“Si può fare” – Radio 24
Domenica 11 a partire dalle 9.00 sarò ospite di Laura Bettini nella trasmissione radiofonica “Si può fare” di Radio24 Sole 24 Ore per parlare di oncologia, diritto alla privacy e all’oblioQui potete ascoltare la puntata in direttahttps://www.radio24.ilsole24ore.com/programmi
Usa-Iran, accordo sul nucleare più vicino?
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di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 9 giugno 2023 – Era stato descritto come un viaggio di «basso profilo», quello che ai primi di maggio ha fatto in Oman Brett McGurk, consigliere senior per il Medio Oriente del presidente Joe Biden. E invece i colloqui avuti da McGurk a Muscat, volti a ristabilire i contatti con Teheran dopo mesi di forte tensione tra i due paesi – acuita dal sostegno militare dell’Iran alla Russia nella guerra in Ucraina – hanno contribuito a far avanzare rapidamente, oltre ogni aspettativa, il negoziato per il rilancio del Jcpoa, l’accordo internazionale del 2015 sul programma nucleare iraniano. Lo si è capito grazie ad un altro viaggio, quello effettuato nei giorni scorsi dal ministro israeliano per gli Affari strategici, Ron Dermer, e il consigliere per la sicurezza del premier Netanyahu, Tzachi Hanegbi, che si sono precipitati negli Stati uniti a ribadire che Israele non vuole il rilancio del Jcpoa, e invoca nuove misure punitive «per contrastare le minacce provenienti dall’Iran e dai suoi alleati».
L’Amministrazione Biden – che nelle ultime ore ha negato che ci siano progressi – l’accordo sul nucleare con Teheran lo vuole perché spera che aiuti a creare le condizioni per contenere lo sviluppo della collaborazione militare, e non solo, tra il Cremlino e l’Iran e la penetrazione russa in Medio oriente. E perché, a differenza di Israele, teme gli effetti destabilizzanti che una guerra con l’Iran avrebbe sulle petromonarchie del Golfo e gli altri alleati di Washington nella regione. Il quotidiano Haaretz confermava nei giorni scorsi che i contatti indiretti tra Stati uniti e Iran fanno importanti passi avanti.. Funzionari della difesa israeliana affermano che le due parti potrebbero raggiungere un accordo parziale entro poche settimane. Saranno fatte concessioni all’Iran in cambio di uno stop al processo di arricchimento dell’uranio. Teheran appare pronta a raggiungere il compromesso ma si attende una riduzione concreta delle sanzioni economiche. Haaretz aggiunge che in una prima fase verrebbero scongelati 20 miliardi di dollari iraniani bloccati in Corea del Sud, Iraq e presso il Fondo monetario internazionale.
Nell’ultimo anno lo sblocco dei fondi è stato indicato più volte dalla stampa iraniana come un possibile passo in avanti nel contesto di un accordo con gli Stati uniti sulla questione nucleare e per uno scambio di prigionieri. Per Israele – che è l’unica potenza nucleare nella regione, non dichiarata – un accordo provvisorio e limitato non sarebbe sufficiente a garantire la supervisione internazionale delle attività dell’Iran. Da qui il nervosismo israeliano. Tel Aviv si è anche scagliata contro la chiusura di un’indagine dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) relativa alle tracce di uranio arricchito trovate nel sito di Marivan, 525 chilometri a sud-est di Teheran. Nel 2019 Netanyahu sostenne il collegamento di Marivan al presunto programma nucleare militare dell’Iran e accusò la Repubblica islamica di aver condotto lì test atomici. L’Iran non ha commentato le proteste israeliane contro l’Aiea. Ha però annunciato di aver accettato di reinstallare un certo numero di telecamere nell’impianto nucleare a Isfahan rimosse un anno fa dopo che l’agenzia atomica aveva approvato una risoluzione molto critica l’Iran.
L’interrogativo resta lo stesso: Teheran intende davvero dotarsi della bomba atomica come denuncia Israele? I segnali sono stati ambigui dopo il 2018 quando Trump, uscendo dal Jcpoa, diede il via a una crisi pericolosa che, almeno in un paio di occasioni, ha rischiato di sfociare in una guerra. Di sicuro la mancata fine del regime di sanzioni economiche internazionali, otto anni dopo la firma del Jcpoa, ha dato più forza all’ala dura dell’establishment politico-militare iraniano che spinge per passare il Rubicone e mettere di fronte al fatto compiuto Israele e Usa. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato l’8 giugno dal quotidiano Il Manifesto
https://ilmanifesto.it/usa-iran-accordo-sul-nucleare-piu-vicino
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STORIA. Il Femminismo panarabo e l’identità palestinese (prima parte)
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(Foto: Gerusalemme, alcune delle oltre 200 delegate palestinesi del primo Congresso delle Donne Arabe (1929) che organizzano una spettacolare manifestazione a bordo di una serie di automobili per farsi portare in giro per la città a consegnare le loro risoluzioni sulla causa nazionale a vari consolati stranieri, ovvero per chiedere l’indipendenza della Palestina).
di Patrizia Zanelli*
Pagine Esteri, 9 giugno 2023. In The Nation and Its “New” Women [1], Ellen Fleischmann nota che i discorsi femministi, legati al triplice concetto di “modernità, nazione e autodeterminazione nazionale”, formulati in Egitto nella seconda metà dell’Ottocento, nell’ambito del movimento arabo di modernizzazione culturale [2], di solito definito Nahḍa (Rinascita), giunsero presto in Palestina, dove si intrecciarono con gli importanti cambiamenti sociali che stavano già avvenendo allora nel paese. A cavallo tra il XIX e il XX secolo, infatti, si manifestò nella società palestinese una tendenza a liberarsi dalle tradizioni oscurantiste, dovuta all’influenza delle idee di riformatori musulmani modernisti egiziani, come Rifa‘a al-Tahtawi (1801-1873), Muhammad Abduh (1849-1905) e il controverso Qasim Amin (1863-1908), autore di “La liberazione della donna” (1898) e di “La nuova donna” (1900), giudicato o come un rivoluzionario, o come un paternalista emulatore degli stereotipi sulle società islamiche, inventati dal colonizzatore europeo.
Fleischmann confuta questi preconcetti occidentali, ispirandosi alla critica dell’orientalismo formulata da Edward Said (1935-2003) nel famoso saggio del 1978, divenuto un testo fondamentale per gli studi culturali postcoloniali [3]. L’accademica esamina l’evoluzione del movimento femminile palestinese nella Palestina mandataria (1920-1948), spiegando l’inestricabile legame tra femminismo e nazionalismo emerso nel paese, dapprima sotto dominazione ottomana, invaso dall’Inghilterra durante la I Guerra Mondiale a partire da Gaza e poi interamente occupato dalle truppe inglesi con la presa di Gerusalemme l’11 dicembre 1917, e dove le rivendicazioni femministe apparentemente rimasero in secondo piano rispetto alla causa nazionale.
Consapevoli che il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione era una necessità urgente per la loro nazione, le donne palestinesi dell’alta borghesia e del ceto medio dei centri urbani vollero subito affermare il proprio patriottismo, e comunicarlo tramite la stampa, lottando contemporaneamente contro il patriarcato, il mandato britannico e la crescente colonizzazione sionista, iniziata nel 1882 e favorita esplicitamente da Londra nella Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917). Dicendo e dimostrando con i fatti di essere patriote, riuscirono a partecipare alla vita politica da cui inizialmente gli uomini delle loro famiglie le volevano escludere. Alcune palestinesi avevano in realtà denunciato pubblicamente l’ingiustizia e la pericolosità della Dichiarazione Balfour, appena era stata rilasciata, avendo capito che l’ambiguità terminologica del testo inglese era chiaramente volta a occultare/negare l’esistenza del loro popolo, fungendo da supporto alle narrazioni mistificanti inventate dai padri del sionismo per avanzare l’idea di trasformare la Palestina in uno stato esclusivamente ebraico. Le contadine del villaggio di Affula, vicino a Nazareth, stavano addirittura partecipando insieme agli uomini alla resistenza contro la colonizzazione sionista della loro terra sin dal 1884.
Periferia di Gerusalemme, 1860 ca.
I nazionalisti modernisti palestinesi chiedevano alle donne di essere moderne e realizzare una Nahḍa femminile per il bene collettivo della nazione, ma di rimandare le rivendicazioni femministe riguardanti la sfera personale a dopo l’ottenimento dell’indipendenza della Palestina, onde evitare problemi con i conservatori loro connazionali in un momento così cruciale per il futuro della loro patria. Questa richiesta era ispirata alle controverse teorie di Qasim Amin, secondo il quale “la nuova donna” egiziana serviva a dimostrare alla comunità internazionale che la sua era una nazione progredita a cui andava perciò riconosciuto il diritto all’autodeterminazione. In seguito all’insurrezione antibritannica del 1919, inoltre, i nazionalisti modernisti egiziani del Partito Wafd stavano ugualmente chiedendo alle attiviste del Comitato delle Donne Wafdiste, formato nel 1920 e presieduto da Hoda Shaarawi (1879-1947), di rimandare le rivendicazioni femministe riguardanti la sfera personale, come l’abbandono del velo, a dopo l’indipendenza dell’Egitto (poi formalmente ottenuta in base a una dichiarazione unilaterale rilasciata da Londra nel 1922).
Le élite politiche e intellettuali palestinesi stavano dispiegando tutti gli sforzi possibili per liberare subito la propria patria dal giogo britannico, sapendo che l’Inghilterra aveva stretto un’alleanza con il sionismo internazionale, movimento nazionalista secolare fondato nell’Europa centrale, il cui scopo non era di costituire “un focolare domestico nazionale per il popolo ebraico” (cit. Balfour), in Palestina, bensì di trasformarla interamente appunto in uno Stato-nazione ebraico, tramite una sostituzione etnica volta a cancellare l’esistenza del loro stesso popolo palestinese dalla propria terra e dalla memoria storica dell’umanità.
Durante una visita effettuata in Palestina nel 1917, il magnate e arabista americano Charles Crane (1858-1939) aveva personalmente constatato la situazione pericolosa provocata nel paese dal lancio del progetto sionista nel 1897. Descrisse quella realtà allarmante a più persone, tra cui l’amico palestinese George Antonius (1891-1942), autore del saggio The Arab Awakening, del 1919 [4], e poi nel 1925 proprio a Hoda Shaarawi, divenuta presidente dell’Unione Femminista Egiziana (UFE) e famosa a livello panarabo e internazionale per essersi liberata del velo, nel 1923. Crane la incontrò a New York, e ci tenne ad avvisarla della pericolosità del progetto sionista che lei non aveva ancora colto; le spiegò che i palestinesi rischiavano concretamente di essere espulsi dalla loro stessa terra. Le parlò anche della relazione che lui e il teologo e filosofo americano Henry Churchill King (1858-1934) avevano scritto, mettendo in dubbio l’opportunità di istituire uno stato ebraico in Palestina, anzi raccomandando vivamente alla Lega delle Nazioni di respingere tale ipotesi pericolosa per gli assetti geopolitici del Levante. Shaarawi rimase turbata da quel piano inquietante e dai rischi che avrebbe comportato per il popolo palestinese, ma non riusciva a capacitarsene. Sapeva che la coesistenza con gli ebrei era sempre stata pacifica nel mondo arabo-islamico; quell’ipotesi era inconcepibile per lei. Pensò che la Palestina fosse soltanto uno dei tanti paesi dell’emisfero orientale colonizzati dalle potenze occidentali e che si sarebbero presto liberati. Tornata al Cairo, infatti, continuò a concentrarsi sui problemi dell’Egitto, sotto occupazione britannica, a partecipare al movimento pacifista internazionale e a contrastare il colonialismo in generale. Soltanto dopo qualche anno Shaarawi si renderà conto della tragica realtà palestinese e sarà un trauma per lei [5].
Corteo nuziale per portare la sposa: villaggio palestinese, 1900 ca.
Intanto, i dirigenti palestinesi di certo sapevano che, nel 1922, la Lega delle Nazioni aveva negato loro il diritto all’autodeterminazione nazionale e assegnato all’Inghilterra i mandati su Palestina, Transgiordania e Iraq, e alla Francia quelli su Libano e Siria, formalmente in base alle raccomandazioni contenute proprio nella relazione redatta dalla commissione King-Crane (1919) per il governo degli Stati Uniti, ma di fatto applicando l’accordo Sykes-Picot (1915-1916), siglato segretamente dalle stesse due potenze coloniali europee per spartirsi i territori dell’Impero Ottomano alla fine della I Guerra Mondiale. Oppositori del piano franco-britannico erano il Presidente americano Thomas Woodrow Wilson (1856-1924) e Re Faysal I (1885-1933) dell’allora Regno Arabo della Grande Siria.
È, però, chiaro che la consapevolezza anticolonialista accomunava e univa tutte le classi sociali della società palestinese ben prima della Dichiarazione Balfour, una conferma e ingiustizia aggravante della situazione realmente critica in Palestina. Le donne sapevano tanto quanto gli uomini che la lotta per la liberazione nazionale era d’importanza vitale nel vero senso del termine, perché serviva alla loro stessa sopravvivenza come popolo, minacciata concretamente dal sionismo e dall’insidiosa ambiguità politica di Londra.
In Palestina era nato così un femminismo patriottico abbracciato tuttora dalle figlie e nipoti delle palestinesi sopravvissute alla Nakba oppure uccise durante quell’evento catastrofico o da paramilitari sionisti nei sei mesi precedenti la fondazione dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, o da militari dell’esercito israeliano nella lunga fase successiva della tragedia.
D’altro canto, Fleischmann analizza necessariamente anche la Nahḍa palestinese il cui inizio, come in tutti gli altri casi, precede l’incontro traumatico con l’Europa colonialista, avvenuto nel mondo arabo nell’Ottocento; i germogli della rinascita risalgono di fatto al Settecento.
In Palestine Across Millennia [6], Nur Masalha rileva, infatti, l’inclinazione modernizzante e indipendentista di Zahir al-Umar al-Zaydani (1689-1775) che, nel 1748, trasformò la Palestina settentrionale in un’entità politica semi-indipendente dell’Impero Ottomano. Da lì a poco lo stesso governatore o viceré, che godeva del sostegno popolare, riuscì a prendere il potere nell’intero paese, rendendolo un proto-stato, e dove adottò una politica della tolleranza e dell’inclusione; consolidò la propria autorità, garantendo la collaborazione tra contadini, beduini e mercanti, e mantenendo la convivenza pacifica tra la maggioranza musulmana della popolazione e le minoranze cristiane ed ebraiche. Creò così le condizioni propizie per lanciare la crescita economica della Palestina, aumentando in particolare la produzione di cotone e olio d’oliva da esportare in Europa; e per collegarsi all’economia di mercato europea e specialmente al capitalismo industriale inglese, fece ricostruire le antiche città portuali lungo la costa palestinese del Mediterraneo.
Masalha spiega che al-Umar aveva le capacità di uno statista e fu il padre delle modernità palestinesi; avviò lo sviluppo moderno di Acri – la sua capitale -, di Giaffa e Haifa, e, quindi, la nascita di varie nuove strutture e attività nei centri urbani, tra cui Nazareth. Benché fosse meno indipendente dalla Sublime Porta, il suo successore Ahmad al-Jazzar Pascià (1720-1804) continuò la modernizzazione e l’urbanizzazione della Palestina, dove si svilupparono ovunque sia le città che i villaggi. Novità importanti nel campo dell’istruzione avvennero soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, quando Gerusalemme che, con il declino di Acri aveva già riacquisito il suo status tradizionale di capitale del paese, fu ampliata e rinnovata, divenendo il centro principale della Nahḍa palestinese. Dunque, sottolinea Masalha, la modernità culturale della Palestina, oltre a essere la continuazione di una storia millenaria ricca di rivoluzioni educative, si deve anzitutto alle spinte innovatrici e alle esperienze di autogoverno locali, e non tanto a influenze europee.
Scuola missionaria inglese per bambine palestinesi: Nablus, 1910 ca.
Fleischmann esamina la Nahḍa palestinese in una prospettiva femminista, confutando il pregiudizio imperialista occidentale sulla “passività” delle società arabo-islamiche, contrapposta all’immagine di un Occidente intrinsecamente dinamico portatore di una civiltà superiore in un Oriente arretrato, da conquistare e civilizzare per “salvare” le donne orientali dalla prigionia dell’harem e del velo, due elementi tipici della vita delle famiglie appartenenti ai ceti medio-alti e alle tre fedi monoteiste. Questo femminismo orientalistico di fatto opprime le donne arabe sul piano fisico, psicologico e culturale; è etnicista e aggressivo; è suprematismo bianco sessista. Le contadine, che non portavano il velo, perché incompatibile con il lavoro nei campi, e le nomadi dedite alla pastorizia, che lo indossavano per condurre al pascolo il gregge in mezzo al deserto, erano le principali vittime del sessismo, della lussuria e della violenza degli uomini occidentali presenti nell’Oriente misterioso. I sedicenti civilizzatori cercavano, inoltre, di umiliare gli arabi “tiranni”, accusandoli di essere colpevoli dell’arretratezza della condizione femminile nei loro paesi arretrati che, perciò, andavano colonizzati, secondo le mistificanti narrazioni eurocentriche del colonialismo.
La Palestina era un paese normale, con tanto di contraddizioni interne, incluse le discriminazioni di genere; la società palestinese era pacifica ma divisa da forti sperequazioni socio-economiche. Le relazioni tra le persone di entrambi i sessi erano infatti comunque segnate da divisioni classiste e claniste, cioè tra le grandi famiglie di notabili tra cui coloro che vantavano una discendenza dal Profeta Muhammad, definiti “nobili” (ashrāf), e costituivano l’aristocrazia urbana del mondo arabo. Come spiega Ilan Pappé [7], il casato aristocratico degli al-Husayni di Gerusalemme svolse un ruolo determinante nell’ambito della vita politica, economica e delle istituzioni musulmane della Palestina, dal ‘700 fino al 1948. Il filantropismo, tipico della Nahḍa femminile, è comunque insito alle tre fedi monoteiste che, d’altro canto, come quasi tutte le altre religioni, fungono da supporto al sistema sociale patriarcale interamente attraversato dalle discriminazioni di genere.
In Palestina, la modernizzazione dell’istruzione, la cui acquisizione è per le donne il passo fondamentale verso l’emancipazione, avvenne però con dinamiche particolari rispetto al resto del mondo arabo, legate all’importanza religiosa del paese, specialmente in quanto culla del cristianesimo. Le famiglie palestinesi dell’alta borghesia e del ceto medio, e d’orientamento modernista, volevano permettere alle proprie figlie di istruirsi in istituti scolastici moderni, e non in quelli tradizionali già esistenti. Ebbero la possibilità di farlo nella seconda metà dell’Ottocento, quando innumerevoli nuove scuole missionarie europee di ogni rito cristiano, soprattutto anglicane e protestanti inglesi, e cattoliche francesi, furono gradualmente istituite in Palestina; erano frequentate da alunne e alunni anche di fede musulmana, ma furono create più che altro nelle città.
Molte figure note della Nahḍa palestinese si formarono nelle scuole ortodosse russe, impiantate in Terra Santa a partire dal 1853 e considerate le migliori per la modernità della loro metodologia didattica. In un istituto fondato dalla Società Ortodossa Russa furono inoltre lanciati i pionieristici studi linguistici sui dialetti palestinesi. I missionari russi, nota Masalha, contribuirono a diffondere una cultura moderna davvero umanista nel paese: furono gli unici a creare diverse scuole nei villaggi della Galilea per aiutare i bambini e le bambine delle numerose famiglie bisognose delle aree rurali. Fondarono anche due istituti superiori di formazione pedagogica per aspiranti docenti palestinesi; uno maschile a Nazareth, e l’altro femminile a Beit Jala, vicino a Betlemme; il curriculum modernista adottato serviva a fornire l’istruzione alle fasce economicamente più svantaggiate ed emarginate della popolazione.
Nel frattempo, le riforme ottomane del 1839-1876 (Tanẓīmāt) stavano generando altri importanti cambiamenti sociali in Palestina, abbinate sul piano politico all’ottomanismo, ideologia imperiale promossa dal Sultano Abdulhamid II (1842-1918) ma destinata ad avere soltanto un successo iniziale. La riforma dell’istruzione avviò, invece, la scolarizzazione di massa e la secolarizzazione del sistema scolastico; nacquero numerose scuole pubbliche primarie per bambine e bambini sia nei centri urbani che nei villaggi più abitati del paese. Altra novità rilevante risultata dal riformismo ottomano fu l’introduzione in Palestina della stampa moderna che, però, fiorì soprattutto dopo la Rivoluzione dei Giovani Turchi (1908) e il conseguente allentamento della censura.
A quel punto le palestinesi poterono sviluppare la loro Nahḍa femminile, agendo nella società, e perfino comunicare le loro idee tramite le nuove testate giornalistiche locali: nel 1908, nacquero a Haifa al-Karmil (Il Carmelo), e a Gerusalemme al-Quds, nome arabo della città santa per le tre fedi monoteiste e capitale politica, tenuta sotto stretto controllo dalla Turchia. Meno controllata era Giaffa, dove nel biennio 1910-1911, comparvero quattro giornali, tra cui al-Hurriya (La libertà) e Falastīn (Palestina), destinato a essere il più espressivo sia del contrasto alla colonizzazione sionista sia dell’affermazione dell’identità nazionale palestinese. I fondatori erano i cugini ‘Issa al-‘Issa (1878-1950) e Yusif al-‘Issa (1870-1948), intellettuali modernisti di fede cristiana greco-ortodossa, autori di articoli volti a diffondere il patriottismo. Il nome della testata riflette la pronuncia dialettale palestinese dello stesso toponimo in arabo standard: Filastīn. Questa scelta linguistica compiuta dai fondatori del giornale serviva ad attirare l’attenzione delle fasce popolari, per politicizzarle e realizzare nel paese una politicizzazione dal basso.
In effetti, a fine ‘800, erano già emersi nella società urbana palestinese un apprezzabile cosmopolitismo, un proto-femminismo e un altrettanto nascente nazionalismo territoriale, che non fu mai isolazionista nei confronti dei territori arabi circostanti. Entrambi i movimenti, stimolati anzitutto dall’imperialismo ottomano e occidentale, ebbero caratteristiche distinte locali, dovute al ruolo storico-religioso particolare della Palestina e alla correlata specificità della rivoluzione educativa lì avvenuta sin dagli anni 1850.
Proprio alla vigilia del XX secolo, notando l’accresciuta presenza nel loro paese di missionari e numerosi altri stranieri provenienti da varie parti del mondo, alcuni intellettuali palestinesi definirono la palestinesità a partire dalla consapevolezza secolare di essere la gente della Terra Santa del monoteismo e dall’analisi della propria cultura autoctona, cioè nata nel loro territorio storicamente unico per la sua sacralità. Inizialmente, spiega Elias Sanbar, assunsero infatti la tradizionale coesione interconfessionale tra le componenti ebraica, cristiana e musulmana della propria società come base principale per sancire la peculiarità dell’identità culturale palestinese [8].
Soltanto con il repentino aumento della colonizzazione sionista accaduto in Palestina ai primi del ‘900, le élite palestinesi percepirono concretamente la pericolosità del sionismo e iniziarono ad abbandonare l’ottomanismo, in risposta all’inasprimento del totalitarismo nazionalista ottomano e all’indifferenza di Istanbul verso questa minaccia concreta alla loro sopravvivenza come popolo nella propria patria. Poi definirono di più la palestinesità per indicare l’identità della loro nazione.
Fu la crisi nazionale, sottolinea Fleischmann, a portare le donne palestinesi musulmane e cristiane, pioniere della Nahḍa femminile, ad agire nella società e a politicizzarsi, senza la mediazione degli uomini, conducendo autonomamente una duplice battaglia femminista e patriottica.
[1] Ellen Fleischmann, The Nation and Its “New” Women. The Palestinian Women’s Movement 1920-1948, University of California Press, 2003.
[2] Definito anche Saḥwa (Risveglio) – spesso reso in inglese con “Arab Awakening” – o Tanwīr (Illuminismo), ma Nahḍa è il termine più usato.
[3] Edward Said, Orientalism, Pantheon Books, 1978 (Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, tr. Stefano Galli, Feltrinelli, 1999).
[4] George Antonius, The Arab Awakening, Lippincott, 1919.
[5] Sania Sharawi Lanfranchi, Casting off the Veil. The Life of Hoda Shaarawi, Egypt’s First Feminist, Tauris, 2012 (A volto scoperto. La vita di Huda Shaarawi, prima femminista d’Egitto, Rowayat, 2018).
[6] Nur Masalha, Palestine Across Millennia. A History of Literacy, Learning and Educational Revolutions, Bloomsbury, 2022.
[7] Ilan Pappé, The Rise and Fall of a Palestinian Dynasty. The Husaynis 1700-1948, Saqi, 2012.
[8] Elias Sanbar, Figures du Palestinien. Identité des origines, identité de devenir, Gallimard, 2004 (ll palestinese. Figure di un’identità: le orgini e il divenire, Jaca Book, 2005).
*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui i romanzi Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e Atyàf: Fantasmi dell’Egitto e della Palestina (Ilisso, 2008) della scrittrice egiziana Radwa Ashur, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).
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“Privacy aziendale: problema o opportunità”
Oggi ho avuto il piacere di intervenire al Convegno organizzato dalla Camera di Commercio di Bolzano e Confesercenti per discutere di come la privacy può passare da costo a risorsa.
Dal blog di Guido Scorza
L’Alta Corte Britannica due giorni fa ha respinto l’appello di Julian Assange contro l’ordine di estradizione firmato dall’allora ministro dell’interno inglese Priti Patel.
@Giornalismo e disordine informativo
Una sentenza di tre pagine del giudice #Swift che prosegue la persecuzione contro Julian #Assange.
Da un tweet di Stella Assange apprendiamo che martedì prossimo verrà presentato un nuovo ricorso affinché il caso venga giudicato da altri due giudici.
#FreeAssange
#Dropthecharges
#Journalismisnotacrime
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In Cina e Asia – Cuba, pronta base militare cinese?
Cuba, l'intelligence Usa: pronta una base militare cinese
Cina o Usa? L'Arabia Saudita vuole entrambi
Cina: un nuovo libro analizza l'unificazione nazionale dei Qing
Il Regno Unito rimuoverà le telecamere cinesi dai siti governativi sensibili
Stati Uniti, Taiwan e Giappone condivideranno tra loro i dati dei droni da ricognizione navale
Il Giappone rielabora la sua politica per gli aiuti allo sviluppo
Myanamar, la morte della cantante vicina alla giunta infiamma il dibattito pubblico
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PRIVACYDAILY
Africa rossa – Più Africa nei Brics
Il vertice dei Brics, la visita in Cina del presidente della Repubblica democratica del Congo, il calo dell'appeal di Cina e Stati Uniti tra l'opinione pubblica africana. Di questo e molto altro ci siamo occupati nell'ultima puntata di Africa rossa, la rubrica a cura di Alessandra Colarizi.
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TikTok enquiry: French executives ‘do not know what to say’
The French Senate questioned two French senior managers of the successful social network TikTok, who repeatedly admitted that they were unable to answer the questions put to them.
L'annuncio sull'implementazione dei gruppi federati in Bonfire. Il software più interessante del Fediverso (ancora in beta) si appresta a supportare una delle migliori potenzialità di ActivityPub
Il post di @Bonfire
Come parte del nostro impegno per potenziare le comunità con strumenti per favorire il coordinamento, comunicazioni significative e un maggiore senso di cura e appartenenza, siamo entusiasti di annunciare lo sviluppo di gruppi federati in Bonfire. In questo post del blog, approfondiremo il lavoro in corso di implementazione delle funzionalità principali dei gruppi ed esploreremo i potenziali vantaggi che questa funzionalità può apportare all'intero fediverso.
Il potere dei gruppi
Con i gruppi gli utenti possono creare spazi contestuali e cross-instances, definire le proprie regole e governance, per organizzare al meglio la loro partecipazione attraverso il fediverso. Le caratteristiche principali dei gruppi in Bonfire finora includono:
Creazione e scoperta
Gli utenti di Bonfire avranno la possibilità di creare i propri gruppi, specificando lo scopo, le regole e altre impostazioni del gruppo. Ogni gruppo avrà un nome utente univoco, basato sull'istanza in cui è stato creato (ad es. @climatenews@zomia.zone) e sarà individuabile (a seconda delle impostazioni sulla privacy) in tutto il fediverse per consentire agli utenti di trovare e unirsi ai gruppi in linea con i propri interessi, facendo in modo che tutti possano trovare o costruire le proprie comunità sul fediverso.
Confini e privacy
I custodi del gruppo avranno un controllo granulare sulle impostazioni della privacy, consentendo loro di determinare se un gruppo è aperto, visibile o privato. Questa flessibilità garantisce che gli utenti possano partecipare a gruppi che si adattano ai loro livelli di comfort e mantenere il controllo sui propri dati personali. I gruppi privati mostreranno le loro attività solo ai membri, mentre i gruppi aperti o visibili consentono a chiunque di leggere i contenuti del gruppo e i membri possono aggiungere post o partecipare a conversazioni.
Ruoli e moderazione
I custodi del gruppo avranno anche la possibilità di definire ruoli personalizzati e assegnarli a determinati membri, semplificando e decentralizzando così la gestione e la moderazione dei gruppi. I membri a cui viene concesso un ruolo pertinente possono vedere e indirizzare le attività segnalate, invitare altri utenti, modificare l'aspetto e i dettagli del gruppo, creare e modificare ruoli o pubblicare annunci, ecc.
Quando un utente contrassegna un'attività o un membro del gruppo, i moderatori del gruppo sono i primi a ricevere la notifica. Questo aiuta a distribuire il carico di lavoro di moderazione e riduce il carico sui moderatori dell'istanza. Se un utente segnalato infrange non solo le regole del gruppo ma anche quelle delle rispettive istanze, i moderatori del gruppo hanno la possibilità di inoltrare il caso ai moderatori dell'istanza, per aiutare a mantenere un ambiente sano e rispettoso in tutto il fediverso.
Per garantire la migliore esperienza utente possibile, intendiamo lanciare una versione iniziale sui gruppi da testare all'interno della nostra istanza playground. Questo ci consentirà di raccogliere preziosi feedback dalla nostra community e di impegnarci in discussioni collaborative per perfezionare e migliorare la piattaforma man mano che avanziamo.
In un prossimo post, approfondiremo maggiori dettagli, comprese le nostre idee per la federazione dei gruppi e le sfide tecniche che stiamo affrontando. Stay tuned 😎
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OpenAI e ChatGPT sono stati citati in giudizio per diffamazione: il chatbot ha falsamente identificato un uomo come imputato per appropriazione indebita, coinvolto in una fondazione pro-armi
Secondo la causa, ChatGPT identifica erroneamente l'uomo - il cittadino statunitense Mark Walters - come il Chief Financial Officer della Second Amendment Foundation (SAF), un gruppo pro-armi nello stato di Washington.
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almeno non ha detto che era deceduto, come ha fatto con il @quinta 😅
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Il C-27J Spartan di Leonardo vola a Baku. Tutti i dettagli dell’accordo
Il velivolo C-27J Spartan di Leonardo è pronto a volare in Azerbaijan. Questo è il risultato dell’accordo stretto tra Roma e Baku in occasione della visita in Italia di una delegazione azera. Nel corso dei diversi colloqui, hanno avuto l’opportunità di incontrarsi anche il vice ministro alla Difesa del Paese, Agil Gurbanov, e il ministro della Difesa italiana, Guido Crosetto. “L’Azerbaigian riveste ruolo centrale nell’area Euroasiatica. Sono state analizzate opportunità per rafforzare ulteriormente le relazioni tra i nostri Paesi attraverso la cooperazione nel settore energetico e della Difesa”. Così il ministro Crosetto ha commentato il bilaterale, che segue la sua visita di gennaio a Baku. Già operativo in 16 diversi Paesi e con più di 170mila ore di volo, il C-27J Spartan è in grado di svolgere diverse tipologie di missioni dall’ambito della Difesa a quello della protezione civile, e rappresenta un chiaro segnale del consolidamento della collaborazione tra i due Paesi, in un ambito che va anche oltre il tradizionale settore energetico.
Il velivolo
Lo C-27J Spartan è un velivolo da trasporto tattico e viene impiegato nei contesti geografici, ambientali e operativi più variegati e sfidanti. L’esperienza accumulata a livello internazionale presso le diverse Forze armate lo rende particolarmente adatto al trasporto militare, all’aviolancio di paracadutisti e materiali, così come al supporto tattico alle truppe nel cosiddetto “ultimo miglio”. A queste funzioni si aggiunge anche il supporto nelle operazioni dei corpi speciali, e in quelle destinate all’assistenza umanitaria o al portare aiuto alle popolazioni colpite da disastri ambientali.
Una collaborazione a tutto tondo
L’Italia ha un interesse diretto nella regione, e già il governo Draghi si era mosso per differenziare le proprie forniture, soprattutto di gas naturale, riducendo in questo modo la dipendenza da Mosca. Uno sforzo che ha visto l’attivismo di Roma in diverse regioni, a partire dal Mediterraneo e il Golfo, e che vede nell’Azerbaigian un nodo centrale. Ora la collaborazione tra Roma e Baku si estende anche ai prodotti dell’industria della Difesa, grazie all’impegno e al contributo del ministero della Difesa italiano. Il programma di acquisto del C-27J di Leonardo, si inserisce infatti in un più ampio programma di ammodernamento delle Forza armate azere, che le vede guardare con sempre più interesse ai prodotti e alle tecnologie nostrane.
Le Difese si avvicinano
Il rafforzamento della cooperazione nel campo della Difesa, come anticipato, è un tema che è già stato affrontato nel corso della visita ufficiale del ministro Crosetto a Baku, svolta a gennaio, dove vi era stata la sottoscrizione di un protocollo d’intesa per rafforzare la cooperazione militare, soprattutto nel campo della formazione e dell’istruzione delle Forze armate azere. In quell’occasione il ministro aveva intrattenuto una serie di colloqui istituzionali con il presidente della Repubblica azera, Ilham Aliyev, il ministro della Difesa, Zakir Hasanov, e con il capo dei servizi di sicurezza, Ali Naghiyev. Non solo, “l’Italia – aveva spiegato Crosetto – conferma il suo contributo per un’ulteriore rafforzamento delle relazioni tra Azerbaigian e Nato e tra Azerbaigian e Unione europea”, un obiettivo “condiviso anche dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni”.
Parliamone eccome, di Bibbiano. Ma parliamone non come dei forsennati forcaioli si permisero di parlarne: parliamone per parlare di noi stessi, del modo in cui il senso di giustizia è calpestato da una spettacolarizzazione incivile dell’accusa, del livello imbarazzante di cultura della classe (presunta) dirigente, che non si sottrae alla corrida pur di acchiappare qualche consenso, pur di infilare qualche banderilla sul groppone degli avversari, finendo con il matar quel che resta della giustizia.
Pochi si possono permettere il lusso di ripetere oggi le parole che dissero e scrissero nel 2019: tocca alla Procura dimostrare l’esistenza del reato presupposto e la colpevolezza degli indagati (allora tratti in custodia cautelare); nel frattempo vige la garanzia costituzionale della presunzione d’innocenza. Vale sempre e per tutti. Oggi sappiamo una cosa in più, rispetto ad allora: l’imputato principale è stato assolto in appello. La faccenda non è chiusa, potrebbe esserci un ricorso della Procura in Cassazione (vedremo), ma per come funziona il processo accusatorio, dovendo essere dimostrata la colpevolezza «al di là di ogni ragionevole dubbio», l’assoluzione quel dubbio dovrebbe ingigantirlo.
Il problema non è soltanto nelle Aule di giustizia, ma soprattutto fuori. Ci riguarda tutti, nessuno escluso. Se lo spettacolo dell’accusa ha preso il posto del racconto della giustizia è perché si vive nell’oscurantismo giuridico. Se i mezzi di comunicazione pompano quello scempio è perché cercano clienti e li cercano fra i forcaioli della porta accanto. Se i politici cavalcano lo spettacolo e si mettono sulla scia della comunicazione è perché sanno che scarseggiano i voti di quanti credono si possa avere una giustizia migliore, mentre abbondano quelli che cercano nella colpevolezza altrui un pezza per coprire la propria cattiva coscienza. Ed è questa broda maleodorante che da lustri inonda la nostra vita collettiva.
Vi pare possibile che un’inchiesta penale si chiami “Angeli e demoni”? È deviata la mente del titolatore ed è cancellata la coscienza dei copisti in veste di giornalisti. “Angeli” sono i bimbi innocenti, “demoni” gli indagati. E in piazza s’allestisce il rogo mediatico. Poi arriva la notizia che il “demone” sarebbe innocente, ma questo è niente rispetto al fatto che degli “angeli” non frega niente a nessuno: se è innocente è stato fatto del male a quanti sono stati tirati dentro un orrore che per loro resta tale.
La faziosità politica non mitiga la scena, ma la impreziosisce d’ignoranza e bassezza. Le bande che si scontrano – armate di mazze diffamatorie – cambiano colore, ma i due fronti sono sempre gli stessi: da una parte i colpevolisti e dall’altra gli innocentisti. Nessuna delle due parti è compatibile con la giustizia, che nel garantismo ha i baluardi del rispetto dei diritti e della certezza della pena. Mentre ai colpevolisti serve dire che è tutto evidente e «si butti via la chiave» (che quando la senti sai già d’avere innanzi un troglodita) e agli innocentisti serve dire che è «giustizia persecutoria e a orologeria» (che quando la senti vedi già la chilometrica coda di paglia). Per Bibbiano i criminali erano del Pd, per Metropol erano della Lega e per le froge sbuffanti delle rispettive fazioni sembra impossibile capire che si possa dissentire e avversare senza sentire il bisogno di criminalizzare.
Il nostro problema è questo. Nulla di ciò che ci accompagna da anni sarebbe mai stato possibile senza il consenso urlato e il dissenso vilmente taciuto. A proposito: va bene che si contesti alla Polonia la riforma della giustizia, ma va male che l’inciviltà della giustizia belga e l’uso di una bambina di 22 mesi per ricattare la madre siano stati accompagnati dal cacasottismo del Parlamento europeo, tremulo nel temere per ciascuno dei componenti, intanto in corsa per raccattare i peggiori istinti dell’opinione pubblica. C’è del marcio nella nostra scena pubblica. Tacerlo lo diffonde. Parliamone, quindi, di Bibbiano.
L'articolo Parliamone proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Kuwait, opposizione vince elezioni. Tra gli eletti solo una donna
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della redazione
Pagine Esteri, 8 giugno 2021 – L’opposizione ha ottenuto 29 dei 50 seggi del Parlamento del Kuwait alle elezioni del 6 giugno. Tra questi solo uno è andato a una donna, l’ex ministra dell’edilizia Janan Bushehri, che ha detto di voler contribuire alla “stabilità e al progresso su questioni in sospeso, sia politiche che economiche”. Le correnti religiose dei salafiti e dei Fratelli Musulmani hanno mantenuto la loro posizione all’interno del parlamento, mentre le forze populiste, liberali e sciite appaiono ridimensionate. È probabile che il deputato Ahmed Al-Sadoun diventi il presidente dell’Assemblea.
Tre mesi fa i risultati delle elezioni parlamentari del 2022 erano stati annullati dalla Corte Costituzionale a causa di irregolarità. Quindi sono state indette nuove consultazioni alle quali hanno partecipato appena 207 candidati, tra cui 15 donne: in 20 anni, mai un’elezione parlamentare ha visto così pochi aspiranti alla carica di deputato. Nel paese si spera che dopo le elezioni possano sbloccarsi situazioni che hanno impedito ai legislatori di approvare le riforme economiche necessarie. In Kuwait si registrano ripetuti deficit di bilancio e bassi investimenti esteri.
Il Parlamento del Kuwait non è consultivo come nelle altre monarchie arabe del Golfo. Sebbene il giudizio finale spetti sempre all’emiro Al Sabah, l’assemblea ha il potere di approvare e bloccare leggi e presentare mozioni di sfiducia. Una diversità dagli altri Parlamenti dell’area che, tuttavia, non è garanzia di stabilità. In Kuwait l’emiro ha sciolto il parlamento ben dieci volte nell’ultimo decenni a causa degli scontri tra i poteri esecutivo e legislativo.
La prima sessione del nuovo Parlamento è prevista per il prossimo il 20 giugno. Pagine Esteri
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Le difficoltà delle democrazie nei contesti di guerra
Nulla in modo più netto e più drammatico delle guerre è in grado di portare alla luce certe fragilità delle democrazie. Le democrazie moderne (quelle antiche erano un’altra cosa) vivono con molto più disagio dei regimi autocratici le guerre in cui sono coinvolte. Si capisce perché: la democrazia è un sistema costruito per risolvere pacificamente (attraverso elezioni e pubblici dibattiti) le dispute fra i suoi cittadini. Essendo l’antitesi della risoluzione pacifica dei conflitti, la guerra la mette in gravi difficoltà.
Da un lato, mentre la democrazia esige, nel suo funzionamento quotidiano, trasparenza , pubblicità degli atti compiuti dai governanti (perché solo la pubblicità, la trasparenza, consente agli elettori di giudicare il governo), la guerra, per sua natura, richiede, in molte decisioni, opacità, riservatezza, assenza di trasparenza: non è alla luce del sole che si possono fare piani di guerra né si possono sbandierare, se non per grandissime linee, i piani di sostegno militare a chi, come oggi gli ucraini, è impegnato a combattere. Dall’altro lato, se e quando una democrazia è coinvolta direttamente in una guerra che rappresenti per essa una minaccia esistenziale, deve rinunciare a certe libertà il cui godimento è o dovrebbe essere pacifico in tempo di pace. Durante la Seconda guerra mondiale le democrazie occidentali adottarono, come era inevitabile, forme di censura e di controllo della popolazione che, fortunatamente, finita l’emergenza bellica, poterono abbandonare.
Infine, la democrazia deve fare costantemente i conti con gli umori dell’opinione pubblica. Con il rischio di oscillazioni nella condotta internazionale dei suoi governi che, in caso di crisi bellica, possono compromettere o frustrarne gli obiettivi e lederne gli interessi.
A una ragione per così dire «strutturale» (legata alle caratteristiche della democrazia in generale) va aggiunta, nel caso dei Paesi europei, una ragione storica. Che è poi una felice circostanza: la lunga pace di cui le democrazie europee hanno goduto e che spiega lo stato di disorientamento delle loro opinioni pubbliche di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, di fronte al ritorno della guerra nel cuore dell’Europa. È vero: c’era stato il precedente delle guerre jugoslave ma esse avevano coinvolto solo piccole potenze non in grado, a differenza della Russia, di minacciare una guerra generale.
Una spia evidente delle difficoltà delle democrazie europee di fronte alla guerra in Ucraina è data non tanto dalla continua richiesta di «soluzioni diplomatiche» che dovrebbero essere sponsorizzate da «terze parti» non coinvolte direttamente nel conflitto, quanto dal modo in cui si pretende che tali soluzioni diplomatiche vengano cercate: alla luce del sole, in modo trasparente, visibile a tutti.
Le opinioni pubbliche, o parti di esse, hanno bisogno di sentirsi dire che qualcuno sta facendo qualcosa. Naturalmente, di questo «qualcosa» che si sta facendo per porre termine al conflitto devono essere date al pubblico prove tangibili. Da qui la lunga serie, fin da quando è iniziata l’invasione russa, di tentativi di mediazione ben documentati e pubblicizzati dalle televisioni e dagli altri mezzi di comunicazione. Quale ne sia la funzione è chiaro: rassicurare il pubblico («stiamo cercando una soluzione diplomatica») . Ma, di sicuro, se un giorno soluzioni diplomatiche al conflitto emergeranno non saranno certo colloqui alla luce del sole che ne porranno le premesse. Saranno invece quei canali di comunicazione, informali e al riparo dalla pubblica curiosità, che (spesso se non sempre), durante le guerra, vengono attivati fra i nemici e fra i loro sponsor e principali alleati. La democrazia vorrebbe trasparenza persino nelle trattative e nelle negoziazioni condotte in parallelo ai combattimenti sul terreno. Ma si può scommettere che quando i rapporti di forza ( a loro volta decisi dall’andamento delle battaglie per la difesa o la riconquista dei territori) consentiranno di fare tacere le armi, le negoziazioni sotterranee — fra americani, russi e cinesi, fra ucraini e russi — daranno a quell’esito un contributo molto più importante delle conferenze stampa e di tutti gli altri atti pubblici e ampiamente pubblicizzati.
L’emergenza della democrazia fra Otto e Novecento fece pensare che essa avrebbe inaugurato una nuova fase delle relazioni diplomatiche fra gli Stati, che l’antica diplomazia basata su colloqui riservati e soffusa di segretezza avrebbe lasciato il campo a una diplomazia trasparente, alla luce del sole. Ma fu una ingenuità, una illusione. Anche in età democratica, per essere davvero efficace, la diplomazia richiede riservatezza. La vera differenza è che i governi delle democrazie, mentre si dedicano alla tradizionale attività diplomatica, devono anche giustificare le loro scelte di fronte all’ opinione pubblica. Per non perderne il sostegno.
Un grande teorico della politica, Alexis de Tocqueville, pensava che la democrazia, a differenza dei regimi autoritari, fosse inadatta ad agire con successo, efficacemente, di fronte alle sfide e alle crisi internazionali. Non è necessariamente così. Le democrazie hanno mostrato in tante occasioni di fronteggiare quelle sfide meglio dei regimi autoritari. Per il fatto che sanno motivare i propri cittadini, nelle situazioni di emergenza, molto più efficacemente di quanto sappiano fare, con i loro sudditi, i regimi autoritari. Però è una illusione pericolosa ritenere che ciò sia inevitabile. Il consenso dei cittadini deve essere alimentato e sostenuto. Non è un mistero la ragione per cui Putin si augura ancora di prevalere in Ucraina. Egli pensa che alla lunga le democrazie occidentali si stancheranno di sostenere Kiev. Spera che gli argomenti di coloro che, in Occidente, sono contrari a quel sostegno, finiranno per spostare dalla loro parte il grosso delle opinioni pubbliche. Spetta a chi è di parere contrario non smettere di rintuzzare quegli argomenti.
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Einaudi: il pensiero e l’azione – “Il Politico” con Giuseppe Benedetto
Con Giuseppe Benedetto, Presidente della FLE, ripercorriamo la carriera politica di Luigi Einaudi: dall’Assemblea Costituente all’incarico di Presidente della Repubblica.
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Rubrica “Einaudi: il pensiero e l’azione”
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@Test: palestra e allenamenti :-)
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#Qatargate: New Ethics Body is toothless
Today, the European Commission presented its plans for an inter-institutional Ethics Body in response to the “Qatargate” corruption scandal in the European Parliament to increase transparency in nine major EU institutions. But the proposed measures, such as a creating an ethics supervisory body without investigative and enforcement powers, are toothless, criticise MEPs from the Pirate Party, who recently presented their own proposals to increase transparency and integrity.
Patrick Breyer, German Pirate Party Member of the European Parliament, comments:
“The EU is in an existential an existential crisis of confidence – not only because of the Qatargate corruption scandal. Our European Union is far too much controlled by industry and governments instead of acting in the interests of the citizens, whose will hardly counts.
“The ethics reform that the von der Leyen Commission wants to fob us off with today is toothless and ultimately means ‘business as usual’. The answer to corruption and lobbying is supposed to be a committee of blabbermouths, with no investigation or enforcement powers, leaving MEPs and key politicians in charge of controlling their peers. In this way, the powerful industry lobbies will continue to hold the EU in a headlock.
“The proposal even offers the European Parliament a pretext to postpone overdue reforms, for example concerning MEP side jobs, cooling-off periods for ex-MEPs, lobby meetings and the prevention of corruption. We Pirate Party MEPs have since presented a comprehensive transparency and integrity plan: We not only demand full disclosure of all MEPs’ expenses, we Pirates have been doing this voluntarily since the beginning of our mandate.
“One year before the European elections, we must not allow the Europeans’ trust in politics to be further damaged by inactivity and turning a blind eye. The end of von der von der Leyen’s political term is overdue.”
Kbin è finalmente disponibile in italiano!
Siamo molto contenti! La nostra chiamata alle armi di pochissimi giorni fa è andata a buon fine: Kbin è disponibile anche in italiano!
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Io non ancora capito cosa e' / in cosa differisce da lemmy e iscrivermi all'istanza di test per scoprirlo mi pare eccessivo 🙂
lilae21 likes this.
@Luca Sironi ho impiegato quasi tre giorni per pensare come realizzare questa guida... 🙁
Abbi pazienza e tirerò fuori anche una guida a Kbin... 😀
Luca Sironi likes this.
Do you mean emulate the existing Reddit API so we could just use f-droid.org/en/packages/ml.doc…
@fediverso @notizie @FunzioneSperimentale
Infinity for Reddit | F-Droid - Free and Open Source Android App Repository
A beautiful, feature-rich Reddit client.f-droid.org
“Principali sviluppi del diritto della concorrenza dell’unione europea e nazionale”
Domani avrò il piacere di partecipare al convegno “Principali sviluppi del diritto della concorrenza dell’unione europea e nazionale” organizzato a Firenze dall’ Associazione Antistrust Italiana. A partire dalle 12.00 interverrò per parlare di antitrust, PCS e tutela della privacy Qui il link alle informazioni complete aaiantitrustconference.it/
MASARAT AL-FUNUN. Oggi a Napoli hanno inizio i percorsi artistici della cultura palestinese
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Di Maria Rosaria Greco, curatrice di Femminile palestinese –
Pagine Esteri, 8 giugno 2023. Da oggi, 8 giugno e fino al 15 giugno p.v. a Napoli, presso l’ex Asilo filangieri si parla di cultura palestinese con la rassegna Masarat al-funun – percorsi artisti مسارات الفنـــون , il nuovo progetto a cura della Comunità Palestinese Campania che si snoda fra differenti linguaggi, come teatro, poesia, cinema, letteratura, musica, cucina.
Sono molti gli ospiti di questa prima edizione che raccontano la Palestina attraverso la sua cultura, fra questi solo alcuni nomi come il poeta Ibrahim Nasrallah, la scrittrice Suad Amiry, il regista e attore Mohamad Bakri, che si alternano in un calendario ricco di appuntamenti che prevede spettacoli teatrali, proiezioni di film e documentari, performance musicali, mostre fotografiche, bazar di prodotti tipici e degustazioni varie di cucina palestinese.
Ne abbiamo parlato con l’ideatore Omar Suleiman della Comunità palestinese Campania, ma anche attore, cuoco, a Napoli molto conosciuto per lo storico caffè arabo di piazza Bellini.
“Masarat al-funun” come nasce questo progetto e come si sviluppa?
O.S. Masarat al-funun nasce come esigenza di comunicare la cultura palestinese in modo più programmatico e non con eventi saltuari, augurandomi che possa avere lunga vita. Questa è una prova di una prima edizione, spero di poter proseguire in seguito. È un chiodo fisso che avevo da molti anni, da quando cioè ho incominciato ad accorgermi, verso il 2004-2005, che non erano le conferenze e i convegni politici che potevano spiegare al meglio la questione palestinese. Ho visto invece l’efficacia del lavoro culturale attraverso i libri, il teatro, il cinema. Ho capito l’importanza della diffusione della cultura palestinese, una cultura che ha radici profonde, nella terra e nella popolazione palestinese.
Fino ad oggi non c’erano state le opportunità per avviare il progetto, ma questo mi era sembrato l’anno giusto. Ovviamente è molto faticoso, per ora mancano risorse, finanziamenti pubblici e quindi è autofinanziato dai componenti della Comunità palestinese Campania.
Quali sono i percorsi artistici che verranno attivati
O.S. Innanzitutto il teatro. Quest’anno non siamo riusciti a coinvolgere tutti gli amici che volevamo, ma mi auguro, visto che già esistono accordi precisi, che in una seconda edizione potremo reclutare tutti gli altri. L’obiettivo è quello di coinvolgere amici italiani che fanno teatro o narrazione sulla questione palestinese e ci sono molti lavori che meritano attenzione. Il teatro è sicuramente il percorso più importante su cui vorremmo puntare. Presentiamo un paio di spettacoli nostri: “Mi chiamo Omar” scritto e diretto da Luisa Guarro, “Finalmente fioriti i mandorli” adattamento e regia di Patrizia Di Martino. Poi la performance di Carlo Cerciello con Imma Villa, “Alla frontiera israeliana” di Kalife, che è tratta dallo spettacolo “Il cielo di Palestina” a cui ho avuto l’onore di partecipare come attore nel 2016.
Altro percorso artistico è sicuramente il cinema, che oggi arriva a partecipare anche agli oscar talmente è alta la qualità. Ci sono nomi di eccellenza nel nostro cinema palestinese conosciuti in tutto il mondo. Ci viene a trovare il carissimo amico, regista e attore, Moahmed Bakri perseguitato dal regime sionista per il suo lavoro, per l’affermazione della sua identità profondamente palestinese, nonostante lui abbia la cittadinanza israeliana.
Poi la poesia. Mahmoud Darwish insegna visto che è diventato un poeta senza cittadinanza, un poeta punto e basta, né palestinese né arabo, solo un poeta tradotto in 24 lingue del mondo. Nostro ospite è Ibrahim Nasrallah un carissimo amico che è venuto tante volte qui a Napoli ed anche a Salerno nel 2016. Per la letteratura, abbiamo con noi la scrittrice Suad Amiry che ha pubblicato molto in Italia e quindi è conosciutissima.
Insomma noi ce la stiamo mettendo tutta. Come Comunità palestinese della Campania abbiamo compagni di viaggio di eccellenza: Assopace Palestina, Femminile palestinese, Pagine Esteri, l’Asilo (ex Asilo Filangeri) Invicta Palestina, Edizione Q, Cultura è libertà per la Palestina. Molti ragazzi volontari ci stanno aiutando nella comunicazione e organizzazione e gli amici della comunità palestinese si stanno attivando tantissimo. Il nostro progetto Masarat al-funun è dedicato all’amico scomparso Ali Orani.
Se tu dovessi descriverti come ti definiresti? Un attore, un cuoco, un narratore? Forse tu racconti la Palestina da quando vivi a Napoli attraverso molteplici percorsi artistici che spaziano dalla cucina al teatro, e altro ancora. Un po’ come il tuo progetto Masarat al-funun
O.S. Si, io ritengo di essere un narratore. Racconto la Palestina attraverso vari modi, vari linguaggi. Prima, dall’inizio della mia presenza in Italia, l’ho fatto attraverso la diffusione della storia della Palestina e della sua situazione politica, poi con la mia cucina, il mio lavoro, perchè anche quello è narrare: la storia del cibo, i profumi, i sapori. Per ultimo ho iniziato a raccontare con il teatro. Le situazioni che più mi piacciono sono le più semplici. Quando vado nelle scuole, nelle Università in mezzo ai ragazzi o nei gruppi di amici a raccontare. Mi piace raccontare le storie scritte da palestinesi che parlano della propria terra, dei profumi e delle radici di quella terra”.
Pagine Esteri parteciperà a MASARAT AL-FUNUN con il documentario da noi prodotto, “Il cielo di Sabra e Chatila”, che sarà proiettato lunedì 11 giugno alle ore 19.30.
IL PROGRAMMA COMPLETO DI MASARAT AL-FUNUN:
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EU policymakers inch toward deal on trade secrets in new data law
EU institutions’ approach to the thorny issue of trade secrets in the new EU rulebook for data sharing is shaping up, according to a document seen by EURACTIV. The Data Act is a flagship legislative proposal to regulate how data...
🔎 Banchetto cuore delle bands
Oggi vi voglio parlare di una argomento che a me sta particolarmente a cuore facendo parte di quelli che la musica anche la fanno ( ci proviamo se non altro) .
informapirata ⁂ reshared this.
Ben(e)detto – 8 giugno 2023
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In Cina e in Asia – L’Ue verso lo stop di Huawei per le reti 5G
L'Ue verso lo stop di Huawei per le reti 5G
La gran parte degli europei preferisce la neutralità in caso di guerra a Taiwan
Partecipazione record di candidati per il gaokao
La Cina vuole limitare la funzione AirDrop di Apple
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Dialoghi – Poster di propaganda cercasi
Da prodotto culturale per mobilitare le masse, nel corso dei decenni i poster di propaganda sono finiti per essere oggetti di collezione, se non quando gadget per turisti curiosi. “Dialoghi” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio di Milano
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La Nato si espande in Asia e corteggia il Giappone
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 8 giugno 2023 – «La NATO rimarrà in Nord America e in Europa e non diventerà un’alleanza globale che include membri dall’Asia. Le nostre garanzie di sicurezza includeranno solo il territorio della NATO» ha affermato il segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg in un’intervista concessa al Washington Post. Ma i fatti lo smentiscono: negli ultimi anni il Patto Atlantico, e Washington in particolare, non hanno certo nascosto la propria volontà di allargare il proprio raggio d’azione ad est e nel Pacifico, ben oltre la regione “nord atlantica” richiamata nel trattato costitutivo della più estesa coalizione militare esistente sul pianeta.
L’Alleanza persegue esplicitamente, ad esempio, un ulteriore allargamento della cosiddetta “Nato Plus”, un secondo livello di integrazione che comprende già Israele ma anche la Sud Corea, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone. Nel tentativo di contrastare la crescita della potenza cinese, Washington intende infatti coinvolgere anche l’India, una potenza emergente che ha buoni rapporti con la Russia ma che intrattiene però relazioni altalenanti con Pechino, storica rivale nello scacchiere asiatico. La “Commissione Cina” del Congresso Usa, allo scopo, ha proposto all’amministrazione Biden di sostenere l’ingresso di New Delhi – che fa già parte dell’accordo di sicurezza “Quad” formata con Usa, Australia e Giappone – proprio nella Nato Plus, anche se inizialmente in veste di osservatore.
La Nato corteggia il Giappone
Ma è soprattutto su Tokyo che si appuntano le attenzioni dell’Alleanza Atlantica, che si prepara ad aprire un ufficio di collegamento nella capitale nipponicaper rafforzare la cooperazione militare con gli alleati asiatici. «Nessun partner della Nato è più vicino o capace del Giappone», ha chiarito a gennaio Stoltenberg durante un incontro a Tokyo col premier Fumio Kishida e il ministro della Difesa Yasukazu Hamada. Allora il governo nipponico aveva annunciato l’apertura di una missione diplomatica permanente presso il quartier generale della Nato.
Nella strategia di Washington e Bruxelles, Tokyo dovrebbe rappresentare un nuovo pilastro dello schieramento militare atlantista all’interno di una vera e propria manovra a tenaglia che mira a contrastare la Russia – considerata apertamente una “minaccia” – ma anche la Cina – definita una “sfida sistemica” globale durante l’ultimo vertice della Nato tenutosi a Madrid nel giugno del 2022. L’Alleanza accusa Pechino di intraprendere «operazioni informatiche e operazioni ibride dannose» e di «restare opaca nella propria strategia, nelle proprie intenzioni e nell’accumulo di forze e rifornimenti militari». Ad agitare gli animi e ad accelerare la militarizzazione dell’Indo-Pacifico ci pensa poi la recrudescenza del contenzioso su Taiwan, un’isola cinese ribelle divenuta indipendente de facto nel 1949 grazie alla protezione militare di Washington ma di cui Pechino vuole rientrare in possesso.
«Ciò che accade nell’Europa orientale non si limita solo a essere un problema dell’Europa orientale, ma influisce direttamente sulla situazione nel Pacifico. Ecco perché la cooperazione tra noi, nell’Asia orientale, e la NATO diventa sempre più importante» ha spiegato nei giorni scorsi, in un’intervista alla Cnn, il ministro degli Esteri giapponese Yoshimasa Hayashi, confermando la volontà dell’Alleanza Atlantica di aprire un ufficio di collegamento a Tokyo entro il 2024. Sarà il primo del genere inaugurato nella regione asiatica, dopo quelli già attivi in Ucraina, Georgia, Moldavia, Bosnia e Kuwait.
Il premier giapponese Fumio Kishida
La competizione tra Tokyo e Pechino
Hayashi ha rassicurato sul fatto che la mossa non intende costituire una minaccia contro nessuno, ma poi ha spiegato che il riarmo della Cina (con la costituzione di una grande flotta navale e l’accelerazione della produzione di armi nucleari), le minacce a Taiwan e le pratiche commerciali aggressive di Pechino, per non parlare della minaccia permanente rappresentata dalla Nord Corea, costringerebbero il suo paese ad adottare delle contromisure e a rafforzare la cooperazione militare con gli Stati Uniti.
Anche sul fronte economico Tokyo soffre molto la competizione con Pechino. Il Giappone può ancora vantare una potenza economica non indifferente, ma negli ultimi anni ha perso il primato in molti settori – soprattutto industriali – nei quali era protagonista assoluta, come quello dei semiconduttori. Recentemente, poi, la Cina ha strappato al Sol Levante lo status di primo paese esportatore di auto al mondo: nel primo trimestre del 2023, le esportazioni cinesi di automobili hanno registrato un balzo record del 58%, trainate dalla crescente domanda mondiale di auto elettriche e dall’aumento delle esportazioni sul mercato della Russia reso disponibile dalle sanzioni statunitensi, europee e giapponesi.
Gli accordi con Bruxelles e Londra
Il primo ministro giapponese ha intanto annunciato la propria partecipazione al prossimo vertice della Nato che si terrà l’11 e il 12 luglio a Vilnius, in Lituania. Nel frattempo Giappone e Patto Atlantico hanno anche in programma la firma di un “Programma di partenariato su misura” (Itpp) che rafforzi da subito la cooperazione in tema di sicurezza.
Inoltre, i primi ministri di Giappone e Regno Unito hanno concordato l’adozione di un nuovo partenariato strategico globale, denominato “Accordo di Hiroshima”, che comporta una serie di impegni reciproci sul piano della cooperazione militare. Tra le altre cose l’accordo prevede il raddoppio del numero dei militari britannici che prendono parte a esercitazioni sul territorio giapponese e l’invio del gruppo da battaglia della portaerei britannica Queen Elizabeth nell’Indo-Pacifico entro il 2025.
in occasione dell’incontro, il premier britannico Rishi Sunak ha visitato la portaerei nipponica Izumo, la prima di una classe di “cacciatorpediniere portaelicotteri” che include anche la Kaga. Le due navi sono state progettate come portaerei leggere, ma sono state classificate inizialmente come portaelicotteri per adeguarle alle restrizioni imposte dal dettato costituzionale che il governo di Tokyo aggira ormai sistematicamente.
Tokyo cerca un ruolo da protagonista nello scacchiere mondiale
La recrudescenza della competizione globale tra potenze e poli geopolitici causata dall’invasione russa dell’Ucraina e dallo scontro strategico tra Pechino e Washington pare fornire a Tokyo il contesto utile ad affermare maggiormente il proprio ruolo internazionale. Tradizionalmente Tokyo, uscita sconfitta e sotto tutela statunitense dalla Seconda Guerra Mondiale, si è dovuta accontentare di esercitare un ruolo secondario nell’ordine globale basato sul “soft power” derivante dalla propria potenza economica.
Kishida, però, procede nel solco della strategia nazionalista e militarista del suo predecessore Shinzo Abe, tentando di ritagliare per il Giappone una maggiore centralità geopolitica e militare.
Lo scorso anno il partito liberaldemocratico al potere ha ottenuto una radicale revisione delle linee guida di sicurezza nazionale scardinando il pacifismo imposto dalla Costituzione scritta dai vincitori dopo il 1945. Il governo ha varato un piano per trasformare le cosiddette “Forze di autodifesa” in un esercito possente, armato fino ai denti e proiettato sullo scenario internazionale. Tokyo ha deciso di costituire uno stato maggiore congiunto che riunisca tutti i comandi delle Forze Armate ed ha previsto il raddoppio della spesa militare entro il 2027 fino a impiegare per il comparto bellico il 2% del Pil.
Forze speciali dell’esercito giapponese
Kishida vuole fare del Giappone una potenza militare
In particolare, il Giappone mira a diventare rapidamente una potenza missilistica. Secondo un piano reso noto dal Ministero della Difesa, Tokyo intende sviluppare missili ipersonici con l’aiuto degli Stati Uniti, e di acquistare bombe plananti ad alta velocità, missili da crociera Tomahawk, mine e missili anti-nave, veicoli aerei e sottomarini senza pilota. Il Giappone sta poi collaborando, insieme all’Italia e alla Gran Bretagna, al “Global Combat Air Programme” allo scopo di sviluppare un caccia da combattimento di sesta generazione.
Inoltre il Sol Levante prevede di lanciare nello spazio, a partire dal 2024, una rete di 50 piccoli satelliti militari per estendere le proprie capacità di intelligence e sorveglianza.
A marzo una visita a Tokyo del presidente della Sud Corea, Yoon Suk-yeol – la prima di un capo di stato di Seoul in 12 anni – ha gettato le basi per un completo ripristino delle relazioni tra i due alleati di Washington in nome delle sfide geopolitiche comuni.
Per consolidare il proprio ruolo, Kishida ha sfruttato la presidenza di turno del G7 ed ha operato per aumentare l’isolamento economico e politico internazionale della Russia. Durante una visita in India il premier giapponese ha annunciato che il suo paese investirà 75 miliardi di dollari nell’area dell’Indo-Pacifico entro il 2030 allo scopo di contrastare la crescente influenza cinese, ed ha invitato il suo omologo indiano Narendra Modi a partecipare al vertice dei “sette grandi” che si è svolto a maggio a Hiroshima, nel tentativo di allontanare New Delhi da Mosca.
Kishida punta poi a liberarsi dei vincoli all’esportazione di armamenti contenuti nella propria Costituzione. Nel corso di un incontro a margine del G7 di Hiroshima, Kishida ha promesso a Zelenskyi la fornitura di un centinaio di mezzi militari e si è impegnato a stanziare altri 470 milioni di dollari per la ricostruzione del sistema energetico del paese invaso. Ma il primo ministro, che a marzo ha realizzato un viaggio a sorpresa a Kiev, vuole assolutamente ritagliarsi un ruolo di primo piano nella fornitura di armi all’Ucraina.
Tokyo, infine, punta ad assumere un ruolo di primo piano nell’assistenza militare alle Filippine, ovviamente in funzione anticinese, e a proiettare la presenza delle proprie forze armate al di fuori dei confini nazionali. Proprio in questi giorni le guardie costiere di Stati Uniti, Giappone e Filippine stanno tenendo la loro prima esercitazione congiunta al largo della provincia filippina di Bataan, nel Mar Cinese Meridionale.
La reazione di Pechino
Le esercitazioni sono destinate ad alimentare la tensione con Pechino, che guarda con crescente inquietudine al consolidamento della cooperazione militare tra USA, Giappone e Filippine in vista di un eventuale conflitto. Washington e Manila hanno già eseguito esercitazioni militari su vasta scala ad aprile, dopo che le Filippine hanno garantito alle forze armate statunitensi l’accesso a quattro nuove basi militari, tre delle quali non molto lontane da Taiwan.
«La Nato ha esteso i suoi tentacoli alla regione dell’Asia Pacifico e cerca di esportare la mentalità della guerra fredda (…) La continua espansione verso est della Nato minerà inevitabilmente la pace e la stabilità dell’Asia esportando lo scontro tra blocchi esistente in Europa» aveva commentato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese quando sono cominciate a circolare le prime indiscrezioni sull’apertura dell’ufficio di collegamento della Nato a Tokyo. Dopo l’annuncio ufficiale, Pechino ha esplicitamente accusato Kishida di voler riconquistare il potenziale militare che portò il Sol Levante a invadere gran parte dell’Asia orientale prima e durante il Secondo Conflitto Mondiale. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Raid israeliano a Ramallah, feriti almeno sei palestinesi
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della redazione
Pagine Esteri, 8 giugno 2023 – Irruzione la scorsa notte di ingenti forze militari israeliane nel cuore di Ramallah, città dove hanno sede la presidenza e il governo dell’Autorità nazionale palestinese. Decine di automezzi blindati hanno circondato l’appartamento della famiglia del prigioniero palestinese Islam Faroukh in un edificio residenziale a più piani nella zona di Ramallah Al-Tahta (la Città Vecchia) e dopo aver fatto uscire i genitori e le sorelle del detenuto, lo hanno fatto saltare in aria, provocando danni gravi anche ad altre abitazioni.
Islam Faroukh è in prigione per aver compiuto lo scorso novembre un doppio attentato a Gerusalemme in cui sono rimasti uccisi due israeliani. Israele oltre al carcere prevede anche la demolizione delle case dei palestinesi responsabili di attacchi e attentati, punendo in questo mondo anche i loro famigliari.
Le forze armate israeliane sono state affrontate in diversi quartieri di Ramallah da gruppi di decine di giovani palestinesi con lanci di pietre e bottiglie incendiarie. Il Ministero della Salute ha riferito di sei feriti portati negli ospedali della città, alcuni dei quali colpiti da proiettili veri. I palestinesi denunciano attacchi di soldati israeliani ai giornalisti che stavano seguendo gli scontri. Un reporter, colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno, è stato portato all’ospedale.
Le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese sono rimaste nelle loro caserme e non sono intervenute. Pagine Esteri
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PRIVACYDAILY
La pace, le lotte, la sinistra e la destra, in Italia e in Europa
Transform! Europa, fondazione politica del Partito della Sinistra Europea (https://www.transform-network.net), svolge il proprio incontro/seminario periodicoRifondazione Comunista
Piero Bosio
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Informa Pirata
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Informa Pirata
Unknown parent • •@Giorgio Donadini :unverified: in realtà è proprio il contrario: il mondo anglosassone è MOLTO più sensibile alla privacy di quando non lo siamo noi europei. Il diritto alla privacy è quello su cui si è basata la famosa sentenza Roe v. Wade che stabiliva il diritto all'aborto come diretta conseguenza del diritto alla privacy (= autodeterminazione della sfera privata). E il ribaltamento di quella sentenza da parte della Corte Suprema del 2022 è stato motivato proprio sulla base del fatto che, a differenza di quanto sostenuto nel 1973, la Costituzione degli Stati Uniti non contemplava il diritto alla privacy come diritto costituzionale.
In Europa i diritti civili e umani non sono mai stati capiti fino in fondo perché abbiamo sempre goduto di diritti sociali che includevano anche i diritti civili e umani. E oggi che in EUropa i diritti sociali sono sotto attacco, ecco che ci manca la cultura diffusa del valore dei diritti civili e sociali
@Piero Bosio