INTERVISTA: “L’attacco contro Gaza e i suoi civili va avanti perché lo vogliono Usa e Europa”
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di Michele Giorgio
(questa intervista è stata pubblicata in origine da forumalternativo.ch)
(foto Wafa)
Pagine Esteri, 4 novembre 2023 – La posizione dell’Occidente è stata e resta decisiva per il consenso alla guerra di Israele contro Gaza e il movimento islamico Hamas. Il governo guidato da Benyamin Netanyahu ha più volte fatto riferimento a questo appoggio per accreditare la legittimità dell’ offensiva militare che ha fatto oltre 15mila morti tra i palestinesi. Sull’atteggiamento di Stati Uniti ed Unione europea verso Gaza e sulla sua possibile evoluzione abbiamo intervistato l’analista Mouin Rabbani, tra gli esperti principali di affari palestinesi e in passato all’International Crisis Group.
Mouin Rabbani
Mouin Rabbani, lei è uno degli analisti internazionali più assidui nel commentare gli sviluppi della guerra di Gaza e le sue gravi conseguenze in termini di vite umane e distruzioni. Quando finirà, a suo avviso, l’offensiva di Israele?
Molto dipenderà dall’atteggiamento che avranno i governi occidentali al momento tutti schierati con Israele e l’avanzata delle sue forze armate contro Gaza. C’è una convinzione che esista un livello di morte, distruzione e sofferenza oltre il quale i governi occidentali cesseranno o ridurranno significativamente la loro partecipazione di fatto alla guerra di Israele. Tuttavia, questa supposizione riflette un malinteso fondamentale sul modo in cui tali governi formulano le loro politiche. Finora, Israele ha imposto un assedio globale alla Striscia di Gaza, privando milioni di persone di tutte le forniture essenziali tranne l’ossigeno; sta radendo al suolo intere città e quartieri; ha ucciso molte migliaia di civili, tra i quali tanti bambini. Lo ha fatto come parte di una campagna di bombardamenti il cui scopo trasparente è la vendetta, la distruzione fisica e la punizione di un’intera società. Né la campagna di bombardamenti ha ridotto in modo significativo le capacità militari di Hamas e delle organizzazioni palestinesi nella Striscia di Gaza. Se il volume delle morti, delle distruzioni e delle sofferenze palestinesi avesse un peso nei calcoli dei governi occidentali, ebbene lo avrebbe già fatto sentire. Non è così e, indipendentemente da altri sviluppi, non lo farà. Mentre le forze israeliane bombardano scuole, ospedali, colonne di rifugiati, strutture delle Nazioni unite, zone autoproclamate sicure e tutte le forme di infrastrutture civili, la maggior parte dei governi occidentali continua a schierarsi in piena solidarietà con il governo israeliano. Papa Francesco è praticamente l’unico leader occidentale a non aver compiuto il pellegrinaggio da Netanyahu. I governi Usa ed europei inquadrano loro politica attorno al “diritto di Israele a difendersi”. È un diritto che non hanno mai concesso al popolo palestinese in una sola occasione.
Sta dicendo che non dobbiamo aspettarci una conclusione in tempi brevi delle offensive militari israeliane?
Fare previsioni è un azzardo in queste circostanze. Allo stesso tempo sono convinto che potrà causare un cambiamento nella politica occidentale solo il fallimento militare israeliano. Per questo l’Amministrazione Biden prova a convincere Israele a formulare obiettivi più raggiungibili della cosiddetta distruzione di Hamas che gran parte degli osservatori ritiene un traguardo irrealistico. La storia ci corre in soccorso. Nel 2006, il Segretario di Stato Condoleeza Rice accolse con entusiasmo la guerra di Israele contro Hezbollah e il Libano come “i dolori del parto di un nuovo Medio Oriente”. Fiduciosi che Israele stesse polverizzando Hezbollah, gli Stati uniti respinsero per settimane gli sforzi volti a raggiungere la cessazione delle ostilità. Quando si accorsero che l’avanzata israeliana sta andando incontro al fallimento nel sud del Libano, cambiarono tono e fecero pressioni sul Consiglio di Sicurezza dell’Onu affinché adottasse una risoluzione di cessate il fuoco. In altre parole, finché gli Usa e altri governi occidentali rifiutano una tregua a Gaza e si concentrano su oscenità senza senso come le “pause umanitarie”, significa che credono ancora che Israele riuscirà o potrà avere un successo militare completo. Se invece cominceranno a pronunciare omelie sulla sofferenza dei civili palestinesi e ad allestire una vetrina di buoni sentimenti, vuol dire che hanno capito che Israele ha fallito.
Esiste uno scenario alternativo in cui Usa e Europa costringeranno il gabinetto di guerra israeliano a fermarsi?
Dovrebbero capire che la loro condotta e quella di Israele producono non solo sofferenze terribili a milioni di civili palestinesi ma anche una minaccia significativa ai loro interessi. Ciò potrebbe assumere la forma di una crescente instabilità nella regione e di minacce ai regimi arabi alleati oltre alla prospettiva di una guerra in tutta la regione che richiederebbe un intervento diretto che gli Stati uniti non vogliono.
Dopo l’attacco di Hamas al sud di Israele che ha ucciso circa 1200 civili e soldati e ha visto la presa in ostaggio di 200 israeliani e cittadini stranieri, il premier Netanyahu ha accusato il movimento islamico di essere come l’Isis e di voler massacrare tutti gli ebrei. Una lettura dell’accaduto largamente condivisa in Occidente.
La falsificazione storica e politica non è cominciata con questa guerra. E ancora una volta chiama in causa il doppio standard dei Paesi occidentali. Qualche mese fa il leader dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha rilasciato una serie di dichiarazioni sugli ebrei d’Europa e sull’Olocausto che hanno suscitato una genuina indignazione europea. Naturalmente è giusto che la falsificazione storica venga condannata e sconfessata. Tuttavia, perché dovrei considerare le condanne europee di Abbas, quando l’affermazione fatta tempo fa da Netanyahu secondo cui l’Olocausto attuato dai nazisti e da Adolf Hitler sarebbe stato ispirato addirittura dal Mufti di Gerusalemme, Hajj Amin al-Husseini, è passata praticamente sotto silenzio? O quando il più alto funzionario dell’Unione europea, Ursula Von Der Leyen, raggiunge l’orgasmo nel suo messaggio per il 75esimo compleanno di Israele? Secondo Von Der Leyen, Israele è “una vivace democrazia nel cuore del Medio Oriente” che “ha letteralmente fatto fiorire il deserto”. Una terra senza popolo affinché un popolo senza terra continui a vivere. È forse storia vera questa?
L’Europa potrà mai svolgere un ruolo costruttivo nella questione palestinese?
Rispondo con due aneddoti. Negli anni ’90 ero amico di un diplomatico olandese distaccato a Bruxelles. Mi raccontava che i suoi sforzi per promuovere la corretta etichettatura, non con il “Made in Israel”, delle merci prodotte negli insediamenti coloniali israeliani nei Territori palestinesi occupati, sia nei Paesi Bassi che a Bruxelles, sono stati combattuti con le unghie e con i denti. Non da gruppi di pressione israeliani, ma dai suoi colleghi e superiori. È un dibattito che va avanti da decenni nonostante si tratti di una questione ampiamente chiarita e definita dal diritto internazionale dai regolamenti dell’Ue. Quindi perché dovremmo prendere sul serio l’Europa? Anni dopo ho partecipato a una cena presso l’ambasciata olandese ad Amman con deputati della commissione parlamentare dei Paesi Bassi per gli affari esteri. Il suo presidente disse che non avrebbero avuto contatti con Hamas fino a quando quest’ultimo rifiuterà l’esistenza di Israele. Quando gli chiesi se gli stessi criteri si applicassero anche all’estremista di destra Avigdor Lieberman, all’epoca astro nascente della politica israeliana, mi rispose che, a differenza di Hamas, Lieberman non faceva parte del governo israeliano. Eppure, quando Lieberman divenne ministro, è stato un partner per i governi europei pur proclamando la sua totale opposizione ai diritti dei palestinesi. Mi è capitato di trovarmi a Cipro quando il ministro degli esteri ha dato un caloroso benvenuto a Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza e tra i leader della destra israeliana più radicale e antipalestinese. Non ho dubbi che sia solo questione di tempo prima che anche Ben-Gvir venga normalizzato dalla democratica Europa. Perché i palestinesi dovrebbero prendere sul serio gli europei se si concentrano principalmente sui libri di testo palestinesi e sulla loro criminalizzazione con definizioni distorte di antisemitismo? Si è mai saputo di indagini svolte in Europa sui libri di testo israeliani che negano la storia e i diritti dei palestinesi nella loro terra?
Usa e Ue continuano a sostenere la soluzione a Due Stati, quindi la nascita di uno Stato palestinese, e manifestano sostegno a Mahmoud Abbas nel momento in cui Netanyahu lo proclama irrilevante ed esclude l’Anp da un possibile governo futuro di Gaza.
Non ho alcuna obiezione in linea di principio né alla soluzione a Due Stati né al suo appoggio da parte dell’Europa. Allo stesso tempo occorre andare oltre dichiarazioni scontate e ripetitive e guardare la realtà sul terreno. Chiedete a qualsiasi palestinese e ti dirà che l’Anp ormai serve solo gli interessi di Israele, di Usa e Europa. E più di tutto Usa e Ue dovrebbero domandarsi con obiettività se trent’anni di Accordi di Oslo (nel 1993, tra Israele e Olp, ndr) abbiano avvicinato o allontanato l’obiettivo della nascita dello Stato palestinese e la realizzazione del diritto internazionale in Medio Oriente. Data l’ovvia risposta a questa domanda, chiedo: non è forse giunto il momento di adottare un approccio diverso, in cui ci si concentri non sul dare ulteriore vita a un negoziato marcio, ma piuttosto ad avviare politiche per mettere fine al conflitto sulla base del diritto internazionale? Non credo che ciò possa avvenire nei prossimi anni. Perciò i palestinesi devono cambiare la natura del loro impegno soprattutto con l’Europa. Non devono considerare più l’Europa come un potenziale contrappeso agli Stati Uniti alleati di Israele, ma come un robusto pilastro nell’architettura dell’espropriazione palestinese. Pagine Esteri
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noyb cita in giudizio CRIF e AZ Direct per trattamento illegale e segreto dei dati noyb ha fatto causa per ottenere, tra le altre cose, provvedimenti ingiuntivi e danni.
La NATO dovrebbe prepararsi ad accogliere le “cattive notizie” dall'Ucraina, avverte Stoltenberg
@Politica interna, europea e internazionale
"Le guerre si sviluppano in fasi", ha detto Stoltenberg in un'intervista sabato all'emittente tedesca ARD. "Dobbiamo sostenere l'Ucraina sia nei momenti buoni che in quelli cattivi", ha detto.
"Dovremmo essere preparati anche alle cattive notizie", ha aggiunto Stoltenberg, senza essere più specifico.
politico.eu/article/nato-boss-…
NATO should be ready for ‘bad news’ from Ukraine, Stoltenberg warns
‘We have to support Ukraine in both good and bad times,’ NATO chief says in ARD interview.Bjarke Smith-Meyer (POLITICO)
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Uno sguardo fediverso all'ultima tornata di sovvenzioni di NLnet
NLNet ha annunciato 55 nuovi progetti a cui viene assegnata una sovvenzione NGI Zero. NGI Zero è il programma Next Generation Internet della Commissione Europea, che finanzia progetti che lavorano su quella che chiamano Internet di prossima generazione . Per maggiori informazioni su NLnet e NGI Zero, dai un'occhiata a questa intervista che ho fatto con NLnet quest'estate. L’ultima tornata di sovvenzioni prevede diversi progetti che si collegano in qualche modo al fediverso.
I finanziamenti riguardano i seguenti progetti:
- NodeBB
- fedidevs.com
- Bonfire
- GoToSocial
- Mobilizon
- PeerTube
- Commune, un progetto che però, a differenza dei precedenti, è basato su Matrix
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Speriamo che non ci siano prese di potere dovute al fatto che ci ha messo i soldi.
Preferirei che il modello cinese non si sviluppasse cosi tanto in occidente.
Abbiamo visto cosa si sono fidati di fare con il Chat Control, immagina quindi simili iniziative se non peggiori per i prossimi anni.
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Pechino ci vuole divisi, ma la nostra forza è nelle alleanze. Austin su Cina e Usa
È la terza volta che il generale quattro stelle dell’Esercito americano Lloyd Austin parla al Reagan National Defense Forum da capo del Pentagono. Ma stavolta il discorso (che ha tenuto sabato 2 dicembre) diventa un manifesto politico, l’eredità sua personale e in largo dell’amministrazione Biden sulla strategia militare americana. È così per il momento internazionale – le guerre in corso in Ucraina e Israele, le tensioni in altri hotspot in alte parti del mondo – e quello interno: tra un anno l’America sceglierà il suo prossimo presidente, e parte delle decisioni passeranno anche da come i candidati gestiranno certe sfide.
Seppur maggiormente orientati alle questioni nazionali, certe situazioni attirano le attenzioni dell’elettorato, e tra i dossier di politica internazionale ce n’è uno che più di tutti caratterizza l’attuale fase storica: il confronto con la Cina. È un tema bipartisan, su cui la linea competitiva è un rarissimo punto di contatto nelle polarizzazioni tra Democratici e Repubblicani. E assume tale valore anche perché gli elettori ne percepiscono gli effetti a ricaduta interna. Se Washington non manterrà il vantaggio su Pechino – sia esso economico, tecnologico, politico-valoriale, finanche militare – la prosperità americane potrebbe ridursi in futuro. Ed è a quello che le collettività statunitensi guardano.
Ragion per cui registrare quel che dice Austin nel discorso/manifesto dalla Reagan Presidential Library Simi Valley è utile anche per valutare le traiettorie future della politica e della strategia degli Usa. “La nostra Strategia di Difesa Nazionale descrive la Repubblica Popolare Cinese come ‘il più importante concorrente strategico dell’America e la sfida più importante per il Dipartimento della Difesa’. La Repubblica Popolare Cinese è il nostro unico rivale con l’intenzione e, sempre più spesso, la capacità di rimodellare l’ordine internazionale”, dice il segretario alla Difesa.
Austin spiega che Pechino “spera che gli Stati Uniti inciampino e diventino isolati all’estero e divisi in patria. Ma insieme possiamo evitare questo destino. Insieme ai nostri alleati e partner, abbiamo compiuto progressi straordinari nell’affrontare la sfida della Cina e nel forgiare un Indo Pacifico più sicuro”. E aggiunge: “In questo decennio decisivo, il 2023 sarà ricordato come un anno determinante per l’attuazione della strategia di difesa degli Stati Uniti in Asia”.
Gli Stati più Uniti che mai
Il Pentagono ha effettivamente compiuto evoluzioni nel rendere la posizione di forza statunitense nella regione “molto più distribuita, mobile e resiliente”, per usare la formula canonicamente utilizzata da Washington. Un lavoro che passa dalla presenza diretta all’aiuto ai partner a sviluppare le loro capacità di difesa (“Quest’anno ho fatto quattro viaggi nell’Indo Pacifico e ad ogni viaggio abbiamo fatto ancora più progressi”.
A febbraio, a Manila, gli Stati Uniti hanno annunciato l’espansione dell’accordo di cooperazione rafforzata in materia di difesa con le Filippine per consentire l’accesso degli Stati Uniti ad altre quattro strutture filippine. A maggio, il segretario era a a Tokyo per modernizzare ulteriormente l’alleanza con il Giappone, che ha raddoppiato il suo bilancio per la difesa. A luglio, Austin è stato il primo segretario alla Difesa a visitare la Papua Nuova Guinea, concordando un accordo di cooperazione in materia di difesa Chen a rafforzato la posizione americana tra le isole del Pacifico. Sempre quest’estate, a Nuova Delhi, è stata presentata una nuova tabella di marcia per la cooperazione industriale nel settore della difesa con l’India, strategia rafforzata anche nel recente “2+2” da cui esce una volontà congiunta di rafforzare la capacità militare – anche a livello produttivo – del Subcontinente. Sempre quest’estate, Usa, Corea del Sud e Giappone hanno stretto legami di sangue tramite i “Camp David Principles”. Infine, continua l’implementazione di quella che Austin definisce “la nostra storica partnership”, l’Aukus Australia e Regno Unito.
“Tutto questo si basa su una cruda realtà militare: alleati e partner ci aiutano a proiettare il potere e a condividere il peso della nostra sicurezza comune. Ma non prendetelo da me. Prendete esempio dal presidente Ronald Reagan, che ha detto che ‘la nostra sicurezza si basa in ultima analisi’ sulla ‘fiducia e la coesione’ del nostro sistema di alleanze”, ha aggiunto Austin. Un messaggio diretto a Pechino, che punterebbe a dividere e per quanto possibile isolare l’America, che invece con l’amministrazione Biden ha dimostrato di avere la capacità di ricreare il collante necessario per ricostruire con maggiore vigore alleanze e partnership che l’atteggiamento America First – più nazionalista, quasi isolazionista – di Donald Trump aveva messo in difficoltà. “Tuttavia, la nostra forza all’estero è radicata nella nostra forza in patria”, ricorda Austin – probabilmente pensando anche a Usa2024.
Ministero dell'Istruzione
Oggi, #3dicembre è la Giornata internazionale delle persone con disabilità, indetta nel 1992 dalle Nazioni Unite.Telegram
Uniamoci per affrontare questo momento. L’eredità di Austin sulla strategia Usa
Stiamo vivendo tempi difficili. Tra questi, i conflitti più importanti che stanno affrontando le nostre democrazie, Israele e Ucraina, le prepotenze e le coercizioni di una Cina sempre più assertiva e la battaglia mondiale tra democrazia e autocrazia.
Sono quindi tempi in cui sia i nostri amici che i nostri rivali guardano all’America. Sono tempi in cui il popolo americano conta che i suoi leader si uniscano. E questi sono i tempi in cui la sicurezza globale si basa sull’unità e sulla forza americana.
Il Presidente Biden lo definisce “un punto di svolta nella storia del mondo”. Con la sua leadership, abbiamo riunito i nostri alleati e partner per difendere l’ordine internazionale basato sulle regole.
Ora, so che questa frase non fa battere il cuore a tutti. Ma l’ordine internazionale basato sulle regole è fondamentale per la nostra sicurezza a lungo termine.
È la struttura delle istituzioni internazionali, delle alleanze, delle leggi e delle norme costruite con la leadership americana dopo le sconcertanti perdite della Seconda Guerra Mondiale. E queste regole aiutano a garantire che nulla di simile alla Seconda Guerra Mondiale possa mai più accadere.
Aiutano a sostenere la sovranità e a rispettare i confini.
Aiutano a garantire che i civili siano protetti e non presi di mira.
E contribuiscono a punire le aggressioni e a tenere sotto controllo i prepotenti.
Dal 1945, l’ordine internazionale basato sulle regole ha contribuito a dare al nostro Paese – e al mondo intero – un periodo di pace e prosperità senza precedenti.
Ma la pace non è auto-esecutiva. L’ordine non si conserva da solo. E la sicurezza non fiorisce da sola.
Il mondo costruito dalla leadership americana può essere mantenuto solo dalla leadership americana.
Come ha detto il Presidente Biden, “la leadership americana è ciò che tiene insieme il mondo”.
Dalla Russia alla Cina, da Hamas all’Iran, i nostri rivali e nemici vogliono dividere e indebolire gli Stati Uniti e separarci dai nostri alleati e partner. Pertanto, in questo momento storico, l’America non deve vacillare.
La leadership americana raduna i nostri alleati e partner per sostenere la nostra sicurezza comune. E ispira la gente comune di tutto il mondo a lavorare insieme per un futuro più luminoso.
Ma i problemi del nostro tempo non potranno che aggravarsi senza una leadership americana forte e costante che difenda l’ordine internazionale basato sulle regole che ci tiene al sicuro.
E se perdiamo la nostra posizione di responsabilità, i nostri rivali e i nostri nemici saranno lieti di riempire il vuoto.
In ogni generazione, alcuni americani preferiscono l’isolamento all’impegno e cercano di alzare il ponte levatoio. Tentano di smantellare la pietra angolare della leadership americana. E cercano di minare l’architettura di sicurezza che ha prodotto decenni di prosperità senza guerre tra grandi potenze.
E si sentirà qualcuno cercare di bollare un ritiro americano dalle responsabilità come una nuova e coraggiosa leadership.
Quando lo sentirete dire, non fatevi illusioni: non è audace. Non è nuova. E non è una leadership.
Come dice il vecchio detto, se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza. E se pensate che la leadership americana sia costosa, considerate il prezzo della ritirata americana.
Nel corso della lunga storia americana, il costo del coraggio è sempre stato inferiore a quello della codardia.
E il costo dell’abdicazione ha sempre superato di gran lunga il costo della leadership.
Il mondo diventerà sempre più pericoloso se i tiranni e i terroristi crederanno di poterla fare franca con aggressioni e massacri di massa.
E l’America diventerà meno sicura se i dittatori crederanno di poter cancellare una democrazia dalla carta geografica.
E gli Stati Uniti pagheranno un prezzo più alto se autocrati e fanatici crederanno di poter costringere persone libere a vivere nella paura.
Questa intuizione fondamentale è all’opera nel nostro approccio a tre sfide molto diverse: la crisi in Medio Oriente, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e la sfida strategica della Repubblica Popolare Cinese. […]
L’Ucraina ricorda al mondo la forza morale di un popolo libero che lotta per difendere il proprio territorio sovrano, la propria democrazia e il proprio futuro.
E come americani, non dobbiamo fare di meno.
Uniamoci quindi per rendere la nostra unione più perfetta, il nostro Paese più sicuro e il nostro mondo più giusto.
Uniamoci per riunire le nazioni di buona volontà alla causa della libertà umana.
E uniamoci per affrontare questo momento.
Grazie e che Dio continui a benedire gli Stati Uniti d’America.
Qui il discorso integrale
INTERPOL. La dichiarazione di Vienna
A conclusione della 91ma Assemblea Generale dell' #INTERPOL di Vienna (dove 100 anni fa fu creato quello che viene definito "corpo di polizia mondiale"), il Presidente Ahmed Naser AL-RAISI ed il Segretrio Generale Jürgen STOCK hanno rilasciato la "Dichiarazione di Vienna", sull'impegno dell'Organizzazione nella lotta alla criminalità organizzata.
La Dichiarazione di Vienna definisce le cinque azioni prioritarie (traduzione non ufficiale, il testo ufficiale è scaricabile qui interpol.int/content/download/… ):
1. La lotta alla criminalità organizzata transnazionale deve diventare una priorità globale per la sicurezza nazionale.
I gruppi criminali organizzati, che operano oltre i confini, stanno minando le società, le comunità e le loro
economie. Le forze dell’ordine in molti paesi non riescono a far fronte al fatto che i criminali acquistano influenza politica,
lanciare attacchi informatici da diversi continenti o operare a livello transnazionale. Questo crimine transnazionale
epidemico deve essere trattato al più alto livello governativo come una priorità globale. Il mondo ha bisogno di
lavorare insieme per risolvere questa crisi di sicurezza.
2. Costruire una maggiore cooperazione per contrastare le attività criminali.
I paesi non possono più fare affidamento solo sugli scambi bilaterali o regionali. Condivisione delle informazioni attraverso
i confini sono fondamentali e devono essere la norma, non l’eccezione, se vogliamo sconfiggere il significativo
aumento della criminalità organizzata.
3. Maggiore condivisione delle informazioni.
I decisori responsabili della polizia, della giustizia e della sicurezza nazionale devono allineare gli sforzi nella costruzione
una risposta globale rimuovendo gli ostacoli ad una maggiore condivisione delle informazioni.
4. Potenziamento della polizia in prima linea.
Ogni agente di polizia è un anello della catena che protegge le proprie comunità così come la comunità
mondiale. Ogni agente di polizia, compresi quelli in prima linea e quelli che proteggono i nostri confini, devono farlo
avendo accesso alle informazioni di cui hanno bisogno dai database globali per interrompere l'attività criminale e
offrire un migliore supporto tecnologico, formazione e informazione sulla lotta alla criminalità globale.
5. Maggiori investimenti in innovazione e tecnologia.
Gli investimenti delle forze dell’ordine globali in tecnologia e innovazione vengono superati dai criminali.
La storia della cooperazione. Ultima parte. Fino ai giorni nostri.
A guerra conclusa, nel 1946, su iniziativa del Belgio, fu convocata l’anno dopo a Bruxelles la quindicesima Assemblea Generale per la ricostruzione dell’organizzazione. L’ICPC accettò l’offerta del governo francese di un quartier generale a Parigi insieme a uno staff del Segretariato Generale composto da funzionari di polizia francesi.
(Giuseppe Dosi)
Nello stesso anno fu scelto – su proposta di un funzionario di polizia italiano, Giuseppe Dosi (immagine precedente) – per l’indirizzo telegrafico il nome “INTERPOL”, che ancora contraddistingue l’Organizzazione.
Nel 1947 venne emesso il primo “Red Notice”, per le ricerche internazionali di un russo ricercato per l’omicidio di un poliziotto. Fu l’avvio del sistema di avvisi codificati a colori, ampliato nel corso degli anni per coprire altri avvisi, seppure l’“Avviso rosso” per le persone ricercate rimane uno strumento chiave e, per certi versi, un simbolo dell’Interpol ancora oggi.
Nel 1949 l’ICPC ottenne lo status consultivo dalle Nazioni Unite (che consentiva ad esso di tenere “accordi adeguati alla consultazione con organizzazioni non governative che si occupano di questioni di sua (dell’ONU, ndr) competenza”). Dal 1946 al 1955 i suoi membri crebbero da 19 Paesi a 55. Nel 1956 l’ICPC ratificò una nuova costituzione, sotto la quale fu ribattezzata Organizzazione Internazionale di Polizia Criminale (OICP–Interpol).
Negli anni a seguire crebbe la connessione con altre Organizzazioni Internazionali: nel 1959 si tenne un primo incontro con la partecipazione del Direttore dell’Ufficio che si occupava di traffico di stupefacenti delle Nazioni Unite.
Il traguardo simbolico di cento Paesi membri fu raggiunto nel 1967. Nel 1972 lo status venne rafforzato da un accordo di sede con la Francia, Paese ospitante, che riconobbe INTERPOL come organizzazione internazionale. Quello stesso anno l’Assemblea Generale adottò le Regole sulla cooperazione internazionale di polizia e sul controllo degli archivi, un quadro giuridico necessario per il trattamento dei dati personali.
(attuale sede dell'Interpol)
Il 27 novembre 1989 il Presidente francese François Mitterrand inaugurò la nuova ed attuale sede, spostata a Lione (immagine precedente). Nel frattempo, gli Stati–membri erano saliti a 150.
L’Organizzazione ricercò nuove possibilità anche sotto l’aspetto prettamente operativo.
Negli anni ’70 la capacità di combattere l’imperversante terrorismo era ostacolata dall’articolo 3 della sua costituzione – che vietava “interventi o attività di carattere politico, militare, religioso o razziale” – e da una risoluzione del 1951 dell’Assemblea Generale che definiva un “reato come quello le cui circostanze e motivazioni sono politiche, anche se il fatto stesso è illegale ai sensi del diritto penale”.
Una fonte di questi ostacoli fu quindi rimossa nel 1984, quando l’Assemblea Generale rivide l’interpretazione dell’articolo 3, per consentire all’Interpol di intraprendere attività antiterroristiche in determinate circostanze ben definite.
Nel 1993 poi fu istituita l’Unità di intelligence criminale analitica, per studiare i collegamenti tra sospetti, crimini e luoghi, identificando così i modelli di criminalità e fornendo avvisi di minacce.
Nel 2001 l’Organizzazione è divenuta operativa 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, in seguito agli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti dell’11 settembre, quando il Segretario Generale promise che “le luci dell’INTERPOL non si spegneranno mai più”. Inoltre, venne istituita la carica di Direttore Esecutivo per i servizi di polizia, creata per sovrintendere su diverse Direzioni, comprese quelle per i Servizi di polizia regionali e nazionali, i Reati Specializzati e il Supporto operativo alla polizia.
Tale modernizzazione è stata implementata negli ultimi venti anni anche sotto l’aspetto tecnico, mediante l’AFIS, il sistema automatico di identificazione delle impronte digitali che ha velocizzato i tempi necessari per effettuare i controlli delle impronte digitali (una prova che ha sempre svolto un ruolo cruciale nella polizia, ma le impronte erano precedentemente su carta e venivano confrontate manualmente), ed il Sistema globale di comunicazione della polizia, che offre a tutti i Paesi membri una piattaforma sicura per accedere ai database e alle informazioni ed al database del DNA, per aiutare a collegare i crimini internazionali.
Attualmente più di 80 Paesi forniscono profili DNA di autori di reati e scene del crimine. Il database può essere utilizzato anche per persone scomparse e resti umani non identificati.
Nel 2004, INTERPOL ha aperto un ufficio di Rappresentanza Speciale presso le Nazioni Unite a New York. Seguirà uno presso l’Unione Europea a Bruxelles nel 2009.
Il resto è storia di oggi.
PER SAPERNE DI PIÙ:
L. SCHETTINI, La tratta delle bianche in Italia tra paure sociali e pratiche di polizia (XIX-XX secolo), in “Italia contemporanea”, dicembre 2018, n. 288.
M. DEFLEM, The Logic of Nazification: The Case of the International Criminal Police Commission (Interpol) in International Journal of Comparative Sociology 43(1):21–44, 2002.
M. DEFLEM, International Police Cooperation — History of, Pp. 795-798 in The Encyclopedia of Criminology, edited by Richard A. Wright e J. Mitchell Miller, Routledge, New York, 2005.
M. DEFLEM, Wild Beasts Without Nationality: The Uncertain Origins of Interpol, 1898–1910. Pp. 275–285 in The Handbook of Transnational Crime and Justice, edited by Philip Reichel, Thousand Oaks, CA: Sage Publications, 2005.
O. DI TONDO, Giuseppe Dosi, la polizia internazionale e la nascita dell'Interpol, in Giuseppe Dosi il poliziotto artista che inventò l’Interpol italiana, (a cura di) R. CAMPOSANO, Ufficio Storico della Polizia di Stato, Roma, 2014.
R. BACH JENSEN, The Battle against Anarchist Terrorism: An International History, 1878–1934. New York: Cambridge University Press, 2014.
T. BEUGNIET, La conférence anti–anarchiste de Rome (1898) et les débuts d’une coopération internationale contre le terrorisme de la fin du XIXe siècle à la Première Guerre mondiale, mémoire, (dir.) Stanislas Jeannesson, Nantes, Université de Nantes, 2016.
Giustizia non politica
youtube.com/embed/iX4-JukJP5M?…
L'articolo Giustizia non politica proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Tutte le contraddizioni sulla riforma dell’industria della difesa europea. L’analisi di Del Monte
L’Unione europea vorrebbe “copiare” gli Stati Uniti per facilitare l’industria AD&S del vecchio continente nella vendita di armi all’estero, rafforzando la propria competitività su un mercato complesso, introducendo una sorta di Foreign Military Sales (Fms) sul modello di quello attuato dal governo di Washington.
L’Fms è un programma attraverso il quale gli Stati Uniti vendono materiali d’armamento ed annessi servizi a Paesi e organizzazioni internazionali. La sua particolarità è che il programma è attivabile quando il presidente decida che la vendita di armi ad un dato Paese costituisca un rafforzamento della sicurezza nazionale americana. Sotto Fms, l’esecutivo statunitense e quello “cliente” stipulano un accordo da governo a governo, chiamato Lettera di offerta e accettazione (Loa). Il Dipartimento di Stato individua quali siano i Paesi da poter inserire nel programma ed al Dipartimento della Difesa spetta poi l’attuazione concreta, con il trasferimento delle armi vendute.
Questo tipo di accordo, che supera le pastoie burocratiche che, invece, rallentano i processi di vendita in Europa, favorisce il comparto industriale statunitense, sfruttando il “peso determinante” geopolitico di Washington. Inoltre, l’FMS viene finanziato direttamente con fondi del governo, che vanno a sommarsi ai tanti sussidi che vengono erogati al comparto industriale dell’aerospazio-difesa-sicurezza.
Industrie europee come Airbus, Leonardo e Thales oggi non vengono sostenute da un meccanismo equivalente. Le ultime iniziative di Bruxelles vanno in direzione di un maggiore supporto alla produzione industriale ma ancora non affrontano gli scogli burocratici che incatenano il sistema produttivo e dell’export. La bozza di documento che l’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Joseph Borrell, presenterà agli Stati membri per la riforma del meccanismo di sostegno all’industria della difesa prevede che anche in Europa si possano fornire incentivi importanti al comparto, ma non è detto che questo incontri il favore di tutti i Paesi.
Il caso della fornitura di munizioni all’Ucraina da parte dei Paesi europei è la cartina di tornasole di un sistema che è inefficiente nel suo complesso e che necessita di una riforma quantomai rapida. L’obiettivo di consegnare entro marzo del prossimo anno un milione di munizioni all’Ucraina non potrà essere raggiunto neanche facendo leva sulle forniture provenienti da Paesi extracomunitari. Finora sono state consegnate solo 300.000 munizioni ed è evidente la difficoltà con cui il comparto industriale europeo stia tentando di passare dai livelli produttivi imposti dalla “illusione post-storica” a quelli che il nuovo contesto di guerra impone.
Del resto, non è una novità che il sistema industriale europeo della difesa sia rimasto indietro rispetto alle controparti statunitensi, cinesi e russe, e sia costretto a recuperare rapidamente terreno non solo con i programmi di sostegno agli ucraini, ma anche per ripianare le proprie scorte di magazzino – invero fin troppo esigue già prima dell’invasione russa dell’Ucraina – e garantirsi una capacità di difesa minima.
La tenuta complessiva del sistema industriale russo e la “messa a regime” produttiva di Mosca, in grado di rifornire ormai con una certa costanza le proprie truppe al fronte, ha fatto nuovamente trasparire, assieme al fallimento della controffensiva estivo-autunnale ucraina, tutti i limiti del comparto industriale-militare del vecchio continente o, meglio, delle norme che ne regolano la produzione e pongono seri limiti alla sua espansione. Ci sono strumenti come gli Eurobond che potrebbero anche essere utilizzati per sostenere l’industria della difesa, settore lasciato scoperto dai finanziamenti comunitari con una certa miopia da parte di Bruxelles.
Ma è proprio nel sistema di sostegno alla produttività che va a scontrarsi ogni ipotesi di introduzione del modello FMS in Europa. La questione è, essenzialmente, politica. Se la proposta può anche sembrare allettante, a mancare sono le basi produttive e di sostegno alla produzione. Perché, se il meccanismo degli accordi governo-governo del Foreign Military Sales funziona, tanto da spingere molti Paesi ad acquistare armi e sistemi da Washington, è anche perché l’industria AD&S statunitense riesce a colmare il gap tra aspettative politiche del governo e livelli di produttività. Volontà politica e risposta industriale sono, quindi, interconnesse.
Ma, in questo caso, la volontà politica deve essere espressa dall’UE nel suo complesso o dai singoli Stati nazionali? Alla domanda non è stata finora data risposta, ma si tratta di un “collo di bottiglia” dal quale prima o poi si dovrà passare.
C’è, inoltre, un rischio concreto legato alla riforma delle politiche industriali d’armamento in Europa che non può essere sottovalutato e che riguarda anche l’idea di FMS europeo: il meccanismo concorrenziale. Borrell al Figaro ha spiegato che l’obiettivo di qualunque progetto di riforma sia l’introduzione di una sorta di “primazia” degli Stati europei per la vendita e l’acquisto di armi tra Paesi comunitari. Una dichiarazione che risponde tanto al cruccio di Parigi di un “Europe first” (tradotto “La France d’abord”) su produzione e vendita di armi e sistemi d’arma, quanto ai timori recentemente espressi dal condirettore generale di Leonardo, Lorenzo Mariani, sull’acquisto ancora maggioritario di piattaforme estere.
I timori sono legati, quindi, alla tenuta ed alla sicurezza della catena di forniture. Ma il problema non è sic et simpliciterquello di come debba lavorare l’industria AD&S e di quale know-how abbia, quanto quello di rendere attrattiva per i compratori esteri – che oggi si rivolgono primariamente agli Stati Uniti se in orbita occidentale o vicini ad essa, o a Cina e Russia – l’Europa. Solo alimentando le esportazioni, creandone, cioè, il presupposto politico, si può pensare di sostenere la produzione. E se non si semplifica la normativa sulle esportazioni di materiali d’armamento – ed in Italia, per fortuna, se ne sta parlando – non si può riformare la politica industriale di settore nel suo complesso.
Se non si risolve questa contraddizione, non potrà esserci mai un Fms europeo.
Israele vuole creare una “zona cuscinetto” a sud di Gaza
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della redazione
Pagine Esteri, 2 dicembre 2023 – Israele vuole costituire una “zona cuscinetto” sul lato palestinese del confine tra Gaza e l’Egitto allo scopo, afferma, di prevenire “futuri attacchi di Hamas”. E ha informato delle sue intenzioni alcuni dei Paesi arabi con cui ha relazioni – in particolare l’Egitto e la Giordania – oltre all’Arabia saudita con cui intende normalizzare i rapporti e la Turchia. L’iniziativa non lascia intravedere una fine imminente dell’offensiva israeliana contro la Striscia di Gaza – ripresa ieri e che ha ucciso in 24 ore 240 palestinesi, dopo una tregua di sette giorni –, però indica che Israele vuole “modellare il dopoguerra” dopo circa due mesi di bombardamenti e di attacchi di terra che hanno provocato 15mila morti e 35mila feriti tra i palestinesi, tra i quali migliaia di bambini e donne, oltre ad aver raso al suolo intere aree urbane.
Sino ad oggi nessuno Stato arabo si è detto pronto a “sorvegliare” o “amministrare” Gaza che in futuro, secondo i piani del gabinetto di guerra israeliano, sarà “senza Hamas” responsabile lo scorso 7 ottobre di un attacco nel sud di Israele che ha fatto circa 1200 morti civili e militari e 5mila feriti.
“Israele vuole questa zona cuscinetto tra Gaza e Israele, da nord a sud, per impedire a Hamas o ad altri militanti di infiltrarsi o attaccare Israele”, ha detto all’agenzia di stampa Reuters un funzionario mon meglio precisato della “sicurezza regionale”. Interpellato sui piani per una zona cuscinetto, Ophir Falk, consigliere per la politica estera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha detto alla Reuters: “Il piano è più dettagliato di quanto è emerso. Si basa su un processo a tre livelli per il giorno dopo Hamas”. Ha aggiunto che i tre livelli implicano “la distruzione di Hamas, la smilitarizzazione di Gaza e la deradicalizzazione dell’enclave”. Più parti hanno ripetuto in queste settimane che è impossibile l’obiettivo di Israele di annientare Hamas che è qualcosa di più di una semplice forza militare e rappresenta una struttura complessa da un punto di vista ideologico, religioso e sociale.
Una fonte della sicurezza israeliana ha detto che l’idea della “zona cuscinetto” è “in fase di esame”, aggiungendo: “Non è chiaro al momento quanto sarà profonda, potrebbe essere 1 km o 2 km o centinaia di metri (all’interno di Gaza)… in questo modo Hamas non potrà organizzare capacità militari vicino al confine”.
Se questa “zona cuscinetto” sarà realizzata 2,3 milioni di palestinesi si ritroveranno in un territorio ancora più piccolo. Gaza è lunga appena 40 km e larga tra circa 5 km e 12 km. Un lembo di terra inferiore a 400 kmq e con una delle densità più alte al mondo.
Già in passato Israele ha pianificato di costituire una “zona cuscinetto” all’interno di Gaza da cui ha ritirato le sue truppe e i suoi coloni nel 2005, nel quadro del “piano di ridispiegamento” formulato dall’ex premier Ariel Sharon. Secondo la Reuters gli Stati uniti restano contrari a qualsiasi progetto volto a ridurre le dimensioni di Gaza. Da parte loro Giordania e Egitto mettono in guardia dall’intenzione di Israele di cacciare i palestinesi da Gaza, ripetendo la Nakba (catastrofe) del 1948, quando centinaia di migliaia di abitanti della Palestina furono cacciati via o furono costretti a scappare nei Paesi arabi vicini sotto la minaccia delle forze armate del nascente Stato di Israele.
Nelle scorse settimane era già emersa l’idea di Israele di creare una zona cuscinetto nel nord di Gaza. Gli Stati arabi non si oppongono a una barriera di sicurezza tra le due parti ma c’è disaccordo su dove sarà collocata. E’ da sottolineare che nessuna parte, da Israele agli Stati arabi fino ai Paesi occidentali, ritiene di coinvolgere gli abitanti palestinesi in queste discussioni sul “futuro” di Gaza e del resto dei Territori occupati. Pagine Esteri
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Guarda “Il cielo di Sabra e Chatila” – documentario di Pagine Esteri
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Il documentario, a 40 anni dal massacro dei campi profughi palestinesi di Beirut, Sabra e Chatila, raccoglie testimonianze dei sopravvissuti e storie dei più giovani. Oltre a realizzare una ricostruzione storica delle fasi che portarono al massacro di centinaia, forse migliaia di palestinesi, soprattutto donne anziani e bambini, il lavoro pone uno sguardo sulla condizione dei profughi palestinesi oggi in Libano, sulle loro aspirazioni, raccontando come il sogno del rientro nella loro terra di origine si scontri con la difficile realtà libanese e la netta chiusura di Israele al “diritto al ritorno”.
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Chinoiserie – Lao Xie Xie, a Milano nella mostra fotografica "Uncensored” la trasgressione della Gen Z di Shanghai
Il volto trasgressivo di una Gen Z cinese senza filtri viene catturato attraverso gli scatti di un milanese dall’identità virtuale misteriosa. China Files ha incontrato l’artista che si cela dietro il nome di Lao XieXie in occasione di UNCENSORED, la sua prima personale a Milano presso la galleria Lungolinea. Chinoiserie, la rubrica sull’arte cinese a cura di Camilla Fatticcioni In ...
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Cooperazione un po' di storia. La quarta parte. Nazificazione, II^ Guerra Mondiale. Heydrich ed Hoover.
Proseguiamo nella storia della cooperazione internazionale di polizia.
È ancora una guerra (questa volta la II^), anzi, a ben vedere, i suoi prodromi, a intralciare la organizzazione della cooperazione di polizia. Con l’annessione dell’Austria il 12 marzo 1938 (Anschluss) in attuazione della politica espansionistica di Adolf Hitler che mira alla creazione della “Grande Germania”, l’organizzazione fu di fatto rilevata dal regime nazista. In quello stesso anno, la presidenza dell’ICPC fu assegnata a un funzionario austriaco di fede nazista, in attuazione di un ampliamento iniziato in realtà sin dal 1935, allorquando all’undicesimo incontro ICPC a Copenaghen parteciparono in rappresentanza della Polizia Germanica funzionari di chiara matrice nazista.
(Reinhard Heydrich)
Il 24 agosto 1940 la finalizzazione della “nazificazione” dell’organizzazione internazionale di polizia fu simboleggiata dalla elezione alla Presidenza della Commissione del gerarca Reinhard Heydrich (immagine precedente), capo della tristemente nota Gestapo, e l’anno seguente con il trasferimento della sede della Commissione a Berlino, nella sede della Reichskriminalpolizeiamt (RKPA), il dipartimento centrale di investigazione criminale della Germania nazista.
Un solo esempio della nazificazione dell’ICPC rende più evidente la infusione dei principi nazisti di polizia con le pratiche di polizia esistenti: dopo che la sede fu trasferita a Berlino i moduli del mandato di perquisizione dell’ICPC furono modificati solo in un aspetto, l’aggiunta della categoria “RASSE” (razza) accanto alla voce “RELIGION”.
Sulla continuità della Commissione durante la Guerra, sotto la direzione della Polizia tedesca come abbiamo appena visto, è interessante notare che un rapporto del 1940 su una pubblicazione di settore dichiarava che l’ICPC aveva continuato a funzionare dallo scoppio della guerra “perché tutti gli stati della Commissione (tranne naturalmente l’Inghilterra e la Francia, ndr) – continuano la collaborazione di polizia nell’ambito di questa Commissione”. Un successivo articolo del 1942 che promuoveva il sistema di polizia nazista, dichiarava ancora che “nonostante la guerra, le relazioni internazionali, sebbene spesso in forme diverse” potevano essere mantenute e promosse.
In un libro pubblicato nel 1943, il segretario generale Oskar Dressler dichiarò che non meno di 21 Paesi – tra cui gli Stati Uniti – stavano ancora cooperando con il quartier generale dell’ICPC a Berlino. In effetti, gli Stati Uniti sono stati legalmente membri dell'ICPC durante la guerra, poiché l'approvazione dell'appartenenza alla Commissione non è mai stata revocata. Che si trattasse di una mera questione formale divenne chiaro quando, dopo la caduta della Germania nazista, si scoprì che l'ICPC, controllato dai nazisti, dopo il 1941 aveva ancora inoltrato circa 100 avvisi di ricerca al Federal Bureau of Investigation, un numero non identificato dei quali, secondo quanto riferito, era stato inoltrato dopo l'entrata in guerra degli USA. Il periodico dell’ICPC, Internationale Kriminalpolizei, continuò a essere pubblicato regolarmente durante gli anni della guerra. La pubblicazione conteneva principalmente articoli di interesse generale e avvisi amministrativi, tutti scritti dalla polizia o da simpatizzanti nazisti. Nel numero del 29 febbraio 1944 del periodico ICPC, apparve un breve articolo su “Il raduno dei membri dell’ICPC a Vienna”, tenutosi dal 22 al 24 novembre 1943. L’incontro fu probabilmente il primo svolto dal 1938, ma l’articolo non menzionava alcun evento o decisione degna di nota raggiunta durante la conferenza.
il direttore dello statunitense FBI (Federal Bureau of Investigation), Hoover
Atmosfera da romanzo giallo assume il destino dei dossier dell’ICPC dopo la conquista di Berlino da parte degli Alleati. Alla fine della guerra in Europa, voci giornalistiche asserivano che il 2 agosto 1945 le autorità dell’esercito americano avevano scoperto a Berlino gli archivi dell’ICPC formati dai fascicoli relativi a 18.000 criminali internazionali. Studiosi hanno affermato che parte dei documenti dell’ICPC sono stati distrutti durante i raid su Berlino, ma che alcuni sono stati recuperati dalle rovine e forse portati a Mosca dai militari sovietici. In una lettera del 4 dicembre 1945, il direttore dello statunitense FBI (Federal Bureau of Investigation), Hoover (immagine precedente) fu informato del “recupero degli archivi dell’ex Ufficio di Vienna”.
Nel maggio 1946, a Hoover fu detto allo stesso modo che Florent Louwage, il primo presidente dell’ICPC dopo la guerra, era “riuscito a nascondere alcuni dei documenti della Commissione in Germania” e ora aveva “in suo possesso a Bruxelles i fascicoli di circa 4.000 criminali”. Due anni dopo, l’addetto FBI a Parigi confermò che “una parte dei fascicoli della Commissione” era stata “recuperata”.
… continua …
Perché l’investimento di JP Morgan in Indra cambia la difesa spagnola (e non solo?)
Il gruppo finanziario JP Morgan accresce la propria partecipazione nel capitale di Indra, diventando il secondo maggiore azionista nella multinazionale di difesa spagnola. Il gruppo statunitense arrivando a quota 10,585%, diventa secondo solo alla Sociedad estatal de Participaciones industriales (Sepi), partecipata spagnola che detiene il 25,159% della società. Dopo le due si colloca Escribano, società spagnola di tecnologia e difesa, da poco entrata in possesso dell’8% delle quote di Indra.
Questo attivismo suggerisce che qualcosa si muove nell’ambito della difesa spagnola, forse dettato dalla contingenza geopolitica che invita i Paesi a investire maggiormente nel settore.
Cos’è Indra e il rapporto con Leonardo
Indra è una multinazionale spagnola specializzata nell’aerospazio, tecnologie di informazione e difesa ed è una delle principali aziende europee del comparto. Negli ultimi anni, anche a causa dell’espansione dei conflitti a livello globale, l’azienda ha investito per rafforzare il proprio ruolo nel Vecchio continente attraverso compartecipazioni e un aumento delle proprie quote di mercato. Infatti, solo qualche giorno fa, Indra ha testato il centro operativo marittimo europeo a Bruxelles, sviluppato in collaborazione con l’italiana Leonardo, con lo scopo di mettere alla prova la prossima generazione di tecnologie per la sorveglianza marittima. Allo stesso modo, ad ottobre i due colossi della difesa hanno inaugurato il primo centro paneuropeo di cyber analisi per conto della Commissione europea. La multinazionale ha, poi partecipato, sempre insieme a Leonardo, all’ultima esercitazione dell’Alleanza atlantica dedicata alla cyber-sicurezza. Dentro i confini nazionali, a partire da gennaio, il ministero della Difesa spagnolo ha affidato alla multinazionale anche il compito di gestire i centri di sorveglianza e controllo dello spazio aereo del Paese.
JP Morgan investe in difesa
Attraverso l’acquisto di partecipazioni in Indra, il colosso bancario americano JP Morgan si trasforma in uno dei maggiori azionisti dell’azienda spagnola. La partecipazione del gruppo vale circa 268 milioni di euro ai prezzi di mercato e, secondo El Pais, non è ancora chiaro se l’acquisto da parte di JP Morgan sia stato realizzato per conto di terzi, con lo scopo di favorire l’ingresso di un investitore nel capitale di Indra. Certo è che la compagnia spagnola ha acquisito maggiore rilevanza strategica a seguito dell’invasione russa in Ucraina e del conseguente impegno del governo di Madrid di aumentare le proprie spese in difesa negli anni a venire.
Il ruolo della Spagna
La crescita di Indra, all’interno della quale il governo spagnolo continua a detenere la quota maggioritaria attraverso Sepi, testimonierebbe l’interesse di Madrid nel potenziare il proprio ruolo nella difesa. Ma l’operazione del colosso bancario americano non è l’unica che ha riguardato Indra nell’ultimo mese. Infatti, la società madrilena Escribano Mechanical & Engineering (EME) ha incrementato la propria partecipazione nella multinazionale della difesa dal 3,4% all’8%, sempre attraverso una compravendita finanziata da JP Morgan. Ai due movimenti di novembre, inoltre, si aggiungono le voci che suggeriscono la volontà di Indra di separare la sua parte tecnologica Mnsait, di un valore stimato di 2 miliardi di euro, dal resto del gruppo.
L’impegno nella Nato
Questi movimenti registrati all’interno del colosso spagnolo fanno pensare che il Paese voglia accrescere il proprio peso in ambito della difesa, forse stimolato anche dalla guerra in Ucraina e dall’acuirsi di minacce e incertezze geopolitiche. Magari prevedendo delle prospettive di crescita all’interno dell’Alleanza atlantica. È infatti da segnalare che, nonostante l’impegno e il sostegno della Spagna alla difesa dell’Ucraina, il Paese è ad oggi penultimo nell’ambito degli impegni di spesa della Nato. Madrid investe nella Difesa soltanto l’1,09% del Pil, in netto contrasto con l’intenzione, e l’impegno, del 2% entro il 2024, stabilito dalla Nato in Galles.
VENEZUELA. Il referendum per riprendere il territorio conteso
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El Esequibo: un territorio in disputa tra Venezuela e Guayana.
Domenica 3 dicembre oltre 20 milioni di venezuelani (secondo i dati del Consiglio Nazionale Elettorale) saranno chiamati al voto per sostenere o meno il recupero della regione del paese della Guayana Esequiba nella zona orientale del Venezuela. Un’area con un’estensione territoriale di quasi 160 mila km quadrati, quasi quanto quelli dell’intero Uruguay. La Guayana è una zona con una bassa densità abitativa in cui il 90% dell’intera popolazione è concentrato sul 5% dell’estensione del proprio territorio. È molto ricco di giacimenti minerali e petroliferi.
Il governo venezuelano, dallo scorso settembre, ha lanciato la sua campagna referendaria ed ha convocato il proprio popolo su una questione territoriale che è in disputa da 180 anni. Il governo ha dispiegato le sue forze in campo ed è seriamente intenzionato a vincere. Queste le principali domande di supporto alla campagna governativa per il Sì:
- Lei è d’accordo nel respingere con tutti i mezzi e nel rispetto della legge, la linea fraudolenta imposta dal Lodo Arbritale di Parigi del 1899 che mira a privarci della nostra Guayana Esequiba?
- Lei sostiene l’Accordo di Ginevra del 1966 come unico strumento giuridico valido per raggiungere una soluzione pratica e soddisfacente per il Venezuela e la Guayana riguardo alla controversia sul territorio della Guayana Esequiba?
- Lei è d’accordo con la posizione storica del Venezuela di non riconoscere la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia per risolvere la controversia territoriale sulla Guayana Esequiba?
- Lei è d’accordo ad opporsi con tutti i mezzi e nel rispetto della legge, alla pretesa della Guayana di disporre unilateralmente di un mare in attesa di delimitazione, illegalmente e in violazione del diritto internazionale?
- Lei è d’accordo con la creazione dello stato di Guayana Esequiba e lo svilupppo di un piano accellerato di assistenza globale per la popolazione attuale e futura di quel territorio, che comprende, tra l’altro, la concessione della cittadinanza e della carta d’identità venezuelana, in conformità con l’Accordo di Ginevra e il diritto internazionale, incorporando di conseguenza detto stato nella mappa del territorio venezuelano?
La votazione si svolgerà dalle 6 di mattina fino alle 6 di pomeriggio nei 15.857 centri di votazioni e nei 28.027 seggi elettorali. Il referendum non è stato riconosciuto dallo stato della Guayana che ha interpellato la Corte Internazionale di giustizia, lo scorso 14 novembre perché sospenda la votazione.
Perché ritorna in disputa il territorio di Esequibo?
La tensione tra i due paesi si riaccese nell’anno 2015 quando la multinazionale petrolifera statunitense Exxon Mobil aveva stipulato degli accordi con l’allora presidente di Guayana, Donald Ramotar, per la perforazione del giacimento Stabroek Block nelle acque territoriali a confine con il Venezuela. Azione che aveva dato fastidio al governo venezuelano che la considerava un’intromissione e una minaccia per il proprio paese.
Poi, nel 2018 le tensioni erano cresciute quando l’esercito venezuelano aveva intercettato, nelle proprie acque territoriali, una nave norvegese per conto della compagnia Exxon Mobil che stava esplorando il territorio per le azioni di perforazione e sfruttamento delle risorse naturali. La nave Ramform Tethys della società norvegese Petroleum Geo-Service (PGS) stava effettuando un’ispezione sismica per conto di Exxon Mobil e dovette interrompere i lavori per l’intervento delle forze armate venezuelane.
Secondo l’analista politico Phil Gunson, in un’intervista rilasciata alla CNN spagnola, la convocazione del Referendum del 3 dicembre non è solo una pretesa nazionalista e antimperialista del governo bolivariano venezuelano bensì, è la risposta alla crisi che vive il paese. Maduro vorrebbero annettere questo territorio e appropiarsi delle ingenti risorse presenti nella zona denominata Arco Minero.
Nello scorso maggio del 2023 la multinazionale Exxon Mobil ha dichiarato che nell’anno 2022 con lo sfruttamento dei giacimenti della Guayana Esequibo, ha registrato dei profitti pari a 5.800 milioni di dollari. Inoltre, secondo stime future per il prossimo 2030 i profitti potrebbero aumentare a 7.500 milioni di dollari.
Le origine storiche del conflitto
L’America Latina è stato un continente conquistato da vari paesi europei durante i secoli dell’epoca moderna dal XV secolo fino alla fine del XIX secolo. Spagnoli, porotghesi, inglesi, olandesi e francesi hanno invaso e saccheggiato l’intero continente per secoli. Nell’anno 1814 il Regno Unito decise di comprare dai Paesi Bassi alcuni territori coloniali nella zona che oggi s’identifica coi paesi del Suriname e Guayana. Acquistò una parte delle sue colonie situate nell’attuale Guayana e così nacque la Guayana Britannica con capitale Georgetown. In quel trattato di compravendita tra i due stati europei non era stata delimitata bene la frontiera nella parte occidentale. Tuttavia gli inglesi, avendo scoperto una gran quantità di giacimenti d’oro in quel territorio, decisero di allargare le frontiere trasportandole ancor di più verso occidente fissando la delimitazione territoriale tra i due stati a quella vigente ancora oggi. Per i venezuelani invece la delimitazione territoriale si estenderebbe più a oriente fino al Rio Esequibo.
Nel febbraio del 1966 venne siglato il famoso accordo di Ginevra tra Venezuela e Regno Unito nel quale si stipulava la costituzione di una commissione bipartisan che avrebbe dovuto risolvere il problema territoriale tra i due paesi. Un accordo riconosciuto da entrambi le parti. Dopo alcuni mesi dalla costituzione della commissione, la Guayana Britannica ottenne l’indipendenza dall’Inghilterra e dall’Irlanda e si autodenominò solamente Guayana. Con quest’avvenimento cambiarono le sorti dei lavori della Commissione che lavorò fino all’anno 1970 senza risolvere sostanzialmente il problema. Seguiranno altri incontri negli anni successivi ma la situazione resta ancora in alto mare. Gli ultimi avvenimenti lo confermano.
Maduro e la sua campagna per i 5 SI.
Maduro sta facendo campagna per i 5 SI e nelle ultime dichiarazioni ha affermato che si tratta di una controversia storica che viene da molto lontano. L’attuale presidente della Guayana, Irfaan Ali (in carica dall’agosto del 2020) non è il primo a fare la vittima nella disputa. Maduro ha criticato le dichiarazioni di Ali in quanto quest’ultimo ha accusato il Venezuela di essere un paese colonialista, imperialista e aggressivo quando invece, secondo il presidente venezuelano, storicamente il Venezuela ha combattuto il colonialismo, l’imperialismo e le aggressioni dei paesi invasori. Lo dimostra il piano del grande Simòn Bolivar che in tutta la sua vita cercò di unificare tutti i latinoamericani sotto il progetto della Grande Colombia per difendersi dall’espansione imperialista dei paesi europei e dall’impero nordamericano. “L’Esequibo è parte del territorio venezuelano che si è conquistato e consolidato con il sangue dei nostri combattenti per la nostra indipendenza” ha dichiarato il primo mandatario venezuelano nei giorni passati.
Il 2 dicembre del 2023 si compiono 200 anni dalla famosa Dottrina Monroe in America Latina e la scelta di convocare questo referendum in Venezuela nello stesso periodo non sembra per niente casuale.
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Podcast. Il Libano in profonda crisi non vuole la guerra con Israele
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Pagine Esteri, 1 dicembre 2023. Intervista al giornalista Pasquale Porciello a Beirut. “Il Libano in crisi non può sopportare una guerra. Anche per questo Hezbollah ha scelto di non andare ad una guerra totale con Israele”, spiega Porciello.
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La Cina celebra il vecchio amico Henry Kissinger
Pechino piange l'ex segretario di stato che favorì l'avvio delle relazioni diplomatiche con Washington. Ma in Vietnam e in Cambogia c'è un ricordo molto diverso
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In Cina e Asia – Cina-Usa: riprendono le relazioni militari. Estesa la cooperazione anche allo spazio
Cina-Usa: riprendono le relazioni militari. Estesa la cooperazione anche allo spazio
Cina, scomparsa giornalista del South China Morning Post
Cina-Turkmenistan: rafforzata la cooperazione su energia e sicurezza
Polmonite tra i bambini, primi casi anche a Hong Kong
Cina, Pinduoduo tallona Alibaba
La Cina rivedrà le restrizioni sul vino australiano
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Cooperazione. Dal Primo congresso alla creazione dell'INTERPOL.
(Johannes Schober)
Nei giorni in cui si festeggiano i 100 anni dell'INTERPOL, proprio a Vienna, capitale ove è nata, continuiamo a ripercorrere la storia della cooperazione di polizia. Dopo il Primo congresso, tenutosi nel Principato di Monaco nel 1914 ...
Si deve attendere la fine della I^ Guerra Mondiale per proseguire nelle ricerche di intese volte a implementare la collaborazione transnazionale. Un primo parziale tentativo è del settembre 1922: durante una riunione della polizia a New York, fu istituita la Conferenza internazionale della polizia (IPC): concepita come un’organizzazione per promuovere e facilitare la cooperazione internazionale tra le forze di polizia, in realtà la Conferenza diede vita ad un’organizzazione prevalentemente americana che si occupava principalmente di favorire standard di professionalità tra le forze dell’ordine locali degli Stati Uniti. L'IPC fu organizzato in modo indipendente da funzionari di polizia, in particolare all'interno del Dipartimento di polizia di New York. La cooperazione era pensata in modo da attuarsi tra i membri della Conferenza, al di fuori del contesto dei sistemi legali formali. A causa della distanza con l'Europa e altre parti del mondo e delle reti di telecomunicazioni non ancora sviluppate, e poiché gli Stati Uniti non avevano ancora una polizia federale ben strutturata, le operazioni di polizia statunitensi in quel momento rimanevano isolate.
L’iniziativa della Polizia Austriaca nel 1923, e del suo Capo Johannes Schober (Cancelliere federale dal 1921 al 1922 e dal 1929 al 1930, immagine precedente), fa sì che si tenga a Vienna una nuova, la seconda, Conferenza internazionale di polizia criminale, durante la quale viene finalmente deliberata la creazione della Commissione Internazionale di Polizia Criminale, primo nucleo di quello che sarà l’attuale Interpol – OIPC, l’organizzazione di polizia internazionale più duratura.
Quella che fu allora definita ICPC (International Criminal Police Commission), fu il risultato non di una iniziativa diplomatica, ma di una proposta presa indipendentemente da funzionari di polizia di vari Paesi, principalmente europei. L’esigenza era quella di provvedere al controllo di una criminalità mutata alla fine del primo conflitto mondiale anche mercé la maggiore apertura delle frontiere. La particolarità è che la Commissione fu istituita senza la firma di un trattato internazionale o di un documento legale. Le attività dell’ICPC sono state pianificate in occasione di riunioni di polizia e tramite corrispondenza tra funzionari di polizia, senza controllo da parte dei rispettivi Governi. Inoltre, per molto tempo dalla sua fondazione, l’ICPC non ha avuto uno status giuridico riconosciuto a livello internazionale e non è stata formalizzata alcuna procedura legale affinché un’agenzia di polizia, piuttosto che uno Stato nazionale, acquisisse l’appartenenza alla Commissione.
Non a caso l’evento ha luogo al temine della I^ Guerra Mondiale. In tale periodo infatti emerge un aumento transnazionale e un’internazionalizzazione del crimine: nuovi tipi di reato hanno luogo in Paesi in fase di rapido cambiamento sociale e progresso tecnologico. La Commissione istituì nuovi sistemi di mezzi tecnologicamente avanzati per la comunicazione e trasmissioni dirette da polizia a polizia, in reazione alle gravose procedure legali di estradizione. Tra il 1923 e il 1938, la Commissione tenne quattordici incontri internazionali in vari Paesi europei e approfondì costantemente le strutture organizzative. Nel corso degli anni, l’adesione all’ICPC si andava gradualmente ampliando. Basti dire che nel 1940 la Commissione rappresentava più di 40 stati, tra cui la maggior parte delle potenze europee (ad esempio Francia, Germania e Italia) e alcuni Paesi non europei, come Bolivia, Iran, e Cuba.
(Michael Skubl)
Il quartier generale dell’ICPC fu posto a Vienna. Nel maggio 1934, fu un funzionario della Polizia italiana, Antonio Pizzuto, a proporre che la presidenza dell’ICPC risiedesse stabilmente presso la Direzione della Polizia della capitale austriaca. La mozione fu accolta e il presidente della polizia di Vienna Michael Skubl (immagine precedente) divenne il presidente dell’ICPC. La sede conteneva divisioni specializzate sulla falsificazione di passaporti, assegni e valute, impronte digitali e fotografie e altri sistemi tecnici propri della polizia. Inoltre, mezzi di comunicazione diretta “da polizia a polizia”, come una rete radio e pubblicazioni, risultano tra i primi traguardi della neonata ICPC. Nel 1935 l’organizzazione contava 34 Paesi membri.
… continua …
GAZA. Terminata la tregua. Ripresi i raid aerei israeliani
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della redazione
Pagine Esteri, 1 dicembre 2023 – Dopo una settimana questa mattina alle 7 (le 6 in Italia) si è conclusa la tregua tra Israele ed Hamas. Da Gaza giungono notizie di raid aerei israeliani sul nord e anche sul sud della Striscia dove sono stati centrati edifici di Rafah. Almeno quattro i morti. Hamas ha lanciato razzi facendo scattare le sirene di allarme in diverse località israeliane vicine a Gaza. Pagine Esteri
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Le falle di sicurezza nei sistemi di documentazione giudiziaria utilizzati in cinque stati degli Stati Uniti hanno messo in luce documenti legali sensibili
L'ex responsabile del motore a razzo Blue Origin denuncia il licenziamento illegittimo per aver denunciato sulla sicurezza
La denuncia è stata presentata lunedì presso la Corte Superiore della contea di Los Angeles. Include una narrazione dettagliata sugli sforzi del direttore del programma Craig Stoker, nell'arco di sette mesi, per aumentare le sue preoccupazioni sulla sicurezza e su un ambiente di lavoro ostile alla Blue Origin
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> instillando sempre il dubbio
Il dubbio non è un problema, soprattutto se paragonato alla disparità di accesso allo studio e al lavoro determinata dal pregiudizio
> le borse di studio riservate alle studentesse del PoliMi. Un'aberrazione a mio avviso
Sono d'accordo in linea di principio, ma viviamo nel mondo reale: se il problema delle performance delle donne nelle discipline STEM, mediamente inferiori a quelle degli uomini, non è dovuto a cause evolutive e in un certo senso "genetiche" (un'ipotesi possibile e molto suggestiva, ma mai dimostrata) allora questo ritardo è dovuto a una pressione sociale sbagliata da parte della società ed è quindi corretto iniziare a porre dei correttivi in tal senso, sia per quelle donne per cui il danno non è ancora stato fatto (bambine in età scolare e pre-scolare), sia per quelle per cui il danno è stato realizzato
Sfatare i 10 principali miti su mastodon
Il punto, però, è questo: ci sono molti miti e voci che circolano all'interno della base utenti di Mastodon che fraintendono o falsificano notevolmente le informazioni sulla piattaforma. Nell'interesse di correggere la situazione su un gran numero di cose, abbiamo stilato un elenco dei miti sui mastodonti più pervasivi.
10. Mastodon non ha algoritmi, perché gli algoritmi sono pessimi
9.Mastodon è la stessa cosa del Fediverso
8. Non ci sono nazisti su Mastodon
7. Mastodon dovrebbe evitare le funzionalità dei social network più popolari, perché sono vettori di abusi
6. Mastodon rispetta la tua privacy ed è l'ideale per comunicazioni sicure
5. Se ti trovi su un server scadente, puoi facilmente spostarti su uno buono
4. Mastodon e il Fediverso funzionano sostanzialmente come la posta elettronica.
3. Mastodon è molto più bello di altri posti!
2. Mastodon è compatibile con ActivityPub
1. Mastodon è facile da usare!
Mastodon e il Fediverso funzionano sostanzialmente come la posta elettronica.
Perché sarebbe un mito questo?
@onitoring il post spiega che ciò che viene effettivamente inviato sono i payload JSON, che vengono inviati alla MultiInbox di un server, quindi diffusi ai file Inbox
Inoltre il server ActivityPub importa tutta una serie di contenuti che non sono visibili solo a chi ha fatto l'iscrizione su quei contenuti, ma anche agli altri utenti dell'istanza. Il sistema quindi ricorda abbastanza un server mail, ed è utile come esempio, ma è estremamente più complesso
Nicola Matteucci, un «liberale scomodo»
È benvenuto il libro di Anna Maria Matteucci, Nicola Matteucci, mio fratello. Ricordi, epistolari e scritti inediti (Il Mulino, pagg. 296, euro 25), che ci stimola a ripensare la figura del grande studioso, che tanta importanza ha avuto nella cultura politica dell’Italia repubblicana. Matteucci è stato definito «un liberale scomodo»: una definizione che sottolinea giustamente l’originalità del suo pensiero. Negli anni Sessanta-Settanta il filosofo bolognese condusse una vigorosa battaglia per ripensare e riproporre il costituzionalismo, contro il positivismo giuridico di ispirazione kelseniana, che affermava il primato dello Stato sull’individuo e sui suoi dirittti, e che aveva in Norberto Bobbio il suo rappresentante più influente. Per Matteucci il costituzionalismo era la dottrina liberale per eccellenza, perché esso si propone di garantire i diritti di libertà dell’individuo e concepisce la costituzione come uno strumento per limitare i poteri del governo.
Il filosofo bolognese si era formato all’Istituto di studi storici di Napoli, sotto la guida di Benedetto Croce e di Federico Chabod. Ma crociano ortodosso non fu mai. Nel 1972 egli pubblicò uno dei suoi libri più importanti, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, in cui faceva i conti con il liberalismo di Croce, per delineare una propria concezione del liberalismo all’altezza dei tempi nuovi. Secondo Matteucci c’era un limite molto serio nella visione crociana del liberalismo. Il pensatore napoletano avrebbe dovuto abbandonare la «filosofia dello spirito» per la scienza empirica della politica, al fine di analizzare i diversi sistemi politici, stabilendo tipi e classi per mezzo della logica classificatoria, e formulare leggi empiriche attraverso la ricerca di conformità o difformità di effetti. Ma Croce, diceva Matteucci, pur riconoscendo la funzione della scienza politica, non l’aveva vista come parte integrante di una moderna cultura liberale.
Per il filosofo bolognese, insomma, si doveva passare da una teoria filosofica del liberalismo a una teoria empirica, da una fondazione «metafisica» del fine (la libertà) a un’analisi empirica dei mezzi (le istituzioni non solo politiche, ma anche sociali ed economiche) per costruire la società liberale. Un liberalismo così inteso doveva aprirsi alle scienze sociali: cosa che a Croce non era riuscito di fare. E tuttavia della concezione crociana del liberalismo restava viva, secondo Matteucci, una dimensione fondamentale: che il liberalismo non poteva essere ridotto a mero utilitarismo, e che la libertà doveva essere intesa come il solo e vero ideale morale. D’altronde, senza l’amore per la libertà, anche le istituzioni liberali decadono. In questo modo Matteucci, mentre sottoponeva a una profonda revisione il liberalismo crociano, al tempo stesso ne conservava l’alta ispirazione etica: se l’idea della libertà non vive nelle menti e nei cuori, non c’è ingegneria istituzionale che possa salvare la società liberale.
La difesa del costituzionalismo liberale, della libertà dell’individuo in quanto persona e dei suoi diritti fondamentali ha sempre caratterizzato la riflessione di Matteucci. Di qui la sua ferma opposizione al comunismo in un Paese come l’Italia che aveva il più forte partito comunista dell’Europa occidentale. Nel 1957 il filosofo bolognese scrisse che per lui quello comunista era «un mondo chiuso e triste, dentro il quale non ci sono tensioni né esperienze, la cui unica preoccupazione è quella di conservarsi per un’occasione della quale si è perduto ormai il senso della scadenza… Noi non abbiamo ammirazione per i comunisti, non abbiamo stima dei loro dirigenti».
Allo stesso modo Matteucci non esitò, nella stagione sociale e politica apertasi in Italia dopo il Sessantotto la violenta contestazione nelle università e nelle fabbriche a condurre una ferma battaglia contro il populismo. «La democrazia populistica egli disse è caratterizzata, sul piano della cultura politica, dall’insorgenza di un nuovo clima di idee semplici e di passioni elementari (…) da un diffuso atteggiamento di rancore e di invidia contro le aristocrazie (lo specialista, l’esperto, lo studioso), in nome di un estremo egualitarismo». Il populismo era la forma peggiore di degenerazione della democrazia demagogica e poteva essere contrastato solo dalla cultura liberale, con la sua difesa dei diritti fondamentali della persona: una difesa che rifiutava qualunque forma di egualitarismo demagogico e valorizzava i meriti e i talenti degli individui. Matteucci condusse la sua battaglia antipopulistica scrivendo su riviste importanti (fu direttore del Mulino per parecchi anni) e sul quotidiano Il giornale, di cui fu autorevole editorialista.
Parlare della vastissima produzione scientifica del filosofo bolognese è qui impossibile: dagli studi sulla storia del costituzionalismo alla cura delle opere di Tocqueville, di cui fu il maggiore studioso italiano, ai molti lavori sulla democrazia americana.
Merita un cenno (il libro della sorella Anna Maria ci spinge a farlo) la durissima prova che Matteucci dovette affrontare da giovane (aveva 19 anni), e di cui egli non parlò mai (fu Indro Montanelli a rivelarlo): nel maggio 1945 suo padre si recò a ispezionare alcuni suoi possedimenti agricoli, ma non fece più ritorno, né il suo corpo fu mai ritrovato. Il ricco agrario (che non aveva mai aderito al fascismo e che non si era mai occupato di politica) era stato ferocemente punito da coloro che aspettavano l’ora «x» per imporre una nuova dittatura al nostro Paese.
L'articolo Nicola Matteucci, un «liberale scomodo» proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Una Cyber force europea. La proposta di Michel per la Difesa Ue
La sicurezza europea richiede investimenti e programmazione di lungo periodo, ed è arrivato il momento per l’Unione di potenziare i propri asset e aumentare il livello della sua ambizione nel settore della Difesa. È questo il nodo centrale registrato dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, nel suo intervento alla Conferenza annuale dell’Agenzia europea per la Difesa (Eda). “È giunto il momento di creare un’Unione della Difesa – ha rimarcato Michel – abbinata a un mercato unico della Difesa; dobbiamo rendere più forte la nostra difesa europea. Ora, domani e in futuro”. Per fare questo, la proposta del presidente è stata quella di “aumentare i finanziamenti nel nostro settore della difesa”. L’obiettivo, più volte indicato anche da fonti industriali quale la vera chiave di volta per garantire una crescita del comparto comune, è quello di “aumentare la prevedibilità degli ordini pubblici” in modo da aiutare “la nostra industria ad accedere ai finanziamenti del settore privato”. In questo modo, ha detto Michel, si “manderà un messaggio chiaro: produci e noi compreremo; garantiremo contratti a lungo termine”.
Gli investimenti del Vecchio continente
In generale, ha sottolineato Michel, “gli Stati membri hanno aumentato drasticamente la spesa per la difesa”. La spesa totale per la difesa di tutti gli Stati membri dell’Ue per il 2023 è stata infatti di circa 270 miliardi di euro, ha riportato il presidente. “L’anno scorso, un quarto della spesa totale per la difesa è stato destinato agli investimenti” ha detto Michel, aggiungendo come questo significhi che nei prossimi dieci anni, l’Unione potrebbe investire quasi seicento miliardi nella difesa, cifre con le quali “possiamo fare grandi cose, questo può e deve essere un momento di svolta”. Secondo il presidente della Commissione, il momento attuale “è un’opportunità unica per rompere il modello di frammentazione del mercato, della domanda e dell’offerta”.
Bond per la sicurezza
Questo significa soprattutto rafforzare la base tecnologica e industriale europea. A questo scopo, diventa necessario coinvolgere “sia il denaro pubblico che quello privato”. Da qui l’idea di Michel di utilizzare obbligazioni europee per rafforzare il settore della difesa: “Queste obbligazioni dell’Ue potrebbero emergere come una nuova classe di attività, anche per gli investitori al dettaglio”. In questo quadro, il presidente della Commissione ha ricordato con favore la decisione della Banca europea degli investimenti (Bei) di stanziare otto miliardi di euro per la sicurezza fino al 2027. In questo senso, però, “dobbiamo coordinarci per far si che le spese per la difesa siano più efficaci”, e un ruolo cruciale potrebbe svolgerlo proprio l’Eda.
Un Dipartimento europeo della Difesa
La proposta del presidente del Consiglio europeo, allora, è questa: rendere l’Agenzia europea per la Difesa “un potente Dipartimento europeo della Difesa, gestito dall’Alto rappresentante sotto la guida-autorità del Consiglio Europeo”. In questo nuovo ruolo, l’Eda diventerebbe la “forza trainante per mettere in comune le competenze e gli strumenti militari nonché coordinare e guidare gli acquisti congiunti e il loro finanziamento, in stretta collaborazione con gli Stati membri” ha sottolineato Michel, ricordando come, sebbene negli ultimi anni il ruolo dell’Eda si sia profondamente ampliato, soltanto dieci dei quasi settanta progetti finanziati dalla Pesco siano coordinati dall’Eda: “Questo numero deve aumentare”.
Eu cyber force
Nel complesso, dunque, l’Unione europea sulla difesa deve cominciare a “pensare in grande”, ha continuato Michel. “dobbiamo concentrarci su progetti concreti che abbiano un impatto strutturale europeo e che garantiscano la sicurezza dei nostri cittadini” e “l’Ue potrebbe sviluppare capacità di prossima generazione pienamente interoperabili nei futuri sistemi di combattimento”. In questo senso, “Il dominio informatico offre un vasto potenziale” ha rimarcato il presidente, che ha proposto la creazione di un “cyber force europea congiunta che costituirebbe una componente fondamentale della nostra difesa europea”. Obiettivo di questa Cyber force europea sarebbe assumere una posizione di leadership nelle operazioni di risposta informatica e nella superiorità delle informazioni, oltre ad essere “dotata di capacità offensive”. Una notazione, quest’ultima, fondamentale, dal momento che prevedrebbe a monte la possibilità per l’Unione di stabilire attivamente obiettivi di importanza strategica tale da poter essere attaccati da assetti europei. Questa evenienza porta però al centro del dibattito la questione della catena di comando, cioè, chi avrebbe l’autorità per decidere una operazione offensiva? “Se vogliamo seriamente migliorare la nostra sicurezza – ha tuttavia concluso Michel – questo è il campo in cui possiamo fare un salto di qualità”.
informapirata ⁂
in reply to Andrea Russo • • •dichiarazioni irresponsabili
@politica
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El Salvador
in reply to informapirata ⁂ • • •“The more we support Ukraine, the faster the war will end."
Sicuramente. 🤐☠️
informapirata ⁂
in reply to El Salvador • • •Irrersponsabili ("We should also be prepared for bad news”), fallaci (“The more we support the Ukraine, the faster the war will end.") e dannose (“We’re not able to work as closely together as we should”).
Questo ennesimo scarto del laburismo mercantilista europeo (è una via di mezzo tra Prodi e D'Alema) si dimostra un segretario generale NATO scadente (oltre che scaduto: ilpost.it/2023/07/05/jens-stol…)
Il mandato di Jens Stoltenberg come segretario generale della NATO è stato prorogato fino allottobre del 2024
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