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Biden e l’Alleanza per la difesa aerea del Medio Oriente, ovvero come minare la pace


Gli Stati Uniti nelle ultime ore sono sembrati frenare. La tappa in Israele ha mostrato il diverso approccio di USA e Israele nell'affrontare le ambizioni nucleari dell'Iran

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Borsa: canapa, USA e Canada lievi segnali di ripresa


Le due principali piazze borsistiche mondiali nel settore della produzione, trattamento e commercializzazione della canapa, ovvero Canada e USA, questa settimana chiudono con valori appena positivi, sebbene il contesto internazionale ed il quadro complessivo dell’andamento borsistico internazionale permanga alquanto incerto e fragile. Per avere dei raffronti nel settore parallelo della cannabis, si constata che l’indice [...]

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Responsabilità penale e il terreno dove il Diritto si fa incerto


Il dibattito che si è aperto sul caso dell’ing. Mauro Moretti suscita osservazioni elementari ma non inutili, se vogliamo riflettere sul modo nel quale persone competenti e capaci possano accollarsi ruoli gestionali senza dover essere esposte a rischi imp

Il dibattito che si è aperto sul caso dell’ing. Mauro Moretti suscita osservazioni elementari ma non inutili, se vogliamo riflettere sul modo nel quale persone competenti e capaci possano accollarsi ruoli gestionali senza dover essere esposte a rischi imprevedibili e inaccettabili


Il dibattito che si è aperto sul caso dell’ing. Mauro Moretti suscita osservazioni elementari ma non inutili, se vogliamo riflettere sul modo nel quale persone competenti e capaci possano accollarsi ruoli gestionali senza dover essere esposte a rischi imprevedibili e inaccettabili.

Sul piano del diritto civile non è necessario operare distinzioni con riguardo allo scopo sociale, al tipo e metodo di produzione di beni e servizi, alle modalità di organizzazione dell’impresa per poter affermare la responsabilità oggettiva (cioè senza colpa) dell’impresa che ha cagionato il danno, essendo del tutto indifferenti lo scopo, l’organizzazione, le tipologie di prodotti e servizi, e finanche la colpa dei singoli che operano come amministratori per assicurare il risarcimento del danno risentito dalle vittime.

Nel diritto penale la situazione è assai diversa. La responsabilità oggettiva non è consentita nel diritto penale: la responsabilità penale personale è una conquista della civiltà dei Lumi, è il vanto della cultura italiana che ha rivendicato, con le pagine di Beccaria, le libertà personali soffocate dal dispotismo e dall’oscurantismo. La responsabilità penale personale è un principio sancito dalla nostra Costituzione (art.27).

A parte la responsabilità delle società prevista dalla legge n.231 del 2001 , che si suole denominare responsabilità “amministrativa”, perché per tradizione societas delinquere non potest, e che ancor oggi pone molte incertezze ad operatori, avvocati e giudici, gli amministratori rispondono personalmente per reati collegati alle crisi d’impresa, per reati tributari, per reati ambientali, per reati finanziari, e così via. Ma quando si tratta di prodotti e servizi, fino a che punto rispondono personalmente gli amministratori dell’impresa? Qui il terreno del diritto si fa incerto.

Non vi sono regole specifiche che prefigurino reati precisi: se una bottiglietta di aranciata esce dal processo produttivo con i resti di una chiocciola, se un pacchetto di biscotti risulta avariato perché inscatolato in modo non igienico, se un segnale ferroviario non scatta al momento opportuno, a chi può essere imputato l’errore? Al di là degli aspetti civilistici che non sono collegati con la colpa, e consentono di risarcire le vittime da parte dell’impresa impersonalmente considerata , come si possono affrontare gli aspetti penali? Come risalire dal sinistro direttamente alla colpa degli amministratori?

Vi sono casi in cui il percorso è più lineare: se crolla un ponte è possibile che il cda della società che ne curava l’uso si fosse posto il problema della manutenzione e della conservazione; se non l’avesse fatto, per incuria, ignoranza, indifferenza, o per calcolo economico, è forse meno problematico arrivare alla conclusione.

Ma se la carrozza di un treno deraglia perché vi erano sassi sulle rotaie, o perché la leva del cambio in una stazione non ha funzionato, o perché il controllo della integrità del carrello, ordinato dal cda ad una società specializzata, non è stato accurato, lo si può imputare al cda, o anche solo al suo ad? O si deve arrestare la catena al livello in cui si è accertata la colpa? Tra questo livello e il punto di arrivo non si finisce per imboccare una strada che porta direttamente alla responsabilità oggettiva, non ammessa penalmente? Qui non vengono in gioco il dolore e la tragedia delle vittime e delle loro famiglie, perché è giusto cercare i colpevoli e sanzionarli; ma fino a che punto si deve spingere la ricerca dei colpevoli?

Si può trasformare questa ricerca nella individuazione del capro espiatorio attraverso la costruzione mediatica di una condanna che giunge prima ancora che inizi il processo? Si è oggi teorizzata l’esistenza nel nostro ordinamento di un diritto soggettivo della personalità specifico (Sammarco, La presunzione di innocenza, Giuffré).

Non mi pare di aver trovato nelle sentenze che si sono succedute in questa vicenda argomenti giuridici svolti in modo approfondito. Mi si potrebbe obiettare che chi pratica il diritto civile è più abituato ai richiami normativi e alle sottigliezze della interpretazione dottrinale. E si potrebbe controbattere che la motivazione della sentenza è una garanzia processuale insopprimibile.

A queste esigenze sopperirà la Corte di Cassazione, che deve controllare la correttezza della interpretazione e la uniformità della applicazione della legge. Giustizia significa applicazione della Costituzione e quindi non solo ricerca dei colpevoli e soddisfazione delle vittime e dei loro congiunti, ma accertamento corretto delle responsabilità e ripudio della responsabilità penale oggettiva. Queste considerazioni elementari dovrebbero sorreggere coloro che intendono decifrare in termini giuridici gli accadimenti della vita reale.

Le incertezze della dottrina e i contrasti della giurisprudenza dovrebbero mettere in guardia dal ricorso a generalizzazioni affrettate. Ogni caso fa capo a sé, ogni vicenda ha la sua storia e il suo epilogo. E non dobbiamo dimenticare che la civiltà di un Paese si commisura dalla frequenza degli errori giudiziari che si registrano nel corso del tempo.

Il Sole 24 Ore

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‘Mettere le mani nelle tasche dei cittadini’: furto o virtù?


‘Mettere le mani nelle tasche dei cittadini’ è un modo inevitabile per poter mantenere un certo equilibrio di welfare del sistema ed è ormai un dover essere dello Stato. E’ una virtù ed una condizione necessaria. Stato Leviatano? No, Stato responsabile! La frase è sempre stata interpretata negativamente, anzi sinonimo di furto; ora con la [...]

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Con la riduzione delle forniture russe, l'Italia e l'Europa vanno incontro a una crisi del gas? Riusciremo a riscaldare le nostre case questo inverno? A che prezzo? E dalla riduzione delle forniture Mosca esce rafforzata o indebolita?Per rispondere a…


La coltivazione della canapa ed i livelli di THC: gli USA sempre a metà del guado


Gli Stati Uniti, Paese capofila nelle politiche riguardanti la produzione di canapa e -in successione- circa le politiche di liberalizzazione della cannabis, sospinti dai livelli di THC che -sulla carta lo consentirebbero- in realtà, oggi si ritrovano nuovamente ad arrancare in posizioni nelle retrovie su queste tematiche a livello mondiale. Il famoso attore e regista [...]

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Il vero equilibrio militare tra Russia e NATO


Diamo un'occhiata alle risorse militari russe e a quelle NATO, nonché alla natura e alla portata della minaccia militare russa alla NATO

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A manetta


La forza c’è e, nelle condizioni date, le cose stanno andando bene. Se avessimo dovuto fare i conti solo con l’arresto da pandemia e l’inflazione innescata dalla ripartenza della domanda e dal precedente infarto della logistica internazionale, andrebbero

La forza c’è e, nelle condizioni date, le cose stanno andando bene. Se avessimo dovuto fare i conti solo con l’arresto da pandemia e l’inflazione innescata dalla ripartenza della domanda e dal precedente infarto della logistica internazionale, andrebbero meglio. Ma si continua ad avanzare anche dopo che una criminale scelta bellica ha cambiato lo scenario nel quale muoversi.

Il prodotto interno lordo cresce. E lo fa a un ritmo che solo qualche anno addietro avrebbe fatto gridare al miracolo. I conti pubblici sono quelli che sono, con un debito enorme, ma il deficit (sempre alto) è in discesa rispetto alle previsioni. Il dollaro rafforzato rende più costosi gli acquisti dall’estero, ma il prezzo del petrolio scende più velocemente di quanto il primo salga. Mentre un cambio con un euro meno alto rende più facile vendere i nostri prodotti. Difatti la bilancia corrente continua ad accumulare avanzi e siamo, in questo, fra i meglio messi al mondo.

Nell’anno prosciugato dalla siccità aumentiamo di un poderoso 19% le esportazioni dei prodotti agroalimentari. Il principale mercato resta quello europeo, ma poi vengono quelli americano e asiatico, dove il dollaro aiuta. E basta uscire da casa per rendersi conto che i turisti, benvenuti, hanno invaso l’Italia.

Nella vita ci si deve sempre impegnare a far meglio, ma sta andando niente affatto male. Il che non avviene per caso o per circostanze fortunate (tutt’altro), ma per impegno e capacità. La stagione estiva è iniziata all’insegna della mancanza di personale, che si è confermata e che comporta il perdere occasioni di crescita e arricchimento, ma in qualche modo si fa fronte e l’Italia che vuol lavorare sta lavorando sodo.

L’osservazione dei ristoranti pieni può sembrare banale, ma non lo è affatto osservare quel che succede fra i tavoli, con molti giovani in attività. Alla faccia del volerli descrivere tutti come divanizzati. La riforma degli Its (Istituti tecnici superiori), finalmente completata in Parlamento, li riguarda direttamente, come riguarda l’intera Italia produttiva, e racconta la storia di tanti giovani che studiano per lavorare e trovano il lavoro quando non hanno ancora finito di studiare. Uno splendido esempio.

Ora non ci si perda nei decreti attuativi, non si deluda quella speranza, non si scemi in qualità, perché di quegli istituti ne servono di più, che offrano formazione a più ragazzi, perché siano padroni della loro vita e parte della produzione di ricchezza. Che serve molto, alla propria e collettiva dignità.

Ogni tanto anche noi ci cimentiamo nella contabilizzazione degli obiettivi legati al Pnrr. Essere in regola e rispettare gli impegni serve ad avere quei fondi, abbondanti e preziosi. Ma attenzione a non perdere la visione profonda: quei quattrini europei non sono lo scopo, ma lo strumento. Gli effetti veri dell’avere rispettato regole e tempi si sentiranno fra un paio d’anni, rendendo possibile un ritmo di crescita che è il solo modo per far diminuire il peso soffocante del debito pubblico. Per ora ci siamo. E anche questo è bene.

Restano due demenze, che ci portiamo dietro. Due tare che ci fanno sembrare un corpo forte con una mente debole. La prima è che a questa corsa partecipa solo una parte dell’Italia. Più vasta di quel che si crede, sebbene, talora, con detestabili vizi. Ma una parte ancora troppo consistente ne è esclusa.

La seconda è un mondo politico tutto teso non tanto a rappresentare gli esclusi, che andrebbe anche bene, ma ad accudirli perché restino tali. Una condotta dettata dal credere che la via per il benessere stia nella spesa pubblica (che poi diventa pressione fiscale) e non nella sinergia fra capitale e lavoro. Non è un caso, del resto, che la gran parte di quella classe politica non abbia mai lavorato.

Ogni volta che l’Italia è costretta a cambiare e competere avanza a manetta e vince. Noi preferiamo festeggiare anziché consolare, battendo una cultura e tante politiche da licenziare.

La Ragione

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Cancel Culture: cancellare i musei coloniali (ottava parte)


Le popolazioni indigene sono state pagate per vendere la loro stessa identità e il proprio patrimonio culturale materiale e immateriale, l’arte nera è stata il più delle volte rubata o è diventata un’arte di mercato dove il bianco è l’intenditore-comprato

di Franco Ferioli

Pagine Esteri, 15 luglio 2022 – Nato dalla Cancel Culture, cresciuto dal Black Lives Matter Movement, adottato dal Politicamente Corretto, qualificato come processo di de-colonizzazione, quantificato come procedura di post-musealizzazione, l’emergente fenomeno “Rivisitazione dell’Arte Coloniale” appare come una precipitosa fuga dell’Occidente attraverso l’uscita di sicurezza della storia, a rotta di collo giù per scala di emergenza del proprio passato colonialista.

Visto il grande successo ottenuto, con più di 100.000 visitatori dal 21 febbraio al 22 maggio, la mostra “Arte del Benin di ieri e di oggi: dalla restituzione alla rivelazione” verrà riaperta il giorno 16 luglio 2022 presso le sale provvisorie del palazzo Presidenziale della Marina di Cotonou per altri due mesi. La prima parte di questa esposizione, chiamata “Arte contemporanea del Benin”, raccoglie cento opere di trentaquattro artisti beninesi contemporanei; la seconda, “Tesori Reali del Benin” presenta ventisei opere restituite dopo centotrenta anni trascorsi nei musei francesi, da quando cioè,nel 1892, la Francia attaccò il Regno del Dahomey con il pretesto di condurre la lotta al cannibalismo, ai sacrifici umani e alla poligamia attribuite alle popolazioni autoctone, mentre in realtà stava procedendo per completare l’occupazione di quella che sarebbe divenuta l’Africa Equatoriale Francese, una federazione di possedimenti di 2.349.651 km² che si estendeva dal fiume Congo fino al deserto del Sahara. Il colonnello franco-senegalese Alfred Amédée Dodds, alla testa di oltre tremila uomini, partì da Cotonou e, dal 26 ottobre al 17 novembre, dovette affrontare la resistenza all’ultimo sangue di un esercito composto da sole donne guerriere divenute leggendarie come Amazzoni del Dahomey, prima di conquistare e saccheggiare la capitale Abomey.

Dodds, tra il 1893 e il 1895, restituì al museo etnografico del Trocadéro ventisei tesori reali sequestrati nella reggia di Abomey, tra i quali spiccano il trono di Re Béhanzin, quattro porte del palazzo del re Glélé, tre statue reali antropomorfe metà uomo-metà pesce di Béhanzin, metà uomo metà leone del re Glélé e metà uomo metà uccello del re Ghézo, attribuite al grande intagliatore Likohin Kankanhau Sossa Dede, oltre a tre scettri, monete d’oro, gioielli in avorio e metalli preziosi, sculture sacre, arredi, tessuti e oggetti di uso quotidiano.

All’epoca non esisteva una legge internazionale sul saccheggio delle opere d’arte, gli ufficiali francesi poterono agire liberamente a titolo personale e non si saprà mai con esattezza quanti oggetti preziosi siano stati prelevati e quanti altri senza dubbio siano ancora oggi nelle mani dei loro discendenti. Secondo stime accertabili in Francia si troverebbero 90.000 manufatti artistici di inestimabile valore, dei quali 46.000 -meno 26- sottratti durante il periodo coloniale.

A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento il saccheggio, seguito da spedizioni punitive, invasioni e guerre coloniali, è stato una miniera di oggetti d’arte, documenti, reliquie e capolavori non solo per i musei francesi, ma per tutti i principali musei europei. L’Impero Britannico mise gli occhi sulla ricca Costa d’Oro e sul fiorente regno degli Ashanti, oggi appartenente alla Repubblica del Ghana, e nel corso della terza campagna militare, (1873-1874), le truppe inglesi irruppero nel cuore del regno e distrussero la capitale Kumasi dopo aver sottratto dall’Alban, il palazzo reale, tutto quanto vi era conservato, oltre a quello che viene oggi chiamato l’Oro degli Ashanti: ornamenti, maschere e oggetti d’oro massiccio e d’argento che trovarono una nuova patria a Londra, nelle collezioni espositive del British Museum e della Wallace Collection.

Qualche anno dopo, nel febbraio 1897, il momento culminante di una serie di attacchi ai reami dell’Africa Occidentale che portò alla conquista inglese di quella che è oggi la Nigeria, coincise con la spedizione punitiva contro il Regno del Benin o Regno Edo condotta da un battaglione agli ordini dell’ammiraglio Harry Rawson che distrusse l’antica città di Benin e fruttò l’enorme bottino dei Bronzi del Benin: oltre duemila bassorilievi che furono venduti all’asta dall’Ammiragliato per ripagare il costo della spedizione e che vennero dispersi in varie collezioni di oltre centosessanta musei internazionali sparsi in tutto il mondo: novecentoventotto pezzi si trovano nel British Museum di Londra; cinquecentoventi nel Museo Etnologico di Berlino; centosessanta nel Weltmuseum di Vienna, altrettanti nelle sale del Metropolitan Museum of Art di New York, quantità inferiori nel Pitt Rivers di Oxford, nel MARKK di Amburgo, nelloSmithsonian Museum of African Art di Washington, nel Fowlwe Museum dell’Università della California.

Circa vent’anni dopo gli inglesi inviarono una compagnia al comando del maggiore Robert Stephenson Smyth Baden Powell (che sarebbe divenuto celebre per avere fondato il movimento dei Boy Scouts), che descrisse la missione in un libro, raccontando che, una volta ottenuta la sottomissione, le truppe inglesi entrarono nel palazzo reale e si diedero a “collezionare” gli oggetti di valore che vi si trovavano. Scrive Baden Powell: “non vi potrebbe essere lavoro più interessante e più invitante di questo. Fu sufficiente a renderlo tale il rovistare nel palazzo di un re barbaro la cui ricchezza fu detta essere molto grande. Forse uno degli aspetti più straordinari fu che il lavoro di raccogliere i tesori fu affidato a una compagnia di soldati britannici, ed eseguito con la più grande onestà e attenzione, senza un solo caso di saccheggio. Qui vi era un uomo con una bracciata di spade dall’impugnatura d’oro, là ve ne era uno con una scatola piena di ninnoli e di anelli d’oro, un altro con una cassa piena di bottiglie di brandy. Cionondimeno in nessun caso vi fu un tentativo di furto”. È evidente, scrive il filosofo Kwame Anthony Appiah, che “Baden Powell era seriamente convinto che l’inventariare e il rimuovere questi tesori per ordine di un ufficiale britannico fosse un legittimo trasferimento di proprietà. Non era saccheggio; era collezionismo”.

I sottili limiti esistiti ed esistenti da secoli fra saccheggio, collezionismo e vandalismo da un lato, e mercato, schiavismo e colonialismo dall’altro, continueranno ad essere di stretta attualità anche dopo la primavera-estate di quella che si presenta a tutti gli effetti come una inaugurale stagione africana di straordinari appuntamenti fortemente simbolici e chiaramente rivelatori del rapporto che l’arte intrattiene con gli splendori e gli orrori della storia coloniale.

La Repubblica del Benin è il primo Stato dell’Africa subsahariana rientrato in possesso di una parte del proprio patrimonio culturale sottratto da una potenza coloniale europea.

La Repubblica Francese è il primo Paese al mondo a restituire a un Paese africano colonizzato una simbolica parte maltolta del suo patrimonio.

Nel confronto tra primati e primatisti, a manifestarsi è però un crollo seguìto da un deficit insanabile.

Le prime richieste di restituzione da parte dei Paesi africani risalgono infatti agli anni Sessanta e per sessanta anni i Paesi europei hanno reagito senza compiere un solo passo in avanti. Parlare di restituzione è stato una sorta di tabù o di muro abbattuto solamente negli ultimi anni da cause legali mosse da comitati, associazioni, intellettuali e capi di Stato: dal 2019, oltre al Benin, anche Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria, Zaire, Etiopia, Ciad, Mali e Madagascar hanno inoltrato richieste ufficiali.

Secondo gli esperti, l’85-90% del patrimonio africano si trova attualmente fuori dal continente.

Collezionismo e saccheggio possono apparire a prima vista difficilmente comparabili, ma quando vengono attuati a spese dei patrimoni culturali, indipendentemente dalle condizioni storiche nelle quali avvengono o dalle motivazioni di coloro che li effettuano, essi sempre condividono una comune motivazione di fondo: il desiderio di un individuo, di un gruppo o di una nazione di impadronirsi non solo delle ricchezze ma anche dell’identità culturale altrui.

Verso la fine del Settecento saccheggio e collezionismo si unirono indissolubilmente in una moda prodotta dalla nascita del concetto di esotismo già iniziata a partire dal Quattrocento.

Il desiderio di conquista e di conoscenza, alimentato dal successo della letteratura di viaggio e dalle grandi scoperte, permise a ricchi viaggiatori e a rappresentanti delle famiglie regnanti di entrare in possesso di grandi tesori archeologici e di innumerevoli capolavori artistici.

Nel corso dell’Ottocento il progresso dei paesi europei diede un ulteriore impulso: dalle accademie e dalle società scientifiche archeologi e naturalisti furono inviati nelle colonie per effettuare campagne di scavi i risultati dei quali vennero prelevati, rinchiusi ed esposti nei musei delle nazioni finanziatrici.

Fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento gli studi antropologici che prendevano spunto dalle teorie del darwinismo ebbero la necessità di raccogliere materiali umani che dimostrassero l’evoluzione delle differenze biologiche fra le razze: scienziati e studiosi furono inviati nelle colonie dalle università e dai musei di tutto il mondo occidentale per raccogliere quanto più materiale possibile, prima fra le spoglie dei diseredati (reclusi, prigionieri di guerra, malati mentali), poi tra quelle dei popoli nativi e degli schiavi, innescando l’espansione di un ricco mercato parallelo a quello archeologico e artistico.

Fra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo l’aggressività predatoria del colonialismo alimentò un gigantesco mercato clandestino che ha fatto la fortuna di avventurieri, commercianti, antiquari e case d’asta e ha permesso l’accumulo di collezioni di inestimabile valore che le istituzioni museali continuano ancora oggi ad esporre col timore che possano suscitare le rivendicazioni dei discendenti degli antichi proprietari.

I beneficiari dei saccheggi e della brama collezionistica ai danni delle popolazioni e dei patrimoni locali sono sia singoli individui (principi, re, imperatori, dittatori, esploratori, militari, mercanti e collezionisti), sia comunità istituzionalizzate (nazioni, eserciti, organizzazioni religiose, università, società, fondazioni, banche) per appagare la propria sete di possesso e per aumentare la propria autorevolezza in campo intellettuale, economico, politico e sociale.

Anche l’attività dei missionari ha contribuito non poco alla cancellazione del patrimonio culturale dei popoli indigeni. La diffusione della parola del Signore si accompagnò alla raccolta di oggetti della cultura materiale delle popolazioni con cui i missionari entravano in contatto, soprattutto oggetti di culto la cui asportazione era un corollario utile all’imposizione della nuova religione. In tal modo migliaia di oggetti vennero distrutti come idoli e feticci sacrileghi o presero la via dell’Europa contribuendo a formare importanti musei sotto il controllo della Chiesa Vaticana.

Dagli anni Ottanta al presente dei giorni nostri, il fenomeno di dispersione è divenuto ancor più capillare sommandosi ai movimenti migratori: ceduti per due soldi ai rigattieri da coloro che non avevano altro modo per racimolare i soldi necessari per imbarcarsi verso l’Europa, il flusso di oggetti preziosi verso le città portuali dell’Africa Occidentale e del Golfo di Guinea, ha attirato in Africa una grande quantità di speculatori e faccendieri che, dopo averli comprati in loco a prezzi ridicoli, li hanno rivenduti alle case d’antiquariato, che a loro volta hanno rifornito collezionisti, gallerie, case d’asta e musei delle città europee in un vorticoso sistema post-colonialista di sfruttamento dei patrimoni di immense regioni e innumerevoli etnie, con il risultato pratico e beffardo che può aver fatto sì che chi si era visto costretto a svendere i propri beni famigliari più cari e preziosi nei luoghi di partenza, li dovesse vedere rimessi in vendita a cifre da capogiro nei cataloghi più prestigiosi e nelle vetrine più esclusive dei luoghi di arrivo.

Un esempio su tutti, quello dell’asta tenutasi nel giugno 2021 a Parigi, presso Christie’s: sono stati offerti 61 lotti di arte provenienti dall’Africa, dall’Oceania e dal Latino America, tra cui una statuetta Urhobo dalla Nigeria, una scultura e un bronzo del Benin. L’asta si è conclusa con l’aggiudicazione di tutti i lotti, con un ricavato complessivo di 66.069.250 euro: il risultato d’asta più importante di sempre per questo tipo di arte.

Mentre per la comunità saccheggiata i simboli sottratti assumono lo status di “patrimonio assente”, per i saccheggiatori gli oggetti sottratti sono integrati nel proprio patrimonio, il quale viene così arricchito sia dalle vicende che hanno giustificato e prodotto il saccheggio, sia da quella che viene chiamata “narrazione nazionale” o “narrazione dominante”. In ambedue i casi il risultato è l’annientamento del vinto e la crescita della potenza politica, culturale o economica del vincitore.

Poiché ogni comunità è un gruppo di individui che si forma attorno a un insieme di simboli condivisi – memorie, miti, credenze, riti – è evidente che nessuna comunità può esistere se non possiede un patrimonio culturale condivisibile, ed è altrettanto evidente che nessuna comunità sopravvive alla perdita del proprio patrimonio. Tale perdita corrisponde alla perdita della memoria collettiva, cosicché la comunità si trasforma da un complesso di individui che condividono una stessa eredità, in un insieme di individui isolati. La perdita del patrimonio culturale conduce a un processo di disgregazione delle comunità ben noto ai conquistatori, per i quali una conquista non può dirsi totale e definitiva se non attraverso il saccheggio, l’asportazione, l’appropriazione, la dispersione o la distruzione del patrimonio culturale del popolo da soggiogare.

Ecco perché i depredati chiedono con sempre maggior insistenza il ritorno di ciò che è stato loro sottratto: la maggior parte delle collezioni dei musei non sono prodotti di normali transazioni fra soggetti paritari e consenzienti, ma sono invece il prodotto di spostamenti di beni, di rimescolamenti seguiti a periodi di crisi politiche, belliche, economiche e morali, nate dall’eccessivo spirito collezionistico e dall’ansia di supremazia che giustifica acquisizioni moralmente disdicevoli, se non truffaldine, e conduce alla frammentazione e alla dispersione di opere composite e alla perdita dei loro significati più autentici e originali.

L’insensibilità con la quale il colonialismo europeo ha impedito il senso contestuale/culturale dell’arte africana, l’assenza di dialogo culturale con i popoli indigeni, lo sviluppo di un’arte di mercato dove il bianco è l’intenditore-compratore di manufatti da inglobare nel sistema estetico e formale dell’arte occidentale, toccano i punti cruciali del discorso antropologico legato al valore culturale dei manufatti e i temi basilari della riflessione sul valore storico-antropologico che i manufatti artistici possiedono per le società che li producono.

Tutti sanno come le popolazioni indigene siano state pagate per vendere la loro stessa identità e il proprio patrimonio culturale materiale e immateriale, tutti sanno che l’arte nera è stata il più delle volte rubata, come ha testimoniato in molte pagine del suo diario di viaggio, L’Africa fantasma (1984), l’etnologo Michel Leiris negli anni della Missione etnografica Dakar-Gibuti (1931-1933) che arricchì a dismisura i depositi del Musée de l’Homme di Parigi con 3.600 oggetti, 300 amuleti, collezioni di pitture, manoscritti in 30 differenti lingue, 6.000 fotografie…

Ancora di più il significato dell’arte “primitiva” è stato alterato e gli indigeni pagati per vendere la loro stessa identità e il loro patrimonio culturale, trasformando le loro vite in una farsa di azioni e immagini diretta dai colonizzatori, in cui la sfera magico-religiosa viene rimpiazzata dagli interessi economici capitali dell’Occidente e da un concetto di “esotismo esteriore” limitativo e autoreferenziale nel cogliere motivi ornamentali e periferici in grado di suscitare un interesse autoreferenziale e uno spaesamento temporaneo circoscritto e fine a sé stesso, come lo ebbe a definire Elemire Zolla (Uscite dal Mondo, Adelphi 1992 – capitolo: Parigi fra il 1862 e il 1932).

Leiris ha denunciato i mezzi spicci e predatori con cui gli etnologi si sono appropriati degli oggetti artistici o rituali degli indigeni per arricchire le collezioni del futuro Musée de l’Homme parigino e con cui estorsero loro informazioni su celebrazioni e tradizioni segrete o particolari di canti e danze riservate agli iniziati e nel libro egli si rimprovera di aver usato in molte occasioni esattamente gli stessi metodi dei colleghi: il furto e l’inganno. Per tutti questi motivi, l’uscita del libro, nel 1934, venne accolta con aperta e quasi brutale ostilità, il capo missione Marcel Griaule – assistente all Ecole des Hautes Etudes, etnografo e linguista – furioso, definì l’ex amico, “un uomo senza onore che ha compromesso l’avvenire degli studi sul campo”, rompendo ogni rapporto con lui; Marcel Mauss -luminare dell’antropologia culturale francese- ridusse Leiris a un “letterato” e “non un etnologo serio”; il Ministero dell’educazione nazionale stigmatizzò il libro come “opera la cui apparente intelligenza è dovuta soltanto a una grandissima bassezza di sentimenti”. Gran parte delle copie andarono al macero: la distruzione totale verrà completata sette anni dopo, nel 1941, ormai sotto l’occupazione tedesca, quando il Ministero degli interni del governo di Vichy interdisse ufficialmente l’Afrique Fantome. Solo nel 1951, il volume sarà finalmente ristampato venendo riscoperto da molti, insieme a Cuore di tenebra di Joseph Conrad, come uno dei capolavori letterari che l’Africa, non solo nera ed equatoriale, ha ispirato.

Già a partire dall’Ottocento, molti viaggiatori che percorrevano l’immenso territorio del Sahara, accompagnando le carovane commerciali, conducendo le spedizioni militari dell’epoca coloniale o compiendo esplorazioni per conto di compagnie minerarie, constatarono l’esistenza di antiche pitture e graffiti rupestri.Uno di questi fu l’esploratore tedesco Heinrich Barth, che nel corso di uno dei suoi viaggi tra Tripoli, il Niger e il Ciad trovò nel uadi Tilizzaghen, nel sud-ovest della Libia, un’incisione raffigurante un cacciatore che decise di ribattezzare Apollo Garamante, in riferimento alla popolazione dei Garamanti che, secondo Erodoto, occupava la parte occidentale della Libia.

Nonostante il fatto che le scoperte come quella di Barth fossero state ben documentate e divulgate, la maggior parte degli studiosi europei continuò a rimanere fermamente convinta del fatto che le civiltà africane fossero talmente arretrate e primitive da risultare anche inespressive e per questo motivo nessuno fu disposto a credere che le popolazioni autoctone fossero state in grado di realizzare meravigliose opere d’arte che vennero nientemeno attribuite a stranieri di passaggio.

Fu solo negli anni Trenta che cominciò a delinearsi un’immagine più chiara dell’arte rupestre sahariana, sempre e comunque alimentata dalla stessa sete di conquista, poiché in quell’epoca le forze mehariste dell’Algeria, allora sotto dominio francese, realizzarono numerose spedizioni e, grazie all’utilizzo strategico dei dromedari, raggiunsero vaste zone rimaste sino ad allora per loro inaccessibili.

Una di queste fu l’altipiano del Tassili n’Ajjer, situato nel Sahara centrale, una delle regioni tradizionalmente appartenenti alle Genti Tuareg Kel Ajjer.

Qui, non a caso né per caso, nel 1932 Charles Brenans, un giovane colonnello francese scoprì, nelle pareti scavate dal uadi Djerat, centinaia e centinaia di splendide incisioni raffiguranti esemplari di fauna africana selvaggia – buoi, elefanti, giraffe, rinoceronti, antilopi, leoni – oltre a numerose e diverse figure antropomorfe. La straordinaria scoperta attirò l’attenzione degli specialisti sull’eccezionale complesso e nel 1956 l’etnologa svizzera Yolande Tschudi pubblicò la prima monografia dedicata a quest’arte.

Quando le spedizioni divennero grandi campagne di studi, come quella che valse ad Henri Lhote la consacrazione discopritore dell’arte rupestre sahariana dopo aver inaugurato nel 1957 una mostra presso il Museo delle Arti Decorative di Parigi che ebbe un successo straordinario e che fu considerata una delle mostre più importanti del XX secolo, dovuto all’esposizione dei risultati raccolti durante quindici mesi nel Tassili n’Ajjer da una squadra composta da pittori e fotografi che nei soli primi otto mesi riuscì a ricopiare ben 400 dipinti, ciò avvenne grazie alla conoscenza di coloro che, comeMachar Jebrine ag Mohamed, vennero ingaggiati come “guide locali”, cioè coloro che, tra i più emeriti abitanti autoctoni depositari di millenarie conoscenze, si dimostrarono capaci, oltre che di garantirgli la fama, di salvargli anche la vita in seguito ad un incidente in cui rischiò di perdersi e di morire di sete.

Tra il 1950 e il 1953 i cineasti Chris Marker e Alain Resnais girarono in Africa e in Francia il documentario Les statues meurent aussi, commissionato dalla rivista letteraria Présence africaine, rivista fondata nel 1947 da Alioune Diop con J. Rabemananjara e B.B. Dadié, e appoggiata da diversi intellettuali francesi vicini al movimento della negritudine. Dopo la sua prima proiezione al Festival di Cannes nel 1953 e malgrado si sia aggiudicata il premio Jean Vigo nel 1954 per il suo carattere contestativo e anti-imperialista, la pellicola è stata censurata dal Centre National de la Cinématographie fino al 1963. La condanna è un’evidente conseguenza del fatto che i due registi si palesarono nel pieno della crisi coloniale attraversata dalla Francia, che da lì a un decennio avrebbe assistito all’indipendenza delle terre occupate (Algeria, Marocco, Tunisia, Africa occidentale, Africa equatoriale e Madagascar). Il documentario mostra come l’arte africana viene distrutta, sopraffatta, come svaniscono gli antichi significati che le appartengono, il non senso insito nella classificazione dei manufatti all’interno del circuito dell’arte, e come l’Africa diviene un laboratorio in cui si costruisce l’immagine del buon selvaggio sognata e imposta dall’uomo bianco.

Resnais e Marker, difendendo il diritto di riconoscimento dell’arte africana in tutte le sue sfaccettature e livelli di complessità storica, sociale, artistica, rituale, politica, magica, economica, estetica e performativa, si domandarono: «Perché l’arte nera si trova esposta al Musée de l’Homme, mentre l’arte greca o egiziana sono esposte al Louvre?». Un interrogativo lapidario che ancora oggi pone non pochi problemi alla ricerca e alla critica antropologica, artistica e museale.

Interrogativo che pone problemi anche all’atteggiamento patriarcale colonialista che preferisce parlare di “museo dell’uomo”, di “uomo preistorico”, di “evoluzione dell’uomo” piuttosto che di umanità.

Con il loro quesito, i due autori realizzano una de-mistificazione e una de-musealizzazione dell’arte indigena, problematizzando di conseguenza il tema scottante del primitivismo africano rispetto a un’arte occidentale evoluta, attuando cioè una politicizzazione dell’arte africana. Quando vengono sottratte, inventariate, comprate a basso prezzo, rivendute ai proprietari dei negozi di antiquariato, ri-collocate ed esposte dietro le vetrine museali, “anche le statue muoiono”. L’affermazione dei due registi mette in discussione lo statuto dell’istituzione museale, sostenendo che un oggetto è morto quando lo sguardo attivo, vivente, antropologico, che si posa su di esso, è annullato. Per l’arte africana ciò avverrebbe quando i manufatti vengono inseriti nei circuiti museali dove muoiono formando, più che una collezione, un cimitero. La morte delle statue, intese come sculture, maschere e opere d’arte plastica, è chiaramente connessa alla nascita della commercializzazione dell’arte africana per il piacere dei ricchi colonizzatori, i quali credono che le statue continuino a vivere e a valorizzarsi nelle bacheche museali, mentre Resnais e Marker ci dicono l’opposto, ovvero che dalle teche dei musei le statue ci guardano ma non ci riguardano, dato che la funzione rituale, il simbolismo e l’autonomia del linguaggio che tali forme veicolano perdono il loro senso in uno spazio esclusivamente estetico che le azzera.

Il documentario si apre con questa frase lapidaria, la migliore da riportare in chiusura: «Quando gli uomini muoiono entrano nella storia. Quando le statue muoiono entrano nell’arte. Questa biologia della morte è ciò che chiamiamo cultura».

L'articolo Cancel Culture: cancellare i musei coloniali (ottava parte) proviene da Pagine Esteri.



Biden all’expo delle armi di Israele. Oggi la firma del patto anti-Iran


Giunto ieri a Tel Aviv, prima tappa del suo tour mediorientale, il presidente Usa è andato alla scoperta dei sistema antiaerei che saranno un pilastro del «Mead» (Middle East Air Defense), l'alleanza tra Israele e i paesi arabi alleati. Oggi la firma dell

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 14 luglio 2022 – Si chiama «Mead» (Middle East Air Defense) e ha lo scopo di collegare i sistemi antiaerei di Israele e dei paesi arabi suoi alleati per impedire all’Iran di usare droni e missili. In particolare – ma non si dice – se Israele lancerà un attacco contro le centrali atomiche iraniane innescando l’inevitabile risposta di Teheran contro Tel Aviv e alcune capitali arabe del Golfo. Per il «Mead» e altri programmi di rafforzamento militare di Israele, Joe Biden è giunto ieri in Medio oriente. Un viaggio fino al 16 luglio che lo porterà anche a riconciliarsi con l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman (Mbs). Un paio di anni fa Biden e non pochi Democratici lo descrivevano come il mandante dell’assassino del giornalista Jamal Khashoggi. Ora il principe sarà riabilitato nel nome dell’alleanza con i Saud che dura da 80 anni e degli interessi supremi degli Stati uniti.

Dopo l’arrivo all’aeroporto di Tel Aviv, dove è stato accolto dal premier ad interim Yair Lapid, il presidente americano ha ribadito che le relazioni tra i due paesi alleati sono «più forti e più profonde di quanto non siano mai state» e ricordato che questa è la sua decima visita in Israele. «Ogni volta è una benedizione – ha detto – perché la connessione tra i nostri due popoli è viscerale». Poi è passato alla sostanza, affermando che gli Stati uniti ribadiranno «il ferreo impegno verso la sicurezza d’Israele» e continueranno a potenziare l’integrazione dello Stato ebraico nella regione.

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Che Biden si sia precipitato, poco dopo l’atterraggio dell’Air Force One, ad osservare e a farsi spiegare le capacità delle ultime armi prodotte dalla tecnologia militare israeliana, è una indicazione precisa delle finalità della sua visita. Il «briefing» tenuto dal ministro della difesa Gantz si è svolto in uno degli spazi dell’aeroporto di Tel Aviv. A Biden sono stati mostrati i sistemi Arrow, David’s Sling, Iron Dome e l’intercettore laser in fase di sviluppo Iron Beam che quasi certamente otterrà un finanziamento da parte dell’Amministrazione. Armamenti e sistemi di difesa antiaerea che Biden ritiene alcuni dei pilastri dell’alleanza militare, con a capo Israele, che intende costruire nella regione.

«Con il presidente Biden discuteremo di questioni di sicurezza nazionale e della costruzione di una nuova architettura di sicurezza ed economia con le nazioni del Medio Oriente, in seguito agli Accordi di Abramo e ai risultati del Vertice del Negev…e della necessità di rinnovare una forte coalizione globale che fermi il programma nucleare iraniano», ha confermato da parte sua il premier Lapid. «Una volta – ha aggiunto rivolgendosi a Biden – ti sei definito un sionista. Hai detto che non bisogna essere ebrei per essere sionisti. Sei un grande sionista e uno dei migliori amici che Israele abbia mai conosciuto».

Biden che ha fatto visita allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, e incontrato due sopravvissute all’Olocausto, nei suoi discorsi ha anche detto di essere un sostenitore della soluzione a Due Stati (Israele e Palestina). Ma quando domani a Betlemme incontrerà il presidente dell’Anp Abu Mazen, non andrà oltre la promessa di un po’ di aiuti economici ai palestinesi. A Betlemme Biden non vedrà la famiglia della giornalista palestinese (con passaporto Usa) Shireen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio a Jenin. Gli avevano chiesto un colloquio per discutere della dichiarazione di Washington secondo cui le forze israeliane non hanno ucciso intenzionalmente la giornalista anche se probabilmente ne erano responsabili. Il segretario di stato Blinken ha invitato gli Abu Akleh a Washington per un incontro con «funzionari», ma non con Biden.

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La settimana che si è appena conclusa è stata densa di vertici internazionali: dopo il summit virtuale dei BRICS, che ha testimoniato che la Russia non è isolata dalle altre grandi potenze (quantomeno non a livello economico), non si è fatta attender…



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BEN(E)DETTO 15 luglio 2022


Oggi si chiude di fatto la legislatura. Una brutta legislatura. Trascinarla, con un’inevitabile campagna elettorale permanente, non farebbe bene al Paese.

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Draghi: chi di decreto legge ferisce di decreto legge perisce


Con un discorso 'schiattoso', gli stellini negano la fiducia a Draghi, sfiorando il tema, questo sì vero, dell’uso smodato del decreto legge per governare. Ora il proscenio sarà occupato da Giggino, Renzi, Salvini, Letta, Conte e via precipitando

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Quindi il DRAGO ha rassegnato le Dimissioni?🤔
today.it/politica/draghi-dimis…


E se il Kazakistan finisse più o meno come l’Ucraina?


L'interesse della Russia è quello di stabilire il suo controllo sui crescenti flussi di petrolio e gas che vanno da Kazakistan occidentale all'Europa

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Al sicuro?“Risparmiare gas per un inverno sicuro”. Questo è il titolo (e il contenuto) della prima bozza del piano che la Commissione presenterà il 20 luglio per ridurre di un terzo l’impatto di una potenziale interruzione del gas russo.



Shampoo etico


Follemente corretto Le parole “normale” e “normalità” sono da sempre sotto accusa. L’idea che una persona possa essere normale e altre no crea disagio. Ad alcuni fa venire in mente Hitler, l’eugenetica e la selezione dei migliori. Ad altri non piace esser

Follemente corretto


Le parole “normale” e “normalità” sono da sempre sotto accusa. L’idea che una persona possa essere normale e altre no crea disagio.

Ad alcuni fa venire in mente Hitler, l’eugenetica e la selezione dei migliori. Ad altri non piace essere etichettati come anormali. Ad altri ancora, invece, è la normalità che non piace. Preferiscono essere “diversi da loro” (cioè dai normali, suppongo). È il caso dei Måneskin: «Sono fuori di testa ma diverso da loro / E tu sei fuori di testa ma diversa da loro / Siamo fuori di testa ma diversi da loro».

Dove la faccenda si fa se-ria è quando si parla di handicap, fisici e mentali. Anche lì dire “normale” è proibito e dire “anormale” è proibitissimo.

Ma su come vadano chiamati coloro che hanno qualche disabilità non c’è accordo. Anzi, è in corso una disfida fra i molestatori della lingua. C’è chi si ostina a chiamare “non vedenti” i ciechi e c’è chi ci ha ripensato e ora vorrebbe che i ciechi tornassero a essere chiamati “ciechi” perché quel “non” è negativo, mentre la parola “cieco” indicherebbe una caratteristica come tante.

E lo stesso accade per un’altra parola: c’è chi suggerisce di dire “disabile” e c’è chi pensa che dire “persona con una disabilità” sia più rispettoso. Fin qui tutto bene. Siamo, è vero, nel regno del politicamente corretto. Ma le sue ragioni, in fondo, sono comprensibili. L’ipersensibilità su parole come “normale” e “normalità” ha una sua logica.

Possiamo trovarla eccessiva, pedante, bigotta e ipocrita ma riusciamo a scorgerne l’origine e le motivazioni. Che stanno nel fatto che stiamo parlando di persone e di aspetti delicati del loro corpo o della loro mente.

Ma quando si parla di cose? O di caratteristiche banali delle persone come la pressione sanguigna, la misura dei piedi, il tipo di capelli? Dire «Oggi ho passato una giornata normale» può offendere le altre giornate? C’è un signor “ieri” che può sentirsi escluso? O un signor “dopodomani” che può sentirsi discriminato? Dire che Giuseppe ha la pressione normale può offendere Giuseppina che invece ce l’ha alta? Verrebbe di rispondere no. E invece sì.

Chiunque vada in farmacia a comprare uno shampoo sa che, sul bancone, ne troverà per capelli di ogni tipo: grassi, secchi, con forfora, ricci, crespi, colorati eccetera. E naturalmente pure una confezione per capelli “normali”.

Ora non più. Un’indagine di mercato di Unilever ha rivelato che sette intervistati su dieci riterrebbero che l’uso della parola “normale” sulle confezioni abbia un impatto negativo. Il 56% delle persone che hanno espresso tale parere pensa che l’industria della bellezza faccia sentire tanta gente esclusa, mentre il 52% ammette di valutare la posizione dell’azienda sulle questioni sociali prima di fare acquisti.

In breve, lo shampoo per una capigliatura normale, nella misura in cui implica logicamente l’esistenza di capigliature non normali, comporterebbe una discriminazione, un deficit di inclusività. Di qui una decisione drastica: in nome del cosiddetto inclusive advertising, d’ora in poi Unilever toglierà dal bancone lo shampoo per capelli normali.

L’etica dello shampoo ha vinto. Ora che i capelli normali non esistono più, nessuno potrà più sentirsi escluso o discriminato. Oppure, finalmente, ci sentiremo tutti anormali.

La Ragione

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QUAD e resilienza climatica


I membri del Quad si sono incontrati a Tokyo nel maggio di quest’anno per discutere le questioni più urgenti che incidono sulla sicurezza indo-pacifica, vale a dire la crescita regionale della Cina e il continuo impatto della pandemia di COVID-19. Il Quad o Quadrilateral Security Dialogue, creato nel 2007 e ristabilito nel 2017, è un [...]

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Gotabaya Rajapaksa, presidente dello Sri Lanka in rivolta, fugge prima alle Maldive e poi a Singapore. In attesa delle sue dimissioni, il paese scivola nel caos e in un pericoloso vuoto di potere.


USA: la dipendenza dalle importazioni potrebbe far stagnare l’economia


La carenza di quanto segue potrebbe portare alla nuova inflazione: Neon: il gas cruciale per la produzione di chip elettronici. Urea: l’ingrediente per realizzare l’additivo per il fluido di scarico diesel (DEF) richiesto dall’EPA per tutti i veicoli diesel. Raffinerie: le proiezioni di chiusure del 20% nei prossimi 5 anni di queste infrastrutture obsolete si [...]

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Tigrayans threatened by famine and disease caused by the war


Currently, basic necessities and services are not available on the market or are not very accessible to the majority of the population. Furthermore, the lack…

Currently, basic necessities and services are not available on the market or are not very accessible to the majority of the population. Furthermore, the lack of fuel and financial resources, associated with the sanctions imposed by the Ethiopian federal government, has reduced the distribution of humanitarian aid in several districts and cities in the Tigray region.
“I urge, once again, all partners to continue to provide humanitarian aid to people affected by the war in Tigray (Tigré), in order to jointly respond to the immense need of the Tigrayan people”.

This is the urgent appeal of the diocesan director of the Catholic Secretariat of Adigrat, Abba Abraha Hagos, (ADCS), in a note sent to Agenzia Fides.
Medina Ahmed, uno sfollato di Konaba, siede con i bambini in un complesso di edifici abbandonati che ospitano gli sfollati vicino alla città di Dubti, a 10 chilometri da Semera, in Etiopia. Più di un milione di persone ha bisogno di aiuti alimentari nella regione secondo il Programma alimentare mondiale. (Foto di EDUARDO SOTERAS/AFP)Medina Ahmed, uno sfollato di Konaba, siede con i bambini in un complesso di edifici abbandonati che ospitano gli sfollati vicino alla città di Dubti, a 10 chilometri da Semera, in Etiopia. Più di un milione di persone ha bisogno di aiuti alimentari nella regione secondo il Programma alimentare mondiale. (Foto di EDUARDO SOTERAS/AFP)
As of June 21, 2022, after the humanitarian truce promoted by the prime minister, Abiy Ahmed, – thanks to which the population had a minimum of access to foodstuffs, medicines and few other services – air transport was once again paralyzed, worsening the situation of the Tigrayans as a result.

Currently, basic necessities and services are not available on the market or are not very accessible to the majority of the population. Furthermore, the lack of fuel and financial resources, associated with the sanctions imposed by the Ethiopian federal government, has reduced the distribution of humanitarian aid in several districts and cities in the Tigray region.

All basic services such as telecommunications, internet, banking, transport and connections between Tigre and other regions of Ethiopia are also blocked.

The continuous sieges of the region by the Ethiopian Federal Government have been isolating the population of Tigré from the rest of the world for more than 600 days. Millions of people, according to the statement, are exposed to severe malnutrition, hunger and scarcity; all these people live in centers for the displaced, inside several cities, towns and rural areas of Tigré, without food, without shelter and without water, medicine and other basic necessities, leading them to despair, illness and death.

Therefore, director Abba Abraha Hagos invites all partners and humanitarian organizations to “give a voice to the population of Tigré, so that they have unlimited access to humanitarian aid, through air and land transport, and to guarantee them the right to a dignified life”. and safe”. According to him, the situation is dramatic, to the point of becoming an existential threat to the population of the Ethiopian region of Tigra”.

Since January 2021, the Catholic Church in Ethiopia, together with the Diocesan Catholic Secretariat of Adigrat (ADCS) and the religious congregations operating in the Catholic Eparchy of Adigrat, have been committed to meeting the priority needs of the war-affected population. Thanks to financial and material support, the Secretariat’s emergency response programs have saved the lives of hundreds of thousands of people.

However, although the Diocesan Secretariat of Adigrat and the Religious Congregations are raising funds and mobilizing resources from different partners, the continuous harassment of the Tigray region continues to influence the performance of such programs and limit efforts to reach the most needy.

*With Fides Agency

SOURCE: vaticannews.va/pt/mundo/news/2…


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Ricostruire un’Ucraina migliore: lo stato di diritto è essenziale


Al termine della prima Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina in Svizzera il 4 e 5 luglio, rappresentanti di 42 Paesi donatori e cinque organizzazioni internazionali hanno sottoscritto la Dichiarazione di Lugano. Questo documento ha individuato i sette Principi di Lugano per la ricostruzione dell’Ucraina. Il terzo principio ha sottolineato l’importanza centrale della riforma del sistema giuridico. [...]

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Lanciato Vega C, il nuovo razzo italiano


Alle 15:3 ore italiane di ieri è stato effettuato il lancio di qualifica del razzo Vega C dalla base spaziale europea di Kourou, in Guyana Francese. È l’ultimogenito della famiglia Vega e rappresenta un sostanziale incremento di capacità rispetto al suo predecessore che vola da febbraio 2012. In un momento in cui si lancia con [...]

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Il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha scritto ai dirigenti scolastici degli Istituti beneficiari dei primi 500 milioni stanziati nell’ambito del Piano di riduzione dei divari territoriali e del contrasto della dispersione scolastica, previs…


Biden all’expo delle armi di Israele. Oggi la firma del patto anti-Iran


Giunto ieri a Tel Aviv, prima tappa del suo tour mediorientale, il presidente Usa è andato alla scoperta dei sistema antiaerei che saranno un pilastro del «Mead» (Middle East Air Defense), l'alleanza tra Israele e i paesi arabi alleati. Oggi la firma dell

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 14 luglio 2022 – Si chiama «Mead» (Middle East Air Defense) e ha lo scopo di collegare i sistemi antiaerei di Israele e dei paesi arabi suoi alleati per impedire all’Iran di usare droni e missili. In particolare – ma non si dice – se Israele lancerà un attacco contro le centrali atomiche iraniane innescando l’inevitabile risposta di Teheran contro Tel Aviv e alcune capitali arabe del Golfo. Per il «Mead» e altri programmi di rafforzamento militare di Israele, Joe Biden è giunto ieri in Medio oriente. Un viaggio fino al 16 luglio che lo porterà anche a riconciliarsi con l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman (Mbs). Un paio di anni fa Biden e non pochi Democratici lo descrivevano come il mandante dell’assassino del giornalista Jamal Khashoggi. Ora il principe sarà riabilitato nel nome dell’alleanza con i Saud che dura da 80 anni e degli interessi supremi degli Stati uniti.

Dopo l’arrivo all’aeroporto di Tel Aviv, dove è stato accolto dal premier ad interim Yair Lapid, il presidente americano ha ribadito che le relazioni tra i due paesi alleati sono «più forti e più profonde di quanto non siano mai state» e ricordato che questa è la sua decima visita in Israele. «Ogni volta è una benedizione – ha detto – perché la connessione tra i nostri due popoli è viscerale». Poi è passato alla sostanza, affermando che gli Stati uniti ribadiranno «il ferreo impegno verso la sicurezza d’Israele» e continueranno a potenziare l’integrazione dello Stato ebraico nella regione.

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Che Biden si sia precipitato, poco dopo l’atterraggio dell’Air Force One, ad osservare e a farsi spiegare le capacità delle ultime armi prodotte dalla tecnologia militare israeliana, è una indicazione precisa delle finalità della sua visita. Il «briefing» tenuto dal ministro della difesa Gantz si è svolto in uno degli spazi dell’aeroporto di Tel Aviv. A Biden sono stati mostrati i sistemi Arrow, David’s Sling, Iron Dome e l’intercettore laser in fase di sviluppo Iron Beam che quasi certamente otterrà un finanziamento da parte dell’Amministrazione. Armamenti e sistemi di difesa antiaerea che Biden ritiene alcuni dei pilastri dell’alleanza militare, con a capo Israele, che intende costruire nella regione.

«Con il presidente Biden discuteremo di questioni di sicurezza nazionale e della costruzione di una nuova architettura di sicurezza ed economia con le nazioni del Medio Oriente, in seguito agli Accordi di Abramo e ai risultati del Vertice del Negev…e della necessità di rinnovare una forte coalizione globale che fermi il programma nucleare iraniano», ha confermato da parte sua il premier Lapid. «Una volta – ha aggiunto rivolgendosi a Biden – ti sei definito un sionista. Hai detto che non bisogna essere ebrei per essere sionisti. Sei un grande sionista e uno dei migliori amici che Israele abbia mai conosciuto».

Biden che ha fatto visita allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, e incontrato due sopravvissute all’Olocausto, nei suoi discorsi ha anche detto di essere un sostenitore della soluzione a Due Stati (Israele e Palestina). Ma quando domani a Betlemme incontrerà il presidente dell’Anp Abu Mazen, non andrà oltre la promessa di un po’ di aiuti economici ai palestinesi. A Betlemme Biden non vedrà la famiglia della giornalista palestinese (con passaporto Usa) Shireen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio a Jenin. Gli avevano chiesto un colloquio per discutere della dichiarazione di Washington secondo cui le forze israeliane non hanno ucciso intenzionalmente la giornalista anche se probabilmente ne erano responsabili. Il segretario di stato Blinken ha invitato gli Abu Akleh a Washington per un incontro con «funzionari», ma non con Biden.

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Tigray, milioni di etiopi minacciati da carestia e da malattie conseguenza della guerra


Attualmente i beni di prima necessità e i servizi non sono disponibili sul mercato o sono poco accessibili alla maggior parte della popolazione. Inoltre, la…

Attualmente i beni di prima necessità e i servizi non sono disponibili sul mercato o sono poco accessibili alla maggior parte della popolazione. Inoltre, la mancanza di carburante e di risorse finanziarie, associata alle sanzioni imposte dal governo federale etiope, ha ridotto la distribuzione degli aiuti umanitari in diversi distretti e città della regione del Tigray.

“Esorto, ancora una volta, tutti i partner a continuare a fornire aiuti umanitari alle persone colpite dalla guerra nel Tigré (Tigray), per rispondere insieme all’immenso bisogno del popolo del Tigri”.

E’ l’appello urgente del Direttore diocesano del Segretariato Cattolico di Adigrat, Abba Abraha Hagos, (ADCS), in una nota pervenuta all’Agenzia Fides.
Medina Ahmed, uno sfollato di Konaba, siede con i bambini in un complesso di edifici abbandonati che ospitano gli sfollati vicino alla città di Dubti, a 10 chilometri da Semera, in Etiopia. Più di un milione di persone ha bisogno di aiuti alimentari nella regione secondo il Programma alimentare mondiale. (Foto di EDUARDO SOTERAS/AFP)Medina Ahmed, uno sfollato di Konaba, siede con i bambini in un complesso di edifici abbandonati che ospitano gli sfollati vicino alla città di Dubti, a 10 chilometri da Semera, in Etiopia. Più di un milione di persone ha bisogno di aiuti alimentari nella regione secondo il Programma alimentare mondiale. (Foto di EDUARDO SOTERAS/AFP)
Dal 21 giugno 2022, dopo la tregua umanitaria, promossa dal Presidente del Consiglio, Abiy Ahmed, – grazie alla quale la popolazione ha avuto un minimo di accesso a generi alimentari, medicinali e pochi altri servizi – il trasporto aereo è stato nuovamente paralizzato, aggravando di conseguenza il situazione del Tigray.

Attualmente i beni di prima necessità e i servizi non sono disponibili sul mercato o sono poco accessibili alla maggior parte della popolazione. Inoltre, la mancanza di carburante e di risorse finanziarie, associata alle sanzioni imposte dal governo federale etiope, ha ridotto la distribuzione degli aiuti umanitari in diversi distretti e città della regione del Tigray.

Sono bloccati anche tutti i servizi di base come telecomunicazioni, internet, banche, trasporti e collegamenti tra Tigre e altre regioni dell’Etiopia.

I continui assedi della regione da parte del governo federale etiope isolano la popolazione del Tigré dal resto del mondo da oltre 600 giorni. Milioni di persone, secondo la dichiarazione, sono esposte a grave malnutrizione, fame e scarsità; tutte queste persone vivono in centri per sfollati, all’interno di diverse città, paesi e aree rurali del Tigré, senza cibo, senza riparo e senza acqua, medicine e altri beni di prima necessità, portandoli alla disperazione, alla malattia e alla morte.

Pertanto, il direttore Abba Abraha Hagos invita tutti i partner e le organizzazioni umanitarie a “dare voce alla popolazione del Tigré, affinché abbia accesso illimitato agli aiuti umanitari, attraverso il trasporto aereo e terrestre, e a garantire loro il diritto a una vita dignitosa e sicura”. Secondo lui la situazione è drammatica, al punto da diventare una minaccia esistenziale per la popolazione della regione etiope del Tigray”.

Da gennaio 2021 la Chiesa cattolica in Etiopia, insieme al Segretariato cattolico diocesano di Adigrat (ADCS) e alle congregazioni religiose operanti nell’Eparchia cattolica di Adigrat, si impegnano a soddisfare i bisogni prioritari della popolazione colpita dalla guerra. Grazie al sostegno finanziario e materiale, i programmi di risposta alle emergenze del Segretariato hanno salvato la vita a centinaia di migliaia di persone.

Tuttavia, sebbene il Segretariato diocesano di Adigrat e le Congregazioni religiose stiano raccogliendo fondi e mobilitando risorse da diversi partner, le continue vessazioni nella regione del Tigré continuano a influenzare l’attuazione di tali programmi e limitare gli sforzi per raggiungere i più bisognosi.

*Con Agenzia Fides

FONTE: vaticannews.va/pt/mundo/news/2…


tommasin.org/blog/2022-07-14/t…

informapirata ⁂ reshared this.



#GDPR Vs. #GoogleAnalytics4: #MonitoraPA risponde all'articolo di Roberto Guiotto e Matteo Zambon di #TagManager Italia pubblicato su #AgendaDigitale!

Ma cosa si dice in questo post?

monitora-pa.it/2022/07/14/Goog…

Intanto, una premessa: il post risponde a un articolo che è, a sua volta, una risposta a quest'altro articolo di @Pietro Biase sui gravi problemi di conformità al #GDPR di #GoogleAnalytics4
agendadigitale.eu/sicurezza/pr…

Roberto Guiotto e Matteo Zambon, in breve, hanno sostenuto che #GoogleAnalytics non sia illegale in sé, ma che dipende dall’utilizzo che se ne fa (= quali dati vengono raccolti e processati). Inoltre il #GarantePrivacy non menziona espressamente #GoogleAnalytics4
agendadigitale.eu/sicurezza/pr…

Guiotto e Zambon inoltre fanno giustamente notare che Google Analytics non è un unicum, perché quasi tutte le piattaforme Ads, i software di email marketing, i CRM, le piattaforme di Content Delivery Network, i web hosting, etc. si trovano in una posizione simile

Ma tornando all'articolo di #MonitoraPA, esso mette in dubbio in primo luogo la natura "neutra" di Google Analytics rispetto alla normativa vigente, in quanto sulla tutela dei trasferimenti transfrontalieri di dati non può essere considerato "privacy by default".

Inoltre riconduce a una lettura più completa e un'interpretazione più aderente al testo, le considerazioni del membro del collegio del #GarantePrivacy, l'avv. #GuidoScorza che, sempre su #AgendaDigitale illustrava i termini del problema

agendadigitale.eu/sicurezza/pr…

E, quanto alle precisazioni, #MonitoraPA ricorda i termini precisi delle FAQ del @CNIL che sembrano assai diversi dall'interpretazione più accomodante operata da Tag Manager

cnil.fr/fr/cookies-et-autres-t…

(qui la traduzione a cura di Ivo #Grimaldi monitora-pa.it/2022/06/14/faq-… )

Ma le precisazioni non sono rivolte solo agli altri: #MonitoraPA fa autocritica e ammette che, come fanno notare Guiotto e Zambon, Google Tag Manager non possa essere definita "una nuova tecnologia" come era stato detto nel precedente articolo.

#MonitoraPA inoltre non ignorerà le osservazioni di TagManager sul fatto che la GDPRcompliance non riguarda solo Analytics e cercherà di trovare un modo per segnalare anche altri tipi di situazioni legate ad altre tecnologie extraeuropee

In conclusione, una rivendicazione dell'impegno di #MonitoraPA che vuole difendere cittadini e aziende che, a differenza delle #BigTech, non possono "aggirare le normative scaricandone la responsabilità sui Titolari"
Qui la discussione su @feddit_it: feddit.it/post/26285

Grazie a @Shamar @_Zaizen_ @pietrobiase@mastodon.uno @amreo e a tutti gli altri che non possiamo menzionare perché non sono (ancora) nel fediverso

Unknown parent

qoto - Collegamento all'originale
Shamar

Certo, esattamente come ci sono diversi obblighi che il demolitore professionista deve espletare per poter utilizzare il tritolo.

Dunque il paragone è calzante.

@privacypost

Unknown parent

mastodon - Collegamento all'originale
Nemo_bis 🌈
Chissà, magari se scrivi a Google Ireland te li danno! 😇



Totti – Conte: pipsqueak allo sbaraglio


Separazioni di pisquani. Prima la separazione Totti - Blasi, poi, in piena Superluna, piomba in scena l'altro pisquano, Conte, ad annunciare l'altra separazione, quella dal governo Draghi

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Comunque a me piace questa nuova versione di Tusky. Continua a non far vedere stelle e boost (ed è bene) ma fa vedere il numero di risposte
in reply to Sabrina Web

continuo sempre a utilizzare friendica (e mastodon) con il browser anche da cellulare, ma mi fa sempre piacere provare le nuove versioni delle applicazioni, soprattutto quando apportano novità meritevoli


Pc di lavoro mostra un messaggio da microsoft: aiutaci a migliorare la ricerca vocale online! Tra le scelte ci sono un bellissimo "vai alle impostazioni" e uno stupendo "non ora", si sente fortissimo la mancanza di un "ma vedi di non rompere i cocomeri!"
in reply to Sabrina Web 📎

Sono svegli, alla microsoft…

Registrati qui (non spammano) e scaricati un po' di bei suoni da mandare a microsoft come file allegato, tipo

freesound.org/people/Nizerg/so…



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L’eredità di Shinzo Abe


I tributi sono fluiti per l’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe, assassinato l’8 luglio. Viene ricordato per i suoi numerosi successi politici sia interni che esteri, per la sua leadership globale e per le relazioni calde e memorabili che ha costruito con i leader mondiali del passato e del presente, tra cui Narendra Modi, Malcolm [...]

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