Se si vuole governare, si governa dal centro
Prima di lasciarvi all’inedito inizio del campionato, alle gite, alle grigliate e ai pranzi in compagnia di questo strano Ferragosto elettorale, vi dico la mia sulla rottura di Calenda con il Pd e sull’intesa Calenda-Renzi.
Per noi che avevamo promosso l’appello per una nuova alleanza riformista e liberal democratica (ed avevamo organizzato addirittura una “maratona riformista” per spiegarne le ragioni: https://www.linkiesta.it/…/la-maratona-riformista-per…/) la nascita di un Terzo polo con queste caratteristiche è una buona notizia.
In Parlamento sarà rappresentata “una componente liberal riformista ed europeista capace, si vedrà in che misura, di condizionare scelte e inclinazioni politiche in un paese – il nostro – che ha sempre fatto scarso uso di idee liberali e nel quale nuove forme di corporativismo autarchico e di massimalismo socialisteggiante attraversano sia il centrodestra sia il centrosinistra” (https://www.ilfoglio.it/…/nasce-il-terzo-polo-ed-e-una…/). Il che di questi tempi non è poco.
Naturalmente, c’è da augurarsi che non si tratti soltanto di un’alleanza elettorale o di una tregua temporanea tra Matteo Renzi e Carlo Calenda in mancanza di alternative, ma che al contrario sia “il primo passo verso la costruzione di un partito liberlademocratico europeo e atlantico in grado di offrire un’alternativa di governo alla confusione programmatica del Pd e al neo, ex, post fascismo di Fratelli d’Italia e Lega” (https://www.linkiesta.it/…/draghi-elezioni-bipopulismo…/). E ora tocca proprio a Renzi e Calenda dimostrare di saper costruire, a partire da questa alleanza, “qualcosa di nuovo, non solo tattico”.
A ben guardare, quello che è stato subito bollato come il “tradimento di Calenda” era nelle cose. Lo dico terra-terra: il Partito democratico non può diventare una sinistra moderna perché la sua gestione non è davvero contendibile, la minoranza liberal-democratica può avere solo un ruolo ancillare, di condizionamento, ma non può guidarlo. Questo è il problema. E prima o poi bisognerà farsene una ragione.
Lo ha spiegato meglio di me Michele Salvati sul Corriere della Sera (https://www.corriere.it/…/qual-vera-anima-pdil-caso). Secondo Salvati quel che è avvenuto è appunto “un altro segnale di un antico difetto di costruzione del Pd”, che “non è riuscito a creare un senso di comunità, di appartenenza e di identità forte quanto è necessario a consentire la convivenza di inevitabili differenza di opinione. Non è riuscito a creare una identità nuova, di sinistra liberale, e dunque diversa da quella delle forze politiche che confluirono nella formazione del partito: questo era l’auspicio con quale in tanti accompagnammo l’iniziativa di Veltroni” (c’ero e posso confermarlo).
E non c’è riuscito perché le forze contrarie ad un indirizzo di sinistra liberale “sono così ingranate negli equilibri interni del Pd” che prendere quella strada, procedere cioè in direzione di una sinistra liberale, non è possibile. Calenda, sottolinea Salvati, chiedeva infatti molto di più di “un accordo tecnico”: aveva in mente una “alleanza politica” e dunque “scelte che non smentissero in maniera plateale la credibilità di una coalizione politica”. Ma, come il coraggio, una identità di sinistra liberale, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare.
Messe così le cose, Calenda non poteva che imitare Guido Cavalcanti e, con un salto, andarsene. Mi è tornato infatti in mente il salto del poeta Cavalcanti, protagonista di un episodio del Decameron di Boccaccio. Per Italo Calvino, che sceglie l’agile salto improvviso del poeta-filosofo come “un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio”, nulla illustra meglio la sua idea che una necessaria leggerezza deve sapersi iscrivere nella vita e nella letteratura: “Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: – Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace – ;e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò”.
Ma vengo ad un esempio dei nostri giorni. Per l’ala più radicale dei democratici americani, il senatore Joe Manchin del West Virginia è un rinnegato, la quinta colonna dei repubblicani, un mostro anti-ambiente al soldo delle compagnie di carbone, petrolio e gas. Insomma, peggio di Calenda e di Renzi messi insieme.
Si sa che al Senato i democratici e i repubblicani controllano 50 seggi a testa. Certo, la maggioranza ce l’hanno i democratici perché in caso di pareggio può votare anche la vicepresidente Kamala Harris. Ma serve il voto di tutti i senatori del partito, compreso Manchin.
Joe Manchin ha 74 anni, è in carica dal 2010 ed è considerato il più conservatore fra i senatori democratici. Da anni insiste sul fatto che le principali riforme devono essere concordate fra i membri di entrambi i partiti. Ma non è così facile. Gli analisti sottolineano da tempo la “polarizzazione” della politica americana e i due partiti incarnano ormai uno scontro aspro e inconciliabile fra due visioni del mondo incompatibili, che mette in discussione le normali regole democratiche. Lo stesso Trump è solo il sintomo più evidente della frattura profonda che attraversa il paese, che si è ampliata fino a diventare una minaccia per la stabilità democratica che generazioni di americani avevano dato per scontata.
Eppure, come ha sottolineato nei giorni scorsi Fareed Zakaria (https://edition.cnn.com/…/exp-gps-0731-fareeds-take), sembra proprio che, in barba ai media e sfidando l’incredulità degli esperti, Joe Biden stia riuscendo nell’impresa di “governare dal centro”, come aveva promesso in campagna elettorale (e a dire il vero fin dalla competizione tra l’ala “moderata” e quella di “sinistra”, che ha caratterizzato le primarie democratiche e ha segnato la fine, in questa stagione, del tentativo del leader radicale Bernie Sanders di spostare l’asse del partito a sinistra, su posizioni che anche in passato non hanno mai portato alla Casa bianca il partito dell’asinello).
Le prove si stanno accumulando. Il compromesso raggiunto al Senato tra il leader della maggioranza Charles E. Schumer e Joe Manchin è passato (con il sostegno dell’altra pecora nera della famiglia, la senatrice Kyrsten Sinema, fermamente posizionata nell’ala più a destra del partito) ed ora attende il via libera della Camera controllata dai democratici. Si tratta del più grande investimento federale in energia pulita mai realizzato negli Stati Uniti e, allo stesso tempo, del più grande pacchetto di riduzione del disavanzo in un decennio (secondo il Congressional Budget Office ridurrà di deficit di oltre 300 miliardi di dollari in una decina d’anni).
L’accordo si aggiunge al Chips and Science Act, che prevede enormi investimenti nella ricerca di base e nelle tecnologie essenziali (e un investimento senza precedenti per aumentare la produzione di semiconduttori e affrontare le vulnerabilità della catena di approvvigionamento); al primo intervento legislativo bipartisan sul controllo delle armi e al progetto di legge sulle infrastrutture da trilioni di dollari: una delle (mancate) promesse elettorali di Donald Trump.
Non per caso, J. Bradford DeLong, su Project Syndicate, ha parlato di una “estate dell’amore”, sul piano legislativo, per Biden: “Presi insieme questi provvedimenti sono più che sufficienti per capovolgere la narrazione relativa ai primi due anni in carica di Biden. Improvvisamente, i risultati legislativi dell’amministrazione sono passati da ‘deludenti’ a ‘oltre ogni aspettativa’”.
Insomma, Biden sta dimostrando che si può “governare dal centro”. Non come prima, ovviamente. Zakaria ricorda che quando, negli anni ’80 e ’90, il Congresso discuteva grandi progetti di legge bipartisan sulla Social Security, per riformare le tasse, aiutare gli americani con disabilità o ridurre l’inquinamento atmosferico, gli autori dei progetti di legge venivano acclamati dai media e all’interno dei loro stessi partiti. Oggi invece non si fa che ripetere che non bisogna scendere a compromessi; e resistere al “nemico” permette di raccogliere più fondi e guadagnare il sostengo degli elementi più radicali del proprio schieramento.
Infatti, nei primi anni del 2000 un grande sforzo bipartisan per affrontare la riforma dell’immigrazione si è arenato sotto i colpi degli estremisti di entrambe le parti. Il Dream Act, racconta il giornalista americano, era sostenuto da due senatori lontani ideologicamente, che tuttavia erano anche buoni amici: il democratico Edward Kennedy e il repubblicano Orrin G. Hatch. Erano tra i membri più anziani del Senato e incarnavano un vecchio modo di fare politica non più in sintonia con i tempi. La rivoluzione di Gingrich degli anni ’90 ha infatti cambiato il Partito repubblicano e la stessa Washington. E da allora il compromesso è considerato un tradimento.
Cercando di far rivivere quel vecchio modo di far politica e di governare, Biden sta andando controcorrente. Ma sorprendentemente, a piccoli (significativi) passi, sembra riuscirci. Il che rappresenterebbe davvero una rivoluzione in grado di cambiare la struttura degli incentivi e ridurre la tossicità a Washington.
Per i democratici americani c’è, inoltre, un reale spazio di crescita. Perché sono in una posizione migliore dei repubblicani per diventare un grande tent party. Come ha dimostrato uno studio di Brookings, nel 2020 “la vittoria di Biden è arrivata dai sobborghi” e quegli elettori sono verosimilmente più moderati e centristi rispetto alla base democratica. Gli elettori suburbani sembrano essere sempre più distanti dalle posizioni repubblicane su questioni come l’aborto e le armi. E sull’onda del ribaltamento della storica sentenza Roe v. Wade da parte della Corte Suprema, i sondaggi in vista delle elezioni di medio termine che prima favorivano i repubblicani sembrano ora indicare un pareggio.
Ma (e veniamo al punto che riguarda anche noi) essere un grande tent party, un partito pigliatutto, è difficile. Significa avere a che fare anche con persone con cui sei profondamente in disaccordo. Ma, spiega Zakaria, in un paese grande e diversificato con oltre 330 milioni di persone, è l’unico modo per governare. Alcuni dei più grandi successi dei democratici si sono concretizzati con quello spirito. Franklin D. Roosevelt ha rinviato l’intervento sui diritti civili per poter approvare il New Deal. Lyndon B. Johnson ha arruolato il sud segregazionista per sostenere gran parte della sua legislazione sulla Great Society. Bill Clinton dovette governare principalmente con un Congresso controllato dai repubblicani. E anche quando Barack Obama aveva la maggioranza al Congresso, ha scelto di dare la priorità all’assistenza sanitaria universale rispetto a molte altre importanti questioni sociali, incluso il matrimonio tra persone dello stesso sesso. A volte, inoltre, il compromesso può portare a risultati migliori. Ad esempio, spiega il columnist, il disegno di legge sull’immigrazione era un progetto migliore di quello che entrambe le parti avrebbero approvato in modo autonomo perché teneva conto delle preoccupazioni legittime e delle argomentazioni valide di entrambe le parti.
Senza contare che alcuni degli argomenti di Manchin erano fondati: “Sul clima, il suo punto di vista secondo cui non dovremmo porre fine definitivamente all’uso dei combustibili fossili prima di avere abbastanza tecnologie verdi su larga scala per sostituirli può darsi sia un atteggiamento interessato del senatore del West Virginia, ma è anche una lettura accurata di dove ci troviamo oggi”.
Oltretutto, è la sua risolutezza che dovrebbe sorprendere. Non sarebbe male tenere a mente infatti che Manchin rappresenta uno Stato che Trump, nel 2020, ha vinto con circa 40 punti di distacco. Bisogna pensare a Manchin come a una cartina di tornasole, dice Zakaria. Se i democratici sono in grado di tenere Manchin con loro, per definizione stanno costruendo un grande tent party, che potrebbe comprendere la maggioranza degli americani.
Del resto, anche il Pd di casa nostra nasce (ricordate?) sul presupposto che il centrosinistra, anziché limitarsi unicamente ad allargare l’alleanza mettendo insieme sigle e partiti, doveva puntare a conquistare nuovi elettori ed ampliare l’area del radicamento, scommettendo sul fatto che le propensioni degli elettori potevano mutare. Ma siamo sempre lì: per conquistare nuovi elettori bisogna cambiare. E oggi quel che occorre non è il ritorno alle antiche certezze, ma il dichiarato superamento di vecchi atteggiamenti e vecchie posizioni.
Se i democratici di casa nostra non sono in grado di tenere con loro neppure Calenda e Renzi, come possono costruire una big tent aperta alla maggioranza degli italiani? Se si vuole governare, si governa dal centro. Non dalle posizioni della Squad di Ocasio-Cortez. Il che significa che con i “mostri” – come Manchin, come Sinema, come Renzi, come Calenda – bisogna fare i conti. Perché senza i mostri non c’è nessuna big tent, c’è la vecchia sinistra di sempre. E che ciascuno vada per la propria strada è inevitabile.
Buon Ferragosto!
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Il fascio
Non c’è alcun “regime” alle porte, ma questo non significa che siano serrate ai pericoli. La ragione per cui Giorgia Meloni ha dovuto registrare un messaggio multilingua, per esporre il minimo della civiltà, ovvero di non essere fascista e di non essere antisemita, non si trova solo nel passato, ma anche nel presente delle sue frequentazioni europee, fra le quali ci sono autoritarismo antidemocratico e antisemitismo. Quella roba non le appartiene, e speriamo non appartenga a nessuno dei dirigenti di Fratelli d’Italia, mentre farebbero bene ad allontanare da sé quelli di cui non si può dire altrettanto. Meloni e i suoi sono democratici, nel senso che hanno vissuto e accettato le regole della democrazia, e ripugnano loro le leggi razziali, non da oggi, ma da quando lo insegnò loro il capo di allora: Gianfranco Fini.
Ma la faccenda non si chiude qui. Intanto perché si può non condividere nulla di quel che uno dice, senza sentire il bisogno di dargli del dittatore, come destra e sinistra hanno ripetutamente fatto, dimostrando povertà di idee.
Inoltre, nel secolo scorso, due fetidi fratelli ammorbarono la storia: il fascismo e il comunismo. Figli dello stesso padre mistico e della stessa madre baldracca. Si mossero il direzioni opposte, ma più per ragioni geopolitiche che ideali e, del resto, nello spartirsi la Polonia furono alleati. L’Italia visse il nazifascismo e siccome quella roba è stata sepolta dall’esito della guerra, abbiamo avuto i nostalgici, fra i quali soggetti che si ritenevano patrioti perché avevano combattuto fra i repubblichini. Non abbiamo avuto il comunismo, in compenso abbiamo avuto tanti comunisti. Non potevano essere nostalgici, ma erano ammiratori, legati e finanziati da una dittatura. Chiunque abbia seguito queste due scuole non ha ragioni d’esserne orgoglioso. Anzi. Ma abbiamo vinto noi, ha vinto l’Occidente, ha vinto la libertà e ha saputo moltiplicare la ricchezza come mai s’era prima visto. Ad oggi non vi è pericolo che il fascismo o il comunismo s’affermino altro che fra gli svalvolati.
Epperò attenti, perché i figli del mistico e della baldracca ci hanno lasciati, ma la geopolitica è rimasta lì. Che è la ragione per cui resta un legame fra chi punta a consolidare i dispotismi e chi punta a demolire le democrazie. Se parte da Mosca non ha alcun bisogno di colorarsi di rosso (leggete Da Empoli e Jangfeldt) e s’acconcia benissimo a colorarsi di verde, di bruno e di nero. Mentre il persistente filone mistico non ha bisogno di colorarsi di nero per sostenere che il mercato e i mercanti commerciano l’anima e la fede di un popolo, può benissimo indossare il rosso, ma anche il giallo.
Quindi ha ragione Meloni ad avere sentito il bisogno di aggiungere la condanna della criminale aggressione russa all’Ucraina e la condivisione delle scelte dell’Occidente, che sostiene e arma gli aggrediti. Ma è qui che il fascio riemerge, perché per vincere si tiene vicino chi è l’espressione dell’opposto. E non sono quattro righe di occidentalismo rituale a cancellare l’inno a Putin cantato sotto il Cremlino, invocandolo quale guida con cui sostituire il nostro mondo democratico. Come non cancellano il mese di silenzio prima di far conoscere il disappunto per una guerra che aveva già mietuto migliaia di vite innocenti e mandato al massacro migliaia di soldati ignoranti.
E il fascio si ritrova pari pari dall’altra parte. Nello schieramento che vede avvinti il ministro della Difesa e chi vota contro la Nato. Può sembrare loro una furbata tattica, invece è una porcheria strategica. Perché dopo il 25 arriva il 26 settembre e chi pensa di potere governare in virtù del fatto che avendo preso un voto in più degli altri affasciati otterrà la loro obbedienza non si sa se s’illude o prova a illudere.
I conti pubblici sono l’altra faccia della collocazione internazionale, non a caso essendoci, in un fascio e nell’altro, chi voleva uscire dall’euro. Ancora una volta, dal 26 settembre, i ragionevoli saranno divisi. Ed è la più grande colpa di questo mondo politico.
La Ragione
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Etiopia Testimonianza del massacro di Mai Kadra – Tigray [VIDEO]
Il massacro di Mai Kadra, città del Tigray, stato regionale settentrionale dell’Etiopia, è stata scenario del massacro di centinaia di civili ad inizio novembre 2020.
Il massacro è stato uno dei primi atti criminosi inseriti nel contesto della guerra scoppiata in Tigray il 4 novembre.
Guerra dai risvolti etnici e genocidi sull popolo tigrino.
Il conflitto è stato confutato con molteplici report di aver prodotto e dutilizzato come armi di guerra fame indotta da scelte politiche, blocco degli aiuti umanitari, distruzione dell’80% degli ospedali tigrini, abusi e stupri su centinaia di migliaia di donne di ogni età di etnia tigrina, deportazioni, arresti di massa e detenzioni illegali (ancora oggi in atto in alcuni campi di detenzione forzata nella regione Afar) su persone di origine tigrina…
La guerra è stata svolta in totale confinamento della regione del Tigray come strategia ben precisa, nel totale blackout elettrico e delle telecomunicazioni. Alcuno poteva entrare o uscire. Giornalisti e media indipendenti non sono potuti accedere per poter documentare a caldo cosa stava accadendo.
Ci sono voluti dei mesi perché riuscissero a trapelare le prime testimonianze, indiscrezioni. Dopo più di venti mesi giunge un video in cui si può ascoltare la testimonianza di una persona, un uomo che racconta quello che ha vissuto durante il massacro di May Cadera, un massacro, appunto per il contesto in cui è inserito, ancora controverso e con punti da approfondire. Questo video, le parole di Atsbeha Embaye (ኣፅብሃ እምባዬ) possono essere spunto di indagine e di approfondimento da quelle realtà, come HRW o Amnesty International, demandate per far luce in tutela del diritto umanitario e degli individui.
Di seguito la traduzione dal tigrino (lla lingua nazionale è l’amarico) in italiano.
Atsbeha Embaye (ኣፅብሃ እምባዬ) il testimone racconta che il massacro è avvenuto il 1 novembre 2020 (ben diversi giorni prima da quanto riportato nei report da Amnesty Int. e HRW come narrativa ufficiale)
Ho assisto al massacro spietato dei miei fratelli e miei vicini di casa con macete e spacca legna manuale (“fas” come spacca legna).I miei fratelli e i miei vicini erano: (…qui la persona per quasi tutto il video elenca con nome e cognome uno ad uno tutte le vittime da lui ricordate)
Questo è il massacro avvenuto a Maikadra. Molti sono stati lasciati e sono stati mangiati da vermi (“fhlo”).
Giornalista: quante saranno le vittime?
Il testimone continua:
Saranno 695 e questi sono quelli che ho visto con i miei occhi.Ci sono zone (in cui lui non ha assistito direttamente) dove molte persone sono state massacrate e ferite. Mi ricordo di una donna che l’hanno portata via in 8/10 e hanno abusato di lei per tutta la notte ed era la figlia di (nome).
Anche dopo hanno continuato ad uccidere, compresi gli animali, e distruggere ogni cosa.
Sono venuti da Gojiam, Gonder e altre zone e hanno saccheggiato tutto compreso i nostri raccolti.
Ho visto rubare 8 macchine di proprietà di (nome). In tutto questo la gente ha iniziato a scappare via, molti sono fuggiti verso il Sudan e questo ha spinto loro (milizia amhara – Fano) a depredare maggiormente.
L’intervista si chiude con la sua presentazione (nome e cognome) e con i ringraziamenti reciproci.
Approfondimenti:
- Amnesty Interantional: amnesty.org/en/latest/news/202…
- HRW – Human Rights Watch: hrw.org/news/2022/04/06/crimes…
- Report congiunto di Amnesty e HRW sulle attività di pulizia etnica nel Tigray occidentale( Welkait, rivendicato dal governo Amhara giurisdizionalmente e storicamente di sua proprietà – punto ancora controverso e inserito come precondizione non negoziabile sul piano dei negoziati di pace da parte del governo del Tigray): tommasin.org/blog/2022-04-06/e…
youtube.com/embed/QxluinPhIHg?…
USA: come vengono classificati i documenti governativi
I documenti richiesti dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti all’ex presidente Donald Trump potrebbero contenere materiale relativo a quelli che il New York Times ha descritto come “alcuni dei programmi più altamente classificati gestiti dagli Stati Uniti”. Il Washington Post ha riferito che “documenti riservati relativi alle armi nucleari erano tra gli oggetti cercati [...]
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Il pericolo è il falso
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Letture Libertarie
Visto che sempre più persone mi chiedono consigli su libri e articoli da leggere, ho deciso di creare una lista che poi magari aggiornerò anche nel corso del tempo, divisa per autori. Per ogni libro o articolo cercherò di dare una breve descrizione, per rendervi più facile la scelta!
La lista sarà aggiornata periodicamente, ogni tanto date un occhio.
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Libri
La libertà dei libertari, a cura di Roberta A. Modugno Crocetta
Ho scoperto questo libro casualmente e da poco tempo, ma lo metto per primo perché ritengo faccia un ottimo lavoro nello spiegare in modo sintetico la filosofia politica libertaria, attraverso un’ottima introduzione. La Libertà dei Libertari è un’antologia di Murray N. Rothbard che propone cinque saggi dell’autore, tradotti da Roberta A. Modugno Crocetta: Come smantellare il socialismo, Società senza Stato, La fallacia del settore pubblico, Capitalismo contro Statalismo, Protezionismo e distruzione della prosperità.
Anatomy of the State, Murray N. Rothbard
Un libretto incredibile, in cui in sole 60 pagine Rothbard crea una vera e propria anatomia dello Stato, come se fosse un essere vivente (un parassita?). Rothbard spiega in modo semplice i meccanismi con cui uno Stato nasce e preserva se stesso dalle minacce (il pensiero critico). Un saggio unico nel suo genere di cui non si può fare a meno. Indubbiamente vi darà molti spunti di riflessione, soprattutto data l’esperienza degli ultimi due anni.
Ethics of Liberty, Murray N. Rothbard
Ethics of Liberty è filosofia ed etica libertaria in purezza. Un saggio radicale che fornisce al lettore tutti gli strumenti necessari per capire davvero in cosa consiste l’anarco-capitalismo, partendo dalle basi: il giusnaturalismo (l’esistenza di diritti naturali) e la proprietà. Ogni uomo possiede se stesso, la sua mente, e il frutto del suo lavoro. Questo è l’assioma principale da cui si sviluppa tutta la filosofia libertaria di Rothbard. Lo Stato non è altro che un soggetto violento che possiede il monopolio di aggredire la proprietà (e quindi la libertà) delle persone. Libro complesso da leggere ma fondamentale per comprendere la filosofia ANCAP.
The Progressive Era, Murray N. Rothbard
Un libro che Rothbard iniziò a scrivere nel 1970 ma che non riuscì a finire prima della sua morte. Un discreto mattone che però contiene al suo interno la storia della nascita dei movimenti progressisti che tra il 1820 e i primi anni del ‘900 portarono l’America a scegliere il “terzo polo” tra il libero mercato e laissez-faire che caratterizzò tutto il diciottesimo secolo e il marxismo che dilagava in europa alla fine del 1800. Incredibilmente interessante il capitolo sulla nascita del welfare universale di stato, come strumento religioso usato dai protestanti progressisti per creare la società “perfetta”, quello che portò poi al New Deal e alla trasformazione dell’America verso il connubio welfare-warfare.
Atlas Shrugged, Ayn Rand
Non un saggio ma un romanzo. Anzi, no: un saggio sulla natura umana, sulla metafisica e sull’etica sotto forma di romanzo. A mio avviso l’opera più incredibile del ventesimo secolo. Un mattone di più di 1000 pagine densissime di concetti profondi. Ogni riga del libro, ogni dialogo, ogni dettaglio della narrazione sono pezzetti che vanno a comporre un enorme puzzle che descrive perfettamente l’immoralità di qualsiasi forma di collettivismo e il modo in cui il collettivismo sopprime l’animo umano, prima ancora dell’economia e della civiltà.
Atlas Shrugged è un libro che dà molto fastidio ai collettivisti di ogni tipo e che ammalia individualisti e libertari. È la prova del nove per gli indecisi. In ogni caso, una reazione forte, positiva o negativa che sia, è assicurata. Mises e Rotbhard scrissero due lettere ad Ayn Rand dopo aver letto il libro, elogiando l’opera e definendola tra i migliori libri mai scritti al mondo.
The Virtue of Selfishness, Ayn Rand
La virtù dell’egoismo. Ayn Rand ribalta completamente i canoni morali moderni, che vedono l’altruismo (inteso come sacrificio personale a favore del bene comune) come valore morale superiore. Una collezione di articoli pubblicati originariamente nella “Objectivist newsletter” in cui Ayn sviluppa un nuovo significato di egoismo, diverso da quello a cui siamo abituati: la ricerca della propria felicità, senza sacrificare se stessi o il prossimo. Per Rand questo è l’unico valore morale possibile, poiché un essere umano che non ricerca la propria felicità e il proprio interesse è condannato ad autodistruggersi. L’egoismo randiamo si collega all’idea di ricerca della Verità - la propria verità - senza alcun compromesso e soprattutto senza mai mentire a se stessi. Troppe volte ci troviamo a pensare o agire sulla base di presupposti che non condividiamo, mentendo a noi stessi pur di accettare il sacrificio che ciò richiede. Un tema, quello dell’egoismo etico randiano e della ricerca della verità, ricorrente anche in Atlas Shrugged.
For the New Intellectual, Ayn Rand
Un vero e proprio manifesto dei nuovi intellettuali oggettivisti, il primo libro non-fiction di Ayn Rand. È una raccolta di estratti di romanzi di Rand con una corposa introduzione che li lega tra loro. Il Nuovo Intellettuale è il pensatore pratico e l’imprenditore filosofo. È qualsiasi persona stanca degli standard culturali collettivisti a cui siamo costretti a conformarci; qualsiasi persona disposta a prendersi la responsabilità della propria vita e delle proprie azioni. Dei Nuovi Intellettuali ne ho parlato in modo più approfondito in questo articolo, con alcuni estratti interessanti presi proprio da questo libro.
Objectivism in One Lesson, Andrew Bernstein
L’oggettivismo è una corrente filosofica nata dal pensiero di Ayn Rand. Tutti i suoi scritti, sia romanzi che saggi e articoli, contengono principi e idee che vanno a formare la sua filosofia. L’oggettivismo è un sistema di valori, un’etica per persone libere stanche degli standard culturali collettivisti e falsi a cui siamo costretti a conformarci. Il pensiero di Ayn Rand fornisce tutti gli elementi di etica e metafisica per affrontare il mondo in modo razionale e perseguire l’unico obiettivo possibile della vita umana: la propria felicità.
Rand descriveva l’oggettivismo come il concetto dell’Uomo come un essere eroico, con la ricerca della propria felicità come unico valore morale, la produttività come la più nobile delle attività, e la ragione come sua unica certezza assoluta. Ayn amava l’america dei padri fondatori e i principi espressi nella Dichiarazione d’Indipendenza: Life, Liberty, Pursuit of Happiness. L’oggettivismo ha tutte le carte in regola per essere il fondamento morale della filosofia politica libertaria.
The Road to Serfdom, Friedrich Hayek
Nel 1943 Hayek finiva di scrivere Road to Serfdom, un libro che molto lucidamente mette in luce i meccanismi statalisti, anche subdoli, che attraverso la pianificazione e l’ingerenza dello stato nell’economia e nella società, portano inevitabilmente alla nascita di regimi collettivisti totalitari come fascismo e nazismo.
Hayek non era un libertario, ma un liberale classico che non condannava in tutto l’esistenza dello Stato. Nonostante questo è chiaro anche nella sua visione che l’abbandono dell’individualismo e del libero mercato genera mostri. Particolarmente interessante la parte in cui parla della percezione di sicurezza economica da parte delle persone e il modo in cui questa viene utilizzata dai pianificatori centrali per creare una spirale che porta le persone stesse a chiedere sempre più controllo e pianificazione.
Democracy: the God that failed, Hans-Herman Hoppe
Premessa: non ho ancora finito di leggerlo. Lo metto comunque perché Hoppe è un campione libertario, allievo di Rothbard e per molti versi ancora più radicale. In questo saggio incredibile mette in discussione - partendo da dati empirici e dimostrabili - la bontà dei sistemi democratici a cui siamo tanto affezionati. La democrazia, sostiene Hoppe, non solo è il sistema di governance meno efficiente della storia umana, ma è anche il più pericoloso per la libertà delle persone. Secondo lui, i sistemi monarchici sono migliori sotto diversi punti di vista, seppur comunque non perfetti (il male minore). Nelle sue parole: la democrazia è una forma lieve di comunismo. La soluzione che Hoppe propone per riparare le storture della democrazia è secessione, decentralizzazione del potere e completa libertà negoziale tra le persone. Una soluzione che sicuramente piacerà a molti Bitcoiner e che in verità è l’assioma della filosofia libertaria: il passaggio dallo statalismo totalitario all’anarco-capitalismo non può che essere attraverso la secessione e la libertà di autodeterminazione dei popoli e degli individui.
Articoli e temi libertari
Argumentation Ethics, Hans-Hermann Hoppe
Con la sua “argumentation ethics” Hoppe fornisce a ogni libertario gli strumenti razionali per difendere i principali assiomi della filosofia anarco-capitalista, quello del “non aggression principle” e della proprietà di se stessi e (quindi) del proprio lavoro. Il concetto, nei suoi punti principali è abbastanza semplice: quando due soggetti sono in conflitto tra loro, possono risolverlo solo in due modi. Con la violenza o con il confronto onesto. Nel caso in cui scelgano il confronto, Hoppe sostiene che le parti devono aver prima implicitamente accettato l’esistenza dell’assioma di non aggressione. La non violenza è quindi il presupposto di qualsiasi confronto umano. Chiunque suggerisca il contrario sta commettendo una grave contraddizione logica, e come disse anche Ayn Rand, non esistono contraddizioni. Se sei di fronte a una contraddizione, è perché le tue premesse logiche sono errate.
Ad esempio, argomentare che bisognerebbe usare la violenza per risolvere i conflitti è una contraddizione. Non può esserci alcuna argomentazione se infatti prima non si accetta il principio di non-violenza.
Lo stesso può dirsi per la proprietà privata come nucleo fondante di qualsiasi altro diritto. Nessuno può argomentare che la proprietà non sia tale, poiché l’atto stesso di argomentare richiede di disporre di risorse scarse (il proprio corpo, il proprio intelletto). Nessuno può al tempo stesso mettere in dubbio la necessità della proprietà privata per definire la realtà e la capacità di agire e la libertà delle persone senza cadere in contraddizione.
Il tema è complesso e certamente non sono riuscito a fargli giustizia, quindi vi lascio qualche articolo:
- Liberty Symposium
- Argumentation Ethics and Liberty: a concise guide
- Argumentation Ethics (www.hanshoppe.com)
Secessione, decentralizzazione del potere
La decentralizzazione del potere e la libertà di autodeterminazione delle persone è uno dei temi principali della filosofia libertaria, anche se forse tra i meno affrontati. Noi europei avremmo molto da imparare dalla nostra storia, considerando che le nostre città-stato e repubbliche marinare furono emblemi di libertà commerciale e benessere.
Ci sono diversi articoli molto interessanti sul tema, uno su tutti quello di Carlo Lottieri che consiglio caldamente:
Anche Rothbard si cimentò sul tema in diverse occasioni, ad esempio in questo bellissimo articolo in cui ripercorre anche un po’ di storia europea, che noi molto spesso dimentichiamo:
Infine sul tema propongo questa breve intervista a Hoppe, in cui parla delle posizioni di Mises in merito al diritto di secessione e libertà di autodeterminazione.
Sicurezza privata vs sicurezza di stato
Un tema ricorrente, secondo solo a quello del “chi costruirebbe le strade senza stato”, è quello della sicurezza delle persone e della loro incolumità fisica. In questo breve saggio Hoppe dimostra sapientemente che non solo è possibile sostituire la sicurezza statale con la sicurezza privata, ma che anzi quest’ultima sarebbe anche evidentemente più efficiente e meno prona ad abusi.
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USA: Trump, il resiliente
I problemi giudiziari di Donald Trump continuano a occupare il centro della scena politica statunitense. Le audizioni della Commissione d’inchiesta del Congresso sui Capitol riots, il perdurare delle indagini aperte a New York sulla presunta frode fiscale a carico della Trump Organziation e, da ultimo, la perquisizione della residenza di Trump a Mar-a-Lago sono tutti [...]
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Sudan: svolta o impasse?
L'alta posta in gioco della profonda crisi esistenziale del Sudan, rende molto più difficile rompere l'impasse
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Ucraina: l’importanza strategica dell’Isola dei Serpenti nel passato e nel presente
Il 24 febbraio 2022, il primo giorno dell’invasione russa dell’Ucraina, le truppe russe hanno occupato l’Isola dei Serpenti, una posizione piccola ma strategicamente importante nel Mar Nero a circa 140 km a sud di Odessa. I 13 soldati ucraini di stanza lì hanno coraggiosamente respinto due volte gli attacchi russi, ma non hanno potuto continuare [...]
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Stati Uniti e Cina si contendono l’influenza nell’Indo-Pacifico
Il lancio da parte dell’amministrazione Biden dei negoziati Indo-Pacific Economic Framework (IPEF) segnala un rinnovato impegno economico degli Stati Uniti nella regione. Il nuovo quadro integrerà l’attenzione americana sulla sicurezza e cercherà di ristabilire un ruolo guida degli Stati Uniti nella definizione delle regole commerciali. Annunciati durante il viaggio del Presidente Joe Biden in Asia [...]
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‘Liberi di non essere poveri’: l’ingaggio sociale di 100 imprese
‘Liberi di non essere poveri’ è una affermazione che rinforza il concetto di libertà collegandolo al concetto, altrettanto positivo, di non essere poveri. Non si puo’ essere liberi se si è costretti, da scelte altrui o dal contesto,alla povertà. Non stiamo parlando della povertà evangelica, ma della povertà materiale, oggettiva e soggettiva. In nome della [...]
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Covid-19, sono state pubblicate le indicazioni operative per i servizi educativi e per le scuole dell’infanzia.
Il documento fa seguito a quello dedicato alle scuole del primo e del secondo ciclo di istruzione.
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Ungheria: Orban e le ambizioni ‘alla Putin’
Quando il Primo Ministro Victor Orban ha recentemente espresso la sua visione delle frontiere dell’Ungheria, si è unito a un club di leader espansionisti come Vladimir Putin in Russia, Xi Jinping in Cina e membri dell’élite del potere indiano che definiscono i confini dei loro Paesi in termini di civiltà piuttosto che nazionali. Parlando sul [...]
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Taiwan: la Cina rischia passi falsi strategici
Il viaggio di Pelosi è stato usato come pretesto necessario da Pechino per avviare le più grandi azioni strategiche e bellicose per forzare le mani di Taiwan con minacce e deterrenza più aspre. Le feroci risposte hanno lo scopo di intimidire e fornire minacce dirette e tattiche coercitive per costringere Taipei ad affrontare la dura [...]
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Ucraina: ONU suona l’allarme e la Russia intensifica gli attacchi
Dopo che Ucraina e Russia si sono accusate vicendevolmente di bombardare la centrale nucleare di Zaporizhzhia, l’ONU lancia un appello per demilitarizzare l’area. E Putin aumenta i bombardamenti.
Borsa: canapa, USA e Canada in ripresa
Le due principali piazze borsistiche mondiali nel settore della produzione, trattamento e commercializzazione della canapa, ovvero Canada e USA, questa settimana chiudono entrambe con valori positivi, in modo più marcatamente chiaro nel caso della borsa canadese. Dopo settimane altalenanti e depresse, dovute alla congiuntura determinata dalla guerra in Ucraina e per il prolungato periodo post [...]
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È tempo di negoziare con i ‘terroristi’ in Somalia
L'Amministrazione Biden dovrebbe fare affidamento sulla diplomazia per aiutare a risolvere il conflitto. La costruzione della pace sarà un affare multilaterale
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Ombre russe sull’Agenzia Ebraica
La richiesta del Ministero della Giustizia russo di sciogliere la filiale russa dell'Agenzia ebraica per Israele non fermerà l'emigrazione ebraica dalla Russia
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Meloni evoca il blocco navale e la tolleranza zero ma è solo eccitazione elettorale
Pugno di ferro di Israele e crollo dell’Anp di Abu Mazen. La Cisgiordania in fiamme
di Michele Giorgio –
(nella foto da twitter Ibrahim Nabulsi)
Pagine Esteri, 12 agosto 2022 – Martedì, mentre nella notte una calma carica di tensione regnava lungo le linee tra Israele e Gaza, l’esercito israeliano di fatto trasformava Ibrahim Nabulsi, 26 anni, in un eroe nazionale palestinese. Quando le unità scelte dell’esercito hanno circondato il suo rifugio nella casbah di Nablus, in Cisgiordania, il giovane palestinese, ricercato da Israele, ha scelto di non arrendersi. Ha resistito, risposto al fuoco, poi ha compreso che per lui era finita. Prima di essere ucciso, è riuscito a registrare un messaggio vocale su WhatsApp e l’ha inviato alla madre, per salutarla e per spiegare la sua decisione di morire da martire e di non arrendersi. L’audio ha girato girava su tutta la rete. Quindi ha esortato i suoi compagni di lotta a resistere all’occupazione. Pochi secondi dopo i militari israeliani hanno lanciato un razzo contro l’edificio in cui si era barricato. L’esplosione ha ucciso tutti quelli che erano all’interno. Oltre a Nabulsi, sono morti altri due palestinesi, Islam Sabbouh, e un adolescente di 17 anni. Intanto sale il bilancio dei palestinesi uccisi nei giorni scorsi dai bombardamenti a Gaza è salito a 49.
Nabulsi, considerato dagli israeliani un «pericoloso terrorista», in poche ore è diventato una figura leggendaria. Sui social e i giornali palestinesi hanno ricordato le tante volte in cui era sfuggito alla cattura da parte dell’intelligence israeliana – l’ultima due settimane fa – usando rifugi diversi e gallerie sotterranee. Proprio come fece il leader palestinese Yasser Arafat nel 1967 nelle settimane successive all’occupazione israeliana della Cisgiordania prima di rifugiarsi in Giordania. E quasi trent’anni dopo un’altra primula rossa, Ahmad Tabouk, noto come il «Robin Hood» della casbah di Nablus, ricercato dagli israeliani e anche dai servizi palestinesi. Tabouk da un lato combatteva l’occupazione e dall’altro estorceva denaro alla borghesia ricca della città per distribuirlo alle famiglie povere di Nablus. Arrestato dall’Anp e riabilitato come agente di polizia, fu ucciso dall’esercito israeliano durante la seconda Intifada.
Nabulsi non è un simbolo unificante per i palestinesi come la giornalista Shireen Abu Akleh, uccisa a Jenin lo scorso maggio – ora una strada di Ramallah porta il suo nome -, ma la sua figura mette d’accordo un po tutti. Non era del movimento islamico Hamas, non faceva parte di Fatah anche se per qualche tempo aveva militato nelle Brigate di Al Aqsa, l’ala armata del partito del presidente Abu Mazen. Di fatto collaborava con tutti e anche ciò ne aveva fatto un punto di riferimento per tanti giovani a Nablus e Jenin. «In Israele cambiano i governi ma non le politiche nei confronti dei palestinesi – commenta Nasser Abul Hadi, un giornalista cisgiordano – (Israele) usa solo la forza, non analizza i cambiamenti che avvengono nella società palestinese, sul terreno, e non bada alle conseguenze dell’occupazione militare che dura da 55 anni». I proiettili che sparano i soldati, aggiunge, «stanno creando nuovi eroi per milioni di persone stanche dell’occupazione. I giovani palestinesi non accettano di vivere in queste condizioni e non pochi fra loro si uniscono alle organizzazioni armate, specie nei campi profughi di Jenin e Nablus». Quest’anno non meno di 1.720 persone sono state arrestate, sia palestinesi che cittadini arabi di Israele. Sessantasei palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania da gennaio a giugno, rispetto agli 81 dell’intero 2021. La scorsa primavera, in attacchi armati palestinesi, 19 persone a Tel Aviv e altre città.
Sulla stampa in lingua ebraica, o parte di essa, non manca chi sottolinea che qualcosa di rilevante sta avvenendo in Cisgiordania. E non dipende solo dalla crescente influenza di Hamas in quel territorio. La leadership dell’Anp di Abu Mazen sta progressivamente perdendo il controllo. A dimostrarlo sono proprio i continui raid israeliani anche nelle aree A (il 14% della Cisgiordania) che ufficialmente ricadono sotto la piena autorità del governo palestinese. Il quotidiano Haaretz in un articolo di qualche giorno fa lasciava intendere che Tel Aviv non crede più alle possibilità dell’Anp di svolgere azioni di «antiterrorismo». Perciò preferisce lanciare raid in Cisgiordania, scontrandosi spesso con i combattenti palestinesi ed effettuando decine di arresti ogni settimana. Secondo Haaretz, le previsioni fatte dal governo israeliano su cosa accadrà il giorno dopo la morte di Abu Mazen sono già superate: il cambiamento in Cisgiordania è già avvenuto mentre l’anziano rais è ancora al potere. Pagine Esteri
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La fame in Sri Lanka: una catastrofe che ci riguarda
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 8 agosto 2022 – I distributori di carburante sono chiusi, le case e gli uffici restano al buio per molte ore al giorno. Nella capitale Colombo, fuori dalle farmacie i pazienti depennano dalla lista della spesa i farmaci ai quali possono rinunciare, per ognuno di quelli salvavita tirano un sospiro pensando al riso o al latte che per alcuni giorni non potranno permettersi. Tre persone su quattro, ogni giorno, sono costrette a saltare un pasto. Lo Sri Lanka è affondato in una disastrosa crisi economica, la peggiore dal 1948, anno della sua indipendenza.
Il debito estero ammonta a oltre 51 miliardi di dollari e lo Sri Lanka ha dovuto dichiarare il fallimento: le sue riserve di valuta estera sono esaurite. Lontano dai riflettori internazionali, un Paese di 22 milioni di abitanti, con una popolazione istruita e con un reddito pro-capite tra i più alti dell’Asia meridionale, è scivolato nella catastrofe, fino a dover dichiarare la bancarotta. L’Onu chiede “immediata attenzione globale” per la crisi economica del Paese.
I tre mesi neri dello Sri Lanka – La catabasi dello Sri Lanka è stata lenta e inesorabile. Il debito che cresceva, le coltivazioni che non producevano più a sufficienza beni di sussistenza, il carburante che scarseggiava insieme a tutti gli altri prodotti di importazione che il Paese non poteva più permettersi: negli ultimi tre mesi, la situazione è precipitata.
In notti concitate di telefonate e riunioni segrete, nel mese di aprile il gabinetto del premier Rajapaksa si è rapidamente svuotato. A dimettersi anche il governatore della banca centrale, da settimane impegnato a rifiutare le proposte di aiuti da parte del Fondo Monetario Internazionale. All’ennesima dimissione, quella del nuovo ministro delle finanze, nominato solo ventiquattro ore prima, è stato dichiarato lo stato di emergenza. Sono seguite settimane di proteste, i cittadini affamati raccolti nelle strade chiedevano pane, carburante e un nuovo governo: la polizia rispondeva con una repressione sempre più violenta, uccidendo almeno dieci manifestanti e ferendone centinaia. L’ordine era – e rimane – quello di sparare a vista contro “chiunque costituisca un pericolo”.
A inizio maggio è intervenuta l’Onu, allarmata dalla “crisi umanitaria” nel Paese, con il 75% della popolazione ridotta alla fame. Il 9 maggio, il primo ministro Mahinda Rajapaksa si è dimesso da primo ministro ed fuggito a Singapore. A luglio, anche il Presidente dello Sri Lanka, Gotabaya Rajapaksa, fratello dell’ex primo ministro, ha rassegnato le sue dimissioni ed è fuggito alle Maldive. Il palazzo presidenziale è stato preso d’assalto dai manifestanti, che si sono fatti immortalare mentre si tuffavano nelle sue piscine e mettevano a ferro e fuoco le sue camere da letto. Gli è succeduto un veterano della politica di Colombo, Ranil Wickremesinghe.
Il vecchio e il nuovo – Per decenni, lo Sri Lanka è stato amministrato da un governo ultranazionalista a conduzione familiare. Una vera dinastia, quella dei Rajapaksa, che ha controllato il Paese dal 2004. Mahinda Rajapaksa è stato Primo ministro nel 2004, poi Presidente per dieci anni, poi di nuovo Primo ministro dal 2018 al 2022. Suo fratello Gotabaya lo ha affiancato come Ministro della Difesa per un decennio e dal 2019 è stato Presidente. Due altri fratelli della famiglia Rajapaksa hanno ricoperto posizioni di potere nello stesso ventennio. Durante la guerra civile, i Rajapaksa furono accusati di crimini di guerra e contro l’umanità a causa della violentissima repressione di cui furono autori contro la formazione ribelle delle Tigri Tamil. Su di loro, anche dopo la riappacificazione del Paese, continuarono ad allungarsi le ombre delle accuse di corruzione e di omicidi e sparizioni di oppositori politici, attivisti e giornalisti. Il soprannome di Gotabaya divenne “terminator”.
Dopo quasi diciott’anni al potere, a luglio la famiglia Rajapaksa è stata costretta ad abbandonare il Paese. Il popolo in rivolta accusava il governo di essere il responsabile della catastrofe dello Sri Lanka, a causa della corruzione e delle politiche economiche e agricole dei Rajapaksa di questi anni.
I nuovi volti al governo non sono, però, molto incoraggianti. Il nuovo Presidente, Ranil Wickremesinghe, non è certo un neofita: veterano dell’estrema destra, per sei volte primo ministro, protagonista della guerra civile e delle violenze contro i ribelli Tamil. Una storia molto familiare, per la popolazione. Fresco di nomina, come da tradizione Rajapaksa, ha scelto un suo vecchio amico come primo ministro, Dinesh Gunawardena, un fedelissimo del vecchio governo. Ha poi confermato lo stato di emergenza nel Paese: l’esercito è stato mandato nelle strade a reprimere nel sangue qualsiasi tentativo di protesta. Sul Paese è calato definitivamente il buio.
Le cause di una tragedia annunciata – I fratelli Rajapaksa sono considerati i prinicipali responsabili della crisi economica del Paese. La dinastia al potere ha accumulato debiti esteri, principalmente con Cina e India. Circa il 10 per cento del debito estero locale dello Sri Lanka è detenuto da Pechino, un creditore non certo affabile, che negli anni ha moltiplicato i suoi interessi e che adesso pretende risarcimenti immediati. Che Colombo non può certo offrire, dal momento che, dopo aver contratto la metà dei suoi debiti vendendo titoli di stato in valuta estera, se n’è trovato completamente sprovvisto. A inizio anno, degli oltre 51 miliardi di dollari che doveva restituire ai suoi creditori, le casse dello Sri Lanka ne possedevano a malapena uno.
Nelle mani dei Rajapaksa, tutto sembrava possibile in nome della liberalizzazione del mercato e dei fondi provenienti dai Paesi più ricchi: ai loro conoscenti venivano garantiti appalti per infrastrutture finanziate a suon di debiti. Adesso molte di loro sono ancora cantieri aperti, cattedrali a cielo aperto in un Paese alla fame.
Tra le cause della crisi, c’è poi la guerra russo-ucraina, che ha messo in crisi i Paesi ricchi ma ha completamente prostrato i Paesi a medio e basso reddito, che ancora stavano facendo i conti con le conseguenze della pandemia e addirittura della crisi economica del 2008. In Sri Lanka, l’emergenza da Covid19 aveva già determinato un danno disastroso all’economia, con un taglio netto a uno dei suoi settori principali, il turismo. La scarsità di materie prime, nel mercato di Colombo ormai completamente dipendente dalle importazioni, ha spinto le banche a contrarre nuovi vincoli con i suoi creditori.
La crisi dello Sri Lanka è, però, anche una crisi agro-alimentare, che affonda le sue radici ancora una volta nelle scelte dell’ex governo di Colombo ma che riguarda anche le nostre tavole, principalmente quelle dei ceti abbienti dell’Occidente democratico. Secondo molti studiosi, a rovinare irrimediabilmente il Paese è stata l’agricoltura biologica.
L’agricoltura biologica che affama i poveri – “Un’applicazione generalizzata del «bio» condannerebbe alla fame la maggioranza dell’umanità”, scriveva qualche settimana fa il giornalista Federico Rampini sulle pagine del Corriere, a proposito di quello che definiva “un piccolo, sporco segreto” della crisi dello Sri Lanka.
Nell’aprile del 2021, all’improvviso, letteralmente dalla sera alla mattina, il governo Rajapaksa annunciò la conversione dell’intero settore agricolo del Paese in agricoltura biologica. A consigliarlo in questa scelta erano stati indubbiamente i suoi soci economici orientali e occidentali, Paesi ricchi attratti dalle potenzialità di mercato dei prodotti biologici. La produzione “bio” attrae molto i ceti abbienti: i prodotti vengono coltivati senza l’uso di sostanze chimiche, non sono contaminati e non contaminano l’ambiente, costituiscono quindi una scelta salutista ed ecologica al tempo stesso. Un lusso virtuoso, in breve, ma adottarla su larga scala in un Paese povero può portarlo alla catastrofe.
E’ quello che è successo in Sri Lanka, dove da un giorno all’altro i contadini sono stati costretti a fare i conti con un nuovo sistema agricolo molto meno produttivo. Non potendo più usare fertilizzanti né pesticidi, i contadini hanno visto i loro campi impoverirsi a vista d’occhio. La produttività si dimezzava nelle loro mani, mentre il governo di Colombo continuava a pretendere il “bio”. Finché tre quarti della popolazione non hanno avuto più di che alimentarsi. Molto prima che il popolo si ribellasse contro la dinastia Rajapaksa, nelle strade erano gli agricoltori a manifestare, chiedendo di poter tornare ai metodi tradizionali di coltivazione e di “salvare il salvabile”. Non sono stati ascoltati.
Quando il governo si è reso conto delle proporzioni della catastrofe “bio”, era troppo tardi. In primavera, il primo ministro aveva annunciato che il Paese sarebbe tornato ad acquistare fertilizzante per l’agricoltura. Una promessa che aveva lasciato impassibili i contadini: non c’era più denaro, in Sri Lanka, neppure per il fertilizzante.
Nella morsa del Fondo Monetario – Per un Paese della nuova via della seta come lo Sri Lanka, i creditori preferenziali sono sempre stati la Cina e l’India. Miliardi di debito sono stati accumulati da Colombo prima che si rendesse conto di non poterli restituire, né di poter fare fronte ai pesantissimi tassi di interesse di Pechino. Sono serviti mesi di proteste, morti per le strade, una crisi di governo e un’intera popolazione in emergenza umanitaria perché Colombo guardasse davanti a sé, verso l’enorme mostro dei propri creditori esigenti.
Per anni il Paese ha rifiutato il dialogo con Il Fondo Monetario Internazionale, ma secondo la nuova leadership non sembrano più esserci alternative. Un inverno cupo si prepara. Come annunciato dai portavoce del governo, la posizione dello Sri Lanka al tavolo delle trattative con il Fondo Monetario Internazionale non potrà che essere di estrema inferiorità e vulnerabilità. Per risanare la sua situazione economica, il Paese sarà costretto ad accettare qualsiasi condizione: privatizzazioni su larga scala, tagli alla previdenza sociale, sudditanza agli interessi delle economie di Stati Uniti ed Europa occidentale. I debiti saranno, insomma, pagati come sempre dagli ultimi, che ne usciranno soltanto più poveri e affamati.
Mai così vicino – Le dimensioni umane della tragedia che il Paese sta affrontando ci coinvolgono senz’altro, ma non è solo per questo che la “catastrofe Sri Lanka” potrebbe insegnarci molto e metterci in guardia. Sul disastro del “biologico”, ad esempio: un lusso della sinistra benestante e al tempo stesso un pericolo umanitario per le economie più povere, se gestito in maniera sprovveduta.
Il caso Sri Lanka costituisce, poi, la punta di un iceberg immenso che la liberalizzazione dei mercati dei Paesi poveri, incoraggiata dal Fondo Monetario Internazionale, ha creato. La fame improvvisa di 21 milioni di persone potrebbe essere un campanello d’allarme potentissimo, se l’Occidente fosse pronto ad ascoltarlo.
Per anni il Paese ha accumulato debiti esteri da Paesi ricchi che li offrivano con tassi di interesse bassissimi, un miraggio per le economie più povere del mondo. I fondi dei creditori ricchi sono liberamente fluiti verso le economie “in crescita” del pianeta, inclusa quella di Colombo, che, però, al primo segnale di cedimento è stata lasciata completamente sola, con debiti e interessi improvvisamente altissimi da pagare.
“Considerato in questa luce, è chiaro che lo Sri Lanka non è solo; semmai, è solo un presagio di una tempesta in arrivo di sofferenza del debito in quelli che gli economisti chiamano i “mercati emergenti””, scrive sul Guardian Jayati Ghosh, professoressa di economia all’Università del Massachusetts. “Il Fondo Monetario Internazionale si lamenta della situazione e non fa quasi nulla, e sia esso che la Banca Mondiale si aggiungono al problema con la loro rigida insistenza sui rimborsi e lo spaventoso sistema di supplementi imposto dal FMI. Mancano in azione il G7 e la “comunità internazionale”, il che è profondamente irresponsabile data la portata del problema e il loro ruolo nel crearlo”.
Secondo Ghosh, lo Sri Lanka non è che l’esempio dello tsunami che si abbatterà su molti altri Paesi vittime della stessa politica economic,a e di conseguenza anche sui Paesi ricchi in Occidente e in Asia. “La triste verità è che il “sentimento degli investitori” si muove contro le economie più povere indipendentemente dalle condizioni economiche reali in determinati Paesi.”, e aggiunge che “il contagio interesserà non solo le economie che stanno già attraversando difficoltà (…) Libano, Suriname e Zambia sono già formalmente inadempienti; La Bielorussia è sull’orlo; e l’Egitto, il Ghana e la Tunisia sono in grave difficoltà di indebitamento”. Una catastrofe annunciata che potrebbe aggredire i Paesi creditori da più fronti. Il potenziale di destabilizzazione politica ed economica delle crisi che l’Occidente ha contribuito a preparare è enorme.
Una fonte diplomatica singalese, intanto, ha anche annunciato “uno tsunami di migranti in Europa”. Nel solo mese di giugno, le richieste di passaporto da parte di cittadini singalesi sono state più di 80.000, quattro volte di più rispetto all’anno precedente. Un’altra delle conseguenze della propria economia con le quali l’Occidente prima o poi dovrà fare i conti.
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I giovani ucraini alla guida della resistenza alla Russia
Quando la Russia ha lanciato la sua invasione su vasta scala dell’Ucraina il 24 febbraio, gli analisti di tutto il mondo avevano previsto che il Paese sarebbe caduto nel giro di pochi giorni. Quasi sei mesi dopo, il popolo ucraino rimane unito nella sua resistenza alla guerra di Putin, con i giovani ucraini in prima [...]
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Olivia Newton-John, la cannabis terapeutica perde un’accanita sostenitrice
L’attrice, cantante, icona australiana e sostenitrice della cannabis medica Olivia Newton-John è morta all’età di 73 anni. Oltre a cantare e ballare nel cuore di milioni di persone per decenni, Olivia Newton-John è stata un’instancabile sostenitrice della cannabis terapeutica, a cui ha attribuito la sua longevità anche dopo diversi attacchi di cancro. Mike Tyson sta [...]
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State zitti
C’è libertà di parola e necessità di silenzio. Se non vogliono convincere i più d’essere invotabili, se non voglio fare campagna per l’astensione: stiano zitti. Provino a pensare, prima di parlare. Perché a credersi tanto furbi ci si dimostra ottusi. Insisto a pensare che qualche cosa di buono si può fare (ci arriviamo), qui ed ora, nella condizione data. Ma impossibile non osservare che si sta facendo l’opposto.
Nessuno creda che il problema sia il carattere di quello, le bizze dell’altro o i maneggioni in servizio permanente effettivo. Tutto questo è solo la conseguenza dell’esaurirsi di una schema, di un modello che si fece nascere nel 1994, un insensato “noi contro loro”, oramai privo di contenuti e colmo di sparacchiate imbarazzanti. Da lì si deve ripartire.
Calenda e Renzi, si rendano contro che importa nulla a nessuno di come si dividono le candidature e a chi le assegnano. Tanto più che l’elettore non può scegliere e questo schifo di sistema elettorale lo volle Renzi. Certo che prima di servire un piatto a tavola lo si prepara in cucina e che lì ci si sporca le mani, si tratta, si divide. Se ne ha piena l’anima dei moralismi senza etica: la politica è anche confronto di forze. Ma la cronaca diretta delle miserie e delle mitomanie no, la si può risparmiare. Anche perché il punto (che era) forte di quel gruppo sarebbe la credibilità, e la stanno demolendo ora dopo ora.
A destra siamo alle prese in giro: siamo uniti, ma poi vi diciamo su cosa e dopo il voto vi diciamo appresso a chi. Hanno assorbito la lezione e credono davvero di potere far credere che uno vale l’altro. Una Flat tax al 15% per non si capisce ancora chi e quando, o una al 23%, o l’agevolazione alle imprese che assumono, o il taglio del cuneo fiscale non sono varianti del tema insulso “meno tasse”, sono modelli opposti e incompatibili. Questo a tacere delle promesse di pensioni e dentiere, segno che, almeno, hanno individuato il target anagrafico.
A sinistra, con impareggiabile masochismo, sono tornati a parlare di patrimoniale, mentre a destra si giura che non le consentiranno. Avviso ai naufraganti: le patrimoniali ci sono già, talune anche truffaldine, come la Tari. Non vogliono Renzi, che inventò l’osceno bonus per i diciottenni, ma propongono la dote per i diciottenni: i programmi separati dalle idee. Promettono l’aumento dello stipendio, per gli insegnanti, alla media europea. Significa un accidente, perché dove gli stipendi sono più alti crescono nel tempo e per merito, mentre qui si continua ad assumere senza concorso e si paga a cranio e non a ora d’insegnamento (ore più numerose dove sono pagati meglio, guarda caso). Non sanno di che parlano.
Coperture, compatibilità, conferma di progressiva diminuzione del peso percentuale del debito sul prodotto interno loro, sono tutta roba estranea a questa incontinenza verbale. I più accorti ti rispondono: ci sta pensando un tavolo per il programma. Fate pensare le sedie, ma dite loro che si vota domani, non fra dieci anni.
Un sistema si è esaurito e una classe politica dequalificata. Non capita per fatalità, ma per aver fatto credere agli elettori che tutto sia una gara a offrire e a prendere, sicché: siete tutti fanfaroni, ma voto o per faziosità o per la promessa più conveniente, so che non sarà rispettata, ma manco quella degli altri. L’avere sguarnito la politica, l’avere preteso di confonderla con il moralismo da strapazzo ha corrotto e sfiancato il Paese.
Siccome qui siamo, per evitare il declassamento morale, politico ed economico, occorre che le confuse parti in causa riconoscano ora la necessità, dal 26 settembre, di smontare un sistema elettorale che premia il falso delle coalizioni, assicurandosi reciprocamente che non si metterà mano alla Costituzione sulla base di una maggioranza governativa. Meglio ancora se si riconoscesse la necessità di una stagione RiCostituente, tanto chiunque vinca non governerà nulla, in queste condizioni.
La Ragione
L'articolo State zitti proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Un protocollo social più decentralizzato di ActivityPub
ActivityPub è un buon protocollo, ma secondo me non perfetto. Resta troppo incentrato sull'avere un server dedicato principale grosso. Ciò si vede nelle sue implementazioni server, con software come Mastodon, Pleroma, e chi più ne ha più ne metta: software relativamente pesanti e difficili da ospitare, cosa che va a peggiorare l'accentramento perché meno gente avrà possibilità di ospitarli e quindi andrà su istanze già presenti.
Non so se esiste già, nel caso fatemelo conoscere, altrimenti probabilmente potrei idearlo io, un protocollo più semplice e molto più decentralizzato, basato su server più stupidi e client più intelligenti.
Rimuovere completamente i server causerebbe una peggiore esperienza utente: ogni client dovrebbe rimanere acceso nel momento in cui gli amici si collegano per scaricare nuovi messaggi, inoltre alcuni provider bloccano le connessioni in entrata. Sarebbe ideale, ma è irrealistico.
Per questo, si sceglie di tenere il minimo indispensabile come server: uno HTTP che serve file statici. Un tale server può essere ospitato ovunque, persino sul router di casa, ma in ogni caso i provider che ne danno di gratuiti online sono tantissimi.
Qui viene il bello: ogni utente ha un server e un dominio o indirizzo IP statico, si identifica con un URL (che può essere la root, oppure una cartella, nel caso si voglia avere altra roba Web sullo stesso dominio).
Il client del social (la app) chiede come login i dati di accesso FTP, SSH, Git, o chissà quali altri sistemi di caricamento di file via Internet, e tutti i contenuti di ogni utente (i messaggi, i file, i like messi, ...) vengono caricati sul server HTTP.
Quando un client vuole aggiornare il feed degli utenti seguiti, scarica un file d'indice (come un feed RSS) da ciascun server, e scarica eventuali nuovi elementi lì segnati.
L'unico potenziale problema qui può sorgere in caso si seguano centinaia e centinaia di utenti, perché la app dovrà scaricare ciascun file ad ogni aggiornamento. Ovviamente, usando un formato di dati efficiente e compresso il problema si riduce, così come si riduce spezzettando l'indice in segmenti, oppure si potrebbero integrare nel protocollo delle liste di aggregazione opzionali (che richiederebbero un server fatto apposta), a cui ciascun utente può passare il proprio elenco di utenti seguiti, e la sua app chiederà le differenze di tutti al server di aggregazione anziché alle centinaia di serve degli utenti.
Per i messaggi privati, si può semplicemente implementare un sistema di cifratura, così che le app possano semplicemente caricare i contenuti privati assieme a quelli pubblici sul server HTTP, e anche se terzi potrebbero scaricarli andando a frugare tra i file dei server altrui, non potranno leggerli.
Che ne pensate?
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Funzionari etiopi ammettono di aver usato un assedio simile al Biafra per far morire di fame il Tigray
Il governo federale può incolpare il TPLF per le sofferenze del Tigray, ma la sua strategia d’assedio medievale è un segreto di Pulcinella.
Nel 2004, Eskinder Nega, giornalista, attivista e politico etiope, ha supervisionato la pubblicazione di almeno cinque colonne nel suo quotidiano Askual che etichettavano i tigrini come ebrei d’Etiopia e chiedevano agli etiopi di emulare le strategie utilizzate dalla Germania nazista.
Quando è scoppiata la guerra civile nel novembre 2020, tali idee sono state attuate contro i tigrini dal governo etiope di concerto con i suoi alleati in Eritrea e nella regione di Amhara.
I confronti con l’Olocausto possono sembrare un po’ estremi. Ma gli eventi nel Tigray ricordano stranamente la guerra civile nigeriana del 1967-1970.
In risposta a una guerra secessionista condotta dal tenente colonnello Odumegwu Ojukwu in un territorio a maggioranza Igbo chiamato Biafra, il governo nigeriano ha intenzionalmente fatto morire di fame la popolazione, provocando la morte di un milione di bambini.
A riprova delle somiglianze, nel 2021 la Amhara Media Corporation , di proprietà statale, ha affermato che il futuro del Tigray è “come il Biafra” e il primo ministro Abiy Ahmed si è vantato che il governo etiope decide se gli aiuti entrano nel Tigray o meno.
Nonostante un leggero miglioramento della situazione umanitaria da aprile, questi piani genocidi sono in corso in Tigray. Gran parte dell’opinione pubblica etiope sembra sostenere queste politiche, o ha scelto di rimanere in silenzio per paura e pressione, mentre la comunità internazionale non le ha prese abbastanza sul serio.
Carestia artificiale
Le politiche attuate dai governi etiope ed eritreo che sembrano progettate per indurre condizioni di carestia nel Tigray sono state documentate dall’inizio della guerra.
A giugno, nonostante il blackout imposto dalle autorità etiopi, giornalisti determinati hanno raggiunto il Tigray su sentieri rocciosi e, in un caso raro, hanno filmato gli orrori della guerra. Il 2 luglio ARTE TV ha trasmesso il suo documentario, intitolato “ Tigray: nella terra della fame ”, che mostrava gli effetti della fame provocata dall’uomo e la devastazione del sistema sanitario della regione.
Tra gli eventi discussi dagli intervistati e raccontati nel rapporto di 24 minuti, ricordiamo il massacro di Aksum perpetrato dai soldati eritrei, un ragazzo di undici anni in ospedale che pesava solo otto chili, e persone che muoiono semplicemente in casa perché sanno che il i centri medici hanno esaurito le scorte e quindi non possono aiutarli.
Le Nazioni Unite hanno recentemente pubblicato annunci celebrativi piuttosto che dire la verità sul fatto che ai suoi lavoratori è ancora impedito di raggiungere gran parte della popolazione affamata del Tigray.
Il 29 giugno, le Nazioni Unite hanno affermato sui social media che, dal 1° aprile, il Programma alimentare mondiale (PAM) ha consegnato cibo sufficiente al Tigray per sfamare 5,9 milioni di persone al mese.
Tuttavia, il brief del WFP in Etiopia è in contraddizione con questo. Afferma: “Nella regione del Tigray, il WFP ha fornito assistenza alimentare a 461.542 persone a maggio”.
Inoltre, il rapporto sulla situazione del 17 giugno dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) osserva: “I partner alimentari in Tigray hanno assistito più di 340.000 persone con 5.303 tonnellate [tonnellate] di cibo durante la settimana del rapporto”.
“Tra l’inizio di aprile e l’8 giugno, cumulativamente, più di 20.000 tonnellate di cibo sono state distribuite a più di 1,2 milioni di persone nella regione”, continua il rapporto dell’OCHA.
La realtà è che da aprile a giugno 2022, un periodo di tre mesi, il WFP ha trasportato nel Tigray solo cibo sufficiente per sfamare 5,9 milioni di persone per un mese in totale.
A causa della mancanza di carburante, solo 1,4 milioni di abitanti del Tigray, circa il 25 per cento, sono stati raggiunti, mentre il 15 per cento del carburante necessario e il 35 per cento del denaro necessario per operazioni umanitarie è stato concesso in Tigray dalle autorità etiopi .
Come ci ha detto un membro dello staff delle Nazioni Unite: “Sarebbe più accurato riferire sull’impatto che sugli MT e sul numero di camion che sono sopravvissuti”.
Un altro Biafra?
Funzionari del governo hanno affermato apertamente di imporre un assedio simile al Biafra sul Tigray nel tentativo di soggiogare la regione e sradicare il TPLF.
Il 12 giugno 2021, il ministro degli Affari esteri Demeke Mekonnen ha dichiarato , senza fornire prove, che attori umanitari hanno tentato di contrabbandare armi alle Forze di difesa del Tigray (TDF). Tali accuse sono state utilizzate per impedire agli aiuti di entrare nelle aree detenute da TDF.
Undici giorni dopo, in un’intervista televisiva, Abiy ha sostenuto che il governo Derg ha commesso un errore durante la carestia degli anni ’80 consentendo la consegna degli aiuti al Tigray. Si riferiva alle accuse secondo cui la Società di Soccorso del Tigray (REST), l’ala umanitaria dell’insurrezione del TPLF, ha dirottato parte degli aiuti verso scopi militari negli anni ’80.
Dopo che le forze del Tigray hanno ripreso il controllo di circa il 70 percento del Tigray il 30 luglio 2021, l’Amhara Media Corporation ha pubblicato un articolo chiedendo di trasformare il Tigray in un altro Biafra “togliendo il respiro da tutte le direzioni”.
Gizaw Legesse, giornalista regolarmente presente su ESAT TV, ha affermato che la strategia del governo dovrebbe essere quella di costruire una zona cuscinetto intorno al Tigray per dare alla gente “tempo per riflettere” per tre o cinque anni.
Gizaw ha fatto seguito di recente con un post su Facebook in cui chiedeva al governo di “trascinare i negoziati per anni, di non dare nulla gratuitamente prima o durante i negoziati, di rendersi conto che il tempo è dalla parte dell’Etiopia … e di capire che sotto il presente circostanze, l’Etiopia perde poco perseguendo il contenimento”.
Il 4 agosto, Mitiku Kassa, il commissario della Commissione nazionale per la gestione del rischio di catastrofi dell’Etiopia, ha pubblicamente respinto gli inviti ad aprire le rotte tra il Sudan e il Tigray per la consegna degli aiuti.
Settimane dopo, Mitiku ha dichiarato che la politica etiope è di limitare pesantemente gli aiuti al Tigray a causa del timore che possa potenziare l’esercito del Tigray. Come prova, ha prodotto una fotografia di un colonnello del TDF che si è arreso fianco a fianco con le foto dei biscotti ad alta energia USAID.
Mitiku è stato arrestato all’inizio di luglio, ma ciò non sembra correlato al suo coinvolgimento nel blocco del Tigray.
Il 18 ottobre, il ministero degli Affari esteri ha dichiarato che è assurdo aspettarsi un accesso umanitario illimitato al Tigray mentre il TPLF sta attaccando.
Il giorno successivo, Abiy ha detto senza mezzi termini al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres che l’Etiopia non aprirà l’accesso umanitario per le Nazioni Unite al Tigray “a meno che il TPLF non ritiri le forze” da Amhara e Afar.
Un mese dopo, Debede Desisa, ministro di Stato del Servizio di comunicazione del governo, ha avanzato accuse infondate secondo cui alcune organizzazioni umanitarie hanno un’agenda politica.
Il 5 gennaio 2022, il ministro dei servizi di comunicazione del governo Legesse Tulu ha dichiarato che se le persone in Tigray vogliono che i loro diritti siano rispettati, dovrebbero insorgere contro il TPLF. In altre parole, ha ammesso che questi diritti sono stati deliberatamente violati per punire i tigrini per aver sostenuto il loro governo regionale eletto.
Poco prima che la tregua umanitaria fosse dichiarata il 24 marzo, il presidente della regione di Afar, Awol Arba, ha affermato: “non possiamo permettere che gli aiuti raggiungano il Tigray”.
Il 27 marzo, Yodahe Zemichael, Direttore Esecutivo del Programma di identificazione nazionale presso l’Ufficio del Primo Ministro, ha dichiarato che le richieste di aiuti umanitari fanno parte di un tentativo di cambio di regime e che la carestia nel Tigray è orchestrata dal TPLF a tal fine.
Alla fine di marzo, il governo federale ha comunicato formalmente di aver concesso aiuti per un’intera settimana al Tigray. Questa è stata una tacita ammissione che la decisione sull’erogazione o meno degli aiuti è nelle mani del governo etiope.
Infine, il 5 giugno, il vice primo ministro Demeke ha ammesso che il governo federale blocca gli aiuti perché possono essere utilizzati dal TPLF.
Nonostante tali prove inconfutabili, i sostenitori del governo accusano il TPLF di essere responsabile della mancanza di accesso umanitario.
Tra 250.000 e 500.000 civili sono morti in Tigray, tra cui si stima che da 50.000 a 100.000 vittime di omicidi diretti, da 150.000 a 200.000 morti per fame e più di 100.000 morti causate dalla mancanza di assistenza sanitaria.
Retorica genocida
Secondo queste dichiarazioni di alte autorità etiopi, l’assedio e l’embargo del Tigray sono atti di guerra intenzionali. Il piano è costringere il popolo del Tigray e il loro governo regionale a sottomettersi.
Bisogna riconoscere che tenere in ostaggio una popolazione civile è un crimine di guerra secondo le Convenzioni di Ginevra. Anche l’uso della fornitura di aiuti e della ripresa dei servizi di base come elettricità, banche, commercio e telecomunicazioni come merce di scambio è moralmente fallimentare.
Le giustificazioni ufficiali per la fame nel Tigray fornite ai diplomatici stranieri – come ostacoli burocratici, che i camion degli aiuti non sono tornati , conflitto ad Afar lungo una delle dozzine di strade di accesso e danni collaterali alle infrastrutture – sono incredibilmente superficiali in contrasto con l’implacabile dichiarazioni rilasciate da funzionari del governo etiope.
Con il senno di poi, il piano per decimare o addirittura sterminare il TPLF e i Tigrini è stato articolato per decenni dalle élite nazionaliste etiopi e amhara.
La scioccante dichiarazione del consigliere di Abiy Daniel Kibret, diacono e predicatore della Chiesa ortodossa etiope, secondo cui l’Etiopia ha bisogno di sterminare i Tigrini, proprio come fecero gli inglesi con i Tasmaniani negli anni ’30 dell’Ottocento, si adatta a una narrazione iniziata vent’anni prima .
Wodajeneh Meharene, un pastore evangelico e uno stretto confidente di Abiy, crede anche che “ bloccare l’accesso umanitario ” per affamare il popolo del Tigray alla sottomissione sia un modo legittimo per portare a conclusione la guerra.
Daniel e Wodajeneh esercitano un’influenza significativa nelle rispettive denominazioni cristiane. I loro appelli per un’azione collettiva contro i tigrini mostrano come i leader religiosi politicizzati siano diventati in Etiopia . Ciò ha probabilmente contribuito alla diffusa accettazione della guerra all’interno di alcune comunità religiose.
Tali opinioni sono la continuazione di numerosi articoli pubblicati nel quotidiano Askual di Eskinder nel 2004. Essi esortavano gli etiopi a sradicare “gli ebrei cancerosi della nazione” (i Tigrini) imitando la politica di sterminio della Germania nazista. Scritti in amarico, con il titolo “Perditi, Giuda”, questi articoli sono rimasti sotto il radar della maggior parte degli osservatori stranieri.
Un articolo, pubblicato il 1 maggio 2004 , afferma: “I tedeschi si alzarono risolutamente. La loro lotta è continuata. Gli ebrei furono catturati in massa e deportati nei campi di concentramento. In particolare, sono stati presi di mira gli ebrei maschi di età compresa tra i 16 e i 60 anni”.
Per molti versi, questi pezzi leggono come un copione per i massacri , la fame e le detenzioni avvenute in Tigray dal novembre 2020.
Mentre Eskinder e altri come lui sono responsabili della propagazione di tale retorica palesemente genocida, i colpevoli diretti che hanno compiuto i massacri del Tigray e attuato il blocco sono i governi dell’Etiopia , dell’Eritrea e della regione di Amhara .
Jan Nyssen è professore di geografia fisica all’Università di Gand in Belgio. Svolge attività di ricerca in Etiopia dal 1994.
Questo è il punto di vista dell’autore. Tuttavia, Ethiopia Insight correggerà chiari errori di fatto.
Foto principale: Illustrazione di Illu Poppe, La Libre Belgique.
Per concessione di Ethiopian Insight – Pubblicato con licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0 International
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È la fine dei social network? Una riflessione di Johannes Ernst su #Facebook, #TikTok e il design delle piattaforme
Scott Rosenberg , in un pezzo dal titolo “Tramonto del social network” , scrive ad Axios:
Segna la scorsa settimana come la fine dell'era dei social network, iniziata con l'ascesa di Friendster nel 2003, ha plasmato due decenni di crescita di Internet e ora si chiude con il lancio di Facebook di un'ampia riprogettazione simile a TikTok.
Una dichiarazione travolgente. Ma penso che abbia ragione:
Facebook è fondamentalmente una macchina pubblicitaria. Come altri prodotti Meta. Non ci sono davvero "tecnologie che avvicinano il mondo", come dice la home page di Meta . Almeno non principalmente.
Questa macchina pubblicitaria ha avuto un successo sorprendente, portando a un fatturato trimestrale recente di oltre $ 50 per utente in Nord America ( fonte ). E Meta di certo ha spinto così tanto, altrimenti non sarebbe stata nelle cronache per aver oltrepassato il consenso dei suoi utenti anno dopo anno, scandalo dopo scandalo.
Ma ora una macchina pubblicitaria migliore è in città: TikTok. Questa nuova macchina pubblicitaria non è alimentata da amici e familiari, ma da un algoritmo di dipendenza. Questo algoritmo di dipendenza calcola i tuoi punti di minor resistenza e ti riversa una pubblicità dopo l'altra in gola. E non appena ne hai ingoiato un altro, scorri un po' di più e, così facendo, chiedi più pubblicità, a causa della dipendenza. Questa macchina pubblicitaria basata sulla dipendenza è probabilmente vicina al massimo teorico di quante pubblicità si possono versare in gola a qualcuno. Un'opera d'arte straordinaria, come ingegnere devo ammirarla. (Naturalmente quell'ammirazione si trasforma rapidamente in qualche altra emozione del tipo disgustoso, se hai qualche tipo di morale.)
Quindi Facebook si adatta e passa a un'altra macchina pubblicitaria basata sulla dipendenza. Il che non sorprende nessuno, penso.
E poiché non si è mai trattato di "riavvicinare il mondo", abbandonano quella missione come se non gli importasse mai. (Questo perché non l'hanno fatto. Almeno MarkZ non l'ha fatto, ed è l'unico, irresponsabile signore supremo dell'impero Meta. Una struttura azionaria a due classi te lo dà.)
Con il gigante che rivolge la sua attenzione altrove, dove finisce il social networking? Perché i bisogni e i desideri di “avvicinare il mondo” e di mettersi al passo con amici e familiari sono ancora lì.
Penso che lasci il social networking, o ciò che lo sostituirà, in un posto molto migliore. Che ne dici di questa volta che costruiamo prodotti il cui obiettivo principale è in realtà la missione dichiarata? Condividi con gli amici, la famiglia e il mondo, per unirlo (non dividerlo)! Invece di qualcosa di non correlato, come fare un sacco di entrate pubblicitarie! Che concetto!
Immagina cosa potrebbero essere i social network!! I giorni migliori del social networking sono ancora avanti. Ora che i pretendenti se ne vanno, possiamo effettivamente iniziare a risolvere il problema. I social network sono morti. Viva ciò che emergerà dalle ceneri. Potrebbe non essere chiamato social networking, ma lo sarà, solo meglio.
Qui il post originale in inglese: reb00ted.org/tech/20220727-end…
Questo lavoro è concesso in licenza in base a una licenza internazionale Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0 • Altri usi? Chiedere! Utilizza i cookie solo per analisi self-hosted.
Di Johannes Ernst. Imprenditore. Pirata. Pastore di gatti. Detentore di opinioni spesso insolite, in genere prima che giunga il loro momento, ma forse non in questo caso.
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Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂
in reply to Andrea • •@Andrea non sono un tecnico, ma L'impressione è che tu voglia far accoppiare RSS con SMTP, in una stanzetta chiusa con una chiave di cifratura...😁 😄 🤣
Il ché, alla fine, non mi sembra neanche una cattiva idea e, comunque, è sempre meglio di hubzilla 😁
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Andrea
Unknown parent • •@Dummy-X 🇮🇹 Hmmm, forse ha degli aspetti in comune, ma non la vedrei in questo modo.
Innanzitutto, io sto differenziando app e protocollo.
Il protocollo si basa su un sistema di server distribuiti, statici, appartenenti a ciascun singolo utente, e su client che comunicano direttamente con questi server (senza un intermediario in mezzo come un server mail).
Ma qui, alla fine, son tecnicismi..
La "app ufficiale", ossia l'implementazione client di riferimento, io la immagino fatta un po' più come Mastodon. Rapida, dinamica, non necessariamente fatta a forum.. purtroppo ad oggi roba come Google Gruppi la maggior parte della gente non vuole manco capire come si usi xD
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Luca Nucifora
in reply to Andrea • • •Andrea
in reply to Luca Nucifora • •@Luca Nucifora eh e come? stai praticamente quasi creando un protocollo da capo così :'/. ActivityPub è troppo incentrato sui server attivi, il massimo che si può fare è ideare qualche integrazione AP in un protocollo come ho pensato il mio. Fosse anche prevedere un sottoprotocollo per i bridge. Anzi, togliamo il forse, è qualcosa da fare.
Comunque, ho anche continuato a cercare, ma nessun protocollo già esistente funziona in modo abbastanza vicino a cosa vorrei io.
Io magari inizio a scrivere qualcosa (documenti, non codice) a riguardo, almeno per descrivere l'idea a linee meno grosse di cosa il mio post di Friendica dice. Magari trovo gente a cui l'idea interessa particolarmente..