Come appartenere alla Ue? Identità, diversità e la sfida di parlare con una voce sola
Le questioni di identità all’interno dell’Europa sono state a lungo discusse. Uno studio condotto dal German Marshall Fund (Gmf) cita i risultati dell’Eurobarometro su due domande poste a tutti i Paesi dell’Ue che danno un’idea del motivo per cui i Paesi europei possono o meno voler entrate nell’Ue. I cittadini si identificano in primis come cittadini del proprio Paese o in egual misura come europei? Inoltre, preferirebbero che più decisioni venissero preso a livello dell’Ue? I risultati sono un po’ sorprendenti. I cittadini che si identificano principalmente come cittadini del proprio Paese sono anche i più desiderosi che le decisioni vengano prese a livello centrale nell’Ue. E viceversa: coloro che si sentono tanto europei quanto cittadini del proprio Paese sono anche i meno desiderosi che l’Ue faccia di più.
Questo dato è un po’ controintuitivo, in quanto si potrebbe supporre che la volontà dei cittadini di avere più potere decisionale nell’Ue vada di pari passo con un’identità europea più sviluppata. Questo ci dice, come minimo, che non tutti i Paesi vedono il ruolo dell’Ue allo stesso modo e che non hanno avuto le stesse ragioni per aderire all’Ue e al suo predecessore, la Comunità economica europea.
I Paesi, soprattutto del Nord Europa, che si affidano maggiormente al commercio come importante motore del loro modello economico, sono stati molto propensi a creare un mercato unico. Infatti le regole comuni e l’assenza di frontiere avrebbero incoraggiato un commercio fluido tra le nazioni. Con l’ingresso di altri Paesi nell’Unione, il mercato unico si è ampliato e così anche il raggio d’azione delle grandi nazioni commerciali. Allo stesso tempo, in quanto grande area commerciale, l’Ue si trova in una posizione migliore per negoziare accordi commerciali al di là dei suoi confini con il resto del mondo a nome di tutti i Paesi.
Il passo successivo all’integrazione commerciale è stata l’eliminazione dell’incertezza dei tassi di cambio. La volatilità delle valute nazionali interferiva con il valore di beni e servizi e impediva un commercio senza interruzioni. La creazione di una moneta unica per tutti i Paesi appartenenti al mercato unico avrebbe eliminato la volatilità delle valute. Tuttavia, anziché i grandi Paesi commerciali, fu un altro gruppo di Paesi, quelli con un’inflazione elevata, a voler adottare una moneta unica. Il motivo era quello di “importare” la stabilità dei prezzi dal Nord caratterizzato da una bassa inflazione. La formula della “moneta unica e stabile” era quindi molto più attraente per i Paesi con un’inflazione elevata che per quelli che facevano grande affidamento sul commercio.
Ma al di là delle diverse motivazioni economiche che hanno spinto i Paesi ad aderire all’Ue, la prospettiva di integrarsi in Europa ha fornito una piattaforma di modernizzazione. Per molti, in particolare per i Paesi più piccoli e mal governati, la prospettiva di entrare a far parte di un’unione economica è stata anche una spinta a modernizzare le proprie istituzioni. La cooperazione economica in un quadro comune è un modo per migliorare le strutture di governance. Esistono diverse interpretazioni del significato di «appartenenza all’Europa». Per alcuni Paesi, in particolare per quelli piccoli al confine orientale dell’Ue, dalla Finlandia fino a Cipro, la questione della difesa è molto più rilevante che per quelli della parte occidentale dell’Ue che si affacciano sull’Atlantico.
Quanto più stretta è l’integrazione con l’Ue, tanto maggiore è il senso di questa sicurezza, anche se non è supportata da esplicite disposizioni in materia di sicurezza. Il rapporto dei Paesi scandinavi, un gruppo di economie e società relativamente simili, con l’Ue dimostra questo legame tra una maggiore integrazione e lo sviluppo di un maggiore senso di sicurezza. All’estremità orientale della Scandinavia, la Finlandia è membro dell’Ue e della zona euro. Spostandosi verso ovest, Svezia e Danimarca sono membri dell’Ue, ma non della zona euro e, fino a poco tempo fa, la Danimarca aveva anche un opt-out per la difesa. Più a ovest si trovano Norvegia e Islanda, che non sono membri dell’Ue, ma con essa hanno stretti legami economici e sociali.
Partendo dalla parte orientale della Scandinavia e spostandosi verso ovest, la minaccia alla sicurezza da parte di vicini aggressivi si riduce, così come il grado di integrazione nell’Ue. Infine, oltre alla cooperazione economica, alla governance e alla sicurezza, c’è la questione dei valori. Si tratta di accedere e di adottare un sistema di valori al di là di un quadro giuridico, ed è particolarmente visibile nei Paesi con lo status di candidato.
La concessione dello status di candidato all’Ucraina è stata una grande vittoria per il Paese rispetto all’aggressione russa. L’Ucraina ha avuto accesso al sistema di valori necessario per formare alleanze profonde, e avere alleati forti e pieni di risorse è esattamente ciò di cui un Paese ha bisogno quando la sua sicurezza è compromessa. Questo non è un tentativo esaustivo di discutere cosa significhi l’Ue per ogni Paese, che sia membro attuale o futuro. La direzione in cui l’Ue si evolverà in futuro dipenderà dalla ricerca di un minimo comune denominatore. Tutti concordano sul fatto che il potere dell’Ue dipende dalla capacità di parlare con una sola voce. Non tutti sono d’accordo su quale debba essere questa voce.
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Meteosat, nuovi satelliti meteo a caccia di tempeste
Nel giorno di Santa Lucia, che le chiese cattolica e ortodossa per tradizione invocano come protettrice della vista, un Ariane 5 ha portato con successo nello spazio il satellite meteorologico MTG-I1, dalla base di Kourou, situata nella Guyana francese. La data è un caso, ma possiamo esser certi che il satellite avrà un occhio attento […]
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Pardon Assange: 45 MEPs, Stella Assange & journalist federations sign open letter to US President Biden
Today, four Pirate Party Members of the European Parliament (Greens/EFA) and Stella Assange address US President Joe Biden in an open letter co-signed by 41 EU lawmakers, NGOs, the International Federation of Journalists (IFJ) and many more, asking him to pardon Julian Assange. WikiLeaks co-founder Assange is currently imprisoned in the United Kingdom and waiting for extradition to the United States to stand trial on charges of espionage and computer misuse.
For over a decade, Julian Assange and WikiLeaks have been at the forefront of investigative journalism, publishing information that has revealed significant abuses of power and corruption at the highest levels of powerful institutions. The charges against him raise serious concerns about the extent to which a democratic government can criminalize the publication of truthful information.
This week, Julian Assange’s wife Stella represents her husband, a nominee for the Sakharov Prize 2022 for Freedom of Thought, at the European Parliament in Strasbourg. Together with her and all undersigned, the European Pirates respectfully call on US President Joe Biden to pardon Julian Assange.
Patrick Breyer, Member of the European Parliament for the German Pirate Party, comments:
“The detention and prosecution of Assange set an extremely dangerous precedent for all journalists, media actors, and freedom of the press. No journalist should be prosecuted for publishing ‘state secrets’ of public interest because this is their job. The public has a right to know about state crimes committed by those in power, to be able to stop them and bring them to justice. Julian Assange has changed the world we live in for the better, bringing in an era where injustice can no longer be swept under the carpet.”
Marcel Kolaja, Member and Quaestor of the European Parliament for the Czech Pirate Party, comments:
“Julian Assange revealed information of significant importance to the public while performing the work of an investigative journalist. His imprisonment is in direct contradiction with American core values, such as freedom of speech and freedom of the press. His persecution for publishing the truth must stop.”
Markéta Gregorová, Member of the European Parliament for the Czech Pirate Party, comments:
“Assange should not be the model case for how whistleblowers are treated. On the contrary, we should protect him, so they are not afraid to keep publishing truthful information in the public interest. Without Julian Assange, we would have never found out about cases like the war crimes of the American soldiers against civilians in Iraq. Therefore, I believe he deserves a full presidential pardon with the immediate release from prison.”
Mikuláš Peksa, MEP and Chairperson of the European Pirate Party, comments:
“I spoke with Stella Assange about the great importance of defending freedom of expression and about the right to seek and share the truth. As a Member of the European Parliament and the Pirate Party, I stand with Stella and Julian in their fight for justice. I am fundamentally against the persecution of whistleblowers and journalists. We cannot let governments silence the ones, who are exposing their wrongdoings.”
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OsmAnd+++++
Ho qualche difficoltà a capire se sia una buona notizia, comunque...
techcrunch.com/2022/12/15/meta…
Per le pelli animali le industrie di auto disboscano il Paraguay
a cura di Survival International –
Pagine Esteri, 15 dicembre 2022 – Tra la deforestazione illegale del territorio degli Ayoreo Totobiegosode del Chaco paraguaiano, le pelli importate in Italia dal Paraguay, e alcune aziende automobilistiche come BMW e Jaguar Land Rover c’è un legame diretto.
Per realizzare interni, sedili e volanti, infatti, molte case automobilistiche acquistano pellami da due aziende italiane leader del settore: Pasubio Spa e Gruppo Mastrotto Spa. A loro volta, le due aziende si riforniscono da concerie che commerciano con allevamenti colpevoli di occupare la terra ancestrale degli Ayoreo e quella dei loro gruppi isolati e di disboscarla illegalmente mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza. Gli Ayoreo sono l’ultimo popolo incontattato del Sud America sopravvissuto al di fuori del bacino amazzonico.
Questo legame è al cuore dell’Istanza depositata oggi da Survival International – in collaborazione e con l’autorizzazione degli Ayoreo Totobiegosode – contro Pasubio, presso il Punto di Contatto Nazionale italiano (PCN) dell’OCSE.
Alcune settimane fa, Survival aveva inviato lettere di diffida a entrambe le società sollecitandole a interrompere queste importazioni. Ma mentre Gruppo Mastrotto ha risposto avviando con Survival un dialogo che è ancora in corso e sarà poi oggetto di valutazione finale, Pasubio ha fatto pervenire solo una breve e sterile comunicazione di discolpa generica, senza mostrare alcuna volontà di confronto. Da qui, la decisione di ricorrere subito all’OCSE contro l’azienda Pasubio.
Un camion di pelli dell’azienda Chortizer, uno degli allevamenti che occupano e disboscano illegalmente la terra degli Ayoreo Totobiegosode. Immagine tratta dal documentario “South America – Episode 4” di BBC. © Simon Reeve/BBC
Il legame tra le pelli utilizzate nell’industria automobilistica e la distruzione illegale della foresta degli Ayoreo è stato svelato per la prima volta da un’indagine della ONG britannica Earthsight. Risalendo fino all’origine della filiera, nei rapporti Grand Theft Chaco I e Grand Theft Chaco II, Earthsight rivela infatti che quasi tutti i 2 terzi delle pelli esportate dal Paraguay ogni anno nel mondo vanno alle aziende italiane, e principalmente a Pasubio, che dipende per oltre il 90% dei suoi 313milioni di euro di ricavi annuali proprio dall’industria automobilistica.
Nell’Istanza depositata oggi da Survival al PCN, si legge che la Conceria Pasubio sembra non aver rispettato diversi principi contenuti nelle Linee Guida OCSE, tra cui quelli sulla Divulgazione di informazioni (III), sui Diritti umani (IV), sull’Ambiente (VI) e sugli Interessi del consumatore (VIII).
Nell’Istanza, Survival chiede, tra le altre cose, che la multinazionale “accetti di interrompere immediatamente l’importazione di pelli dalle concerie del Paraguay responsabili e/o coinvolte nella deforestazione dell’area protetta degli Ayoreo Totobiegosode. La condotta perpetrata dalla società, infatti, contribuisce ad alimentare la deforestazione illegale e la violazione dei diritti del popolo Ayoreo Totobiegosode, privandolo della foresta da cui dipende per tutte le sue vitali necessità; forzandolo a uscire dalla propria terra in cerca di cibo e cure, e costringendolo a contatti forzati e indesiderati con il mondo esterno – cosa che porterà loro, inevitabilmente, morte e malattie come già accaduto in passato”.
Namje Picanerai, uomo Ayoreo Totobiegosode, con il nipote. Gli Ayoreo Totobiegosode lottano da oltre 30 anni per la restituzione della loro terra ancestrale, nel Chaco paraguaiano. © Survival
“Il governo paraguaiano ha consegnato la maggior parte del territorio ancestrale degli Ayoreo ad aziende agroindustriali che abbattono la foresta senza sosta: prima tagliano gli alberi preziosi, poi incendiano la foresta e infine introducono il bestiame sulla terra disboscata” ha dichiarato oggi la responsabile della campagna di Survival Teresa Mayo, che recentemente ha visitato le comunità degli Ayoreo Totobiegodose raccogliendo la loro disperata richiesta di sostegno. “Nel frattempo, gli Ayoreo si vedono distruggere i loro mezzi di sostentamento, la salute fisica e mentale, e anche la vita. Ma restano determinati a lottare per continuare ad esistere insieme ai loro parenti incontattati, costretti a vivere in fuga perenne dai bulldozer in oasi di foresta che diventano ogni giorno sempre più piccole.”
“Se gli stranieri continueranno a tagliare gli alberi, i nostri parenti incontattati non sapranno più come sopravvivere… Dobbiamo proteggere la foresta che rimane” ha detto Porai Picanerai, leader Ayoreo Totobiegosode.
“Gli Ayoreo Totobiegosode stanno rischiando il genocidio a causa di una deforestazione selvaggia che è decisamente illegale, ma continua a crescere di pari passo con le importazioni di pelli dell’Italia” ha aggiunto Francesca Casella, direttrice della sede italiana di Survival. “Gli esperti prevedono addirittura che la domanda di pelle per auto aumenterà di oltre il 5% all’anno fino al 2027. Clienti e consumatori finali devono esserne consapevoli, e poiché l’Italia è il più grande acquirente di pelli paraguaiane al mondo, ha il potere e la responsabilità di intervenire smettendo di fare affari con gli allevamenti di bestiame che operano illegalmente all’interno della terra indigena con la connivenza di politici e funzionari corrotti. Non ci si può arricchire sulla pelle degli Ayoreo!”
Gli Ayoreo Totobiegosode lottano per la restituzione delle terre ancestrali dal 1993[/b], anno in cui hanno presentato una formale rivendicazione territoriale al governo.
Nel 2001 il governo del Paraguay ha riconosciuto legalmente un territorio di 550.000 ettari nell’Alto Paraguay come “Patrimonio naturale e culturale del popolo indigeno Ayoreo Totobiegosode” (PNCAT). Tuttavia, ad oggi le autorità hanno trasferito agli Ayoreo titoli di proprietà solo su alcune migliaia di ettari di terra e continuano a violare sia le misure cautelari emesse dalla Commissione Inter-Americana per i diritti umani (IACHR) sul territorio (che richiedono allo Stato del Paraguay di proteggere e tutelare il PNCAT e i gruppi incontattati che vi abitano prevenendo l’ingresso di terzi e contatti indesiderati), sia le risoluzioni emesse nel 2018 dall’Istituto forestale nazionale (INFONA), che rendono inequivocabilmente illegale la deforestazione.
La carne e il pellame del Paraguay sono responsabili, per unità di peso, di più deforestazione di qualsiasi altra materia prima sulla terra (Grand Theft Chaco I, p.36).
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MIGRANTI. Si torna a respingere al confine italo-sloveno
di Anna Clementi e Diego Saccora – Associazione Lungo la rotta balcanica
Pagine Esteri, 14 dicembre 2022 – “La Lampedusa del Nord non va sottovalutata e quella delle riammissioni è una delle soluzioni a cui stiamo pensando”. Le parole pronunciate lunedì a Martignacco (Udine) da Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento, danno seguito ai recenti ripetuti annunci del governo Meloni sulla riattivazione delle “riammissioni informali” al confine tra Italia e Slovenia sulla base della direttiva firmata da Maria Teresa Sempreviva, capo di gabinetto del Viminale relativa “all’incremento dei flussi migratori della rotta balcanica”.
Ciriani parlando di “Lampedusa del nord” intende l’area del Friuli-Venezia Giulia a ridosso del confine sloveno e definisce riammissioni i respingimenti delle persone operati dalla polizia italiana verso la Slovenia, pratiche che costituiscono una grave violazione dei diritti umani. Il piano del nuovo governo è chiaro: respingere non solo via mare ma anche via terra chiunque tenti di entrare in territorio italiano, tentando di giustificare tali azioni mistificando i numeri. A fronte di un aumento percentuale delle persone prive di regolare permesso di soggiorno intercettate al confine pari al 204% si tiene in secondo piano che il dato numerico sia di 4101 in tutto il 2022.
“Su un piano umano prima ancora che giuridico la notizia della ripresa delle riammissioni informali ha destato un vero e proprio sconcerto” ha dichiarato l’avvocata Caterina Bove dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione (Asgi), in una conferenza stampa online organizzata lunedì 13 dicembre dalla rete RiVolti ai Balcani. “Ci è già noto il destino delle persone riconsegnate alla rotta balcanica, destino che le vedrà diventare soggetti o meglio oggetti di riammissioni a catena dall’Italia alla Slovenia, alla Croazia e da lì fino alle porte dell’Unione europea, in Bosnia o in Serbia, un destino che li costringerà ad affrontare di nuovo le violenze perpetrate ai confini croati, nonostante le numerose denunce da parte di tante organizzazioni” e a una sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani che nel novembre 2021 ha condannato le stesse autorità croate per la morte della piccola Madina Hussiny, bambina afghana respinta verso la Serbia insieme alla famiglia nel 2017.
Ma lo sgomento, come ci spiega la Bove assieme alla sua collega di Asgi, Anna Brambilla, è anche giuridico. Non sono passati due anni da quando il Tribunale di Roma nel gennaio 2021, a seguito di un ricorso presentato dalle due avvocate, dichiarò illegittime le riammissioni dall’Italia alla Slovenia perchè fondavano la propria base giuridica su di un accordo siglato tra i due Paesi nel 1996 e mai ratificato dal Parlamento, violando leggi interne, europee e internazionali, oltre ad esporre le persone a “trattamenti inumani e degradanti” lungo i Paesi dei Balcani e a “torture” in Croazia. Nessun rilascio di documentazione scritta, nessuna informativa sui propri diritti, detenzione in una caserma, per poi essere fatti salire su un furgone prima di essere consegnati alle autorità slovene. E spesso da lì, fuori dai confini dell’Unione europea. Dopo la sentenza, le riammissioni, che tra il 2019 e il 2020 hanno costituito l’illegittima base giuridica per il respingimento di oltre 1200 persone verso la Slovenia e molte a catena verso Serbia e Bosnia ed Erzegovina, sono state sospese.
Ma ora il governo sembra di nuovo muoversi in direzione contraria incurante dell’illegittimità di queste pratiche, che rimangono illegali anche nei casi in cui non venga registrata la manifestazione di volontà di richiesta della protezione internazionale. Infatti, come ci ricorda l’avvocata Brambilla, “in Italia le condotte della polizia di frontiera sono già state oggetto di pronunce sia di giudici nazionali sia di corti sovranazionali soprattutto per quanto riguarda il diritto d’informazione”. Pertanto l’assenza della registrazione da parte della polizia della manifestazione di presentare la richiesta di protezione internazionale non significa che la persona non abbia espresso la volontà di chiedere asilo ma può semplicemente essere che non sia stata messa nella condizione di manifestare tale volontà e che non sia stata informata sulle implicazioni in merito.
L’altro rischio è quello dei respingimenti collettivi in cui gruppi di persone vengano respinti, sulla base degli accordi, da un Paese all’altro senza che vi sia una valutazione individuale del singolo caso. “Non si parla mai dei destinatari delle riammissioni” ci ricorda Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano Solidarietà.
Ed è proprio delle persone che non dobbiamo mai dimenticarci. Perchè troppo spesso nel botta e risposta alla ricerca della disposizione a sostegno della legittimità o meno di un’azione, si perde di vista il contesto storico, sociale e politico entro il quale ogni singola persona che da anni percorre le rotte lungo i Paesi dei Balcani, dentro e fuori i confini d’Europa, si trova ad affrontare, subendo violenze fisiche e psicologiche. Il diritto negato è la cartina di tornasole di una persona violata. Perchè costretta a vivere rinchiusa in un campo, a sopravvivere in un accampamento informale, quotidianamente respinta nel tentativo di entrare in Unione europea, se non di essere riportata indietro al proprio Paese d’origine o in un Paese terzo dove i diritti e le vite delle persone vengono ancora una volta negati. Violazioni ampiamente documentate da numerose inchieste giornalistiche, tra tutte ricordiamo quelle pubblicate dal collettivo di giornalisti Lighthouse Report in collaborazione con diverse testate europee e quelle raccolte da volontari e attivisti ai confini interni ed esterni dall’Ue contenuti nel “Libro Nero dei respingimenti” prodotto dal Border Violence Monitoring Network. Pagine Esteri
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Etiopia, la Giustizia Non Deve Essere Uccisa Da Un Accordo di Pace
Ritenere responsabili i criminali di guerra in Etiopia è l’unico modo per garantire una pace duratura nel Paese.
All’inizio di novembre, la comunità internazionale ha accolto quasi all’unanimità l’ accordo di pace firmato a Pretoria tra il governo dell’Etiopia e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF). Ma mentre l’accordo è un passo positivo, una dichiarazione di intenti per mettere a tacere le armi, rimangono alcune domande difficili.
In particolare, la questione della responsabilità per la litania di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nel Tigray rimane in gran parte irrisolta. Dall’inizio del conflitto nel novembre 2020, oltre 500.000 persone sono morte nei combattimenti o per carestia e mancanza di assistenza sanitaria. Più di 5 milioni sono stati messi sotto assedio e deliberatamente affamati; decine di migliaia sono state aggredite sessualmente; e ben oltre 2 milioni sono stati sfollati a causa dei combattimenti e della pulizia etnica.
Tuttavia, l’accordo di pace fa poco per le vittime della violenza che vogliono giustizia. Le sue disposizioni sulla responsabilità per le atrocità criminali sono formulate in modo troppo approssimativo. L’accordo afferma che il governo etiope adotterà “una politica nazionale globale di giustizia di transizione volta alla responsabilità, all’accertamento della verità, al risarcimento delle vittime, alla riconciliazione e alla guarigione, coerente con la Costituzione [dell’Etiopia] e il quadro politico della giustizia di transizione dell’Unione africana”. .
Questa affermazione è troppo generica e aperta all’interpretazione e dà abbastanza spazio al governo etiope per sottrarsi alle responsabilità e non avviare mai veramente un processo di giustizia transitoria che riterrà responsabili i criminali di guerra.
Ci sono già stati i primi segnali che non c’è volontà politica di cercare responsabilità. Basta guardare alla lotta della Commissione internazionale degli esperti dei diritti umani in Etiopia (ICHREE), incaricata di indagare sui crimini atroci nella guerra nel Tigray. La commissione è stata minata sistematicamente fin dall’inizio.
Quando è stato creato l’ICHREE, il governo etiope ha cercato di impedirgli di ottenere finanziamenti. Ha fallito, ma il budget assegnato alla commissione non era ancora sufficiente per garantirne il corretto funzionamento.
Quando l’ICHREE ha iniziato a lavorare, ha riferito di soffrire di “vincoli di tempo e di personale”, poiché sei posizioni all’interno del suo segretariato sono state tagliate. Peggio ancora, non ha avuto la piena collaborazione delle autorità locali e gli è stato negato l’accesso ai siti di presunte atrocità in Etiopia. Si è persino lamentato del fatto che le sue richieste ad altre entità delle Nazioni Unite per “documenti e materiali di interesse [sono state] ampiamente deviate, o hanno risposto dopo un ritardo eccessivo”.
Anche il Joint Investigation Team (JIT), composto da membri della Commissione etiope per i diritti umani e dell’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (ONCHR), è stato lento nel condividere il suo database interno, ha riferito l’ICHREE.
La commissione ha affrontato tutti questi tentativi di minare il suo lavoro nonostante il fatto che stia indagando su presunti crimini di tutte le parti in conflitto e non solo delle forze governative e dei loro alleati. E il suo rapporto pubblicato a settembre lo riflette.
Afferma che “la Commissione ha ragionevoli motivi per ritenere che i membri delle [Forze di difesa nazionale etiopi] abbiano commesso i seguenti crimini di guerra: violenza alla vita e alla persona, in particolare omicidio; oltraggi alla dignità umana, in particolare trattamenti umilianti o degradanti; dirigere intenzionalmente attacchi contro la popolazione civile e oggetti civili; saccheggio; stupro; schiavitù sessuale; violenza sessuale; e usando intenzionalmente la fame dei civili come metodo di guerra. La Commissione ha ragionevoli motivi per ritenere che le forze del Tigray abbiano commesso gli stessi crimini di guerra, con l’eccezione della schiavitù sessuale e della fame dei civili come metodo di guerra, indipendentemente dall’entità delle violazioni”.
Il rapporto afferma inoltre che l’esercito etiope ei suoi alleati hanno “commesso diffusi atti di stupro e violenza sessuale contro donne e ragazze tigrine. In alcuni casi, gli aggressori hanno espresso l’intenzione di rendere sterili le vittime e hanno usato un linguaggio disumanizzante che suggeriva l’intenzione di distruggere l’etnia tigraia. Le forze del Tigray hanno anche commesso atti di stupro e violenza sessuale, anche se su scala minore”.
In una riunione di settembre del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, i rappresentanti della commissione hanno concluso : “gli orribili e disumanizzanti atti di violenza commessi durante il conflitto… sembrano andare oltre il semplice intento di uccidere e, invece, riflettono un desiderio di distruggere”.
Alla luce di questi risultati, non sorprende che il governo etiope abbia paura dell’inchiesta ICHREE ed è per questo che non vuole e non può condurre un processo di responsabilità per crimini di guerra utilizzando il sistema legale etiope.
Tuttavia, il processo di responsabilità è minato non solo da Addis Abeba, ma anche da attori regionali. I tre membri africani del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – Kenya, Gabon e Ghana (noto anche come A3) – hanno costantemente bloccato l’azione del Consiglio di sicurezza sul conflitto nel Tigray.
Tuttavia, non è nel loro interesse o nell’interesse dell’Unione africana farlo. La giustizia e la responsabilità sono direttamente legate alla pace in Etiopia e quindi alla stabilità nella regione. Ecco perché l’ A3 e l’Unione Africana devono sostenere questa indagine.
Ci sono una serie di misure che devono essere prese per garantire un equo processo di responsabilità in Etiopia.
In primo luogo, l’ICREE dovrebbe essere sostenuto con tutti i finanziamenti necessari e le estensioni del mandato per svolgere il suo lavoro di indagine e documentazione delle atrocità in Etiopia. Il governo etiope deve essere spinto a concedere l’accesso ai siti di interesse e a cooperare con le indagini.
In secondo luogo, la Corte penale internazionale dovrebbe essere coinvolta nel processo di responsabilità. L’Etiopia non è uno Stato parte dello Statuto di Roma, ma il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite potrebbe e dovrebbe deferire il caso alla Corte penale internazionale. Russia e Cina potrebbero bloccare questa mossa, come hanno fatto in passato con risoluzioni a cui il governo etiope si è opposto.
Se ciò accade, c’è ancora un modo per coinvolgere la CPI, se le autorità di Addis Abeba accettano la sua giurisdizione ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 3, dello Statuto di Roma. Ciò ovviamente accadrebbe solo sotto una forte pressione internazionale.
In terzo luogo, l’Unione africana potrebbe guidare il processo di responsabilità istituendo un tribunale ibrido in un altro paese africano. Lo ha fatto per l’accusa dell’ex presidente ciadiano Hissène Habré, che è stato processato in Senegal nel 2015. Ciò garantirebbe il rispetto degli standard internazionali sul giusto processo e svierebbe le pressioni per mantenere l’impunità per i criminali di guerra.
Responsabilità e giustizia sono strumenti potenti per prevenire il ripetersi di atrocità e conflitti in futuro. Indagare correttamente sulle atrocità e quindi avviare un processo di responsabilità è l’unico modo per garantire una pace duratura in Etiopia. L’accordo di pace di Pretoria non durerà a lungo senza questi passaggi.
Ci sono già segnali che la pace è stata minata. I rapimenti e le uccisioni di civili tigrini continuano e la violenza in altre parti del paese non si è arrestata. Un processo di giustizia di transizione riuscito nel Tigray non solo consoliderebbe la pace, ma aprirebbe anche l’onda per tali processi in altre parti del paese che sono state in conflitto e hanno visto uccisioni di massa, come Oromia.
Le vittime della guerra nel Tigray e altrove in Etiopia hanno già sofferto immensamente. Non devono essere derubati dei loro diritti alla giustizia e al risarcimento.
Autore: Dott. Mehari Taddele Maru è un studioso di pace e sicurezza, diritto e governance, diritti umani e problemi di migrazione.
FONTE: aljazeera.com/opinions/2022/12…
Etiopia, Causa al Governo per implicazione in Crimini di Guerra e Contro l’Umanità in Tigray
Martedì 13 dicembre 2022, LAW e i suoi partner, la Pan African Lawyer’s Union (PALU) e Debevoise and Plimpton LLP, hanno depositato istanze di merito e ammissibilità dinanzi alla Commissione africana per i diritti umani e dei popoli (la Commissione), contro lo Stato dell’Etiopia (Etiopia) a nome delle vittime e dei sopravvissuti del Tigray del conflitto scoppiato nel novembre 2020.
La presentazione mette in luce in dettaglio le diffuse violazioni dei diritti umani commesse contro i civili del Tigray durante il conflitto, stabilendo il caso fattuale e legale dei denuncianti sull’ammissibilità e sul merito, e include testimonianze di vittime e testimoni delle violazioni commesse dall’Etiopia, specificando la loro ampia portata.
Questa è la prima volta che le vittime del Tigray vengono ascoltate da un organismo che ha la capacità di decidere se l’Etiopia abbia infranto il diritto internazionale nel Tigray e la sua responsabilità di porre rimedio a tali violazioni.
Le violazioni affrontate nella presentazione includono orribili resoconti di massacri e uccisioni extragiudiziali, violenza sessuale e di genere diffusa e brutale, attacchi aerei indiscriminati, bombardamenti e attacchi a infrastrutture civili critiche come scuole e ospedali, detenzione arbitraria sistematica e tortura di civili tigrini, tra gli altri.
Il governo degli Stati Uniti, l’UE, gli esperti delle Nazioni Unite e numerose organizzazioni per i diritti umani hanno scoperto che alcune di queste violazioni possono costituire crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica.
L’accordo di pace di novembre, firmato dall’Etiopia e dal Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF), non riesce a stabilire adeguatamente una tabella di marcia per la giustizia interna e la responsabilità per le violazioni e gli abusi commessi dall’Etiopia e dalle forze associate durante il conflitto. Sorge la domanda se l’accordo di pace aprirà effettivamente la strada all’impunità, piuttosto che alla responsabilità, negando in ultima analisi alle vittime e ai sopravvissuti di questo conflitto la giustizia che meritano.
La domanda è stata depositata presso la Commissione il 13 dicembre 2022. L’Etiopia avrà ora un periodo di 60 giorni per rispondere alla domanda, dopodiché LAW e i suoi partner avranno 30 giorni per presentare una controreplica.
FONTE: legalactionworldwide.org/gende…
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Dagli al ricco
Le multe fatte ai ricchi siano più care. Questa la nuova frontiera della politica con a cuore il sociale. Uno dei capisaldi della vigorosa scuola “tassazione & rottamazione”: prima faccio la voce grossa e poi ti condono, prima ti stango e poi ti mantengo. Il ricco paghi. Ci sono due ragioni per cui questa roba non può funzionare e non funzionerà.
La prima consiste nel fatto che il sistema fiscale progressivo (al crescere del reddito non solo paghi di più, ma con quote crescenti di quel che guadagni) è buono e giusto, nonché previsto dalla Costituzione. Evviva. Tale sistema è ispirato a un principio di solidarietà, che non sempre funziona, ma che può diventare una persecuzione. In Italia sono poco meno di 5 milioni i contribuenti che pagano più di quel che ricevono. Sono gli stessi contribuenti, assieme a molti altri considerati “ricchi” (ci arriviamo) che non hanno accesso a facilitazioni e pagano per intero determinate prestazioni, sanitarie comprese. Ora li si vuole multare più degli altri, con il che si lascia la sgradevole sensazione che si stia dando la caccia al ricco, anziché all’evasore.
Lasciamo perdere le benedizioni e le predestinazioni, talora guadagnare bene può anche solo essere fortuna. Comunque non è una colpa. Non è il ricco ad avere la colpa dell’esistenza del povero, semmai è la socialità assistenzialista e non meritocratica che ostacola il povero (soprattutto suo figlio) che abbia la capacità di superare il ricco (soprattutto suo figlio).
Ma anche volendo dare la caccia ai ricchi, ed è la seconda ragione per cui non funzionerà, sarà solo immaginaria. Fallimentare. Perché i ricchi non esistono, in Italia. A leggere le dichiarazioni Irpef se ne ricava che solo lo 0.24% dei contribuenti dichiarano più di 200mila euro. Ammesso e assolutamente non concesso che 200mila euro lordi di reddito significhi essere ricchi. Sopra 1 milione c’è solo lo 0.01%. Questi ultimi ho come l’impressione che abbiano l’autista e la vettura intestata a una società. Per mettere le multe salate a qualche persona in più si deve considerare ricchi quelli che dichiarano fra i 75mila e i 200mila euro l’anno, così da fustigare il 2.23% dei contribuenti. Una presa in giro. Sotto i 75mila il concetto di ricchezza è da attribuirsi alla fantasia sprovveduta di realtà, posto che il 56.05% dei contribuenti si colloca sotto i 20mila euro l’anno.
Se lasci la vettura in divieto di sosta è giusto che tu sia multato ed è ingiusto che poi ti condonino la multa che non hai pagato. Ma che la macchina del ricco sia un disvalore superiore all’analoga macchina del povero è moralismo da strapazzo. Tale da suggerire la lettura dei profondi pensieri di Superciuk, <<la minaccia alcolica>>, creato da Max Bunker (faceva lo spazzino e amava i ricchi, detestando i poveri perché sporcano di più). A parte la curiosa conseguenza secondo cui le multe al Nord sarebbero più care che al Sud, mi vengono in mente talune ricche città europee, ove non c’è una macchina che sia una fuori dai parcheggi regolari (e a pagamento). Non sarà che a rendere inefficaci le nostre multe siano le rottamazioni reclamate e attuate, piuttosto che la presunta esiguità dell’ammontare?
Ma c’è la più sollazzevole delle implicazioni: la multa all’evasore fiscale sarà più bassa di quella all’onesto contribuente. E in un Paese che ha il record europeo dell’evasione Iva, il che comporta pagamenti non fatturati o registrati, portando con sé evasione sul reddito e sulla previdenza, mi sa che con le multe fustigatrici dei ricchi (inesistenti) si cominci ad esagerare con l’istigazione all’evasione fiscale.
A tal proposito: Meloni ha ragione e sarebbe incostituzionale stabilire il prezzo delle transazioni con carte di credito e debito. Quelle commissioni, però, sono sempre e continuamente scese. Miracolo? No, concorrenza. Come è capitato con le tariffe telefoniche e i biglietti aerei: mercato, concorrenza e controlli. È la socialità del “dagli al ricco” a produrre miseria ed evasione fiscale.
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#uncaffèconluigieinaudi ☕ – La chiacchiera ucciderà il sistema parlamentare
… altrimenti, la chiacchiera ucciderà il sistema parlamentare ed instaurerà l’onnipotenza della burocrazia
da Corriere della Sera, 18 agosto 1921
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‘Qatargate’, mazzette in cambio di idee: dolo sì, reato forse
C’è una sorta di costante nei commenti e nelle analisi dei nostri politicanti e tirapiedi vari, ma anche nella stampa, specie in ‘quella che conta’ o dice di contare, una costante, dico, nei commenti alla vicenda di Bruxelles. Una vicenda, apparentemente come vedremo, di ordinaria corruzione, volgare come sempre la corruzione, che non è più […]
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Ucraina: a Parigi, una conferenza di ‘non-pace’
‘Solidali con il popolo ucraino’: questo il titolo della conferenza internazionale svoltasi il 13 dicembre a Parigi su invito congiunto del Governo francese e di quello di Kiev. Ha fatto seguito, nel pomeriggio dello stesso giorno, un incontro bilaterale franco-ucraino dedicato alla futura ricostruzione del Paese e al contributo che ad essa potranno dare gli […]
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La Germania e il terrorismo statale di destra
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Una notizia che in questi giorni è passata alquanto collaterale rispetto a temi mediatici più appetibili per l’informazione […]
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Crea con l'IA un'immagine ispirata a Privacy Chronicles e vinci un abbonamento gratuito!
Ciao a tutti,
grazie a un lettore oggi ho scoperto un software di intelligenza artificiale che permette di creare immagini a partire da un prompt umano. Lo strumento è davvero molto potente e l’unico limite è la fantasia.
Questo lettore l’ha usato per chiedere al software di creare delle immagini di copertina per Privacy Chronicles:
Il software si chiama Midjourney ed è davvero semplice da usare. Bisogna soltanto scaricare Discord, creare un account e poi entrare nel server del bot (discord.gg/midjourney).
Una volta dentro, sarà sufficiente entrare in una delle stanze denominate #newbies e chiedere al bot di creare qualcosa con il comando /imagine. Qui trovate tutte le istruzioni per conoscere le varie configurazioni del bot e avere risultati ottimali, ma in verità non ce n’è neanche bisogno.
Crea un’immagine a tema Privacy Chronicles
Ho giocato anch’io un po’ con il bot, e mi è piaciuto così tanto che ho pensato: hey, perchè non vedere cosa riescono a tirar fuori anche gli altri lettori di Privacy Chronicles?
E allora eccoci qui, vediamo cosa riuscite a tirare fuori dal cappello — o meglio, dall’intelligenza artificiale.
Stimoliamo la fantasia con un po’ di sana competizione tra noi. I lettori che riusciranno a creare l’immagine più bella vinceranno un abbonamento a Privacy Chronicles.
Ecco le regole:
- Crea un’immagine a tema Privacy Chronicles — cioè un’immagine che raffiguri ciò che per te rappresenta Privacy Chronicles. Senza alcun limite, se non quello di spiegarmi l’immagine se eccessivamente astratta.
- Inviami via posta elettronica (crypt04n4rch1st@tutanota.com) la tua immagine con titolo “IA prompt PC” (max 1 a persona)
- Descrivi brevemente l’immagine (anche solo col prompt usato per crearla). Se non la capisco non la prendo in considerazione!
Le prime tre immagini che mi piaceranno di più vinceranno un abbonamento gratuito a Privacy Chronicles, in questi termini:
1° classificato/a: sei mesi di abbonamento gratuito
2° classificato/a: tre mesi di abbonamento gratuito
3° classificato/a: un mese di abbonamento gratuito
N.B. gli abbonati riceveranno un’estensione all’abbonamento già attivo
Verranno prese in considerazione solo le immagini inviate entro le 23:59 del 23 dicembre 2022. Non so quanti di voi parteciperanno a questa piccola gara amichevole, ma siete migliaia e mi ci potrebbe volere del tempo per scegliere i vincitori. Abbiate pazienza 😁
Cercherò comunque di postare le immagini che mi hanno colpito di più sul canale telegram, a prescindere dai primi tre posti. Se non sei ancora iscritto/a, è un buon momento per farlo!
Vi lascio con delle immagini che ho creato oggi e che mi piacciono particolarmente. Al software ho chiesto di immaginare una società in cui le persone sono valutate e punite per ciò che pensano:
USA: la guerra dei chip colpisce gli alleati, ma non molto la Cina
Il Bureau of Industry and Security (BIS) del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha implementato fino ad oggi i controlli più completi sulla fabbricazione di semiconduttori e sul supercalcolo. Nel corso dell’ottobre 2022, l’amministrazione Biden ha ampliato i propri controlli sull’esportazione di semiconduttori, supercomputer e relativi input e apparecchiature in Cina. Anche la vendita di tecnologie […]
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Venezuela – USA: Biden parli ai venezuelani
Mentre riprendono i negoziati tra il governo venezuelano e l’opposizione, l’amministrazione Biden ha l’opportunità di sostenere accordi sostanziali che possono affrontare i diritti umani e le crisi umanitarie del paese. Farlo, tuttavia, richiederà un maggior grado di coordinamento multilaterale e garantire che il processo coinvolga la società venezuelana, non solo la sua classe politica. Il […]
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Pace in Ucraina: i fantasmi di Versailles
Un cambio di stagione porta un cambio di prospettiva. Con St Martin che appare su un cavallo bianco per segnalare le prime nevicate nell’Europa centrale e orientale, con il medio termine alle spalle e il costo per l’Occidente che cresce come un deficit di bilancio degli Stati Uniti, il discorso si è rivolto alla pace. […]
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MIGRANTI. Si torna a respingere al confine italo-sloveno
di Anna Clementi e Diego Saccora – Associazione Lungo la rotta balcanica
Pagine Esteri, 14 dicembre 2022 – “La Lampedusa del Nord non va sottovalutata e quella delle riammissioni è una delle soluzioni a cui stiamo pensando”. Le parole pronunciate lunedì a Martignacco (Udine) da Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento, danno seguito ai recenti ripetuti annunci del governo Meloni sulla riattivazione delle “riammissioni informali” al confine tra Italia e Slovenia sulla base della direttiva firmata da Maria Teresa Sempreviva, capo di gabinetto del Viminale relativa “all’incremento dei flussi migratori della rotta balcanica”.
Ciriani parlando di “Lampedusa del nord” intende l’area del Friuli-Venezia Giulia a ridosso del confine sloveno e definisce riammissioni i respingimenti delle persone operati dalla polizia italiana verso la Slovenia, pratiche che costituiscono una grave violazione dei diritti umani. Il piano del nuovo governo è chiaro: respingere non solo via mare ma anche via terra chiunque tenti di entrare in territorio italiano, tentando di giustificare tali azioni mistificando i numeri. A fronte di un aumento percentuale delle persone prive di regolare permesso di soggiorno intercettate al confine pari al 204% si tiene in secondo piano che il dato numerico sia di 4101 in tutto il 2022.
“Su un piano umano prima ancora che giuridico la notizia della ripresa delle riammissioni informali ha destato un vero e proprio sconcerto” ha dichiarato l’avvocata Caterina Bove dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione (Asgi), in una conferenza stampa online organizzata lunedì 13 dicembre dalla rete RiVolti ai Balcani. “Ci è già noto il destino delle persone riconsegnate alla rotta balcanica, destino che le vedrà diventare soggetti o meglio oggetti di riammissioni a catena dall’Italia alla Slovenia, alla Croazia e da lì fino alle porte dell’Unione europea, in Bosnia o in Serbia, un destino che li costringerà ad affrontare di nuovo le violenze perpetrate ai confini croati, nonostante le numerose denunce da parte di tante organizzazioni” e a una sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani che nel novembre 2021 ha condannato le stesse autorità croate per la morte della piccola Madina Hussiny, bambina afghana respinta verso la Serbia insieme alla famiglia nel 2017.
Ma lo sgomento, come ci spiega la Bove assieme alla sua collega di Asgi, Anna Brambilla, è anche giuridico. Non sono passati due anni da quando il Tribunale di Roma nel gennaio 2021, a seguito di un ricorso presentato dalle due avvocate, dichiarò illegittime le riammissioni dall’Italia alla Slovenia perchè fondavano la propria base giuridica su di un accordo siglato tra i due Paesi nel 1996 e mai ratificato dal Parlamento, violando leggi interne, europee e internazionali, oltre ad esporre le persone a “trattamenti inumani e degradanti” lungo i Paesi dei Balcani e a “torture” in Croazia. Nessun rilascio di documentazione scritta, nessuna informativa sui propri diritti, detenzione in una caserma, per poi essere fatti salire su un furgone prima di essere consegnati alle autorità slovene. E spesso da lì, fuori dai confini dell’Unione europea. Dopo la sentenza, le riammissioni, che tra il 2019 e il 2020 hanno costituito l’illegittima base giuridica per il respingimento di oltre 1200 persone verso la Slovenia e molte a catena verso Serbia e Bosnia ed Erzegovina, sono state sospese.
Ma ora il governo sembra di nuovo muoversi in direzione contraria incurante dell’illegittimità di queste pratiche, che rimangono illegali anche nei casi in cui non venga registrata la manifestazione di volontà di richiesta della protezione internazionale. Infatti, come ci ricorda l’avvocata Brambilla, “in Italia le condotte della polizia di frontiera sono già state oggetto di pronunce sia di giudici nazionali sia di corti sovranazionali soprattutto per quanto riguarda il diritto d’informazione”. Pertanto l’assenza della registrazione da parte della polizia della manifestazione di presentare la richiesta di protezione internazionale non significa che la persona non abbia espresso la volontà di chiedere asilo ma può semplicemente essere che non sia stata messa nella condizione di manifestare tale volontà e che non sia stata informata sulle implicazioni in merito.
L’altro rischio è quello dei respingimenti collettivi in cui gruppi di persone vengano respinti, sulla base degli accordi, da un Paese all’altro senza che vi sia una valutazione individuale del singolo caso. “Non si parla mai dei destinatari delle riammissioni” ci ricorda Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano Solidarietà.
Ed è proprio delle persone che non dobbiamo mai dimenticarci. Perchè troppo spesso nel botta e risposta alla ricerca della disposizione a sostegno della legittimità o meno di un’azione, si perde di vista il contesto storico, sociale e politico entro il quale ogni singola persona che da anni percorre le rotte lungo i Paesi dei Balcani, dentro e fuori i confini d’Europa, si trova ad affrontare, subendo violenze fisiche e psicologiche. Il diritto negato è la cartina di tornasole di una persona violata. Perchè costretta a vivere rinchiusa in un campo, a sopravvivere in un accampamento informale, quotidianamente respinta nel tentativo di entrare in Unione europea, se non di essere riportata indietro al proprio Paese d’origine o in un Paese terzo dove i diritti e le vite delle persone vengono ancora una volta negati. Violazioni ampiamente documentate da numerose inchieste giornalistiche, tra tutte ricordiamo quelle pubblicate dal collettivo di giornalisti Lighthouse Report in collaborazione con diverse testate europee e quelle raccolte da volontari e attivisti ai confini interni ed esterni dall’Ue contenuti nel “Libro Nero dei respingimenti” prodotto dal Border Violence Monitoring Network. Pagine Esteri
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JENIN. Uccisa una palestinese di 16 anni durante un raid dell’esercito israeliano
AGGIORNAMENTO ORE 18.30
L’esercito israeliano comunica che con “alta probabilità” un cecchino della polizia di frontiera ha “accidentalmente” sparato e ucciso la sedicenne Jana Zakarna che, dice il comunicato, sarebbe stata vicina a uomini armati che da un tetto sparavano ai soldati durante un raid a Jenin.
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della redazione
(nella foto Jana Zakarna)
Pagine Esteri, 12 dicembre 2022 – Con una sorta di ammissione parziale delle sue responsabilità, l’esercito israeliano ha comunicato di aver avviato indagini per “accertare” se i suoi soldati hanno aperto il fuoco verso una ragazzina palestinese, uccidendola, la scorsa a Jenin, in Cisgiordania. Una uccisione che descrive come “accidentale” perché, afferma in un comunicato il portavoce militare, è avvenuta “durante uno scontro a fuoco con uomini armati palestinesi”. Jana Zakarna, 16 anni, è stata trovata morta sul balcone di casa con una ferita da arma da fuoco alla testa dopo che le truppe israeliane si erano ritirate da Jenin.
Secondo la tv israeliana Kan e il portale di notizie Ynet, Zakarna potrebbe “essere stata erroneamente presa di mira” mentre osservava le truppe dal terrazzo. I soldati, affermano gli stessi media israeliani, hanno effettivamente sparato contro i tetti di diverse abitazioni di Jenin, da dove, affermano, combattenti palestinesi avrebbero aperto il fuoco sulle forze israeliane che stavano arrestando due fratelli “ricercati”, Thaer e Muhammad Hatnawi, di 40 e 33 anni, e Hassan Marei, 30 anni. Altri tre palestinesi sono stati feriti negli scontri a fuoco.
La “Brigata Jenin” ha comunicato di aver resistito con un intenso fuoco di armi automatiche al raid israeliano al quale hanno preso parte anche soldati di unità speciali sotto copertura e cecchini piazzati sui tetti. Tra gli israeliani non si segnalano feriti. La scorsa settimana i militari avevano ucciso altri tre palestinesi a Jenin.
Questa mattina due giovani militanti sono rimasti feriti in un’esplosione avvenuta nel campo profughi della città causata, secondo la Brigata Jenin, dal fuoco di un drone israeliano. Questa versione non ha però trovato una conferma indipendente.
Jana Zakarna è il 218esimo palestinese ucciso dalle forze armate israeliane quest’anno, in gran parte in Cisgiordania durante ripetute incursioni in città e villaggi scattate dopo gli attacchi armati della scorsa primavera a Tel Aviv e altre città che hanno ucciso 18 civili israeliani. Tra le vittime palestinesi figurano una cinquantina di minori e una giornalista, Shireen Abu Akleh, della tv qatariota Al Jazeera, anche lei colpita “accidentalmente” secondo la versione fornita dall’esercito israeliano. Pagine Esteri
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Noi e il « ciecopacifismo » (che tanti danni ha fatto)
Gli ucraini hanno nella cultura popolare una parola intraducibile, che però descrive bene l’approccio di vasta parte dell’opinione pubblica occidentale alla guerra d’aggressione russa: poluda.
In certe loro favole nere, il diavolo si diletta a offuscare con questa sorta di cataratta gli occhi di chi vuole ingannare, spiega Oksana Zabuzko nel libro «Il viaggio più lungo», compendio della nostra cecità di fronte all’imperialismo putiniano. Le parole talvolta si rincorrono nel tempo e nello spazio, così svelandocisi appieno. Mosca prepara un inverno di fame e gelo per piegare milioni di ucraini. E ieri il presidente Zelensky ha chiesto ancora aiuto all’Occidente paventando altri attacchi missilistici alle infrastrutture volti a «provocare nuovi blackout».
In un contesto così estremo, la poluda richiama molto da vicino il senso del cieco pacifismo di cui parlava vent’ anni or sono Giovanni Sartori. Si tratta di quella tenebra che ottunde chi, «tutto cuore e niente cervello», rifiuta qualsiasi guerra, anche quella difensiva, anche quella che servirebbe a fermare un assassino quando questi compie i suoi misfatti proprio sotto il nostro sguardo. I pacifisti degli anni Trenta «hanno aiutato Hitler a imporsi», annotava il grande politologo.
Oggi la voglia di pace è grande, naturalmente, e cresce ormai assieme alla nausea per questa guerra «blasfema», come ripete senza sosta Papa Francesco. Tale intenso e sano desiderio può tuttavia generare equivoci, accecarci. E forse è alla base d’un curioso abbaglio: a Parigi s’ è tenuta ieri una conferenza internazionale, con Macron quale principale promotore. Obiettivo: consentire agli ucraini di «resistere durante l’inverno» e, accanto, porre le prime basi della ricostruzione che verrà. Ammontano a un miliardo i fondi promessi per i prossimi quattro mesi.
L’iniziativa ha raccolto una settantina di partecipanti d’alto rango (per noi, il ministro Tajani) nel supporto a Kiev in settori vitali come energia, trasporti e alimentazione. Confondendo desideri e realtà, su alcuni media era stata tramutata in una «conferenza di pace»: che certo sarebbe ottima cosa, se ci fosse qualcuno a Mosca disposto a parlarne sul serio. E qui torna in scena la poluda , perché ci vuole davvero una benda davanti agli occhi per non vedere.
A inizio dicembre, infatti, il ministro degli Esteri russo, Lavrov, nella conferenza stampa annuale coi media, ha rimesso mano al più trito repertorio con cui il regime aveva giustificato l’invasione del 24 febbraio, dall’invettiva contro «lo sconsiderato allargamento della Nato» alla «minaccia esistenziale» che noi occidentali avremmo lanciato contro la Russia tramite Zelensky, fino a uno strabiliante attacco al Papa, accusato di «dichiarazioni non cristiane», con tanti saluti ai tentativi di mediazione del Vaticano.
Inoltre, poiché i russi dedicano speciali attenzioni all’Italia sperando in una nostra defezione, assai improbabile vista la postura di Giorgia Meloni, l’ambasciatore Razov ha lanciato la fake news di un blindato italiano distrutto in terra ucraina (ammonendoci, «tutti i contribuenti italiani sono felici di questa destinazione dei loro soldi?») proprio mentre stavamo discutendo sulla proroga dell’invio di armi a Kiev.
Insomma, c’è da pregare per un cessate il fuoco, è ovvio: Gideon Rachman sul Financial Times immagina un armistizio «coreano», che a un certo punto congeli la situazione senza un trattato formale.
Ma lui stesso ammette che Putin delira ancora di vittoria e si paragona a Pietro il Grande, un raffronto forse non casuale sui tempi e i propositi, visto che lo zar vinse la Grande guerra del Nord dopo 21anni di combattimenti. Di buono c’è che Putin fa ciò che dice, basterebbe ascoltarlo e regolarsi. Rovesciando la lettura di Lavrov, Kaja Kallas ricorda su Foreign Affairs che a dicembre dell’anno scorso la Russia aveva minacciato la Nato con il suo ultimatum: stop alla politica delle porte aperte e stop al dispiegamento di forze in Paesi entrati nell’Alleanza dopo il 1997 o sarebbe stata la guerra. Due mesi dopo, guerra è stata. Ma fino al giorno prima i nostri ciecopacifisti sostenevano che il suo
spauracchio era un’invenzione della Cia e che 190 mila soldati russi al confine ucraino fossero lì a esercitarsi.
Insomma, l’idea del dialogo per ora è velata di irenismo. È un «dialogo col sordo», ha scritto Paola Peduzzi sul Foglio . L’ottundimento dei sensi è tema ricorrente. Qui, il sordo è Putin che finge di non capire, spiegandoci che «un accordo sarà inevitabile» prima o poi, a patto che vengano riconosciuti «i nuovi territori della Federazione Russa», cioè quel quinto di Ucraina che lui occupa illegalmente e stupra ogni giorno. Le parole, in una guerra che passa molto attraverso la conquista di cuori e menti, sono assai importanti ma assumono diversa intensità a seconda della distanza dai missili russi. Sicché gli ucraini hanno riscoperto sulla loro pelle il significato di Holodomor : la carestia con cui Stalin li decimò il secolo scorso e che Putin ripropone adesso, coi suoi bombardamenti sugli impianti civili che mirano a ridurre l’Ucraina a una landa ghiacciata (un incubo cui si oppone appunto la conferenza di Parigi).
Noi, più fortunati, possiamo dilettarci, per ora senza conseguenze così estreme, con la parola «guerrafondaio», rispolverata contro il
governo Meloni dal leader d’opposizione Conte dopo avere votato lui stesso con la maggioranza precedente i decreti sull’invio di armi. Il termine ha una storia illuminante. Usato dal Pci addirittura contro De Gasperi per rimproverargli la sudditanza verso gli (allora) odiatissimi americani, non era disdegnato neppure da Hitler che voleva presentare la sua guerra come atto puramente difensivo: nel 1939 il Führer lanciò una campagna mediatica in cui, accingendosi a invaderne il territorio, dava del «guerrafondaio» al governo di Varsavia, accusato di «atrocità» contro la gente di etnia tedesca che viveva in Polonia.
Pochi anni prima, il poeta Arturo Serrano Plaja s’ era trovato ad affrontare la contraddizione tra il proprio pacifismo e la necessità di opporsi a franchisti e fascisti nella guerra civile che dilaniava la sua Spagna. Nulla sapendo di poluda, aveva concluso comunque che i guerrafondai erano loro. E che a lui, proprio nel nome della pace che amava, toccava combatterli senza quartiere.
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Percorso sperimentale integrato per l’anno scolastico 2023/2024: al via le candidature per l’indirizzo Trasporti e logistica, Conduzione di apparati e impianti marittimi (CAIM)/Conduzione di apparati e impianti elettronici di …
Ministero dell'Istruzione
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Regno Unito , i richiedenti asilo & il lungo braccio del regime dell’Eritrea oltre confine.
Il 4 settembre, 16 richiedenti asilo eritrei sono stati arrestati durante una protesta contro la dittatura del loro paese ei suoi sostenitori qui. Da allora, sono state sollevate domande sul fatto che le autorità britanniche stiano facendo abbastanza per proteggere attivisti e richiedenti asilo dal “braccio lungo” del regime di Asmara.
AARON è arrivato in Gran Bretagna come rifugiato dall’Eritrea un anno fa. Il giovane richiedente asilo non ha voluto entrare nei dettagli sul motivo per cui è fuggito dalla sua casa in Africa orientale. Invece, mi racconta in termini generali com’è vivere sotto una delle dittature più dure del mondo.
“In qualsiasi momento, puoi essere rimosso con la forza dalla tua vita, da tutto ciò che conosci… e costretto a diventare un soldato”, dice, parlando attraverso un interprete. Crescendo, Aaron ha visto i suoi amici, vicini e parenti scomparire nel sistema di coscrizione nazionale a tempo indeterminato dell’Eritrea.
“Quando hai una certa età, vedi persone portate con la forza a Sawa”, dice, riferendosi al campo di addestramento militare dove i giovani eritrei vengono portati a trascorrere l’ultimo anno di scuola. “È un posto dove vanno a modellarti per essere uno schiavo… per non ribellarti in alcun modo e non avere il permesso di pensare o fare domande. Vedi molta violenza prima che arrivi a te, ed è così che non dissenti.”
Dalla guerra di confine con l’Etiopia alla fine degli anni ’90, il dittatore eritreo Isaias Afwerki e il Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (PFDJ) al potere – l’unico partito autorizzato ad esistere in Eritrea – hanno utilizzato il servizio militare a tempo indeterminato per controllare la sua popolazione. I coscritti sono sottoposti a lavori forzati, ha riferito l’ONU, che “di fatto li abusa, li sfrutta e li rende schiavi per anni”.
Negli ultimi due anni, le reclute sono state inviate oltre confine per combattere nella regione settentrionale del Tigray in Etiopia, dove una sanguinosa guerra civile ha ucciso oltre mezzo milione di persone. Per mantenere lo sforzo bellico, quest’anno l’Eritrea ha intensificato la sua campagna di reclutamento, con persino bambini e anziani radunati per combattere.
Approfondimento: Etiopia, coinvolgimento dell’Eritrea nel nuovo fronte di guerra in Tigray
Il presidente Afwerki ha governato il piccolo paese nel Corno d’Africa da quando ha ottenuto l’indipendenza dall’Etiopia nel 1993. Senza parlamento, costituzione, magistratura indipendente, elezioni o stampa libera, Afwerki e la sua piccola squadra di consiglieri governano l’Eritrea con potere e controllo completi. Gli oppositori vengono rinchiusi senza accusa né processo, insieme a renitenti alla leva ea coloro che cercano di fuggire.
Molti giovani eritrei come Aaron rischiano il tutto per tutto per scappare. I timori della coscrizione hanno portato l’Eritrea a diventare uno dei maggiori creatori di rifugiati al mondo per abitante, con oltre il 10% della popolazione totale del paese che si pensa viva in esilio. Mentre molti fuggono nei paesi vicini, altri intraprendono il pericoloso viaggio verso l’Europa, rischiando la schiavitù in Libia e la morte nel Mediterraneo.
Dopo aver raggiunto le coste britanniche, il giovane richiedente asilo credeva di aver messo abbastanza distanza tra sé e il regime per garantire la sua libertà e sicurezza
Dopo aver raggiunto le coste britanniche, il giovane richiedente asilo credeva di aver messo abbastanza distanza tra sé e il regime per garantire la sua libertà e sicurezza. Ma con suo sgomento, scoprì che la presa del dittatore si estendeva ben oltre i confini dell’Eritrea.
“Ci sentiamo impotenti”
Il regime di Afwerki è determinato a mantenere il controllo non solo sulla popolazione all’interno dell’Eritrea, ma anche sulla diaspora, dice Aaron. “Molti di noi nella comunità si sentono impotenti”, mi dice l’attivista eritreo-britannica Helen Girmasion, che vive in Gran Bretagna da oltre 30 anni. “Riteniamo che il regime stesso, o il braccio del regime, abbia ancora un effetto sulle persone della diaspora. È ancora molto minaccioso, non puoi davvero parlare apertamente del regime anche se sei nel Regno Unito, a migliaia di chilometri di distanza dall’Eritrea”.
“non puoi davvero parlare apertamente del regime anche se sei nel Regno Unito, a migliaia di chilometri di distanza dall’Eritrea”
L’uso da parte dell’Eritrea delle sue ambasciate e dei suoi sostenitori all’estero per reprimere i critici è stato a lungo documentato dai gruppi per i diritti umani. Un rapporto di Amnesty International nel 2019 (trad. it.) ha accusato il partito al governo di Afwerki di aver compiuto “minacce di morte, aggressioni fisiche e diffusione di bugie” per mettere a tacere i critici della diaspora.
I ricercatori hanno scoperto casi di attivisti eritrei in Europa perseguitati, bombardati da chiamate minacciose da numeri sconosciuti e sottoposti a campagne diffamatorie online. I sostenitori del partito PFDJ al potere in Eritrea e della sua ala giovanile YPFDJ sono in prima linea in questi attacchi in Europa, osserva il rapporto, anche in Gran Bretagna. Come spiega Aaron: “Il sostegno al regime è così forte [nel Regno Unito] che ti sembra di essere ancora in prigione”.
Approfondimento: The Eritrean regime trains its young people in Rome
“Vengo attaccata verbalmente tutto il tempo”, mi dice Elizabeth Chyrum, fondatrice e direttrice del gruppo britannico Human Rights Concern Eritrea (HRCE). “Quando ero incinta di sette mesi, quattro donne hanno minacciato di farmi del male fisicamente, ma sono riuscita a scappare. Da allora, sono molto attento [sui] miei movimenti e impegni.
I critici del regime possono anche trovarsi esclusi dalle aree chiave di sostegno della loro comunità, come spiega Chyrum:
“Il regime eritreo ha il controllo della maggior parte delle chiese della diaspora. Le chiese raccolgono una decima dalle loro congregazioni e la inviano al governo eritreo”.
La repressione degli eritrei all’estero è stata condannata dal Parlamento europeo, che, in una risoluzione del 2016, ha accusato il PFDJ di estendere una “presa totalitaria” sulla diaspora eritrea, attraverso lo spionaggio dei civili, prendendo di mira le loro famiglie in Eritrea e imponendo un 2% come tassa al centesimo.
Questa “tassa sulla diaspora” è una forma più discreta di come il regime esercita il controllo sulla diaspora, ma non meno sinistra. Riscossa su tutti gli eritrei che vivono all’estero, compresi quelli beneficiari di sussidi, il mancato pagamento può comportare l’impossibilità di accedere ai servizi consolari e all’aiuto dello Stato, come ottenere il passaporto, vendere proprietà in Eritrea, esaudire le volontà morenti di parenti o addirittura far rimpatriare il tuo corpo a casa. In questo modo, le persone che non sostengono il regime si trovano sotto pressione per contribuire ad esso attraverso la tassa del 2%.
Mentre il governo eritreo afferma che il prelievo è utilizzato per finanziare progetti di sviluppo, un recente rapporto dei parlamentari britannici ha sollevato timori che il denaro sia stato utilizzato per aiutare a finanziare la guerra nel Tigray, dove le truppe eritree sono state accusate di stupro di gruppo, omicidio e saccheggio, prima il mese scorso è stato raggiunto un accordo di pace tra Etiopia e ribelli del Tigray. Il rapporto, del collega interpartitico Lord David Alton, co-presidente dell’APPG sull’Eritrea, chiede un’indagine urgente sulla tassa.
Resistenza nella diaspora
Il sostegno ad Afwerki e al PFDJ al potere tra la diaspora è complicato. Dopo aver sopportato oltre 100 anni di colonizzazione sotto varie potenze e 30 anni di guerra per l’indipendenza, molti eritrei continuano a provare un forte senso di orgoglio nazionale per la loro piccola patria e per la sua lotta di liberazione.
I timori alimentati dalla propaganda del governo che la nazione relativamente giovane possa cadere ancora una volta nelle mani di una potenza straniera, genera sostegno al regime, indipendentemente dal trattamento riservato ai suoi cittadini.
Come spiega Helen, “Molte persone hanno un attaccamento emotivo al loro paese, soprattutto come è successo con [la] guerra dei 30 anni. Ogni eritreo, almeno uno o due della sua famiglia, è morto per questo Paese”.
Ma negli ultimi anni le voci di opposizione nella diaspora si sono rafforzate, soprattutto tra i giovani eritrei. La scorsa estate, gruppi di opposizione in tutto il mondo hanno lanciato una posizione senza precedenti contro i sostenitori del PFDJ, chiudendo una serie di festival politici sponsorizzati dal regime in Svizzera, Germania, Norvegia, Paesi Bassi, Stati Uniti e Gran Bretagna.
Questi eventi, che presentano cantanti e artisti eritrei, raccolgono donazioni per il regime e diffondono propaganda, dicono i critici. Essendo uno dei paesi più poveri del mondo, si dice che l’Eritrea dipenda in modo massiccio dai contributi dei suoi cittadini all’estero attraverso una tassa del 2% e donazioni.
“È un regime che non esisterebbe se non fosse per la diaspora”, spiega Helen, motivo per cui prendere di mira i festival è un modo efficace con cui gli attivisti possono resistere alla dittatura in patria.
Quest’anno, i festival sono diventati un campo di battaglia chiave tra i sostenitori pro e antigovernativi della diaspora.
Ciò è stato visto a Londra il 4 settembre 2022, dopo che una campagna di attivisti per i diritti umani ha portato alla cancellazione di un festival, che si sarebbe tenuto nel distretto di Lambeth, da parte del consiglio locale e della polizia metropolitana.
Arrabbiati per l’annullamento del festival, i sostenitori del PFDJ hanno deciso di tenere un raduno filogovernativo, con circa 70 partecipanti, fuori dall’ambasciata eritrea a Islington, a nord di Londra, più tardi quel pomeriggio. Allertati dell’evento dell’ultimo minuto dai post sui social media, gli attivisti che avevano lottato duramente per annullare il primo evento hanno indetto una contro-manifestazione.Manifestanti fuori dall’ambasciata eritrea a Islington, a nord di Londra, il 4 settembre 2022
Molti dei manifestanti, circa 40, erano giovani richiedenti asilo eritrei – tra loro c’erano coscritti costretti a combattere nel Tigray che avevano sperimentato in prima persona la brutalità del regime eritreo. Per loro, i festival sono un crudele promemoria del fatto che il regime non è mai troppo lontano.
Aaron era fortemente convinto di unirsi alla protesta quel giorno: “Quei sostenitori hanno le mani sporche di sangue. I sostenitori qui conoscono molto bene le torture, le sparizioni, l’esercito a tempo indeterminato, sono ben consapevoli di ciò che sta accadendo e lo sostengono”.
Durante la protesta, il gruppo filogovernativo ha sventolato bandiere eritree, cantato canzoni patriottiche e canti guidati descritti dagli attivisti come “incitamento all’odio”. La tensione era alta e scoppiarono tafferugli. Ma molti hanno protestato pacificamente con i giovani eritrei seduti per strada, mi racconta Helen, che quel giorno era alla manifestazione.
La polizia ha permesso che l’evento filogovernativo continuasse, nonostante le obiezioni dei contromanifestanti. “Dicevamo, o finisce tutto o ci dai uno spazio per protestare”, dice Helen. “E la polizia ha detto: ‘No, solo le persone fuori dall’ambasciata possono protestare”.
Alla fine, è stata chiamata la polizia antisommossa che ha disperso con la forza i manifestanti antigovernativi. Ventuno persone sono state arrestate. Di questi, 16 erano giovani richiedenti asilo eritrei, di età compresa tra i 18 ei 25 anni.
Helen ha descritto la risposta della polizia come “brutale” e accusa gli agenti di negare loro un luogo per protestare. I video mostrano agenti che estraggono manganelli e trascinano fuori dalla strada i manifestanti. Gli eventi hanno attirato l’attenzione della stampa di destra, con articoli sul Daily Mail e sul Sun che descrivono i manifestanti come “folle” e “rivoltosi”.
I sostenitori del regime hanno avuto un ruolo nel diffondere alla stampa disinformazione sull’incidente, afferma Helen, taggando il Daily Mail, il Sun e il Telegraph quando pubblicano i video della protesta sui social media. L’ambasciata eritrea a Londra ha affermato che i manifestanti antigovernativi erano “terroristi tigrini”.
Helen afferma che l’uso di tale linguaggio è una tipica tattica usata dal regime e dai suoi sostenitori per “cancellare le identità” degli eritrei critici nei confronti del regime. (L’ambasciata eritrea non ha risposto a una richiesta di commento.)
Aaron prova un forte senso di ingiustizia per il modo in cui la protesta è stata gestita dalla polizia e riportata dalla stampa britannica. Ora si sente messo a tacere non solo dal regime oppressivo da cui è fuggito, ma anche dalle autorità britanniche che sperava lo avrebbero protetto.
“È stato triste vedere un paese che pensavamo rispettasse i diritti umani e la nostra sicurezza ci trattasse in quel modo”, dice. “Finché non stiamo interrompendo … il paese che ci ha dato sicurezza, allora è nel nostro diritto continuare a opporci al regime, a difendere i nostri diritti”.
A seguito dei loro arresti, Aaron e gli altri manifestanti ora affrontano un futuro incerto. Una condanna penale potrebbe esporre le loro richieste di asilo a grave rischio di rifiuto.
La risposta della polizia alla protesta ha suscitato preoccupazioni anche da parte delle organizzazioni per i diritti umani e di un parlamentare. In una dichiarazione in risposta alla protesta dell’epoca, il dottor Khataza Gondwe del gruppo britannico Christian Solidarity Worldwide ha dichiarato:
“I contro-manifestanti sono veri rifugiati e richiedenti asilo. È profondamente deplorevole che in una società libera e democratica siano stati loro a essere dispersi e arrestati con la forza, mentre coloro che hanno iniziato la violenza sono stati in grado di continuare il loro incitamento all’odio”.
Jeremy Corbyn, deputato di Islington North, il collegio elettorale vicino all’ambasciata, si è detto allarmato nel sentire degli arresti.
“Protestare è un diritto democratico, un diritto che si estende a coloro che protestano contro gli atti dei governi in patria e all’estero”, ha continuato l’ex leader laburista, che è stato un sostenitore della pace nel Tigray.
“Molti di questi manifestanti erano essi stessi giovani richiedenti asilo eritrei, che denunciavano le violazioni dei diritti umani e la guerra nel Tigray. Questa repressione è un esempio fin troppo sconvolgente della demonizzazione su vasta scala sia dei richiedenti asilo che di coloro che sostengono la loro situazione”.
Il Met non ha affrontato le preoccupazioni sollevate in merito alla sua risposta alla protesta in una richiesta di commento, ma ha affermato in una dichiarazione che i suoi ufficiali erano stati chiamati il 4 settembre per segnalazioni di “combattimenti” nelle vicinanze dell’ambasciata. “Gli ufficiali locali hanno partecipato e hanno trovato un certo numero di gruppi coinvolti in uno scontro”, dice. “Anche ufficiali specializzati sono stati chiamati ad assistere. Ventuno persone sono state arrestate per reati tra cui l’ordine pubblico e l’ostruzione volontaria dell’autostrada. Un’indagine è ancora in corso”.
‘Nessuno è dalla nostra parte’
Gli eventi di quel giorno riflettono una crescente sensazione tra i membri della diaspora eritrea che le autorità britanniche non stiano facendo abbastanza per affrontare la minaccia rappresentata dal “braccio lungo” del regime in Gran Bretagna.
Mentre la Gran Bretagna riconosce i pericoli affrontati dagli eritrei, dimostrati dall’elevato numero di richiedenti asilo provenienti dal paese a cui è stato concesso lo status di rifugiato (97%), alcuni membri ritengono che lo stato non stia prendendo in considerazione le loro preoccupazioni per le molestie, le minacce e il l’influenza del regime eritreo nelle istituzioni britanniche seriamente.
Come dice Helen:
“Ad essere onesti, in quanto eritrea britannica, personalmente non mi sento al sicuro e al sicuro in terra d’Inghilterra. Non mi sento di poter esprimere ciò che penso su ciò che sta accadendo in Eritrea senza conseguenze per la mia famiglia a casa e qui. Il governo britannico deve iniziare a prendere molto sul serio le preoccupazioni degli anglo-eritrei… e la loro sicurezza».
Questi sentimenti sono stati ripresi nelle testimonianze rese al rapporto di Lord Alton sulla tassa sulla diaspora, che citava un eritreo britannico che diceva: “Vorrei che il nostro governo, intendendo il governo britannico, avesse più voce in capitolo nella protezione degli anglo-eritrei qui”.
Sebbene le autorità britanniche abbiano espresso preoccupazione per la tassa con l’Eritrea, i membri della diaspora affermano di essere ancora effettivamente costretti a pagarla. In risposta a un’interrogazione parlamentare sulla tassa, il governo ha dichiarato: “Esortiamo chiunque abbia prove che la coercizione è stata utilizzata per ottenere il pagamento della tassa sulla diaspora eritrea a denunciarlo alla polizia”.
Dopo la protesta di settembre, Aaron afferma di non sentirsi più al sicuro: “Siamo venuti qui per sentirci al sicuro e prosperare qui. Ora non sento di avere un governo che possa proteggermi… non sento nessuno dalla nostra parte. Non abbiamo mai saputo che il Regno Unito potesse trattare persone innocenti come colpevoli e persone colpevoli come innocenti”.
Alcuni nomi sono stati cambiati per proteggere le identità.
Bethany Rielly è la giornalista di affari interni del Morning Star. Seguila su Twitter — @bethrielly.
FONTE: morningstaronline.co.uk/articl…
BOLIVIA. Tornano le tensioni nella regione guidata dal leader della destra
Bolivia: Santa Cruz spina del fianco del MAS di Morales ed Arce in difficoltà.
di Davide Matrone –
Pagine Esteri, 14 dicembre 2022 – La Bolivia è il paese più instabile del continente latinoamericano ed è tra quelli che registra più governi imposti in modo anti-democratico a livello mondiale. In America Latina è quello che conta più colpi di stato in assoluto dalla dichiarazione della sua Indipendenza nell’anno 1825 con ben 36 casi all’attivo. L’ultimo si ebbe nel 2019 quando Evo Morales, dopo aver vinto le elezioni democraticamente, dovette lasciare il potere con la forza e rifiugiarsi in Messico prima e in Argentina poi. Il primo invece si ebbe nell’anno 1828, quando una sollevazione militare pose fine al governo costituzionale del Maresciallo Ayacucho e al suo posto fu posto il Generale José María Pérez de Urdininea.
Secondo alcuni studi realizzati nella FLACSO (Facoltà Latinoamericana di Scienze Sociali) che ha varie sedi nel continente, si dichiara che le divisioni interne delle Forze Armate Boliviane sarebbero la principale causa di questi innumerevoli colpi di stato. Inoltre, il paese vive tensioni e conflitti in modo permanente e costante per le divisioni etniche, linguistiche, geografiche sociali ed economiche dell’intero paese. Nel 2006 quando le elezioni le vinse Evo Morales, per la prima volta un Presidente indigeno governava un paese in cui oltre il 60% della popolazione era composto da abitanti di nazionalità ancestrali. Fino all’anno 2006 non fu mai eletto un Presidente indigeno, anzi ci furono occasioni in cui al potere del paese venivano eletti Presidenti che addirittura parlavano con un mezzo accento americano come nel caso del Presidente bianco Gonzalo Sánchez de Lozada. Evo Morales, presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia (dichiarato tale sotto la sua guida) dal 2006 al 2019 aveva messo in atto un modello di sviluppo che si ispirava al Socialismo del 21º secolo teorizzato dal sociologo tedesco Heinz Dieterich Steffan (assessore di Hugo Chávez fino all’anno 2007). La mescolanza delle politiche neo-keynesiane in campo economico con l’allora ministro dell’Economia Luis Arce (oggi Presidente della Bolivia), con un socialismo gramsciano e plurinazionale in campo politico grazie alla spinta del vicepresidente boliviano Álvaro García Linera, fece sì che la Bolivia in quasi 15 anni risultò essere tra i paesi latinoamericani che aveva ridotto maggiormente le disuguaglianze economiche e sociali e registrava allo stesso tempo uno dei migliori PIL della regione. Questo modello dava fastidio alle élite bianche e meticce di sempre che non sopportavano l’idea, inoltre, di essere guidati da un indio (termine dispregiativo utilizzato contro gli indigeni) e per di più un ex sindacalista socialista. A questi elementi si aggiungeva poi un vicepresidente chiaramente marxista, gramsciano e mariateguista.
Quindi contro il MAS (Movimento al Socialismo) di Evo Morales e di García, da sempre si è messa in marcia una campagna destabilizzatrice che ha visto nella regione più produttiva del paese di Santa Cruz, a maggioranza bianca-meticcia, l’epicentro dell’opposizione antigovernativa. Tra i colpi più destabilizzanti anti-Morales c’è da annoverare quello del 2016 quando si realizzò il Referendum costituzionale nel quale si chiedeva al popolo boliviano la riforma dell’articolo 168 della Costituzione da 2 a tre mandati consecutivi per le massime cariche dello Stato. In quell’occasione vinse il NO con il 51.30% con 9 regioni su 12 contro il Presidente Morales. In quella votazione si registrò la vittoria schiacciante nella regione di Santa Cruz dove il NO conseguì un 61% dei voti. Dalla stessa regione si sono sempre messe in atto, nei 15 anni di governo Morales, manifestazioni contrarie. Inoltre, da questa regione viene una delle figure politiche più aggressive della destra reazionaria e razzista della Bolivia degli ultimi anni e cioè Fernando Camacho che fu protagonista, insieme a Jeanine Añez, del famoso colpo di stato del 2019 con la complicità della OEA di Luis Almagro. In molti si ricordano i volti trionfanti dal balcone del Palazzo di Governo di Añez (che inneggiava il potere con la Bibbia in mano), Camacho e Pumari dopo le rivolte del 2019. Furono questi ultimi 2 a giungere da Santa Cruz alla volta di La Paz e chiedere ad Evo Morales la rinuncia al potere.
Dal mese di ottobre, riprendono le tensioni in Bolivia e nuovamente dalla Regione di Santa Cruz governata dall’imprenditore crucegno e lider della destra boliviana, Luis Fernando Camacho. Per saperne di pìu ho contatato la comunicatrice e docente in Scienze Politiche di La Paz, Maricruz Zalles.
Dal 21 ottobre, nella regione di Santa Cruz, si sono registrate una serie di proteste per il mancato censimento da parte del governo centrale.
Lo sciopero a Santa Cruz è cominciato il giorno 21 ottobre e non è certamente casuale questa data. Per l’opposizione è considerata una data simbolica perché il Referendum che perse Evo Morales nel 2016 si tenne esattamente il 21 febbraio. Poi ci furono i 21 giorni di proteste poselettorali del 2019 per cacciare Evo dal paese. Il censimento è totalmente un pretesto per creare disordini nel paese strumentalizzando il dolore e la rabbia di una parte della popolazione della Regione. C’è senza dubbio la strumentalizzazione politica da parte dell’opposizione rappresentata in questo caso dal Comitato Civico Pro Santa Cruz. Questi comitati civici sono gestiti da imprenditori locali che rappresentano gli interessi delle élite crucegne. Inoltre, il Comitato Civico di Santa Cruz si muove in modo autoreferenziale, i rappresentanti non vengono scelti in base ad elezioni popolari e non si concedono spazi ad istanze che vengono dal basso. Inoltre, le ultime prese di posizioni dei comitati civici locali con rispetto al federalismo e al secessionismo sono, a mio avviso, pericolose. E poi, per queste proteste c’è l’appoggio dello stesso Governatore della Regione di Santa Cruz Camacho, lider dell’opposizione al governo Arce. Bisogna dire che alla fine l’opposizione non è nemmeno riuscita nell’intento: chiedeva che il censimento si realizzasse nell’anno 2023 ed invece si terrà nel 2024.
Qual è la congiuntura politica e sociale attuale in Bolivia?
C’è senza dubbio una crisi politica che si trascina dal 2016 con il Referendum perso da Evo Morales all’epoca quando chiese la modifica Costituzionale e la rielezione alla Presidenza della Repubblica. Da allora si vive una tensione politica molto forte. Inoltre, dopo il colpo di stato del 2019, si è incrementata e generalizzata la tensione. C’è un clima di caccia alle streghe tra i rappresentanti dei due gruppi, pro MAS e anti MAS. Si armano liste di proscrizione, si controlla tutto ciò che si scrive e si dichiara pubblicamente da una parte e dall’altra. Tutto questo ha incrementato una forte polarizzazione nella comunità politica boliviana.
Qual è il bilancio del governo Arce dopo 2 anni di governo?
Arce è visto come un tecnocrate, un burocrata. Per questa ragione, la gestione che ha mostrato è abbastanza leggera, politicamente corretta e di basso profilo. È stato ministro dell’Economia nei governi Morales ed ha registrato buoni risultati in termini di crescita economica però come Presidente della Repubblica è criticato per non concretizzare il piano di governo. Continua con un discorso contradditorio e per questo è criticato da vari settori della popolazione e anche tra coloro che l’hanno sostenuto. Arce non ha il carisma di Evo Morales. In definitiva, le riforme non decollano come prima che erano più evidenti e si mostravano più efficacemente.
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CISGIORDANIA. Altri quattro palestinesi uccisi dell’esercito israeliano
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 9 dicembre 2022 – Pare che i soldati israeliani, durante i raid nelle città cisgiordane, si orientino con mappe sulle quali i vari quartieri sono indicati con simboli che corrispondono ai nomi delle nazionali di calcio ai Mondiali in Qatar. In questo modo, nel caso le loro comunicazioni radio venissero ascoltate dalle formazioni combattenti palestinesi, eviterebbero di rivelare i movimenti sotto copertura delle unità speciali e, più di tutto, la posizione sugli edifici dei cecchini, lasciando così agli uomini sul terreno di avvicinarsi più agevolmente alle case dei «ricercati».
A rivelarlo, scrive un giornale online palestinese, sono state alcune di queste mappe ritrovate ieri da ragazzi a Jenin, in apparenza perse dai militari mentre si ritiravano dal campo profughi della città, al termine di una nuova sanguinosa incursione in cui sono stati uccisi due combattenti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa – Atta Shalabi e Sidqi Zakarneh di Jenin – e, pare, un civile, Tariq Al Damej. Gli scontri sono andati avanti per quasi tre ore. I reparti israeliani hanno incontrato un forte fuoco di sbarramento, a conferma delle accresciute capacità di combattimento delle formazioni armate palestinesi. Il Battaglione Jenin, ad esempio, ha comunicato che i suoi membri hanno circondato e aperto un inteso fuoco contro un veicolo blindato israeliano costringendolo a fare retromarcia. La battaglia è proseguita, per molti minuti, nel rione di Al Hadaf a Jenin dove si trovavano i tre «ricercati».
Un testimone, Ghassan Al Saadi, ha descritto l’accaduto come un «inferno», con spari continui anche di mitragliatrici pesanti da parte israeliana e raffiche esplose dai palestinesi. Ha detto che i due militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa sono stati colpiti con ogni probabilità da tiri di cecchini. Altri testimoni hanno raccontato di «spari israeliani contro un’ambulanza» diretta sul luogo dei combattimenti e dell’autista scampato alla morte per un soffio. Almeno dieci i feriti, secondo alcune fonti. Poi le forze israeliane, trasportate da una dozzina di automezzi blindati, sono uscite dal campo profughi con i tre arrestati e hanno abbandonato la città. Le autorità locali hanno proclamato tre giorni di lutto. In tarda mattinata migliaia di persone hanno partecipato ai funerali delle tre vittime. È di 216 il totale dei palestinesi uccisi da forze israeliane dall’inizio del 2022 (i morti israeliani in attacchi armati sono una trentina).
Nel pomeriggio quel numero è salito a 217. Nei pressi di Aboud (Ramallah) gli spari di soldati israeliani hanno ucciso Diyaa al Rimawi e ferito gravemente suo cugino Hashem al Rimawi che stavano lanciando sassi e bottiglie piene di pittura contro le automobili di coloni israeliani. Altri tre palestinesi sono stati feriti. Negli ultimi giorni colpi d’arma da fuoco sono stati esplosi contro postazioni e colonie israeliane. Gruppi armati, come la Fossa dei Leoni e il Battaglione Ramallah, hanno rivendicato spari e lanci di granate verso gli insediamenti israeliani di Bet El, Halamish, Atarah, Ofra e Dolev. L’esercito israeliano ha arrestato diversi palestinesi in Cisgiordania mercoledì notte. Da segnalare l’arresto a Nablus di Ruhi Marmash, un tenente dei servizi di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) considerato un fedelissimo del presidente Abu Mazen. Tra i morti e gli arrestati di questi ultimi mesi figurano non pochi membri delle forze militari dell’Anp. A conferma delle tensioni che lacerano le strutture di sicurezza governative palestinesi causate dalla cooperazione con Israele riconfermata anche di recente dai vertici politici. I servizi segreti israeliani dicono di aver arrestato un palestinese di Gaza con un permesso di lavoro che spiava in Israele per conto del movimento islamico Hamas. Pagine Esteri
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Marocco: proteste contro gli aumenti e la repressione
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 8 dicembre 2022 – Alcune migliaia di persone sono scese in piazza domenica a Rabat per protestare contro «l’alto costo della vita e la repressione» politica, partecipando ad una manifestazione promossa dal Fronte Sociale Marocchino (Fsm). La sigla riunisce diversi partiti politici di sinistra, organizzazioni per i diritti umani e sindacati come la Confederazione Democratica del Lavoro.
Alla marcia, la più partecipata degli ultimi mesi, hanno partecipato alcune migliaia di persone – un risultato notevole in un paese che reprime sistematicamente le libertà politiche – anche se la Direzione Generale della Sicurezza Nazionale (DGSN) ha parlato di soli 1500 manifestanti. La manifestazione ha sfilato per quasi due ore nel centro della capitale marocchina, dalla porta della Medina fino a Piazza degli Alawiti, passando accanto alla sede del parlamento.
L’inflazione erode i salari, la povertà aumenta
«Il popolo vuole prezzi più bassi (…). Il popolo vuole abbattere il dispotismo e la corruzione» hanno gridato i partecipanti arrivati anche dal resto del Marocco. «Siamo venuti per protestare contro un governo che incarna il matrimonio tra denaro e potere e che sostiene il capitalismo monopolistico» ha spiegato il coordinatore nazionale dell’Fsm, Younès Ferachine.
Secondo un recente rapporto dell’Alto commissariato per la pianificazione (Hcp), il Marocco è tornato «al livello di povertà e di vulnerabilità del 2014» in seguito alla pandemia di Covid-19 e all’inflazione. L’impennata dei prezzi (ad ottobre è stato rilevato un +7,1% su base annua) e in particolare l’aumento del costo dei carburanti, dei generi alimentari e dei servizi, uniti a un’eccezionale siccità, hanno inoltre frenato la crescita economia, che alla fine dell’anno dovrebbe essere pari soltanto ad un +0,8%.
Le forze sociali e politiche che hanno partecipato alla marcia hanno chiesto le dimissioni del governo denunciando che a risentire della situazione non è più solo il potere d’acquisto dei settori più poveri della popolazione, ma ormai anche quello della classe media. Il Paese soffre di disparità sociali e territoriali crescenti che costringono sempre più cittadini, soprattutto giovani, all’emigrazione.
La disparità di reddito, stimata secondo il coefficiente di Gini, è del 46,4%, ovvero al di sopra della soglia socialmente tollerabile (42%). Secondo gli stessi dati forniti dal governo di Rabat, il 20% della popolazione è in stato di povertà assoluta (con un reddito inferiore a 1,8 euro al giorno), il 40% in povertà relativa (con un reddito inferiore a 3 euro al giorno) e il 60% in condizioni di precarietà (meno di 4,5 euro al giorno).
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Il governo rivendica le sue politiche sociali
Di fronte alle proteste e all’aumento del malcontento sociale, il governo guidato dall’imprenditore Aziz Akhannouch ha più volte rivendicato quella che definisce la sua “politica sociale”, in particolare l’estensione della copertura sanitaria a oltre 10 milioni di marocchini a basso reddito. Lo scorso ottobre, il governo ha inoltre annunciato un nuovo maxi-fondo sovrano da 4 miliardi di euro creato per sostenere gli investimenti pubblici e tentare così di rilanciare l’economia del paese e contrastare la crisi.
Si tratta però di misure ritenute parziali e insufficienti da parte delle opposizioni di sinistra. In particolare i sindacati denunciano la rinuncia, da parte del governo marocchino, al varo di una tassa sugli extraprofitti delle compagnie energetiche. Proposta dalle opposizioni parlamentari anche sulla base dell’appello del segretario generale dell’ONU a tassare gli “scandalosi” profitti realizzati dalle aziende del settore energetico in maniera da recuperare risorse da destinare al contrasto dell’inflazione e della povertà, alla fine il premier Akhannouch non ha inserito la misura all’interno della legge finanziaria adottata lo scorso 19 ottobre dal Consiglio dei Ministri. La rinuncia a questa e ad altre misure redistributive ha rilanciato le accuse, nei confronti dell’esecutivo, di favorire l’élite economica e di incarnare la collusione tra potere politico e mondo degli affari.
“No agli arresti dei dissidenti”
I manifestanti hanno anche lanciato slogan contro gli arresti di dissidenti, denunciando «ogni forma di repressione politica, antisindacale e contro la libertà d’espressione, mentre vengono incarcerati diversi blogger e giornalisti critici nei confronti del governo. «È una regressione inaccettabile», ha denunciato Ferachine.
Uno degli ultimi arresti ha preso di mira, a novembre, è stato l’ex ministro dei Diritti Umani Mohamed Ziane. A ottobre l’avvocato e fondatore del Partito Liberale, che attualmente ha 80 anni, aveva chiesto l’abdicazione del sovrano Mohamed VI – che risiede a Parigi e rientra in Marocco solo per alcune cerimonie – e la fine della sistematica violazione dei diritti politici e democratici. Per tutta risposta Ziane è stato prima oggetto di una feroce campagna denigratoria da parte dei media governativi e delle autorità, ed in seguito è stato condannato dalla Corte d’Appello di Rabat a tre anni di detenzione per un totale di 11 capi di accusa formulati in una denuncia del Ministero degli Interni di Rabat.
“No agli accordi con Israele”Nel corteo sono state sventolate numerose bandiere palestinesi. La marcia ha rappresentato infatti anche l’occasione per condannare la normalizzazione dei rapporti tra Rabat e lo stato di Israele, decisa nel 2020 nell’ambito degli “accordi di Abramo”. Secondo i sondaggi una gran parte della popolazione si dice contraria alla crescente collaborazione economica e militare tra il regno marocchino e Tel Aviv.L’ultimo importante passo in questo senso risale al 23 marzo scorso, quando il Ministro dell’Industria e del Commercio marocchino Ryad Mezzour e il presidente del board dei direttori dell’Israel Aerospace Industries, Amir Peretz, hanno siglato uno storico accordo di cooperazione.
Nel giugno scorso, poi, il governo di Rabat ha firmato un contratto con l’israeliana Elbit Systems per la fornitura del sistema “Alinet”, allo scopo di sviluppare le capacità del paese nel campo della guerra elettronica.
A luglio il capo di Stato maggiore dell’esercito di Israele, Aviv Kohavi, ha incontrato a Rabat l’omologo marocchino El Farouk; i due avrebbero discusso i dettagli del rafforzamento della cooperazione militare e discusso la possibilità di lanciare un’alleanza regionale volta «a frenare l’influenza iraniana in Medio Oriente e in Nord Africa».
Israele ha anche fornito a Rabat la tecnologia necessaria a produrre in proprio dei droni da bombardamento, che il paese utilizza per colpire la guerriglia del Fronte Polisario, l’organizzazione che si batte per la liberazione dei territori saharawi occupati illegalmente dal Marocco.
Lo scorso 3 dicembre uno di questi droni ha colpito in pieno un fuoristrada nella zona del confine con la Mauritania, uccidendo il conducente e scatenando la reazione di Mohamed el Mokhtar Ould Abdi, governatore della provincia di Tiris-Zemmour, che si trova sulle linee di contatto con l’ex colonia spagnola occupata da Rabat. L’uccisione dei cittadini mauritani fuori dai confini nella zona cuscinetto del Sahara occidentale «non è più accettabile» ha detto il capo del governo locale. Già a settembre due cercatori d’oro mauritani erano stati uccisi nel corso di un bombardamento compiuto da un drone marocchino contro presunte postazioni del Fronte Polisario. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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#uncaffèconluigieinaudi☕ – Nessun reggimento è più democratico di quello economico
Nessun reggimento è più democratico di quello economico, in cui nessuno è sicuro del posto suo […] se non rendendo altrui servigi migliori e più a buon mercato di quelli resi da altri.
da Corriere della Sera, 12 giugno 1921
L'articolo #uncaffèconluigieinaudi☕ – Nessun reggimento è più democratico di quello economico proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Guerra in Ucraina: il Vaticano alza la voce
Mentre lo squallore ormai quasi terminale della nostra politica da strapazzo, tra Santanchè che vuole dare le poche spiagge rimaste ai privati beninteso senza gare e, purtroppo i risvolti della nostra ‘tradizione’ politica traferiti a Bruxelles, dove i giudici, liberi dal ‘nordiopensiero’ hanno intercettato masse intere di popolazione di ogni paese e hanno sbattuto in galera […]
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‘Qatargate’: Italia ed Europa, brand delicati nella tempesta
La reputazione di un Paese (in cui si mescolano la storia di ambienti urbani e territoriali con la storia di popoli e genti) è sempre figlia di un conflitto inconscio che riguarda ciascuno degli otto miliardi di inquilini del Pianeta. Anche quelli che non sanno e non sapranno mai razionalmente di ‘essere riguardati’. Anzi, per […]
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Qatargate: la necessità di cambiare le regole del lobbismo
Eva Kaili, vicepresidente del Parlamento europeo, e altre tre persone sono state incriminate e incarcerate domenica 11 dicembre nell’ambito di un’indagine sui sospetti di corruzione in relazione al Qatar. Kaili, deputata socialista greca, responsabile delle relazioni con il Medio Oriente nel suo mandato di vicepresidente, aveva recentemente spiegato ai suoi coetanei che il Qatar era […]
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Carceri: Papa Francesco chiede clemenza
La richiesta, accorata, è rivolta a tutti i capi di Stato. Mittente: il Vaticano, più specificatamente: Papa Francesco. In una lettera si implorano i potenti del mondo perché concedano un provvedimento di indulto a coloro che “ritengano idonei a beneficiare di tale misura”. In questo tempo è l’appello del capo della Chiesa Cattolica “segnato da […]
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La NATO è un moltiplicatore di conflitti: provocazioni anche contro la Serbia - Kulturjam
"Il piano contro la Serbia rischia di aprire un nuovo fronte bellico nel cuore dell’Europa, mentre prosegue il conflitto ucraino. Naturalmente, colpire la Serbia per la NATO significa soprattutto colpire la Russia, storica alleata di Belgrado."
Tanto Malus
Forse sorrideremo, quando ricorderemo la stagione dei bonus. Magari se ne farà qualche film di costume. Il conto lo pagheremo, e non si tratta solo di soldi. Fra i tanti bonus, dal monopattino alle terme, dalla facciata alle biciclette, quello relativo alla cultura, elargito ai diciottenni, è tornato a gola e merita un posto di rilievo.
La tecnica è quella adottata con il reddito di cittadinanza: nella coalizione di destra c’è chi aveva votato a favore; la coalizione è guidata da chi aveva urlato contro; in campagna elettorale aveva promesso cancellazioni drastiche; una volta al governo si sono trasformate in modifiche; in che consistano non si sa. Se cambiare significa dare il bonus cultura solo ai “bisognosi” si riaprono due questioni: a. gli italiani che finanziano regali e sconti sono gli stessi che non possono averli; b. in compenso se ne giovano gli evasori fiscali. Il dibattito continua e si fa più intrigante.
Perché darlo a 18 anni? Se si tratta di agevolare la lettura o le frequentazioni teatrali, potrebbe essere dato a 16 o 14. Perché diventano maggiorenni? Ma rispondere di sé stessi non dovrebbe consistere nello spendere, ma nell’orgoglio guadagnare, posto che lavorare non significa necessariamente lasciare gli studi. Temo si premi l’impegno messo nel cercare di non morire prima di quel compleanno perché con quello si diventa anche elettori.
Naturale che tantissimi diciottenni abbiano utilizzato in modo appropriato il regalo (ci torniamo), ma ovvio anche che, trattandosi di soldi consegnati mediante codici di spesa, siano fioriti raggiri e truffe. Dalle più banali (a me piacciono i libri a te le racchette, mi dai i tuoi codici per 500 euro e io te ne do 400) a quelle che comportano falsa fatturazione (sempre per comprare la racchetta invece di andare a sorbirsi la palla teatrale). Di accertato siamo a 9 milioni sprecati, che equivalgono a 18mila diciottenni diseducati a fregare lo Stato. Più i non scoperti.
Vabbè, ma non è corretto usare una devianza per condannare uno strumento degno e utile. Basta intensificare i controlli. Ma non credo sia possibile, perché se il bonus deve essere speso in cultura si apre un problema: cos’è, ‘sta cultura? Acquistare un tomo secentesco lo è, andare al teatro per un Amleto amleticamente lo è, ma lo è anche acquistare un libro di ricette per la carbonara o andare a sganasciarsi con un comicarolo? Non ci sono basi per negarlo. Così via andando si giunge ad un’idea antropologica di cultura, connaturata ad ogni umano comportamento, sicché non può essere negato lo sia anche dipingersi la faccia. Perché, però, dovrei pagarti, se ti pitti le gote? Né la cosa potrà essere risolta affidando all’apposito ufficio ministeriale, sentita la competente commissione e auscultato il battente ministro, il compito di definire la cultura. Una tragedia da scongiurare.
Rientrando nella curtura l’ascoltare un tatuato stonato, acquisito che “bonus” è il residuato di una lingua morta e sono ancora aperte le indagini sulle cause, non escludendosi il suicidio per depressione, forse sarà il caso di chiamarlo con il suo nome: regalo. La cui finalità ultima è insegnare ai cittadini, all’ingresso nell’età adulta, che allungare la mano per la mancetta di Stato è segno di libertà e non di sudditanza, che il soldo preso vale più del guadagnato, che i soldi pubblici non sono di nessuno e toccano a chi se li piglia, e se qualcuno s’ostina a ripetere <<faber est quisque fortunae>> non dategli retta, perché prima o dopo ci libereremo da questi immigrati illegali.
Che la cultura sarebbe materia d’attività scolastica, da far funzionare meglio e con merito, o che alberghi in luoghi come le biblioteche, da diffondere e tenere aperte più a lungo, trovando più acconcio uso a quei quattrini, sarebbe osservazione d’analogica noia e dimostrazione di non avere capito un accidente: i libri non votano, semmai i tipografi.
Renzi lo fece, i successori se lo tennero, gli oppositori lo cangiano come non si sa. E il malus continua.
La Ragione
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