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A manetta


La forza c’è e, nelle condizioni date, le cose stanno andando bene. Se avessimo dovuto fare i conti solo con l’arresto da pandemia e l’inflazione innescata dalla ripartenza della domanda e dal precedente infarto della logistica internazionale, andrebbero

La forza c’è e, nelle condizioni date, le cose stanno andando bene. Se avessimo dovuto fare i conti solo con l’arresto da pandemia e l’inflazione innescata dalla ripartenza della domanda e dal precedente infarto della logistica internazionale, andrebbero meglio. Ma si continua ad avanzare anche dopo che una criminale scelta bellica ha cambiato lo scenario nel quale muoversi.

Il prodotto interno lordo cresce. E lo fa a un ritmo che solo qualche anno addietro avrebbe fatto gridare al miracolo. I conti pubblici sono quelli che sono, con un debito enorme, ma il deficit (sempre alto) è in discesa rispetto alle previsioni. Il dollaro rafforzato rende più costosi gli acquisti dall’estero, ma il prezzo del petrolio scende più velocemente di quanto il primo salga. Mentre un cambio con un euro meno alto rende più facile vendere i nostri prodotti. Difatti la bilancia corrente continua ad accumulare avanzi e siamo, in questo, fra i meglio messi al mondo.

Nell’anno prosciugato dalla siccità aumentiamo di un poderoso 19% le esportazioni dei prodotti agroalimentari. Il principale mercato resta quello europeo, ma poi vengono quelli americano e asiatico, dove il dollaro aiuta. E basta uscire da casa per rendersi conto che i turisti, benvenuti, hanno invaso l’Italia.

Nella vita ci si deve sempre impegnare a far meglio, ma sta andando niente affatto male. Il che non avviene per caso o per circostanze fortunate (tutt’altro), ma per impegno e capacità. La stagione estiva è iniziata all’insegna della mancanza di personale, che si è confermata e che comporta il perdere occasioni di crescita e arricchimento, ma in qualche modo si fa fronte e l’Italia che vuol lavorare sta lavorando sodo.

L’osservazione dei ristoranti pieni può sembrare banale, ma non lo è affatto osservare quel che succede fra i tavoli, con molti giovani in attività. Alla faccia del volerli descrivere tutti come divanizzati. La riforma degli Its (Istituti tecnici superiori), finalmente completata in Parlamento, li riguarda direttamente, come riguarda l’intera Italia produttiva, e racconta la storia di tanti giovani che studiano per lavorare e trovano il lavoro quando non hanno ancora finito di studiare. Uno splendido esempio.

Ora non ci si perda nei decreti attuativi, non si deluda quella speranza, non si scemi in qualità, perché di quegli istituti ne servono di più, che offrano formazione a più ragazzi, perché siano padroni della loro vita e parte della produzione di ricchezza. Che serve molto, alla propria e collettiva dignità.

Ogni tanto anche noi ci cimentiamo nella contabilizzazione degli obiettivi legati al Pnrr. Essere in regola e rispettare gli impegni serve ad avere quei fondi, abbondanti e preziosi. Ma attenzione a non perdere la visione profonda: quei quattrini europei non sono lo scopo, ma lo strumento. Gli effetti veri dell’avere rispettato regole e tempi si sentiranno fra un paio d’anni, rendendo possibile un ritmo di crescita che è il solo modo per far diminuire il peso soffocante del debito pubblico. Per ora ci siamo. E anche questo è bene.

Restano due demenze, che ci portiamo dietro. Due tare che ci fanno sembrare un corpo forte con una mente debole. La prima è che a questa corsa partecipa solo una parte dell’Italia. Più vasta di quel che si crede, sebbene, talora, con detestabili vizi. Ma una parte ancora troppo consistente ne è esclusa.

La seconda è un mondo politico tutto teso non tanto a rappresentare gli esclusi, che andrebbe anche bene, ma ad accudirli perché restino tali. Una condotta dettata dal credere che la via per il benessere stia nella spesa pubblica (che poi diventa pressione fiscale) e non nella sinergia fra capitale e lavoro. Non è un caso, del resto, che la gran parte di quella classe politica non abbia mai lavorato.

Ogni volta che l’Italia è costretta a cambiare e competere avanza a manetta e vince. Noi preferiamo festeggiare anziché consolare, battendo una cultura e tante politiche da licenziare.

La Ragione

L'articolo A manetta proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Cancel Culture: cancellare i musei coloniali (ottava parte)


Le popolazioni indigene sono state pagate per vendere la loro stessa identità e il proprio patrimonio culturale materiale e immateriale, l’arte nera è stata il più delle volte rubata o è diventata un’arte di mercato dove il bianco è l’intenditore-comprato

di Franco Ferioli

Pagine Esteri, 15 luglio 2022 – Nato dalla Cancel Culture, cresciuto dal Black Lives Matter Movement, adottato dal Politicamente Corretto, qualificato come processo di de-colonizzazione, quantificato come procedura di post-musealizzazione, l’emergente fenomeno “Rivisitazione dell’Arte Coloniale” appare come una precipitosa fuga dell’Occidente attraverso l’uscita di sicurezza della storia, a rotta di collo giù per scala di emergenza del proprio passato colonialista.

Visto il grande successo ottenuto, con più di 100.000 visitatori dal 21 febbraio al 22 maggio, la mostra “Arte del Benin di ieri e di oggi: dalla restituzione alla rivelazione” verrà riaperta il giorno 16 luglio 2022 presso le sale provvisorie del palazzo Presidenziale della Marina di Cotonou per altri due mesi. La prima parte di questa esposizione, chiamata “Arte contemporanea del Benin”, raccoglie cento opere di trentaquattro artisti beninesi contemporanei; la seconda, “Tesori Reali del Benin” presenta ventisei opere restituite dopo centotrenta anni trascorsi nei musei francesi, da quando cioè,nel 1892, la Francia attaccò il Regno del Dahomey con il pretesto di condurre la lotta al cannibalismo, ai sacrifici umani e alla poligamia attribuite alle popolazioni autoctone, mentre in realtà stava procedendo per completare l’occupazione di quella che sarebbe divenuta l’Africa Equatoriale Francese, una federazione di possedimenti di 2.349.651 km² che si estendeva dal fiume Congo fino al deserto del Sahara. Il colonnello franco-senegalese Alfred Amédée Dodds, alla testa di oltre tremila uomini, partì da Cotonou e, dal 26 ottobre al 17 novembre, dovette affrontare la resistenza all’ultimo sangue di un esercito composto da sole donne guerriere divenute leggendarie come Amazzoni del Dahomey, prima di conquistare e saccheggiare la capitale Abomey.

Dodds, tra il 1893 e il 1895, restituì al museo etnografico del Trocadéro ventisei tesori reali sequestrati nella reggia di Abomey, tra i quali spiccano il trono di Re Béhanzin, quattro porte del palazzo del re Glélé, tre statue reali antropomorfe metà uomo-metà pesce di Béhanzin, metà uomo metà leone del re Glélé e metà uomo metà uccello del re Ghézo, attribuite al grande intagliatore Likohin Kankanhau Sossa Dede, oltre a tre scettri, monete d’oro, gioielli in avorio e metalli preziosi, sculture sacre, arredi, tessuti e oggetti di uso quotidiano.

All’epoca non esisteva una legge internazionale sul saccheggio delle opere d’arte, gli ufficiali francesi poterono agire liberamente a titolo personale e non si saprà mai con esattezza quanti oggetti preziosi siano stati prelevati e quanti altri senza dubbio siano ancora oggi nelle mani dei loro discendenti. Secondo stime accertabili in Francia si troverebbero 90.000 manufatti artistici di inestimabile valore, dei quali 46.000 -meno 26- sottratti durante il periodo coloniale.

A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento il saccheggio, seguito da spedizioni punitive, invasioni e guerre coloniali, è stato una miniera di oggetti d’arte, documenti, reliquie e capolavori non solo per i musei francesi, ma per tutti i principali musei europei. L’Impero Britannico mise gli occhi sulla ricca Costa d’Oro e sul fiorente regno degli Ashanti, oggi appartenente alla Repubblica del Ghana, e nel corso della terza campagna militare, (1873-1874), le truppe inglesi irruppero nel cuore del regno e distrussero la capitale Kumasi dopo aver sottratto dall’Alban, il palazzo reale, tutto quanto vi era conservato, oltre a quello che viene oggi chiamato l’Oro degli Ashanti: ornamenti, maschere e oggetti d’oro massiccio e d’argento che trovarono una nuova patria a Londra, nelle collezioni espositive del British Museum e della Wallace Collection.

Qualche anno dopo, nel febbraio 1897, il momento culminante di una serie di attacchi ai reami dell’Africa Occidentale che portò alla conquista inglese di quella che è oggi la Nigeria, coincise con la spedizione punitiva contro il Regno del Benin o Regno Edo condotta da un battaglione agli ordini dell’ammiraglio Harry Rawson che distrusse l’antica città di Benin e fruttò l’enorme bottino dei Bronzi del Benin: oltre duemila bassorilievi che furono venduti all’asta dall’Ammiragliato per ripagare il costo della spedizione e che vennero dispersi in varie collezioni di oltre centosessanta musei internazionali sparsi in tutto il mondo: novecentoventotto pezzi si trovano nel British Museum di Londra; cinquecentoventi nel Museo Etnologico di Berlino; centosessanta nel Weltmuseum di Vienna, altrettanti nelle sale del Metropolitan Museum of Art di New York, quantità inferiori nel Pitt Rivers di Oxford, nel MARKK di Amburgo, nelloSmithsonian Museum of African Art di Washington, nel Fowlwe Museum dell’Università della California.

Circa vent’anni dopo gli inglesi inviarono una compagnia al comando del maggiore Robert Stephenson Smyth Baden Powell (che sarebbe divenuto celebre per avere fondato il movimento dei Boy Scouts), che descrisse la missione in un libro, raccontando che, una volta ottenuta la sottomissione, le truppe inglesi entrarono nel palazzo reale e si diedero a “collezionare” gli oggetti di valore che vi si trovavano. Scrive Baden Powell: “non vi potrebbe essere lavoro più interessante e più invitante di questo. Fu sufficiente a renderlo tale il rovistare nel palazzo di un re barbaro la cui ricchezza fu detta essere molto grande. Forse uno degli aspetti più straordinari fu che il lavoro di raccogliere i tesori fu affidato a una compagnia di soldati britannici, ed eseguito con la più grande onestà e attenzione, senza un solo caso di saccheggio. Qui vi era un uomo con una bracciata di spade dall’impugnatura d’oro, là ve ne era uno con una scatola piena di ninnoli e di anelli d’oro, un altro con una cassa piena di bottiglie di brandy. Cionondimeno in nessun caso vi fu un tentativo di furto”. È evidente, scrive il filosofo Kwame Anthony Appiah, che “Baden Powell era seriamente convinto che l’inventariare e il rimuovere questi tesori per ordine di un ufficiale britannico fosse un legittimo trasferimento di proprietà. Non era saccheggio; era collezionismo”.

I sottili limiti esistiti ed esistenti da secoli fra saccheggio, collezionismo e vandalismo da un lato, e mercato, schiavismo e colonialismo dall’altro, continueranno ad essere di stretta attualità anche dopo la primavera-estate di quella che si presenta a tutti gli effetti come una inaugurale stagione africana di straordinari appuntamenti fortemente simbolici e chiaramente rivelatori del rapporto che l’arte intrattiene con gli splendori e gli orrori della storia coloniale.

La Repubblica del Benin è il primo Stato dell’Africa subsahariana rientrato in possesso di una parte del proprio patrimonio culturale sottratto da una potenza coloniale europea.

La Repubblica Francese è il primo Paese al mondo a restituire a un Paese africano colonizzato una simbolica parte maltolta del suo patrimonio.

Nel confronto tra primati e primatisti, a manifestarsi è però un crollo seguìto da un deficit insanabile.

Le prime richieste di restituzione da parte dei Paesi africani risalgono infatti agli anni Sessanta e per sessanta anni i Paesi europei hanno reagito senza compiere un solo passo in avanti. Parlare di restituzione è stato una sorta di tabù o di muro abbattuto solamente negli ultimi anni da cause legali mosse da comitati, associazioni, intellettuali e capi di Stato: dal 2019, oltre al Benin, anche Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria, Zaire, Etiopia, Ciad, Mali e Madagascar hanno inoltrato richieste ufficiali.

Secondo gli esperti, l’85-90% del patrimonio africano si trova attualmente fuori dal continente.

Collezionismo e saccheggio possono apparire a prima vista difficilmente comparabili, ma quando vengono attuati a spese dei patrimoni culturali, indipendentemente dalle condizioni storiche nelle quali avvengono o dalle motivazioni di coloro che li effettuano, essi sempre condividono una comune motivazione di fondo: il desiderio di un individuo, di un gruppo o di una nazione di impadronirsi non solo delle ricchezze ma anche dell’identità culturale altrui.

Verso la fine del Settecento saccheggio e collezionismo si unirono indissolubilmente in una moda prodotta dalla nascita del concetto di esotismo già iniziata a partire dal Quattrocento.

Il desiderio di conquista e di conoscenza, alimentato dal successo della letteratura di viaggio e dalle grandi scoperte, permise a ricchi viaggiatori e a rappresentanti delle famiglie regnanti di entrare in possesso di grandi tesori archeologici e di innumerevoli capolavori artistici.

Nel corso dell’Ottocento il progresso dei paesi europei diede un ulteriore impulso: dalle accademie e dalle società scientifiche archeologi e naturalisti furono inviati nelle colonie per effettuare campagne di scavi i risultati dei quali vennero prelevati, rinchiusi ed esposti nei musei delle nazioni finanziatrici.

Fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento gli studi antropologici che prendevano spunto dalle teorie del darwinismo ebbero la necessità di raccogliere materiali umani che dimostrassero l’evoluzione delle differenze biologiche fra le razze: scienziati e studiosi furono inviati nelle colonie dalle università e dai musei di tutto il mondo occidentale per raccogliere quanto più materiale possibile, prima fra le spoglie dei diseredati (reclusi, prigionieri di guerra, malati mentali), poi tra quelle dei popoli nativi e degli schiavi, innescando l’espansione di un ricco mercato parallelo a quello archeologico e artistico.

Fra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo l’aggressività predatoria del colonialismo alimentò un gigantesco mercato clandestino che ha fatto la fortuna di avventurieri, commercianti, antiquari e case d’asta e ha permesso l’accumulo di collezioni di inestimabile valore che le istituzioni museali continuano ancora oggi ad esporre col timore che possano suscitare le rivendicazioni dei discendenti degli antichi proprietari.

I beneficiari dei saccheggi e della brama collezionistica ai danni delle popolazioni e dei patrimoni locali sono sia singoli individui (principi, re, imperatori, dittatori, esploratori, militari, mercanti e collezionisti), sia comunità istituzionalizzate (nazioni, eserciti, organizzazioni religiose, università, società, fondazioni, banche) per appagare la propria sete di possesso e per aumentare la propria autorevolezza in campo intellettuale, economico, politico e sociale.

Anche l’attività dei missionari ha contribuito non poco alla cancellazione del patrimonio culturale dei popoli indigeni. La diffusione della parola del Signore si accompagnò alla raccolta di oggetti della cultura materiale delle popolazioni con cui i missionari entravano in contatto, soprattutto oggetti di culto la cui asportazione era un corollario utile all’imposizione della nuova religione. In tal modo migliaia di oggetti vennero distrutti come idoli e feticci sacrileghi o presero la via dell’Europa contribuendo a formare importanti musei sotto il controllo della Chiesa Vaticana.

Dagli anni Ottanta al presente dei giorni nostri, il fenomeno di dispersione è divenuto ancor più capillare sommandosi ai movimenti migratori: ceduti per due soldi ai rigattieri da coloro che non avevano altro modo per racimolare i soldi necessari per imbarcarsi verso l’Europa, il flusso di oggetti preziosi verso le città portuali dell’Africa Occidentale e del Golfo di Guinea, ha attirato in Africa una grande quantità di speculatori e faccendieri che, dopo averli comprati in loco a prezzi ridicoli, li hanno rivenduti alle case d’antiquariato, che a loro volta hanno rifornito collezionisti, gallerie, case d’asta e musei delle città europee in un vorticoso sistema post-colonialista di sfruttamento dei patrimoni di immense regioni e innumerevoli etnie, con il risultato pratico e beffardo che può aver fatto sì che chi si era visto costretto a svendere i propri beni famigliari più cari e preziosi nei luoghi di partenza, li dovesse vedere rimessi in vendita a cifre da capogiro nei cataloghi più prestigiosi e nelle vetrine più esclusive dei luoghi di arrivo.

Un esempio su tutti, quello dell’asta tenutasi nel giugno 2021 a Parigi, presso Christie’s: sono stati offerti 61 lotti di arte provenienti dall’Africa, dall’Oceania e dal Latino America, tra cui una statuetta Urhobo dalla Nigeria, una scultura e un bronzo del Benin. L’asta si è conclusa con l’aggiudicazione di tutti i lotti, con un ricavato complessivo di 66.069.250 euro: il risultato d’asta più importante di sempre per questo tipo di arte.

Mentre per la comunità saccheggiata i simboli sottratti assumono lo status di “patrimonio assente”, per i saccheggiatori gli oggetti sottratti sono integrati nel proprio patrimonio, il quale viene così arricchito sia dalle vicende che hanno giustificato e prodotto il saccheggio, sia da quella che viene chiamata “narrazione nazionale” o “narrazione dominante”. In ambedue i casi il risultato è l’annientamento del vinto e la crescita della potenza politica, culturale o economica del vincitore.

Poiché ogni comunità è un gruppo di individui che si forma attorno a un insieme di simboli condivisi – memorie, miti, credenze, riti – è evidente che nessuna comunità può esistere se non possiede un patrimonio culturale condivisibile, ed è altrettanto evidente che nessuna comunità sopravvive alla perdita del proprio patrimonio. Tale perdita corrisponde alla perdita della memoria collettiva, cosicché la comunità si trasforma da un complesso di individui che condividono una stessa eredità, in un insieme di individui isolati. La perdita del patrimonio culturale conduce a un processo di disgregazione delle comunità ben noto ai conquistatori, per i quali una conquista non può dirsi totale e definitiva se non attraverso il saccheggio, l’asportazione, l’appropriazione, la dispersione o la distruzione del patrimonio culturale del popolo da soggiogare.

Ecco perché i depredati chiedono con sempre maggior insistenza il ritorno di ciò che è stato loro sottratto: la maggior parte delle collezioni dei musei non sono prodotti di normali transazioni fra soggetti paritari e consenzienti, ma sono invece il prodotto di spostamenti di beni, di rimescolamenti seguiti a periodi di crisi politiche, belliche, economiche e morali, nate dall’eccessivo spirito collezionistico e dall’ansia di supremazia che giustifica acquisizioni moralmente disdicevoli, se non truffaldine, e conduce alla frammentazione e alla dispersione di opere composite e alla perdita dei loro significati più autentici e originali.

L’insensibilità con la quale il colonialismo europeo ha impedito il senso contestuale/culturale dell’arte africana, l’assenza di dialogo culturale con i popoli indigeni, lo sviluppo di un’arte di mercato dove il bianco è l’intenditore-compratore di manufatti da inglobare nel sistema estetico e formale dell’arte occidentale, toccano i punti cruciali del discorso antropologico legato al valore culturale dei manufatti e i temi basilari della riflessione sul valore storico-antropologico che i manufatti artistici possiedono per le società che li producono.

Tutti sanno come le popolazioni indigene siano state pagate per vendere la loro stessa identità e il proprio patrimonio culturale materiale e immateriale, tutti sanno che l’arte nera è stata il più delle volte rubata, come ha testimoniato in molte pagine del suo diario di viaggio, L’Africa fantasma (1984), l’etnologo Michel Leiris negli anni della Missione etnografica Dakar-Gibuti (1931-1933) che arricchì a dismisura i depositi del Musée de l’Homme di Parigi con 3.600 oggetti, 300 amuleti, collezioni di pitture, manoscritti in 30 differenti lingue, 6.000 fotografie…

Ancora di più il significato dell’arte “primitiva” è stato alterato e gli indigeni pagati per vendere la loro stessa identità e il loro patrimonio culturale, trasformando le loro vite in una farsa di azioni e immagini diretta dai colonizzatori, in cui la sfera magico-religiosa viene rimpiazzata dagli interessi economici capitali dell’Occidente e da un concetto di “esotismo esteriore” limitativo e autoreferenziale nel cogliere motivi ornamentali e periferici in grado di suscitare un interesse autoreferenziale e uno spaesamento temporaneo circoscritto e fine a sé stesso, come lo ebbe a definire Elemire Zolla (Uscite dal Mondo, Adelphi 1992 – capitolo: Parigi fra il 1862 e il 1932).

Leiris ha denunciato i mezzi spicci e predatori con cui gli etnologi si sono appropriati degli oggetti artistici o rituali degli indigeni per arricchire le collezioni del futuro Musée de l’Homme parigino e con cui estorsero loro informazioni su celebrazioni e tradizioni segrete o particolari di canti e danze riservate agli iniziati e nel libro egli si rimprovera di aver usato in molte occasioni esattamente gli stessi metodi dei colleghi: il furto e l’inganno. Per tutti questi motivi, l’uscita del libro, nel 1934, venne accolta con aperta e quasi brutale ostilità, il capo missione Marcel Griaule – assistente all Ecole des Hautes Etudes, etnografo e linguista – furioso, definì l’ex amico, “un uomo senza onore che ha compromesso l’avvenire degli studi sul campo”, rompendo ogni rapporto con lui; Marcel Mauss -luminare dell’antropologia culturale francese- ridusse Leiris a un “letterato” e “non un etnologo serio”; il Ministero dell’educazione nazionale stigmatizzò il libro come “opera la cui apparente intelligenza è dovuta soltanto a una grandissima bassezza di sentimenti”. Gran parte delle copie andarono al macero: la distruzione totale verrà completata sette anni dopo, nel 1941, ormai sotto l’occupazione tedesca, quando il Ministero degli interni del governo di Vichy interdisse ufficialmente l’Afrique Fantome. Solo nel 1951, il volume sarà finalmente ristampato venendo riscoperto da molti, insieme a Cuore di tenebra di Joseph Conrad, come uno dei capolavori letterari che l’Africa, non solo nera ed equatoriale, ha ispirato.

Già a partire dall’Ottocento, molti viaggiatori che percorrevano l’immenso territorio del Sahara, accompagnando le carovane commerciali, conducendo le spedizioni militari dell’epoca coloniale o compiendo esplorazioni per conto di compagnie minerarie, constatarono l’esistenza di antiche pitture e graffiti rupestri.Uno di questi fu l’esploratore tedesco Heinrich Barth, che nel corso di uno dei suoi viaggi tra Tripoli, il Niger e il Ciad trovò nel uadi Tilizzaghen, nel sud-ovest della Libia, un’incisione raffigurante un cacciatore che decise di ribattezzare Apollo Garamante, in riferimento alla popolazione dei Garamanti che, secondo Erodoto, occupava la parte occidentale della Libia.

Nonostante il fatto che le scoperte come quella di Barth fossero state ben documentate e divulgate, la maggior parte degli studiosi europei continuò a rimanere fermamente convinta del fatto che le civiltà africane fossero talmente arretrate e primitive da risultare anche inespressive e per questo motivo nessuno fu disposto a credere che le popolazioni autoctone fossero state in grado di realizzare meravigliose opere d’arte che vennero nientemeno attribuite a stranieri di passaggio.

Fu solo negli anni Trenta che cominciò a delinearsi un’immagine più chiara dell’arte rupestre sahariana, sempre e comunque alimentata dalla stessa sete di conquista, poiché in quell’epoca le forze mehariste dell’Algeria, allora sotto dominio francese, realizzarono numerose spedizioni e, grazie all’utilizzo strategico dei dromedari, raggiunsero vaste zone rimaste sino ad allora per loro inaccessibili.

Una di queste fu l’altipiano del Tassili n’Ajjer, situato nel Sahara centrale, una delle regioni tradizionalmente appartenenti alle Genti Tuareg Kel Ajjer.

Qui, non a caso né per caso, nel 1932 Charles Brenans, un giovane colonnello francese scoprì, nelle pareti scavate dal uadi Djerat, centinaia e centinaia di splendide incisioni raffiguranti esemplari di fauna africana selvaggia – buoi, elefanti, giraffe, rinoceronti, antilopi, leoni – oltre a numerose e diverse figure antropomorfe. La straordinaria scoperta attirò l’attenzione degli specialisti sull’eccezionale complesso e nel 1956 l’etnologa svizzera Yolande Tschudi pubblicò la prima monografia dedicata a quest’arte.

Quando le spedizioni divennero grandi campagne di studi, come quella che valse ad Henri Lhote la consacrazione discopritore dell’arte rupestre sahariana dopo aver inaugurato nel 1957 una mostra presso il Museo delle Arti Decorative di Parigi che ebbe un successo straordinario e che fu considerata una delle mostre più importanti del XX secolo, dovuto all’esposizione dei risultati raccolti durante quindici mesi nel Tassili n’Ajjer da una squadra composta da pittori e fotografi che nei soli primi otto mesi riuscì a ricopiare ben 400 dipinti, ciò avvenne grazie alla conoscenza di coloro che, comeMachar Jebrine ag Mohamed, vennero ingaggiati come “guide locali”, cioè coloro che, tra i più emeriti abitanti autoctoni depositari di millenarie conoscenze, si dimostrarono capaci, oltre che di garantirgli la fama, di salvargli anche la vita in seguito ad un incidente in cui rischiò di perdersi e di morire di sete.

Tra il 1950 e il 1953 i cineasti Chris Marker e Alain Resnais girarono in Africa e in Francia il documentario Les statues meurent aussi, commissionato dalla rivista letteraria Présence africaine, rivista fondata nel 1947 da Alioune Diop con J. Rabemananjara e B.B. Dadié, e appoggiata da diversi intellettuali francesi vicini al movimento della negritudine. Dopo la sua prima proiezione al Festival di Cannes nel 1953 e malgrado si sia aggiudicata il premio Jean Vigo nel 1954 per il suo carattere contestativo e anti-imperialista, la pellicola è stata censurata dal Centre National de la Cinématographie fino al 1963. La condanna è un’evidente conseguenza del fatto che i due registi si palesarono nel pieno della crisi coloniale attraversata dalla Francia, che da lì a un decennio avrebbe assistito all’indipendenza delle terre occupate (Algeria, Marocco, Tunisia, Africa occidentale, Africa equatoriale e Madagascar). Il documentario mostra come l’arte africana viene distrutta, sopraffatta, come svaniscono gli antichi significati che le appartengono, il non senso insito nella classificazione dei manufatti all’interno del circuito dell’arte, e come l’Africa diviene un laboratorio in cui si costruisce l’immagine del buon selvaggio sognata e imposta dall’uomo bianco.

Resnais e Marker, difendendo il diritto di riconoscimento dell’arte africana in tutte le sue sfaccettature e livelli di complessità storica, sociale, artistica, rituale, politica, magica, economica, estetica e performativa, si domandarono: «Perché l’arte nera si trova esposta al Musée de l’Homme, mentre l’arte greca o egiziana sono esposte al Louvre?». Un interrogativo lapidario che ancora oggi pone non pochi problemi alla ricerca e alla critica antropologica, artistica e museale.

Interrogativo che pone problemi anche all’atteggiamento patriarcale colonialista che preferisce parlare di “museo dell’uomo”, di “uomo preistorico”, di “evoluzione dell’uomo” piuttosto che di umanità.

Con il loro quesito, i due autori realizzano una de-mistificazione e una de-musealizzazione dell’arte indigena, problematizzando di conseguenza il tema scottante del primitivismo africano rispetto a un’arte occidentale evoluta, attuando cioè una politicizzazione dell’arte africana. Quando vengono sottratte, inventariate, comprate a basso prezzo, rivendute ai proprietari dei negozi di antiquariato, ri-collocate ed esposte dietro le vetrine museali, “anche le statue muoiono”. L’affermazione dei due registi mette in discussione lo statuto dell’istituzione museale, sostenendo che un oggetto è morto quando lo sguardo attivo, vivente, antropologico, che si posa su di esso, è annullato. Per l’arte africana ciò avverrebbe quando i manufatti vengono inseriti nei circuiti museali dove muoiono formando, più che una collezione, un cimitero. La morte delle statue, intese come sculture, maschere e opere d’arte plastica, è chiaramente connessa alla nascita della commercializzazione dell’arte africana per il piacere dei ricchi colonizzatori, i quali credono che le statue continuino a vivere e a valorizzarsi nelle bacheche museali, mentre Resnais e Marker ci dicono l’opposto, ovvero che dalle teche dei musei le statue ci guardano ma non ci riguardano, dato che la funzione rituale, il simbolismo e l’autonomia del linguaggio che tali forme veicolano perdono il loro senso in uno spazio esclusivamente estetico che le azzera.

Il documentario si apre con questa frase lapidaria, la migliore da riportare in chiusura: «Quando gli uomini muoiono entrano nella storia. Quando le statue muoiono entrano nell’arte. Questa biologia della morte è ciò che chiamiamo cultura».

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Biden all’expo delle armi di Israele. Oggi la firma del patto anti-Iran


Giunto ieri a Tel Aviv, prima tappa del suo tour mediorientale, il presidente Usa è andato alla scoperta dei sistema antiaerei che saranno un pilastro del «Mead» (Middle East Air Defense), l'alleanza tra Israele e i paesi arabi alleati. Oggi la firma dell

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 14 luglio 2022 – Si chiama «Mead» (Middle East Air Defense) e ha lo scopo di collegare i sistemi antiaerei di Israele e dei paesi arabi suoi alleati per impedire all’Iran di usare droni e missili. In particolare – ma non si dice – se Israele lancerà un attacco contro le centrali atomiche iraniane innescando l’inevitabile risposta di Teheran contro Tel Aviv e alcune capitali arabe del Golfo. Per il «Mead» e altri programmi di rafforzamento militare di Israele, Joe Biden è giunto ieri in Medio oriente. Un viaggio fino al 16 luglio che lo porterà anche a riconciliarsi con l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman (Mbs). Un paio di anni fa Biden e non pochi Democratici lo descrivevano come il mandante dell’assassino del giornalista Jamal Khashoggi. Ora il principe sarà riabilitato nel nome dell’alleanza con i Saud che dura da 80 anni e degli interessi supremi degli Stati uniti.

Dopo l’arrivo all’aeroporto di Tel Aviv, dove è stato accolto dal premier ad interim Yair Lapid, il presidente americano ha ribadito che le relazioni tra i due paesi alleati sono «più forti e più profonde di quanto non siano mai state» e ricordato che questa è la sua decima visita in Israele. «Ogni volta è una benedizione – ha detto – perché la connessione tra i nostri due popoli è viscerale». Poi è passato alla sostanza, affermando che gli Stati uniti ribadiranno «il ferreo impegno verso la sicurezza d’Israele» e continueranno a potenziare l’integrazione dello Stato ebraico nella regione.

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Che Biden si sia precipitato, poco dopo l’atterraggio dell’Air Force One, ad osservare e a farsi spiegare le capacità delle ultime armi prodotte dalla tecnologia militare israeliana, è una indicazione precisa delle finalità della sua visita. Il «briefing» tenuto dal ministro della difesa Gantz si è svolto in uno degli spazi dell’aeroporto di Tel Aviv. A Biden sono stati mostrati i sistemi Arrow, David’s Sling, Iron Dome e l’intercettore laser in fase di sviluppo Iron Beam che quasi certamente otterrà un finanziamento da parte dell’Amministrazione. Armamenti e sistemi di difesa antiaerea che Biden ritiene alcuni dei pilastri dell’alleanza militare, con a capo Israele, che intende costruire nella regione.

«Con il presidente Biden discuteremo di questioni di sicurezza nazionale e della costruzione di una nuova architettura di sicurezza ed economia con le nazioni del Medio Oriente, in seguito agli Accordi di Abramo e ai risultati del Vertice del Negev…e della necessità di rinnovare una forte coalizione globale che fermi il programma nucleare iraniano», ha confermato da parte sua il premier Lapid. «Una volta – ha aggiunto rivolgendosi a Biden – ti sei definito un sionista. Hai detto che non bisogna essere ebrei per essere sionisti. Sei un grande sionista e uno dei migliori amici che Israele abbia mai conosciuto».

Biden che ha fatto visita allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, e incontrato due sopravvissute all’Olocausto, nei suoi discorsi ha anche detto di essere un sostenitore della soluzione a Due Stati (Israele e Palestina). Ma quando domani a Betlemme incontrerà il presidente dell’Anp Abu Mazen, non andrà oltre la promessa di un po’ di aiuti economici ai palestinesi. A Betlemme Biden non vedrà la famiglia della giornalista palestinese (con passaporto Usa) Shireen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio a Jenin. Gli avevano chiesto un colloquio per discutere della dichiarazione di Washington secondo cui le forze israeliane non hanno ucciso intenzionalmente la giornalista anche se probabilmente ne erano responsabili. Il segretario di stato Blinken ha invitato gli Abu Akleh a Washington per un incontro con «funzionari», ma non con Biden.

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La settimana che si è appena conclusa è stata densa di vertici internazionali: dopo il summit virtuale dei BRICS, che ha testimoniato che la Russia non è isolata dalle altre grandi potenze (quantomeno non a livello economico), non si è fatta attender…



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BEN(E)DETTO 15 luglio 2022


Oggi si chiude di fatto la legislatura. Una brutta legislatura. Trascinarla, con un’inevitabile campagna elettorale permanente, non farebbe bene al Paese.

L'articolo BEN(E)DETTO 15 luglio 2022 proviene da Fondazione Luigi Einaudi.




Draghi: chi di decreto legge ferisce di decreto legge perisce


Con un discorso 'schiattoso', gli stellini negano la fiducia a Draghi, sfiorando il tema, questo sì vero, dell’uso smodato del decreto legge per governare. Ora il proscenio sarà occupato da Giggino, Renzi, Salvini, Letta, Conte e via precipitando

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Quindi il DRAGO ha rassegnato le Dimissioni?🤔
today.it/politica/draghi-dimis…


E se il Kazakistan finisse più o meno come l’Ucraina?


L'interesse della Russia è quello di stabilire il suo controllo sui crescenti flussi di petrolio e gas che vanno da Kazakistan occidentale all'Europa

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Al sicuro?“Risparmiare gas per un inverno sicuro”. Questo è il titolo (e il contenuto) della prima bozza del piano che la Commissione presenterà il 20 luglio per ridurre di un terzo l’impatto di una potenziale interruzione del gas russo.



Shampoo etico


Follemente corretto Le parole “normale” e “normalità” sono da sempre sotto accusa. L’idea che una persona possa essere normale e altre no crea disagio. Ad alcuni fa venire in mente Hitler, l’eugenetica e la selezione dei migliori. Ad altri non piace esser

Follemente corretto


Le parole “normale” e “normalità” sono da sempre sotto accusa. L’idea che una persona possa essere normale e altre no crea disagio.

Ad alcuni fa venire in mente Hitler, l’eugenetica e la selezione dei migliori. Ad altri non piace essere etichettati come anormali. Ad altri ancora, invece, è la normalità che non piace. Preferiscono essere “diversi da loro” (cioè dai normali, suppongo). È il caso dei Måneskin: «Sono fuori di testa ma diverso da loro / E tu sei fuori di testa ma diversa da loro / Siamo fuori di testa ma diversi da loro».

Dove la faccenda si fa se-ria è quando si parla di handicap, fisici e mentali. Anche lì dire “normale” è proibito e dire “anormale” è proibitissimo.

Ma su come vadano chiamati coloro che hanno qualche disabilità non c’è accordo. Anzi, è in corso una disfida fra i molestatori della lingua. C’è chi si ostina a chiamare “non vedenti” i ciechi e c’è chi ci ha ripensato e ora vorrebbe che i ciechi tornassero a essere chiamati “ciechi” perché quel “non” è negativo, mentre la parola “cieco” indicherebbe una caratteristica come tante.

E lo stesso accade per un’altra parola: c’è chi suggerisce di dire “disabile” e c’è chi pensa che dire “persona con una disabilità” sia più rispettoso. Fin qui tutto bene. Siamo, è vero, nel regno del politicamente corretto. Ma le sue ragioni, in fondo, sono comprensibili. L’ipersensibilità su parole come “normale” e “normalità” ha una sua logica.

Possiamo trovarla eccessiva, pedante, bigotta e ipocrita ma riusciamo a scorgerne l’origine e le motivazioni. Che stanno nel fatto che stiamo parlando di persone e di aspetti delicati del loro corpo o della loro mente.

Ma quando si parla di cose? O di caratteristiche banali delle persone come la pressione sanguigna, la misura dei piedi, il tipo di capelli? Dire «Oggi ho passato una giornata normale» può offendere le altre giornate? C’è un signor “ieri” che può sentirsi escluso? O un signor “dopodomani” che può sentirsi discriminato? Dire che Giuseppe ha la pressione normale può offendere Giuseppina che invece ce l’ha alta? Verrebbe di rispondere no. E invece sì.

Chiunque vada in farmacia a comprare uno shampoo sa che, sul bancone, ne troverà per capelli di ogni tipo: grassi, secchi, con forfora, ricci, crespi, colorati eccetera. E naturalmente pure una confezione per capelli “normali”.

Ora non più. Un’indagine di mercato di Unilever ha rivelato che sette intervistati su dieci riterrebbero che l’uso della parola “normale” sulle confezioni abbia un impatto negativo. Il 56% delle persone che hanno espresso tale parere pensa che l’industria della bellezza faccia sentire tanta gente esclusa, mentre il 52% ammette di valutare la posizione dell’azienda sulle questioni sociali prima di fare acquisti.

In breve, lo shampoo per una capigliatura normale, nella misura in cui implica logicamente l’esistenza di capigliature non normali, comporterebbe una discriminazione, un deficit di inclusività. Di qui una decisione drastica: in nome del cosiddetto inclusive advertising, d’ora in poi Unilever toglierà dal bancone lo shampoo per capelli normali.

L’etica dello shampoo ha vinto. Ora che i capelli normali non esistono più, nessuno potrà più sentirsi escluso o discriminato. Oppure, finalmente, ci sentiremo tutti anormali.

La Ragione

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QUAD e resilienza climatica


I membri del Quad si sono incontrati a Tokyo nel maggio di quest’anno per discutere le questioni più urgenti che incidono sulla sicurezza indo-pacifica, vale a dire la crescita regionale della Cina e il continuo impatto della pandemia di COVID-19. Il Quad o Quadrilateral Security Dialogue, creato nel 2007 e ristabilito nel 2017, è un [...]

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Gotabaya Rajapaksa, presidente dello Sri Lanka in rivolta, fugge prima alle Maldive e poi a Singapore. In attesa delle sue dimissioni, il paese scivola nel caos e in un pericoloso vuoto di potere.


USA: la dipendenza dalle importazioni potrebbe far stagnare l’economia


La carenza di quanto segue potrebbe portare alla nuova inflazione: Neon: il gas cruciale per la produzione di chip elettronici. Urea: l’ingrediente per realizzare l’additivo per il fluido di scarico diesel (DEF) richiesto dall’EPA per tutti i veicoli diesel. Raffinerie: le proiezioni di chiusure del 20% nei prossimi 5 anni di queste infrastrutture obsolete si [...]

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Tigrayans threatened by famine and disease caused by the war


Currently, basic necessities and services are not available on the market or are not very accessible to the majority of the population. Furthermore, the lack…

Currently, basic necessities and services are not available on the market or are not very accessible to the majority of the population. Furthermore, the lack of fuel and financial resources, associated with the sanctions imposed by the Ethiopian federal government, has reduced the distribution of humanitarian aid in several districts and cities in the Tigray region.
“I urge, once again, all partners to continue to provide humanitarian aid to people affected by the war in Tigray (Tigré), in order to jointly respond to the immense need of the Tigrayan people”.

This is the urgent appeal of the diocesan director of the Catholic Secretariat of Adigrat, Abba Abraha Hagos, (ADCS), in a note sent to Agenzia Fides.
Medina Ahmed, uno sfollato di Konaba, siede con i bambini in un complesso di edifici abbandonati che ospitano gli sfollati vicino alla città di Dubti, a 10 chilometri da Semera, in Etiopia. Più di un milione di persone ha bisogno di aiuti alimentari nella regione secondo il Programma alimentare mondiale. (Foto di EDUARDO SOTERAS/AFP)Medina Ahmed, uno sfollato di Konaba, siede con i bambini in un complesso di edifici abbandonati che ospitano gli sfollati vicino alla città di Dubti, a 10 chilometri da Semera, in Etiopia. Più di un milione di persone ha bisogno di aiuti alimentari nella regione secondo il Programma alimentare mondiale. (Foto di EDUARDO SOTERAS/AFP)
As of June 21, 2022, after the humanitarian truce promoted by the prime minister, Abiy Ahmed, – thanks to which the population had a minimum of access to foodstuffs, medicines and few other services – air transport was once again paralyzed, worsening the situation of the Tigrayans as a result.

Currently, basic necessities and services are not available on the market or are not very accessible to the majority of the population. Furthermore, the lack of fuel and financial resources, associated with the sanctions imposed by the Ethiopian federal government, has reduced the distribution of humanitarian aid in several districts and cities in the Tigray region.

All basic services such as telecommunications, internet, banking, transport and connections between Tigre and other regions of Ethiopia are also blocked.

The continuous sieges of the region by the Ethiopian Federal Government have been isolating the population of Tigré from the rest of the world for more than 600 days. Millions of people, according to the statement, are exposed to severe malnutrition, hunger and scarcity; all these people live in centers for the displaced, inside several cities, towns and rural areas of Tigré, without food, without shelter and without water, medicine and other basic necessities, leading them to despair, illness and death.

Therefore, director Abba Abraha Hagos invites all partners and humanitarian organizations to “give a voice to the population of Tigré, so that they have unlimited access to humanitarian aid, through air and land transport, and to guarantee them the right to a dignified life”. and safe”. According to him, the situation is dramatic, to the point of becoming an existential threat to the population of the Ethiopian region of Tigra”.

Since January 2021, the Catholic Church in Ethiopia, together with the Diocesan Catholic Secretariat of Adigrat (ADCS) and the religious congregations operating in the Catholic Eparchy of Adigrat, have been committed to meeting the priority needs of the war-affected population. Thanks to financial and material support, the Secretariat’s emergency response programs have saved the lives of hundreds of thousands of people.

However, although the Diocesan Secretariat of Adigrat and the Religious Congregations are raising funds and mobilizing resources from different partners, the continuous harassment of the Tigray region continues to influence the performance of such programs and limit efforts to reach the most needy.

*With Fides Agency

SOURCE: vaticannews.va/pt/mundo/news/2…


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Ricostruire un’Ucraina migliore: lo stato di diritto è essenziale


Al termine della prima Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina in Svizzera il 4 e 5 luglio, rappresentanti di 42 Paesi donatori e cinque organizzazioni internazionali hanno sottoscritto la Dichiarazione di Lugano. Questo documento ha individuato i sette Principi di Lugano per la ricostruzione dell’Ucraina. Il terzo principio ha sottolineato l’importanza centrale della riforma del sistema giuridico. [...]

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Lanciato Vega C, il nuovo razzo italiano


Alle 15:3 ore italiane di ieri è stato effettuato il lancio di qualifica del razzo Vega C dalla base spaziale europea di Kourou, in Guyana Francese. È l’ultimogenito della famiglia Vega e rappresenta un sostanziale incremento di capacità rispetto al suo predecessore che vola da febbraio 2012. In un momento in cui si lancia con [...]

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Il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha scritto ai dirigenti scolastici degli Istituti beneficiari dei primi 500 milioni stanziati nell’ambito del Piano di riduzione dei divari territoriali e del contrasto della dispersione scolastica, previs…


Biden all’expo delle armi di Israele. Oggi la firma del patto anti-Iran


Giunto ieri a Tel Aviv, prima tappa del suo tour mediorientale, il presidente Usa è andato alla scoperta dei sistema antiaerei che saranno un pilastro del «Mead» (Middle East Air Defense), l'alleanza tra Israele e i paesi arabi alleati. Oggi la firma dell

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 14 luglio 2022 – Si chiama «Mead» (Middle East Air Defense) e ha lo scopo di collegare i sistemi antiaerei di Israele e dei paesi arabi suoi alleati per impedire all’Iran di usare droni e missili. In particolare – ma non si dice – se Israele lancerà un attacco contro le centrali atomiche iraniane innescando l’inevitabile risposta di Teheran contro Tel Aviv e alcune capitali arabe del Golfo. Per il «Mead» e altri programmi di rafforzamento militare di Israele, Joe Biden è giunto ieri in Medio oriente. Un viaggio fino al 16 luglio che lo porterà anche a riconciliarsi con l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman (Mbs). Un paio di anni fa Biden e non pochi Democratici lo descrivevano come il mandante dell’assassino del giornalista Jamal Khashoggi. Ora il principe sarà riabilitato nel nome dell’alleanza con i Saud che dura da 80 anni e degli interessi supremi degli Stati uniti.

Dopo l’arrivo all’aeroporto di Tel Aviv, dove è stato accolto dal premier ad interim Yair Lapid, il presidente americano ha ribadito che le relazioni tra i due paesi alleati sono «più forti e più profonde di quanto non siano mai state» e ricordato che questa è la sua decima visita in Israele. «Ogni volta è una benedizione – ha detto – perché la connessione tra i nostri due popoli è viscerale». Poi è passato alla sostanza, affermando che gli Stati uniti ribadiranno «il ferreo impegno verso la sicurezza d’Israele» e continueranno a potenziare l’integrazione dello Stato ebraico nella regione.

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Che Biden si sia precipitato, poco dopo l’atterraggio dell’Air Force One, ad osservare e a farsi spiegare le capacità delle ultime armi prodotte dalla tecnologia militare israeliana, è una indicazione precisa delle finalità della sua visita. Il «briefing» tenuto dal ministro della difesa Gantz si è svolto in uno degli spazi dell’aeroporto di Tel Aviv. A Biden sono stati mostrati i sistemi Arrow, David’s Sling, Iron Dome e l’intercettore laser in fase di sviluppo Iron Beam che quasi certamente otterrà un finanziamento da parte dell’Amministrazione. Armamenti e sistemi di difesa antiaerea che Biden ritiene alcuni dei pilastri dell’alleanza militare, con a capo Israele, che intende costruire nella regione.

«Con il presidente Biden discuteremo di questioni di sicurezza nazionale e della costruzione di una nuova architettura di sicurezza ed economia con le nazioni del Medio Oriente, in seguito agli Accordi di Abramo e ai risultati del Vertice del Negev…e della necessità di rinnovare una forte coalizione globale che fermi il programma nucleare iraniano», ha confermato da parte sua il premier Lapid. «Una volta – ha aggiunto rivolgendosi a Biden – ti sei definito un sionista. Hai detto che non bisogna essere ebrei per essere sionisti. Sei un grande sionista e uno dei migliori amici che Israele abbia mai conosciuto».

Biden che ha fatto visita allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, e incontrato due sopravvissute all’Olocausto, nei suoi discorsi ha anche detto di essere un sostenitore della soluzione a Due Stati (Israele e Palestina). Ma quando domani a Betlemme incontrerà il presidente dell’Anp Abu Mazen, non andrà oltre la promessa di un po’ di aiuti economici ai palestinesi. A Betlemme Biden non vedrà la famiglia della giornalista palestinese (con passaporto Usa) Shireen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio a Jenin. Gli avevano chiesto un colloquio per discutere della dichiarazione di Washington secondo cui le forze israeliane non hanno ucciso intenzionalmente la giornalista anche se probabilmente ne erano responsabili. Il segretario di stato Blinken ha invitato gli Abu Akleh a Washington per un incontro con «funzionari», ma non con Biden.

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Tigray, milioni di etiopi minacciati da carestia e da malattie conseguenza della guerra


Attualmente i beni di prima necessità e i servizi non sono disponibili sul mercato o sono poco accessibili alla maggior parte della popolazione. Inoltre, la…

Attualmente i beni di prima necessità e i servizi non sono disponibili sul mercato o sono poco accessibili alla maggior parte della popolazione. Inoltre, la mancanza di carburante e di risorse finanziarie, associata alle sanzioni imposte dal governo federale etiope, ha ridotto la distribuzione degli aiuti umanitari in diversi distretti e città della regione del Tigray.

“Esorto, ancora una volta, tutti i partner a continuare a fornire aiuti umanitari alle persone colpite dalla guerra nel Tigré (Tigray), per rispondere insieme all’immenso bisogno del popolo del Tigri”.

E’ l’appello urgente del Direttore diocesano del Segretariato Cattolico di Adigrat, Abba Abraha Hagos, (ADCS), in una nota pervenuta all’Agenzia Fides.
Medina Ahmed, uno sfollato di Konaba, siede con i bambini in un complesso di edifici abbandonati che ospitano gli sfollati vicino alla città di Dubti, a 10 chilometri da Semera, in Etiopia. Più di un milione di persone ha bisogno di aiuti alimentari nella regione secondo il Programma alimentare mondiale. (Foto di EDUARDO SOTERAS/AFP)Medina Ahmed, uno sfollato di Konaba, siede con i bambini in un complesso di edifici abbandonati che ospitano gli sfollati vicino alla città di Dubti, a 10 chilometri da Semera, in Etiopia. Più di un milione di persone ha bisogno di aiuti alimentari nella regione secondo il Programma alimentare mondiale. (Foto di EDUARDO SOTERAS/AFP)
Dal 21 giugno 2022, dopo la tregua umanitaria, promossa dal Presidente del Consiglio, Abiy Ahmed, – grazie alla quale la popolazione ha avuto un minimo di accesso a generi alimentari, medicinali e pochi altri servizi – il trasporto aereo è stato nuovamente paralizzato, aggravando di conseguenza il situazione del Tigray.

Attualmente i beni di prima necessità e i servizi non sono disponibili sul mercato o sono poco accessibili alla maggior parte della popolazione. Inoltre, la mancanza di carburante e di risorse finanziarie, associata alle sanzioni imposte dal governo federale etiope, ha ridotto la distribuzione degli aiuti umanitari in diversi distretti e città della regione del Tigray.

Sono bloccati anche tutti i servizi di base come telecomunicazioni, internet, banche, trasporti e collegamenti tra Tigre e altre regioni dell’Etiopia.

I continui assedi della regione da parte del governo federale etiope isolano la popolazione del Tigré dal resto del mondo da oltre 600 giorni. Milioni di persone, secondo la dichiarazione, sono esposte a grave malnutrizione, fame e scarsità; tutte queste persone vivono in centri per sfollati, all’interno di diverse città, paesi e aree rurali del Tigré, senza cibo, senza riparo e senza acqua, medicine e altri beni di prima necessità, portandoli alla disperazione, alla malattia e alla morte.

Pertanto, il direttore Abba Abraha Hagos invita tutti i partner e le organizzazioni umanitarie a “dare voce alla popolazione del Tigré, affinché abbia accesso illimitato agli aiuti umanitari, attraverso il trasporto aereo e terrestre, e a garantire loro il diritto a una vita dignitosa e sicura”. Secondo lui la situazione è drammatica, al punto da diventare una minaccia esistenziale per la popolazione della regione etiope del Tigray”.

Da gennaio 2021 la Chiesa cattolica in Etiopia, insieme al Segretariato cattolico diocesano di Adigrat (ADCS) e alle congregazioni religiose operanti nell’Eparchia cattolica di Adigrat, si impegnano a soddisfare i bisogni prioritari della popolazione colpita dalla guerra. Grazie al sostegno finanziario e materiale, i programmi di risposta alle emergenze del Segretariato hanno salvato la vita a centinaia di migliaia di persone.

Tuttavia, sebbene il Segretariato diocesano di Adigrat e le Congregazioni religiose stiano raccogliendo fondi e mobilitando risorse da diversi partner, le continue vessazioni nella regione del Tigré continuano a influenzare l’attuazione di tali programmi e limitare gli sforzi per raggiungere i più bisognosi.

*Con Agenzia Fides

FONTE: vaticannews.va/pt/mundo/news/2…


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informapirata ⁂ reshared this.



#GDPR Vs. #GoogleAnalytics4: #MonitoraPA risponde all'articolo di Roberto Guiotto e Matteo Zambon di #TagManager Italia pubblicato su #AgendaDigitale!

Ma cosa si dice in questo post?

monitora-pa.it/2022/07/14/Goog…

Intanto, una premessa: il post risponde a un articolo che è, a sua volta, una risposta a quest'altro articolo di @Pietro Biase sui gravi problemi di conformità al #GDPR di #GoogleAnalytics4
agendadigitale.eu/sicurezza/pr…

Roberto Guiotto e Matteo Zambon, in breve, hanno sostenuto che #GoogleAnalytics non sia illegale in sé, ma che dipende dall’utilizzo che se ne fa (= quali dati vengono raccolti e processati). Inoltre il #GarantePrivacy non menziona espressamente #GoogleAnalytics4
agendadigitale.eu/sicurezza/pr…

Guiotto e Zambon inoltre fanno giustamente notare che Google Analytics non è un unicum, perché quasi tutte le piattaforme Ads, i software di email marketing, i CRM, le piattaforme di Content Delivery Network, i web hosting, etc. si trovano in una posizione simile

Ma tornando all'articolo di #MonitoraPA, esso mette in dubbio in primo luogo la natura "neutra" di Google Analytics rispetto alla normativa vigente, in quanto sulla tutela dei trasferimenti transfrontalieri di dati non può essere considerato "privacy by default".

Inoltre riconduce a una lettura più completa e un'interpretazione più aderente al testo, le considerazioni del membro del collegio del #GarantePrivacy, l'avv. #GuidoScorza che, sempre su #AgendaDigitale illustrava i termini del problema

agendadigitale.eu/sicurezza/pr…

E, quanto alle precisazioni, #MonitoraPA ricorda i termini precisi delle FAQ del @CNIL che sembrano assai diversi dall'interpretazione più accomodante operata da Tag Manager

cnil.fr/fr/cookies-et-autres-t…

(qui la traduzione a cura di Ivo #Grimaldi monitora-pa.it/2022/06/14/faq-… )

Ma le precisazioni non sono rivolte solo agli altri: #MonitoraPA fa autocritica e ammette che, come fanno notare Guiotto e Zambon, Google Tag Manager non possa essere definita "una nuova tecnologia" come era stato detto nel precedente articolo.

#MonitoraPA inoltre non ignorerà le osservazioni di TagManager sul fatto che la GDPRcompliance non riguarda solo Analytics e cercherà di trovare un modo per segnalare anche altri tipi di situazioni legate ad altre tecnologie extraeuropee

In conclusione, una rivendicazione dell'impegno di #MonitoraPA che vuole difendere cittadini e aziende che, a differenza delle #BigTech, non possono "aggirare le normative scaricandone la responsabilità sui Titolari"
Qui la discussione su @feddit_it: feddit.it/post/26285

Grazie a @Shamar @_Zaizen_ @pietrobiase@mastodon.uno @amreo e a tutti gli altri che non possiamo menzionare perché non sono (ancora) nel fediverso

Unknown parent

qoto - Collegamento all'originale
Shamar

Certo, esattamente come ci sono diversi obblighi che il demolitore professionista deve espletare per poter utilizzare il tritolo.

Dunque il paragone è calzante.

@privacypost

Unknown parent

mastodon - Collegamento all'originale
Nemo_bis 🌈
Chissà, magari se scrivi a Google Ireland te li danno! 😇



Totti – Conte: pipsqueak allo sbaraglio


Separazioni di pisquani. Prima la separazione Totti - Blasi, poi, in piena Superluna, piomba in scena l'altro pisquano, Conte, ad annunciare l'altra separazione, quella dal governo Draghi

L'articolo Totti – Conte: pipsqueak allo sbaraglio proviene da L'Indro.



Comunque a me piace questa nuova versione di Tusky. Continua a non far vedere stelle e boost (ed è bene) ma fa vedere il numero di risposte
in reply to Sabrina Web

continuo sempre a utilizzare friendica (e mastodon) con il browser anche da cellulare, ma mi fa sempre piacere provare le nuove versioni delle applicazioni, soprattutto quando apportano novità meritevoli


Pc di lavoro mostra un messaggio da microsoft: aiutaci a migliorare la ricerca vocale online! Tra le scelte ci sono un bellissimo "vai alle impostazioni" e uno stupendo "non ora", si sente fortissimo la mancanza di un "ma vedi di non rompere i cocomeri!"
in reply to Sabrina Web 📎

Sono svegli, alla microsoft…

Registrati qui (non spammano) e scaricati un po' di bei suoni da mandare a microsoft come file allegato, tipo

freesound.org/people/Nizerg/so…



The MED This Week newsletter provides expert analysis and informed insights on the most significant developments within the MENA region, bringing together unique opinions on the topic and reliable foresight on possible future scenarios.


L’eredità di Shinzo Abe


I tributi sono fluiti per l’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe, assassinato l’8 luglio. Viene ricordato per i suoi numerosi successi politici sia interni che esteri, per la sua leadership globale e per le relazioni calde e memorabili che ha costruito con i leader mondiali del passato e del presente, tra cui Narendra Modi, Malcolm [...]

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Biden arriva in Medio Oriente per una delle visite più complicate della sua amministrazione: tra mine vaganti, polemiche e un inaspettato ‘fuoco amico’.


Under pressurePer la prima volta dal 2002, oggi euro e dollaro valgono uguali. Una parità che evidenzia il crescente divario tra le prospettive economiche statunitensi e quelle dell’Eurozona, più esposta alle conseguenze della guerra in Ucraina e all…



NATO – Russia: combattere fino all’ultimo ucraino


Mentre il sanguinoso conflitto in Ucraina continua, la retorica dei falchi a Washington e di alcuni alleati si sta fissando sempre più con un obiettivo: la vittoria contro la Russia. Tali parole dovrebbero essere usate con parsimonia, soprattutto date le loro tendenze vincolanti e accecanti. Quando il termine “resa incondizionata” fu usato per la prima [...]

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Miserrimo


Un Paese ricco che adora la retorica della miseria. Un Paese che in nome di una presunta giustizia sociale s’abbandona a pratiche di grandiosa ingiustizia sociale. Si esita a farlo notare, perché per tanti che capiranno, anche per esperienza diretta, ce n

Un Paese ricco che adora la retorica della miseria. Un Paese che in nome di una presunta giustizia sociale s’abbandona a pratiche di grandiosa ingiustizia sociale. Si esita a farlo notare, perché per tanti che capiranno, anche per esperienza diretta, ce ne sono una manata che sono pronti a coprirti d’insulti, approfittando dell’anonimato (a)social.

Dunque da noi starebbe dilagando la “fame” (come letto ieri), per salari e pensioni troppo bassi. Alzarli sazierebbe, se non altro la sete di giustizia. Invece no, non funziona così. Partiamo dalle pensioni, perché troppe (un terzo è sotto i 1000 euro) sono così basse? Perché non sono basse, perché prima della loro erogazione non c’è stato un sufficiente o alcun versamento di contributi, sicché sono regalate.

Poi si può discutere se il regalo sia più o meno sostanzioso, ma resta un regalo a carico degli altri lavoratori e contribuenti. Escluse le rendite legate a disabilità (la cui concentrazione territoriale, comunque, induce a minore preoccupazione per la salute, non poche essendo falsate), dove c’è una pensione minima c’è prima stata o una vita di disoccupazione o una di lavoro irregolare. Nel primo caso hanno fallito le politiche del lavoro, a favore dell’assistenzialismo, nel secondo i controlli.

Se si guarda la distribuzione per genere se ne ha conferma: fino a 499 euro per il 39% vanno a maschi e il 61 a donne; da 500 a 999 il 31% ai maschi e il 69 a donne; si deve arrivare sopra i 1500 per invertire la proporzione, con il 54% ai maschi e il 46 alle donne. Discriminazione di genere? Forse vale per i livelli assai più alti, verso il basso sono solo contributi irrisori o inesistenti. Difatti la partecipazione delle donne al lavoro è la più bassa percentuale europea, battuti solo dalla Grecia.

Il lavoratore che ha effettivamente versato tutta la vita, avendo un salario contenuto, sconta l’ingiustizia di una pensione solo leggermente più alta rispetto a quella di chi non ha versato. Questa l’ingiustizia. Resa ancora più insopportabile dalla condizione dei giovani lavoratori odierni, che non avranno regali. Con un salario già sopra il minimo (€9 l’ora) i 750 euro mensili li vedranno a 65 anni, dopo 30 di contributi. A questo s’aggiunga la leva demografica (cui è dedicato l’approfondimento della Fondazione Hume, a pagina 5): l’Italia ha la peggiore d’Europa, al punto da comprometterne la media, la differenza fra nati e morti è da noi (dati Eurostat, da gennaio 2021 a gennaio 2022) – 253.1mila; in Francia +185.9mila. In queste condizioni il nonno sta mangiando la pappa del nipote, che ha già provveduto a indebitare.

L’anno prossimo si dovrà provvedere all’adeguamento all’inflazione, come è giusto che sia, trattandosi di rendite amministrate in base alla legge, sicché le pensioni costeranno altri 24 miliardi di euro. Essere quelli con il sistema pensionistico più generoso e la leva demografica peggiore segnala una fuga dalla realtà. Che non cambierà a suon d’insulti.

E i salari, come si rimedia a quelli troppo bassi? Intanto non facendogli la concorrenza con l’assistenzialismo, perché lavorare per avere un centinaio di euro in più rispetto a chi non lavora non è millantabile come giustizia sociale. Poi puntando a far crescere la produttività, il che non è solo più lavoratori e più lavoro, ma anche più formazione, più innovazione, più investimenti. In quanto ad alzare i bassi senza incidere sulla produttività ripropone l’ingiustizia pensionistica: chi si trova leggermente sopra non avrà nulla, pur lavorando di più e meglio. Altra ingiustizia.

Anziché praticare la falsa socialità si punti sulla qualificazione. Anziché compensare gli squilibri tollerando le illegalità, su orari e retribuzioni, si perseguano le seconde, così evitando che il lavoro cattivo scacci quello buono, realizzando il paradosso di troppi disoccupati e troppi posti scoperti.

Molte sono le cose buone che è possibile fare, se solo non ci immiserisce nell’usare la miseria per raccattare quattro miserabili voti.

La Ragione

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Il campo stretto


Non credo che sfugga a nessuno che le fibrillazioni che scuotono il Governo Draghi abbiano un nome e un cognome solo: M5S e Giusepp(i)e Conte. E’ un’antica tentazione dei reazionari e dei populisti, quando avvertono il fine corsa, di gettare scompiglio, a

Non credo che sfugga a nessuno che le fibrillazioni che scuotono il Governo Draghi abbiano un nome e un cognome solo: M5S e Giusepp(i)e Conte. E’ un’antica tentazione dei reazionari e dei populisti, quando avvertono il fine corsa, di gettare scompiglio, agitare il corpo sociale, solleticare paure, accarezzare speranze, assecondare umori.

Conte e il M5S hanno scelto di fare la parodia del partito di lotta e di governo di berlingueriana memoria, ma quel PCI era una “cosa” seria, mentre questa è l’ennesima prova della tragedia che diventa farsa.

Draghi fa quel che può. Con non poca (e imprevista) ingenuità ha ribadito che non esiste altro Governo che con il M5S; ha assecondato alcune richieste del “movimento” indulgendo anche a qualche deriva demagogica e populista; ha mandato messaggi rassicuranti al mondo che conta, ma la decisione della maggioranza dei parlamentari pentacosi di non votare il c.d. “decreto aiuti” segna un punto di non ritorno nella vicenda di questo Governo.

Salvo ripensamenti che il solleone non favorisce mai, si va verso l’approvazione di una finanziaria che raffazzona il consenso un po’ qua e un po’ là, che mette in sicurezza il PNRR, che cerca di sostenere le imprese e le persone in difficoltà, ma, per dirla con linguaggio antico ma efficace, la sua spinta propulsiva è esaurita.

Il problema, però, è che non è esaurita la necessità dell’agenda Draghi, quella originale e vera, quella – per dirla col Premier – che accompagnava un’Italia a cui – da Berrettini agli europei, da Parisi ai Meneskin – sembrava essere tutto (prima della guerra…ahinoi..) a nostro favore.

Quella che vediamo oggi è la solita agenda dell’emergenza, quella che guarda a…ieri…al massimo a oggi, ma che non affronta nessuno dei nodi veri di un Paese che deve superare un gap importante con gli altri competitor/partner europei.

E allora il tema non è quanto dura il Governo (speriamo che duri almeno fino all’approvazione del bilancio, quindi a fine anno, ovviamente), ma verso cosa stiamo andando, qual è lo scenario politico che abbiamo di fronte, chi e come è in grado di superare la perenne emergenza.

Prima del “campo”, su cui ostinatamente si è cimentato in questi mesi il Segretario del PD Letta, occorre definire il “cosa” fare. Il “campo” dipende dal “cosa”, se no ricaschiamo in questo orrendo bipopulismo, una camicia di forza che ci impedisce di aggredire e sciogliere i nodi gordiani che attanagliano da alcuni decenni il sistema-Paese.

La prima cosa da dire – anche in riferimento agli incontri dei giorni scorsi con sindacati e M5S – è che non si esce più forti dalla pandemia dilatando ulteriormente la spesa pubblica. Alta inflazione=alti interessi=alto debito e= riduzione reale dei salari.

Come all’inizio degli anni ’80 e fino agli ’90 dobbiamo evitare che quella tassa perversa sulla povera gente che è l’alta inflazione freni lo sviluppo e faccia perdere potere d’acquisto a stipendi e salari.

Come uscirne? Non certo favorendo ulteriori scostamenti di bilancio; al massimo ci è consentito di utilizzare le maggiori entrate da IVA e lotta all’evasione per ridurre il cuneo fiscale e rilanciare l’apparato produttivo.

Occorre essere convinti che per ridare centralità al lavoro e sconfiggere il precariato bisogna ridare centralità alle imprese. Lo Stato deve, con interventi normativi e incentivi efficaci (il superbonus ha drogato, non aiutato il sistema), favorire il passaggio di ricchezza dal risparmio privato agli investimenti. Bene la riduzione del cuneo fiscale se i risparmi sul costo del lavoro vanno nelle buste paga e negli investimenti, non se vanno solo nei profitti.

E’ d’accordo il M5S su questo? E la sinistra? A quando una presa di coscienza vera che la spesa pubblica a “go go” non è la soluzione, neanche nell’emergenza pandemica, figuriamoci ora!

Sul piano energetico, una volta deciso – giustamente – di dire basta ai combustibili fossili dal 2035, abbiamo il coraggio di dire che le fonti rinnovabili non sono da sole in grado di rappresentare la svolta per la loro precarietà e discontinuità? Vogliamo parlare davvero di termovalorizzatori e riaprire (abbiamo 12/13 anni davanti) il tema del nucleare? O un referendum di 34 anni fa deve fermare il tempo a quando non c’erano né internet né i telefonini?

Il M5S dice no, il PD non si sa, ma si sa, ad esempio, che importanti esponenti del PD in una Regione industriale come la mia (Piemonte) hanno detto no al nucleare la settimana scorsa.

E riteniamo una sciagura – come credo io – o uno strumento utile scelte come quella su ILVA, ALITALIA? Anche qui, che dicono i possibili partner del “campo largo”?

Ancora troppi, poi, a sinistra si sentono alleggeriti rispetto al peso della cosiddetta “deriva liberista” che (sic!) avrebbe caratterizzato il centro sinistra negli anni passati e da cui sarebbero stati liberati grazie al dilatare senza limiti della spesa pubblica, non rendendosi conto che ciò che ha senso fare nell’emergenza diventa inaccettabile se perpetuato al di là del dovuto.

La realtà ci dice che oggi, se consideriamo il rapporto tra spesa pubblica e reddito, l’Italia è il Paese più “socialista” tra i grandi Paesi europei, non avendo però uno Stato efficiente come quello francese (per non parlare di quelli scandinavi).

Infine, come avveniva quando la politica era una cosa seria, senza una visione comune di politica estera nessuna coalizione può nascere e governare.

La posizione di Enrico Letta sull’aggressione russa all’Ucraìna è stata limpida. Chapeau! Ma non è tutto così dentro il campo largo da lui invocato. Permangono derive “terzaforziste” tra UE/Occidente da un lato e Russia dall’altro. Alcuni secredenti tessitori ritengono che l’Italia debba essere con la UE e con gli USA “ma…però..”; evocano La Pira e il suo ponte verso il Mediterraneo e l’Oriente, ma alla fine si ritrovano a scimmiottare Nasser, il Pandith Nehru e Indira Ghandi…nella migliore delle ipotesi.

Insomma, a pochi mesi dalle elezioni, assistiamo a una rincorsa alla spesa pubblica che assomiglia all’assalto alla diligenza dei conti di inizio anni ’80 e ciò riguarda sia la destra sovranista e nazionalista, sempre più statalista e assistenzialista, se non altro perché sta ereditando i voti pentacosi al Sud, sia un pezzo della sinistra e dello stesso PD che in alcuni suoi esponenti, dopo il confronto di ieri con il M5S, rincorre questi ultimi su amenità come il reddito di cittadinanza (che va azzerato per ripensare totalmente sia le forme di sostegno al reddito sia le politiche attive del lavoro).

Prima del campo occorre, quindi, discutere del tipo di gioco che vogliamo fare e una cosa è certa: vista l’impraticabilità del campo di questa destra, che poco o nulla ha a che fare con la destra di Governo europea (penso alla CDU, agli stessi Republicains, ai liberalconservatori scandinavi), per la sua deriva nazionalsovranista, euroscettica e ultra conservatrice in tema di diritti civili, se il campo dovesse essere di centro sinistra non può essere un campo largo, ma deve necessariamente essere stretto perché in una parte della sinistra, anche al Governo, ritroviamo proposte e presupposti ideali e politici che riscontriamo nel M5S (l’intervento di Calenda al congresso di Articolo 1 è illuminante a questo proposito) e coi quali si potrebbe anche vincere, ma non governare (V. ultimo Governo Prodi).

E se il campo dovesse essere per forza “largo”, in nome dell’ennesimo appello “contro la destra” e per la paura di perdere, allora ai liberal demcoratici non resterebbe che la strada della solitudine, già sperimentata in molte realtà alle ultime elezioni amministrative.

Una strada difficile quest’ultima, ma l’unica, se le condizioni dovessero permanere quelle attuali, che potrebbe mettere in difficoltà un bipolarismo inconcludente e gettare le basi di una rinnovata dialettica democratica, magari con un sistema proporzionale rafforzato, che metta al centro alcuni valori di fondo (Costituzione, diritti civili, Europa unita, scelta occidentale) e un programma serio e pragmatico di sviluppo del Paese, scevro da ogni deriva populista e demagogica.

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