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L’ultimo saluto alla poetessa Salma Khadra Jayyusi, icona intellettuale per la cultura mondiale


La grande intellettuale aveva appena compiuto 95 anni, oltre la metà dei quali spesi a far conoscere la letteratura e la cultura araba a livello internazionale. L'articolo L’ultimo saluto alla poetessa Salma Khadra Jayyusi, icona intellettuale per la cul

di Patrizia Zanelli*

Pagine Esteri, 21 aprile 2023. Giovedì, 20 luglio 2023, è venuta a mancare una figura straordinaria, una delle voci più citate e amate della Palestina. È infatti scomparsa ad Amman la celebre poetessa palestinese Salma Khadra Jayyusi, un nome presente nelle biblioteche universitarie e di innumerevoli case private di tutto il mondo. La grande intellettuale aveva appena compiuto 95 anni, oltre la metà dei quali spesi a far conoscere la letteratura e la cultura araba a livello internazionale tramite le sue pubblicazioni in inglese. La poetessa, che infatti era anche un’accademica e traduttrice, ci lascia oltre quarantacinque libri, soprattutto saggi e antologie. La sua era stata una vita davvero intensa e affascinante che non si può fare a meno di ricordare brevemente.

Nata il 16 aprile 1925 nella città giordana di Salt da padre palestinese – un avvocato e attivista nazionalista – e madre libanese, Salma Khadra trascorre quasi tutta l’infanzia in Palestina, tra Acri e Gerusalemme, dove completerà gli studi secondari presso l’istituto femminile tedesco Schmidt College. Studierà poi letteratura araba e inglese all’Università Americana di Beirut. Tornata a Gerusalemme, insegnerà in un istituto femminile, specializzato nella formazione delle docenti delle primarie. Nel 1946, sposa Burhan Jayyusi, un diplomatico giordano di origini palestinesi.

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Con la Nakba del 1948, Salma Khadra e il marito dovranno lasciare Gerusalemme e non potranno più tornare in Palestina. Negli anni ’50, mentre soggiornano a Bagdad, lei comincia a frequentare gli ambienti letterari dell’allora capitale della poesia araba. Conosce due figure pionieristiche della scuola poetica irachena, la poetessa, studiosa e docente universitaria Nazik Mala’ika (1923-2007) e il poeta Badr Shakir al-Sayyab (1926-1964), che la ispireranno molto. Nel 1960, Salma Khadra si trasferisce con il marito a Beirut e, nello stesso anno, pubblica la sua prima raccolta di poesie, “Il ritorno dalla fonte sognante”.

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Nel 1970, invece, ottiene il dottorato in Letteratura Araba presso l’Università di Londra. Pubblicherà la sua tesi Trends and Movements in Modern Arabic Poetry (Brill, 1977), un’importante monografia in due volumi. Insegnerà in varie università e lancerà progetti di ricerca e di traduzione, coinvolgendo il mondo accademico internazionale. Insignita di più riconoscimenti prestigiosi, tra cui il Premio Edward Said, nel 2005 – anno in cui è tra le cinque donne palestinesi candidate al Nobel per la Pace – e la “Medaglia di Gerusalemme”, nel 2019, è stata definita la “decana della letteratura araba” e “un’istituzione culturale”. Durante un’intervista rilasciata nel 2020 al quotidiano emiratino Gulf News, Salma Khadra Jayyusi ha dichiarato: “Chiunque cerchi di riunire il mondo ha una missione politica, che è molto benevola e umanista. Questo è l’obiettivo della mia vita… Le mie poesie parlano del fatto di essere umani”. Nel marzo 2023, la stessa poetessa e accademica palestinese ha ricevuto il Premio Mahmud Darwish per la Creatività.

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Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba(Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui il romanzo Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).

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Il Parlamento europeo è pronto a proporre regole più severe per i servizi online di Intelligenza Artificiale come ChatGPT e per distinguerli dall’IA per scopi generici, secondo una bozza visionata da EURACTIV. L’AI Act è una normativa europea di riferimento...


"La scelta di convogliare di default sulla tua istanza gli utenti dell'app ufficiale è sbagliata!" L'appello di Aral Balkan al fondatore di Mastodon Eugen Gargron

@Che succede nel Fediverso?

Carissimo @Eugen Rochko
Ti prego di rivalutare la decisione di incentivare la centralizzazione sul mastodon.social nell'app ufficiale.

Questo è il tipo di progettazione che una startup finanziata da Venture Capital avrebbe implementato, non una no-profit che agisce nell'interesse di un bene comune.

Sono sicuro che non vuoi che mastodon.social diventi un mini-Twitter e non desideri diventare un mini-Musk.

Non è così che vinceremo.

Più istanze, non più grandi istanze: questa è la chiave.

mstdn.social/@feditips/1102332…

#decentralisation #fediverse #staySmall


Dear @Gargron,

Please reevaluate your decision to incentivise centralisation on mastodon.social in the official app.

This is the sort of design a VC-funded startup would implement, not a non-profit acting in the interests of a healthy commons.

I’m sure you don’t want mastodon.social to become mini-Twitter and you don’t want to become mini-Musk.

That’s not how we win this.

More instances, not larger instances is the key.

mastodon.ar.al/@feditips@mstdn…

#decentralisation #fediverse #staySmall


Unknown parent

@Steffy anch'io preferisco il browser per tutti i servizi del fediverso, mastodon compreso. Tuttavia l'app di mastodon è ben fatta e altre come Fedilab ti danno anche la possibilità di seguire intere istanze. Inoltre l'utente standard di qualsiasi smartphone preferisce sempre l'app

@informapirata :privacypride: @Naixke :mastodon: @Eugen Rochko

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Unknown parent

mastodon - Collegamento all'originale
informapirata ⁂

@naixke saranno le mie origini venete, ma trovo decisamente intrigante un'app con un nome del genere... 😅

@steffy @notizie @Gargron



La Cina punta a dirottare satelliti? L’allarme dell’intelligence


La Cina starebbe preparando un arsenale di sofisticate armi cibernetiche con l’obiettivo di prendere il controllo dei satelliti avversari, incapacitandoli o dirottandoli a piacimento. A dirlo sarebbe la stesa Cia, secondo un report dell’Intelligence ripre

La Cina starebbe preparando un arsenale di sofisticate armi cibernetiche con l’obiettivo di prendere il controllo dei satelliti avversari, incapacitandoli o dirottandoli a piacimento. A dirlo sarebbe la stesa Cia, secondo un report dell’Intelligence ripreso dal Financial Times, parte del materiale trafugato e diffuso da Jack Teixeira, il ventunenne membro dell’Intelligence della Guardia nazionale aerea del Massachusetts arrestato dall’Fbi con l’accusa di aver pubblicato documenti riservati statunitensi. Secondo l’agenzia statunitense, Pechino starebbe spingendo sullo sviluppo di nuove capacità per negare, sfruttare o dirottare i satelliti nemici come parte di una strategica per il controllo delle informazioni, considerato dagli strateghi della Repubblica popolare un dominio-chiave nel combattimento in caso di guerra.

Lezioni ucraine

La guerra in Ucraina ha dimostrato quanto importanti siano i satelliti per la conduzione di operazioni militari nei moderni scenari operativi. La parte più visibile dei combattimenti, fatta di movimenti di fanteria, corazzati e artiglieria, benché ricordino i conflitti mondiali del Novecento, sarebbero impossibili senza la dimensione cibernetica e spaziale, in una vera e propria fusione tra i concetti di convenzionale e ibrido. Alla vigilia dell’invasione del 24 febbraio 2021, il massiccio attacco cyber russo ai danni della rete militare ucraina è stato essenziale per garantire i primi successi delle forze russe sul campo, così come il ripristino delle capacità informatiche grazie ai satelliti di SpaceX è stato cruciale per le difese di Kiev. Lezioni che stanno venendo studiate con molta attenzione anche da Taiwan, impegnata nella costruzione di una infrastruttura di comunicazioni satellitare capace di sopravvivere a un attacco da parte cinese nell’eventualità di una invasione.

Prendere il controllo dei satelliti

Ma secondo il documento della Cia, le capacità di Pechino sarebbero ben più avanzate e sofisticate da quelle dimostrate da Mosca sui campi di battaglia ucraini, dove la Russia ha attaccato i satelliti di Kiev con un approccio basato sulla pura forza bruta, lanciando segnali elettronici di jamming che hanno interferito con le frequenze dei satelliti obiettivo. La Cina, invece, non vuole semplicemente a disturbare o degradare il segnale. Punta a sfruttare la dimensione cyber per copiare esattamente il segnale che da terra raggiunge il satellite in orbita e “prenderne il controllo, rendendoli inefficace a supportare le comunicazioni, si sistemi d’arma o di Intelligence, di sorveglianza e di ricognizione”.

Il “sogno cinese” oltre l’atmosfera

Se l’Ucraina ha potuto contare per il recupero delle proprie capacità di comunicazione sulla rete di satelliti di Elon Musk, l’obiettivo della Cina è proprio quello di colpire questo tipo di infrastrutture orbitali. I satelliti comunicano tra loro, operando in insiemi interconnessi che rilanciano segnali e comandi ai sistemi d’arma o riportano a terra dati, immagini e informazioni. Riuscire a infiltrarsi nel canale di queste comunicazioni apre a ogni tipo di scenario, dalla messa fuori uso di intere costellazioni all’invio di ordini contraddittori o informazioni false. Come registrato dal comandante della Us Space force, il generale B. Chance Saltzman, al Congresso, l’obiettivo di Pechino è realizzare il suo “sogno spaziale”: diventare la prima potenza oltre l’atmosfera terrestre entro il 2045. “La Cina continua a investire in modo aggressivo in tecnologie destinate a disturbare, degradare e distruggere le nostre capacità spaziali”, ha dichiarato Saltzman, portando i dati di questo sforzo da parte cinese. L’Esercito di liberazione popolare schiera attualmente 347 satelliti, di cui 35 lanciati negli ultimi con l’obiettivo di monitorare, tracciare, colpire e attaccare le forze statunitensi in qualsiasi futuro conflitto.


formiche.net/2023/04/la-cina-p…



L’ultimo saluto alla poetessa Salma Khadra Jayyussi, icona intellettuale per la cultura mondiale


La grande intellettuale aveva appena compiuto 95 anni, oltre la metà dei quali spesi a far conoscere la letteratura e la cultura araba a livello internazionale. L'articolo L’ultimo saluto alla poetessa Salma Khadra Jayyussi, icona intellettuale per la cu

di Patrizia Zanelli*

Pagine Esteri, 21 aprile 2023. Giovedì, 20 luglio 2023, è venuta a mancare una figura straordinaria, una delle voci più citate e amate della Palestina. È infatti scomparsa ad Amman la celebre poetessa palestinese Salma Khadra Jayyusi, un nome presente nelle biblioteche universitarie e di innumerevoli case private di tutto il mondo. La grande intellettuale aveva appena compiuto 95 anni, oltre la metà dei quali spesi a far conoscere la letteratura e la cultura araba a livello internazionale tramite le sue pubblicazioni in inglese. La poetessa, che infatti era anche un’accademica e traduttrice, ci lascia oltre quarantacinque libri, soprattutto saggi e antologie. La sua era stata una vita davvero intensa e affascinante che non si può fare a meno di ricordare brevemente.

Nata il 16 aprile 1925 nella città giordana di Salt da padre palestinese – un avvocato e attivista nazionalista – e madre libanese, Salma Khadra trascorre quasi tutta l’infanzia in Palestina, tra Acri e Gerusalemme, dove completerà gli studi secondari presso l’istituto femminile tedesco Schmidt College. Studierà poi letteratura araba e inglese all’Università Americana di Beirut. Tornata a Gerusalemme, insegnerà in un istituto femminile, specializzato nella formazione delle docenti delle primarie. Nel 1946, sposa Burhan Jayyusi, un diplomatico giordano di origini palestinesi.

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Con la Nakba del 1948, Salma Khadra e il marito dovranno lasciare Gerusalemme e non potranno più tornare in Palestina. Negli anni ’50, mentre soggiornano a Bagdad, lei comincia a frequentare gli ambienti letterari dell’allora capitale della poesia araba. Conosce due figure pionieristiche della scuola poetica irachena, la poetessa, studiosa e docente universitaria Nazik Mala’ika (1923-2007) e il poeta Badr Shakir al-Sayyab (1926-1964), che la ispireranno molto. Nel 1960, Salma Khadra si trasferisce con il marito a Beirut e, nello stesso anno, pubblica la sua prima raccolta di poesie, “Il ritorno dalla fonte sognante”.

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Nel 1970, invece, ottiene il dottorato in Letteratura Araba presso l’Università di Londra. Pubblicherà la sua tesi Trends and Movements in Modern Arabic Poetry (Brill, 1977), un’importante monografia in due volumi. Insegnerà in varie università e lancerà progetti di ricerca e di traduzione, coinvolgendo il mondo accademico internazionale. Insignita di più riconoscimenti prestigiosi, tra cui il Premio Edward Said, nel 2005 – anno in cui è tra le cinque donne palestinesi candidate al Nobel per la Pace – e la “Medaglia di Gerusalemme”, nel 2019, è stata definita la “decana della letteratura araba” e “un’istituzione culturale”. Durante un’intervista rilasciata nel 2020 al quotidiano emiratino Gulf News, Salma Khadra Jayyusi ha dichiarato: “Chiunque cerchi di riunire il mondo ha una missione politica, che è molto benevola e umanista. Questo è l’obiettivo della mia vita… Le mie poesie parlano del fatto di essere umani”. Nel marzo 2023, la stessa poetessa e accademica palestinese ha ricevuto il Premio Mahmud Darwish per la Creatività.

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Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba(Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui il romanzo Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).

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VV. AA - Urla dal Granducato Vol.3


Ha urlato Ginsberg e ha urlato anche Munch, hanno urlato le nostre mamme se, subito dopo aver passato la cera, ci vedevano entrare in casa con le scarpe bagnate ed infangate; pare abbia urlato anche il signor Sbravati  quando nel suo garage, facendo lavoretti da neo pensionato, si schiacciò un dito sette anni fa.

Chi scrive ha co-condotto per svariato tempo un programma radio titolato Urlatori Alla Sbarra (!) e non può che sentirsi affine a quello stuolo  agguerrito di giovani punx figli del Granducato di Toscana, i cui fasti vengono in questi giorni rinverditi da i sempre attenti ragazzi di Area Pirata, che ancora una volta pescano nel torbido di quegli anni irripetibili. @Musica Agorà

iyezine.com/vv-aa-urla-dal-gra…

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Citto Maselli* Essere partecipi di una idealità come quella comunista non vuol dire soltanto esprimersi a favore di questa idealità, vuol dire vivere un pu


In CIna e Asia – Segni di dialogo tra Cina e Usa


In CIna e Asia – Segni di dialogo tra Cina e Usa Europa
I titoli di oggi:

Segni di dialogo tra Cina e Usa
Biden sente von der Leyen e Macron
Cina, Ding possibile leader per il clima in vista della cop28
Wagner Group ha chiesto aiuto alla Cina
BMW accusata di discriminare i clienti cinesi
Isole del Pacifico, l'Australia invita all'unità nello scontro Cina-Usa
Antartide, gli analisti allertano sulla nuova stazione di ricerca cinese

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TUNISIA. Si dà fuoco in segno di protesta. Il Paese nella morsa di Saied e della povertà


L’ex calciatore Nizar Issaoui si è ucciso davanti a un distretto di polizia dopo essere stato accusato di “terrorismo” perché si era lamentato del prezzo delle banane. L’inflazione esaspera il Paese di Saied, che cerca di strumentalizzare la rabbia dirott

di Valeria Cagnazzo

Pagine Esteri, 21 aprile 2023Tornare al fuoco – E’ morto giovedì 13 aprile per le ustioni di terzo grado riportate su tutto il corpo Nizar Issaoui, 35 anni, ex calciatore tunisino. Si era dato fuoco tre giorni prima davanti al distretto di polizia di Haffouz, un villaggio della regione di Kairouan nella Tunisia centrale, filmando con il cellulare fino alla fine il suo atto di protesta contro lo “stato di polizia” nel Paese. Fino alla fine: il volto sconvolto, le ultime frasi di denuncia, poi le fiamme improvvise sulla felpa scura, le urla dei presenti, il silenzio.

Una vita per il calcio, dalle giovanili fino alle squadre più importanti del campionato, poi il ritiro dallo sport e un’attività come agente di commercio. Era stato accusato di “terrorismo” dalle autorità tunisine dopo essersi lamentato pubblicamente del prezzo delle banane fissato da un commerciante a quasi 10 dinar al chilo (quasi 3 euro), il doppio del prezzo massimo fissato dal governo. “Per un litigio con qualcuno che vende le sue banane a dieci dinar, vengo accusato di terrorismo in una stazione di polizia. Terrorismo per una lamentela sulle banane”, lo si sente dire in un video postato sui social. Sarebbe stata quest’accusa a spingerlo, in un clima di proteste ed estrema tensione sociale, a suicidarsi dandosi fuoco. Poco prima, su Facebook, aveva scritto di “essersi condannato a morte”: “Non ho più energie. Fate sapere alla polizia che la sentenza sarà eseguita oggi stesso”.

La notizia del suicidio dell’ex calciatore ha fomentato la rabbia della popolazione tunisina, già mobilitata da mesi in proteste e scioperi contro il governo di Saied. I suoi funerali si sono trasformati in uno scontro tra i manifestanti e la polizia, che ha disperso la folla lanciando gas lacrimogeni.

Ritorna il fuoco nelle piazze in Tunisia, il fuoco che rievocando antichi incendi politici e sociali spaventa, terrorizza il potere, e potrebbe spingere il Presidente Saied a inasprire ulteriormente il pugno di ferro sul Paese nel tentativo di mantenersi saldo sulla sua poltrona. Era il 17 dicembre del 2010, oltre dodici anni fa, quando Mohamed Bouazizi, un fruttivendolo di 26 anni, si immolava sulla piazza del villaggio di Sidi Bouzid come Nizar Issaoui ha fatto pochi giorni fa. Il fuoco appiccato sul suo corpo avrebbe poi definitivamente infiammato la rivoluzione tunisina e in breve, da quella piazzetta sconosciuta in Tunisia, tutti i moti della primavera araba. La primavera sarebbe poi esitata nel ripristino dei vecchi regimi, se possibile più violenti e autoritari, o in estenuanti guerre civili, terreno fertile per la nascita di movimenti terroristici sanguinari, salvo che per quella che, almeno fino a qualche tempo fa, era considerata l’unica eccezione, il solo successo della rivoluzione che aveva sollevato il mondo arabo: la democrazia in Tunisia.

La rabbia e la fame – Le premesse che scatenarono la rivoluzione tunisina ci sono di nuovo tutte: l’inflazione sui prezzi alimentari, il taglio agli stipendi, la disoccupazione, la povertà. A queste si aggiunge, di nuovo, la repressione dell’opposizione politica e delle libertà fondamentali come quella di espressione. L’accusa di terrorismo e il presunto pestaggio in una stazione di polizia di un ex calciatore che si era lamentato del prezzo degli alimenti rappresentano l’emblema dell’esasperazione di un’intera popolazione.

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Proteste in Tunisia, fonte Twitter


Nel 2021, il Presidente tunisino Kais Saied, al potere dal 2019, ha sciolto il Parlamento e si è attribuito pieni poteri costituzionali. L’anno dopo di quello che è stato considerato un colpo di stato ha introdotto una nuova Costituzione di stampo islamista che ha rafforzato ulteriormente i suoi poteri. Le elezioni del 2022 sono state una farsa. Nelle piazze, i manifestanti sempre più spesso chiedono le dimissioni del Presidente che in pochi anni ha definitivamente distrutto i frutti della primavera, ma la repressione continua a inasprirsi. Non solo con la violenza fisica sulle folle che protestano, ma anche attraverso una fitta rete di arresti per presunto “terrorismo” mirata a imbavagliare gli oppositori politici, i giornalisti, gli intellettuali.

Da febbraio a oggi, sono stati condannati al carcere almeno 20 “dissidenti”: tra di loro, aveva provocato particolare clamore l’arresto del direttore generale della principale emittente radio tunisina, Mosaique FM. Tra il 17 e il 18 aprile scorso, la polizia tunisina ha, inoltre, arrestato Rached Ghannouchi, il leader del principale partito di opposizione Ennahda, e poco dopo altri tre suoi funzionari. La repressione non mira ad arrestarsi.

“Basta stato di polizia!”, gridano i manifestanti nelle piazze, ma sono anche e soprattutto i motivi economici a scatenare malcontento e proteste. La Tunisia sta, infatti, attraversando la più severa crisi economica dal 2011. Il tasso di inflazione ha superato il 10% e il debito pubblico sta arrivando al 90% del PIL. Numeri che continuano a gonfiarsi quotidianamente e per i quali nei mesi scorsi le trattative del Paese di Saied con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Unione Europea sono state frenetiche. Mentre ammiccava all’Unione Europea come garante della protezione delle coste occidentali dagli sbarchi e contrattava su un prestito da 1,9 miliardi di dollari con il FMI per condizioni imposte a suo dire “inaccettabili”, Saied era riuscito a febbraio a strappare alla Banca Mondiale un finanziamento di 120 milioni di dollari per il sostegno alle piccole e medie imprese. Già a marzo, però, sempre la Banca Mondiale ha congelato una parte delle sue missioni in Tunisia: un prezzo da pagare per il razzismo senza precedenti promulgato dal Presidente tunisino, che secondo l’Istituto di Washington viola i suoi “valori di inclusione, rispetto, anti-razzismo in tutte le sue forme”.

La propaganda razziale tunisina e quella comunione di intenti con l’Italia – Schiacciato dalle proteste dei dissidenti politici e dalla rabbia sociale per la fame dilagante nel Paese, nelle scorse settimane Saied ha, infatti, optato per l’antica strategia di dirottare l’odio sui migranti, sugli stranieri. Anche nell’agenda politica tunisina, infatti, all’ordine del giorno c’è la difesa della razza. Al punto da far lanciare Saied in accuse razziali di inaudita gravità: nelle sue parole, orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana” sarebbero responsabili di “violenza, crimini e comportamenti inaccettabili” nel Paese. Non solo: l’intento criminale dei sud-africani sarebbe, secondo Saied, quello di sostituire la popolazione autoctona, facendo della Tunisia ““un altro stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”.

La conseguenza delle sue dichiarazioni è stata un’ondata di aggressioni, che molto rievocano i pogrom, da parte della popolazione tunisina contro gli immigrati sud-sahariani, improvvisamente responsabili di tutti i mali patiti dal Paese. Le reazioni delle organizzazioni internazionali come Amnesty International sono state tempestive, e anche la Banca Mondiale si è trovata, infine, costretta a congelare i suoi aiuti.

A difendere la Tunisia, però, continua a pensarci l’Italia, per il cui governo il Paese nord-africano rappresenta un fondamentale alleato per la sua politica contro gli sbarchi e in cui tra l’altro va recentemente di moda, come in Tunisia, il dibattito sulla presunta “sostituzione etnica”. L’Italia è tra l’altro il primo partner commerciale del Paese di Saied. E’ proprio per questa particolare vicinanza e i multipli interessi condivisi, che a farsi da garante di fronte al Fondo Monetario Internazionale per la Tunisia è stato proprio il governo Meloni. Il FMI aveva, infatti, chiesto a Saied un impegno nel taglio dei sussidi statali e nella privatizzazione delle compagnie pubbliche perché venisse erogato il suo prestito da 1.9 miliardi, un impegno che Saied non si è voluto assumere, troncando poco diplomaticamente il dialogo con l’Agenzia.

A fare da paciere, ci pensa la diplomazia italiana col suo pressing. L’ultima missione in questo senso risale al 13 aprile scorso, quando il ministro degli esteri Tajani ha ospitato alla Farnesina il suo omologo tunisino Nabil Ammar. Dopo l’incontro, Tajani ha ribadito quanto la Tunisia meriti il prestito internazionale e ha rassicurato sulle riforme progettate da Saied. “L’Italia è pronta a fare tutto ciò che è in suo potere per sostenere politicamente la Tunisia”, ha affermato, una dichiarazione su una comunione di intenti che alla luce della situazione politica in Tunisia dovrebbe allarmare. Per Tajani, però, i pogrom contro le minoranze sud-sahariane e gli arresti dei dissidenti sembrerebbero non esistere, dal momento che ci ha tenuto a parlare di “democrazia” nel Paese di Saied e ha chiosato, all’agenzia Nova, con una frase che suonerebbe ironica se non fosse tragica: “Non mi pare che ci siano state condanne a morte in Tunisia come è successo in Iran”. Un’ottima motivazione per garantire per la Tunisia di Saied agli occhi del mondo. Poco importa se i morti, come i suicidi incendiari, cominciano ad esserci, i quartieri dei migranti vengono presi d’assalto e le carceri si riempiono di prigionieri politici.

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TERRITORI OCCUPATI. Francesca Albanese: “Occorre applicare il diritto internazionale, no ai doppi standard dei media”


INTERVISTA. La Relatrice dell'Onu per i Diritti Umani ribadisce che in mancanza di una effettiva pressione da parte della comunità internazionale, l'occupazione militare israeliana sarà sempre più pressante. L'articolo TERRITORI OCCUPATI. Francesca Alban

Foto di Shireen Yassin/ONU

Pagine Esteri, 21 aprile 2023 – Le violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele e il silenzio su di esse mantenuto di solito da gran parte dei media, sono al centro dell’intervista che Dalia Ismail ha realizzato con Francesca Albanese, giurista e Relatrice speciale del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, dopo la morte a Tel Aviv di un giovane avvocato italiano, Andrea Parini, investito e ucciso, non si sa ancora se intenzionalmente, da un palestinese con cittadinanza israeliana.

Da un lato i media hanno dedicato ampio spazio al presunto attentato compiuto a Tel Aviv e dall’altro hanno ignorato quanto accadeva nella Spianata delle moschee di Gerusalemme dove la polizia ha brutalmente picchiato, ferito e arrestato centinaia di fedeli.

In questo momento di dolore e confusione, è importante che tutti agiscano con contegno e rispetto per le vittime. Si deve attendere una rigorosa indagine sulle circostanze che hanno portato alla morte di Alessandro Parini. Fino a quando non si sia chiarita la dinamica dei fatti, bisognerebbe evitare di etichettare l’episodio come “terrorismo”. In generale, e anche in questo contesto specifico, Israele applica una definizione molto ampia di terrorismo ai palestinesi, violando i principi fondamentali di certezza del diritto, mens rea, materialità del reato e proporzionalità della pena. Come dimostra il caso della morte di Parini, c’è sovente una presunzione di colpevolezza nei confronti dei palestinesi fino a prova contraria, perché nella logica del governo israeliano, i palestinesi sono associati ontologicamente alla resistenza e al terrorismo, indipendentemente dalla contestualizzazione di ogni evento. Questa visione propugnata da successivi governi israeliani ha influenzato fortemente il dibattito politico in Italia e i nostri media, che associano i palestinesi e ogni azione, anche quando non implichi l’uso della forza, al terrorismo. Tuttavia, lo stesso non accade quando sono gli israeliani a perpetrare o autorizzare atti che mirino a diffondere il terrore e la paura in una popolazione al fine di raggiungere uno scopo ideologico. Il doppio standard applicato in questo modo dimostra una mancanza di profondità analitica e una preoccupante ignoranza dei fatti, sia attuali che storici. È importante mettere in evidenza questa problematica e agire di conseguenza, senza distogliere lo sguardo dalle vere questioni di rilevanza internazionale e dal diritto come strumento indispensabile per la risoluzione dei conflitti.

A suo parere come si potrebbe definire ciò che è accaduto a Tel Aviv? “Attentato” è il termine appropriato dato che non si conosce nulla dell’indagine e anche se sia ancora in corso una indagine obiettiva sulla morte di Andrea Parini?

Ci sono versioni discordanti, risultati di indagini preliminari che si contraddicono. Attendo il risultato finale delle indagini augurandomi che siano trasparenti e rigorose. Altra cosa interessante è il fatto che il palestinese alla guida dell’auto, era un palestinese del ’48 ovvero di cittadinanza israeliana. Cioè un palestinese che, secondo la narrazione israeliana e che è promossa anche qui in Italia, non è per niente discriminato. Significativo, no? Qual è la condizione dei palestinesi del’48 vivendo proprio nel ventre dell’occupante? Sono per alcuni sensi più privilegiati degli altri ma rimangono a tutti gli effetti cittadini di serie B, da quando nel 2018 è passata la legge “Israele Stato-Nazione degli Ebrei”. Il mio mandato comprende la situazione nel territorio palestinese occupato dal 1967 e pertanto non include i Palestinesi cittadini di Israele. Quindi non mi compete una disamina approfondita sul livello di discriminazione cui questi ultimi sono soggetti. Tuttavia vi sono diversi rapporti (per esempio, Amnesty International e ESCWA) che documentano tale discriminazione nei confronti dei Palestinesi cittadini di Israele. Ma c’è anche un consenso sul fatto che la discriminazione nei confronti dei Palestinesi sotto occupazione militare dal 1967 sia ben più severa perché include la legge marziale e l’esistenza di corti militari per giudicare i Palestinesi della Cisgiordania e un blocco marittimo, terrestre e aereo imposto da Israele su Gaza che dal 2006 limita l’accesso dei palestinesi ivi residenti a beni di prima necessità, compresi cibo, acqua, medicine e attrezzature mediche. È chiaramente importante mantenere l’attenzione sulla situazione di tutti i palestinesi sotto il controllo israeliano (incluso quelli in Israele) perché nessuno dovrebbe essere discriminato in virtù della propria identità nazionale.

Come si spiega il disinteresse dei principali media italiani per il violento pestaggio dei fedeli compiuto dalla polizia israeliana alla moschea di Al Aqsa.

Ci sono diversi fattori che potrebbero contribuire all’assenza di copertura mediatica sui recenti eventi a Gerusalemme Est e alla moschea di Al Aqsa da parte dei media italiani principali. Potrebbe essere che le redazioni dei media italiani non considerino la questione israelo-palestinese una priorità o che esistano pressioni politiche e/o economiche che ne limitino la copertura. Potrebbe inoltre esserci una mancanza di conoscenza e di competenza tra i giornalisti italiani riguardo alla questione. Non escludo casi di autocensura da parte di giornali e giornalisti, a causa della strategia di bollare qualsiasi discussione critica sulle politiche ed azioni dello Stato israeliano come antisemita. Resta il fatto chela maggioranza dei media tradizionali in Italia parla della questione israelo-palestinese attraverso la narrazione di fatti specifici, quasi sempre quando sono coinvolte vittime israeliane, senza discutere il contesto storico e fattuale, e le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale perpetrate dall’esercito israeliano o dai coloni a danno del popolo palestinese. In tal senso la narrazione è vicina a quella propugnata dai governi israeliani, ed ignora tanto i palestinesi che gli israeliani critici delle politiche del governo, quanto centinaia di risoluzioni e rapporti ONU e di organismi non governativi. È molto importante continuare ad incoraggiare i media a fornire una copertura equilibrata e accurata dei fatti e i lettori a rimanere critici e cercare informazioni da diverse fonti per avere una visione più completa dei fatti.

Per gran parte della stampa occidentale un morto israeliano sembra pesare sulla bilancia di più rispetto a un morto palestinese, anzi a tanti morti palestinesi. Come se lo spiega?

Effettivamente questo doppio standard da parte di molti media italiani ed europei è un problema grave e preoccupante che contribuisce alla percezione distorta della realtà e alla mancanza di equilibrio nella copertura mediatica. Questa dinamica è stata resa accettabile al pubblico attraverso la narrativa predominante che enfatizza la minaccia percepita da Israele e minimizza la sofferenza dei palestinesi. Pertanto, la narrazione dominante nei media spesso dipinge i palestinesi come terroristi o agitatori, mentre gli Israeliani vengono dipinti come vittime. Ciò contribuisce alla deumanizzazione dei Palestinesi e alla diminuzione dell’empatia nei loro confronti. Un fattore che credo contribuisca a questa dinamica sono i gruppi di pressione pro-israele in molti paesi occidentali, che influiscono sulla copertura mediatica e sulle politiche dei governi. Questi gruppi additano qualsiasi critica allo stato israeliano come antisemitismo, creando un clima di intimidazione e di censura delle voci che esprimono opinioni diverse. Inoltre, la logica del conflitto falsa la natura asimmetrica della relazione tra Israele, Paese industrializzato e potente, e i Palestinesi, popolo oppresso e dal potere limitato. Questa asimmetria si riflette anche nella copertura mediatica, dove le morti di israeliani sono enfatizzate rispetto alle centinaia di palestinesi uccisi durante il conflitto.

Nel diritto internazionale, la legittima difesa comprendente anche l’utilizzo della reazione armata. La difesa della propria integrità territoriale e indipendenza politica è contemplata da una norma consuetudinaria che trova conferma nell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Se ne è parlato molto nell’ultimo anno riguardo al conflitto in Ucraina. Perché nel caso palestinese viene sistematicamente delegittimato l’utilizzo delle armi?

La legittimità dell’uso della forza per l’autodifesa è una questione fondamentale del diritto internazionale. Secondo il principio del jus ad bellum (termine latino che si riferisce alle circostanze in cui è lecito usare la forza militare da parte degli stati) l’uso della forza è legittimo solo in caso di una minaccia effettiva o imminente di attacco armato, e solo se l’uso della forza impiegata è necessario e proporzionato a tale attacco o minaccia imminente. Questo principio si applica anche all’occupazione militare, che, indipendentemente dalle circostanze della sua introduzione, costituisce essa stessa un uso della forza che deve rispettare i prerequisiti della legittima difesa.

La Striscia di Gaza è sotto assedio dal 2007 e le alture del Golan siriane sono sempre occupate da Israele nonostante la risoluzione 497 del Consiglio di sicurezza dell’ONU che dichiara nulla e senza effetti legali internazionali l’annessione israeliana di quella parte di territorio siriano. Quanto contano realmente le risoluzioni dell’Onu? E perché è impossibile farle rispettare?

La forza del diritto internazionale risiede nella capacità degli Stati di farlo applicare. In mancanza di una effettiva pressione da parte della comunità internazionale, Israele può continuare un’occupazione militare sempre più pressante in patente violazione del diritto internazionale, incluso i principi fondanti dell’ONU. Questo rappresenta una minaccia all’efficacia del diritto internazionale e all’autorità delle Nazioni Unite come organismo garante degli equilibri internazionali. L’eccezionalismo riservato ad Israele contribuisce a creare danni irreparabili al diritto internazionale e alla possibilità di risolvere conflitti nel rispetto delle leggi internazionali.

Il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) promuove il boicottaggio di Israele in risposta alle sue politiche nei confronti dei palestinesi. Israele respinge il boicottaggio e combatte il BDS. Lei pensa che quella del movimento BDS sia una campagna legittima?

Il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) è una campagna di pressione non violenta che mira a porre fine all’occupazione israeliana del territorio palestinese, al riconoscimento dei diritti dei palestinesi e alla fine della discriminazione contro di loro. Molti gruppi e individui a livello internazionale si sono uniti alla campagna del BDS, e questo ha suscitato una forte reazione da parte di Israele e alcuni suoi alleati, che hanno persino cercato di criminalizzare il BDS e le sue attività di solidarietà nei confronti dei palestinesi. Detto questo, il successo effettivo del boicottaggio é difficile da valutare in modo rigoroso visto che dipende da molti fattori. In ogni caso, il fatto che la campagna BDS sia stata in grado di suscitare una reazione così forte suggerisce che stia avendo un impatto significativo sulla discussione internazionale sui diritti dei palestinesi e sull’occupazione israeliana.

Amnesty, Human Rights Watch e anche l’Ong israeliana B’Tselem accusano Israele di praticare l’Apartheid contro i palestinesi. Israele replica descrivendo questa accusa una forma di antisemitismo. Qual è il suo giudizio?

Dalla documentazione di vari episodi di attacchi ad hominem sferrati ai critici delle pratiche del governo israeliano verso i palestinesi si evince che uno degli strumenti chiave per castigare il dibattito su Israele/Palestina in Occidente sia stata la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA/ Alleanza Internazionale della Memoria dell’Olocausto). Tale definizione, oltre a non essere chiara, accorpa all’antisemitismo qualsiasi tipo di critica alle pratiche del governo israeliano. Purtroppo, tante istituzioni, incluso atenei e scuole pubbliche di ogni ordinamento (molti in buona fede altri sotto pressione politica) hanno adottato l’IHRA, strumento pericolosissimo per la libertà d’espressione e inadeguato a proteggere gli ebrei dall’antisemitismo che ancora esiste ed è reale. L’Italia ha un ordinamento giuridico solido e una costituzione che sono gli strumenti principi per la protezione da discriminazione e antisemitismo. Non serve una definizione, per altro criticatissima da centinaia di intellettuali e studiosi, prevalentemente storici della Shoah, del Genocidio ed esperti di religione e cultura ebraica, a proteggere dall’antisemitismo soprattutto quando questa é estremamente problematica e pericolosa come l’IHRA. Gli spazi del dibattito pubblico devono rimanere luoghi di esercizio del pensiero libero, e dovrebbero dunque rimanere indenni alle logiche e agli interessi della politica. Pagine Esteri

L'articolo TERRITORI OCCUPATI. Francesca Albanese: “Occorre applicare il diritto internazionale, no ai doppi standard dei media” proviene da Pagine Esteri.



PRIVACY DAILY 98/2023


Elon Musk ha minacciato di fare causa a Microsoft per aver utilizzato i dati di Twitter senza autorizzazione. “Hanno fatto training illegamente usando i dati di Twitter. È l’ora di un’azione legale”, ha dichiarato il multimiliardario in un tweet. Tuttavia, non sono stati forniti ulteriori dettagli o prove. Microsoft ha rifiutato di commentare. In precedenza,... Continue reading →



Mentre Lula e Xi Jinping indicano percorsi di trattativa il segretario generale della NATO Stoltenberg risponde gettando benzina sul fuoco per alimentare la gue


Un ufficiale Italiano volerà alla base della Us Space Command


Cresce il legame tra Italia e Usa nello spazio. Lo testimonia il Memorandum of agreement (Moa) per l’assegnazione di un ufficiale di collegamento italiano presso l’United States Space Command (Usspacecom). A siglare l’accordo per il nostro Paese è stato i

Cresce il legame tra Italia e Usa nello spazio. Lo testimonia il Memorandum of agreement (Moa) per l’assegnazione di un ufficiale di collegamento italiano presso l’United States Space Command (Usspacecom). A siglare l’accordo per il nostro Paese è stato il Capo ufficio generale spazio dello Stato maggiore della Difesa, il generale Davide Cipelletti, mentre in rappresentanza degli Stati Uniti vi era il comandante dello Usspacecom, il generale James Dickinson. Tale iniziativa rappresenta non solo un importante catalizzatore della cooperazione con gli Usa, ma anche un’opportunità per sviluppare nuove sinergie con altri Paesi presenti presso il comando spaziale statunitense.

Si rafforza la cooperazione in orbita

Nel dettaglio, l’ufficiale di collegamento condividerà con l’Usspacecom le competenze e le conoscenze acquisite grazie alle Forze armate italiane e si occuperà di facilitare le comunicazioni tra le unità spaziali di Roma e Washington. Non solo, sosterrà inoltre le opportunità di partnership che potranno aprirsi tra i due Paesi nel settore spaziale così come della Difesa. Gli ufficiali di collegamento con l’estero sono interlocutori diretti del quartier generale, in questo caso la Peterson air force base, e l’ufficiale italiano servirà come rappresentante nazionale per tutti gli aspetti della cooperazione tra l’Italia e lo Usspacecom per quanto riguarda l’uso militare dello spazio.

Gli altri memorandum

“Nello scenario geopolitico attuale, lo spazio è un dominio strategico che richiede collaborazione tra Alleati. L’importante accordo sottoscritto tra lo Stato maggiore della Difesa e l’Us Space Command consentirà di sviluppare sinergie e facilitare scambio di esperienze”. Così ha commentato il nuovo memorandum oltreoceano il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Quella che lega Italia e Usa nel settore spaziale è in realtà una relazione di collaborazione di lunga data, che ha portato a risultati molto significativi, tra gli ultimi quelli della missione Artemis. Sono infatti diversi i memorandum stretti tra Roma e Washington. Da quello per l’accesso al servizio cifrato del Gps, allo scambio di dati e informazioni di Space situational awareness (Ssa), fondamentale per effettuare manovre orbitali in sicurezza evitando il rischio di collisioni con altri satelliti operativi e la conseguente produzione di detriti (debris) spaziali.

Simposio spaziale

A fare da sfondo del memorandum è stata la 38esima edizione dello Space Symposium, che si sta svolgendo a Colorado Springs e a cui partecipa una delegazione italiana dello Stato maggiore della Difesa, guidata proprio dal generale Cipelletti. L’Ufficio generale spazio accentra infatti in sé le funzioni connesse all’elaborazione della dottrina, all’avvio di nuovi programmi, così come allo sviluppo di partnership nazionali e internazionali e all’evoluzione delle capacità spaziali. Il Simposio si propone di riunire i principali stakeholder del comparto, quali i leader del settore spaziale commerciale, governativo e militare provenienti da tutto il mondo per promuovere un forum di discussione per affrontare e pianificare le future conquiste e sfide in campo spaziale.


formiche.net/2023/04/ufficiale…



Filippine. Il Partito Comunista denuncia: “i nostri leader torturati e uccisi”


di Redazione Pagine Esteri, 20 aprile 2023 – Il Partito comunista delle Filippine (Cpp), che dal 1969 conduce una guerriglia a bassa intensità contro il governo, ha confermato oggi la morte dei suoi leader, Benito Tiamzon e Wilma Austria-Tiamzon, accusand

di Redazione

Pagine Esteri, 20 aprile 2023 – Il Partito comunista delle Filippine (Cpp), che dal 1969 conduce una guerriglia a bassa intensità contro il governo, ha confermato oggi la morte dei suoi leader, Benito Tiamzon e Wilma Austria-Tiamzon, accusando le forze armate di averli torturati e uccisi lo scorso 21 agosto.

Il Partito ha riferito tramite una nota di aver dovuto condurre mesi di indagini per poter confermare la morte del presidente del suo comitato centrale, Benito “Ka Laan” Tiamzon (71 anni), e di Wilma (70 anni), nota anche come “Ka Bagong-tao”, che del partito era segretaria generale.

Prima dell’annuncio ufficiale del Cpp, diffuso ieri, si supponeva che i due leader fossero morti nell’esplosione di una imbarcazione al largo della costa di Samar durante un blitz condotto dalle forze armate filippine.

Ora, dopo l’indagine, il partito nega questa ricostruzione e sostiene che i due leader e altri otto membri della formazione siano stati attaccati dalle forze armate mentre viaggiavano verso Catbalong. Catturati dai militari, sarebbero stati torturati e uccisi, e i loro cadaveri caricati su una imbarcazione a motore che è stata fatta esplodere.

«Secondo le informazioni raccolte dal Comitato centrale, i Tiamzon hanno subito pesanti percosse per mano dei loro sequestratori. Rapporti interni citano testimoni che hanno visto come i volti e i corpi delle vittime fossero dilaniati, apparentemente colpiti con oggetti contundenti», afferma la nota del Cpp.

«I corpi già senza vita dei Tiamzon e del loro gruppo sono stati scaricati su un motoscafo pieno di esplosivo e trascinati da Catbalogan a metà strada verso l’isola di Taranganan prima che venisse fatta esplodere» ha riferito Marco Valbuena, capo ufficio stampa del Cpp.

Assieme ai leader del partito, sono stati uccisi anche il segretario subregionale dell’Est, Visayas Joel Arceo, e membri del quartier generale centrale della guerriglia. I Tiamzon erano già stati arrestati dalle autorità filippine nel 2014, ma erano poi stati rilasciati dopo due anni per consentire loro di partecipare a colloqui di pace col governo filippino all’epoca della presidenza di Rodrigo Duterte.

I negoziati sono in seguito naufragati, e nel 2020 i Tiamzon sono stati condannati per la cattura di alcuni ufficiali dell’esercito nel 1988, condanna cui è seguita una vasta caccia all’uomo culminata nella loro cattura e uccisione. – Pagine Esteri

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La falsa contrapposizione tra Europa e Usa


Bene ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a sottolineare, nel suo discorso tenuto durante la visita in Polonia, che “l’aggressione russa riguarda tutti i paesi che si richiamano alla libertà delle persone e dei popoli”. Ed è decisivo,

Bene ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a sottolineare, nel suo discorso tenuto durante la visita in Polonia, che “l’aggressione russa riguarda tutti i paesi che si richiamano alla libertà delle persone e dei popoli”. Ed è decisivo, va aggiunto, per la sopravvivenza stessa dell’Unione europea. Da come si concluderà la barbara aggressione scatenata dalla Russia di Putin nei confronti dell’Ucraina dipenderà se il mondo di domani sarà più o meno favorevole al perdurare del progetto di un’Europa unita. Nel mondo che ci aspetta, l’Unione rappresenterà ancora l’avanguardia di una tendenza verso la progressiva affermazione della supremazia della legge sulla forza, oppure sarà invece l’anacronistico residuo di un trend declinante, un esperimento destinato a estinguersi perché “unfit to survive”?

E’ tutta qui la questione. Ed è un punto che travalica e trascende qualunque considerazione sulla necessaria “autonomia strategica dell’Unione”, perché ci smuove da quella sorta di “comfort zone” nella quale troppe considerazioni sull’atteggiamento europeo nei confronti della guerra sembrano illudersi di potersi rintanare. Se il mondo che verrà sarà o meno ospitale nei confronti del progetto europeo dipenderà anche dalle decisioni che oggi sapremo assumere e dalla fermezza che sapremo mantenere riguardo ai nostri princìpi. Viviamo già in una realtà che è costituita di scatole cinesi (o di matrioske, se si preferisce un’altra immagine) in cui la sicurezza e le prospettive delle singole democrazie nazionali dipendono in maniera strutturale dalla saldezza delle istituzioni europee e dalla tenuta del Patto atlantico. Ma di cinese o di russo, queste scatole e queste bamboline non hanno proprio nulla, perché la loro natura è totalmente occidentale.

La sfida che i dispotismi hanno lanciato alle democrazie liberali non riguarda la continuità dell’interdipendenza planetaria, ma le modalità e i princìpi in base ai quali essa verrà governata. Stiamo già sperimentando le difficoltà che incontra l’Unione europea – la più audace novità istituzionale dopo quella dello stato costituzionale teorizzata da Montesquieu a metà del XVIII secolo – nell’ambito di un sistema internazionale che resta ancora definito dall’egemonia dell’ordine liberale. Qualcuno può forse illudersi che tali difficoltà diventerebbero meno gravose da affrontare all’interno di un ordine ispirato ai princìpi del dispotismo? Credo sarebbe difficile poterlo argomentare.

Contrapporre l’europeismo all’atlantismo non significa solo ignorare e falsificare la storia, che ha visto il primo potersi trasformare in realtà al riparo della protezione offerta dal secondo. Implica anche ipotecare la sopravvivenza del “nostro mondo”, e gettare le premesse di un fallimento dal quale potremmo non risollevarci. Il nostro mondo non è minacciato dalla sostituzione etnica o da altre bufale strampalate che rivelano l’incapacità di liberarsi dai residui tossici di una subcultura fascistoide. E neppure lo è da nessuna nuova edizione del vecchio rottame del complotto “demoplutogiudaicomassonico”, che oggi si pretenderebbe incarnata da George Soros. Il nostro mondo – e i valori e i princìpi che lo rendono possibile – è sottoposto all’attacco dei dispotismi dei loro disvalori, che vorrebbero rigettarci in un girone dantesco fatto di violenza e sopraffazione dal quale siamo riusciti a liberarci a costo di immani sacrifici ridefinendo l’essenza dell’occidente nella triade costituita da democrazia rappresentativa, economia di mercato e società aperta.

Questa è la minaccia esistenziale che stiamo fronteggiando. Questa è la posta in gioco in questa guerra in Ucraina: una posta in gioco non diversa da quella che le democrazie dovettero affrontare nella lotta contro i totalitarismi che, nel 1939, sfociò nella Seconda guerra mondiale e che vide, per nostra fortuna, soccombere la Germania nazista e l’Italia fascista sua alleata. Una lotta che sembrò definitivamente vinta nel 1991, con il crollo del totalitarismo sovietico e che invece oggi si ripropone in una nuova e più difficile fase. In questa terza fase, l’Europa unita è chiamata, nella sua inedita e articolata soggettività politica, a dimostrare di volere e poter fare la differenza, per consolidare il suo – ovvero il nostro – futuro.

IL FOGLIO

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Anche quest’anno, a partire dal 22 aprile si terranno a Milano e in Lombardia, numerose manifestazioni nostalgiche ed esplicitamente in sostegno del fascismo


Sarà natale


Lasciamo perdere il colore politico e facciamo finta che se ne parli non solo seriamente, ma anche concretamente. È un gran bene che si voglia incentivare la partecipazione femminile al lavoro, oggi molto bassa, assai sotto la media europea e contribuente

Lasciamo perdere il colore politico e facciamo finta che se ne parli non solo seriamente, ma anche concretamente. È un gran bene che si voglia incentivare la partecipazione femminile al lavoro, oggi molto bassa, assai sotto la media europea e contribuente a metterci in fondo alla coda in quanto a partecipazione complessiva. Ed è un gran bene volere incentivare la natalità. Ma “incentivare” non significa nulla. Come?

La prima cosa è osservare l’accoppiata e capirne la natura: in un colpo solo lavoriamo meno, abbiamo meno donne occupate e facciamo meno figli. Non solo, quindi, non è il lavoro a distrarre o allontanare dalla filiazione, ma si fanno più figli in Paesi europei dove si lavora di più e più donne sono al lavoro. Quindi buttiamo dalla finestra qualche luogo comune che acceca troppi militanti del partito preso. E guardiamo altre esperienze: la Germania aveva un mercato del lavoro simile al nostro, con scarsezza di donne impegnate e scarsezza complessiva di lavoratori, ed hanno affrontato il problema varando forme contrattuali estremamente elastiche (anche con i “mini-lavori”) e aumentando l’immissione di immigrati. Risultato: dopo anni si ritrovano con più lavoratrici e meno scarsezza (che permane) di manodopera, nonché ad alzare il salario minimo. È chiaro, dalle parti del governo? Non è: o le donne o gli immigrati, ma le donne e gli immigrati. I dati tedeschi sono a disposizione di chi voglia occuparsene senza andare avanti a mosca cieca.

Poi c’è il versante non contrattuale, ma relativo ai servizi. I figli non si deve solo farli nascere (che è facile), ma anche crescerli (che è più lungo e complicato). Asili, scuole, tempo pieno, mense, sport, trasporti. Tutti capitoli del Pnrr. Però gli asili sono già pericolanti, con i comuni in grave difficoltà progettuale e amministrativa. Per incentivare la natalità si devono risolvere quei problemi, non far decollare le cicogne o irrigare i cavoli. Al momento ricordo che: a. per il ministro Fitto è tutto in ordine e in tempo (voglia il cielo); b. per il ministro Zangrillo le proposte di modifica del Pnrr arrivano a fine mese, ma con calma; c. per la Lega si dovrebbero prendere meno soldi; d. intanto il governo ne chiede di più sul lato Repower Eu. Più continua questo frullato, meno si pensa il futuro sia tranquillo e meno ci si dispone a ripopolarlo.

Sul lato opposto dell’arco vitale ci sono gli anziani, che crescono di numero e richiedono servizi e disponibilità sanitarie. Il che, anche in questo caso, rientra nei piani Pnrr, ma chiede anche più immigrati. Chi se ne chieda il perché faccia un salto nelle apposite residenze o guardi la composizione del mondo degli infermieri. Senza quei servizi qualcuno resta di guardia all’anziano, che sarà fonte di reddito grazie alla pensione (che i nipoti non avranno), ma farà preferire una rendita alla produzione. E porta male.

Pare il ministro dell’economia s’appresti a proporre fiscalità per la natalità. Interessante. Leggeremo con attenzione. Osserviamo che: 1. i bonus non risolvono neanche uno dei problemi indicati e partono dal presupposto indimostrato che non si facciano figli per mancanza di soldi.
2. se (come si legge) si dovesse sgravare dalle tasse chi fa figli, supponendo si stia parlando dell’Irpef, questa sarebbe una misura a favore dei “ricchi” (secondo il fisco), perché i poveri, grande maggioranza contabile, già non pagano Irpef. Sarebbe una strana misura.

Il tutto tenendo presente che, salvo colpi di scena, la genitorialità è una libera scelta insindacabile, che si può esercitare grazie al progresso e che ha senso solo con la ricchezza (i poveri veri figliano pure troppo). Escludendo che per far fare figli ci si voglia impoverire, ne discende che l’incentivazione consiste nel liberare dalle costrizioni successive al natale, lasciandone intatta la magia. Non servono predicozzi, ma spinta alla crescita e ragionevole positività guardando il futuro. Il resto è colore. Ma molto sbiadito e noiosamente ripetitivo nella sua inutilità.

La Ragione

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L’importanza del soldato e investimenti Ue. Il punto sulla Difesa all’evento con Serino


A oltre un anno dall’inizio dell’invasione russa di Kiev, è giunto il momento di fare una riflessione accurata delle capacità necessarie alla Difesa per affrontare le sfide del prossimo futuro, e in particolare quelle della componente terrestre, che ha vi

A oltre un anno dall’inizio dell’invasione russa di Kiev, è giunto il momento di fare una riflessione accurata delle capacità necessarie alla Difesa per affrontare le sfide del prossimo futuro, e in particolare quelle della componente terrestre, che ha visto un ritorno della centralità strategica sui cambi di battaglia ucraini. È quanto sottolineato dal capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Pietro Serino, nel corso dell’evento “Difesa terrestre. Un piano europeo tra investimenti e competitività”, organizzato da Formiche e Airpress a Spazio Europa, promosso da FDA Beretta e con la partnership della Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Un momento di riflessione sulla dimensione terrestre che ha visto il generale Serino confrontarsi con Carlo Ferlito, direttore generale di Fabbrica d’Armi Pietro Beretta; Andrea Margelletti, presidente Centro studi internazionali (Cesi); con le conclusioni di Matteo Perego di Cremnago, sottosegretario alla Difesa, e la moderazione di Flavia Giacobbe, direttore delle riviste Formiche e Airpress.

Parola d’ordine: equilibrio

“La parola che voglio valorizzare è equilibrio” ha detto ancora il capo di Stato maggiore dell’Esercito. Un equilibrio che deve caratterizzare “lo strumento militare nazionale nella sua interezza, e quello terrestre nello specifico, che deve essere equilibrato e deve considerare tutte le condizioni di impiego, nessuna meno dell’altra”. Secondo il generale, in passato si è data priorità ad alcune caratteristiche a scapito di altre, ma i moderni scenari aperti dalla guerra in Ucraina impongono un ripensamento del trend. Oggi “il focus deve essere su tutto lo spettro di missioni affidate all’Esercito, i cui nuovi compiti non si sono sostituiti ai precedente, si sono aggiunti”. Il generale ha infatti ricordato i numerosi impegni della Forza armata, sia sul territorio nazionale, sia all’estero, dal Nord Africa al Medio Oriente e ai Balcani, dove tra l’altro l’Italia esprime anche ruoli di comando come in Iraq e in Kosovo. Certamente la guerra in Ucraina ha dimostrato la necessità della componente pesante, ha confermato Serino, tuttavia questo deve essere solo uno degli assi di potenziamento della Forza armata, senza abbandonare quanto raggiunto finora e che continua ad essere necessario. Dal punto di vista europeo, “l’Ue deve capire se vuole e crede in una capacità militare comune, e questo richiederà una seconda rinuncia di sovranità, dopo quella monetaria: quella tecnologica”. Se continuerà la competizione tra nazioni, con ciascuna impegnata “a portare avanti il suo piccolo elemento, scopriremo domani che lavorare tutti insieme sarà più difficile”.

Il sistema-soldato

“Quando si parla di sistemi terrestri si pensa al carro armato e all’artiglieria pesante, non si pensa al soldato”, ha detto Carlo Ferlito, ricordando come invece ci sia bisogno di considerare l’uomo come “sistema, inserito in un insieme di sistemi complessi che operano nello scenario multidominio”. In questo campo il nostro Paese è all’avanguardia, grazie “al lavoro svolto con il progetto Soldato futuro, trasformato poi in Forza Nec, che ha creato la visione del soldato come sistema”. In Italia oggi è attivo una configurazione del militare portata avanti dal consorzio per Soldato sicuro, “che si occupa di mettere assieme le capacità dell’industria per fornire tutto l’equipaggiamento del soldato”. All’intero di questo consorzio (gestito al 38% da Beretta e al 68% da Leonardo) è coordinata l’intera filiera italiana che si occupa delle forniture per l’equipaggiamento del soldato, non solo le armi, ma anche “la suite per l’abbigliamento, visori notturni e diurni, munizioni”. Questa eccellenza italiana, tra l’latro, potrebbe essere portata anche a livello europeo, dove l’importante sarà anche poter contare “su una filiera europea sicura”. Per fare ciò, indispensabile per l’industria è poter contare “su programmi di lunga durata, necessari per costruire investimenti e fare innovazione”.

Le lezioni ucraine

Per Andrea Margelletti, “questo conflitto ha posto degli interrogativi, e dobbiamo domandarci se stiamo andando nella giusta direzione alla luce di un mondo completamente diverso”. L’Ucraina ha cambiato lo scenario di sicurezza globale, per il quale sarà necessario affrontare le necessità e potenziare le capacità di agire della Difesa. “Dobbiamo immaginare reparti nuovi per un mondo nuovo, assicurandoci che quello che sappiamo fare sia anche quello che dobbiamo fare”. Fondamentale sarà anche il ruolo dell’Europa, e “di una governance europea”, necessaria “se vogliamo avere un Difesa europea”, e soprattutto di una sincronizzazione delle industrie del Vecchio continente.

Investimenti europei

Il contesto terrestre rappresenta un elemento importante della Difesa, soprattutto nel suo necessario approccio alle operazioni multi-dominio, ha ricordato Matteo Perego di Cremnago nelle sue conclusioni, sottolineando come “non può esistere la Difesa associata ad un singolo elemento/dimensione, soprattutto oggi che le minacce ibride e convenzionali sono multi dominio”. Per questo è necessario “assicurare gli investimenti per dotare le forze armate delle capacità per operare nel futuro contesto interconnesso”. Tutto questo “ebbe ispirare l’elaborazione e l’attuazione di un piano europeo di investimenti”, seguendo in particolare gli indirizzi e le decisioni raccolte dalla Bussola strategica del 2022, dandole piena attuazione. “L’Ue deve prepararsi al meglio alle sfide emergenti – ha continuato Perego – provvedendo a proteggersi dalle minacce ibride, rafforzando la dimensione di sicurezza e difesa, accrescendo la mobilita militare nel Vecchio continente e dando seguito agli investimenti racchiusi nella Bussola”. Questo potrebbe rappresentare anche per l’Italia una grande possibilità, grazie alle sue “risorse intellettive e creative con le sue aziende per la Difesa comprese le Pmi”, affinché sia un processo “vincente e stimolante per il bene non solo della Difesa e sicurezza nazionale ma anche per l’economia del Paese”.


formiche.net/2023/04/difesa-te…



Accollati


A forza di dire che si mette il costo dei consumi odierni e del debito pubblico sulle spalle dei figli non ci si è accorti che i figli siamo noi. La nostra spesa per pagare gli interessi sul debito pubblico non è solo la più alta d’Europa, in rapporto al

A forza di dire che si mette il costo dei consumi odierni e del debito pubblico sulle spalle dei figli non ci si è accorti che i figli siamo noi. La nostra spesa per pagare gli interessi sul debito pubblico non è solo la più alta d’Europa, in rapporto al prodotto interno lordo, ma è più del doppio della media. Significa che, mediamente, ciascun italiano di oggi, non i nostri figli, ha 1012 euro in meno in tasca l’anno, rispetto a un tedesco; 733 in meno rispetto a uno spagnolo; anche se solo 153 meno di un francese (e si spera sia chiaro con chi abbiamo interessi in comune, rispetto alla riscrittura del patto di stabilità).

Che i tassi d’interesse sarebbero saliti era scontato, ma quelli europei sono ancora sotto i praticati in Usa o Uk. Inoltre abbiamo a disposizione la linea di credito europea Ngeu, che costa meno degli attuali valori di mercato, e una quota a fondo perduto. Abbiamo gli strumenti, quindi, per fare la sola cosa sensata: puntare a far crescere la ricchezza nazionale più velocemente del costo del debito, in modo da riassorbirlo gradualmente. Ed è qui che arriva lo stupefacente e si sente sostenere lo sconcertante.

Si sente dire: sapete che c’è? I fondi europei costano sì meno del debito preso sul mercato, ma tocca lavorarci e investirli, perché non ci rinunciamo? Poi tocca anche fare le riforme, ma perché non si fanno gli affari loro? Tanto s’è trovata la formula magica: saranno gli immigrati a pagare tutto. Dopo anni passati a parlare di muri e chiusure, accadono due cose: il governo di destra conferma quel che si trova scritto, da lustri, in tutti i Documenti di economia e finanza, ovvero che i conti pubblici si tengono in equilibrio solo se si mettono molti più immigrati al lavoro (170mila, ogni anno, tutti gli anni); poi arriva il presidente dell’Inps a sostenere che saranno gli immigrati a pagarci le pensioni. Entusiasmo avvincente, ma non ci hanno capito niente.

Tridico, Inps, è il più sincero. Non crede, gli chiedono, che il reddito di cittadinanza, da lei sostenuto, sia fallito? No, risponde, è solo mancato il contorno: gli uffici del lavoro, le politiche di formazione e quelle attive del lavoro. Ha ragione, ha funzionato solo il dare (buttare) quattrini, presi a prestito. Che come fallimento non è neanche normale, ma una bancarotta materiale e morale. E questa è l’Italia che ora dice: facciamo pagare gli immigrati. Non sia mai che le pensioni le facciamo pagare agli evasori fiscali e previdenziali, quelli condoniamoli.

Il prof. Luca Ricolfi, che potete leggere qui a fianco, aveva elaborato un concetto avvincente: la società signorile di massa. Ovvero una società in cui tutti si è signori, scaricando i lavori pesanti o sgradevoli sugli immigrati, pagandoli poco. Ora pure debito e pensioni. Come dire: entrate senza fare rumore, non sporcate, non disturbate e pagate. Temo che si sia al passo successivo, rispetto a quanto descritto da Ricolfi, siamo alla: nobiltà decadente di massa. I soli a viaggiare, conoscere il mondo, spendere molto e non produrre un accidente, vendendo prima le terre e poi il diroccato maniero avito.

Ben triste la nostra sorte se vivessimo per accollarci ad altri. La nostra vocazione deve essere quella che si vede al salone del mobile e nelle esportazioni: innovazione, coraggio, inventiva. Ma per riuscirci serve studio, lavoro, passione e fatica. Fatica. Accollati si diventa subordinati. Se un briciolo d’orgoglio c’è ancora nella politica capiscano tutti, a destra e sinistra, che l’Italia ha bisogno d’essere scossa non consolata, spronata non assistita, alleggerita non gravata. La società della rendita, basata sul debito, rende schiavi. Oggi, non in un futuro indefinito. Pensare di evitarlo schiavizzando altri non è neanche inaccettabile, è proprio da scemi.

L’Italia che pedala non fa distinzioni fra indigeni o immigrati, nei diritti e nei doveri, sa che il lavoratore va rispettato e il mantenuto scaricato. Oltre che civile, quell’Italia, è consapevole del proprio interesse.

La Ragione

L'articolo Accollati proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



L'unione Europea interviene di nuovo sulla piaga del lavoro precario nella pubblica amministrazione in Italia. La Commissione ha intimato ancora una volta al no


Digital Bridge: Global AI rulebook — US digital policymaking — Data rules


POLITICO’s weekly transatlantic tech newsletter for global technology elites and political influencers. By MARK SCOTT Send tips here | Subscribe for free | View in your browser BUCKLE UP, DIGITAL BRIDGE IS A SCORCHER THIS WEEK. I’m Mark Scott, POLITICO’s

POLITICO’s weekly transatlantic tech newsletter for global technology elites and political influencers.

POLITICO Digital Bridge

By MARK SCOTT

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BUCKLE UP, DIGITAL BRIDGE IS A SCORCHER THIS WEEK. I’m Mark Scott, POLITICO’s chief technology correspondent, and in a sea of social media commentary, this video made me feel seen. Not sure if my ego can take being called a demigod, but (given my somewhat pale Celtic complexion), I’ll settle for the “day walker” moniker.

There’s a lot to get through this week. Let’s do this:

— The generative AI hysteria has got people (again) thinking we need global rules/standards for this technology. It won’t be easy.

— The clock is ticking for Congress to get anything done on digital. But that’s where the real action is taking place.

Washington takes another step to challenge Brussels’ international dominance on data via a summit in London.

WHY GLOBAL AI RULEMAKING IS HARDER THAN YOU THINK


IF GENERATIVE AI HAS DONE ANYTHING (beyond freaking out your parents about the pending tech-powered apocalypse), it has focused minds on the need for the world of artificial intelligence to get rules — and fast — to calm everyone’s nerves. Luckily, such proposals, many of which span borders, are here. You’ve got UNESCO’s Ethics of AI Agreement; the Council of Europe’s Convention of AI; the European Union’s AI Act; the White House’s Blueprint for an AI Bill of Rights; morenational AI strategies than you can shake a stick at, including China’s AI rulebook; upcoming transatlantic Trustworthy AI” Guidelines; and the Organization for Economic Cooperation and Development’s (OECD) AI Principles.

Many of these (mostly voluntary) rulebooks, surprisingly, have a lot in common. Most call for greater transparency over how AI systems operate. They demand stronger data protection rights for people. They require independent oversight of automated decision-making. Some (looking at you, Brussels) outlaw specific — and ill-defined — “harmful” use cases for the technology. In short, in a digital policymaking world where officials almost never agree, there’s a lot of existing consensus about how to tackle the underlying questions linked to AI.

But (and there’s always a but) that doesn’t mean international rules/standards are going to happen anytime soon. “I’m just really afraid that the OECD countries need to get past arguing about small things and look at the bigger picture,” Audrey Plonk, head of the Paris-based group’s digital economy policy division, told me. She should know. Her team has been leading on cross-border AI policymaking longer than anyone, and the OECD’s AI Principles are viewed as the most comprehensive Western playbook for how to approach the technology.

Yet to the American-born OECD official, we are still twiddling our thumbs. Most countries agree the likes of accountability, transparency, human rights and privacy should be built into AI rulemaking. But what that actually looks like, in practice, still varies widely among countries. That means any form of international consensus — beyond platitudes about holding companies to account — is still in its infancy. “If we don’t move in the same direction on something as important as this, we’re all going to suffer,” added Plonk whose team just created a multistakeholder working group to address the future policymaking implications of AI. “You’ve got people still fighting around the edges.”

This problem comes down to two pain points. First: Different countries are approaching AI rulemaking in legitimately different ways. The European Union (mostly) wants a top-down government-led approach to mitigate harms (hence the AI Act). The United States, Japan and the United Kingdom would prefer an industry/sector-led approach to give the technology a chance to grow. China views this via the prism of national and economic security. Second: ChatGPT has set off a separate, but related, call for new oversight specifically aimed at generative AI — in ways that overlap with existing regulation that could hold this technology to account without the need for additional rulemaking.

Case in point: U.S. Senate leader Chuck Schumer’s (fuzzy) AI framework and an open letter from European politicians leading on the bloc’s AI Act. Both efforts name-checked the current AI craze as a reason to do something to rein in the technology’s potential excesses/abuses. But as you can see from above, such standards — even at a global scale — already exist. What’s missing are the finer points of policymaking required to go beyond platitudes around accountability, transparency and bias to figure out how that actually plays out in a cross-border set of enforceable rules.

And for those urging specific generative AI oversight, I would suggest taking a deep breath. I called Suresh Venkatasubramanian, director of Brown University’s Center for Tech Responsibility and co-author of the White House’s Blueprint for an AI Bill of Rights, and asked him if such rules were necessary, given how that technology has captured people’s imagination. “I would say that if we hold it to the same standards that you would hold any other (AI) system, it would not pass,” he told me. “If you have transparency or testing evaluation standards, it’s going to be harder to get ChatGPT-like systems to pass them.”

“If we focus on the point of impact, focus on where the systems are being used, and make sure we have governance in place there — just like we have wanted, all this time — then, automatically, generative AI systems will have to be subject to those same rules,” he added.

WHAT TO WATCH IN US DIGITAL POLICYMAKING


WHEN IT COMES TO WASHINGTON’S DIGITAL RULEMAKING, I’m usually a glass-half-empty kind of guy. And as U.S. lawmakers return this week after their Easter break, it’s hard not to look at the landscape and feel disappointed (again). The American Innovation and Choice Online Act (for digital competition) is going nowhere; the RESTRICT Act (for banning the likes of TikTok) is mostly a public relations stunt; and the American Data Privacy Act (for comprehensive federal data protection standards) is stuck in a political quagmire.

But, weirdly, I’m more optimistic about U.S. movements on digital than I have been for years. You just need to reshape your thinking about what policymaking actually looks like, and what the goals are. What’s clear — given a divided Congress and upcoming elections — is that any specific domestic legislation aimed at greater consumer rights or hobbling Big Tech is not going to happen. But if you reframe that to focus on national and economic security threats, of which the tech sector is critical, then there’s a lot happening — both domestically and within international circles.

It’s hard not to look past the $52 billion in subsidies for U.S. semiconductor manufacturing and research via last year’s CHIPS and Science Act. Already more than 200 companies have bid for some of that cash, with about $200 billion in overall spending already pledged for new American facilities. You could argue, though, that some of that cash would have been spent anyway. It’s an effort to ward off Chinese rivals eager to gobble up more market share in the global chip industry. The fact the U.S. Commerce Department specifically linked U.S. subsidies to commitments from companies not to invest in China over the next decade shows how blatant Washington is in its goals.

The same could be said for the Inflation Reduction Act and its similar financial incentives for domestic electric vehicle production. Sure, Beijing is a factor in trying to shore up local production — much to the ire of U.S. allies like the EU, Japan and South Korea. But Washington has figured out there’s a global technological race associated with these new forms of vehicles, and it’s willing to spend big to give its homegrown automakers a fighting chance of competing worldwide. If that’s not digital policymaking, I’m not sure what is.

Outside of the U.S., American policymakers are similarly flexing their digital muscles, mostly in the name of national security. Officials are still visiting national capitals across the West to warn about the threat that China poses, specifically related to semiconductors, telecommunications, global tech standards and cybersecurity threats. It’s a full-court press to convince somewhat skeptical allies there’s a choice to be made between allowing Beijing to promote itself globally or standing with Washington to push back against China’s ascendency.

That’s playing out in fora like the upcoming EU-U.S. Trade and Technology Council where, again, U.S. officials are pushing their European counterparts to specifically name-check China in the summit’s communiqué — something Brussels is loath to do. Washington is also making its voice heard more loudly in international bodies like the United Nations’ International Telecommunications Union (where a U.S. citizen, Doreen Bogdan-Martin, is now secretary-general) and more industry-led bodies like those deciding on future telecom standards. Again, this is all about pushing back against China.

There’s also some old-school economic diplomacy at play. Even after the EU passed its new antitrust rules, known as the Digital Markets Act, U.S. Department of Commerce officials and those from the White House continue to complain to anyone who will listen in Brussels that the legislation, which will come into force next year, unfairly discriminates against Silicon Valley. Given ongoing domestic concerns about Big Tech’s role in society, many Americans may find it odd that — given all that’s going on right now — U.S. diplomats and officials are so intrinsically associated with the industry and its ongoing battle with foreign governments.

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BY THE NUMBERS

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GLOBAL PRIVACY BATTLE, ROUND TWO


IN CASE YOU WERE IN ANY DOUBT about the ongoing — but often hidden — fight between Brussels and Washington over privacy standards, a three-day summit in London this week laid it out for all to see. The so-called Global Cross-Border Privacy Rules (CBPR) Forum, a U.S.-led project to expand existing data rules associated with the Asia Pacific Economic Cooperation (APEC), a regional trade body, represents the latest American effort to tilt the scales in its favor. The plan is to create (voluntary) standards so that countries can allow local companies to move data freely between like-minded members. It’s a direct response to the existing status quo that gives Brussels, whose privacy rules are the de facto global playbook, almost exclusive rights to determine which governments have the same level of data protection rules to meet the bloc’s exacting standards.

Officials from APEC member countries, as well as those from the United Kingdom, Argentina, Nigeria and Bangladesh, spent three days hashing out specifics with industry players this week in a fancy London hotel. The CBPR regime involves a combination of national regulators and outside auditors determining if companies are sufficiently protecting people’s data when it’s shipped around the world. The talks focused on three areas: how to include new countries in the voluntary data-transfer pact (the U.K. applied to become an associate member); reforms to the underlying CBPR agreement that dates back almost two decades; and internal changes to the regime to make it more global than its current Asian focus.

WONK OF THE WEEK


FOR THIS WEEK, WE’RE BRAVING THE LATE SPRING WEATHER in Brussels to focus on Penelope Papandropoulos, who just became head of the data analysis and technology unit within the European Commission’s Directorate-General for Competition (or DG COMP), the bloc’s antitrust regulator.

This is not Papandropoulos’ first go-around with digital competition. Until very recently, she was a close adviser to Margrethe Vestager, the EU’s digital and antitrust chief, and previously worked for her predecessor, Spain’s Joaquín Almunia. The Greek-born official holds a doctorate in economics from the Université libre de Bruxelles and previously ran the Brussels office of Charles River Associates, an antitrust-focused consultancy.

“After 4 fantastic years advising Executive Vice President Margrethe Vestager, I am going back to DG Comp to head the data analysis and technology unit that will report to the chief technology officer,” she wrote on LinkedIn. “Looking forward to the great challenge of supporting competition enforcement.”

THEY SAID WHAT, NOW?


“We won’t allow these groups to stay in the shadows. We’re shining a light on these threats because we need to work together to strengthen our defenses,” Oliver Dowden, the U.K.’s secretary of state in the country’s Cabinet Office, told an audience in Belfast when warning that Russian-affiliated groups were targeting critical infrastructure like the energy and telecom sectors across the West. “We have never publicly highlighted the threat from these kinds of groups attempting such attacks before and I should stress that we do not think that they currently have the capability to cause widespread damage to our infrastructure.”

WHAT I’M READING


— Google outlined a series of potential commitments related to giving others a greater ability to compete in in-app payments in response to a U.K. regulatory investigation into the tech company’s practices. More from the search giant here.

— The European Commission published draft guidelines on how it would implement the bloc’s new digital competition rulebook, known as the Digital Markets Act. For competition boffins, it’s a must (but very dry) read.

— The Polish national security agencies discovered a widespread digital spying operation conducted by the Russians against foreign ministries and diplomatic entities across NATO member countries, the EU and parts of Africa. Read more here.

— The Digital Trust & Safety Partnership has created a glossary of terms associated with how practices are implemented across the industry as part of a consultation to improve how trust and safety issues are incorporated into companies’ workflows. Take a look here.

— Academics created a “Sims”-style world populated with agents created via generative AI and these online actors displayed believable behaviors, including autonomously creating a Valentine’s Day party among themselves, according to research from the University of Stanford.

— Unauthorized disclosure of classified government documents violates Discord’s terms of service that prohibits the posting of illegal content on the platform, claims Clint Smith, the company’s chief legal officer, in a blog post responding to the recent Pentagon leaks.


politico.eu/newsletter/digital…




Israele rafforza i legami con l’Azerbaigian in vista di una guerra con l’Iran


Il ministro degli esteri Cohen a Baku ha discusso di rapporti di sicurezza ed equilibri regionali L'articolo Israele rafforza i legami con l’Azerbaigian in vista di una guerra con l’Iran proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it/2023/04/20/medi

di Michele Giorgio

(nella foto di archivio il premier israeliano Benyamin Netanyahu con il presidente azero Ilham Aliyev)

Pagine Esteri, 20 aprile 2023 – A Baku per rafforzare i rapporti già stretti con l’Azerbaigian, quindi ad Ashgabat per inaugurare l’ambasciata israeliana in Turkmenistan ad appena 20 chilometri dal confine con l’Iran. È stato, tra martedì e oggi, un inizio settimana intenso per Eli Cohen con il quale il ministro degli esteri israeliano ha provato a compensare in Asia centrale le battute di arresto subite dagli Accordi di Abramo nelle ultime settimane. L’Arabia saudita, candidata nelle speranze del governo di estrema destra guidato da Benyamin Netanyahu, ad aderire alla normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e Stato ebraico, si sta riconciliando con l’Iran nemico di Israele e a inizio settimana ha ricevuto a Riyadh i leader del movimento islamico Hamas. Il trattato di pace con il Sudan, precipitato in violenti scontri tra i militari golpisti, appare più lontano rispetto alle tappe che proprio Cohen aveva fissato a Khartoum appena qualche settimana fa.

Cohen ieri ha dichiarato che è sul tavolo una sua visita a Riyadh anche se la data non è stata fissata. A diversi analisti le sue parole sono apparse un modo per parare i colpi e fare pressioni sulla monarchia Saud.

A Baku invece le cose vanno sempre meglio per Israele e i suoi piani strategici militari ed economici. Della delegazione al seguito di Cohen hanno fatto parte anche una trentina di imprenditori. Una presenza che dichiara l’intenzione israeliana di aumentare oltre alla vendita di armi all’Azerbaigian – si devono anche alle forniture di droni killer i successi militari di Baku a danno degli armeni nella regione contesa del Nagorno-Karabakh – anche gli scambi commerciali che si aggirano al momento intorno ai 200 milioni di dollari all’anno. Gli azeri inoltre coprono il 30% del fabbisogno israeliano di petrolio.

Cohen a Baku ha incontrato il presidente Ilham Aliyev e diversi ministri, due settimane dopo l’inaugurazione dell’ambasciata azera a Tel Aviv, la prima in Israele di un paese a maggioranza sciita. I media israeliani hanno dato parecchio spazio al viaggio del ministro degli esteri a Baku descrivendolo come una risposta alla «crescente influenza dell’Iran nella regione». «Israele e Azerbaigian stanno rafforzando la loro alleanza politica e di sicurezza» si legge in un comunicato diffuso da Cohen, «ho incontrato il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e abbiamo parlato delle sfide strategiche che condividiamo, in primo luogo la sicurezza regionale e la lotta al terrorismo». Quindi il ministro israeliano è andato al punto centrale. L’Azerbaigian, ha detto, «gode di una posizione strategica nel Caucaso meridionale».

Più volte si è parlato dell’Azerbaigian, che mantiene rapporti tesi con Teheran, come di una possibile base per un attacco israeliano alle centrali atomiche iraniane. Baku ha smentito, anche di recente, questa opzione. Tuttavia la distanza e la necessaria violazione dello spazio aereo di alcuni paesi, rendono complesso un raid di cacciabombardieri da Israele fino all’Iran. Problemi che si risolverebbero se gli aerei da combattimento dovessero decollare dall’Azerbaigian. In quel caso Aliyev sa che il suo paese subirebbe la rappresaglia dell’Iran. Al momento, e su questo non ci sono dubbi, Israele mantiene una forte presenza di intelligence a Baku e Tehran ha irrigidito ulteriormente la sua linea nei confronti dell’Azerbaigian. I due paesi hanno avuto colloqui di recente per allentare la tensione ma i rapporti restano difficili.

Cohen ieri è andato in Turkmenistan, direttamente dall’Azerbaigian, diventando il primo rappresentante del governo israeliano a visitare lo Stato dell’Asia centrale in quasi 30 anni. L’ultimo ministro israeliano a recarsi ad Ashgabat era stato Shimon Peres nel 1994, tre anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Pagine Esteri

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Le norme Covid usate per la repressione: studentessa condannata per una protesta | L'Indipendente

"La manifestazione si era svolta nell’ambito di una giornata nazionale di proteste a seguito della morte di Lorenzo Parelli, lo studente deceduto nel corso delle attività di alternanza scuola-lavoro, alla quale avevano aderito centinaia di migliaia di studenti. [...] La decisione di punire una sola persona nell’ambito di una manifestazione altamente partecipata spoliticizza il significato della protesta, riducendone la portata alla semplice responsabilità personale di un individuo o due."

lindipendente.online/2023/04/2…



Spose bambine. In Sud Asia la metà di quelle del mondo intero


Secondo gli ultimi dati rilasciati dall’UNICEF nella regione si contano 290 milioni di spose bambine, il 45% del totale mondiale L'articolo Spose bambine. In Sud Asia la metà di quelle del mondo intero proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it/

La pandemia di Covid-19 e la crisi economica hanno di gran lunga peggiorato la situazione delle giovani donne nei paesi del Sud Asia.

Le ultime stime rilasciate mercoledì dall’UNICEF hanno rivelato che i matrimoni precoci sono aumentati nella regione, arrivando a raggiungere il 45% del totale mondiale.

Un dato impressionante che ci racconta di 290 milioni di bambine costrette a diventare mogli per povertà e per mancanza di alternative. La chiusura delle scuole a causa del Covid-19 ha peggiorato una situazione già tragica, alla quale si è aggiunta la crisi. Non esiste futuro per le ragazze, che vengono dunque percepite solo come un peso economico per le famiglie che hanno difficoltà a sopravvivere.

In questa situazione il matrimonio combinato è spesso visto come unica soluzione possibile al problema. L’UNICEF ha lanciato l’allarme, chiedendo alle istituzioni di intervenire per mettere un freno alla pratica.

“Il fatto che in Asia meridionale si registri il più alto numero al mondo di matrimoni infantili è a dir poco tragico”, ha dichiarato Noala Skinner, direttrice regionale dell’UNICEF per l’Asia meridionale. “Il matrimonio infantile blocca il percorso di apprendimento delle ragazze, mette a rischio la loro salute e il loro benessere e compromette il loro futuro”.

I matrimoni infantili riguardano sia i maschi che le femmine ma queste ultime, in confronto, sono coinvolte in numero largamente maggiore. In Sud Asia quasi la metà (il 45%) delle ragazze tra i 20 e i 24 anni sono state costrette a sposarsi prima dei 18 anni. Una su cinque prima dei 15 anni.

L’UNICEF ritiene indispensabile una discussione sul fenomeno che permetta di mettere in campo reti di protezione sociale per contrastare la povertà. L’istruzione deve essere garantita e accessibile per tutti i bambini e le bambine. Le norme legali e l’educazione sessuale, inoltre, devono garantire il processo di cambiamento nel sud dell’Asia. Pagine Esteri

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Pirates: New EU crypto rules will harm NGOs and whistleblowers


Strasbourg, 20/04/2023 – Today, the European Parliament is expected to approve the results of the trilogue negotiations on new regulations for cryptocurrencies. Pirate Party Members of the European Parliament strongly oppose …

Strasbourg, 20/04/2023 – Today, the European Parliament is expected to approve the results of the trilogue negotiations on new regulations for cryptocurrencies. Pirate Party Members of the European Parliament strongly oppose identification obligations included in the “Information accompanying transfers of funds and certain crypto-assets” legislation, which will effectively abolish anonymous transactions in digital currencies without any threshold. This will negatively impact organisations that depend on anonymous donations, Pirates warn. They will oppose the legislation.

Patrick Breyer, Member of the European Parliament for the German Pirate Party, comments:

These rules will deprive law-abiding citizens of their financial freedom. For example, opposition figures like Alexei Nawalny are increasingly dependent on anonymous donations in virtual currencies. Banks have also cut off donations to Wikileaks in the past. With the creeping abolition of real and virtual cash, there is the threat of negative interest rates and the shutting off of the money supply at any time. We should have a right to be able to pay and donate online without our financial transactions being recorded in a personalised way.

There is no justification for effectively abolishing anonymous virtual payments: Where Virtual Assets have been used for criminal activities in the past, prosecution has been possible on the basis of the current rules. Banning anonymous crypto currency payments altogether will not have any significant effect on crime. The stated aim to tackle money laundering and terrorism is only a pretext to gain control over our private business.”

Mikuláš Peksa, Czech Member of the European Parliament for the Pirate Party, comments:

“While we understand the European need to regulate crypto assets, we believe that the whole discussion is based on the wrong premise of treating crypto assets as finances deposited in a bank account. We do believe that in the modern world there is one crucial aspect that only crypto assets are able to cover in the future: the role of digital cash. Even and especially in a digital world, we need a medium for anonymous transactions to protect our basic freedoms, ensure privacy and enable struggle for freedom around the globe”


patrick-breyer.de/en/pirates-n…

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Chat Control lead negotiator proposes to add “voluntary detection orders” and metadata scanning


The European Parliament’s lead LIBE Committee yesterday circulated the draft report by conservative Rapporteur Javier Zarzalejos on the proposal to fight child sexual abuse material (CSAR), also … https://www.patrick-breyer.de/wp-content/uploads/2023/04/

The European Parliament’s lead LIBE Committee yesterday circulated the draft report by conservative Rapporteur Javier Zarzalejos on the proposal to fight child sexual abuse material (CSAR), also known as “chat control”. While committing to preserve end to end encryption, the Rapporteur proposes to add “voluntary detection orders” and metadata scanning. Pirate Party Member of the European Parliament and long-time opponent of the chat control proposal Patrick Breyer analyses the proposals and their implications.

  • Chat Control: Mandatory indiscriminate searching of private correspondence and data of unsuspected citizens is still in. Requirement to „limit the detection order to an identifiable part or component of a service“ such as specific channels or groups (AM 128) goes in the right direction but does not ensure that searches are targeted/limited to specific persons presumably connected to CSEM, as required to avoid annulment of the detection provisions by the Court of Justice. The findings of the European Parliament Research Service are not yet reflected.
  • Unlike the Commission, Rapporteur doesn’t want users to be informed that their correspondence has been (falsely) reported (AM 138).
  • „Voluntary detection“/Chat Control: Proposed new power for providers to search private correspondence and data of unsuspected citizens of their own initiative, even where conditions of a detection order are not met (AM 99). Again not targeted/limited to specific persons presumably connected to CSEM, as required to avoid annulment by the Court of Justice.
  • End to end encryption: Weakening encryption is excluded (AM 106), although wording is not yet sufficient to exclude mandatory client-side scanning with certainty (some argue client-side scanning wouldn’t interfere with the encryption process as such).
  • Metadata control: Proposal of new power for automated metadata retention and analysis for allegedly suspicious communications patterns by providers (AM 106). Such technology is again closed-source and not independently evaluated, likely unreliable with countless false positives. The Commission warns that „Service providers do not consider metadata as an effective tool in detecting CSAM“ and „metadata is usually insufficient to initiate investigations“ (p. 29). Most of all proposed provision again does not ensure that processing is targeted/limited to specific persons presumably connected to CSEM, as required by the Court of Justice’s La Quadrature judgement (par. 172 pp.).
  • Access blocking / search engine delisting orders: Ineffective access blocking to CSEM is still in. Proposal of new power to delist CSEM from search engines and “artificial intelligence”. Both are ineffective because the material is not deleted at its source.
  • App censorship for children: Requiring app stores to block minors from installing communications apps such as Whatsapp, games or chats is still in. Draft report proposes to extend this app censorship (AM 101 pp.).
  • Anonymous communications ban: Requirement on communications services to verify user age is still in, with verification systems effectively excluding anonymous use. This would be the end of anonymous e-mail or messenger accounts that whistleblowers, political activists etc. need.
  • Promising: Proposal to establish a Victims’ Consultative Forum (AM 273)
  • Promising: Services may ensure a “high level of privacy, safety, and security by design and by default” (AM 79)


More on Chat Control: www.chatcontrol.eu


patrick-breyer.de/en/chat-cont…

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"Questo sarà il primo di tanti altri”: dieci anni dallo sciopero dei portuali di Hong Kong


portuali
Solidarietà e resistenza: sono passati dieci anni dallo sciopero che nel 2013 ha visto il coinvolgimento di circa 500 lavoratori portuali del Kwai Chung Containers Terminals di Hong Kong. Un momento rilevante per il movimento sindacale non solo della città, ma del movimento operaio internazionale: i manifestanti hanno resistito 40 giorni, supportati da attivisti e cittadini. Gig-ology è una rubrica sul mondo del lavoro asiatico.

L'articolo “Questo sarà il primo di tanti altri”: dieci anni dallo sciopero dei portuali di Hong Kong proviene da China Files.



In Cina e Asia – Proteste dei fogli bianchi: liberate tre manifestanti


In Cina e Asia – Proteste dei fogli bianchi: liberate tre manifestanti proteste
I titoli di oggi:

Proteste dei fogli bianchi: liberate tre manifestanti
L'Ue chiede rilascio di due attivisti
La Cina ha sviluppato droni supersonici per la sorveglianza
La Russia preoccupata dall'eccesiva dipendenza tecnologica dalla Cina
Onu: l'India sta per superare la Cina come paese più popoloso al mondo
Yoon Suk-yeol: "Taiwan questione globale". E apre agli aiuti militari all'Ucraina

L'articolo In Cina e Asia – Proteste dei fogli bianchi: liberate tre manifestanti proviene da China Files.



Proseguono gli incontri con L'Ora di Costituzione! Il tema della terza lezione è sui Rapporti etico-sociali (dall’art.29 all’art. 47).

Seguite qui la diretta streaming dalle ore 10.30 ▶️ youtube.



LIBRI. “Poesia araba moderna e contemporanea”: un nuovo studio italiano di Simone Sibilio


Nel suo ultimo volume, Sibilio introduce un dato fondamentale: “La poesia araba in epoca moderna non è solo espressione artistica. E' pratica discorsiva dal profondo impatto sociale e politico. L'articolo LIBRI. “Poesia araba moderna e contemporanea”: un

di Patrizia Zanelli*

(nella foto i poeti Samih Qasim, Fadwa Tuqan e Mahmoud Darwish)

Pagine Esteri, 20 aprile 2023 – Raccontare la modernità importata dall’Occidente è il fulcro della componente letteraria di un vasto movimento di modernizzazione culturale, definito di solito Nahḍa, “Rinascita” o “Rinascimento”, che emerge nel mondo arabo – a partire dall’area siro-libanese e dall’Egitto – nella seconda metà dell’Ottocento e continua a svilupparsi nel Novecento sostanzialmente fino agli anni ’40, ma come progetto volto alla liberazione dalle tradizioni oscurantiste locali e dalla dipendenza da forze esterne non si esaurisce del tutto, tant’è che rimane un punto di riferimento per le voci progressiste e libertarie arabe dell’attuale era digitale globale.

6665225Ne parla Simone Sibilio in Poesia araba moderna e contemporanea (Ipocan, 2022), mettendo a frutto oltre vent’anni di studi appassionati nella materia indicata nel titolo stesso del libro, il primo del genere pubblicato in Italia. È una novità editoriale interessante sotto più aspetti: è al momento l’unica monografia italiana che tratti in maniera così approfondita un argomento di per sé articolato; ha a che fare con una ricca produzione poetica e le dinamiche culturali della contemporaneità di una regione del mondo variegata, culla e crocevia di civiltà. L’importanza di questa storia millenaria emerge dall’inizio alla fine del libro, che non è un’opera meramente compilativa; è innovativa, analitica e risponde alle esigenze odierne della transculturalità.

Professore di lingua e letteratura araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia, traduttore e poeta, Sibilio introduce subito un dato fondamentale: “La poesia araba, marca identitaria tradizionalmente percepita come ‘archivio’ storico di un popolo (dīwān al-‘arab), si conferma in epoca moderna non solo come espressione artistica portatrice di nuovi valori e modi espressivi, ma come pratica discorsiva dal profondo impatto sociale e politico”. Nel

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Simone Sibilio

volume, l’accademico analizza e scoglie la complessità di fenomeni culturali derivati dall’incontro/scontro con l’Occidente, anzitutto con l’Europa colonialista, avvenuto sin dagli inizi dell’Ottocento nel mondo arabo, fungendo parallelamente da acceleratore delle spinte innovatrici locali preesistenti e da generatore di una continua tensione tra la tradizione autoctona e una modernità importata, sulla scia delle guerre di conquista compiute dalla Francia e dall’Inghilterra. È all’interno di quest’interazione articolata con la cultura occidentale che si delinea la Nahḍa. In quel contesto, ricorda Sibilio, compaiono due tendenze contrapposte e parallele: la rivivificazione del patrimonio letterario arabo oppure l’assimilazione di modelli europei, che però in diversi casi vengono arabizzati, sicché nascono testi culturalmente ibridi e, perciò, originali.

Il volume è suddiviso in due sezioni distinte. Nella prima, Sibilio evidenzia la centralità del ‘discorso sulla modernità’ nella poesia araba del Novecento, presentando e chiarendo i termini dei dibattiti avvenuti al riguardo nel corso dell’intero secolo. Cosa non facile, lo studioso cerca di tracciare una linea di demarcazione tra ‘moderno’ e ‘contemporaneo’, nonché tra Modernismo e Postmodernismo. A cavallo tra il XIX e il XX secolo appaiono le prime manifestazioni pratiche e teoriche dell’esigenza di “rivoluzionare la visione della poesia e il linguaggio poetico, ma non gli schemi compositivi ancorati saldamente alla tradizione”. Sibilio descrive a grandi linee lo sviluppo dei maggiori movimenti affermatisi nella prima metà del Novecento: Neoclassicismo, Romanticismo e Simbolismo. I poemi neoclassici, spiega lo studioso, trasmettono patriottismo, esaltano l’arabicità ed evocano un passato glorioso, “come agente correttivo del presente, in funzione della lotta anticolonialista”, ma, per quanto abbiano aspetti innovativi e siano evocativi di immagini suggestive – per esempio, dell’Egitto, con la valle del Nilo e le maestose antichità faraoniche, e dell’Iraq, con il Tigri e la splendida Bagdad abbaside dell’epoca d’oro -, risultano inadatti a esprimere la nuova sensibilità intellettuale di un periodo di profonde trasformazioni.

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Ahmad Shawqi

Un contributo importante per l’innovazione della poesia, ricorda Sibilio, viene dalla letteratura di emigrazione (Adab al-Mahǧar), inaugurata da autori emigrati negli Stati Uniti, come i libanesi Amin al-Rihani (1876-1940) – pioniere ispirato da voci anglofone, e specialmente da Walt Whitman (1819-1892) -, il celebre Gibran Khalil Gibran (1883-1931), la cui opera rinvia a William Blake (1757-1827), a Friedrich Nietzsche (1844-1900), al Sufismo e alla spiritualità orientale, e Mikhail Nu‘ayma (1889-1988), irrequieto poeta intimista noto in Occidente con lo pseudonimo Naimy, che influenzeranno le correnti romantiche egiziane e levantine orientate al ribaltamento dei canoni estetici basati sull’imitazione dei modelli classici. Culla di questo movimento sarà l’Egitto, dove viene recepita soprattutto l’influenza del Romanticismo inglese. Al Cairo, allora capitale della Nahḍa, nasce il Gruppo Apollo, che introduce novità interessanti e riesce a influenzare perfino i principali esponenti del Neoclassicismo egiziano, come gli iconici Ahmad Shawqi (1869-1932) e Hafiz Ibrahim (1971-1932). Sempre negli anni ’30, nota Sibilio, cominciano ad affiorare in Libano e in Siria nuove tendenze tematiche e di ricerca estetica. Nascono due correnti minori di matrice francese: il Simbolismo e il Surrealismo, che talvolta si intreccia con il Sufismo e si svilupperà maggiormente più tardi. In questo periodo, si hanno comunque già casi di commistione di elementi romantici, simbolisti e surrealisti in un’unica opera.

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Nazik Malaika

Sibilio si sofferma poi sulla transizione dalla poesia moderna a quella contemporanea. La voce più pionieristica di questa fase è la poetessa irachena Nazik al-Mala’ika (1923-2007), che adotta il verso libero nel poema “Il colera” (1947) – ispirato alla diffusione dell’epidemia in Egitto quell’anno -, nonché in nove componimenti della raccolta “Schegge e cenere” (1949). Convinta della necessità di abbandonare vecchi modelli, per esprimere un nuovo impulso lirico, contribuisce anche come teorica e docente universitaria a diffondere questa novità, già adottata da due dei suoi connazionali: Badr Shakir al-Sayyab (1926-1964), in “Era amore?” (1946), e Buland al-Haydari (1926-1996), in “Battito dell’argilla”, uscito sempre nel ‘46. Sibilio nota che, tuttavia, alcuni critici considerano “Plutoland e altre poesie” (1947) dell’egiziano Louis Awad (1915-1990), come il primo vero esperimento di verso libero, nonché di liberazione da schemi tradizionali e di ricorso audace al dialetto. Il passo successivo di questa fase di transizione è quello della rivoluzione teorico-pratica promossa dal movimento modernista, emerso negli anni ’50 principalmente a Bagdad e a Beirut, che porterà all’ingresso sulla scena letteraria araba della poesia in prosa.

È di fatto all’inizio dell’era post-coloniale che si ha il passaggio alla poetica della contemporaneità. Come spiega Sibilio, gli anni ’50 costituiscono un momento pieno di novità per la poesia. In quel decennio, il mondo arabo è pervaso da un senso di incertezza e delusione, scaturito dalle ripercussioni della II Guerra Mondiale, dal susseguirsi di cambi di governo, senza soluzione di continuità dell’instabilità politica, in paesi appena divenuti indipendenti, “e soprattutto dall’impatto devastante della catastrofe (Nakba) abbattutasi sul popolo palestinese, in seguito alla fondazione di Israele (1948)”, e il conseguente scompiglio degli assetti geopolitici della regione. Quest’ultimo evento catastrofico, sottolinea Sibilio, sarà in effetti un “catalizzatore del cambiamento”, il principale fattore scatenante di una nuova visione della scrittura creativa che dovrà esprimere passo per passo le istanze del tempo e fungere da mezzo efficace di trasformazione socio-politica. In generale viene inoltre indagato e messo in discussione il rapporto tra l’intellettuale e il potere. Per quanto riguarda la poesia, insieme al Modernismo, espresso da Ezra Pound (1885-1972) e da T.S. Eliot (1888-1965), si diffonderanno la letteratura impegnata di matrice sartriana, l’Esistenzialismo, il Realismo sociale o socialista, il misticismo e infine i tratti della poetica postmoderna.

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Adonis

Sempre negli anni ‘50, ricorda Sibilio, emerge una delle figure più straordinarie del panorama culturale arabo e destinata a raggiungere la fama internazionale: il poeta modernista siriano Ali Ahmad Said Isbir (n. 1930), noto con lo pseudonimo Adonis, importante tanto per la sua opera quanto per il suo apporto teorico nei dibattiti sul concetto di modernità. La considera come “una costante, un processo in moto che resiste alla staticità, alla fissità dell’ordine temporale”. Sia Adonis che il poeta modernista marocchino Muhammad Bennis (n. 1948) rivedono il concetto di modernità “nella sua valenza storica e lo attribuiscono a diverse esperienze e pratiche testuali di varie epoche”. La cultura araba classica aveva sin dagli albori già visto tentativi di innovazione estetica, rintracciabili nei poemi di poeti considerati moderni, in epoca omayyade, e innovatori, in epoca abbaside. È quest’ultima, secondo Adonis, “da recuperare per la riscoperta di sé”.

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Mahmoud Darwish

Altro poeta modernista di fama mondiale a emergere a fine anni ‘50 è Mahmud Darwish (1941-2008), autentico simbolo della Palestina, ambasciatore internazionale delle rivendicazioni politiche del suo popolo, ma soprattutto un grande artista esploratore dell’universo umano. Sibilio evidenzia infatti i limiti e l’obsolescenza di alcune definizioni tuttora impiegate per indicare specifici movimenti o tendenze, collegabili ad auto-attribuzioni o a traiettorie ed esperienze, che talvolta esulano dall’ambito meramente letterario, come, per esempio: ‘poesia della resistenza’, riferita proprio alla vicenda palestinese; il cosiddetto indirizzo ‘mistico-cosmico’ diffuso in Tunisia negli anni ’80; il concetto di ‘avanguardia’, usato in contesti diversi da parte di gruppi che rifiutano canoni e modelli espressivi tradizionali. Importante è dunque considerare la biografia di ogni poeta e il legame che ha con la sua terra d’origine. Di respiro universale, afferma Sibilio, sono le poesie di al-Sayyab, di Adonis, nonché dell’altro celebre siriano Nizar Qabbani (1923-1998), e di Mahmud Darwish, che nei loro versi celebrano rispettivamente l’Iraq, la Siria e la Palestina. Ma ciò vale anche per la palestinese Fadwa Tuqan (1917-2003), per l’egiziano Amal Dunqul (1940-1983) e per lo yemenita Abdel Aziz al-Maqalih (1937-2022), tra i molti altri nomi che si potrebbero citare.

Nella seconda sezione del volume, suddivisa in otto capitoli, in cui le spiegazioni su questioni tematiche e formali sono spesso esemplificate da brani delle opere – in traduzione italiana – che vengono man mano descritte, Sibilio si concentra sulle voci più influenti della contemporaneità e sulle loro poetiche. Lo studioso percorre di fatto un itinerario che attraversa la componente asiatica e quella nordafricana e subsahariana del varieggiato mondo arabo. Presenta ben diciannove realtà geopolitiche diverse, seppure interconnesse, e centinaia di voci, ognuna con uno stile personale.

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Fadwa Tuqan

Particolarmente interessante per capire lo sviluppo delle tendenze del secondo Novecento è il quinto capitolo del volume, dedicato al principale campo di ricerca di Sibilio, da lui stesso definito “l’emblematico caso palestinese”. Lo studioso accenna alle esperienze avvenute in Palestina durante il periodo mandatario, “quando alcuni intellettuali, consci delle minacce rappresentate dall’ambigua politica britannica e dai propositi del movimento sionista, utilizzano la poesia […] come forma di protesta per accrescere la consapevolezza popolare sulle oscure manovre in atto, presagendo l’imminente tragedia che avrebbe colpito il proprio popolo”. Il poeta più celebre in tale senso e pioniere della Nahḍa palestinese è Ibrahim Tuqan (1905-1941), autore di versi patriotici, privi però dei toni celebrativi e dei motivi eroici dello stile neoclassico, e che si distingue anche per l’uso allora inedito di una sferzante ironia con cui punzecchia sia Londra sia i dirigenti nazionalisti arabi accusati d’inerzia. Altro esponente di spicco di questa fase è Abd al-Karim al-Karmi (1909-1980), noto come Abu Salma, che nel 1936 pubblica “La fiamma della poesia”, poema dedicato alla Grande Rivolta che durerà fino al 1939.

Sibilio poi analizza la poesia della Nakba o post-1948, incentrata sulle “condizioni psicologiche e materiali di un popolo espulso dalla propria terra e ignorato dalla comunità internazionale”. È un corpus poetico piuttosto variegato di valenza testimoniale; denuncia le difficoltà dei profughi; esprime dolore, nostalgia e collera, ma anche speranza di ritorno e di riscatto. Sibilio presenta due figure importanti emerse negli anni ’50: la già citata Fadwa Tuqan – allieva del fratello Ibrahim –, la quale si allontana dall’intimismo degli esordi romantici e neoclassici, legato all’angosciante vita racchiusa tra le mura domestiche, per rivolgere l’attenzione alla nuova catastrofica realtà collettiva. Adotta allora il verso libero e sfrutta le potenzialità del Simbolismo e del Realismo sociale, per comporre opere cariche di forza espressiva e di intensità emotiva, incentrate sul dramma del suo popolo. Dopo la guerra lanciata da Israele nel ’67, per conquistare il resto della Palestina, la poetessa rimane nella sua citta, Nablus, sotto occupazione militare israeliana, e usa un registro spiccatamente politico nelle sue poesie, diventando la voce più autorevole della causa palestinese.

Tornando agli anni ’50, Sibilio ricorda che in quel decennio Giabra Ibrahim Giabra (1929-1994) – letterato, traduttore e pittore in esilio a Bagdad dal ’48 – traduce in parte The Golden Bough (Il ramo d’oro, 1890) di James George Frazer (1854-1941), da cui lui stesso sarà molto influenzato. Conia il termine tammuzi (riferimento al dio mesopotamico della vegetazione Tammuz) per definire la corrente poetica che ricorre spesso “all’impiego degli archetipi di rinascita e fertilità”, di cui sarà uno dei maggiori esponenti. Nella raccolta “Tammuz in città” (1959), considerata pionieristica del Modernismo arabo, celebra la verdeggiante Palestina, scolpita nella memoria degli esuli, indaga la loro condizione esistenziale, mentre in certi componimenti propone le sue riflessioni personali sulla solitudine dell’individuo nella società contemporanea.

Basandosi, tra le altre cose, su un saggio critico del famoso scrittore Ghassan Kanafani (1946-1972), Sibilio esamina la poesia della resistenza palestinese. Come spiega lo studioso, è un “tipo di espressione che sul piano nazionale è figlia della lotta del suo popolo”; a livello internazionale rientra nel più ampio filone della poesia civica e d’impegno politico del Novecento e si collega alle esperienze anticolonialiste, anti-imperialiste e terzomondiste dall’Africa a Cuba, dal Vietnam al Sudamerica. In Palestina i pionieri di questa categoria letteraria sono Samiḥ al-Qasim (1939-2014) e appunto Mahmud Darwish, ma Sibilio sottolinea che l’opera del grande poeta di fama mondiale “ha ben presto trasceso i confini della causa nazionale per cogliere la quintessenza dell’umano universale come ogni capolavoro artistico destinato all’eternità”. Del resto, spiega lo studioso, entrambi gli autori, come gli altri del movimento, adottano man mano repertori e stili diversi. A differenza di quanto si tende a pensare, la lotta lanciata dai fedayin negli anni ’60 non è al centro della scena nella poesia della resistenza palestinese. “Vista nella sua complessità”, chiarisce Sibilio, “la relazione con la terra perduta/occupata viene esplorata attraverso una molteplicità di dimensioni simboliche che celano il motivo identitario: si guarda all’ambiente naturale florido, celebrando i prodotti offerti dalla terra; si attinge al repertorio mitologico, ma anche a quello folcloristico-popolare; si riesplora la simbologia religiosa, biblica o coranica, laddove l’identificazione con il martirio di Cristo acquisisce un valore elevato e ampiamente condiviso, preludio della resurrezione; si ricorre alla dimensione storica per riaffermare l’appartenenza al territorio, per resistere alla minaccia di cancellazione insita nel discorso sionista e nella prassi politica israeliana”.

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Ibrahim Nasrallah

La produzione poetica emersa negli anni ’70 e ‘80 è rappresentata specialmente da Murid al-Barghuthi (1944-2022), Zakariya Muhammad (n. 1950), Ibrahim Nasrallah (n. 1954) e Ghassan Zaqtān (n. 1954), tutti testimoni del declino delle ideologie unificanti, come il Panarabismo, e poi delusi dal processo di pace di Oslo con i suoi strascichi odierni. Vivendo nella diaspora o nella Cisgiordania occupata, dotati di versatilità artistica, spiega Sibilio, passano a nuovi modi espressivi nella ricerca di singolarità; abbinano strutture tradizionali e sperimentalismo, dissolvono la barriera tra verso libero e poesia in prosa, tra cultura scritta e visuale, tra generi letterari e tipi di scrittura; prediligono la dimensione individuale alle ‘grandi’ narrazioni. Lo studioso presenta anche uno dei maggiori poeti della nuova generazione, Najwan Darwish (n.1978), che unisce tradizione e modernità, la nostalgia del passato e il senso dell’urgenza del presente; ricorre all’ironia o addirittura al vituperio politico, con uno stile ora contemplativo ora quasi giornalistico, per denunciare i paradossi della realtà palestinese.

Come già detto, il nuovo libro di Sibilio è uno studio approfondito della produzione poetica moderna e contemporanea del varieggiato mondo arabo; evidenzia che la poesia è l’arte per eccellenza, un elemento identitario al pari dell’arabofonia per le società di una regione particolarmente complessa per ragioni storico-culturali e, quindi, ricca di storie. Il volume è senz’altro uno strumento scientifico importante per chi si occupa di questo argomento, nonché una lettura affascinante per persone non esperte animate dalla curiosità di conoscerlo. Pagine Esteri

*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui il romanzo Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).

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PRIVACY DAILY 97/2023


Il governo egiziano e una società privata britannica, la Academic Assessment Ltd., hanno esposto per mesi online una grande quantità di informazioni personali su decine di migliaia di minori. Così secondo quanto dichiarato da Human Rights Watch. I dati pubblicati comprendevano oltre 72.000 registrazioni di nomi, date di nascita, sesso, indirizzi di casa, indirizzi e-mail,... Continue reading →


Yemen. Decine di morti calpestati in una calca


Erano in attesa di ricevere una donazione per la fine del Ramadan L'articolo Yemen. Decine di morti calpestati in una calca proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it/2023/04/20/medioriente/yemen-decine-di-morti-calpestati-in-una-calca/ https://

Della redazione

Pagine Esteri, 20 aprile 2023 – Almeno 78 yemeniti sono rimasti uccisi in una fuga precipitosa di massa nella capitale Sanaa quando centinaia di persone si sono radunate in una scuola per ricevere donazioni previste per gli ultimi giorni del mese sacro del Ramadan.
Diverse persone sono rimaste ferite, tra cui 13 sono in condizioni critiche.
La donazione era di 5000 riyal yemeniti, circa 8 euro, una somma significativa in un paese dilaniato dalla guerra e in cui povertà e malattie sono la condizione per la maggior parte della popolazione.
Il processo di riconciliazione in corso tra Arabia saudita e Iran fa sperare in una soluzione negoziata anche in Yemen dove le fazioni avverse sostenute dai due potenti paesi si combattono senza sosta dal 2015. Tuttavia i segnali iniziali di una composizione pacifica del conflitto tra i ribelli sciiti Houthi appoggiati da Teheran e il governo sostenuto militarmente dalla Coalizione araba a guida saudita, non sono ancora sfociati in risultati concreti. Pagine Esteri

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Segnaliamo il video dell'iniziativa 25 APRILE: VERSO LA LIBERAZIONE. dalla XII Disposizione al fascismo del 21° secolo, con interventi di Gianfranco Pagliaru


Rifondazione Comunista esprime grande soddisfazione per la declaratoria di incostituzionalità della norma che per quantificare una pena rendeva inapplicabile q