Eritrea, la Cina inaugura un nuovo progetto minerario
L’ambasciatore cinese in Eritrea, Cai Ge, ha tagliato il nastro per inaugurare ufficialmente la nuova miniera polimetallica dell’Eritrea: il progetto Asmara. La Asmara Mining Share Company , titolare del progetto Asmara in Eritrea, è una joint venture 60:40 tra la cinese SRBM e la statale ENAMCO.
Il progetto ospita quattro depositi conosciuti a Emba Derho, Adi Nefas, Gupo e Debarwa.
Si prevede che la miniera avrà una durata di 17 anni, producendo circa 381.000 tonnellate di rame, 850.000 tonnellate di zinco, 436.000 once d’oro e 11 milioni di once d’argento.
Nella Fase 1A, il rame di alta qualità verrà estratto dal giacimento di Debarwa con metodi a cielo aperto, frantumato e caricato in container e trasportato per 120 km fino all’impianto portuale di Massaua per la spedizione e la vendita a una fonderia in Cina (una processo noto come spedizione diretta del minerale o “DSO”).
Riepilogo dello studio di fattibilità del progetto Asmara:
Lo studio di fattibilità del Progetto Asmara (lo “Studio”) datato in vigore dal 16 maggio 2013 (modificato a marzo 2014), ha dimostrato che l’estrazione mineraria dei quattro giacimenti avanzati che compongono il Progetto Asmara (Emba Derho, Adi Nefas, Gupo Gold e Debarwa) e la lavorazione del minerale in una posizione centrale vicino al grande giacimento di Emba Derho è economicamente solido con un valore attuale netto al lordo delle imposte (“NPV”) di 692 milioni di dollari (utilizzando un tasso di sconto del 10%) e con un tasso di rendimento interno al lordo delle imposte (“IRR”) del 34%. Il VAN al netto delle imposte è di 428 milioni di dollari con un IRR del 27%.
Lo studio delinea un’operazione mineraria iniziale in tre fasi che inizierebbe con la Fase 1A di produzione di DSO di rame di alta qualità dal deposito di Debarwa, seguita dalla Fase 1B di lisciviazione in cumulo di oro in prossimità della superficie, dalla Fase 2 di produzione di rame supergenico, quindi di zinco e rame ad un ritmo di produzione completo di 4 milioni di tonnellate all’anno.
A pieno regime, la miniera di Asmara produrrà una produzione media annua di 65 milioni di libbre (29.000 tonnellate) di rame, 184 milioni di libbre (83.000 tonnellate) di zinco, 42.000 once d’oro e 1 milione di once d’argento nei primi 8 anni.
FONTE: tesfanews.net/china-new-asmara…
Etiopia, oltre 4 milioni di sfollati interni, fonte IOM
Secondo i nuovi dati delle Nazioni Unite, più di quattro milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case in Etiopia, principalmente a causa del conflitto o della siccità.
Il Rapporto sugli sfollati nazionali dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che copriva il periodo da novembre 2022 a giugno 2023, afferma che un totale di 4,38 milioni di persone erano sfollate interne.
“Il conflitto è la causa principale degli sfollati e ha provocato lo sfollamento di 2,9 milioni di sfollati interni (66,41%), seguito dalla siccità che ha provocato lo sfollamento di 810.855 sfollati interni (18,49%)”, si legge nel rapporto, pubblicato mercoledì.
Più di un milione sono gli sfollati nella regione del Tigray, devastata dalla guerra, inclusa nei dati per la prima volta da settembre 2021, ha aggiunto.
La regione più settentrionale dell’Etiopia è stata devastata da due anni di combattimenti tra le forze filogovernative e i ribelli del Tigray fino alla firma di un accordo di pace nel novembre dello scorso anno.
La regione orientale della Somalia ospita il maggior numero di sfollati a causa della siccità, pari a quasi 543.000, secondo il rapporto dell’OIM.
Secondo i dati delle Nazioni Unite, in Etiopia, il secondo paese più popoloso dell’Africa, sono 28,6 milioni le persone bisognose.
Ma la risposta umanitaria rimane “significativamente sottofinanziata” con solo il 27% raccolto dei circa 4 miliardi di dollari necessari, ha detto in una dichiarazione all’inizio di questa settimana il coordinatore residente delle Nazioni Unite per l’Etiopia Ramiz Alakbarov.
FONTE: barrons.com/news/over-four-mil…
“Più che nativi digitali, sono disagiati digitali”
Ne scrivo oggi su HuffingtonPost Italia nella rubrica Governare il Futuro Qui il testo completo huffingtonpost.it/rubriche/gov…
Industry-friendly EU Digital Services Act leaves big tech business model intact
As of today, the largest internet corporations such as Amazon, Meta (Facebook, Instagram), TikTok, X/Twitter, Youtube and the Google search engine must comply with the new EU Digital Services Act. Pirate Party MEP Patrick Breyer sat at the negotiating table as rapporteur of the European Parliament’s Civil Liberties Committee (LIBE) and dials-down expectations:
“With the Digital Services Act, the European Parliament has tried to over come the surveillance capitalist business model of pervasive online surveillance, but industry and government interests have prevented this. Users are offered no alternative to the platforms’ toxic algorithms which push the most controversial and extreme content to the top of their timelines. Purely chronological timelines are barely usable. Legitimate content, including media reports, is not protected from being suppressed by error-prone upload filters or arbitrarily set platform rules. Freedom of expression online is not protected from cross-border removal orders from illiberal member states without even needing a judge’s order, allowing perfectly legal reports and information to be suppressed. Our digital privacy is protected neither by a right to anonymous internet use nor by a right to encryption or a ban on indiscriminate data retention. The new set of rules does not deserve the name ‘digital constitution’, because the deal fails to protect our fundamental rights on the net.’
On the positive side, minors are protected from surveillance advertising. The ban on using sensitive personality traits such as a user’s political opinion, health conditions or sexual preferences for targeted manipulation was severely watered down. We must finally take the digital age into our own hands instead of leaving it to corporations and surveillance authorities! We Pirates will not relent.”
Etiopia, 10 mesi di crisi umanitaria in aggravamento dopo 2 anni di guerra in Tigray
In Tigray, stato regionale settentrionale dell’Etiopia, c’è una popolazione di 7,07 milioni di persone (dati 2020) e 7,08 milioni di abitanti.
+7 Milioni di persone nel Tigray
800.000 vittime tra i civili del popolo tigrino
Nel novembre 2020 è scoppiata una guerra definita la più atroce degli ultimi anni e che ha prodotto trra le 600.000 e le 800.000 vittime tra i civili (morti dirette della guerra o come conseguenze, per fame, stenti e mancanza di cure mediche e supporto sanitario). Più di 1/10 della popolazione sterminata, etiopi di etnia tigrina.
+1000 giorni di guerra e crisi umanitaria in atto
Le stime sono la regola perché in +2 anni di guerra dai risvolti etnici e genocidi si è combattuta nel totale blacout comunicativo ed elettrico.
Approfondimento: Etiopia, IGF – Internet Governance Forum e violenze eritree nel blackout del Tigray
+100.000 donne di ogni età di etnia tigrina stuprate
Lo stupro, come in ogni guerra atroce e schifosa che rispetti i suoi canoni, è stato usato come arma di guerra perché l’etnia tigrina non potesse aver seguito, a detta dei loro aguzzini: soldati e milizie etiopi ed eritree. Alcune sono morte per il troppo dolore, anche dopo giorni di agonia. Si stimano più di un centinaio di migliaiai le donne di ogni età barbaramente violentate ed abusate.
Anche dopo la firma dell’accordo di cessazione ostilità concordato a Pretoria tra governo etiope e TPLF – Tigray People’s Liberation Front e mediato dall’ AU – African Union, gli stupri e gli abusi sulle donne tigrine sono continuati come arma di repressione. Le cartelle cliniche di tutta la regione mostrano che la violenza sessuale continua ad essere utilizzata “per intimidire e terrorizzare le comunità”
Approfondimento: www-theguardian-com.translate.…
+70.000 rifugiati in Sudan
I rifugiati in Sudan, nei primi mesi di guerra tra fine 2020 e inizio 2021, sono stati stimati sui 70.000 i tigrini ospitati in campi nel vicino Sudan e finiti tra nuove violenze, bombardamenti e disumanità a partire dal 15 aprile 2023, col tentativo di golpe delle RSF – Rapid Support Forces.
Decine di migliaia morti per fame
Almeno 1400 persone sono letteralmente morte di fame tra marzo e agosto 2023, da quando il WFP – World Food Program e USAID hanno sospeso il supporto alimentare in Tigray aggravando la crisi umanitaria.
youtube.com/embed/OucSoFfV3UI?…
In Tigray sono 5,6 milioni le persone a dipendere dal supporto alimentare.
La sospensione alimentar umanitaria allargata a tutta Etiopia nel giugno 2023, ha lasciato un totale di 20 milioni di persone dipendenti dal supporto alimentare in balia degli eventi. Ad oggi (agosto 2023) WFP ha iniziato il periodo di test (Etiopia, Le autorità della regione del Tigray contestano i rapporti sulla ripresa degli aiuti alimentari del WFP) del suo sistema di monitoraggio consegne ottimizzato. L’ USAID invece non ha ancora riattivato le sue attività di supporto.
Pulizia etnica per centinaia di migliaia di tigrini
Durante i 2 anni di guerra è stata perpetrata pulizia etnica da parte delle forze regionali Amhara su centinaia di migliaiai di etiopi di etnia tigrina, soprattutto nella parte occidentale della regione. Confermato dal report congiunto di HRW e Amnesty International.
Attività di pulizia etnica sono continuate anche dopo l’accordo di tregua come confermato dal report di HRW.
Decine di migliaia di arresti e detenzioni arbitrarie illegali di massa
Dall’inizio della guerra sono stati arrestati, deportati e detenuti etiopi di origine tigrina in abuso del diritto umanitario internazionale. Sono stati perseguiti ed arrestati dal novembre 2020, inizio della guerra, perché sospetti di essere collusi o sostenitori dei membri del partito TPLF. Da maggio 2021 gli arresti e la repressione sul popolo tigrino è stato legittimato dalla legge etiope per cui TPLF e sostenitori sono stati etichettati come gruppo terrorista e terroristi. Agli arresti donne in gravidanza, anziani, ma anche uomini e donne di chiesa.
L’accordo di Pretoria, che fornisce la responsabilità delle parti firmatarie di seguirlo e l’Unione Africana di monitorare e denunciare eventuali violazioni, non riesce a fermare abusi e violenze che continuano.
Amhara ed soldati eritrei sono ancora presenti nella regione, nonostante l’accordo di tregua obblighi le tutte le “forze esterne” a ritirarsi dal territorio.
Recente è la notizia, che non ho potuto verificare direttamente, per cui nel Tigray occidentale, area occupata e rivendicata come storicamente propria dal governo amhara, sarebbero stati arestati 4000 civili di ogni età di etnia tigrina.
Recente è anche la notizia che il presidente della regione Amhara, recentemente in crisi e in stato di emergenza, si è dimesso dalla carica il 25 agosto 2023. Nel 2021 aveva fomentato tutto il popolo a prendere ogni arma per difendersi e fermare ad ogni costo i “ribelli” del TPLF.
Archivio: Aggiornamenti sugli arresti di massa
Milioni di IDP, sfollati interni in Tigray
Gli sfollati interni, IDP – Internally Displaced Persons, (dati IOM 28 giugno 2023): 15% della popolazione regionaleSfollati interni Tigray – IDP giugno 2023 – dati IOM
Archivio: Aggiornamenti situazione IDP – sfollati interni in Tigray
I bambini sono stati lasciati morire di fame
L’ analista Duke Burbridge sottolinea che la recente pubblicazione dei dati sul Tigray da parte della Displacement Tracking Matrix (DTM) dell’OIM rivela che i bambini del Tigray sono stati lasciati morire di fame senza accesso al cibo o a cure salvavita.
Continua aggiungendo che le dichiarazioni pubbliche delle Nazioni Unite e del WFP sulla fame infantile nel Tigray sono allarmanti, fuorvianti e privi di concreti fatti. Sia il WFP che l’USAID hanno dichiarato che la sospensione degli aiuti alimentari non avrebbe influito sull’assistenza nutrizionale, che continuerebbe a raggiungere i bambini nel Tigray.
Approfondimento: L’impatto della sospensione degli aiuti nel Tigray potrebbe essere peggiore dell’assedio.
Report sulla distribuzione e consegna di materiale di supporto umanitario (alimentare, sanitario, igienico)
The International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies (IFRC)
Logistics CLuster Mekele Coordination Meeting Minutes 15 Agosto 2023
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Oltre il mistero. La morte di Prigozhin e il futuro della Wagner secondo Bertolotti
Fonti contrastanti menzionano sia un missile che un ordigno nascosto in una cassa di vino come possibili cause dello schianto di un Embraer Legacy Jet nella regione di Tver, avvenuto la scorsa settimana, che portava a bordo i vertici del gruppo Wagner. La veridicità dell’informazione riguardante la presenza e il decesso del leader dell’organizzazione Wagner, Yevgeny Prigozhin, e del suo braccio destro, Dmitrij Utkin, come dichiarato dalle autorità russe, rimane però ancora da stabilire e resta avvolta da un velo di mistero, dato che non è stato possibile per fonti indipendenti verificare accuratamente i fatti. Delle ambiguità che circondano l’incidente, del futuro della Wagner e del possibile nuovo capo, ne abbiamo parlato con Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight.
L’incidente aereo che ha coinvolto membri della Wagner è ancora circondato da ambiguità e speculazioni. Qual è la sua opinione sull’accaduto? Crede sia possibile trarre conclusioni chiare o ci saranno sempre aspetti non definitivamente risolti?
La morte di Prigozhin è circondata da un alone di mistero e tale resterà per molto tempo. La Russia, lo sappiamo bene, lascia trapelare le informazioni che ritiene opportune, e allo stesso tempo ne crea altre sulla base delle proprie priorità e in coerenza con quella che è la strategia comunicativa. Possiamo quindi fare soltanto delle speculazioni e immaginare che Prigozhin sia effettivamente scomparso e partire da questo assunto per fare alcune considerazioni pratiche. Rimane però un sospetto circa il fatto che Prigozhin e Utkin viaggiassero sullo stesso aereo poiché, almeno dal punto di vista procedurale, non avrebbero dovuto viaggiare insieme essendole teste dell’organizzazione: uno il capo, l’imprenditore, e l’altro il capo militare. Da un punto di vista operativo, essere entrambi a bordo dello stesso aereo va dunque contro ogni procedura di sicurezza.
Qual è dunque la condizione attuale del gruppo alla morte del leader e del suo braccio destro?
Il gruppo Wagner senza Prigozhin si può dire sostanzialmente inconsistente. Lui era l’imprenditore, padre e padrone di questa unità che aveva co-fondato con il suo vice e che è ora priva di una guida unitaria. Si è guardato infatti al gruppo Wagner come a un’unica entità fino al giorno dell’uscita di scena di Prigozhin; ma ad oggi, o meglio dal 24 giugno, cioè all’indomani del tentativo del cosiddetto colpo di Stato in Russia – che tale non fu – ai danni dell’immagine del Cremlino e di Putin, il gruppo Wagner ha subito una scomposizione e una progressiva diminuzione in termini di capacità operative. Una componente è stata assorbita dalle Forze armate della Federazione russa, un’altra è stata trasferita in Bielorussia a supporto delle forze di Lukashenko in attività di addestramento e affiancamento delle Forze armate nazionali bielorusse, mentre la parte più consistente e pregiata del gruppo Wagner è stata trasferita in Africa dove mai aveva cessato di operare e dove ha rappresentato, rappresenta e verosimilmente rappresenterà ancora – con forse un altro nome o in un’altra forma – quell’essenziale e strategicamente necessario strumento di politica estera non convenzionale di cui la Russia si è dotata e attraverso il quale è riuscita a porre sotto la propria sfera di influenza molti gruppi di potere, politici ed economici, e alcuni governi dell’Africa centrale. Ricoprendo un ruolo di primo piano a supporto di quei gruppi di opposizione armata e politica che hanno partecipato e realizzato colpi di Stato e golpe con conseguente rovesciamento dei governi.
Con la morte di Prigozhin, chi potrebbe essere il possibile nuovo leader del gruppo Wagner? Su cosa dovrà puntare questa figura per gestire l’organizzazione in un momento così delicato?
Anche su questo argomento possiamo solamente fare delle speculazioni basandoci sulle limitate informazioni a nostra disposizione e su quelle che saranno le priorità della politica estera russe. È verosimile immaginare che, esclusi i due capi storici fondatori Prigozhin e Utkin, almeno in una fase transitoria il gruppo Wagner possa essere gestito nelle sue diverse branche. In particolar modo la componente africana, essendo l’essenziale strumento di influenza della politica estera del Cremlino, potrebbe essere gestita temporaneamente dagli organi istituzionali della Federazione russa, quali il ministero della Difesa e i servizi, che potrebbero giocare un ruolo determinante ma non sul lungo periodo. Il gruppo Wagner è infatti un attore non statale che funziona fin quando rimane tale, perché non vi è alcuna affiliazione ufficiale alle istituzioni governative russe e, pertanto, qualunque azione condotta non avrebbe ripercussioni dirette sul piano delle relazioni internazionali e dei rapporti tra gli Stati o sul piano diplomatico in quanto strumento non statale, bensì privato. Sul medio periodo è verosimile quindi immaginare un uomo di fiducia di Putin e del Cremlino, che prenderà la guida del gruppo Wagner, di quello che rimarrà o comunque della sua componente essenziale in Africa. Quello che potremmo aspettarci in futuro potrebbe essere un ridimensionamento dell’organizzazione con una concentrazione dello sforzo principale proprio in Africa, e il proseguire in maniera coerente sulla linea già tracciata da Prigozhin (che poi di fatto seguiva le direttive dirette del Cremlino).
In che direzione si sta evolvendo la Wagner dopo gli ultimi avvenimenti?
Non è importante chi debba guidare la Wagner, l’importante è che qualcuno la guidi nel suo ruolo determinante: quello di servire gli interessi di politica estera russa in modo tale da poter condizionare, attraverso la sua presenza e il suo operato, i gruppi di potere e i governi di quei Paesi dove si concentrano i principali interessi russi, in particolar modo in Africa dove il ruolo della Wagner è stato determinante nel corso degli anni per imporre la visione russa e l’accesso russo alle risorse energetiche e minerarie. In tale contesto si deve guardare anche all’influenza di quei Paesi che, presenti all’interno dell’assemblea delle Nazioni unite, possono far pesare la loro vicinanza alla Russia attraverso i voti di astensione o di sostegno al Paese.
Non solo, la morte di Prigozhin arriva in un momento particolare per la Russia…
Dobbiamo considerare che alla fine di quest’estate entreremo nel vivo della campagna elettorale per le presidenziali. Dapprima con le elezioni a livello locale e a livello regionale, che saranno una prima cartina tornasole dell’operato e della capacità di tenuta della presidenza Putin, e poi entro marzo ci avvieremo a una campagna elettorale intensa per l’elezione del presidente che, con buona probabilità, potrebbe vedere riconfermato Putin. Una riconferma che sarebbe conseguenza dell’assenza di una vera opposizione e di un vero capo politico in grado di contrapporsi a Putin. L’unico soggetto indefinito che potrebbe effettivamente strappare consensi a svantaggio di Putin potrebbe essere un veterano, un eroe di guerra, chi si è sacrificato e ha partecipato alla guerra per la difesa della Russia (perché come tale viene presentata la guerra in Ucraina, cioè una guerra difensiva, chiamata operazione speciale). L’assenza di un soggetto forte e carismatico di questo tipo consegnerebbe con buona probabilità le chiavi del terzo mandato a Vladimir Putin e, tra i pochi che effettivamente avrebbero potuto incarnare questo soggetto alternativo c’era proprio lo scomparso Prigozhin.
L’Iran si prepara all’anniversario delle proteste: distrutte le tombe dei manifestanti uccisi
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 28 agosto 2023. Lapidi distrutte, tombe coperte di catrame e date alle fiamme: in Iran chi chiede giustizia viene perseguitato in vita e dopo la morte. Ci si prepara all’anniversario delle manifestazioni che lo scorso anno hanno sconvolto la Repubblica islamica, con un’eco che ha attraversato i confini nazionali, trovando sostegno e solidarietà in molte parti del mondo.
Dopo l’arresto e l’uccisione, sotto custodia, della giovane Mahsa Amini, portata via dagli agenti della “polizia morale” perché non indossava adeguatamente il velo, in migliaia sono scesi per le strade della capitale Teheran e di almeno altre 160 città iraniane. Le donne hanno protestato sui social togliendosi il velo o tagliandosi i capelli. Jin, Jîyan, Azadî!, il motto “Donna, vita, libertà”, è stato intonato dalle donne che chiedevano la fine dell’oppressione e la liberazione dalle leggi discriminatorie che non consentono una vita dignitosa.
Ma non solo. Le proteste cominciate per la morte di Mahsa Amini si sono trasformate in dimostrazioni rabbiose di insofferenza e ostilità nei confronti dei vertici di governo, per le riforme mancate, per la povertà diffusa, per la situazione economica. A centinaia sono stati uccisi, circa 20.000 gli arresti.
Mahsa Amini
Manifestanti, donne e uomini, ragazzi e ragazze perlopiù, sono stati fermati, torturati, uccisi durante le proteste o impiccati, in pubblica piazza, perché le loro morti fossero da esempio. Attivisti sono stati arrestati solo per aver espresso il proprio sostegno alle proteste via social. In molti casi, in prigione, sono stati sottoposti a pesanti torture per estorcere la confessione della propria colpa. Confessioni poi utilizzate per condannarli alla pena di morte. Nel 2022 le impiccagioni sono state 582, nel 2021 erano state 333. Nei primi quattro mesi del 2022 ne erano state 260. Ma i processi farsa e le uccisioni non hanno fermato le rivolte.
#Iran: “Civil and democratic space continued to be restricted,” @UNHumanRights deputy chief @NadaNashif told the Human Rights Council.More on the @UN Secretary-General’s report on the situation of human rights in the Islamic Republic of Iran ➡️t.co/0ZPQHOzW1H#HRC53 pic.twitter.com/mI3gvy6ri1
— United Nations Human Rights Council (@UN_HRC) June 21, 2023
Nei mesi successivi le famiglie dei manifestanti e delle manifestanti uccisi sono stati perseguitati, molti di loro, a migliaia, arrestati. Sparizioni forzate, processi farsa, fustigazioni e mutilazioni sono pratiche ancora oggi molto utilizzate.
Tra pochi giorni si celebrerà l’anniversario della morte di Mahsa Amini, avvenuto il 16 settembre 2022. In questo anno le famiglie delle vittime della repressione hanno spesso visitato la sua tomba, simbolo di unità e di forza per tanti. I familiari della ragazza uccisa hanno più volte denunciato i raid vandalici che distruggono le lapidi dei manifestanti e degli attivisti ammazzati durante le proteste. Di tutta risposta il governo ha fatto sapere che intende spostare la tomba di Mahsa Amini, con l’obiettivo dichiarato di limitarne le visite.
A questo scopo sono state brutalmente attaccate e cacciate le famiglie che commemoravano i propri cari morti durante le proteste. Gli stessi familiari hanno denunciato che le lapidi sono ripetutamente distrutte e le tombe, cosparse di catrame, vengono date alle fiamme. Alcune tombe sono state danneggiate durante la notte ma spesso i raid sono avvenuti di giorno, alla presenza dei familiari, che non hanno ricevuto alcun sostegno dalle autorità iraniane, le quali anzi, denunciano, hanno spesso minacciato ulteriori ripercussioni.
“Le autorità della Repubblica islamica mi hanno ucciso un figlio innocente, hanno imprigionato mio fratello e i suoi familiari e poi mi hanno convocata per il ‘reato’ di aver chiesto giustizia per mio figlio. I cittadini iraniani non hanno alcun diritto di protestare e ogni tentativo di chiedere libertà viene soppresso con estrema violenza”. Così ha scritto su twitter la madre di Artin Rahmani, un ragazzo di 16 anni ucciso dalla polizia.
La tomba di Majid Kazemi, prima e dopo gli atti vandalici
Amnesty International denuncia l’accanimento giudiziario nei confronti delle famiglie delle vittime, i cui membri vengono arrestati arbitrariamente e spesso torturati. La sorveglianza illegale è utilizzata per intimidirli. Il diritto alla salute dei detenuti non è rispettato e in carcere non si assicurano le cure necessarie alla sopravvivenza dei malati.
Le intimidazioni e le violenze sono aumentate in vista dell’anniversario delle proteste. Le autorità temono una nuova escalation che tentano di reprimere in maniera preventiva stringendo la morsa dei controlli sui familiari delle vittime e compiendo decine e decine di nuovi arresti tra attivisti e attiviste.
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Incontro a Roma tra ministri degli esteri di Libia e Israele. “Blitz” pianificato da Tajani?
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della redazione
(foto di archivio da marsad.ly)
Pagine Esteri, 28 agosto 2023 -Ha sollevato un polverone diplomatico l’incontro che, si è saputo solo ieri, hanno avuto a Roma il ministro degli Esteri di Israele, Eli Cohen, e Najla Mangoush, l’omologa del Governo di unità nazionale della Libia (riconosciuto a livello internazionale), il primo ufficiale tra i responsabili della diplomazia Stato ebraico e del Paese arabo nordafricano. Israele attraverso il suo ministero degli esteri riferisce con risalto del colloquio, lasciando intendere che si tratta di un passo verso la possibile normalizzazione dei rapporti con la Libia e, più in generale, con il mondo arabo. Ciò mentre prosegue l’occupazione militare dei Territori palestinesi, la questione che frena da anni la normalizzazione tra Israele e i Paesi arabi, con l’eccezione della firma nel 2020 degli Accordi di Abramo che hanno visto lo Stato ebraico allacciare rapporti con Emirati, Bahrain, Marocco e Sudan.
La ministra degli esteri libica Najla Mangoush- © Khaled Elfiqi/EPA/Newscom/MaxPPP
A Tripoli però si definisce “casuale e non preparato” l’incontro a Roma al quale ha partecipato il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani. Anzi, secondo un’ipotesi che circola, la riunione sarebbe stata frutto di un “blitz” pensato e realizzato proprio da Tajani, desideroso di “accelerare” la normalizzazione dei rapporti degli alleati israeliani con i Paesi arabi. La Libia in un comunicato spiega che si è trattato di un incontro nel quale non ci sarebbero state “discussioni, accordi o consultazioni”. E Manghoush, da parte sua, avrebbe rifiutato la possibilità di una normalizzazione “con l’entità sionista (Israele)” ribadendo il sostegno della Libia alla causa palestinese e a “Gerusalemme come capitale eterna della Palestina”.
La notizia dell’incontro in Italia ha suscitato immediate proteste a Tripoli dove, ieri sera, alcuni manifestanti hanno assaltato il ministero degli Esteri. E questa mattina, prima dell’alba, centinaia di manifestanti hanno dato fuoco o tentato di farlo, non è ancora ben chiaro, alla residenza del premier Abdulhamid Dabaiba. Oggi l’altro parlamento libico, quello di Tobruk, nell’est della Libia, si riunirà d’emergenza per discutere di ciò che definisce “un crimine contro il popolo libico”.
Di fronte alle proteste, la ministra Mangoush sarebbe partita qualche ora fa su di un jet privato per dirigersi in Turchia, dopo essere stata sospesa dal primo ministro il quale ha anche formato una commissione d’inchiesta che dovrà riferire sull’incontro a Roma. L’incarico ad interim di ministro degli Esteri è stato assegnato a Fattehalla Elzini.
È difficile, tuttavia, credere che Mangoush abbia accettato di parlare a Cohen senza chiedere l’autorizzazione del suo governo. Non pochi credono che l’incontro a Roma dovesse restare segreto e che sarebbe stato il governo Netanyahu a far trapelare la notizia, non resistendo alla tentazione di “far sapere” che Israele ha avviato contatti con un altro Paese arabo, oltre a quelli che ha in corso con l’Arabia saudita per una possibile normalizzazione dei rapporti. La stampa israeliana riferisce che Cohen ha definito l’incontro “storico” e un “primo passo” verso l’apertura di relazioni tra i paesi. Cohen, aggiungono i giornali israeliani, avrebbe discusso con l’omologa libica di tutela dei siti ebraici in Libia, di progetti nell’agricoltura e per le riserve idriche e dell’invio di aiuti umanitari israeliani.
Al di là delle rivelazioni della stampa, in passato si è parlato in diverse occasioni di contatti tra il figlio di Gheddafi, Saif al Islam, e funzionari israeliani. Nel gennaio del 2022, sarebbe avvenuto un incontro all’aeroporto di Tel Aviv tra funzionari del governo libico non riconosciuto che fa capo al generale Khalifa Haftar. E sono girate voci di un meeting segreto in Giordania tra il premier Abdulhamid Dabaiba e rappresentanti israeliani.
L’accaduto potrebbe interrompere la carriera politica di Najla Mangoush, la prima donna a ricoprire il ruolo di ministro degli Esteri della Libia. Originaria di Bengasi, Mangoush è una avvocata e docente universitaria e ha ottenuto riconoscimenti accademici internazionali. Vanta inoltre un dottorato in gestione dei conflitti e della pace presso la George Mason University. Pagine Esteri
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Tra città imperiali e isole contese. Reportage dal Vietnam centrale
Reportage dal Vietnam centrale, tra il museo delle isole Paracelso (contese con la Cina) di Da Nang e l'antica capitale imperiale di Hue, teatro di uno dei capitoli più sanguinosi della guerra con gli Usa. Qui, non lontano dall'antica zona demilitarizzata tra Vietnam del Nord e del Sud, c'è un'area che meglio di quasi chiunque altro ha conosciuto la devastazione "calda" durante la prima guerra fredda. Mentre a Hue e dintorni si spera di evitarne una seconda
L'articolo Tra città imperiali e isole contese. Reportage dal Vietnam centrale proviene da China Files.
Qui l'intervento integrale del Ministro Giuseppe Valditara ieri al Meeting di Rimini.
➡️ youtube.
Ministero dell'Istruzione
Qui l'intervento integrale del Ministro Giuseppe Valditara ieri al Meeting di Rimini. ➡️ https://www.youtube.Telegram
“Gogna web doppia violenza”
Oggi sono stato intervistato dalla redazione Regionale della RAI SICILIA per commentare i recenti fatti di cronaca avvenuti al Foro Italico e le implicazioni legate all diffusione dei video. Qui il link all’intervista completa rainews.it/tgr/sicilia/video/2…
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“UNO MATTINA ESTATE”
Ieri a UNO MATTINA ESTATE partendo dagli ultimi fatti di cronaca con Tiberio Timperi ho discusso di privacy, social network e ragazzi Qui potete vedere l’intervento integrale raiplay.it/video/2023/08/UnoMa…
WeiboLeaks – Fukushima, il web cinese boicotta sushi e cosmetici
Per il web cinese il rilascio delle acque contaminate raccolte dopo il disastro di Fukushima equivale a un “atto terroristico”. Gli utenti invocano il boicottaggio dei prodotti giapponesi. Un atto terroristico di portata storica. Così il web della Repubblica popolare cinese ha definito la decisione da parte del Giappone di riversare nell’oceano Pacifico le acque di raffreddamento della centrale nucleare ...
L'articolo WeiboLeaks – Fukushima, il web cinese boicotta sushi e cosmetici proviene da China Files.
Miranda Rights, 57 anni dopo
Correva l’anno 1963, quando a Phoenix, in Arizona, un signore chiamato Ernesto Miranda fu arrestato dalla polizia. L’accusa era di aver rapito e stuprato una giovane donna, appena diciottenne. Durante l’interrogatorio, durato diverse ore, Ernesto confessò il delitto e la sua confessione fu usata in tribunale per condannarlo.
Il caso arrivò poi fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti. L’avvocato difensore impugnò l’ammissibilità della confessione in giudizio, poiché Ernesto Miranda non era stato informato dei suoi diritti costituzionali: il diritto di rimanere in silenzio e il diritto di essere assistito da un avvocato durante gli interrogatori.
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La Corte Suprema nel 1966 diede ragione a Miranda: le prove non erano ammissibili. Da questa sentenza storica venne così alla luce la famosa formula che chiunque guardi polizieschi americani conosce a memoria — i “Miranda Rights”:
"E' suo diritto rimanere in silenzio. Tutto ciò che dice può essere usato contro di lei in tribunale. Ha il diritto di avere un avvocato. Se non ne può permettere uno, uno le verrà fornito. Ha capito i diritti che le ho appena letto? Tenendo presente questi diritti, desidera parlare con me?"
Sono passati 57 anni dalla sentenza Miranda.
In questi 57 anni sono successe tante cose, ma soprattutto che ci siamo ritrovati a vivere in un mondo in cui tutto ciò che diciamo, scriviamo e facciamo — in sostanza, chi siamo — potrà essere usato contro di noi, fuori e dentro i tribunali, a prescindere da qualsiasi reato o indizio di colpevolezza.
Meta dovrebbe risarcire immediatamente i Rohingya per il ruolo che Facebook ha avuto nella pulizia etnica della minoranza perseguitata
Gli algoritmi di #Facebook e la spietata ricerca del profitto di Meta hanno creato una cassa di risonanza che ha contribuito a fomentare l’odio contro il popolo #Rohingya e ha contribuito a creare le condizioni che hanno costretto il gruppo etnico a fuggire in massa dal #Myanmar.
Anche se questo si distingue come uno degli esempi più eclatanti del coinvolgimento di una società di social media in una crisi dei diritti umani, i Rohingya sono ancora in attesa di risarcimenti da parte di Meta.
Pat de Brún, responsabile della responsabilità delle grandi tecnologie di Amnesty International
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Israele/OPT: la Corte Suprema approva la demolizione punitiva della casa di un bambino ingiustamente detenuto per omicidio
@Notizie dall'Italia e dal mondo
La Corte Suprema israeliana ha approvato oggi la demolizione punitiva della casa familiare di un ragazzo palestinese di 13 anni che ha trascorso gli ultimi sei mesi in custodia cautelare con accuse ingiuste. Nel febbraio 2023, Mohammed Zalabani ha accoltellato un agente della polizia di frontiera israeliana su un autobus a un posto di blocco nel campo profughi di Shu'afat, nella Gerusalemme est occupata. È stato sopraffatto, ma pochi istanti dopo una guardia di sicurezza privata israeliana ha sparato accidentalmente all'ufficiale uccidendolo.
“Le demolizioni punitive di Israele sono una forma di punizione collettiva illegale, che costituisce un crimine di guerra e una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. La sentenza odierna mostra come lo sfrontato disprezzo di Israele per il diritto internazionale si diffonde in ogni istituzione. È anche un promemoria del ruolo della Corte Suprema nel far rispettare l'apartheid contro i palestinesi”
ha affermato Khulood Badawi, attivista regionale di Amnesty International per Israele e i territori palestinesi occupati.
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Quindi direi che la ricetta di Netanyahu funziona benissimo
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Non dimenticare e parlane
Soltanto, bada bene a te stesso e guàrdati dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste, ed esse non ti escano dal cuore finché duri la tua vita. Anzi, falle sapere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli. Deuteronomio 4:9
L’imperativo di questo versetto del Deuteronomio non è tanto di richiamo alla fedeltà, ma al non dimenticare. Se si dimenticano le grandi opere che il Signore ha fatte, presto non si dà più molto valore alla sua Parola. E se nessuno racconta delle grandi opere che il Signore ha realizzato, come si può rimanere con il Signore?
Questo non dimenticare è una costante, iniziando proprio dal Deuteronomio, della fede di Israele. Un riconoscersi parte di un popolo, attraverso tante epoche, che il Signore ha scelto e con cui ha fatto un patto.
Come cristiani anche noi parliamo di un patto, di un nuovo patto in Gesù Cristo. Questo è come un’estensione di quello del Sinai, ma con persone e popoli di tutta la terra. Spesso però non abbiamo questa idea di popolo, di essere parte del popolo di Dio, e nemmeno questa idea di patto.
Da una parte perché ovviamente la fede è qualcosa di personale, individuale. E la fede non si insegna, ma al massimo la si testimonia, d’altra parte però questo individualismo ci porta a pensare che ognuno debba in fondo provvedere da sé. Non dimenticare conta però innanzitutto per noi, ma poi anche per gli altri a cui ne parleremo, e quindi per i figli, i figli dei figli e le generazioni che verranno...
pastore D'Archino - Non dimenticare e parlane
Il Deuteronomio nelle nostre Bibbia si chiama così, dalla antica traduzione greca che lo individuava come la “seconda legge”. In effetti le leggi e le prescrizioni che si trovano in Eso…pastore D'Archino
Perché il Digital Service Act è un rischio per la libertà di parola su internet | L'Indipendente
«Una parte dell’opinione pubblica identifica la legge come un modo per imporre una sorta di censura mascherata finalizzata ad evitare che si possano esprimere tesi e opinioni divergenti da quelle “dominanti”. La facoltà di vigilare sulla correttezza delle informazioni e dei contenuti, stabilendo, dunque, ciò che è vero e ciò che è falso è stata attribuita in primo luogo ad un organo politico: la Commissione Europea e, nello specifico, al Comitato europeo per i servizi digitali che vigilerà strettamente sulle società e sui contenuti. Un’architettura di controllo che ha portato diversi rappresentanti politici e dell’informazione a parlare di una minaccia per la democrazia.»
Etiopia, chi sono le milizie Fano in guerra col governo centrale?
All’inizio di agosto sono scoppiati intensi combattimenti tra la Forza di difesa nazionale etiope (ENDF) e le forze nazionaliste Amhara etichettate come “Fano”. Sebbene da allora le forze nazionaliste siano state respinte dalle principali città della regione, gli scontri sono in corso in gran parte della regione. Storicamente Fano si riferisce ai contadini liberi che si univano agli eserciti reali dell’Etiopia durante le campagne militari, con le proprie armi per combattere e saccheggiare. Il termine ha una forte sfumatura nazionalistica, poiché si ricorda che tra i “patrioti (arbegnoch) che combatterono contro gli invasori stranieri è inclusa Fano.
Negli anni ’60, i radicali del Movimento studentesco etiope usarono “Fano” quasi come sinonimo di “attivista”. Successivamente, però, il termine cadde quasi in disuso. È stato ripreso dagli attivisti giovanili urbani che hanno partecipato al movimento di protesta dell’agosto 2016 contro il governo del Fronte democratico rivoluzionario popolare etiope (EPRDF). Questi gruppi, che si sono rivolti anche ai social, si sono battezzati Fano. Hanno articolato diverse rivendicazioni: un lavoro, una migliore condivisione delle risorse, la giustizia sociale e la fine della repressione. Alcuni hanno denunciato la Costituzione etno-federale del 1995 che accusavano di non garantire una rappresentanza sufficiente per gli Amhara. Alcuni giovani attivisti sono stati incarcerati e molti sono passati all’attivismo online.
Decisiva nell’escalation delle proteste nel 2016 è stata la repressione affrontata dal Comitato Wolkait (WC). Un’organizzazione lanciata un anno prima, era composta da investitori, dipendenti pubblici e commercianti del Tigray occidentale che sostenevano l’annessione della loro zona alla regione di Amhara. Gruppi giovanili hanno organizzato manifestazioni a Gondar quando i loro leader hanno resistito violentemente ai loro arresti.
Questi attivisti ottennero presto il sostegno di gruppi della diaspora che si battevano contro quello che chiamavano un “genocidio” degli Amhara. Questi gruppi hanno condotto campagne su rivendicazioni fondiarie, tra cui Wolkait e Raya, tensioni fondiarie nelle pianure occidentali e meridionali dell’Etiopia dove la violenza aveva preso di mira diversi gruppi etnici, inclusi gli Amhara, e qualsiasi cosa potesse alimentare la sempre crescente retorica anti-Tigrayan. Le politiche di pianificazione familiare erano viste come cospirazioni per indebolire demograficamente Amharas.
Nell’agosto 2016, uomini armati si sono scontrati con l’ENDF nel nord di Gondar. Tra loro c’era Mesafint Tesfu, che in seguito fu coinvolto in campagne militari contro le Forze di Difesa del Tigray (TDF) durante la Guerra del Tigray, così come altri leader armati, tra cui Sefer Mellesse e Aregga Alebachew, che erano conosciuti a livello locale per aver trascorso anni opporsi militarmente all’EPRDF.
Molti giovani attivisti e membri del WC sono stati liberati nell’ambito delle amnistie di inizio 2018. Nello stesso periodo è stato rilasciato Asaminew Tsige, un generale ribelle imprigionato per un tentativo di colpo di stato contro l’EPRDF.
Una volta liberate, queste tendenze cominciarono a fondersi. Condividevano l’opinione secondo cui il pan-etiopismo aveva fallito ed era giunto il momento di accettare l’etnicità come principio organizzativo. Tutti erano socialmente conservatori, lanciavano campagne contro il consumo di khat, organizzavano ritiri nei monasteri, facevano circolare profezie sul rinascita dell’Etiopia e fornitura di addestramento militare segreto per piccoli gruppi.
Man mano che i legami tra attivisti urbani e leader armati più bellicosi si rafforzavano, Asaminew Tsige, le cui opinioni sul Fronte di liberazione popolare del Tigray (TPLF) rimasero invariate, cercò di unificare questi militanti nelle Forze speciali di Amhara (ASF). Per qualche tempo, tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, “Fano” è stato utilizzato colloquialmente anche per riferirsi all’ASE
Il governo federale ha instaurato un rapporto ambiguo con questi gruppi informali di Fano. Ha permesso loro di combattere contro le milizie Qemant e ha fatto affidamento su di loro per garantire alcuni eventi pubblici come la cerimonia religiosa di Timqat a Gondar. Ha inoltre permesso ad Asaminew di reclutare fino a quando le sue ambizioni non hanno minacciato il governo regionale, che ha cercato di rovesciare nel giugno 2019. La successiva morte di Asaminew ha rallentato le iscrizioni all’ASF.
Tuttavia, quando è iniziata la guerra nel Tigray nel novembre 2020, l’ASF ha combattuto a fianco dell’ENDF per prendere il controllo del Tigray occidentale, supervisionando la pulizia etnica degli abitanti del Tigray.
All’inizio dei combattimenti furono coinvolti miliziani dell’Amhara settentrionale e di Fano, coordinati sotto l’autorità dell’Ufficio regionale per la pace e la sicurezza. Per tutto il 2021, molti uomini armati chiamati “Fano” si sono uniti al fronte, mentre si moltiplicavano le richieste di partecipazione dei miliziani kebele alle campagne. Dopo lo stato di emergenza del novembre 2021, tutti i dipendenti pubblici e molti civili sono stati chiamati al fronte. Gli uomini armati che aderirono furono, ancora una volta, chiamati Fano. La Fano di oggi difficilmente può essere descritta come “gruppi informali”, come li ha definiti Temesgen Tiruneh, incaricato di guidare le strutture dello stato di emergenza ad Amhara.
Molti dei Fano che ora combattono contro l’ENDF sono uomini arruolati per la guerra nel Tigray. Molti affermano di lottare per il rispetto degli Amhara, ma questo non è certo un programma politico. Sebbene non siano ancora uniti militarmente, una parvenza di rivendicazioni comuni li unisce. I più radicali non accettano l’accordo di Pretoria e vogliono “finire” la guerra del Tigray, cioè scatenare i loro disegni genocidi contro la popolazione del Tigray. Molti sono preoccupati per lo status delle terre annesse dalla regione di Amhara durante la guerra. Alcuni si mobilitano sulla questione di Addis Abeba, denunciando una presunta stretta oromo sulla capitale. Più prosaicamente, altri stanno combattendo per perpetuare un’economia di guerra che ha portato ricchezza ad alcuni uomini che hanno annesso terre nel Tigray occidentale e a Metekel, o hanno riscattato i viaggiatori sulle strade di Armach’ho.
Il sostegno popolare che l’attuale Fano riceve proviene da gruppi sociali selezionati, in particolare giovani urbani. I contadini che recentemente hanno manifestato contro l’insufficienza della fornitura di fertilizzanti potrebbero anche sostenere coloro che si ribellano al governo della Prosperità.
Fuori dalle città, tuttavia, la maggior parte dei contadini amhara sono stufi della guerra, della mobilitazione e della massiccia inflazione. Sebbene i radicali possano aver preso in gran parte il controllo dell’apparato statale regionale, molti in questa società ancora prevalentemente rurale si concentrano sui problemi
locali e quotidiani, mantenendo una distanza critica dagli estremisti.
Le origini dell’odierna ‘Fano’ sono molteplici e complesse. Confondere coloro che nutrono legittime lamentele con questioni come i sottoinvestimenti nella regione di Amhara e gli elementi fascisti che ancora cercano la distruzione del Tigray sarebbe un grave errore. Il governo federale deve fare attenzione che la prosecuzione dello stato di emergenza nella regione non ingrossi le fila dei fanesi e non unisca queste fazioni assortite.
A cura del team The Ethiopian Cable – www.sahan.globalEthiopian Cable
“UNO MATTINA ESTATE”
“Dobbiamo smettere di parlare di nativi digitali perché non esistono. È un’espressione che crea nei più giovani l’illusione di sapere tutto del digitale e solleva gli adulti dal loro dovere di guidarli e educarli a un uso consapevole del digitale”
I Brics raddoppiano, tra integrazione e competizione
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 25 agosto 2023 – Il vertice iniziato martedì e conclusosi ieri a Johannesburg passerà alla storia. Il blocco composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica ha infatti deciso di ammettere, dal primo gennaio, altri sei paesi: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. I nuovi membri sono stati scelti all’interno di una lista composta da due dozzine di stati, tra i quali spiccano Algeria e Indonesia, che chiedono di poter entrare nell’organizzazione.
Ad annunciare il raddoppio, ieri, è stato il presidente sudafricano e presidente di turno dell’alleanza, Cyril Ramaphosa, che ha descritto i Bricscome un «gruppo eterogeneo di nazioni» e «un partenariato paritario tra paesi che hanno punti di vista diversi ma una visione condivisa per un mondo migliore».
Il presidente russo è stato assai più esplicito. «I Brics non competono con nessuno e non si oppongono a nessuno, ma è anche ovvio che il processo di creazione di un nuovo ordine mondiale ha ancora oppositori che cercano di rallentare questo percorso, per frenare la formazione di nuovi centri indipendenti di sviluppo e influenza nel mondo» ha spiegato Vladimir Putin nell’intervento realizzato in videoconferenza, visto che su di lui pende un mandato di cattura internazionale spiccato dal Tribunale Internazionale dell’Aia per crimini di guerra.
Nella giornata conclusiva il vertice ha approvato una dichiarazione, in ben 94 punti, incentrata sull’impegno a promuovere il cosiddetto “multilateralismo inclusivo”, l’integrazione, un contesto di pace e sviluppo, la crescita economica, lo sviluppo sostenibile.
Nel documento, come d’altronde durante il dibattito, poca attenzione è stata riservata alla crisi ucraina, per risolvere la quale i paesi membri auspicano lo sviluppo del negoziato. «Alcuni paesi promuovono la loro egemonia e le loro politiche con il colonialismo e il neocolonialismo» ha accusato il leader russo, secondo il quale l’aspirazione a preservare questa egemonia da parte degli Stati Uniti ha condotto alla guerra in Ucraina.
In generale, i leader riuniti a Johannesburg si dicono «preoccupati per i conflitti in corso in molte parti del mondo» (vengono citati in particolare quelli in corso in Sudan e Niger). Il documento esprime sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale della Libia, della Siria e dello Yemen, accoglie con favore il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran (mediato da Pechino) e chiede a «una soluzione a due Stati» per il conflitto israelo-palestinese.
I leader dei paesi Brics
I Brics vogliono un mondo multipolare
Ampio spazio è stato dedicato alla comune e impellente aspirazione alla costruzione di un nuovo ordine mondiale multilaterale, alternativo a quello imperniato sul dominio incontrastato degli Stati Uniti e delle potenze occidentali in generale.
Le cinque potenze rivendicano esplicitamente «una maggiore rappresentanza dei mercati emergenti e dei Paesi in via di sviluppo nelle organizzazioni internazionali e nei forum multilaterali» e si schierano contro “misure coercitive unilaterali” come gli embarghi e le sanzioni. Allo scopo, i Brics sostengono una riforma globale delle Nazioni Unite, Consiglio di Sicurezza compreso, nonché dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Sulla tutale dei diritti umani invocano invece un approccio «non selettivo, non politicizzato e costruttivo, senza doppi standard».
I Brics si impegnano ad affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico, chiedendo però «una transizione giusta, accessibile e sostenibile verso un’economia a basse emissioni di anidride carbonica», esortando i Paesi sviluppati a «onorare i loro impegni», anche in termini di finanziamenti, e opponendosi alle barriere commerciali imposte «col pretesto di affrontare il cambiamento climatico».
I Brics tra integrazione e competizione
Ad integrazione avvenuta i paesi dell’alleanza «rappresenteranno il 36% del Pil mondiale e il 47% della popolazione dell’intero pianeta» ha fatto notare con toni trionfalistici il presidente brasiliano Lula da Silva, tra i maggiori fautori dell’allargamento del blocco e dello sviluppo di una moneta alternativa al dollaro (e all’euro). Con l’allargamento, i Brics passeranno a produrre il 43% del petrolio estratto nel pianeta (contro il 20% attuale) e il 40% del grano.
Il gruppo dei Bric – acronimo coniato dall’economista Jim O’Neil di Goldman Sachs per indicare quattro paesi attraenti per gli investimenti – si è costituito nel 2006 a margine di un’assemblea delle Nazioni Unite. Nel 2010, poi, si aggiunse la ‘s” del Sudafrica, e l’alleanza si propose esplicitamente di «rafforzare il coordinamento tra i cinque principali paesi in via di sviluppo» e di «rendere più rappresentativo l’ordine mondiale» dominato da Washington e dalle altre potenze del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti), nei confronti del quale i cosiddetti «paesi non allineati» si pongono in aperta contrapposizione, in particolare dopo l’accelerazione della competizione globale innescata dall’invasione russa dell’Ucraina e dal coinvolgimento diretto della Nato nel conflitto.
Comparando Brics e G7 sulla base del Pil nominale, il primato di quest’ultimo è saldo, ma se invece si considera il dato a parità di potere d’acquisto il blocco alternativo all’occidente vale già il 32% del Pil globale (20 anni fa rappresentava solo il 15%), contro il 30% dei “sette grandi”.
Ora Washington teme l’ascesa di nuove potenze, molte delle quali fino a pochi anni fa erano docili pedine dei propri interessi economici, geopolitici e militari (si pensi ad Arabia Saudita ed Emirati). Ma paradossalmente la strategia di “contenimento” dei propri concorrenti messa in atto dagli Stati Uniti – sanzioni, guerra commerciale, tentativi di regime change riusciti o falliti, aumento della militarizzazione, creazione di nuovi patti regionali in funzione soprattutto anticinese in Asia e nell’Indo-Pacifico – ha paradossalmente costretto i Brics ad accelerare il processo di integrazione reciproca e di costruzione di una propria area di influenza.
Ma i Brics hanno ancora molta strada da percorrere, in condizioni di competizione internazionale sempre più dure.
All’interno della necessità di una maggiore integrazione economica e finanziaria, i paesi membri si sono impegnati a valutare un sistema di pagamenti in valute locali nel commercio internazionale e nelle transazioni finanziarie tra i Brics. All’interno dell’alleanza la dedollarizzazione è già avviata, e nel 2022 solo il 28,7% degli scambi è avvenuta utilizzando la moneta statunitense. Nel frattempo, però, il progetto di una valuta del blocco, complementare alle valute nazionali esistenti ma alternativa al dollaro, si è rivelato più complesso del previsto e realizzabile, forse, in tempi lunghi. Le economie dei paesi aderenti sono infatti molto diverse tra loro e l’allargamento da 5 a 11 membri non potrà che moltiplicare i punti di vista, le esigenze e quindi le contraddizioni.
Proprio mentre a Johannesburg si svolgeva il vertice dei Brics, nello spazio andava in scena uno dei tanti terreni di competizione interna al blocco, con l’India – paese ancora estremamente legato agli Stati Uniti e da sempre in contrasto con il grande vicino cinese – che metteva a segno un punto importante nella corsa alla Luna dopo il fallimento della Russia.
Salta agli occhi, inoltre, che il Pil della Repubblica Popolare Cinese da solo pesa molto di più di quelli di tutti gli altri partner messi insieme e, per quanto Pechino sia tra i maggiori promotori dell’integrazione e della crescita di un blocco internazionale indipendente da Washington e Bruxelles, è anche vero che una tale potenza mondiale non agisce certo sulla base di criteri filantropici.
La competizione con le potenze “occidentali” rimane il principale collante del progetto di integrazione dei Brics, che gli Stati Uniti cercano di contrarrestare accelerando sul piano dello scontro militare, sul quale sa di essere in vantaggio sui concorrenti mentre sul piano economico e politico continua a perdere colpi.
Ma paradossalmente, più questi paesi cresceranno economicamente, politicamente e militarmente, più si apriranno nel pianeta nuovi spazi di egemonia, più aumenterà la competizione interna alla galassia delle potenze emergenti, con quelle più sviluppate impegnate a tentare di piegare il nuovo schieramento internazionale per soddisfare i propri interessi e rafforzare la propria leadership.
Il nodo dell’Africa
Durante l’ultimo vertice, nonostante le dichiarazioni concilianti e altisonanti, è già emerso un terreno di forte contraddizione interna all’alleanza. Nel dibattito è stato dedicato ampio spazio al continente africano, nel quale l’egemonia di Cina e Russia continua ad ampliarsi a spese di Washington e delle vecchie potenze coloniali europee e in competizione con altri paesi (Emirati e Turchia, ad esempio).
In riferimenti ai conflitti in corso in Africa i Brics chiedono «soluzioni africane ai problemi africani». È però evidente che l’affollamento di potenze straniere è sempre maggiore e che la coabitazione tra diversi interessi e strategie, che finora ha funzionato in virtù del prevalere della comune contrapposizione alle potenze “occidentali”, potrebbe entrare in crisi generando uno scontro tra alleati.
Proprio ieri, a Johannesburg si è tenuto l’ennesimo summit Cina-Africa, con la partecipazione dei presidenti delle otto Comunità Economiche Regionali del continente e del presidente dell’Unione Africana.
Nel suo intervento, Xi Jinping ha rivendicato l’assistenza allo sviluppo fornita negli ultimi 10 anni, citando la costruzione di 6000 km di ferrovie, altrettanti di autostrade e 80 grandi impianti energetici, ma dimenticando di spiegare che la maggior parte delle infrastrutture realizzate erano funzionali allo sviluppo dell’economia di Pechino, all’espansione della sua egemonia e all’accaparramento di preziose risorse naturali.
Ma anche la Federazione Russa è “sinceramente” interessata ad approfondire i legami con il continente africano e per questo realizzerà progetti in vari campi, ha ricordato Vladimir Putin, che si è appena liberato dei vertici ribelli della Compagnia Militare Privata “Wagner” ma che ha bisogno dei suoi miliziani per conservare e rafforzare la presa di Mosca su numerosi paesi dell’area dove gioca una fondamentale partita a scacchi con competitori e alleati.
I rischi di un mondo multipolare
«Siamo tutti favorevoli alla formazione di un nuovo ordine mondiale multipolare che sia veramente equilibrato e tenga conto degli interessi sovrani della più ampia gamma possibile di Stati. Ciò aprirebbe la possibilità di attuare vari modelli di sviluppo, aiutando a preservare la diversità dei confini culturali nazionali» ha detto Putin, riproponendo un argomento alla base delle rivendicazioni dei paesi in via di sviluppo.
Al di là delle rappresentazioni idilliache però, in un contesto economico capitalistico, di competizione economica e geopolitica globale e di polarizzazione militare, un mondo formalmente multipolare – popolato da decine di potenze desiderose di imporre i propri interessi e la propria visione e portate a sviluppare un carattere non meno predatorio delle tradizionali potenze coloniali e neocoloniali – rischia di rappresentare l’anticamera di un feroce scontro bellico globale.
Solo le classi dirigenti e le oligarchie che governano i paesi che si aggrappano alla loro posizione egemonica residua possono continuare a difendere un mondo unipolare ingiusto e diseguale. Ma le aspirazioni dei paesi coinvolti dal progetto Brics riguardano principalmente il loro ruolo geopolitico nello scacchiere mondiale, e non certo lo sviluppo di un modello sociale, economico e di sviluppo alternativo a quello attualmente dominante.
L’indurimento della contrapposizione tra potenze non può che condurre ad un aumento della repressione e del controllo sociale, alla diffusione di sistemi politici autoritari sorretti da ideologie reazionarie, alla deviazione di sempre maggiori risorse economiche dalla spesa sociale agli apparati militari e coercitivi necessari alla pacificazione dei “fronti interni”.
Da questo punto di vista la denuncia del brasiliano Lula da Silva appare centrale: «È inaccettabile che la spesa militare mondiale superi in un solo anno i 2mila miliardi di dollari, mentre la Fao ci dice che 735 milioni di persone soffrono la fame ogni giorno». – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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I Brics si allargano, ma non sono ancora un’alleanza
Argentina, Arabia saudita, Emirati arabi uniti, Iran, Egitto ed Etiopia. Prevale la voglia cinese di espandere il gruppo. Più che raddoppiato il peso del gruppo sul fronte della produzione di petrolio
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15 ufficiali sostenuti dagli Stati Uniti coinvolti in 12 colpi di stato nell’Africa occidentale
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by Nick Turse – Responsible Statecraft
Pagine Esteri, 25 agosto 2023 – Gli uomini si riunirono in un cimitero nel cuore della notte. Indossavano giubbotti antiproiettile, stivali e portavano armi semiautomatiche. Il loro obiettivo si trovava a un miglio di distanza, la residenza ufficiale del presidente del Gambia, Yahya Jammeh, un ufficiale militare addestrato negli Stati Uniti che prese il potere nel 1994. Quelli nel cimitero avevano pianificato di estrometterlo ma nell’arco di poche ore erano o morti o in fuga.
Uno di quelli uccisi, ex capo della Guardia Presidenziale del Gambia, Lamin Sanneh, aveva ottenuto in precedenza una laurea magistrale presso l’Università di Difesa Nazionale del Pentagono a Washington, D.C.
Alcuni dei cospiratori furono alla fine condannati negli Stati Uniti “per il loro ruolo nella pianificazione e nell’esecuzione di un tentativo di colpo di stato fallito per rovesciare il governo del Gambia il 30 dicembre 2014”. Quattro si dichiararono colpevoli di accuse legate all’Atto di Neutralità, una legge federale che vieta agli americani di fare guerra contro nazioni amiche. Un quinto fu condannato nel marzo 2017 per l’acquisto ed esportazione di armi utilizzate nel colpo di stato fallito che mise di fronte due generazioni di ammutinati addestrati dagli Stati Uniti.
Il Dipartimento di Stato non sa nulla di tutto ciò, o non vuole saperne. Una semplice ricerca su Google rivela queste informazioni, ma quando Responsible Statecraft ha chiesto se Yahya Jammeh o Lamin Sanneh avessero ricevuto addestramento statunitense, un portavoce del Dipartimento di Stato ha risposto: “Attualmente non siamo in grado di fornire documenti per questi casi storici”. Alla domanda su altri allievi in altre nazioni che hanno subito sollevamenti militari, la risposta è stata la stessa.
Responsible Statecraft ha scoperto che almeno 15 ufficiali sostenuti dagli Stati Uniti sono stati coinvolti in 12 colpi di stato nell’Africa occidentale e nel Sahel durante la guerra al terrorismo. L’elenco include personale militare del Burkina Faso (2014, 2015 e due volte nel 2022); Ciad (2021); Gambia (2014); Guinea (2021); Mali (2012, 2020, 2021); Mauritania (2008); e Niger (2023). Almeno cinque leader dell’ultimo colpo di stato in Niger hanno ricevuto addestramento statunitense, secondo un funzionario americano. A loro volta, hanno nominato cinque membri delle forze di sicurezza nigerine addestrati dagli Stati Uniti per servire come governatori, secondo il Dipartimento di Stato.
Il numero totale di ammutinati addestrati dagli Stati Uniti in Africa dal 11 settembre potrebbe essere molto più alto di quanto si sappia, ma il Dipartimento di Stato, che tiene traccia dei dati sugli allievi statunitensi, è o riluttante o incapace di fornirli. Responsible Statecraft ha individuato oltre 20 altri nel personale militare africano coinvolto in colpi di stato che potrebbero aver ricevuto addestramento o assistenza statunitense. Ma quando è stata posta la domanda, il Dipartimento di Stato ha detto di non avere la “capacità” di fornire informazioni che pure possiede.
“Se stiamo addestrando individui che stanno mettendo in atto colpi di stato non democratici, dobbiamo porci più domande su come e perché ciò accade”, ha detto Elizabeth Shackelford, ricercatrice senior al Chicago Council on Global Affairs e autrice principale del rapporto appena pubblicato, “Meno è Meglio: Una Nuova Strategia per l’Assistenza alla Sicurezza degli Stati Uniti in Africa”. “Se nemmeno cerchiamo di arrivare in fondo a questo problema, ne facciamo parte. Questo non dovrebbe essere solo sulla nostra agenda, dovrebbe essere qualcosa che seguiamo intenzionalmente.”
Shackelford e i suoi colleghi sostengono che la propensione degli Stati Uniti a riversare denaro in eserciti abusivi dell’Africa invece di effettuare investimenti a lungo termine nel rafforzamento delle istituzioni democratiche, nella buona governance e nello stato di diritto, ha minato obiettivi più ampi.
Oltre all’addestramento di ammutinati militari in Africa, altri sforzi per la sicurezza degli Stati Uniti durante la guerra al terrorismo sono anch’essi naufragati e falliti. Le truppe ucraine addestrate dagli Usa e dai loro alleati stanno avendo difficoltà durante controffensiva lanciata mesi fa contro le forze russe, sollevando dubbi sull’utilità dell’addestramento.
Nel 2021, un esercito afghano creato, addestrato e armato dagli Stati Uniti per oltre 20 anni si è sciolto di fronte all’offensiva dei talebani. Nel 2015, un’operazione da 500 milioni di dollari del Pentagono per addestrare ed equipaggiare ribelli siriani, destinata a produrre 15.000 truppe, ne ha generate solo alcune dozzine prima di essere abbandonata. Un anno prima, un esercito iracheno costruito, addestrato e finanziato, per un costo di almeno 25 miliardi di dollari, dagli Stati Uniti è stato sconfitto dalle forze improvvisate dello Stato Islamico.
“La politica degli Stati Uniti in Africa ha troppo a lungo dato priorità alla sicurezza a breve termine a discapito della stabilità a lungo termine, privilegiando la fornitura di assistenza militare e di sicurezza”, scrive Shackelford nel nuovo rapporto del Chicago Council. “Le partnership e l’assistenza militare con paesi illiberali e non democratici hanno prodotto pochi, se non nessun miglioramento sostenibile della sicurezza, e in molti casi hanno promosso ulteriore instabilità e violenza aumentando la capacità di forze di sicurezza abusive”. Pagine Esteri
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Meta sta finalmente lanciando un'app Web molto più potente per Threads
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Sarai in grado di pubblicare, interagire con altri post e guardare il tuo feed, dice a The Verge la portavoce Christine Pa
Da giovedì la versione web è online per tutti, ha detto in un post il capo di Instagram Adam Mosseri
PODCAST AUSTRALIA. Referendum per i diritti degli aborigeni. Cosa cambierà?
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di Daniela Volpecina –
Pagine Esteri, 23 agosto 2023. Un referendum per riconoscere i diritti degli aborigeni. L’annuncio del governo australiano, giunto al termine di un lungo e infuocato dibattito, sta già facendo discutere.
La popolazione su questo tema appare spaccata e i pareri contrari al momento sembrerebbero prevalere su quelli favorevoli. Ma che cosa cambierà per gli indigeni se i sì al quesito referendario, previsto presumibilmente entro fine anno, dovessero prevalere sui no?
Il prof. George Zillante
Ne abbiamo discusso con il professor George Zillante, già capo dipartimento della facoltà di Architettura dell’Università di Adelaide nel sud dell’Australia, oggi consulente dell’ateneo, e grande conoscitore della materia.
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Come l'Occidente ha imparato a smettere di preoccuparsi e ad amare la Cina e altre storie, nella newsletter Digital Bridge di MarkScott, capo corrispondente tecnologico di POLITICO
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
— Anu Bradford, l’accademico finlandese che ha coniato l’espressione “effetto Bruxelles”, ritiene che l’Occidente assomigli sempre più alla Cina quando si tratta di politica tecnologica. #DigitalEmpires
— #DSA Digital Service Act: le nuove regole dell'Unione Europea sui social media entrano in vigore questa settimana. Avvertenza: nessuno è pronto e dobbiamo tutti calmarci.
— Le nuove norme indiane sulla protezione dei dati rappresentano o una sorveglianza di massa su larga scala o una nuova era di protezione della privacy. Possono essere vere entrambe?
— I recenti articoli accademici sul ruolo che le piattaforme di Meta svolgono nella politica statunitense sono uno sforzo nobile. Ma secondo Brandon Silverman nella sua newsletter Substack, non riescono a spiegare come la trasparenza dovrebbe essere un processo continuo e non qualcosa che è una semplice istantanea nel tempo.
— Alle agenzie federali statunitensi è stato ordinato di presentare proposte di finanziamento per costruire strumenti che riducano le minacce dell’intelligenza artificiale, anche contro la democrazia
— Di recente 𝕏 ha apportato MASSIVE modifiche al proprio algoritmo. Tibo ha trascorso 20 ore a esaminare 13.160 righe di codice modificato: ecco le pepite d'oro che ha trovato
Qui il testo completo della newsletter
How the West learned to stop worrying and love China
POLITICO's weekly transatlantic tech newsletter uncovers the digital relationship between critical power-centers through exclusive insights and breaking news for global technology elites and political influencers.Mark Scott (POLITICO)
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“UNO MATTINA ESTATE”
Domani avrò il piacere di partecipare alle 11.30 su RAI UNO alla puntata di UNO MATTINA ESTATE con Tiberio Timperi e Serena Autieri per parlare di privacy e social network.
Con l’emissione speciale del 18 agosto sono stati pagati gli stipendi dei supplenti brevi e saltuari per oltre 173 mila ratei contrattuali, per un totale di quasi 121 milioni di …
L’impotenza dell’Onu di fronte all’incidente di Prigozhin. Il commento di Tricarico
Pur conoscendo la risposta, ho voluto comunque verificare che non esista possibilità alcuna di monitorare o avere qualunque forma di controllo sul rispetto delle norme da parte della Russia nelle attività di investigazione sulle cause dell’incidente aereo che avrebbe causato la morte del capo della Wagner, Evgenij Prigozhin.
L’Icao, infatti, l’organismo delle Nazioni unite che sovrintende alle attività delle aviazioni mondiali, ha la stessa potestà nel pretendere il rispetto delle regole da lui emanate come l’Onu delle sue Risoluzioni, nessuna. Nessuna è quindi la speranza che quello che prescrive l’Annesso 13 dell’Icao, il capitolo che regolamenta le inchieste sugli incidenti di volo, venga rispettato da Putin.
L’unico adempimento perentorio è quello di far avere un rapporto preliminare sull’incidente entro un mese e un rapporto finale, se possibile, entro un anno. Tutto il lavoro investigativo a monte dei due rapporti può rimanere – e nel caso russo verosimilmente rimarrà –patrimonio conoscitivo esclusivo dell’agenzia russa dell’Aviazione civile. Ci dovremo quindi rassegnare a un’ulteriore dose di mistificazioni senza poter capire, anche questa volta, cosa è realmente accaduto a conclusione della tormentata parabola terrena di Prigozhin e del suo ruolo nel sistema di potere russo. Oltre alle conseguenze che il tutto comporterà in un teatro più collegato ai nostri interessi, quello africano. Peccato, perché sarebbe bastato il rispetto di solo una o due delle prescrizioni dell’Annesso 13 per venire a capo dell’accaduto.
In primis, l’analisi del relitto. Non ci si stancherà mai di ripetere che il “relitto parla”, e nel caso dell’impatto di un missile parla molto chiaro. Un occhio neanche troppo esperto sarebbe in grado di valutare, dopo un solo esame sommario, se il velivolo è stato colpito da un missile. E per i palati più raffinati, un esame più approfondito dei rottami significativi, sarebbe in grado di rivelare anche il tipo di missile impiegato.
Stesse opportunità ma con tempi più lunghi, se la causa dell’incidente dovesse essere stata una bomba a bordo. Proprio per questo, il primo intervento in caso di incidente di volo è quello di preservare i rottami e di sorvegliarli con perentorietà.
Un’altra fonte, anche questa probabilmente derimente, sarebbero le comunicazioni radio, telefoniche o dei dati. Sempre per escludere o confermare che ci sia stato un ordine di abbattimento del velivolo. Un ordine preceduto da coordinamenti tra enti della difesa ed enti di controllo del traffico aereo, o all’interno dell’organizzazione militare stessa che ha portato a compimento il crimine.
Purtroppo, come detto, è più che lecito dubitare che non ci sarà accesso né visibilità alcuna sulle indagini. Tra l’altro le norme prevedono che anche il Paese in cui il velivolo è stato progettato e quello in cui è stato costruito – il Brasile nel nostro caso – possa pretendere di avere un suo rappresentante nella commissione di inchiesta. Sarà rispettata questa norma? O se sarà rispettata, prevarrà lo spirito di Brics, il gruppo di cui la Russia fa parte e che nell’appena concluso quindicesimo meeting ha visto un ruolo molto attivo del presidente brasiliano Lula da Silva, non certo così ostile al suo amico Putin?
Staremo a vedere, preparandoci però a dover prendere atto, anche nella terza dimensione, della progressiva e inevitabile impotenza delle Nazioni unite a svolgere il loro ruolo di governance mondiale.
VIDEO. Israele. Ben Gvir: “I miei diritti superiori a quelli degli arabi”
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della redazione
Pagine Esteri, 24 agosto 2023 – “Il mio diritto, quello di mia moglie e dei miei figli, di muoverci sulle strade in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr), è più importante del diritto di movimento degli arabi (i palestinesi sotto occupazione israeliana, ndr)”. Si è espresso con queste parole il ministro israeliano della Sicurezza ed esponente di punta dell’estrema destra Itamar Ben Gvir, durante una intervista alla tv Canale 12 sull’aumento della tensione e delle uccisioni in Cisgiordania. Ben Gvir è un noto suprematista che non riconosce diritti fondamentali ai palestinesi.
“Mi dispiace, Mohammad”, ha proseguito il ministro rivolgendosi al giornalista di Channel 12, Mohammad Magadli, “ma questa è la realtà. Questa è la verità. Il mio diritto alla vita ha la precedenza sul loro diritto di movimento”.
Secondo l’analista israeliana Mairav Zonszein del Crisis Group, Ben Gvir ha espresso ad alta voce la visione di quella che ha definito come la “parte silenziosa”, ossia i cittadini israeliani di estrema destra che, ha spiegato, manifestano disprezzo per la vita dei palestinesi.
Ahmad Tibi, deputato e cittadino palestinese di Israele, ha definito i commenti di Ben Gvir la prova che Israele non dà valore alla vita dei palestinesi. “Per la prima volta, un ministro israeliano ammette in diretta che Israele applica un regime di apartheid, basato sulla supremazia ebraica”, ha scritto Tibi su X, la piattaforma precedentemente nota come Twitter. Pagine Esteri
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Agenda Sud, l’intervento con il PNRR. Una visione nuova per superare i divari negli apprendimenti, caratterizzata da percorsi di crescita e di accompagnamento mirato delle scuole.
Info ▶️ miur.gov.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Agenda Sud, l’intervento con il PNRR. Una visione nuova per superare i divari negli apprendimenti, caratterizzata da percorsi di crescita e di accompagnamento mirato delle scuole. Info ▶️ https://www.miur.gov.Telegram
Fabio Tavano
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