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TeleSign profila segretamente metà degli utenti di telefonia mobile del mondo TeleSign genera un "punteggio di reputazione" e lo vende a vari clienti. TeleSign ha ricevuto segretamente i dati dei telefoni cellulari da BICS, una società belga che fornisce servizi di interconnessione. telesign bics interconnection


noyb.eu/it/telesign-profiles-h…



La società di pubblicità CRITEO multata per 40 milioni di euro La CNIL ha inflitto un'ammenda di 40 milioni di euro a CRITEO, la più grande società di pubblicità e tracciamento online in Europa, sulla base delle denunce presentate da noyb e Privacy International. criteo


noyb.eu/it/advertising-company…



Nato globale. La sfida dell’alleanza post-Vilnius secondo Jean


L’annuale Summit Nato di Vilnius si è concluso quasi come da copione, cioè senza particolari decisioni o, se si vuole, con un successo simile al precedente vertice di Madrid del 2022. Le decisioni erano state prese in anticipo. Sicuramente anche con la “s

L’annuale Summit Nato di Vilnius si è concluso quasi come da copione, cioè senza particolari decisioni o, se si vuole, con un successo simile al precedente vertice di Madrid del 2022. Le decisioni erano state prese in anticipo. Sicuramente anche con la “svolta” di Erdogan sull’entrata della Svezia nell’Alleanza. Il “furbo” venditore di tappeti l’aveva anticipata, consegnando a Zelensky cinque dei capi militari ucraini della Azov. Aveva promesso a Putin di trattenerli in Turchia, ma ha dimostrato di essere consapevole dell’indebolimento del padrone o ex-padrone del Cremlino e dell’esigenza di andare d’accordo con l’Occidente, date le disperate condizioni dell’economia turca.

Tutti si sono allineati con entusiasmo, più o meno sincero, agli orientamenti espressi dagli Usa prima della riunione. In particolare, l’Alleanza Transatlantica ha confermato il mutamento dalla formula “Russia out; America in; Germany down” a quella “Russia out; China away; Nato together”, nuova formulazione dell’”America in” data la necessità, almeno secondo Biden, di “blindare i legami transatlantici dalle possibili “stranezze” isolazioniste di una presidenza Trump. L’allargamento dell’Alleanza all’Indo-Pacifico – in pratica la trasformazione dell’Alleanza da regionale in globale – rappresenta una vittoria di Baker, contrario all’inizio degli anni ’90 al mantenimento della Nato perché troppo costoso rispetto ai vantaggi che ne traevano gli Usa (anche una di Cheney che proponeva di mantenerla solo se diveniva globale). Tale trasformazione, decisa a Madrid, a Vilnius è rimasta nel vago, non tanto per le perplessità della Francia, che ne teme un’ulteriore marginalizzazione, quanto perché riguarda aspetti come trasferimento di tecnologie critiche, commercio e investimenti che riguardano non la Nato, ma l’Ue e gli Usa.

Parimenti nel vago sono rimasti l’aumento dell’interesse dell’alleanza all’Artico e al Fianco Sud. Per entrambi nonostante i ponderosi studi del Saceur – gen. Chris Cavoli – non vi è convergenza di interessi, quindi di obiettivi e di strategie, fra i membri dell’Alleanza. Si rimane, quindi, nel generico delle dichiarazioni di principio, rivolte non tanto all’Alleanza, quanto alla propria opinione pubblica. Anche le ripetute insistenze italiane per il Fianco Sud – Mediterraneo allargato – Africa Subsahariana sono state tali, come le promesse di elevare i bilanci militari europei al 2% del Pil.

Il Summit è stato animato – almeno per i media – dalle proteste di Zelensky per la mancata approvazione di un preciso programma d’accesso del suo paese nelle Nato. Nessuno ci ha fatto particolarmente caso, anche perché l’interessato lo sapeva benissimo. I toni usati erano chiaramente rivolti all’opinione pubblica ucraina. Tali sono stati anche i “richiami all’ordine” della delegazione Usa. Hanno avuto un effetto immediato. Zelensky ha subito cambiato di tono. Alle proteste sono subentrati i ringraziamenti per il sostegno ottenuto e per quello promesso, in pratica un “contentino” per non farlo tornare a casa con le mani vuote. Era in posizione di debolezza, dato che la controffensiva non sta procedendo con il ritmo sperato, creando difficoltà a vari governi che sostengono Kiev rispetto alle loro opinioni pubbliche.

Da segnalare è il fatto che al vertice aleggiava nell’aria la conclusione a cui era giunto a Kiev il Capo della Cia, che cioè un negoziato con la Russia si dovrebbe iniziare anche senza il preventivo ritiro di Mosca dalla Crimea, argomento finora tabù per Zelensky. Egli ha sinora subordinato l’inizio di un negoziato di pace al completo ritiro russo da tutti i territori che erano ucraini all’atto dell’indipendenza nel 1991.

La modifica principale in corso nell’Alleanza rimane comunque la sua trasformazione strisciante da regionale a globale. Le opinioni pubbliche europee non ne sono consapevoli. L’interesse dell’Europa per l’Indo-Pacifico si traduce per esse in qualche più o meno folcloristica crociera nell’Oriente misterioso. Taluni vi si oppongono in nome di un alquanto misteriosa autonomia strategica dell’Europa, che non riesce a elaborare una politica e una strategia comune neppure per l’Africa. A nessuno viene in mente che l’Ue potrebbe provvedere alla propria sicurezza – senza l’apporto determinante degli Usa – solo dotandosi di un arsenale nucleare proprio e della capacità politica di deciderne l’utilizzo per la dissuasione e se necessario per l’impiego. Fino a quando tali premesse non verranno realizzate non vi è alternativa alla Nato e, data l’interdipendenza esistente al mondo, a una Nato globale e non solo regionale e a un sostegno agli Usa nel loro confronto con la Cina.

Occorrerebbe un dibattito approfondito come quello svoltosi negli Usa dopo la “caduta del muro”. Allora si scontrarono le due tendenze contrapposte dell’allargamento a Est dell’Alleanza e del progetto d’integrazione di Mosca in Europa (generosamente finanziata dalla Germania e dagli Usa e anche dall’Italia), sostenuta da studiosi – a parer mio alquanto idealisti se non fuori dalla realtà – come Kennan (che peraltro era stato contrario al containment militare – e non solo economico e culturale – dell’Occidente all’Urss. È una contrapposizione tuttora viva anche nelle discussioni sulle cause del ritorno della Mosca di Putin alle fantasie imperialiste che hanno giustificato l’aggressione di Putin all’Ucraina. L’argomento tornerà centrale qualora, con la vittoria di Trump alle presidenziali del prossimo anno, dovessero prevalere negli Usa le tentazioni isolazioniste.


formiche.net/2023/07/conclusio…



PALESTINA. Mohammed Bakri: «Possibile Jenin Jenin 2»


Non si sbilancia il regista del film «Jenin Jenin» sulla devastante operazione israeliana del 2002 nel campo profughi città palestinese. Le indiscrezioni dicono che Bakri sia pronto a girare un seguito dopo l'invasione di Jenin a inizio mese. L'articolo

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di Michele Giorgio

(questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto)

Pagine Esteri, 17 luglio 2023Mohammed Bakri a Jenin è tornato varie volte dopo il 2002, l’anno in cui girò il documentario «Jenin Jenin» sulla distruzione di metà del campo profughi da parte dell’esercito israeliano durante l’operazione Muraglia di Difesa. Un film che al regista e attore palestinese, con cittadinanza israeliana, è costato un lungo scontro legale con i comandi militari, con serie conseguenze per il suo lavoro. «Speravo di non tornare mai più qui a Jenin per un’altra devastazione e per altre sofferenze…non è stato così purtroppo» dice Bakri al manifesto raccontando dei giorni che ha trascorso nel campo profughi dopo l’incursione del 4 e 5 luglio dei reparti speciali israeliani: 12 palestinesi e un soldato uccisi, oltre alla distruzione di strade e infrastrutture civili che il comune di Jenin ha calcolato in oltre 15 milioni di dollari. «La storia si ripete» commenta Bakri. «Gli abitanti, i civili inermi del campo profughi – aggiunge – pagano ancora una volta il conto più alto. Ho incontrato persone che stanno rivivendo lo stesso dramma dopo 21 anni. Oggi non ci sono le distruzioni immense del 2002 solo perché (i militari israeliani, ndr) sono rimasti nel campo 48 ore e non un mese». Il regista non si sbilancia, non conferma ma neppure smentisce l’indiscrezione che lo vuole pronto a girare «Jenin, Jenin 2». Bakri, infine, spende qualche parola per il presidente dell’Anp Abu Mazen che ieri ha visitato Jenin. «Molti (palestinesi) lo attaccano – afferma – tanti altri gli rivolgono accuse gravi, ma cosa può fare Abu Mazen per fermare Israele?». Tanti palestinesi replicano che il presidente può mostrarsi più vicino alla sua gente, adottare posizioni chiare e attuare, non solo minacciare, la fine della cooperazione di sicurezza con Israele.

In questo contesto non piò passare inosservato che l’88enne presidente palestinese nei giorni scorsi sia tornato a Jenin, che dista da Ramallah poche decine di chilometri, dopo ben 18 anni. Già questo dato da solo rappresenta un indizio per comprendere perché la popolazione di questa città, roccaforte con il suo campo profughi della militanza armata palestinese, guardi all’Autorità nazionale palestinese come una entità inutile se non addirittura ostile e complice dell’occupazione militare israeliana. Il 5 luglio Mahmoud Al Aoul, il vice di Abu Mazen alla guida del partito Fatah, è stato cacciato via da Jenin dalla folla inferocita mentre da un palco esprimeva solidarietà alle vittime dell’incursione israeliana. «Il campo profughi di Jenin è un simbolo di lotta, di fermezza e di sfida nel mondo intero» ha proclamato Abu Mazen dopo il suo arrivo rivolgendosi agli abitanti della città e del campo profughi. Al suo fianco c’erano il primo ministro, Mohammed Shtayyeh, il ministro dell’Interno, Ziyad Hab al Rih, e il governatore di Jenin Akram Rajoub. «Il popolo palestinese è unito e non lascerà mai la sua terra» ha aggiunto il presidente dell’Anp, assicurando che «la ricostruzione inizierà immediatamente e sarà rapida. Jenin diventerà migliore di quanto fosse in precedenza e con l’unità nazionale e la sicurezza costruiremo la nostra patria». Infine, ha deposto una corona di fiori al nuovo cimitero dei martiri nel campo profughi e ha recitato la Fatiha del Corano in memoria delle vittime dell’operazione israeliana, ricordandone «il ruolo nel cammino di liberazione della patria».

La visita di Abu Mazen riuscirà ad invertire la tendenza che vuole l’Anp, almeno nei sondaggi, in caduta libera nel gradimento dei palestinesi? Difficile crederlo. In ogni caso il controllo dell’Anp a Jenin al momento è pura fiction. La popolazione accusa le forze di sicurezza dell’Anp di non aver protetto i palestinesi la scorsa settimana, di essere rimaste nelle loro basi durante il raid e di non aver tentato in alcun modo di fronteggiare le truppe israeliane. L’Anp ieri è stata denunciata di nuovo per la repressione dei membri dei movimenti islamici Hamas e Jihad islami in Cisgiordania. Una linea del pugno di ferro che ha rischiato di far saltare, l’incontro al Cairo dei leader di tutte le fazioni palestinesi per un ennesimo tentativo di riconciliazione nazionale. Pagine Esteri

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Yoon a sorpresa in Ucraina per promettere più aiuti. La strategia di Seul


Yoon a sorpresa in Ucraina per promettere più aiuti. La strategia di Seul 8307228
Il presidente sudcoreano, sotto pressione per inviare armi, incontra Zelensky. Cina e Russia avviano manovre navali congiunte nel mar del Giappone

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In Cina e Asia – Il Pil cinese rallenta allo 0,8%


In Cina e Asia – Il Pil cinese rallenta allo 0,8% export
I titoli di oggi:

Il Pil cinese rallenta allo 0,8%
Aspettando il viaggio in Cina, Borrell incontra Wang Yi a Giacarta
CPTPP: ci vuole tempo per valutare la domanda di adesione della Cina
Il Papa approva nuovo vescovo di Shanghai
Esercitazione aeronavale sino-russa nel Mar del Giappone
Modi negli Emirati: accordo sulle transazioni nelle valute locali. E Yellen torna in India

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PRIVACYDAILY


N. 136/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: La Commissione europea ha annunciato un accordo con gli Stati Uniti per facilitare il trasferimento legale dei dati personali attraverso l’Atlantico. Gli attivisti per la privacy hanno promesso di impugnare l’accordo in tribunale. Il presidente Joe Biden e i funzionari dell’UE hanno accolto con favore l’accordo, che ha... Continue reading →


Quando ci lasciano grandi personalità si tende a edulcorarne il ricordo e a nasconderne la radicalità della testimonianza. Non merita questo un uomo giusto c


Ted Kaczynski, the globalist élites, and you


Technology, total transparency and the loss of any ethnical, cultural or sexual feature of the concept of identity: the industrial revolution, its consequences and the globalist agenda.

Theodore Kaczynski, passed away in prison on June 10, 2023, at the age of 81. Despite his violent crimes, Ted was likely one of the few who truly understood the contemporary world and had the ability to describe it clearly in his manifesto: “The Industrial Society and its future."

Ted harbored a deep resentment for the "industrial revolution and its consequences", arguing that while technological advancements have extended life expectancy, they have also "destabilized society and made our lives hollow, unsatisfying, and demeaning."

According to Ted, one of the most glaring symptoms of rampant modern discomfort is what he, as early as 1992, referred to as "leftism". By this term, he didn't mean a specific leftist political trend, but a broader and fragmented phenomenon that refers to all new collectivist, anti-individualist, and politically correct ideologies.

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Indeed, where once Marxism and the left were synonymous with revolution against bourgeois institutions, today's "left" comprises various ideologies proliferating through woke, LGBTQI+, environmental activism, and so forth — funded by the same elite they once sought to battle.

We could say, using Ayn Rand's words, that the "leftists" carry a "tribal thinking" typically collectivist, which leads them to act and think in unison, even without any central planning.

Notice this ever-growing phenomenon: as soon as a catalyst event occurs, masses of people automatically conform to this or that mainstream thought. For instance, how many people do you know who suddenly decided to specify their pronouns on social media — as if they were searching for a lost identity?

The Lost Identity


I believe that the theme of identity is central in the collectivist phenomenon described by Ted and which surround us. To better understand, one might find insights in two vastly different works that share the theme of identity: J.D. Salinger's novel "Catcher in the Rye" and the Japanese anime "Ghost in the Shell: Stand Alone Complex".

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Neurotechnologies, transhumanism and mental privacy


Neuralink will soon start human trials. Research in neurotechnologies promise a transhuman revolution. But would it be a utopia or a dystopia?

Elon Musk is yet again talking about Neuralink, a research company engaged in the development of engineering solutions capable of interfacing with our brains and helping disabled people to regain motor and audio-visual functions. He says human trials will finally begin soon.

The technology developed by Neuralink (Link) is called brain-computer interface, and literally promises miracles, as can be read from the website:

We are designing the Link to connect to thousands of neurons in the brain, so that it may one day be able to record the activity of these neurons, process these signals in real time, and translate intended movements directly into the control of an external device. […] As users think about moving their arms or hands, we would decode those intentions, which would be sent over Bluetooth to the user’s computer.


For now, we’re flying low, so to speak. The Neuralink chip could in fact allow quadriplegic people to use a computer and related devices with their thoughts, without the need for external equipment. I admit that if I could write with my mind, it would help me too, a lot.

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However, Elon Musk is not the only one engaged in research in the field of neurotechnology. Start-ups are springing up all over the world with the aim of developing and marketing consumer products (therefore not medical devices) ready to interface with the human brain.

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A fistful of dollars


From seashells, to the gold standard, to paper and bits: money is the most important human technology - today corrupted and used as a weapon for surveillance and censorship.

Today we'll talk about a topic that might seem detached from what I usually talk about, but which is actually closely linked to the concept of privacy and freedom: money.

We all use it from an early age, so much and often that we forget its meaning. Yet money is the technology that shapes our society more than any other.

Unfortunately today it has been corrupted and increasingly exploited to monitor us and censor our thinking.

It is increasingly risky not to know the basics of this technology and how its characteristics shape human society. We are on the verge of a huge global upheaval at the basis of which lies precisely the concept of money and it is better to be prepared.

Want to understand what's wrong with the world and regain control of your life? Join the Privacy Chronicles newsletter and community and support our work!

From sea shells to paper


The earliest examples of shells and objects used as money date back more than 75,000 years in South Africa.

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Source: nakamotoinstitute.org/shelling-out/

From what we know, practically all human cultures, since prehistoric times, had the habit and interest of collecting artistic objects composed of sea shells, teeth and bones of various types, which were then used as jewels, necklaces or heirlooms to pass on to future generations.

But why did primitive men, perpetually in conditions of life danger and extreme scarcity of food, spend time collecting these things?

There are various psychological and evolutionary theories about it, but what interests us is that these objects very often also had a utilitarian function: the shells and bones of which they were made were used as a means of exchange within the tribes and between different tribes, as well as a method for maintaining the historical memory of "favors" and exchanges, in a time when man had not yet learned to write.

The shells were removed from the necklaces, to then be stitched back; each shell that was added to the chain of previous shells represented a successful transaction.

The system was efficient, because these objects could be worn to be sure not to lose them and could also be transported easily, thus facilitating transactions between different tribes.

But what gave them value? We could say that these objects derived their value from their relative scarcity: it took work and time to look for the sea shells, refine them and produce the necklaces, in a time when every hour spent not hunting increased the risk of not eating.

More than anything, however, these shells had value as a technology and were useful for decreasing the transaction costs that afflicted a system based on barter and lack of trust, in an age of extreme scarcity of resources, in which every tribe was a potential enemy. These heirlooms were also often used as payment to the strongest tribes, to avoid violent oppression. Basically, an ancestor of taxes.

Shells were gradually replaced by coins made from precious metals, such as gold and silver. Subsequently, it was the turn of paper bonds representative of precious metals, especially gold; this concept later came to be known as the “Gold Standard”.

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Source: 21lessons.com

The US dollar was born as a representative title of gold and silver, depending on the denomination. Until the end of the 1920s, dollars still bore the wording "silver/gold certificate". Unfortunately, the more the statism and centralization of the US government increased, the more this wording began to become smaller and smaller, until it disappeared completely - together with the wording "payable to the bearer on demand".

Over the years, the United States realized that they had printed and exported too many dollars: the Treasury's gold reserves were not sufficient to cover all the demand. Thus in 1971 Nixon unilaterally decided to put an end to the convertibility of dollars.1

Today we are experiencing an experiment never seen before in human history: we use a currency detached from any type of material resource, work and time, whose value is simply artificially imposed by law.

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The morality of money


Many today look at money as a necessary evil - the result of profit and capitalism, an economic system despised by many people as the apical expression of human selfishness, cruelty and exploitation of others2. But is it?

First of all: money is a technology made possible by peaceful and productive men who preferred free cooperation to violence. Money certainly don’t derive its value from the violent parasites who appropriate the work of others. The coins represent the intellectual strength of productive and peaceful people,and certainly not the brute force that characterizes the oppression of the strongest over the weakest.

Money has therefore an ethical value: it’s what allows the value of ideas and work to be exchanged between people. Basically, money has value because it allows the exchange of intellectual effort. Money - any money - has value only when it can be exchanged for the result of the work of others.

In the words of Ayn Rand:

Not an ocean of tears not all the guns in the world can transform those pieces of paper in your wallet into the bread you will need to survive tomorrow. Those pieces of paper, which should have been gold, are a token of honor - your claim upon the energy of the men who produce3.

The axiom is that every man possesses himself and the fruit of his own intellect and work.

Since the human intellect is the first and most important means of production, we could say that the first capitalist4 in human history was precisely the Homo Sapiens Sapiens, who thanks to his intellect invented money to exchange the resources he produced and increase the chances of peaceful survival in a hostile world. Monetary technology is the daughter and product of free market.

It is an indispensable tool for human survival. Human civilization is shaped by the characteristics of the currency we choose (or are forced) to use.

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The end of the Gold Standard


Money is not just a technology for free and ethical exchange between people. It is also the barometer of society. By looking at the its state and characteristics, we can evaluate the virtuosity and health of the society in which we live.

Again, in the words of Ayn Rand5:

"Whenever destroyers appear among men, they start by destroying money, for money is men's protection and the base of a moral existence. Destroyers seize gold and leave to its owners a counterfeit pile of paper. This kills all objective standards and delivers men into the arbitrary power of an arbitrary setter of values. Gold was an objective value, an equivalent of wealth produced.

Paper is a mortgage on wealth that does not exist, backed by a gun aimed at those who are expected to produce it. Paper is a check drawn by legal looters upon an account which is not theirs: upon the virtue of the victims. Watch for the day when it bounces, marked, 'Account overdrawn.'“

The destroyers arrived in 1971 with the exit from the Gold Standard, turning the currency into future debt, with no connection with the objective reality that surrounds us and with the natural laws of our world, such as the time and resources used to mine and forge gold.

The exit from the Gold Standard has disrupted the roots of the entire human civilization (WTF Happened in 1971), starting with time preferences. A real coin has a particular characteristic: it maintains its value over time. This allows people to accumulate wealth across generations, thus increasing well-being and the chances of survival.

As Federico Riviwrites in his “Bitcoin Train Summer Stop #4”, quoting Saifedean Ammous: “the lowering of time preference is what starts the process of human civilization and allows human beings to cooperate, prosper and live in peace”.

Conversely, a higher time preference (i.e. short-term) leads people to prefer immediate results, even to the detriment of their own future. The concept is not as trivial as it seems: time preferences shape our way of thinking.

The more the currency is devalued, increasing the quantity in circulation, the more people's time horizon is compressed.

A shorter time horizon generates instability, fear for the future, and in general a lack of freedom resulting from lower purchasing power. In the last 20 years the euro has lost more than 50% of its value; the dollar more than 68%. We could say, in this sense, that today we are 50% less free than 20 years ago, and that in 2022 we are, for now, 10% less free than in 2021.

Giving more importance to the immediate benefit means giving in to instincts, giving up reason, planning, cooperation in favor of violence. It means, in short, getting close to animals.

What matters, however, beyond the economic effect of the end of the Gold Standard, is the effect on the very nature of the currency, which since 1971 has been devoid of any anchorage to the physical and real world.

Money should objectively represent the value, morality and virtue of human society. A currency at the mercy of politics, without any anchorage to the real world, cannot represent any virtue or morality. Thus society is doomed to double standards, contradictions, relativism, and violence.

Money as a weapon


Money has long ceased to be an instrument through which men exchange value and virtue to become a weapon of which goverments and central banks hold an absolute monopoly.

The Cantillon effect and inflation are economic tools through which the elites who control the currency and are closest to the source expropriate wealth and time from the rest of the world and diminish our freedom6.

The next evolution of money, the Central Bank Digital Currencies, will be even worse. These native digital currencies will allow States to completely dominate the freedom of thought and the ability to act freely of every person on the face of the earth.

Central Bank Digital Currencies transform monetary technology into mass surveillance and control technology.

Since the currency is an indispensable tool for human survival, and since the characteristics of the currency determine human behavior and the characteristics of the society in which we live, it is possible to say that whoever controls this technology has the power to control the world.

For the first time in the world, social changes will not be an indirect consequence of the characteristics of the currency, but predictable and programmable within the currency itself. For example, Central Banks and governments could encourage or discourage certain human behaviors thanks to this new currency-software. We are already observing small incentives of this type, for example with regard to the monitoring of the "CO2 quotas of each electronic transaction".

Giving in to the CBDC future means submitting one's thoughts, privacy and freedom to the thought and violence of a few subjects who will have an almost divine power over our lives.

Back to sea shells?


The history of money is one of progressive centralization, violent monopolies and increasingly evident estrangement between the creators of money and the users.

During prehistoric times each tribe had the power to produce its own currency (shell necklaces). This made each tribe autonomous and not subject to the power of others. Between 1200 and 1500, a glorious period in Italian history, each city-state produced its own currency: Amalfi, Venice, Genoa, Florence. The direct control of the currency was probably one of the causes of their prosperity.

Today, our currencies are even more distant from us. In Europe, the Euro is managed by a Central Bank that responds solely to its own rules, with obscure monetary policies often subject to political interference that radically impact the entire continent.

Fortunately, for the first time in human history, we have the opportunity to separate ourselves from the violent monopoly of the state and central banks, which impose the use of a currency that is debt, to free us from the chains that today are called inflation and financial surveillance.

There is an alternative to the yoke of debt and future totalitarian surveillance of Central Bank Digital Currencies and it is called Bitcoin. A free, decentralized currency, not controllable by anyone but verifiable by anyone.

A currency linked to objective reality through computational work and the laws of physics (thermodynamics). A currency that cannot be artificially devalued by introducing additional units into the system. A currency that ontologically separates the individual from the State, through a peer-to-peer monetary system that does not require any intermediary, either for production or for its use.

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But above all, a currency that eliminates the transaction costs deriving from surveillance and state violence, which are increasingly evident and increasingly unsustainable. I am referring in particular to the numerous episodes of blocking of people's current accounts (and therefore their ability to survive) due to the nature of their transactions, their nationality or due to false positives by the automated surveillance and evaluation algorithms of banks.

Money is not evil and it is not the source of all evil. However, it could become so in the near future. It's up to us to choose which side we're on.

"Until and unless you discover that money is the root of all good, you ask for your own
destruction. When money ceases to be the tool by which men deal with one another, then men become the tools of men. Blood, whips and guns--or dollars Bitcoin. Take your choice--there is no other--and your time is running out."

Ayn Rand

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privacychronicles.it/p/a-fistf…



Il prossimo 17 e 18 luglio si terrà a Bruxelles un vertice dei capi di Stato e di governo della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (CELAC) e del


Un centinaio di attiviste/i dei Giovani Comunisti, Rifondazione, Pap e Unione Popolare hanno manifestato oggi davanti al Twiga, la concessione di Briatore e del


UNIONE POPOLARE: "Dal Twiga agli scavi di Pompei, dal Lago di Garda a Venezia, in tante località turistiche per un salario minimo di 10€ contro il lavoro pov


Non Invalsi più


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chiamare il verde pedonale a #Roma, e ricevere in cambio inutili cinguettii elettronici


Ho verificato, cronometro alla mano, che il pulsante di chiamata pedonale ai semafori romani serve (quasi) solo a innescare il cicalino per gli ipovedenti, non a chiamare il verde. Poi ci sono casi (rari) dove lo scopo invece è quello, e il pulsante invece è il medesimo.
Mi piacerebbe che la funzione del pulsante fosse specificata: con il miraggio di attraversare prima inneschiamo solo indesiderato inquinamento acustico.


la bocca piccola dei secchioni della spazzatura di #Roma


Mi chiedo chi abbia progettato le bocche dei secchioni della spazzatura più piccole di un sacchetto medio. Con quale ratio?
Non mi sorprende che la gente lasci tutto in terra invece di dover lottare spingendo faticosamente, e vedo vecchietti che si fanno venire un infarto sotto al sole nel civico tentativo di riuscire a fare la differenziata.
Chi vuole sbarazzarsi abusivamente dei calcinacci tranquillamente alza il coperchio.


PRIVACYDAILY


N. 135/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Immaginate che un team di scienziati abbia sviluppato un modello di apprendimento automatico in grado di prevedere se un paziente ha un cancro dalle immagini della scansione polmonare. Vogliono condividere questo modello con gli ospedali di tutto il mondo in modo che i medici possano iniziare a usarlo... Continue reading →


Taiwan Files – Elezioni 2024 e #MeToo, Usa-Cina, Paraguay, armi e studenti, diplomazia e chip


Taiwan Files – Elezioni 2024 e #MeToo, Usa-Cina, Paraguay, armi e studenti, diplomazia e chip 8276375
Estate taiwanese all'insegna della lunga corsa verso le presidenziali. Il terzo incomodo Ko Wen-je davanti al Guomindang, che ha dubbi su Hou Yu-ih. L'onda #MeToo colpisce il Dpp. La visita del presidente del Paraguay anticipa i prossimi sviluppi. Pechino e Washington tornano a parlarsi ma continuano a muoversi sullo Stretto. Novità sulle relazioni intrastretto, diplomazia, semiconduttori e ritardi in Arizona per Tsmc. E tanto altro. La rassegna settimanale di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)

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Domani parteciperò a un presidio davanti al Twiga nell'ambito della giornata nazionale di mobilitazione nelle località turistiche di Unione Popolare per la ra


#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta l’Istituto Tecnico Agrario “Solimene” di Lavello, in provincia di Potenza!

Costruita nel 1959, è la prima scuola secondaria di II grado del territorio ad aver dato ai ragazzi l’opportunità di studiare ne…



È stato raggiunto oggi presso l’ARAN l’accordo per il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) Comparto Istruzione, Università e Ricerca 2019/21.


MESsaggio dal capitale: “Tutto mio” | La Città Futura

"Gli Stati in crisi e che vi ricorrono, infatti, vengono sottoposti a vincoli finanziari pesanti e i pochi poteri residui in fatto di politica economica che le regole di Maastricht ancora consentono verrebbero espropriati dal capitale finanziario, il quale non solo imprimerebbe una nuova pressione ai diritti sociali ma impedirebbe anche di rispondere adeguatamente alla recessione che ormai interessa quasi tutta l’eurozona."

lacittafutura.it/editoriali/me…



L’Iran rispetti la libertà di opinione


In Italia la libertà di opinione è un diritto costituzionale. Con il presidente della commissione Politiche europee Giulio Terzi di Sant’Agata, ieri ho invitato la presidente del Consiglio nazionale per la resistenza iraniana in Fondazione Luigi Einaudi p

In Italia la libertà di opinione è un diritto costituzionale. Con il presidente della commissione Politiche europee Giulio Terzi di Sant’Agata, ieri ho invitato la presidente del Consiglio nazionale per la resistenza iraniana in Fondazione Luigi Einaudi per esprimere le proprie. A moderare l’incontro è stato il direttore di Formiche.net, Giorgio Rutelli.

Maryam Rajavi ci ha illustrato il proprio manifesto politico e l’ha fatto in forma di decalogo: suffragio universale, pluralismo, libertà di stampa, parità tra i sessi, separazione netta tra Stato e Chiesa, rispetto dei diritti umani, riconoscimento della proprietà privata, abolizione della pena di morte… I capisaldi dello Stato liberale di diritto sbandierati nella casa dei liberali italiani. Che Teheran ne abbia fatto un caso tanto da convocare l’ambasciatore italiano è una circostanza emblematica. Direi rivelatrice. Rivela il grado di fanatismo e di illiberalismo del regime iraniano. Ogni liberale dovrebbe sentirsi offeso.

Accogliendo Maryam Rajavi, ieri ho chiarito quale fosse la posizione della Fondazione: “Il nostro approccio è laico per definizione, noi non parteggiamo per nessuna delle tante organizzazioni della dissidenza iraniana. Noi stiamo dalla parte del popolo iraniano e crediamo che il conflitto tra gli oppositori del regime, veri o presunti che siano, rappresenti il miglior favore che si possa fare alla teocrazia di Teheran”. Il conflitto, in effetti, c’è. Ed è un conflitto violento. In molti non credono alla conversione democratica dei mujahidin della signora Rajavi, in molti ne ricordano il fanatismo e le violenze ai tempi di Komeini e dopo. Ogni dubbio è legittimo. Resta il fatto che quando la Fondazione Luigi Einaudi ha ospitato i rappresentanti di altre organizzazioni non abbiamo avuto reazioni. Ieri la reazione di Teheran è stata esorbitante. Quanto all’accusa di “terrorismo”, è il modo con cui tutte le autocrazie e tutti gli Stati invasori liquidano il dissenso. Capitò anche al nostro Giuseppe Mazzini.

Con spirito einaudiano, non facciamo processi alle intenzioni. Crediamo nel valore della parola, e le parole spese da Maryam Rajavi sono tutte condivisibili. Sono talmente condivisibili che 307 parlamentari italiani hanno firmato il suo appello per un Iran libero e democratico. Delle due, dunque, l’una: la Rajavi è il Diavolo e ci sta ingannando tutti, oppure il Diavolo sta ispirando gli animi di quanti oggi contestano i mujahidin. Una cosa, invece, è certa. Il conflitto tra le organizzazioni del dissenso, conflitto di cui è responsabile anche l’organizzazione della signora Rajavi, fa il gioco non del popolo, ma del regime iraniano.

Formiche

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Ucraina e Indo Pacifico. Le scelte giuste della Nato secondo Calovini


Ucraina e indopacifico: sono questi i due macro temi che scaturiscono al termine del vertice Nato di Vilnius e che testimoniano come la politica internazionale a quelle latitudini sia di primaria rilevanza per le future strategie dell’alleanza. Al vertice

Ucraina e indopacifico: sono questi i due macro temi che scaturiscono al termine del vertice Nato di Vilnius e che testimoniano come la politica internazionale a quelle latitudini sia di primaria rilevanza per le future strategie dell’alleanza.

Al vertice di Vilnius è passata la linea prudente, fortemente voluta da Washington, circa l’ingresso di Kiev nell’alleanza. Significa che, al di là della delusione espressa da Volodymyr Zelensky, l’impostazione degli Stati Uniti è certamente quella che presenta il maggior equilibrio in termini di peso specifico. Il motivo? L’adesione in questo preciso momento dell’Ucraina nella Nato sarebbe stata letta come un vero e proprio azzardo in un frangente estremamente delicato che invece è meritevole di decisioni ragionate e non dettate dalla fretta.

Il vertice dell’alleanza era fisiologicamente focalizzato sulla guerra in Ucraina che, da più di 500 giorni, ha rimesso in discussone ogni equilibrio geopolitico nel vecchio continente, con una serie di altri effetti a catena.

Kiev può comunque ritenersi soddisfatta, dal momento che incassa un dividendo preciso: il supporto alla causa ucraina di tutti i membri dell’alleanza è oggettivo e sincero. Per cui, al di là di qualche fisiologico distinguo, non vi è Governo occidentale che non aiuti Kiev in modo concreto sia sotto l’aspetto politico che sotto l’aspetto militare. Lo dimostra il modus con cui le richieste del Presidente Zelensky sono state esaudite.

In linea generale a Vilnius si è verificato un cambiamento sostanziale rispetto al passato, confermato da tre elementi che meritano di essere evidenziati in questo bilancio post vertice. In primo luogo, seguendo la traccia già impressa a Madrid, al centro del vertice è stata posta la politica internazionale, come da anni non accadeva. Lontani i tempi in cui autorevoli presidenti definivano l’alleanza “obsoleta” (Donald Trump 2017) o “cerebralmente morta” (Emmanuel Macron 2019). Di certo avremmo preferito non dover testare la reazione dell’alleanza dinanzi all’invasione russa ma la compattezza dimostrata è stata notevole e la necessità di un’alleanza militare efficiente e preparata di cui far parte è sotto gli occhi di tutti.

Inoltre l’ambizione di un’Europa potenza militare autonoma sembra aver mostrato le proprie fragilità di fronte alla dura realtà della guerra ed è destinata (per ora?) a rimanere tale. L’Europa – e l’Italia – non possono prescindere dall’altra sponda dell’Atlantico per la propria sicurezza.

In secondo luogo, oltre alla presenza della Svezia prossima all’ingresso nella Nato, al pari della Finlandia, a Vilnius sono stati presenti altri paesi alleati: Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud. Si tratta di un’interessante novità che offre la risposta geopolitica alle nuove sfide che da quelle latitudini si stanno manifestando. L’indo Pacifico è uno scenario di politica internazionale di primo piano che non può essere più tenuto in disparte e che, invece, merita una sempre maggiore attenzione da parte della Nato e dell’occidente.

E’inoltre un dovere programmatico e politico intensificare il dialogo con quei paesi che, come noi, osservano con attenzione, e forse un po’ preoccupazione, la crescita di Pechino non più come forza economica ma soprattutto come potenza militare e nucleare. L’Italia pur non potendo operare un ribilanciamento massiccio verso l’Indo-Pacifico e pur raccomandando che l’Alleanza mantenga un baricentro euro-atlantico (come dimostrato dalla guerra in Ucraina), riconosce che il mondo sta diventando sempre più a trazione asiatica

Infine il terzo elemento che attiene il peso specifico italiano: al di là delle singole e legittime opinioni, va riconosciuto al Governo Meloni di aver effettuato un altro passo significativo nell’ambito della politica internazionale e che ha portato il nostro paese ad essere al centro dello scenario come non avveniva da tempo. L’attivismo del Presidente del Consiglio

in ambito europeo e globale ha avuto come effetto primario quello di ridare autorevolezza all’Italia, smentendo con i fatti chi adombrava lo spettro di un esecutivo inesperto o inaffidabile nelle relazioni internazionali. Non solo la netta vicinanza di Roma a Kiev, ma anche la contingenza di un governo stabile e in grado di interloquire con alleati e altri partners internazionali: ciò aumenta la consapevolezza di una svolta vera per il nostro paese.

Diceva Churchill che non c’è nulla di sbagliato nel cambiamento se è nella giusta direzione. In questo caso credo che l’Alleanza atlantica abbia, con coraggio, fatto la scelta giusta.


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Al Consiglio supremo di Difesa, il governo fa il punto su Vilnius


Dall’Ucraina al Mediterraneo allargato, passando per il vertice Nato di Vilnius e lo stato di approntamento delle Forze armate italiane. Sono stati questi i temi al centro del Consiglio supremo di Difesa, presieduto al Quirinale dal Presidente della Repub

Dall’Ucraina al Mediterraneo allargato, passando per il vertice Nato di Vilnius e lo stato di approntamento delle Forze armate italiane. Sono stati questi i temi al centro del Consiglio supremo di Difesa, presieduto al Quirinale dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e che ha riunito oltre al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, anche i ministri degli Esteri, Antonio Tajani; della Difesa, Guido Crosetto; dell’Economia, Giancarlo Giorgetti; delle Imprese, Adolfo Urso; insieme al capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone. In particolare, il presidente Meloni ha illustrato gli esiti del summit atlantico, e soprattutto ha presentato l’iniziativa del governo italiano nel corso dell’incontro lituano nel richiamare l’attenzione dell’Alleanza verso il fianco sud. A margine del Consiglio, inoltre, il presidente Mattarella e il premier Meloni hanno avuto un colloquio di circa un’ora, durante il quale il presidente del Consiglio ha presentato i dossier attualmente in agenda per il governo.

Mediterraneo, cono di interesse della Nato

Come si legge nella nota rilasciata dal Quirinale, “senza il consolidamento politico, sociale ed economico” del continente africano “non è infatti possibile garantire la sicurezza dei Paesi membri dell’Unione europea, che a loro volta sono parte fondamentale dell’Alleanza atlantica”. Da Consiglio è emersa ulteriormente la condizione del Mediterraneo allargato quale oggetto di “speciale attenzione”, in considerazione della sua rilevanza strategica e del suo potenziale quale crocevia di instabilità capace di interessare diverse regioni contemporaneamente. Nel corso del vertice a Vilnius, del resto, la premier aveva definito proprio le acque del Mare nostrum come un “cono di interesse” per la Nato del prossimo futuro.

Presenza internazionale

Tra i temi discussi anche le diverse aree di crisi nelle quali l’Italia è presente con le sue Forze armate. Dallo scoppio della guerra in Ucraina, i militari italiani sono presenti in un arco che parte dai Paesi baltici per arrivare fino al Sahel, passando per i Balcani e il Medio Oriente. Un’area la cui estensione è, per il Paese, seconda solo a quella dell’ultima Guerra mondiale. Uno sforzo non secondario, che assicura la posizione del Paese nel mutato scenario globale, sempre più complesso e fragilizzato dall’aggressione Russa. A riguardo, il Consiglio di Difesa ha ribadito ulteriormente il sostegno a Kiev, basato sull’aderenza italiana ai valori della libertà, dell’integrità territoriale e l’indipendenza degli Stati, “valori fondanti dell’Unione europea e condizioni essenziali per l’ordine internazionale e la convivenza pacifica dei popoli”.

Lo strumento militare

Questo impegno avrà bisogno di uno strumento militare efficiente e moderno. Per questo il Consiglio ha approfondito il tema della necessità di dotarsi di una politica industriale nazionale per il settore della Difesa, al fine di “assicurare adeguata prontezza e capacità” alle Forze armate, assicurandogli “livelli di efficienza e capacità d’impiego adeguati e sostenibili nel tempo”. Il ministro Crosetto ha illustrato i principi che guideranno la riorganizzazione del dicastero, con finanziamenti adeguati. L’obiettivo è rendere l’organizzazione, in linea con i requisiti Nato, sempre più interforze, capace di “operare su tutti i domini, compresi i nuovi ambiti, quali lo spazio esterno, quello cognitivo e quello subacqueo”.


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Come Rifondazione Comunista parteciperemo attivamente all’organizzazione delle tre giornate di mobilitazione per il salario minimo promosse da Unione Popolare


La Nato può fare di più. Il punto del generale Tricarico su Vilnius


La soddisfazione e l’ottimismo con cui il summit di Vilnius è stato consegnato alla cronaca (qualcuno ha detto alla Storia) paiono francamente eccessivi e in parte fuori luogo, se si valuta la questione da una prospettiva meno condizionata dagli eventi in

La soddisfazione e l’ottimismo con cui il summit di Vilnius è stato consegnato alla cronaca (qualcuno ha detto alla Storia) paiono francamente eccessivi e in parte fuori luogo, se si valuta la questione da una prospettiva meno condizionata dagli eventi in corso nel centro Europa che -ricordiamolo – dovrebbero riguardare solo in maniera marginale l’Alleanza.

Semmai la Nato è parsa aver smarrito, oltre al senso della sua missione, anche quello della sua identità. Con Vilnius in altre parole essa è parsa stabilmente incamminata verso un mutamento genetico le cui prime avvisaglie erano ormai evidenti ed inequivocabili.

Come valutare altrimenti il fatto che, scorrendo il lungo comunicato finale, non si ravvisi il pur minimo accenno alla necessità di fermare, con un negoziato, il conflitto russo-ucraino, di “impegnarsi, come stabilito dallo Statuto delle Nazioni unite a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte”?

Questo impone la principale ragion d’essere dell’Alleanza, quella fissata in tutta la sua ineludibilità nell’Art. 1 del patto sottoscritto nel 1949. Invece il tema è stato solo sfiorato, anzi eluso, come lascia intendere il punto 9 del comunicato finale laddove si afferma, senza che se ne dia l’evidenza (e tantomeno la prova) che “mentre noi abbiamo sollecitato la Russia ad avviare un negoziato credibile con l’Ucraina, essa non ha mostrato alcuna genuina apertura per una pace giusta e duratura”.

Altra questione, tutt’altro che onorevole, i cui contorni sono ancora incerti, quella del prezzo pagato alla Turchia per il suo assenso all’ingresso della Svezia nell’alleanza.

Ciò che rimane ancora nebuloso è se il presidente turco intenda ancora mantenere la perentorietà del primo momento, ben esplicitata nel Memorandum siglato a fine giugno a Madrid con Svezia e Finlandia, nel richiedere l’estradizione di cittadini turchi, bollati come terroristi da Erdogan ma con tutta probabilità e in larga parte, soggetti dissidenti riparati all’estero, dello stesso tipo tanto per intenderci, di quelli gettati in carcere in Turchia, senza risparmio e senza riguardo, negli ultimi anni.

O se invece, come è parso di capire, la Turchia sarebbe disposta ad accontentarsi della generica rassicurazione della Svezia affinché venga esercitato un controllo più accurato sui comportamenti dei cittadini turchi in territorio svedese.

E anche qui, come valutare se non come bieco il comportamento di una Alleanza, fondata su democrazia, libertà e rispetto dei diritti, quando accetta una clausola liberticida pretesa da un Paese membro e chiude ambedue gli occhi di fronte alla consegna nelle mani di un tiranno di cittadini colpevoli solo di esercitare la libertà di pensiero?

Un terzo punto infine dovrebbe dissuadere, anche e soprattutto noi italiani, dal cantare vittoria al rientro da Vilnius.

Il presumibile e ampiamente previsto mantenimento di una attenzione isterica, e ora maggiormente immotivata, al fianco est dell’Alleanza declasserà ulteriormente la priorità, a lungo rivendicata, di un occhio più attento a ciò che da anni succede dalle nostre parti, nel continente africano e in medio oriente.

Sembra che non si sia considerato che la Russia, per tempi piuttosto lunghi, non costituirà minaccia militare per alcuno e tantomeno per la Nato, anche se Putin volesse insistere nelle sue mire imperiali.

Il suo esercito, ampiamente sopravalutato (anche dagli esperti), sottodimensionato nell’uso di sistemi ad alta tecnologia, sprovvisto di una dottrina di impiego moderna, logoro nel morale, nella leadership e nella disponibilità di mezzi ed armamento, morso senza pausa dalle sanzioni, dovrebbe far dormire sonni tranquilli all’Occidente per almeno i prossimi trenta anni, e solo nell’ipotesi che Putin avvii senza indugio un processo di ripensamento radicale e di riedificazione ex novo del suo strumento miliare.

Se così stanno le cose, perché continuare a partorire, nella migliore delle ipotesi, solo topolini in risposta alle legittime preoccupazioni dei Paesi del sud, e continuare a esorcizzare le comprensibili ma immotivate paure dei Paesi del nord?

Purtroppo, i rischi da sud non sono mai stati sufficientemente approfonditi a un tavolo di concertazione vera; nei comunicati finali dei vari summit, le considerazioni generiche sull’argomento ormai stucchevoli, vengono sistematicamente riciclate senza che si faccia una rassegna seria e complessiva del vasto e variegato panorama africano e mediorientale.

Qualcuno qui da noi è arrivato ad irridere Giorgia Meloni nell’assunto – falso – che il sud dell’Alleanza fosse stato da noi evocato solo in relazione alle migrazioni, ma così non è stato. Più di noi potrebbe argomentare la Francia, costretta a ritirarsi dal Mali dove si era imbarcata in una avventura azzardata senza che i suoi appelli a costruire insieme una forza militare degna di questo nome venisse raccolta da altri Paesi.

E il Mali in qualche maniera, con le dovuta differenze da altri Paesi africani, esprime il modello di una struttura statuale fragile, incapace di provvedere alla propria sicurezza avverso i pericoli di una criminalità dilagante, primo tra tutti il terrorismo mai sopito ma soggetto a una continua regolare espansione e radicamento.

Perché lasciare il Mali e altri in balia di chi, come Wagner ad esempio, o come Egitto, Turchia o altri, interpretano l’eventuale supporto alle istituzioni in pericolo solo in funzione del proprio tornaconto? Tornaconto raramente sovrapponibile allo sradicamento dei fenomeni criminali, talché il Paese assistito possa edificare in tutta sicurezza il proprio futuro.

Tra l’altro, oltre ai gruppi terroristici conosciuti, proprio negli ultimi dieci, quindici anni, quando il sentire comune percepiva come sonnolento il fenomeno criminale e la Nato ripeteva come un disco rotto le sue vaghe promesse, sono nati numerosi gruppi, tutti filiazione dei ceppi principali di Al Qaeda e Isis, che non hanno risparmiato nessun Paese africano, in maniera tanto più insidiosa quanto più fragile era la struttura statuale in cui insistevano.

Questo allora ci si aspetterebbe dalla Nato, che davvero volesse considerare il terrorismo nella sua reale dimensione ed insidiosità. E questo è uno dei motivi per cui alle preoccupazioni vere, non a quelle antirusse, ancora una volta a Vilnius non è stata in grado di dare risposta.

Ovviamente i novanta punti del comunicato finale del summit lituano fornirebbero altrettanti spunti di riflessione, soprattutto se si volesse mettere a punto in prospettiva una Strategic compass, magari destinata a maggiori fortune rispetto a quella elaborata dall’Unione europea. E tuttavia le tre questioni evocate forniscono, da sole e in maniera evidente, la percezione certa della necessità di un cambio radicale di passo atto a rafforzare la Nato, atto a far sì che la Nato resti o torni ad essere quello che è, uno strumento insostituibile per garantire pace, sicurezza e libertà.


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Minorenni


Parliamo dei minorenni abbandonati o che la giustizia ha ritenuto di sottrarre alle famiglie. La delicatezza contabile e istituzionale non toglie nulla a quella umana. Quindi cominciamo col dire che qualsiasi minore sia stato abbandonato o debba essere al

Parliamo dei minorenni abbandonati o che la giustizia ha ritenuto di sottrarre alle famiglie. La delicatezza contabile e istituzionale non toglie nulla a quella umana. Quindi cominciamo col dire che qualsiasi minore sia stato abbandonato o debba essere allontanato da familiari che siano per lui un pericolo, dev’essere sostenuto e protetto al meglio e a cura della spesa pubblica. Quale che sia la provenienza del ragazzino. Solleviamo il problema perché non ci sembra si faccia nel necessario migliore dei modi e perché i conti non tornano.

Quel che pochi sanno è che il costo di questi sostegni ricade sui Comuni di residenza. Sono anni che il sindaco di Sant’Angelo Lomellina, Matteo Grossi, prova a richiamare l’attenzione su questa assurdità. Ma la politica mostra d’essere poco interessata. Quasi che quella spesa incontrollata sia un bene in sé. La cosa aveva un senso, forse, nell’era dei viaggi in carrozza: la popolazione era stanziale e la municipalità conosce meglio di altri i guasti e i fasti del proprio borgo. Ma oggi ci si sposta, si arriva dall’estero, si vive dove neanche si è conosciuti, talché la municipalità ne sa quanto la nazionalità, ovvero poco e niente. In compenso mettere sul conto dei Comuni il pagamento delle rette, relative al mantenimento, non ha alcun senso e rischia di schiantare bilanci assai gracili.

Il che ci porta alla questione dei soldi: per due casi di questo tipo il Comune di Sant’Angelo spende 60.363 euro l’anno, ricevendo indietro dalla Regione Lombardia un terzo della spesa; la stessa Regione, come si può leggere nel suo sito, calcola in 100 euro la retta quotidiana media da pagare. Significa che alla spesa pubblica un minore costa mediamente 36.500 euro all’anno. E qui c’è un primo problema, perché quella cifra è superiore alla dichiarazione dei redditi della gran parte delle famiglie italiane, che oltre ai figli mantengono anche i genitori.

Nel 2022 i minori da ospitare e mantenere in Lombardia erano 3.250. La sola Milano ne ha attualmente in carico 1.300, il doppio dell’anno scorso. E sono stati destinati a 866 “comunità”, che incassano le rette e si trovano anche in altre Regioni, perché il problema è nazionale. Se quei minori fossero stati ospitati per l’intero anno, significherebbe che ogni “comunità” ospita 3,7 ragazzi. Conosco famiglie che hanno un numero più alto di bambini in affido. Ma anche a considerare permanenze inferiori, anche a raddoppiare la media degli ospiti, è evidente che non stiamo parlando di istituti specializzati e attrezzati, con ben maggiore capienza. Il che, forse (e voglio sperare), spiega l’alto costo unitario.

Sempre Regione Lombardia ha stabilito un maggiore stanziamento – pari a 1 milione – per compensare i Comuni che non reggono la spesa. Dividendo quella cifra per i giorni dell’anno e i bambini da accudire, ne deriva per i Comuni un incasso pari a 84 centesimi al giorno, che vanno a cumularsi al terzo già coperto. Quindi spendono 100 e ricevono 34. Non ha senso.

Siccome quel che più è importante sono i bambini, le cose da farsi – qui, ora, subito – sono: a. centralizzare l’intera questione; b. predisporre istituti appositi, con personale adeguatamente preparato; c. controllarli a cura di soggetti indipendenti dagli stessi istituti, il che è impossibile se le “comunità” si contano a migliaia; d. in questo modo fornendo tutto il possibile sostegno ai minorenni e abbattendo i costi unitari con economie di scala (a cominciare dall’alloggio e dal vitto).

Non voglio neanche prendere in considerazione l’ipotesi che quel fiume di spesa, cui i Comuni sono costretti e sul quale non hanno il benché minimo controllo, sia destinato ad assistere più gli assistenti che gli assistiti. Sarebbe orribile. Ma un sistema tanto disfunzionale non è in grado di dare quel che è necessario. Ancora una volta, l’aspetto contabile si rivela quindi il faro più efficace per seguire il sentiero dell’umanità e abbandonare il vicolo cieco dell’ipocrisia.

La Ragione

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La Thailandia non ha ancora un primo ministro: Pita ha bisogno di 50 voti


La Thailandia non ha ancora un primo ministro: Pita ha bisogno di 50 voti Thailandia
Come previsto, il leader del Move Forward Pita Limjaroenrat non è riuscito a ottenere abbastanza voti dai senatori per essere nominato primo ministro. Per la Thailandia inizia una fase di grande incertezza politica.

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In Cina e Asia – Blinken incontra Wang Yi a Giacarta per tenere aperto il dialogo Cina-Usa


In Cina e Asia – Blinken incontra Wang Yi a Giacarta per tenere aperto il dialogo Cina-Usa blinken
I titoli di oggi:

Blinken incontra Wang Yi a Giacarta per tenere aperto il dialogo Cina-Usa
La Germania ha pubblicato la sua prima strategia per la Cina
Pechino apre all’intelligenza artificiale. E Musk lo ha capito

Il capo dell’organo legislativo di Shanghai accusato di corruzione
Hong Kong: milioni di visitatori cinesi, ma non sono turisti
Kishida a Bruxelles per il 29° vertice tra Giappone e Unione Europea

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“Il pollice all’insù non è consenso”


L’ emoji del pollice in su è entrata così tanto nella nostra comunicazione virtuale che digitarla, ormai, rappresenta un vero e proprio vincolo? Ne scrivo oggi su La Svolta. Qui il testo completo lasvolta.it/8652/il-pollice-al…


guidoscorza.it/il-pollice-alli…



Etiopia, la repressione continua – Padre Sereqebirhan Weldesamuel, detenuto ad Addis Abeba


Abba Sereqebirhan Weldesamuel, un eminente padre religioso tigrino detenuto ad Addis Abeba mentre atterrava mercoledì all’aeroporto internazionale di Bole, Etiopia. Abba Sereqebirhan Weldesamuel ha detto di essere stato bloccato per la prima volta dai fun

Abba Sereqebirhan Weldesamuel, un eminente padre religioso tigrino detenuto ad Addis Abeba mentre atterrava mercoledì all’aeroporto internazionale di Bole, Etiopia.


Abba Sereqebirhan Weldesamuel ha detto di essere stato bloccato per la prima volta dai funzionari della sicurezza all’aeroporto senza alcuna spiegazione e motivazione per la sua detenzione.

Giovedì 13 luglio 2023 in una conversazione telefonica con Tigrai TV, Aba Serqebirhan ha dichiarato che gli è stato detto che “non gli è permesso viaggiare nel Tigrai”

Ha aggiunto:

“Non capisco il motivo per cui non ci è permesso viaggiare nel Tigrai. L’accordo di pace è già firmato. Abbiamo bisogno di incontrare la nostra famiglia, la nostra gente.”


Padre Serqebirhan Weldesamuel è un padre religioso tigrino famoso per il suo ripetuto appello a fermare le atrocità commesse contro il popolo tigrino durante la guerra di 2 anni in Tigray.

Continua così la repressione subdola di stampo politico verso tutti gli etiopi di etnia tigrina, nonostante siano passati più di 8 mesi dalla firma dell’accordo di Pretoria sulla cessazione ostilità: punti alquanto disattesi visto i continuati abusi.


tommasin.org/blog/2023-07-14/e…



„Pay or Okay“ on tech news site heise.de illegal, decides German DPA


"Pay or Okay" sul sito di notizie tecnologiche heise.de è illegale, decide la DPA tedesca L'Autorità per la protezione dei dati personali della Bassa Sassonia (LfD) ha deciso che la soluzione "Pay or Okay" utilizzata da heise.de è illegale The logo of heise.de and the title


noyb.eu/en/pay-or-okay-tech-ne…




“AI+: Generative AI for Business. Una nuova intelligenza artificiale per il business”


Oggi al The Dome Campus della Luiss abbiamo discusso di AI+: Generative AI for Business. Una nuova intelligenza artificiale per il business con Barbara Carfagna


guidoscorza.it/ai-generative-a…



Il filo che unisce Vilnius al Mediterraneo, e si estende fino al Sudan


Quale il collegamento valoriale tra Vilnius e il Mediterraneo, macro tema agitato da Giorgia Meloni sia nel vertice stesso che nel bilaterale con Recep Tayyip Erdogan? Un primo piano di analisi tocca, evidentemente, i singoli e articolati dossier, di ieri

Quale il collegamento valoriale tra Vilnius e il Mediterraneo, macro tema agitato da Giorgia Meloni sia nel vertice stesso che nel bilaterale con Recep Tayyip Erdogan? Un primo piano di analisi tocca, evidentemente, i singoli e articolati dossier, di ieri e di oggi, che gravitano nel raggio d’azione del mare nostrum e può essere utile ricucirli con il filo italiano per far emergere un principio: non si vive di sola Ucraina e se la Nato non affronterà con parimenti programmazione e impegno anche gli altri nodi, le emergenze future non saranno gestibili, né prevedibili.

Eccone una ricognizione che tocca aree ultrasensibili come Libia, Tunisia, Africa centrale: tutte dimostrano che il mondo è sempre più interconnesso e che il mare nostrum è un quadrante su cui si riflettono le conseguenze del conflitto ucraino.

Libia

La ripresa dei voli diretti tra l’Italia e la Libia rappresenta un indirizzo interessante, non fosse altro perché è una primizia dopo anni di generici intenti e permetterà a Tripoli operare voli diretti per l’Europa in breve tempo. Tocca inoltre il tema dello sviluppo positivo alla voce “contatti tra le aziende dei due Paesi”. L’importanza di riprendere i voli diretti è stata compresa dal governo italiano e l’annuncio della ripresa è giunto dopo un incontro tenutosi a Tripoli, alla presenza del Capo dell’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile, dell’ambasciatore d’Italia in Libia, del Capo dell’Ente Generale per l’Aviazione Civile e del ministro delle Comunicazioni. Un passo, questo, che nelle intenzioni accompagna gli sforzi da compiere verso la normalizzazione istituzionale della Libia, su cui Roma sta lavorando da tempo.

Due settimane fa è volato alla Casa Bianca il consigliere per la sicurezza nazionale Ibrahim Bushnaf ricevuto dal direttore del dipartimento Nord Africa presso il Consiglio di sicurezza nazionale, Jeremy Berndt. Nelle stesse ore a Roma si svolgeva il primo incontro tra il nuovo ambasciatore di Libia Muhannad Saeed Ahmed Younes e il Capo dello Stato, che ne ha ricevuto le credenziali.

Tunisia

Dopo la repressione politica del presidente Kais Saied contro il dissenso in Tunisia, l’Europa è stata chiamata a gestire l’instabilità di un Paese sull’orlo del fallimento, che già è trampolino di lancio per migliaia di migranti che stanno arrivando in Italia. L’economia locale è in collasso mentre si attende la decisione del Fondo Monetario Internazionale per i nuovi finanziamenti esteri. Bruxelles e Roma hanno inviato un segnale forte a Tunisi, coagulatosi attorno alla visita congiunta Meloni, von der Leyen, Rutte per affrontare il caso (migranti più crisi finanziaria) attraverso una voce sola e tramite un modello, stimolato da Palazzo Chigi.

Sudan

Dallo scorso mese di aprile il Paese è scosso dagli scontri tra l’esercito sudanese e il principale gruppo paramilitare, le Forze di supporto rapido, definite RSF. La guerra ha provocato migliaia di vittime, tre milioni di sfollati (di cui 700mila in viaggio verso altre aree) e ha aumentato il peso specifico di una gravissima crisi umanitaria che ha lasciato quasi la metà della popolazione in una situazione di fame. Altro effetto connesso è verso i produttori di gomma arabica sudanesi, settore che da 70 anni offre lavoro e sussistenza al Paese, che segnalano un crollo dei prezzi di circa il 60%.

Circa 218mila persone hanno cercato rifugio in Ciad, 60mila in Etiopia, mentre l’Egitto ha già ricevuto oltre 250.000 sudanesi, che rappresentano circa il 60% del numero totale di chi è fuggito e in 146mila sono già giunti in Sud Sudan. Tra gli effetti a catena c’è l’attuazione dell’accordo di pace rivitalizzato del 2018 in Sud Sudan e lo svolgimento delle elezioni alla fine del prossimo anno.

La comunità internazionale si è impegnata a elargire 1,52 miliardi di dollari in risposta all’appello delle Nazioni Unite (per 3 miliardi di dollari) al fine di affrontare la situazione attuale.

Le ultime notizie parlano del rifiuto da parte del ministero degli Esteri allineato con l’esercito del Sudan della proposta di vertice regionale che decida il dispiegamento di forze di mantenimento della pace per proteggere i civili. In questo modo perde consistenza la speranza di porre fine alla guerra. Proprio al fine di stimolare le pari ad una pax, l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) ha chiesto alle parti rivali di considerare il dispiegamento di una forza regionale e nuovi negoziati di pace. L’offerta di mediazione è stata la prima dopo lo stop dei colloqui a Jeddah.

Libano

Il Paese che vanta il più alto numero di rifugiati al mondo, dal 2019 sconta una crisi economica che si sta progressivamente aggravando. Si tratta della sua peggiore crisi dalla guerra civile del 1975.

Da un lato, dunque, un Paese che sta fallendo; dall’altro la crescita di Hezbollah favorendo al contempo un’aspra lotta all’interno del Parlamento. La valuta locale è in caduta libera, con le proteste dei correntistiche non possono accedere ai propri depositi dove le banche hanno messo un limite ai prelievi di dollari. L’esplosione al porto del 2020 ha comportato danni ingenti e la perdita di forza lavoro che ha fatto schizzare la disoccupazione al 40%. Da suolo libanese, inoltre, vengono anche lanciati razzi contro Israele.

Egitto

La crisi economica in Egitto si è materializzata in virtù del crollo della sterlina egiziana, scesa ai minimi storici rispetto al dollaro. Un forte deficit commerciale ha fatto salire i prezzi dei beni essenziali, con un’inflazione che ora supera il 30%. Il debito sovrano egiziano è difficilmente sostenibile, pari a 169,5 miliardi di dollari alla fine di dicembre 2022. In questo contesto sta prendendo piede la possibilità che il governo di Al-Sisi prenda in considerazione una mossa specifica ma dai risvolti geopolitici chirurgici: la privatizzazione del Canale di Suez verso un player straniero.

L’Economist ha recentemente valutato un contratto di locazione di 99 anni per il canale a circa un miliardo di dollari. Se da un lato il governo potrebbe così provare ad uscire dal pantano economico, dall’altro si ragiona sulle conseguenze geopolitiche di un eventuale acquisto da parte di soggetti esterni dalle fortissime disponibilità. Ad esempio Pechino che, dopo Cosco al Pireo, metterebbe così a segno un altro colpo significativo.


formiche.net/2023/07/vilnius-m…



Maryam Rajavi alla FLE: “Occidente sospenda i rapporti economici con il regime iraniano dei Pasdaran”


“I paesi che si disperano per il tragico destino delle donne iraniane dovrebbero essere conseguenti con questo giusto sentimento di democrazia e libertà e sospendere ogni tipo di relazione commerciale con l’Iran, soprattutto quelle riguardanti i settori b

“I paesi che si disperano per il tragico destino delle donne iraniane dovrebbero essere conseguenti con questo giusto sentimento di democrazia e libertà e sospendere ogni tipo di relazione commerciale con l’Iran, soprattutto quelle riguardanti i settori bancario e petrolifero. Il 90% dei proventi di queste attività finanzia il regime dei pasdaran che a sua volta finanzia il terrorismo in giro per il mondo oltre che la guerra di Putin contro il popolo ucraino e i valori occidentali. Arriverà presto il momento in cui il regime cadrà e l’Iran conoscerà la democrazia, la parità tra uomo e donna, la separazione tra Stato e chiesa, la libertà di stampa, il pluralismo politico e la fine della pena di morte. Solo nelle ultime ventiquattro ore in Iran sono state eseguite tredici condanne capitali”.

Lo ha detto la presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI) Maryam Rajavi durante un incontro organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi. Rajavi è stata accolta dal Segretario generale della Fondazione, Andrea Cangini, e dal presidente della commissione Politiche dell’Unione europea del Senato, Giulio Terzi di Sant’Agata, ha moderato il dibattito il direttore di formiche.net, Giorgio Rutelli.

Il Senatore Terzi dal canto suo ha sostenuto l’urgenza che la comunità internazionale metta al più presto al bando i Pasdaran come organizzazione terroristica, tesi che Rajavi ha convintamente avallato.

“La Fondazione è al fianco del popolo iraniano sin dall’inizio di questa rivolta”, ha detto Andrea Cangini. “Abbiamo organizzato incontri, convegni, scritto manifesti e lanciato appelli, convinti come siamo che i tempi siano maturi per un cambio di regime con la conseguente affermazione anche in Iran dei valori liberali e democratici”.

L'articolo Maryam Rajavi alla FLE: “Occidente sospenda i rapporti economici con il regime iraniano dei Pasdaran” proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Una Nato attenta alla Cina. Prospettiva indo-pacifica del Summit


Per il secondo anno di fila, la Cina è stato un argomento di interesse del Summit Nato. Come a Madrid nel 2022, anche quest’anno hanno partecipato al vertice Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda — i quattro principali partner dell’Indo Pacif

Per il secondo anno di fila, la Cina è stato un argomento di interesse del Summit Nato. Come a Madrid nel 2022, anche quest’anno hanno partecipato al vertice Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda — i quattro principali partner dell’Indo Pacifico (noti come IP4), attori importanti di una regione che gli Stati Uniti e (non solo) considerano come prima linea del contenimento della crescita di influenza globale cinese.

Strategia ampia e copertura Nato

Un diplomatico spiega in via confidenzale a Formiche.net che sebbene il driver dell’interessamento alla Cina da parte della Nato sia connesso al rafforzamento militare e in parte all’allineamento tattico con la Russia, che resta ancora l’attenzione prioritaria dell’alleanza (soprattutto con la guerra in Ucraina), c’è dell’altro. “La questione dei semiconduttori, delle terre rare, del securitarizzazione delle supply chain, la competizione tecnologica in generale è qualcosa a cui i membri guardano con attenzione quando pensano alla Cina”.

Non è un caso se la Germania abbia approfittato del vertice alleato di Vilnius per mettere in azione la tanto attesa strategia sulla Cina. Il gabinetto del cancelliere Olaf Scholz la passa oggi, giovedì 13 luglio: sarà centrata sul “de-risking” da Pechino, vista da Berlino come un concorrente e un rivale strategico sempre più assertivo, riducendo gradualmente la dipendenza dal Paese piuttosto che sganciandosi dal mercato cinese.

Anche la Lituania ha approfittato del vertice per rendere pubblica la sua strategia per l’Indo Pacifico. Da Vilnius, a un passo dalla Bielorussia alleata di Vladimir Putin, il governo lituano ha usato la presenza dei leader Nato per annunciare l’approfondimento dei rapporti con Taiwan — che già erano costati alla Lituania la risposta violenta di Pechino a colpi di coercizioni economiche (al punto che l’Ue era dovuta intervenire creando uno strumento anti-coercizione perché quello di Vilnius rappresentava un preoccupante precedente).

Narrazioni e interessi

Come si legge nella sintesi del comunicato congiunto del summit, “le ambizioni dichiarate e le politiche coercitive della Repubblica Popolare Cinese (Prc) sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori”. Sebbene la Nato sottolinei, come di rito, di restare aperta “a un impegno costruttivo con la Prc, anche per costruire una trasparenza reciproca, al fine di salvaguardare gli interessi di sicurezza dell’Alleanza”, rimarca anche la “crescente partnership strategica” tra Pechino e Mosca e i loro “tentativi, che si rafforzano a vicenda, di minare l’ordine internazionale basato sulle regole”.

In punti più ampi, più avanti nella lunga dichiarazione, i leader dell’alleanza hanno anche richiamato la Cina per le “operazioni ibride e cibernetiche dannose e per la sua retorica conflittuale e la disinformazione” e hanno accusato Pechino di sforzarsi “di sovvertire l’ordine internazionale basato sulle regole, anche nei domini spaziale, cibernetico e marittimo”. La dichiarazione ha inoltre espresso preoccupazione per i tentativi della Cina di “controllare settori tecnologici e industriali chiave, infrastrutture critiche, materiali strategici e catene di approvvigionamento” e di “creare dipendenze strategiche”. La Cina impiega “un’ampia gamma di strumenti politici, economici e militari per aumentare la sua impronta globale e proiettare il suo potere, pur rimanendo opaca sulla sua strategia, le sue intenzioni e il suo sviluppo militare”, si legge ancora nel comunicato, che inoltre invita Pechino “ad astenersi dal sostenere in qualsiasi modo lo sforzo bellico della Russia”.

Nel giro di un anno, quell’attenzione messa per la prima volta per iscritto al vertice di Madrid è evidentemente aumentata. È lo stesso linguaggio del comunicato a indicarlo. Il testo, solitamente frutto di scelte semantiche cavillose, menziona la Cina 14 volte, indicando una maggiore risalto che l’alleanza intende dare ad “affrontare le sfide sistemiche poste dalla Prc alla sicurezza euro-atlantica”. Per confronto, nel comunicato del vertice di Madrid la Cina riceveva un’unica menzione come uno dei diversi Paesi “che sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori e cercano di minare l’ordine internazionale basato sulle regole”.

La Cina detesta

Pechino non può essere soddisfatta. La linea di risposta calca sulla “mentalità da guerra fredda”, argomento retorico che il Partito/Stato usa nella sua narrazione. “Gli Stati Uniti stanno giocando una grande partita a scacchi. La Nato e gli alleati statunitensi nell’Asia-Pacifico vengono tutti utilizzati per promuovere gli interessi geopolitici degli Usa. Condivido la preoccupazione di alcuni osservatori europei che l’Europa possa diventare un vassallo e più dipendente dagli Stati Uniti”, ha scritto Wang Lutong, direttore generale dell’Ufficio europeo del ministero degli Esteri cinese (da notare: come spesso accade, Lutong ha espresso queste sue preoccupazioni contro le forzature della libertà dei singoli stati teoricamente imposte da Washington usando Twitter, un social network che in Cina non si è liberi di usare, ma in cui possono essere aperti invece account per i notabili del Partito e dello Stato).

“Ci opponiamo fermamente al movimento della Nato verso Est, nella regione dell’Asia-Pacifico, e qualsiasi azione che metta a repentaglio i legittimi diritti e interessi della Cina sarà affrontata con una risposta risoluta”, comunica invece il portavoce del ministero degli Esteri. Tuttavia, sebbene l’impegno della Nato con i partner dell’Indo-Pacifico sia generalmente letto attraverso la lente della competizione con la Cina, vale la pena notare che l’IP4 ha livelli diversi di comfort con l’idea di confrontarsi con Pechino.

L’IP4 e la Cina

Il segretario generale Jens Stoltenberg ha tenuto incontri separati con i leader di Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud. In ogni incontro ha esordito ringraziando per l’assistenza fornita all’Ucraina (che come detto resta la principale priorità della Nato) e ha poi offerto sostegno alle principali questioni di interesse del partner. Tuttavia, solo durante il meeting con il primo ministro giapponese, Fumio Kishida, Stoltenberg ha fatto riferimento a Pechino, in particolare al “pesante rafforzamento militare della Cina, alla modernizzazione e all’espansione delle sue forze nucleari”. In quel caso, il segretario generale ha anche sottolineato che l’ufficio di collegamento di cui tanto si è parlato è ancora sul tavolo e “sarà preso in considerazione in futuro”.

Esattamente come nel caso del liaison office, su cui le frenate (molte francesi, ma non solo) erano legate alla necessità di non indispettire eccessivamente Pechino, Stoltenberg ha evitato di menzionare la Cina nei commenti pubblici con gli altri tre leader dell’IP4, perché sia Seul che Canberra e Auckland hanno situazioni più complesse di quelle di Tokyo nel rapporto con Pechino. Tutti e tre vogliono evitare di farsi percepire allineati alla Nato nelle loro strategie di confronto con la Cina. Stoltenberg ha usato argomenti neutri per sottolineare le linee di contatto con i partner. Per esempio: parlando con il presidente sudcoreano, ha riaffermato la preoccupazione della Nato riguardo alla Corea del Nord (anche giustamente, visto il test di un Hwaseongpo-18 di mercoledì 12 giugno); per “il cyber, le nuove tecnologie e anche per contrastare le minacce ibride” con il premier australiano; per “il cambiamento climatico, il cyber e le nuove tecnologie” con il neozelandese.

La Nato in Asia?

Uno degli elementi usciti dal vertice di Vilnius, rimarcato dalla riunione laterale tra l’IP4 e i funzionari dell’alleanza, è la volontà di rafforzare la consapevolezza comune, la solidarietà e la cooperazione sulle minacce emergenti alla sicurezza. È l’ottica della visione comune tra Stoltenberg e Joe Biden, emersa anche nel recente incontro alla Casa Bianca: aumentare la connessione tra Nato e Indo Pacifico.

“È un Summit che conferma quanto anticipato lo scorso anno a Madrid con l’adozione del nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza, nel quale documento per la prima volta in due paragrafi è stata menzionata la Repubblica Popolare Cinese come una sfida agli interessi, alla sicurezza e ai valori dell’Alleanza”, commenta Matteo Bressan, docente di Studi Strategici e Relazioni Internazionali alla Lumsa Master School e analista presso il Nato Defense College Foundation. “Pur essendo un’alleanza regionale, affronta sfide globali, come ricordato dal segretario Stoltenberg: e quindi, nell’ottica del concetto della indivisibilità della sicurezza delle regioni euro-atlantiche e indo-pacifiche, assistiamo al rafforzamento delle partnership con Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Tale trend rispecchia il livello di competizione globale tra Washington e Pechino che vede, anche in altre iniziative come il formato Aukus, il coinvolgimento di paesi dell’Indo Pacifico e paesi della Nato in un’ottica di contenimento della Repubblica Popolare Cinese”.


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