GRECIA. L’imprenditore “americano” Kasselakis è il nuovo leader di Syriza
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di Redazione
Pagine Esteri, 27 settembre 2023 – «Oggi nasce il nuovo partito democratico che cambierà la Grecia». Questa è la promessa contenuta nel discorso tenuto dall’imprenditore greco Stefanos Kasselakis dopo la vittoria alle primarie del principale partito della sinistra ellenica.
Kasselakis ha vinto con il 56,6% la sfida contro l’ex ministra del Lavoro Effie Achtsioglou, data inizialmente per favorita, al ballottaggio tenutosi domenica scorsa, che ha visto la partecipazione di 133.261 iscritti al partito.
Il congresso, con relative votazioni per l’elezione del nuovo leader del partito, si è reso necessario dopo le dimissioni del leader storico Alexis Tsipras dopo la disfatta di Syriza alle legislative del 25 giugno, tenutesi dopo quelle del 21 maggio che avevano già visto la netta vittoria del partito di destra Nuova Democrazia ma senza il raggiungimento della maggioranza assoluta.
Il “secondo turno” ha visto la vittoria del premier uscente Mitsotakis con il 40,56% dei consensi, mentre l’opposizione di sinistra guidata da Tsipras è crollata al 17,83%.
Ora una parte della base e della militanza è sconcertata dalla vittoria di un outsider che poco sembra avere in comune con l’identità politica del partito di sinistra. Lui stesso ha spiegato sui social:
«Dal 2012 avevo sviluppato un ottimo rapporto con Kyriakos Mitsotakis quando era deputato, poi ministro del governo e infine capo del partito Nuova Democrazia. Ho scritto un endorsement per lui sul National Herald mentre era in lizza per la leadership del partito. Avevo – e ho tuttora – molto rispetto per la sua persona».
L’interesse per Syriza si è sviluppato, per sua stessa ammissione, solo a partire dal 2022. Finora Kasselakis, 35 anni, non ha mai avuto incarichi politici all’interno della formazione e fino a un mese fa era un perfetto sconosciuto. Si era infatti candidato nelle liste di Syriza alle ultime elezioni ma non era stato eletto.
Nato ad Atene ed appartenente ad una famiglia di ricchi armatori, Stefanos Kasselakis si era trasferito a 14 anni negli Stati Uniti per poi laurearsi in Economia presso l’Università della Pennsylvania. In seguito ha lavorato per 5 anni come trader per la banca d’affari Goldman Sachs, e poi ha acquisito un’impresa marittima, la SwiftBunk, che gestiva 3 navi cargo e due petroliere. Nel 2008 ha lavorato come volontario sostenendo la candidatura di Joe Biden alle primarie del Partito Democratico degli Stati Uniti.
Poi la decisione di vendere l’azienda e di tornare in Grecia, per annunciare il 28 agosto la sua candidatura alla leadership del partito scosso dalla cocente sconfitta elettorale e da uno spostamento al centro della vecchia segreteria che l’imprenditore promette di rafforzare.
Una parte del partito accusa il nuovo leader di essere stato sostenuto dalla destra, che spera ora di liquidare il maggior partito di opposizione, e dal sistema mediatico che ha dato a Kasselakis una forte spinta all’interno dell’opinione pubblica progressista, influendo sull’orientamento di molti iscritti che hanno votato al ballottaggio ma non al turno precedente. Molti degli iscritti infatti hanno aderito a Syriza a ridosso del congresso proprio per poter indicare Kasselakis.
L’imprenditore ha basato la sua campagna su una proposta “liberal” fondata su un programma di modernizzazione e di razionalizzazione della società greca che però soffre sempre più le bordate liberiste ed autoritarie della destra al potere. In un intervento pubblicato sul quotidiano Ekathimerini, Kasselakis ha spiegato che «se l’intenzione è quella di tornare a governare è necessaria una profonda autocritica all’interno del partito. Syriza dovrebbe copiare al più presto la formula statunitense. Abbracciare inequivocabilmente anche il centro politico, chiarire che una gestione fiscale prudente non è negoziabile e mettere in mostra il talento manageriale del suo futuro gabinetto».
Tra i suoi impegni, c’è quello di abolire il servizio militare obbligatorio, aumentare la spesa pubblica per l’istruzione e affermare la separazione tra Stato e Chiesa. Oltretutto alle ultime elezioni nel nuovo parlamento sono entrate ben 3 formazioni di destra radicale ed estrema destra.
Alcuni esponenti della residua minoranza di sinistra di Syriza accostano la figura e la scalata di Kasselakis a quella di Matteo Renzi e promettono battaglia. Ma la sua vittoria al ballottaggio è dovuta anche all’appoggio ricevuto da uno dei candidati esclusi dalla corsa dopo il primo turno, l’ex ministro Nikos Pappas, uno dei più stretti collaboratori di Tsipras. Lo stesso Tsipras ha rifiutato gli inviti, provenienti da militanti e dirigenti, a invitare gli iscritti a far convergere i voti su Effie Achtsioglou. – Pagine Esteri
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La lobby di chatcontrol: “Confermate le peggiori paure”. Un'intera rete di lobby si batte a Bruxelles per far approvare il regolamento che renderà obbligatoria la scansione di tutti i messaggi
L'indagine "conferma le nostre peggiori paure", ha affermato Diego Naranjo, capo della politica dell'organizzazione per i diritti civili European Digital Rights ( @EDRi ). "La legge europea sulla tecnologia più criticata negli ultimi dieci anni è il prodotto del lobbying delle imprese private e delle forze dell'ordine." Il commissario capo degli Interni Ylva Johansson ha ignorato “la scienza e la società civile” e ha proposto una legge per “legalizzare la sorveglianza di massa e infrangere la crittografia”.
"Qui si abusa della protezione dei bambini per aprire la porta a un'infrastruttura di sorveglianza di massa senza motivo", lamenta @Konstantin Macher dell'associazione per la protezione dei dati @Digitalcourage .
Allo stesso tempo, si parla già di espandere la misura invasiva per l’applicazione della legge comune da parte di Europol. Macher sottolinea: "Ciò significa che la credibilità residua della prevista legge sulla sorveglianza è andata perduta. Il controllo della chat deve essere immediatamente interrotto". Il deputato europeo Patrick Breyer (Partito Pirata) è rimasto scioccato: poiché era il negoziatore del Partito dei Verdi, molte delle presunte organizzazioni di protezione dell'infanzia o associazioni di vittime menzionate si erano rivolte a lui. Finora si è aspettato che i metodi descritti di “legislazione dirottata” si applicassero solo ai gruppi imprenditoriali.@Patrick Breyer ha affermato di non avere idea che la campagna di controllo delle chat fosse orchestrata e finanziata da "una rete di organizzazioni legate all'industria tecnologica e ai servizi di sicurezza". Questi partecipanti ricevono “milioni in denaro da una fondazione gestita dagli Stati Uniti”, che paga anche agenzie di consulenza per creare strategie di lobbying. Per creare un precedente, gli attori statunitensi in Europa avrebbero voluto imporre "uno screening privo di sospetti dei nostri messaggi privati", cosa che non è la legge negli stessi Stati Uniti. Meredith Whittaker, responsabile del servizio di messaggistica Signal, si è lamentata, che dietro “l’attacco globale alla privacy digitale” c’erano pubblici ministeri e società di intelligenza artificiale. Questi ultimi affermano di essere rappresentanti della società civile, anche se hanno "un interesse commerciale nella vendita di tecnologie di scansione di massa fraudolente".
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In Cina e Asia – Sempre più cinesi rimandano i propri viaggi all’estero
La rassegna stampa di oggi, da Cina e Asia. Sempre più cinesi rimandano i propri viaggi all'estero.
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VIDEO. Più di 100 morti e 150 feriti in un incendio in Iraq
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della redazione
Pagine Esteri, 27 settembre 2023 – Oltre 100 persone sono rimaste uccise e 150 ferite in un incendio divampato durante un matrimonio nel distretto di Hamdaniya, nella provincia settentrionale irachena di Ninive. In queste ore i soccorritori continuano a cercare possibili sopravvissuti nello scheletro carbonizzato dell’edificio.
Il vicegovernatore di Ninive Hassan al-Allaq ha detto che al momento 113 persone sono state confermate morte, con i media statali che riferiscono anche di 150 feriti.
Testimoni hanno detto che l’edificio ha preso fuoco intorno ieri intorno alle 22:45 ora locale e che centinaia di persone erano presenti al momento dell’incidente. L’incendio ha devastato una grande sala dopo che erano stati accesi i fuochi d’artificio al suo interno.
Il ministero dell’Interno iracheno ho emesso quattro mandati di arresto per i proprietari della sala. I rilievi preliminari indicano che l’edificio era stato realizzato con materiali da costruzione altamente infiammabili, cosa che ha contribuito al suo rapido crollo.
Il governo ha proclamato tre giorni di lutto nazionale.
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Sinosfere – Il Dharma della Diaspora. Connessioni buddhiste attraverso il Mar Cinese Meridionale
Il saggio di Jack Meng-Tat Chia (Singapore National University) intitolato “Il Dharma della Diaspora: connessioni buddhiste attraverso il Mar Cinese Meridionale”, esamina l’evoluzione della rete di rapporti buddhisti tra la Cina sud-orientale e il sud-est asiatico nella prima metà del ventesimo secolo, focalizzandosi sul monastero di Nanputuo 南普陀. Chia mette in luce il ruolo chiave dei cinesi d’oltremare nel sostenere finanziariamente il buddhismo in Cina, illustrando al contempo la conseguente diffusione in Malesia e a Singapore di pratiche tipiche del buddhismo modernista, come la fondazione di organizzazioni laiche, la promozione di opere di beneficenza e filantropiche, l’impegno sociale dei monaci e lo sviluppo di attività nazionalistiche, aspetti che caratterizzano ancora oggi il buddhismo cinese dell’area.
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Il Niger espelle le truppe francesi e si allea con Mali e Burkina Faso
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di Marco Santopadre
Pagine Esteri, 27 settembre 2023 – Dopo mesi di braccio di ferro seguiti al golpe militare del 26 luglio scorso, Emmanuel Macron ha ammesso che la «Françafrique è morta» annunciato il celere rimpatrio dell’ambasciatore di Parigi in Niger, Sylvain Itté, e il ritiro delle truppe francesi dal paese entro la fine del 2023.
La mossa arriva dopo che per diverse settimane l’Eliseo aveva rifiutato di richiamare il suo rappresentante diplomatico a Niamey nonostante l’esplicita richiesta da parte dei golpisti e il boicottaggio dell’ambasciata, presa di mira dai manifestanti e oggetto del distacco delle utenze da parte delle nuove autorità del paese. Da quasi un mese la sede diplomatica francese è circondata dalle forze di sicurezza nigerine e l’ambasciatore, al quale Niamey ha ritirato l’immunità, non è in grado di muoversi liberamente.
«Mettiamo fine alla nostra cooperazione militare con le autorità de facto del Niger, perché non vogliono più lottare contro il terrorismo» ha spiegato Macron annunciando il ritiro dei 1.500 soldati francesi dispiegati finora nel paese.
La «Françafrique è morta»
Finora il Niger ha rappresentato il perno della presenza militare francese nel Sahel, dopo la partenza forzata delle truppe di Parigi dal Mali nell’agosto del 2022 a seguito di un colpo di stato, che ha posto fine all’operazione Barkhane (a sua volta succeduta all’operazione Serval lanciata nel 2013). All’inizio di quest’anno, poi, anche la Saber Force – forze speciali francesi operative a Ouagadougou da 15 anni – ha dovuto abbandonare il Burkina Faso dopo la presa del potere da parte di una giunta militare ostile alla Francia.
Dopo dieci anni di operazioni militari nel Sahel, giustificate dall’esigenza di contrastare l’insorgenza jihadista, nel Sahel Parigi manterrà una presenza militare soltanto in Ciad, dove si trovano circa 1.000 soldati (qui il figlio di Idriss Déby ha preso il potere al posto del padre violando la Costituzione col consenso di Parigi…). Nel resto dell’Africa Parigi manterrà anche 900 militari in Costa d’Avorio, 1400 a Gibuti, 350 in Senegal e 400 in Gabon, ma il ritiro dal Niger conferma il rapido e conclamato declino dell’influenza francese in un’area del continente dove si stanno affermando delle potenze concorrenti. Dopo il golpe, in particolare il Mali ha avviato una collaborazione militare con Mosca e ha accolto un contingente della Wagner, presente anche nella Repubblica Centrafricana e in Cirenaica (Libia).
Ovviamente l’annuncio di Macron è stato accolto con entusiasmo dai golpisti di Niamey: «celebriamo il nuovo passo verso la sovranità del Niger. È un momento storico che testimonia la determinazione e la volontà del popolo nigerino» ha affermato la giunta militare in un comunicato. Per il cosiddetto “Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria” «tutte le persone, le istituzioni o le strutture che costituiscono una minaccia per gli interessi e i progetti del Paese devono abbandonare» il Niger, «le forze imperialiste e neocolonialiste non sono più le benvenute».
Il ritiro dell’ambasciatore e del contingente militare francese da Niamey rappresentano una cocente sconfitta per Macron, che finora aveva tenuto il punto affermando di non riconoscere la legittimità delle autorità nigerine salite al potere con il golpe di fine luglio, insistendo sul fatto che il deposto presidente Mohamed Bazoum fosse il suo unico interlocutore.
Il contingente francese è dispiegato in tre basi: la principale è quella di Niamey – dove sono presenti anche 250 militari italiani – e altre truppe di Parigi sono presenti a Ouallam (a nord della capitale) e ad Ayorou,vicino alla frontiera con il Mali. Nelle basi sono dispiegati anche numerosi aerei da combattimento Mirage ed elicotteri d’attacco Tiger, oltre a decine di veicoli corazzati e di droni da bombardamento MQ-9 Reaper.
Le giunte golpiste contro l’Ecowas
All’inizio di agosto il governo di transizione nigerino, guidato dal generale Abdourahamane Tchiani, aveva denunciato gli accordi di cooperazione militare con Parigi definendo “illegale” la presenza in Niger dei circa 1.500 soldati francesi. Da allora fuori dalla principale base francese a Niamey si sono svolte partecipate manifestazioni a sostegno della richiesta di ritiro delle truppe di Parigi che in un primo tempo aveva ridotto il contingente aumentando però il numero delle sue truppe in altri paesi africani come Senegal, Costa d’Avorio e Benin.
Una mossa denunciata dal nuovo regime del Niger, secondo il quale Parigi si preparava ad un intervento militare contro Niamey, d’altronde paventato nei giorni immediatamente successivi al golpe ma poi sfumato a favore di una operazione militare per “ristabilire l’ordine costituzionale” da affidare ai paesi riuniti nell’ECOWAS, la Comunità Economica dell’Africa Occidentale. Ma poi anche questa seconda opzione è sfumata, dopo che Washington si è tirata indietro valutando positivamente l’indebolimento del ruolo francese nel continente. Dopo le rassicurazioni ricevute dai golpisti – in particolare dall’ex capo delle Forze Speciali, generale Moussa Salaou Barmou, ora esponente del nuovo regime, formatosi negli Stati Uniti e incaricato delle relazioni con la vice segretaria di Stato Victoria Nuland – Washington ha infatti deciso di mantenere per ora nel paese i suoi 1100 militari, la maggior parte dei quali sono stati però spostati da Niamey ad Agadez.
La giunta militare del Niger ha poi deciso nei giorni scorsi di disdire l’accordo di cooperazione militare esistente con il Benin, accusato da Niamey di aver concesso la propria disponibilità a partecipare ad un intervento armato contro i golpisti per conto di Parigi. Nel frattempo la Nigeria ha tagliato a Niamey le forniture elettriche mentre altri paesi hanno deciso di imporre sanzioni economiche e commerciali.
Niger, Mali e Burkina siglano un’alleanza militare
Per tentare di far fronte alla situazione, le giunte militari di Mali, Niger e Burkina Faso hanno quindi siglato un accordo di mutua difesa per «preservare la sovranità dei tre paesi» e per contrastare l’insorgenza jihadista.
I leader militari dei tre paesi – il colonnello Assimi Goita per Bamako, il generale Omar Tchiani per Niamey e il capitano Ibrahim Traoré per Ouagadougou – hanno firmato un documento articolato in 17 punti secondo il quale «qualsiasi attacco alla sovranità e all’integrità territoriale di una o più parti contraenti sarà considerato un’aggressione contro le altre parti».
Al documento è stato dato il nome di Carta del Liptako-Gourma, la regione in cui si incontrano i confini dei tre Paesi firmatari, nota anche come “zona delle tre frontiere”, al centro negli ultimi anni della violenza dei gruppi fondamentalisti islamici. La cosiddetta “Alleanza degli Stati del Sahel” (Aes) struttura in modo formale il sostegno offerto a Niamey da Mali e Burkina Faso in caso di attacco da parte della Comunità dei Paesi dell’Africa occidentale.
Oltre a impegnare i tre paesi a non attaccarsi a vicenda e a contrastare eventuali ribellioni armate contro i rispettivi governi, il documento prevede anche l’eventuale adesione di altri paesi dell’area. L’obiettivo dell’Alleanza, ha spiegato il “presidente di transizione” maliano Goita, è «istituire una architettura di difesa collettiva e di assistenza reciproca a beneficio delle nostre popolazioni». Il tentativo è quello di unire le forze per far fronte all’espansione delle milizie legate ad al Qaeda o a Daesh una volta espulse le truppe francesi e di altri paesi occidentali.
La firma dell’Alleanza dei Paesi del Sahel
Sforzi comuni contro le ribellioni e i jihadisti
Proprio in questi giorni gli eserciti del Burkina Faso e del Niger stanno compiendo delle operazioni congiunte contro i gruppi jihadisti nell’est del Burkina Faso. L’operazione, in cui sarebbero morti decine di fondamentalisti, è avvenuta una settimana dopo che il parlamento di Ouagadougou ha approvato lo spiegamento di un certo numero di truppe in Niger per combattere la rivolta jihadista lungo il confine tra i due paesi. Nei giorni precedenti l’aviazione del Niger ha realizzato dei raid aerei sulla città di Tamalat, situata nel Mali sud-orientale, contro alcuni miliziani dello Stato Islamico del Grande Sahara (Eigs), organizzazione radicata nell’area di confine.
Effettivamente il paese della nuova alleanza che per ora sembra essere messo peggio è sicuramente il Mali, dove negli ultimi mesi è riesplosa anche la ribellione dei combattenti Tuareg riuniti nella Coalizione dei Movimenti dell’Azawad (Cma). I Tuareg, che nel 2012 avevano proclamato l’indipendenza del nord del paese, accusano ora la giunta golpista di aver violato l’accordo di pace siglato nel 2015 ad Algeri con l’allora governo civile di Bamako e di aver attaccato i territori dove sono insediati i ribelli.
Dal Mali si stanno ritirando in queste settimane, su richiesta della giunta militare al potere, le forze della Missione di Mantenimento della pace delle Nazioni Unite (Minusma), che comprendono anche 900 militari tedeschi, il che rende ancora più gravoso il compito delle forze armate locali. Negli ultimi mesi, infatti, le milizie jihadiste hanno riconquistato in Mali territori consistenti in particolare nel nord: da agosto la città di Timbuktù è assediata dalle milizie del Gruppo di Sostegno dell’Islam e dei Musulmani (JNIM), e i suoi abitanti non possono né abbandonare l’area né ricevere rifornimenti.
Per cercare di frenare questa avanzata, la giunta del Mali sta rafforzando le relazioni con Mosca. Dopo aver ricevuto dalla Russia numerosi caccia, aerei per trasporto truppe ed elicotteri da combattimento, ad agosto i leader di Bamako hanno avuto ben due colloqui con Vladimir Putin. Dopodiché la giunta golpista del Mali ha annunciato il rinvio – per “motivi tecnici” – delle elezioni presidenziali previste per febbraio, che avrebbero dovuto segnare la consegna del potere ai civili. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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L’Azerbaigian piega gli armeni, abbandonati da Russia e Nato
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di Marco Santopadre
Pagine Esteri, 22 settembre 2023 – L’ennesimo assalto militare azero alla Repubblica di Artsakh è durato solo poche ore, tra il 19 e il 20 settembre, ma è bastato per costringere gli armeni alla resa.
Isolati e indeboliti da dieci mesi di assedio, durante i quali i nazionalisti azeri travestiti da “ecologisti” hanno bloccato il corridoio di Lachin (l’unico accesso dalla madrepatria all’enclave armena) impedendo il passaggio di cibo e medicinali, gli armeni del Nagorno-Karabakh non sono riusciti a tenere testa alle truppe di Baku armate da Turchiae Israele.
Pur di evitare un bagno di sangue, le autorità di Stepanakert – la capitale della piccola repubblica autoproclamata dagli armeni all’inizio degli anni ’90 all’interno del territorio dello stato azerbaigiano – hanno dovuto capitolare.
Ieri mattina, mentre le delegazioni dell’Artsakh e dell’Azerbaigian si incontravano a Yevlakh per definire i dettagli della resa e dello smantellamento della piccola repubblica armena, a Stepanakert numerosi testimoni hanno denunciato sparatorie e l’avanzata delle truppe azere, in violazione del cessate il fuoco varato il 20 settembre con la mediazione russa.
Inizialmente sembrava che il bilancio dell’ultimo attacco azero al Nagorno-Karabakh avesse provocato poche vittime, ma nelle ultime ore il bilancio è stato elevato a circa 200 morti e 400 feriti, per lo più appartenenti alle forze di autodifesa della Repubblica di Artsakh. Purtroppo il conteggio include anche alcune decine di civili.
Anche una pattuglia di soldati russi, appartenenti alla forza dispiegata da Mosca nel 2020 per monitorare il rispetto del cessate il fuoco raggiunto al termine del conflitto di 44 giorni durante il quale Baku ha ripreso la maggior parte dei territori persi agli inizi degli anni ’90, è caduta in un’imboscata dell’esercito azero nella zona di Dzhanyatag. Sotto il fuoco dei militari di Baku sarebbero morti ben 6 soldati di Mosca, tra cui il vicecomandante del contingente russo Ivan Kovgan. Il dittatore azero Aliyev si è ufficialmente scusato con il Cremlino ed ha sospeso il comandante delle truppe inviate in Nagorno-Karabakh in attesa dell’esito di un’inchiesta sull’accaduto.
Lo spettro della pulizia etnica
Le truppe russe hanno affermato di aver evacuato già migliaia di abitanti armeni della regione, e altre migliaia starebbero cercando di abbandonare l’enclave assediata per sottrarsi alle rappresaglie azere. Il difensore civico del Nagorno-Karabakh, Ghegham Stepanian, denuncia una “catastrofe”.
Secondo i termini dell’accordo imposto con le armi da Baku in quella che il regime di Aliyev ha ribattezzato “operazione antiterrorismo”, le forze di autodifesa dell’enclave armena devono consegnare le armi e cedere il controllo del territorio alle truppe azere. Di fatto la prospettiva è quella dello scioglimento dell’entità statuale autoproclamata ormai trent’anni fa dagli armeni dell’Azerbaigian. Si profila un esodo forzato verso l’Armenia dei circa 120 mila abitanti dell’enclave e l’azzeramento della millenaria presenza armena in territori che l’Unione Sovietica aveva deciso di trasformare in una Repubblica Autonoma annessa all’Azerbaigian e che poi, con lo sfaldamento dello stato socialista e in seguito a una sanguinosa guerra con Baku e la conseguente cacciata degli abitanti azeri, si era proclamata indipendente.
Il regime di Ilham Aliyev da una parte esulta per la sconfitta dei “terroristi” e il recupero della sovranità nazionale su tutto il territorio statale, dall’altra assicura che i diritti politici, civili, religiosi e culturali degli armeni saranno garantiti nel rispetto della Costituzione dell’Azerbaigian. Ma, ha avvisato il dittatore (al potere dal 2003 e preceduto da dieci anni di potere assoluto del padre), chi non accetterà di integrarsi dovrà andarsene, come hanno già fatto migliaia di armeni scappati o cacciati dai territori della Repubblica di Artsakh riconquistati da Baku nel 2020 e ripuliti etnicamente.
L’Armenia sempre più sola
La Repubblica Armena è di nuovo sotto shock per l’ennesima e storica disfatta e la consapevolezza di un isolamento quasi assoluto a livello internazionale che mette a rischio la sua stessa sopravvivenza. Il regime azero infatti ha già aggredito lo scorso anno il territorio dello stato armeno e rivendica apertamente il carattere azero di buona parte del suo territorio. Il casus belli è rappresentato dalla contesa per il raggiungimento della continuità territoriale tra l’Azerbaigian e una sua exclave – la Repubblica di Nakhchivan – separata dalla madrepatria da una larga striscia di territorio armeno. Per ottenere il collegamento con l’exclave Baku potrebbe pensare di impossessarsi di una porzione di Armenia approfittando della evidente debolezza di Erevan abbandonata dagli storici alleati e soverchiata dalla potenza militare ed economica di Baku.
Mentre l’Armenia ha davvero poco da offrire, negli ultimi anni l’Azerbaigian è diventato una potenza energetica emergente, sostenuta dalla Turchia e finanziata da una lunga lista di paesi che acquistano i suoi idrocarburi e che, pur solidarizzando con Erevan e criticando gli eccessi di Aliyev, si guardano bene dall’imporre sanzioni al regime di Baku.
Il governo dell’Armenia ha fatto di tutto pur di rimanere fuori dall’ennesimo scontro militare tra i cugini dell’Artsakh e gli azeri, temendo un’espansione dei combattimenti nel suo territorio. D’altronde ormai il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha riconosciuto l’appartenenza all’Azerbaigian del Nagorno-Karabakh, cedendo alle rivendicazioni di Baku.
Pashinyan ci ha tenuto, con varie dichiarazioni, a segnare le distanze con l’amministrazione dell’Artsakh e l’estraneità ai combattimenti – Erevan ha ritirato le sue ultime unità militari dall’enclave armena nel 2021 – accusando anzi “attori interni ed esterni” di voler coinvolgere il paese in un disastro.
«Se le forze di pace russe hanno avanzato la proposta di porre fine alle ostilità e di sciogliere l’esercito dell’Artsakh, significa che si sono completamente assunte l’obbligo di garantire la sicurezza degli armeni del Nagorno-Karabakh» ha affermato il primo ministro armeno. Secondo Pashinyan le forze di pace russe dovrebbero garantire condizioni adeguate affinché «gli armeni del Nagorno-Karabakh possano godere del pieno diritto di vivere nelle loro case e sul loro suolo».
Il tradimento russo
Tra Erevan e Mosca le relazioni non sono mai state così deteriorate, e in Armenia monta la rabbia per l’inerzia delle truppe russe di fronte all’ennesima aggressione militare azera preceduta dal micidiale assedio durato dieci mesi.
La Russia, impantanata in Ucraina, certo non desidera essere coinvolta in un conflitto nel Caucaso nonostante il patto militare con l’Armenia (sul cui territorio possiede una base militare) e l’impegno, assunto nel 2020 con il dispiegamento di 2000 peacekeepers nei territori contesi, a garantire il rispetto del cessate il fuoco.
Oltretutto Mosca ha sviluppato negli ultimi anni ottime relazioni economiche e anche militari con il regime di Ilham Aliyev, al quale Gazprom fornisce ogni anno 1 miliardo di tonnellate di gas che poi Baku rivende a caro prezzo ai paesi occidentali, gli stessi che dopo l’aggressione militare russa all’Ucraina hanno disdetto i contratti con la Russia e cercato fonti alternative di idrocarburi.
«L’Azerbaigian agisce sul proprio territorio, che l’Armenia ha riconosciuto quindi si tratta di un affare interno dell’Azerbaigian» ha detto il portavoce del Cremlino, Dimitrij Peskov, imitato da Vladimir Putin.
Il “voltafaccia” di Pashinyan
Dimitrij Medvedev, presidente del Consiglio di Sicurezza russo, sui social ha invece fatto intendere che l’Armenia merita il destino che la attende, colpevole di aver flirtato con la Nato.
Che il leader armeno abbia cercato a occidente il sostegno non più proveniente da Mosca è innegabile, d’altronde Pashinyan è diventato premier per la prima volta nel 2018 in seguito a dei moti di piazza filostatunitensi e filoeuropei. Ma la versione russa che punta il dito esclusivamente sulle responsabilità del premier armeno sorvolando su quelle del regime di Putin è quanto mai di parte.
Quando nel 2020 l’Azerbaigian ha aggredito l’Artsakh e le truppe armene, forte dei droni da bombardamento turchi Bayraktar e delle truppe addestrate da ufficiali di Ankara, l’intervento di Mosca impedì una disfatta totale, obbligando però Erevan ad affidarsi completamente alla Russia per non soccombere. Ma il tempo ha dimostrato che la Federazione Russa non aveva alcun interesse a difendere realmente l’Armenia e men che meno l’Artsakh, e non ha mosso un dito per bloccare le ulteriori aggressioni azere. Mosca non è intervenuta a sostegno di Erevan neanche quando, nel settembre 2022, Baku ha attaccato direttamente la Repubblica Armena e questa ha chiesto l’intervento dell’Organizzazione del trattato sulla sicurezza collettiva (CSTO), un’alleanza militare regionale guidata dalla Russia che oltretutto con Erevan ha un accordo militare di difesa mutua.
Negli ultimi mesi, mentre l’inerzia russa convinceva Baku che era venuto il momento di tentare la spallata finale, Pashinyan e i suoi ministri hanno iniziato a cercare un’alternativa all’inefficace scudo russo, irritando però ancora di più Putin senza al tempo stesso garantirsi una difesa efficace da parte dei nuovi alleati, cioè gli Stati Uniti e la Francia, ma anche l’India e l’Iran.
Quando l’11 settembre una manciata di militari armeni ha iniziato ad addestrarsi insieme a un numero equivalente di soldati statunitensi, il viceministro degli Esteri russo Sergei Ryabkov ha dichiarato che le esercitazioni (le “Eagles Partner 2023“) congiunte con un paese della Nato violavano lo “spirito” del partenariato militare con Mosca. Pochi giorni prima, Erevan ha ritirato il proprio rappresentante presso il CSTO accusando il blocco militare di complicità oggettiva con l’Azerbaigian, mentre la moglie di Pashinyan visitava Kiev, l’Armenia inviava aiuti umanitari simbolici all’Ucraina e avviava l’iter di adesione alla Corte Penale Internazionale. Per tutta risposta la Russia ha convocato l’ambasciatore armeno per illustrare le proprie rimostranze.
Nel frattempo l’Azerbaigian ha ammassato per settimane le proprie truppe a ridosso dell’Artsakh, facendo poi scattare i bombardamenti e le incursioni. Putin ha lasciato fare. Forse a Mosca sperano che l’isolamento di Pashinyan e i suoi errori gli costino la carica di primo ministro, magari a vantaggio di un personaggio più vicino ai propri interessi. Ma nel paese il risentimento nei confronti della Russia non ha mai raggiunto livelli così alti e comunque Mosca ha lasciato deteriorare la situazione a tal punto, con la situazione in Nagorno-Karabakh ormai irrimediabilmente compromessa, da avere ormai davvero poco da offrire agli armeni.
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Manifestazioni e scontri a Erevan
Mentre in Azerbaigian la folla nazionalista esulta sventolando bandiere turche e russe, nella capitale armena si susseguono le manifestazioni e gli scontri, con relativi feriti e arresti. Da martedì decine di migliaia di persone, aderenti a movimenti nazionalisti o a partiti di opposizione, al grido di “vergogna” e “assassini” assediano la sede del parlamento e del governo armeni, oltre che la sede diplomatica di Mosca, chiedendo le dimissioni di Nikol Pashinyan e un intervento deciso a favore degli armeni dell’Artsakh.
Per impedire l’ingresso dei dimostranti nelle sedi istituzionali, la polizia in assetto antisommossa ha operato numerosi arresti e ha fatto uso di granate stordenti. Alcuni manifestanti impugnano le bandiere degli Stati Uniti o dell’Unione Europea, della Georgia e della Francia, riponendo false speranze in paesi che, dichiarazioni a parte, non hanno mosso un dito per bloccare l’ennesima offensiva azera.
L’UE protesta con Baku ma pensa al gas
Non sono mancate le dichiarazioni di condanna nei confronti delle mosse di Baku da parte del responsabile della politica estera dell’UE, Josep Borrell, o del Dipartimento di Stato di Washington, o da parte del governo francese. Ma nessuna misura concreta è stata fin qui varata da nessun governo occidentale per convincere il regime di Aliyev a rinunciare all’aggressione militare o alle prevedibili operazioni di pulizia etnica in Nagorno-Karabakh, suscitando la delusione del ministro degli Esteri armeno, mentre l’ambasciatore Edmon Marukyan ha accusato esplicitamente UE e Stati Uniti di essere responsabili della tragedia in corso nell’enclave armena dell’Azerbaigian.
Mentre in numerosi parlamenti europei ed in quello di Strasburgo crescono le richieste di sanzioni nei confronti di Baku, è evidente che l’UE non ha nessun interesse a vararle, anzi.
Lo scorso anno Bruxelles ha siglato un accordo con Baku per raddoppiare entro il 2027 le forniture di gas che, estratto nel Caucaso meridionale, arriva a Melendugno attraverso il TAP. La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen si è impegnata personalmente per accaparrarsi le forniture azere e poter tagliare quindi quelle russe. Volata a Baku per siglare l’accordo nel luglio scorso, von der Leyen ha descritto l’Azerbaigian come «un partner affidabile e degno di fiducia» sorvolando sulla violazione sistematica dei diritti umani e politici da parte del regime e sul militarismo e lo sciovinismo nei confronti degli armeni.
Nell’ultimo anno in Italia la quota di gas proveniente dall’Azerbaigian è già aumentata dal 10 al 15,1%, eguagliando le importazioni dall’Algeria. Baku ha nel frattempo aumentato gli introiti delle esportazioni di idrocarburi da 20 a 35 miliardi di euro; di questi ben 16,5 provengono dall’Italia. E poi c’è tutto il capitolo degli armamenti: grazie ai crescenti introiti dell’industria petrolifera il regime di Aliyev negli ultimi anni ha fatto il pieno di armi turche e israeliane, ma anche americane ed europee (e russe). – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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L'articolo L’Azerbaigian piega gli armeni, abbandonati da Russia e Nato proviene da Pagine Esteri.
“Philips Italia: nel futuro, da 100 anni”
A partire dalle 12.00 avrò il piacere di partecipare con Andrea Celli, Managing Director Philips Italia, Israele e Grecia, al Convegno organizzato da Philips per celebrare i suoi 100 anni per discutere della digitalizzazione al servizio della salute
PRIVACYDAILY
Weekly Chronicles #47
Privacy Week, giorno 2 e 3
Anche il secondo giorno di Privacy Week è passato e spero che molti di voi abbiano assistito al pomeriggio che abbiamo organizzato.
Sono stato tra i conduttori della seconda giornata, e insieme a tanti ospiti abbiamo dialogato di smart city e sorveglianza di massa, social scoring e perfino smart home, con aspetti anche relativi all’esperienza italiana.
Ad esempio, sapevate che esiste un mercato di voyeuristi che pagano per spiare la gente dalle telecamere hackerate nelle loro case? È una delle tante cose di cui abbiamo parlato ieri. Se hai una telecamera connessa o qualche dispositivo IoT a casa, qualche dubbio me lo farei venire…
Un piccolo dietro le quinte dello studio di Privacy Week
Per la seconda parte della giornata abbiamo invece affrontato il tema spinoso della sanità pubblica e della cybersicurezza dei dispositivi medici. Tantissima carne al fuoco per argomenti che ruotano intorno al concetto di cittadino e di città, che però somigliano sempre più a feudi digitali pronti ad accaparrarsi i nostri dati, ma molto meno propensi a proteggerli.
Oggi invece si parte con il terzo giorno, dedicato alle cryptovalute e all’identità digitale. Non sarò io a condurre ma gli amici Jacopo Sesana, Angelica Finatti e il buon Gianluca Grossi, che forse qualcuno di voi conoscerà in quanto capo redattore di e autore di . Con loro, anche oggi molti ospiti che si alterneranno dalle 10 alle 12:30 in un palinsesto ricco di contenuti.
Tutti gli incontri oggi saranno in streaming come sempre su www.privacyweek.it
Prometto che cercherò di rimanere calmo e pacato.
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Apple ci prova con iOS 17
Pare che l’ultimo aggiornamento di iOS abbia attivato di default alcune impostazioni che riguardano geolocalizzazione delle “significant locations” e l’acquisizione di dati di analisi per il miglioramento dei servizi.
I dati di geolocalizzazione dovrebbero essere conservati in locale, sul dispositivo. Per quanto riguarda invece i dati di analisi, questi sono inviati direttamente ai server Apple e hanno molto a che fare con ciò che fate e come usate il dispositivo.
Solitamente l’acquisizione di questi dati è molto invasiva, quindi il consiglio è di disattivare l’opzione che invece Apple ha pensato bene di riattivare per tutti con questo aggiornamento.
Le nuove cards Lightning SatsMobi
1Come saprete, in questo periodo sono sempre più i negozi fisici e online che accettano pagamenti Bitcoin. Questo è molto positivo per tutto l’ecosistema, ma bisogna trovare strumenti semplici, amichevoli e dalla user experience migliorata, che agevolino l’uso di Bitcoin come sistema di pagamento.
Sappiamo che per i piccoli acquisti e scambi, Lightning Network è oggi il metodo di pagamento Bitcoin più usato, essendo istantaneo, comodo e facile da gestire con la maggior parte dei wallet. Anche la comodità di Lightning arriva però fino a un certo punto: dobbiamo tirar fuori il telefono, aprire il nostro wallet, puntare e fare scan di un QR code. Insomma, non è poi così immediato.
È per questo che abbiamo pensato di introdurre le NFC Cards Lightning SatsMobi. Sono carte di pagamento Lightning che effettuano la transazione semplicemente avvicinando la carta al dispositivo di pagamento (se abilitato NFC). Si tratta di uno standard aperto.
Dove sta il valore aggiunto per l’utente? Prima di tutto, le cards SatsMobi sono connesse a un Bot Telegram (SatsMobiBot) che permette di gestire il saldo, vedere la lista movimenti, ricaricare la disponibilità (“top-up”) e molto altro.
Inoltre, la carta può essere collegata al wallet Lightning Zeus, permettendo una usabilità ancora maggiore.
Una volta attivata l’utente avrà automaticamente disponibile un Lightning address del tipo “nomeutente@sats.mobi” che gli permetterà da subito di ricevere tips Lightning, pagamenti e donazioni da qualunque wallet, oppure da Nostr2.
Da ultimo, le cards SatsMobi sono collegate automaticamente anche al BitcoinVoucherBot e quindi possono anche essere caricate con un Voucher Lightning acquistato su questo sistema di cambio.
Quindi: massima usabilità per cercare di rendere l’esperienza utente semplice, veloce e anche piacevole. Per ordinare le cards e visionare le caratteristiche d'impiego, potete riferirvi al seguente link: bitcoinvoucherbot.com/product-…
Weekly meme
Weekly quote
“What we know is everything, it is our limit, of what we can be.”
Julian Assange
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Contributo di Massimo Musumeci
Social network decentralizzato con integrazione Lightning, molto amato dai Bitcoiner
Abbiamo un'inchiesta bomba sulla fortissima attività di lobbying che sta per portare all'approvazione del regolamento #chatcontrol che intercetterà di fatto TUTTI i cittadini europei.
Ne parlano Le Monde, Die Zeit, El Diario.
MA IN ITALIA LA STAMPA TACE ANCORA!
Di cosa ha paura?
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Key enabling technologies. Soluzioni per le nuove sfide nei cinque domini nell’evento Elesia
L’aumento sempre maggiore nel ricorso alle cosiddette “tecnologie abilitanti fondamentali” porta con sé diverse sfide per il futuro in ambiti strategici e ambientali cruciali per la sicurezza e la difesa del nostro Paese, e soprattutto per le operazioni militari multidominio e per la riduzione del carbon footprint.
Questo sarà il focus dell’evento “Key enabling technologies (Ket) – Soluzioni per le nuove sfide nei cinque domini”, organizzato da Elesia con il patrocinio del Segretariato generale della Difesa e direzione nazionale armamenti (Segredifesa), della Marina militare e della Confederazione italiana armatori Confitarma. L’iniziativa si terrà a Roma mercoledì 27 settembre presso Villa Dino, in via Appia Antica 249B, a partire dalle ore
L’evento rappresenterà un’opportunità per dare uno sguardo approfondito al mondo delle Ket, strettamente legate a un intenso impegno in ricerca e sviluppo, a cicli di innovazione rapidi e alla creazione di posti di lavoro altamente specializzati. Tali tecnologie sono infatti fondamentali a livello sistemico, in quanto contribuiscono al valore generato nella catena produttiva e hanno la capacità di innovare i processi, i prodotti e i servizi in tutti i settori economici. I due diversi panel in cui si articola la conferenza saranno dedicati rispettivamente all’utilizzo delle tecnologie abilitanti chiave per i settori della difesa e della sicurezza e alle Key enabling technologies per il dominio marittimo.
Interverranno nel corso dell’evento il presidente di Elesia, Davide Magini, il ceo di At Agency e già sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo, il professore di Studi strategici presso l’università Lumsa, Matteo Bressan, il contrammiraglio di Segredifesa Pietro Alighieri, il direttore commerciale di Elesia, Fabio Saba e l’head of technology & innovation electronics division di Leonardo, Domenico Vigilante.
Il secondo panel, che metterà invece al centro l’ambiente sopra e sotto la superficie del mare, vedrà intervenire il capo del 7° reparto navi dello Stato maggiore della Marina militare, l’ammiraglio Marco Tomassetti, l’head of energy saving, R&D and ship design di Grimaldi group Confitarma, Dario Bocchetti, il professore del dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale dell’università Sapienza, Antonio Carcaterra, e il vice presidente research & innovation di Fincantieri, Massimo Debenedetti.
Il libero commercio fa bene a tutti
“Nessuno ha mai visto un cane con un suo simile fare uno scambio deliberato e leale di un osso contro un altro osso. Nessuno ha mai visto un animale, coi suoi gesti o le sue grida naturali, far capire a un altro animale: “questo è mio, quello è tuo, io darei volentieri questo
in cambio di quello”.
Il celebre passaggio di Adam Smith ci ricorda che l’uomo è portato allo scambio con i propri simili. E, in effetti, “in una società incivilita egli ha bisogno in ogni momento della cooperazione e dell’assistenza di moltissima gente, mentre tutta la vita gli basta appena per assicurarsi l’amicizia di poche persone”. Il riferimento a “moltissima gente” è essenziale perché implica che lo scambio è tendenzialmente senza confini, mentre all’epoca gli Stati nazionali adottavano una politica mercantilista, per la quale il commercio era un gioco a somma zero. La scoperta degli illuministi scozzesi, Hume e Smith, consisteva proprio nella dimostrazione che il libero commercio tra le nazioni faceva stare meglio tutti, sia chi importava che chi esportava e colui il quale formulò con maggiore rigore questa teoria fu un seguace di Adam Smith, l’inglese David Ricardo, di cui lo scorso 11 settembre ricorreva il 200° anniversario della morte.
La disquisizione non è puramente teorica. Mentre negli anni 90 la comunità internazionale (e quella scientifica) aveva accettato questo principio, da un po’ di anni si assiste alle difficoltà della globalizzazione. Sempre più spesso i governi impongono restrizioni al commercio. Alla base ci sono motivi politici, come per le sanzioni nei confronti di Stati-canaglia o guerrafondai; il timore di trasferimento di tecnologie strategiche verso Paesi ostili (esportazioni europee e americane verso la Cina); la genuflessione verso lobby interne (il blocco dell’importazione di grano ucraino da parte della Polonia) o infine la reazione ai sussidi statali a favore di imprese esportatrici (ancora una volta l’Ue verso la Cina). Persino i provvedimenti più giustificabili comportano conseguenze negative per entrambe le parti.
Torniamo ai nostri filosofi ed economisti del XVIII e del XIX secolo. Ebbene, David Hume, filosofoscettico scozzese, aveva già demolito le credenze protezionistiche nei suoi saggi Of Commerce, Of theBalance of Trade e Of Jeaulosy of Trade. Scriveva infatti che “l’incremento delle ricchezze e del commercio di una qualunque nazione, piuttosto che causare un danno di solito favorisce i Paesi limitrofi nell’acquisto di ricchezze e di commerci” anche perché la libertà di scambio costituisce uno stimolo positivo e “un incoraggiamento” per l’economia degli Stati circostanti. “All’inizio la merce è importata dall’estero con nostro grande disappunto, perché pensiamo che essa ci privi della nostra moneta; in un secondo tempo le competenze stesse vengono gradualmente importate, a nostro evidente vantaggio”: il commercio come veicolo di diffusione della conoscenza. Se nel passato gli stranieri “non ci avessero istruito, noi ora
saremmo dei barbari”. Adam Smith, suo caro amico, lo spiegò con grande semplicità: “Per mezzo di vetrate, concimazioni e serre riscaldate si possono coltivare in Scozia ottime uve, e con esse si può fare anche dell’ottimo vino, con una spesa quasi trenta volte più alta di quella con cui si può far arrivare da Paesi stranieri un vino almeno altrettanto buono”. D’altronde “è una regola di condotta di ogni prudente capofamiglia quella di non cercare mai di fabbricare a casa ciò che costerebbe più far da soli che comprare”.
Sulle spalle dei due giganti si piazza David Ricardo, politico, uomo d’affari, economista che sviluppò la teoria del vantaggio comparativo. Nei suoi Principles of Political Economy and Taxation, il ragionamento è sviluppato in modo semplice: anche quando un Paese è più
efficiente di un altro in due produzioni, comunque gli conviene specializzarsi in una. Poniamo che il Portogallo produca 1 bottiglia di vino con 5 ore di lavoro e un chilo di pane con 10 ore. L’Inghilterra, invece, produce la stessa bottiglia in 3 ore e il chilo di pane in un’ora. Sembrerebbe che all’Inghilterra convenga fare tutto a casa. Invece, il costo del Portogallo
per produrre il vino, sebbene più alto che in Albione, è più basso rispetto al pane. Per ogni bottiglia prodotta, il Portogallo dà via 1⁄2 chilo di pane, mentre all’Inghilterra basta 1/3 di chilo. Quindi il Portogallo ha un vantaggio comparativo nel produrre il vino, mentre l’Inghilterra lo ha nel produrre il pane. Se Londra e Lisbona scambiano vino e pane 1 a 1, il Portogallo convertirà le 10 ore che gli ci vogliono per produrre il pane per fare 2 bottiglie di vino. Anche l’Inghilterra ci guadagna, perché per importare due bottiglie di vino dal Portogallo in cambio di due chili di pane, ci dovrà mettere due ore di lavoro, mentre per fare una bottiglia di vino ne impiega tre e quindi, con lo scambio immaginato, convertirà le 3 ore per sfornare 3 chili di pane e alla fine si troverà con una bottiglia in più (ne importa due) e un chilo di pane in più (gliene avanza uno). Ecco qui la teoria dei vantaggi comparativi spiegata senza complesse formule matematiche. Il mondo è diventato sempre più complicato ma la lezione di questi tre giganti si è dimostrata una delle più solide della teoria economica: ricordiamocelo.
Affari & Finanza
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Secolari
Se ne è sicuri: non ci sono più la classe politica di una volta, i protagonisti e la qualità del tempo che fu. Complici i funerali e le partecipazioni stereotipate al cordoglio, quello scemare di qualità è dato per scontato. Penso, però, che sia falso. Il nostro problema è che noi – noi cittadini, noi italiani – ci ostiniamo a essere uguali a quel che fummo.
Certo, se si riascoltano o rileggono gli interventi politici di una volta non si può non cogliere l’abisso in quanto a dimestichezza con la lingua italiana. Ma quello ha a che vedere con la scuola, non con la politica. Il che non toglie l’esistenza di un legame fra le due cose: meno si forma e più ci si sforma. Ma a parte l’esprimersi nella lingua italiana, ho l’impressione che nel mendace ricordo del passato si tenda a cancellare troppe cose.
I funerali di Giorgio Napolitano non mancano di sovrabbondanza retorica. Ma anche d’ipocrisia. E non è che si sfugga all’ipocrisia con l’avversità e il parlarne male, perché quella è soltanto l’ipocrisia che sta dall’altra parte. Napolitano è uno degli ultimi, grandi figli del Novecento, secolo in cui tantissimi siamo nati, ma quando erano già sbocciati la pace e il sanissimo e benedetto vincolo esterno. Prima è stato il secolo delle tragedie e delle allucinazioni. E anche quello in cui siamo cresciuti noi è stato il secolo delle divisioni. Di cui, appunto, Napolitano era figlio.
Oggi tutti a dire: il grande europeista. Fu fiero oppositore parlamentare dell’ingresso dell’Italia nel Sistema monetario europeo, il nonno dell’euro. Fu sostenitore dell’eurocomunismo, con francesi, portoghesi e spagnoli che la storia ha seppellito. Tutti a dire: l’amico degli Usa e dell’Occidente. Fu amico dell’Urss e tale rimase anche dopo l’invasione di Praga. Che non condannò lui, ma il Pci. Avendo plaudito quella di Budapest. Fu il responsabile dei rapporti d’affari con l’Urss, ovvero del sistema che generava tangenti all’estero, confluenti con i finanziamenti diretti. Ma è demenziale pensare di addebitare queste cose a Napolitano, perché quelle erano le caratteristiche del secolo. Come è ipocrita cancellarle.
Non era un “comunista liberale”, che è come dire un “prete laico”. Vedeva gli errori comunisti, ma sentiva che nessuna salvezza poteva esistere fuori dal partito, come fuori dall’ecclesia. La classe politica che mise il partito avanti all’onestà delle idee non è in sé ammirevole. Anche se tale può apparire nella stagione in cui ciascuno fa il proprio partito e ci mette anche il nome del casato. In quelle condizioni fare politica – ovvero tenere vivo il conflitto nel proprio partito, trovare appoggi in altri e non rompere né il proprio né l’altrui – richiedeva destrezza. Napolitano che ammira Craxi non se la può cavare facendo prima un governo con Craxi e poi uno con Almirante, o viceversa. Cosa che oggi s’usa e getta.
Era migliore, quel mondo? No, è migliore il nostro. Gli interpreti del secolo diviso si videro cadere in testa i macigni del Muro di Berlino. Non seppero vedere la fine del comunismo, ma capirono che come comunisti erano finiti. E chi aveva fieramente avversato il comunismo non seppe vedere il cambio di spartito che quel crollo innescava. Il nostro mondo è migliore, ma noi siamo sempre gli stessi: pronti a tutto pur di non fare i conti con gli errori commessi, pronti ad abboccare a qualsiasi racconto storico pur di non fare i conti con la Storia. Il Paese che fu fascistissimo e poi si volle raccontare in armi nella Resistenza. Che si unì contro il volere del papato, ma volle raccontarsi che lo fece con fede cristiana. Che baratta il voto con l’avere per sé un brano di spesa pubblica e pretende che corrotti ed evasori siano sempre gli altri.
Si era già estinto il filone di derivazione risorgimentale. Si estinguerà presto il filone comunista. Si è stinta la scuola del cattolicesimo sociale. E capita perché stiamo meglio e si suppone non serva più pensare alla politica, preferendo il trasformismo ipocrita. Che, per non migliorare, resta una strada avvincente.
La Ragione
L'articolo Secolari proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
F-35 italiani in volo per intercettare aerei russi in Polonia
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Pagine Esteri, 26 settembre 2023. Due degli F-35 italiani inviati pochi giorni fa in Polonia per supportare le operazioni NATO, sono stati utilizzati per intercettare aerei russi entrati in quello che viene definito “lo spazio aereo dell’Alleanza atlantica”.
A farlo sapere, in una nota, la stessa NATO, che annuncia il primo lancio dei velivoli italiani dalla base aerea di Malbork. “I jet da combattimento della NATO – spiega la nota – si lanciano regolarmente per tali missioni di routine lungo i confini dell’Alleanza, ad esempio sulle coste del Mar Baltico per proteggere le popolazioni e i territori dell’Alleanza. Il distaccamento italiano F35, chiamato Task Force Air 32nd Wing, è attualmente schierato in Polonia sotto la polizia aerea rafforzata della NATO, disponibile 24 ore su 24, 7 giorni su 7 per sostenere le attività di deterrenza e difesa dell’Alleanza“.
On the 21 Sep, 🇮🇹 execute their first scramble out of Malbork Air Base, 🇵🇱 under #NATO‘s Air Policing MissionThe F35’s intercepted 2 Russian Su-30 which were not on a flight plan & had not contact to Air Traffic control
Read more: t.co/NfXCv42Lno#SecuringTheSkies pic.twitter.com/mjUuUEP4ck
— NATO Air Command (@NATO_AIRCOM) September 25, 2023
di Antonio Mazzeo –
Pagine Esteri, 15 settembre 2023. Atterrati a Malbork in Polonia gli F35A della Task Force Air 32° Wing che garantirà il supporto alle operazioni NATO Air Policing attraverso missioni aeree di difesa e deterrenza sul fianco Est dei Paesi. Cresce pericolosamente il coinvolgimento dell’Italia nel sanguinoso conflitto russo-ucraino: nessuna dichiarazione ufficiale del governo e men che meno uno straccio di dibattito parlamentare, appena un tweet dello Stato Maggiore dell’Aeronautica zeppo di hashtag e annunci bellicosi (#ForzeArmate – #Una ForzaperilPaese -#WeAreNato – #StrongerTogether).
Il 13 settembre sono atterrati nella base aerea di “Krolewo” a Malbork in Polonia nord-orientale (a meno di un centinaio di Km dal confine con l’enclave russa di Kaliningrad) due cacciabombardieri di quinta generazione F-35A dell’Aeronautica italiana; altri due F-35 sono attesi entro un paio di giorni. “I caccia italiani arrivano in Polonia a sostegno della deterrenza e della difesa della NATO”, riporta l’ufficio stampa dell’Allied Air Command, il Comando centrale delle forze aeree dell’Alleanza di stanza nella grande base di Ramstein, Germania. “Gli aerei pattuglieranno i cieli sul fianco orientale europeo nell’ambito delle missioni di Air Policing della NATO. Oltre ad unirsi ai caccia dell’Aeronautica polacca e di altri paesi partner, i velivoli italiani contribuiranno anche alle attività addestrative che l’Alleanza Atlantica conduce nell’ambito delle sue rafforzate attività di vigilanza”.
Le attività di Air Policing consistono nella “continua sorveglianza” dello spazio aereo, nonché nell’“identificazione di eventuali violazioni alla sua integrità”, dinanzi alle quali scattano “appropriate azioni di contrasto”, come ad esempio, il decollo rapido (scramble) dei caccia intercettori. Pericolosissimi faccia a faccia tra top gun delle forze avversarie che possono sfociare in veri e propri duelli aerei, specie se gli incontri ravvicinati avvengono negli spazi aerei di frontiera esplosivi come quelli tra la Polonia nord-orientale e l’enclave della Russia nel Mar Baltico.
“Lo schieramento di moderni aerei da caccia di quinta generazione in Polonia – appena sei mesi dopo la fine di un dispiegamento simile da parte degli F-35 dell’Aeronautica italiana – dimostra la capacità della NATO di posizionare capacità di combattimento avanzate in modo flessibile”, ha affermato il generale Gianluca Ercolani, Capo di Stato Maggiore dell’Allied Air Command. “È un’altra prova del fatto che gli alleati operano integrati, secondo efficienti accordi di comando e controllo aereo per eseguire una significativa deterrenza e difesa lungo il fianco orientale”.
Ancora più enfatiche le dichiarazioni del tenente colonnello Ciro Maschione, a capo del distaccamento dei cacciabombardieri F-35A “Task Force Air – 32nd Wing” dell’Aeronautica Militare. “Con l’offerta dei nostri aerei da caccia alla NATO, sottolineiamo che l’Italia è pienamente impegnata a sostenere le missioni collettive e durature dell’Alleanza”, spiega Maschione. “L’Italia è stata il primo alleato a schierare i propri F-35 in una missione NATO – in Islanda – aprendo la strada all’integrazione dei moderni velivoli di quinta generazione nelle operazioni aeree dell’Alleanza insieme a Paesi Bassi, Norvegia, Regno Unito e Stati Uniti”.
L’Aeronautica Militare aveva già schierato nella base polacca di Malbork quattro cacciabombardieri EF-2000 “Eurofighter Typhoon” dalla fine di luglio alla fine di novembre 2022. In poco meno di quattro mesi di attività la task force “White Eagle” ha effettuato oltre 500 ore di volo, nonché 23 Alpha Scramble “per la presenza di velivoli russi che operavano senza autorizzazioni nella zona di competenza degli assetti aerei italiani”. L’altissimo rischio che le operazioni dei caccia italiani potevano concludersi con un confronto-scontro con i Mig della Federazione Russa è stato ammesso dallo Stato Maggiore dell’Aeronautica. “Una settimana intensa quella che gli uomini della Task Force Air White Eagle hanno affrontato fino ad oggi, a causa dei numerosi interventi richiesti dal Combined Air Operation Center di Uedem (altro Centro di comando e controllo aereo della NATO in Germania, ndr)”, ha riferito l’Aeronautica in un comunicato del 22 settembre 2022. “Considerata la complessità del momento, le difficoltà di operare così vicini al confine (i piloti italiani si sono trovati a operare a soli 5 minuti di volo da Kaliningrand, a 20 minuti dalla Bielorussia e a 25 dal territorio ucraino) e, non ultimo, il rischio che qualunque errore possa essere considerato come una provocazione, è assolutamente pleonastico rappresentare come la prontezza operativa di tutta la Task Force, messa duramente alla prova dal continuo operare in tutte le ore della giornata, sia stata garantita dalla preparazione professionale del personale italiano e dell’apparato logistico che ogni giorno li supporta”.
Dall’agosto 2023 l’Italia è pure presente con la Task Force Air Baltic Horse III alle attività di Air Policingdella NATO in Lituania. La missione è denominata Baltic Air Policing ed è condotta anch’essa sotto la supervisione del NATO Allied Air Command di Ramstein. “Il contingente italiano assicura il servizio di Quick Reaction Alert, ovvero la sorveglianza e protezione dei cieli atlantici sul fianco nord-orientale”, spiega lo Stato Maggiore dell’Aeronautica. “La Task Force Air Baltic Horse III è rischierata presso l’aeroporto lituano di Siauliai per contribuire a garantire l’integrità dello spazio aereo della Lituania e delle repubbliche baltiche, rafforzando le attività di sorveglianza delle forze aree dei paesi NATO già presenti nella regione”.
La task force schierata a Siauliai è posta sotto la diretta dipendenza nazionale del COVI(Comando Operativo di Vertice Interforze) ed impiega quattro caccia EF-2000“Eurofighter Typhoon” provenienti dal 4° Stormo dell’Aeronautica di stanza a Grosseto, dal 36° (Gioia del Colle), dal 37° (Trapani-Birgi) e dal 51° (Istrana, Treviso). “La Task Force italiana in Lituania rappresenta l’espressione più autentica della proiettabilità di una Forza Armata moderna, capace di produrre effetti operativi ovunque sia necessario, adattandosi repentinamente ed efficacemente alle mutevoli condizioni di impiego dettate dall’attuale scenario geopolitico”, ha enfatizzato il Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, generale Luca Goretti, in occasione della sua recente visita alla base aerea lituana. Un altro teatro operativo ad alto rischio di deflagrazione: anche questo scalo dista infatti un centinaio di km dall’enclave russa di Kaliningrad e a 200 km dalla Bielorussia.
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Grazie a Radio3Mondo che rompe il silenzio dell'informazione italiana sul regolamento chatcontrol
#stopchatcontrol
Fermiamo #chatcontrol
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30 Settembre, giornata di mobilitazione nazionale a sostegno di Khaled El Qaisi
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COMUNICATO DEL COMITATO “FREE KHALED”
Da ormai un mese Khaled El Qaisi si trova nelle carceri israeliane senza un’accusa e senza che vi siano
le minime condizioni per un giusto processo, in violazione del diri:o internazionale. I media, e in particolare la Rai, che dovrebbe fornire un servizio pubblico, tacciono. Non solo davanti al trattamento riservato a un cittadino palestinese, tacciono davanti al trattamento riservato ad un cittadino italiano.
Per Khaled, dal 31 agosto prigioniero nel carcere israeliano di Petah Tikwa, la sospensione del diritto alla difesa e il diniego di giusto processo costutiscono gravi violazioni dei diritti umani. Inoltre, le condizioni di detenzione a cui è sottoposto, tra cui privazione del sonno, minacce, offese verbali e imposizione prolungata di posizioni di stress, sono potenzialmente riconducibili a un crimine di diritto internazionale.
Le autorità israeliane hanno arrestato un ci:adino straniero in un territorio che occupano militarmente e lo hanno deportato al di fuori di quel territorio. Lo Statuto di Roma, di cui sia l’Italia che la Palestina sono firmatarie, afferma che la deportazione, il trasferimento e la detenzione illegale sono crimini di guerra. Perché questi fatti sono trascurati dalle istutuzioni e dai media?
La salvaguardia dei rapporti tra stati è più importante del rispetto del diritto internazionale e della libertà di Khaled?
È un dovere per lo stato italiano aHvarsi con ogni mezzo necessario, affinché un proprio cittadino arrestato senza accusa in uno Stato straniero venga liberato e veda i propri diritti rispettati. E’ un dovere per i media italiani fare una corretta analisi e informazione nel rispetto della persona e dei diritti di un proprio concittadino.
Ci troviamo sabato 30 settembre davanti alle sedi Rai, e delle maggiori emittenti televisive italiane presenti nelle città italiane, per chiedere subito un’informazione rispettosa e degna sulla situazione di Khaled e per la sua immediata liberazione.
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L’Ucraina nell’Unione Europea: il momento di agire
La Fondazione Luigi Einaudi è stata lieta di ospitare questa mattina il convegno che il presidente della commissione Affari europei Giulio Terzi di Sant’Agata ha dovuto annullare in Senato causa lutto nazionale. L’abbiamo fatto perché Terzi è uno di noi, perché crediamo che la Fondazione Luigi Einaudi sia vocata a svolgere un ruolo di supplenza della politica e soprattutto perché siamo e restiamo al fianco del popolo ucraino.
L’Ucraina deve entrare al più presto nell’Unione europea.
Evento trasmesso anche su radioradicale.it
youtube.com/embed/b67UZ9JhQ2Q?…
L'articolo L’Ucraina nell’Unione Europea: il momento di agire proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
La Fondazione Luigi Einaudi è stata lieta di ospitare questa mattina il convegno che il presidente della commissione Affari europei Giulio Terzi di Sant’Agata ha dovuto annullare in Senato causa lutto nazionale. L’abbiamo fatto perché Terzi è uno di noi, perché crediamo che la Fondazione Luigi Einaudi sia vocata a svolgere un ruolo di supplenza della politica e soprattutto perché siamo e restiamo al fianco del popolo ucraino.
L’Ucraina deve entrare al più presto nell’Unione europea.
youtube.com/embed/b67UZ9JhQ2Q?…
L'articolo fondazioneluigieinaudi.it/7578… proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Breyer on chat control investigative research: EU Commissioner as double agent of foreign interference
Research published yesterday by several European media outlets has revealed that an international campaign in support of the EU’s proposed child sexual abuse regulation has been largely orchestrated and financed by a network of organisations with links to the tech industry and security services. The controversial “chat control” regulation would require providers to indiscriminately scan and automatically disclose allegedly suspicious private messages and photos. EU Parliament lawmaker Patrick Breyer (Pirate Party), negotiator for the Greens/European Free Alliance group on the proposed regulation, expresses shock:
“As negotiator for my group, many of the organisations mentioned in the report, which call themselves child protection organisations or victims’ associations, also contacted me. But I had no idea that the pro-chat control campaign was being orchestrated and funded by a network of organisations linked to the tech industry and security services, drawing millions in funding from a US-led foundation and paying foreign consulting agencies to create lobbying strategies. I had previously only expected corporations to use such methods of ‘capturing legislation’.
To set a precedent, US stakeholders apparently want to push through indiscriminate screening of our private messages and photos in Europe, which is not law in the US itself.
So far, the EU’s Home Affairs Commission has mainly attracted attention as a source of misinformation on chat control. Yesterday’s report makes EU Home Affairs Commissioner Ylva Johansson look like a double agent of foreign interference. We urgently need a legislative footprint that exposes such remote-controlled and foreign-dictated legislation. This is about nothing less than defending our democracy and our fundamental right to digital privacy of correspondence!”
Commenting on the report, President of non-commercial encrypted messaging service Signal Meredith Whittaker said, “the best follow the money reporting on who’s behind the global attack on digital privacy yet.
It’s law enforcement x AI companies posing as NGOs with a commercial interest in selling scammy mass scanning tech. Deeply cynical, deeply shady.”
Cryptologist Matthew Green commented, “Just saw this new investigation into the web of for-profit AI companies pushing anti-encryption legislation in Europe, and it feels like the work of secret organization in a James Bond movie.”
Diego Naranjo, Head of Policy of European Digital Rights, said “The investigation published today confirms our worst fears: The most criticised European law touching on technology in the last decade is the product of the lobby of private corporations and law enforcement. Commissioner Johansson ignored academia and civil society in Europe while she shook hands with Big Tech in order to propose a law that will attempt to legalise mass surveillance and break encryption.”
Diego Naranjo, Head of Policy of European Digital Rights, said “The investigation published today confirms our worst fears: The most criticised European law touching on technology in the last decade is the product of the lobby of private corporations and law enforcement. Commissioner Johansson ignored academia and civil society in Europe while she shook hands with Big Tech in order to propose a law that will attempt to legalise mass surveillance and break encryption.”[5]
Anna Politkovskaja – La Russia di Putin
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L'articolo Anna Politkovskaja – La Russia di Putin proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Decreto Caivano - "Applicazioni di controllo parentale nei dispositivi di comunicazione elettronica" ed altre fantastiche creature partorite dalla fantasia del legislatore
«Rieccoci, dopo qualche mese ho messo mano alla tastiera per scrivere qualcosa di più ampio respiro dei soliti tweet. Questo sia perchè twitter sta affondando, sia perchè oggi ci sono troppe cose da dire e ci vuole spazio.Recentemente, il Governo ha annunciato una serie di misure per la sicurezza dei minori in ambito digitale. Il DECRETO CAIVANO. Ho visto in diretta la conferenza stampa, da subito ho avuto l'impressione che ci fosse più di un problema nel progetto annunciato dall'esecutivo.
Forse il problema principale è nelle intenzioni, più ancora che negli aspetti tecnici.
Ma andiamo con ordine.»
Qui il post completo con il commento di Christian Bernieri al decreto Caivano
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Le Smart Cities e la protezione dati sono un binomio ricco di implicazioni, oggetto del documento di lavoro del Gruppo di Berlino
Dal controllo del traffico alla mobilità, dalla gestione delle risorse ai servizi sociali, le città stanno adottando processi nuovi e innovativi per rendere più confortevole la vita e il soggiorno. Ma il percorso verso città “intelligenti” o “connesse”, con l’introduzione di nuove tecnologie o l’adozione di nuovi trattamenti di dati pre-esistenti, richiede una significativa governance per evitare rischi per i diritti e le libertà delle persone.
Il documento di lavoro, attraverso analisi dei rischi, case studies e raccomandazioni, ha come obiettivo quello di fornire un pratico strumento di supporto rivolto ad amministrazioni locali, fornitori di servizi ed autorità di regolamentazione per definire soluzioni rispettose della protezione dei dati personali.
Uno dei casi proposti riguarda l’analisi degli spostamenti dei passeggeri connessi al wi-fi dell’azienda dei trasporti di Londra. Il progetto, realizzato attraverso l’immediata pseudonimizzazione dei dati personali degli utenti e secondo il principio di minimizzazione, aveva come obiettivo il monitoraggio dell’affollamento delle stazioni della metro e migliorare gli spostamenti dei pendolari. In questo modo, l’azienda aveva potuto immediatamente individuare i dati aggregati da utilizzare per la finalità, senza aver bisogno di incrociarli con altri in suo possesso, come ad esempio quelli presenti negli abbonamenti.
Un altro aspetto sfidante in termini di protezione dati è quello della trasparenza sul trattamento dei dati delle persone e sull’esercizio dei diritti da parte degli interessati. In tal senso, si rivelano interessanti le esperienze dell’Amsterdam Algorithm Register, un sito che illustra tutti gli algoritmi utilizzati dall’amministrazione nell’erogazione dei servizi comunali, e della città di Helsinki, che ha annunciato la creazione di un cruscotto in cui i cittadini possano gestire i consensi rilasciati.
Non mancano infine le raccomandazioni del Gruppo di Berlino affinché i dati siano trattati secondo il principio di limitazione delle finalità, nel caso di dispositivi “smart home” che monitorano le abitazioni di edilizia pubblica, e di integrità e riservatezza, relativamente agli standard di sicurezza degli strumenti IoT (Internet of Things).
Qui la newsletter dell'Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali.
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Resilienza e infrastrutture critiche. L’Europa, l’Italia e l’interesse nazionale
La guerra in Ucraina ha imposto all’Europa e agli alleati un ripensamento della sicurezza delle sue infrastrutture critiche, di fronte al proliferare di minacce ibride dentro ai confini del Vecchio continente. L’accelerazione esponenziale dell’evoluzione tecnologica ha portato da un lato ad avere infrastrutture sempre più robuste rispetto a possibili attacchi, ma dall’altro le ha rese più vulnerabili ad altri tipi di minacce, come quelle cyber, ed è diventato ancora più complesso stimare il rischio. Soprattutto se si considera il legame di interdipendenza tra le stesse infrastrutture critiche. Poiché un guasto, accidentale o doloso, che investe un’infrastruttura può ripercuotersi, con un effetto domino, sulle altre aumentando così gli effetti negativi dell’attacco e la portata della minaccia. I singoli Paesi europei e alleati sono ora chiamati a verificare su input di Bruxelles e della Nato la prontezza di risposta alla minaccia delle proprie infrastrutture.
L’argomento sarà al centro del convegno organizzato da Formiche, “Resilienza e infrastrutture critiche. L’Europa, l’Italia e l’interesse nazionale” che si terrà lunedì 25 settembre presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (sala Polifunzionale, via Santa Maria in Via 37/B) a partire dalle ore 18:00. Saranno invitati a confrontarsi sul tema il direttore generale dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn), prefetto Bruno Frattasi, il consigliere militare del presidente del Consiglio, generale Franco Federici, insieme al capo Dipartimento dei Vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, prefetto Laura Lega, al condirettore generale di Leonardo, Lorenzo Mariani, all’amministratore delegato di Sparkle, Enrico Bagnasco e al Direttore Scientifico del Master universitario di II livello in “Homeland security” del Campus bio medico, professor Roberto Setola. L’evento sarà moderato dal direttore di Formiche, Flavia Giacobbe.
Per partecipare in presenza è necessario inviare una mail a formicheeventi@gmail.com.
In Cina e Asia – Pechino "insoddisfatta” del de-risking europeo invita Bruxelles alla prudenza
Pechino "insoddisfatta" del de-risking europeo invita Bruxelles alla prudenza
Chip War, la Cina progetta di costruire una fabbrica di chip con un acceleratore di particelle
La Filippine rimuovono le boe cinesi in acque contese
Gli Stati Uniti ospitano il secondo forum dei leader del Pacifico
Cina, divieto di uscita dai confini nazionali per banchiere di Nomura
La Corea del Nord permette l'ingresso agli stranieri per la prima volta dal 2020
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Madre statunitense condannata a due anni di carcere per aver somministrato alla figlia la pillola abortiva
Meta, ha fornito alla polizia del Nebraska i messaggi privati di Facebook che Celeste e Jessica Burgess si erano scambiati. In un messaggio, Celeste ha detto a Jessica: “Ricorda che bruciamo le prove”.
US mother sentenced to two years in prison for giving daughter abortion pills
Jessica Burgess pleaded guilty in July to providing an abortion after 20 weeks and tampering with human remainsCarter Sherman (The Guardian)
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@Chamaeleon purtroppo la criminalizzazione di ciò che prima era legale porta molto spesso a comportamenti irrazionali e grotteschi
theguardian.com/us-news/2023/s…
US mother sentenced to two years in prison for giving daughter abortion pills
Jessica Burgess pleaded guilty in July to providing an abortion after 20 weeks and tampering with human remainsCarter Sherman (The Guardian)
Liu Bolin, l’artista invisibile, ha fatto del camouflage il tratto distintivo della sua produzione. In questa nuova puntata di Chinoiserie, la rubrica sull’arte cinese a cura di Camilla Fatticcioni, prosegue il racconto della Cina Contemporanea attraverso i suoi artisti. Si è appena conclusa a Palazzo Vecchio la mostra dedicata al mago del camouflage. Un anno fa, Liu Bolin iniziava il ...
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Il grande sciopero dei metalmeccanici rilancia la lotta operaia negli Stati Uniti
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Di Alessandra Mincone
Pagine Esteri, 26 settembre 2o23 – Un grande sciopero nel settore metalmeccanico sta attraversando venti stati federali degli Stati Uniti d’America con la mobilitazione del sindacato United Auto Workers. L’organizzazione è in stato di agitazione dal 15 settembre, nel tentativo di ottenere un rinnovo dei contratti aziendali sulla base di un aumento salariale per l’intero settore, rivendicando almeno il 40% in più in cinque anni, per far fronte all’inflazione generale. Per la prima volta nella storia del sindacato, la campagna “Stand Up” ha messo in piedi una mobilitazione in contemporanea nelle grandi case automobilistiche Ford, General Motors e Stellantis, a seguito della trattativa infruttuosa di metà estate, che a ridosso dello scadere del rinnovo dei contratti (il 14 settembre) non aveva portato nessuna delle tre multinazionali ad accettare neanche la metà delle rivendicazioni operaie.
L’oggetto del conflitto non è solo un miglioramento dei minimi tabellari, ormai bloccati agli anni della grande crisi 2008-2009. Sul tavolo della trattativa ci è finito anche l’accordo stipulato dalla precedente dirigenza sindacale UAW, che riguarda l’abolizione dell’indennità di rincaro, che sarebbe dovuto essere un accordo transitorio fino alla fine della recessione economica ma è invece ancora in vigore nonostante gli aumenti del costo delle automobili, arrivati a superare il 34% negli ultimi quattro anni; e l’abolizione dei livelli inferiori (definiti con vincoli contrattuali maggiormente precari) e l’assunzione a tempo indeterminato dopo al massimo novanta giorni di lavoro continuo, cosa che consentirebbe di sbloccare l’accesso ai diritti sanitari e pensionistici almeno per quei lavoratori alle dirette dipendenze delle multinazionali.
Nei primi giorni di sciopero non è stato trovato alcun compromesso accettabile: la GM non ha offerto che il 18% degli aumenti richiesti e la Stellantis appena il 17,5%, mentre entrambe concordano che le assunzioni a tempo indeterminato debbano stabilizzarsi dopo almeno quattro anni di lavoro, se non oltre. La Ford, diversamente dai suoi competitor, ha successivamente proposto un aumento salariale del 20% e accettato l’adeguamento dei lavoratori a tempo indeterminato dopo tre mesi di assunzione continua; molto probabilmente solo per frenare l’allargamento alla mobilitazione, anche in vista dei plausibili scioperi nella filiera canadese, dove ventiquattro ore dopo la scadenza del contratto (19 settembre), è stato abbozzato un preaccordo con Unifor, sindacato che conta più di cinquemila iscritti in tre stabilimenti Ford. Pertanto i sindacati hanno sospeso lo stato di agitazione fino alla firma dell’accordo; il sindacato canadese, comunque, non avrebbe replicato il modello dello sciopero a scacchiera del sindacato made in USA, intendendo piuttosto aprire la trattativa sulle altre due filiere una volta ottenuto un risultato minimo in Ford.
Nel frattempo, in considerazione dello stallo vertenziale presso le altre due case automobilistiche, altri nuovi cinquemila tesserati UAW hanno risposto alla mobilitazione aggiungendosi ai tredicimila scioperanti della prima ondata di blocchi, di trentotto stabilimenti diversi; da quelli della produzione dove gli operai sono impiegati sulla classica catena di montaggio, a quelli dove si occupano della distribuzione dei pezzi di ricambio alle concessionarie.
Stellantis non ha atteso molto tempo prima di dichiarare a mezzo stampa l’eventualità di chiusura o cessione di diciotto dei suoi siti statunitensi. L’organizzazione sindacale, pur senza sbilanciarsi, ha confermato che al centro della trattativa in essere ci sarebbe l’ammodernamento di alcuni impianti dismessi. È il caso dell’impianto di Belvidere, in Illinois, che chiudeva i battenti il 28 febbraio 2023 licenziando in massa mille e duecento operai, in conseguenza a un calo delle vendite del 61% del modello Jeep Cherokee e, a detta loro, dell’aumento dei costi necessari per la fase di transizione verso le nuove frontiere del mercato automobilistico.
È bene precisare che nella piattaforma rivendicativa, l’UAW chiede maggiore trasparenza nel settore in crescita dei veicoli elettrici e ibridi, denunciando le politiche di incentivo all’esodo e licenziamenti di massa dell’ultimo anno e le assunzioni dei lavoratori in appalto, definite “irregolarità legalizzate”, con cui si sottraggono le libertà sindacali agli operai, e le quali condizioni sociali costringono più facilmente a svolgere un lavoro usurante in cambio di paghe al ribasso. È indicativo che, moltissimi lavoratori neo assunti, svolgano anche sessanta ore settimanali per poco più di quindici dollari l’ora, e che le condizioni di maggiore sfruttamento si verifichino nei nuovi poli automobilistici come Tesla, dove la forza lavoro è ridotta ai minimi poiché sostituita in gran parte dai sistemi di automazione.
Non è da escludere che il processo di ristrutturazione in corso in Stellantis possa trasformarsi in una volontà della multinazionale di liberarsi dei magazzini dove sono presenti gruppi di operai sindacalizzati in favore di un nuovo mega-hub con manodopera disposta a rinunciare ad altri diritti. Ciò è dimostrato dai primi licenziamenti del 20 settembre in Ohio e in Indiana, che hanno colpito trecentosettanta operai in sciopero. L’azienda avrebbe anteposto alcuni vincoli di stoccaggio delle forniture ai posti di lavoro, visto che questi tre impianti sarebbero centrali per la distribuzione di pezzi per veicoli costruiti nel “Complesso Toledo”, anch’esso in agitazione.
Licenziamenti di massa hanno interessato anche i dipendenti in sciopero di General Motors, sempre mercoledì 20, con l’interruzione del lavoro in un impianto di assemblaggio in Kansas, a causa della carenza di forniture strategiche da una fabbrica nel Missouri, che dalla sua entrata in sciopero ha generato un calo produttivo verso il sito di Fairfax. Di preciso, sono stati lasciati a casa duemila lavoratori a cui, come risposta alla lotta, non verranno erogati i sussidi di disoccupazione supplementare normalmente garantiti dall’azienda.
In piattaforma, l’UAW chiede di trattare anche per l’introduzione di un piano di sicurezza e garanzia del posto di lavoro che preveda la possibilità di scioperare contro le serrate, insieme a una presa in carico salariale da parte dell’azienda, in via temporanea, per svolgere lavori socialmente utili anche in casi di licenziamenti individuali fino alla ricollocazione in organico dei lavoratori colpiti dai provvedimenti, anche presso altri impianti.
Le rivendicazioni al centro di questa ondata di scioperi vengono definite dal sindacato come per nulla inique e pretestuose se si pensa che le “tre big” abbiano complessivamente goduto di un incremento dei profitti pari al 65% in Nord America solo negli ultimi quattro anni. La stessa mobilitazione, certamente considerabile da un punto di vista del ritorno a un protagonismo degli iscritti, che comunque non oltrepassano il 16% di tutta la forza lavoro nell’industria metallurgica e automobilistica in USA, non riesce ancora a colpire in maniera significativa il mercato su larga scala: basti pensare che il valore in borsa delle azioni Ford e Stellantis non vede traccia di andamento negativo, nonostante gli analisti abbiano già quantificato danni per oltre cinque miliardi e mezzo di dollari per via degli scioperi.
“Ma se hanno i soldi per la Borsa di Wall Street dovrebbero averli anche per i lavoratori che realizzano i loro profitti”, ha dichiarato Shawn Fain, il neo eletto presidente dell’Union Auto Workers, in un intervento nella capitale mondiale dell’automobile, Detroit. Ha sottolineato che quella in atto “è una battaglia dei lavoratori contro i ricchi, della classe dei miliardari contro tutti gli altri”, e che il fine ultimo è rivendicare una vita dignitosa per la classe operaia, riferendosi al tema della riduzione dell’orario di lavoro per far fronte ai crescenti incidenti sul lavoro e in generale alle condizioni di iper sfruttamento. Alla proposta di limitare l’orario settimanale a un massimo di trentadue ore, a parità di salario, starebbero rispondendo anche molti altri operai che sulla scia dello stato di agitazione hanno iniziato a rifiutarsi di svolgere le ore di lavoro straordinario.
Sulla questione è intervenuto anche Joe Biden che ha annunciato un incontro con i lavoratori per martedì 26 settembre, anche se non è detto che ad attenderlo ci sia una platea di futuri elettori, visto che il sindacato non ha formalmente appoggiato la sua ricandidatura. Certo è che non appoggeranno Trump, accusato di essere uno dei miliardari favorevole ad arricchire le proprie tasche e a salvaguardare la propria immagine. In questo panorama, sembra che l’UAW a prescindere dalla prossima tornata elettorale, stia favorendo la propria immagine soprattutto verso una fetta di lavoratori che, chissà, un domani potrebbero estendere lo sciopero in roccaforti antisindacali, a partire dagli stabilimenti del colosso di auto elettriche Tesla. Aree industriali buie di diritti e che per Ford, GM e Stellantis sono le nuove terre di sfruttamento da esplorare. Pagine Esteri
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RUSSIA-UCRAINA. Seymour Hersh: “L’esercito di Zelenskyj non può più vincere”
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Di Seymour Hersh*– 23 Settembre 2023 Modern Diplomacy
Martedì prossimo sarà l’anniversario della distruzione di tre dei quattro gasdotti Nord Stream 1 e 2 da parte dell’amministrazione Biden. Avrei altro da dire al riguardo, ma dovrò aspettare. Perché? Perché la guerra tra Russia e Ucraina, con la Casa Bianca che continua a respingere qualsiasi discorso di cessate il fuoco, è a un punto di svolta.
Ci sono valutazioni di rilievo nella comunità dell’intelligence americana, fondate su rapporti sul campo, che indicano che il demoralizzato esercito ucraino abbia rinunciato alla possibilità di superare le linee di difesa russe a tre livelli, pesantemente minate, e di portare la guerra in Crimea e nelle quattro oblast sequestrate e annesse alla Russia.
La realtà è che il malconcio esercito di Volodymyr Zelenskyj non ha più alcuna possibilità di vittoria.
La guerra continua, mi è stato detto da un funzionario statunitense con accesso all’intelligence, perché Zelenskyj insiste che sia così. Nel suo quartier generale e alla Casa Bianca di Biden non si discute di un cessate il fuoco e non c’è interesse per colloqui che possano portare alla fine del massacro. “Sono tutte bugie”, ha detto il funzionario, parlando delle affermazioni ucraine di progressi incrementali nell’offensiva che ha causato perdite sconcertanti guadagnando terreno in alcune aree che l’esercito ucraino misura in metri a settimana.
“Ci sono state alcune penetrazioni iniziali ucraine nei giorni di avvio dell’offensiva di giugno”, ha detto il funzionario, “vicino” alla prima delle tre formidabili barriere di difesa di cemento della Russia. “I russi si sono ritirati per risucchiarli. Poi (i soldati ucraini) sono stati tutti uccisi”. Dopo settimane di perdite elevate e scarsi progressi, insieme a terribili perdite di carri armati e veicoli blindati, i principali elementi dell’esercito ucraino, senza dichiararlo hanno di fatto annullato l’offensiva. I due villaggi che l’esercito ucraino ha recentemente affermato di aver catturato “sono così piccoli che non potrebbero stare tra due segnali Burma-Shave”.
Il messaggio di Zelenskyj di questa settimana all’Assemblea generale annuale delle Nazioni Unite a New York non ha offerto molte novità e, secondo quanto riportato dal Washington Post, ha ricevuto uno scontato “caloroso benvenuto” da parte dei presenti. Ma, osserva il Post, “ha pronunciato il suo discorso davanti a una sala piena a metà, con molte delegazioni che hanno rifiutato di presentarsi per ascoltare ciò che aveva da dire”. I leader di alcune nazioni in via di sviluppo, aggiunge il rapporto, erano “frustrati” dal fatto che i numerosi miliardi spesi senza responsabilità dall’Amministrazione Biden per finanziare la guerra in Ucraina hanno diminuito il sostegno alle loro lotte contro la povertà e il riscaldamento gobale e per garantire una vita più sicura ai propri cittadini.
In precedenza il presidente Biden rivolgendosi all’Assemblea Generale, non ha affrontato la pericolosa posizione dell’Ucraina nella guerra con la Russia ma ha rinnovato il suo schietto sostegno all’Ucraina. Biden con l’aiuto del segretario di stato Blinken e del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan – ma con un appoggio in diminuzione altrove in America – ha trasformato il suo incessante sostegno finanziario e morale alla guerra in Ucraina in una questione di vita o di morte per la sua rielezione.
Il funzionario dell’intelligence americana con il quale ho parlato, ha trascorso i primi anni della sua carriera lavorando contro la minaccia sovietica e facendo spionaggio, rispetta l’intelligenza di Putin ma disprezza la sua decisione di entrare in guerra con l’Ucraina e di dare inizio alla morte e alla distruzione che causa ogni conflitto. Mi ha detto, “La guerra è finita. La Russia ha vinto. Non c’è più alcuna offensiva ucraina, ma la Casa Bianca e i media americani devono continuare a mentire. La verità è che se all’esercito ucraino venisse ordinato di continuare l’offensiva, si ammutinerebbe. I soldati non sono più disposti a morire, ma questo non si adatta alle cazzate scritte dalla Casa Bianca di Biden”.
*E’ un famoso giornalista investigativo americano, autore di 11 libri. Ha ottenuto il riconoscimento nel 1969 per aver denunciato il massacro di civili inermi a My Lai e il suo insabbiamento da parte degli Stati uniti durante la guerra del Vietnam. Per quella rivelazione ha ricevuto nel 1970 il Premio Pulitzer. Nel 2004, ha dettagliato torture e abusi compiuti dai militari Usa sui prigionieri ad Abu Ghraib in Iraq. Nel 2013 Hersh rivelò che le forze ribelli siriane, piuttosto che il governo, avevano attaccato i civili con gas sarin a Ghouta. Nel 2015 ha dato un resoconto alternativo del raid statunitense in Pakistan che uccise Osama bin Laden.
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PRIVACYDAILY
Pubblicazione biglietti vincenti estrazione a premi
Ecco i biglietti vincenti dell’estrazione a premi della nostra festa. Congratulazioni a chi ha vinto! #rifondazioneinfesta #rifondazionecomunista #estraRifondazione Comunista
“Attenzione, non siamo soli al volante”
Ne scrivo oggi su Huffington Post nella rubrica Governare il Futuro Qui il link all’articolo huffingtonpost.it/rubriche/gov…
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huffingtonpost.it/rubriche/gov…
Attenzione, non siamo soli al volante
Nessuno legge l’informativa per la privacy di un’auto prima di acquistarla. E invece dashcam, microfoni, sensori della temperatura, dispositivi di movimento de…Guido Scorza (HuffPost Italia)
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“Congresso ASSO DPO”
A Milano ho avuto il piacere di intervenire al Congresso organizzato da ASSO DPO per discutere di privacy e cybersecurity
Se tutti sono liberali, nessuno è liberale
L’Italia, come è noto, non ha avuto quella Riforma protestante che secondo Max Weber era il presupposto affinché “lo spirito del capitalismo” potesse attecchire davvero. In affetti, da noi ha attecchito ben poco. E forse non è un caso che solo i paesi europei non riformati facciano parte di quella congrega che negli stati del nord Europa e nel mondo anglosassone, che del liberalismo è la patria, vengono sprezzantemente definiti Piigs (acronimo che molto e forse troppo ricorda la parola “maiali”). Sono il Portogallo, l’Irlanda, l’Italia, la Grecia e la Spagna.
Senza andare troppo in là nel tempo, la Prima Repubblica è stata politicamente dominata da due partiti, il PCI e la Dc. L’uno fortemente ideologico, tanto da essere qualificato come “partito Chiesa” e l’altro, la Democrazia cristiana, esplicitamente riferito ad una Chiesa vera e propria. Il pensiero e il metodo liberale, dunque, hanno avuto ben pochi margini d’azione nella società e nella politica italiane.
Tuttavia, per un qualche misterioso paradosso della Storia, viviamo in un’epoca in cui l’appellativo “liberale” si è inaspettatamente guadagnato un inaspettato prestigio sociale. Lo testimonia il fatto che, di colpo, sono diventati tutti liberali. Liberale si dichiara da sempre il partito guidato da Antonio Tajani (FI) e liberali, anche se con occasionali confusioni “liberal” e “social liberali”, si qualificano il leader di Italia viva Matteo Renzi e quello di Azione Carlo Calenda. Liberale è stato giudicato il discorso di Giorgia Meloni per la fiducia in Parlamento. Ed era vero, le parole erano parole liberali. A partire dal ragionamento sull’importanza di lasciare liberi gli “spiriti animali” (cit, da J.M. Keynes) del ceto imprenditoriale rispetto alla naturale tendenza interventistica e dirigistica dello Stato. Ma non si può dire che, tra taxi, aerei, banche e via elencando, i fatti siano stati affettivamente coerenti con quelle parole.
Negli ultimi giorni, anche Giorgio Napolitano è, giocoforza, entrata nel novero dei liberali italiani. È accaduto a causa di un titolo forzato di Repubblica (“Un liberale tra le file del Pci”) ad un commento in cui Stefano Folli sosteneva, invece, sostanzialmente il contrario (“Giorgio Napolitano non era un liberale capitato quasi per caso nelle file del Pci. Era un comunista convinto e colto che aveva privilegiato l’opzione riformatrice in anticipo sui tempi”). Sull’HuffingtonPost è poi intervenuto Marco Gervasoni con un “Elogio liberale di Elly Schlein”. Un commento scritto con apprezzabile piglio anticonformista, la cui tesi che vedrebbe la segretaria del Pd dirazzare dal solco “cattocomunista” tanto da meritare l’apprezzamento di un liberale doc a me sembra, però, piuttosto forzata. Sbaglierò, ma l’approccio di Elly Schlein ai problemi della società italiana e del mondo mi pare ispirato ad un originale connubio tra la logica di un aderente ad un centro sociale e la logica di un boy scout. Stato e Dio la fanno ancora da padroni.
La verità è che, ad oggi, non risultano deroghe significative alla storia politica nazionale. L’istintiva tensione per la realtà contrapposta ad ogni demagogia, il valore del merito individuale, la concezione di uno “Stato minimo”, l’apertura dei mercati al principio della libera concorrenza, l’amore per il pluralismo e per il confronto tra tesi opposte sono ancora merce rara. Di buono c’è che il brand liberale, e in particolare quello einaudiano, sta vivendo una nuova giovinezza mediatica. Speriamo che qualcuno osi incarnarlo davvero.
L'articolo Se tutti sono liberali, nessuno è liberale proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Patria e libertà: gli Ottant’anni delle Quattro giornate di Napoli
La Fondazione Luigi Einaudi, la Fondazione San Giuseppe dei Nudi e l’Associazione Libera Unione Forense, promuovono la giornata di studi: “Patria e libertà: gli Ottant’anni delle Quattro giornate di Napoli”, il 29 settembre 2023 alle ore 15:00 presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli Piazza Museo, 19 – Napoli
Saluti introduttivi
Ugo de Flaviis, Presidente Fondazione San Giuseppe dei Nudi
Giuseppe Benedetto, Presidente Fondazione Luigi Einaudi
Camillo Bruno, Presidente associazione Libera Unione Forense
Guido D’agostino, Presidente Istituto Campano per la Storia della Resistenza
Intervengono
Vincenzo De Luca, Presidente Regione Campania
Guido D’agostino, Presidente dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza
Giancristiano Desiderio, giornalista e scrittore
Gerardo Nicolosi, Università di Siena Raffaele Granato Corigliano, libero professionista
Renata Gravina, Università Sapienza, Fondazione Luigi Einaudi
L'articolo Patria e libertà: gli Ottant’anni delle Quattro giornate di Napoli proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
"Chi ne trae vantaggio?" Uno sguardo dentro la lotta dell'UE sulla scansione dei contenuti di sesso minorile
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«Basata su dozzine di interviste, documenti trapelati e approfondimenti sulle deliberazioni interne della Commissione, questa indagine collega i punti tra gli attori chiave che finanziano e organizzano la campagna di sostegno a favore della proposta di Johansson e i loro legami diretti con il commissario e il suo gabinetto.«
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«Stakeholder, aziende di intelligenza artificiale e gruppi di difesa –che godono di un forte sostegno finanziario– esercitano una discutibile influenza sull’elaborazione della politica dell’UE.
La proposta di regolamento è eccessivamente "influenzata da aziende che fingono di essere ONG ma si comportano più come aziende tecnologiche", ha affermato Arda Gerkens, ex direttrice della più antica hotline europea per la segnalazione di materiale pedopornografico online.»
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