tuo wallet LN oppure clicca qui!

Questo caso dovrebbe esserci d’esempio per comprendere i rischi derivanti proprio da queste capacità di sorveglianza dei nostri governi. I nostri dati saranno usati contro di noi. Sempre. E questo è anche il motivo per cui bisogna rigettare con forza qualsiasi proposta di identità digitale. Se ci riescono ora, figuriamoci cosa potranno fare con un sistema di identità digitale connesso a tutto ciò che siamo e facciamo.

Insomma, se proprio vuoi fare la modella su OnlyFans sappi che potresti essere considerata una prostituta a tutti gli effetti. Nulla in contrario, ma forse sarebbe il caso di imparare il valore dello pseudoanonimato e provare a considerare piattaforme e sistemi di pagamento alternativi che lasciano poche tracce, come Bitcoin. È chiaro che intermediari fiat come OnlyFans o come le piattaforme di pagamento non hanno assolutamente a cuore la riservatezza dei loro clienti.

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Meme del giorno


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Citazione del giorno

"Every form of happiness is private. Our greatest moments are personal, self-motivated, not to be touched. The things which are sacred or precious to us are the things we withdraw from promiscuous sharing.”

Ayn Rand

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La moralità dell'anonimato

Anonymity is dead, long live the anonimous! L’anonimato è morto, la privacy è morta. E anche noi, nel lungo periodo, siamo tutti morti. Se siete d’accordo, oggi inizierei così per parlare di un tema che stranamente non avevo ancora trattato su queste pagine: la moralità dell’anonimato…
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6 days ago · 5 likes · 2 comments · Matte Galt



Twitter Files: dalla censura politica al ban di Trump


Comunicazioni e documenti riservati per scoprire il sistema di censura e di sorveglianza segreta dentro Twitter - tra manager con deliri di onnipotenza e agenti dell'FBI.

Nelle scorse settimane Elon Musk ha distribuito ad alcuni giornalisti migliaia di documenti e comunicazioni riservate di Twitter. L’analisi di questi documenti ha dato vita a un piccolo cataclisma.

Le prime notizie che arrivano dai “Twitter Files” raccontano di inquietanti scoperte sui meccanismi di “moderazione” della piattaforma, tra top manager e team di moderazione palesemente politicizzati e sistematiche ingerenze da parte delle agenzie di intelligence. La storia raccontata finora dai giornalisti che hanno messo mano ai Twitter Files, attraverso dei lunghi thread pubblicati proprio su Twitter, parte dal 2020 e arriva fino ai giorni nostri.

Il materiale pare sia molto, e c’è sicuramente ancora tanto da raccontare, ma oggi voglio dare la possibilità ai lettori di farsi un’idea, ripercorrendo insieme le parti più rilevanti di tutta la vicenda.

Iniziamo.

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Gli strumenti di Twitter


Come racconta Matt Taibbi nel primo thread sui Twitter Files, nel corso del tempo Twitter fu costretta a sviluppare e costruire degli strumenti di censura che durante i primi anni di vita della piattaforma erano invece assenti.

Presto molte persone si resero conto della potenza di questi strumenti, e pian piano furono messi a disposizione di autorità governative ed esponenti di partiti politici che di volta in volta chiedevano alla piattaforma di rimuovere contenuti sgraditi. Nel 2020 le richieste di questo tipo erano praticamente una prassi consolidata.

Questi strumenti di “moderazione” erano a disposizione, in teoria, di ogni parte politica. Il problema è che sembra che non ci fossero dei canali ufficiali a cui fare riferimento, ma che fosse invece un’attività che veniva fatta attraverso contatti personali con dipendenti interni di Twitter.

Perché dico che è un problema? Dovete sapere che prima dell’arrivo di Elon Musk e dei licenziamenti collettivi, più del 98% dei dipendenti di Twitter erano dichiaratamente Democratici (cioè progressisti di sinistra) — come mostrano dai dati riportati da Matt Taibbi nel suo primo thread.

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Per un mero dato statistico, i Democratici avevano quindi molte più possibilità di ottenere la rimozione di contenuti rispetto ai Repubblicani.

Prima di continuare…

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La censura arbitraria dei progressisti


La giornalista Bari Weiss, nel secondo thread dedicato ai Twitter Files conferma poi ciò che molti “complottisti” dicevano da tempo, nonostante le dichiarazioni pubbliche contrarie da parte di Vijaya Gadde: sì, lo shadow ban esiste.

Il team di moderazione di Twitter aveva infatti l’abitudine di creare delle vere e proprie blacklist di utenti a cui limitare la visibilità e la reach dei contenuti.

Il gruppo interno che gestiva questo tipo di censura era chiamato “Strategic Response Team - Global Escalation Team”. Nel gruppo, dice Bari Weiss, c’erano Vijaya Gadde (Legal, Policy, and Trust) e Yoel Roth (Trust & Safety), oltre ai CEO — prima Jack Dorsey e poi Parag Agrawal.

Gli account più colpiti da queste blacklist e shadowban erano quelli di persone della destra conservatrice e in generale account con opinioni contrarie a quelle progressiste in merito a questioni riguardanti LGBT o sulle elezioni presidenziali del 2020.

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Un esempio paradigmatico fu quello di Chaya Raichik, “Libs of TikTok” (che seguo con molto piacere, anche su substack), che solo all’inizio del 2022 fu bannata per ben sei volte. Nel suo caso il pregiudizio politico era evidente: non solo l’account veniva sospeso arbitrariamente, ma Twitter non fece nulla per bannare le persone che doxxarono l’indirizzo di residenza di Chaya e che regolarmente la minacciavano di morte. Se non sbaglio, qualcuno di quei post è ancora online.

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Le motivazioni che sostenevano la maggior parte delle censure di post e sospensione degli account erano puramente politiche, in base alle idee dei team di moderazione e dei manager come Yoel Roth.

Proprio lui scrisse nel 2021: “The hypothesis underlying much of what we’ve implemented is that if exposure to, e.g., misinformation directly causes harm, we should use remediations that reduce exposure, and limiting the spread/virality of content is a good way to do that”.

Cosa si intende Roth per “misinformation”? Ovviamente, tutto ciò che è contrario alla narrativa Dem e alle sue personalissime idee.

Al contrario di quanto pubblicamente affermato da Twitter nel corso degli anni, molte delle scelte di rimozione di contenuti non erano fatte sulla base di elementi oggettivi, ma in base a interpretazioni personali degli executives e dei team di moderazione, per poi essere giustificate di volta in volta con le policy più adeguate.

Un chiaro esempio dell’arbitrarietà e dei pregiudizi dei team di moderazione viene da uno scambio tra Yoel Roth e un collega il 7 gennaio 2021, in cui discutono su come “moderare” il movimento “#stopthesteal”, che durante l’elezione del 2020 sosteneva ci fossero gravi irregolarità nel processo elettorale, soprattutto per quanto riguarda i voti via posta.

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Il movimento, ritenuto fonte di disinformazione, venne presto censurato da Twitter. L’obiettivo in quel caso era duplice: da una parte censurare i post degli esponenti del movimento, e dall’altra lasciare libertà al “counterspeech”, cioè ai post dei progressisti di sinistra che usavano lo stesso hashtag per sostenere tesi contrarie.

Un altro esempio di arbitrarietà e faziosità politica arriva da queste comunicazioni del 7 di gennaio 2021 (24 ore prima del ban di Trump), in cui il team di moderazione si trova a discutere perfino su come punire gli utenti che ripostavano foto dei tweet di Trump senza alcun intento politico, ma per criticare le scelte di moderazione di Twitter, come in questo caso:

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Il ban di Trump


La terza, quarta e quinta parte dei Twitter Files affrontano invece gli eventi che portarono l’8 gennaio 2021 al ban di Trump — il caso di deplatforming più famoso e più grave al mondo. La storia prosegue con i contributi di Matt Taibbi e Michael Shellenberger, che offrono uno spaccato sui mesi e giorni precedenti al ban di Trump.

Già dai primi mesi del 2020 Twitter era un insieme scomposto di sistemi di sorveglianza e di censura automatizzati e persone con il potere di censurare arbitrariamente chiunque (beh, non proprio chiunque) sulla base di pregiudizi puramente ideologici e politici.

Come se questo non bastasse, man mano che le elezioni si avvicinavano gli executives di alto livello come Yoel Roth iniziavano ad intrattenere sistematicamente relazioni con FBI e varie altre agenzie federali come l’Homeland Security e la National Intelligence. Era in questi incontri che spesso si decideva come e quali tweet censurare. Principalmente, ça va sans dire, di Trump e altri account Repubblicani — che in quel periodo erano molto attivi per denunciare problemi col processo elettorale.

A conferma della frequenza e normalità degli incontri ci sono alcuni scambi tra il team marketing di Twitter e il Policy Director Nick Pickles. Il team chiedeva se fosse possibile descrivere il processo di moderazione di Twitter come un misto di “machine learning, human review e partnership con esperti”, a cui Nick rispose: “non so se definirei FBI e DHS come esperti”.

La pressione politica fuori e dentro Twitter in quel periodo si poteva tagliare con il coltello.

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In questo periodo Trump era già stato sospeso diverse volte. Secondo le policy di Twitter, ci sono una serie di “strike” prima che l’account possa essere bannato definitivamente. A Trump ne rimaneva uno; un’ultima violazione, di una qualsiasi policy interna, avrebbe causato il suo ban definitivo.

Trump però non era una persona qualunque. I suoi tweet avevano un valore “pubblico” non indifferente. La questione era nota anche internamente a Twitter, che infatti ha una “public interest policy” che prevede delle eccezioni in caso di violazioni per tweet e account che abbiano un certo valore nell’interesse pubblico.

Proprio per questo, il 7 gennaio 2021 l’onnipresente Yoel Roth scrive a un collega che nel caso di Trump l’idea era quella di "bypassare le tutele del “public interest e fare in modo che potesse essere bannato alla prima violazione di una qualsiasi policy interna". La decisione ai piani alti era già presa da tempo. Trump doveva essere bannato, bisognava solo trovare una qualsiasi giustificazione.

La pressione interna in quei giorni era altissima. Vi ricordo che molti dipendenti in Twitter erano progressisti democratici, che dopo gli eventi del 6 gennaio ce l’avevano a morte con Trump e con chiunque la pensasse diversamente da loro (ma questo è ricorrente). Nelle chat interne circolavano affermazioni come queste:

“Non capisco la decisione di non bannare Trump data la sua istigazione alla violenza”

“Dobbiamo fare la cosa giusta e bannare il suo account”

“Ha chiaramente tentato di sovvertire il nostro ordine democratico… se non è questo un buon motivo per bannarlo, non so cosa possa esserlo”

Come riporta di nuovo Bari Weiss nella quinta parte dei Twitter Files, l’8 gennaio 2021 — a poche ore dal ban di Trump — il Washington Post pubblicò perfino una lettera aperta firmata da 300 dipendenti di Twitter che chiedevano a Jack Dorsey di bannare per sempre Trump — a prescindere da qualsiasi valutazione di merito.

Quel giorno Trump postò due volte:

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Poche ore dopo il primo tweet Vijaya Gadde scrisse in una chat interna: “potremmo interpretare ‘American Patriots […] will not disrespected or treated unfairly in any way, shape or form’ come una istigazione alla violenza”.

L’istigazione alla violenza sarebbe stato l’ultimo strike necessario per bannare Trump definitivamente. L’interpretazione però era controversa e neanche Vijaya era sicura di questa strada. Sempre nella stessa chat qualcuno disse che “American Patriot” poteva essere inteso come un chiaro riferimento ai manifestanti violenti di Capitol Hill (6 gennaio 2021) e questo avrebbe causato la violazione della “Glorification of Violence policy”.

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Insomma, non c’era più alcun criterio di valuazione, se non la fantasia dei moderatori nell’interpretare il contesto del tweet di Trump. La tensione era talmente alta che nelle ore successive al tweet Trump venne definito come il leader di un’organizzazione terroristica — comparabile perfino a Hitler.

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Alla fine anche la “leadership” di Twitter dovette cedere alle pressioni, sia interne che esterne, e Trump venne bannato definitivamente a causa della supposta violazione della policy contro l’istigazione alla violenza.

Social Network… o strumento di sorveglianza dell’intelligence?


Il sesto e ultimo (per ora) thread sui Twitter Files, scritto poche ore prima dell’uscita di questa newsletter, mostra come le agenzie di intelligence, in particolare FBI e DHS, avessero da tempo rapporti continuativi, amichevoli e molto stretti con diversi referenti di Twitter. Uno su tutti Yoel Roth, che tra gennaio 2020 e novembre 2022 pare che abbia scambiato più di 150 email con l’FBI.

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Ma l’FBI non si limitava a interagire con Twitter. L’agenzia aveva istituito una vera e propria task force di sorveglianza e analisi di post e account sulla piattaforma. L’ingerenza arrivava a tal punto da chiedere “informalmente” a Twitter i dati di localizzazione degli account flaggati — senza alcun mandato né indagine che giustificasse questa richiesta.

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Contrasto al terrorismo? Indagini su crimini federali? Niente di tutto questo: pura sorveglianza e censura politica in materia elettorale. Venivano colpiti perfino di account satirici. Ma è questo il mandato dell’FBI? E davvero siamo disposti ad accettare un abuso di potere di questo tipo?

Un commento


La storia dei Twitter Files non è ancora finita, e certamente ci sono ancora molte domande che meritano risposta. Che dire di tutta la censura sul covid? Solo da poco Twitter ha annunciato di aver disattivato i filtri automatizzati su quei contenuti. E che dire di tutti gli account che sono stati ingiustamente silenziati e shadow-bannati da gennaio 2021 a oggi? Che ruolo ha avuto l’intelligence americana nella gestione occidentale della pandemia e nel flusso delle informazioni?

Politici e intellettuali, per lo più di sinistra, da anni tentano di persuaderci del bisogno di combattere la disinformazione. Ci dicono che è pericolosa, che bisogna proteggere le persone. Ma da cosa?

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In un mondo dove tutto ormai è relativo e non esiste più alcun criterio oggettivo — in cui un giudice della Corte Suprema è incapace perfino di dare una definizione di donna; in cui per mesi si è detto tutto e il contrario di tutto su COVID e vaccini… cosa significa disinformazione?

La verità è che la lotta alla "disinformazione" non esiste. Esiste però una chiara volontà di censurare opinioni e idee che non siano aderenti all’ideologia dominante. Perché l’informazione è potere. Chi controlla l’informazione controlla le idee, che come sappiamo sono più potenti dei proiettili.

Controllare l’informazione serve per plasmare una narrativa capace di rendere le persone sempre più dipendenti dal sistema; convincerle a subire qualsiasi angheria e limitazione di libertà — per il loro bene. Non c’è nulla di nuovo, è così che i governi creano una massa di zombie pronti ad accettare qualsiasi cosa pur di sentirsi al sicuro.

È il modello cinese, quel modello che fin dal 1997 punisce chiunque diffonda informazioni potenzialmente sovversive dell’ordine stabilito. Il modello che i progressisti di tutto il mondo, da Washington a Bruxelles, vogliono applicare ai social network. Il Digital Services Act — non mi stancherò mai di ripeterlo — è questa cosa qua.

Allora oggi dobbiamo chiederci: perché mai qualcuno dovrebbe avere il potere di decidere fino a che punto può spingersi il pensiero prima di diventare illegale? E che impatto ha la censura (e l’annessa sorveglianza di massa) sul nostro mondo? Quanto di ciò che stiamo vivendo in questi anni è frutto dell’evoluzione naturale degli eventi e quanto invece è conseguenza del controllo e della manipolazione delle informazioni da parte di un nucleo ristretto di persone?

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Leggi la seconda parte dei Twitter Files


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