Contenuti e schieramenti
Da una parte ci sono i partiti nazionali, presi in anticipo dalla frenesia del chi candidiamo e del come ci presentiamo alle elezioni europee di giugno. Accanto a loro ci sono le famiglie politiche europee, intente a contendersi gli alleati con cui formare la maggioranza nel futuro Parlamento. Da un’altra parte c’è Mario Draghi, che incontra gli imprenditori europei e discute con loro di come conciliare la transizione energetica con la competitività. Iniziativa che non ha preso per i fatti suoi, ma per l’incarico ricevuto dalla presidente della Commissione europea. Con una interessante postilla: il rapporto che preparerà sarà presentato al Parlamento europeo, dopo le elezioni.
Insomma, siamo di fronte a una sostanziale certificazione del divorzio fra schieramenti e contenuti, sicché i secondi vengono elaborati in una sede diversa da quella in cui i partiti cercano di definire i primi. Ma la logica, la coerenza e la moralità politica vorrebbero l’esatto opposto: prima i contenuti e poi gli schieramenti. Prima si stabilisce che cosa si vuole fare e come si vuole cambiare e poi si cerca di aggregare le forze per riuscirci. Il che vale a qualsiasi livello, laddove invece a tutti i livelli – dal Comune al Continente – lo scopo dei partiti sembra essere diventato quello di vincere, lavorando sulle suggestioni, talché si sente il bisogno di una sede diversa per lavorare alle idee, senza farsi troppo suggestionare.
In triste sintesi: il fallimento della politica.
La Ragione
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REPORTAGE. Afghanistan, una giornata nell’ospedale di Emergency
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di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 11 gennaio 2024 – Sono le 8.00 di mattina e S., l’infermiera capo turno, sta controllando sulla lavagna i numeri dei neonati ricoverati, prima dell’inizio di una nuova giornata. Otto in terapia intensiva, undici in quella sub-intensiva, quattro nell’isolamento per le malattie infettive, cinque in osservazione e cinque nella stanza di kangaroo mother care, dove i più piccoli crescono grazie al contatto pelle a pelle con le loro madri. Nella Neonatologia dell’ospedale di Emergency ad Anabah, nella valle del Panshir, trentatré su quarantaquattro posti letto sono occupati prima di iniziare il turno.
La maternità dell’ospedale nacque come una scommessa. Lo raccontava Gino Strada, il fondatore dell’ONG insieme alla moglie Teresa Sarti Strada, nel libro “Una persona alla volta” (Feltrinelli, 2022): “Ricordo le prime reazioni quando decidemmo di aprire un ospedale di maternità in Panshir, in una valle dove la mortalità materna e infantile era tra le più alte al mondo. (…) Le voci più preoccupate erano qui, in Europa: “Come potete pensare di aprire una maternità in Afghanistan? I mariti non permetteranno mai alle mogli di partorire in un ospedale gestito da occidentali. Vi aspetteranno con i kalashnikov ai cancelli, il Mullah vi maledirà”. (…) Oggi in quell’ospedale nascono venti bambini al giorno, le madri si sottopongono regolarmente ai controlli in attesa del parto, le ragazze studiano per diventare ostetriche e moglie e marito vengono normalmente a discutere di pianificazione familiare, affidandosi anche al consiglio di ostetriche e ginecologhe occidentali. Ho visto fallimenti peggiori”.
(Anabah, Emergency, credits Carlotta Marrucci)
Nato nel 1999 come ospedale per la chirurgia di guerra in una valle tra le montagne dell’Hindu Kush, a 200 km da Kabul, in una regione abitata da 250.000 persone, il centro nel 2003 fu predisposto per accogliere anche una maternità, che fornisse cure gratuite alle donne incinte e ai loro figli. L’altissimo tasso di natalità e l’affluenza di pazienti, resero necessario nel 2016 l’ampliamento del progetto, che adesso ospita quattro sale parto, due sale operatorie, una terapia intensiva per le donne che hanno avuto complicazioni durante il parto, un ambulatorio, un reparto di ginecologia, un’area per i follow-up, una per il travaglio, i reparti di neonatologia e l’ambulatorio neonatologico.
La mortalità materno-infantile in Afghanistan resta tra le più alte al mondo. Secondo una ricerca realizzata nel 2019 dalla UNFPA (United Nations Population Fund) in sei regioni afghane, il tasso di mortalità femminile in età riproduttiva supera del 50% quello maschile, circa una morte su due avviene al momento del parto. Secondo un altro studio nazionale, l’incidenza di mortalità materna sarebbe di una donna su 14. Non meno confortanti i numeri della mortalità infantile: circa un bambino su 18 non supera i 5 anni di età, con la maggior incidenza di esiti infausti nel periodo perinatale. Con i suoi 600 parti al mese, circa 5.000 ogni anno, l’ospedale di Emergency di Anabah cerca di sopperire con le sue cure gratuite a un bisogno abissale.
R. lavora come ostetrica da quattro anni. Sotto al velo si scorge una treccia di capelli neri che le avvolge il capo come una coroncina, un piercing rosa al naso è in pendant con l’uniforme lilla che indossano lei e le sue colleghe. Nella sala d’attesa degli ambulatori ginecologici, ci racconta dell’ultima IUFD, morte fetale intra-uterina, alla quale ha appena assistito. “La madre ha raccontato che non sentiva i movimenti del feto da almeno due giorni, ma il suocero, il suo capo-famiglia, si è rifiutato di accompagnarla in ospedale fino a oggi. Adesso, però, è troppo tardi”. I fattori culturali rappresentano, insieme a quelli socio-economici, i principali determinanti dell’aumentato rischio per le gravidanze in questo Paese.
Dare alla luce molti figli è un requisito spesso fondamentale per le donne per essere accettate dai mariti, dalle loro famiglie e dal tessuto sociale in cui vivono, ma ogni gravidanza rappresenta un pericolo ulteriore di complicazioni per le successive. Come per il suocero della sua paziente, l’ostetrica di guardia racconta che spesso per le famiglie far sottoporre le donne incinte agli screening di routine è facoltativo, spesso non necessario. “Quando arrivano qui, spesso hanno già le membrane rotte. Non hanno mai fatto una visita medica, hanno diverse gravidanze alle spalle, spesso alcune terminate con tagli cesarei, una pratica molto remunerativa negli ospedali privati nazionali. A volte non ci riferiscono di aver subito quei cesarei e il rischio di complicanze estreme durante il parto aumenta drammaticamente”.
Nella stanza dell’isolamento in neonatologia, l’unico suono che si sente ogni tanto è quello dei monitor, che si illuminano per segnalare una desaturazione o l’accelerazione improvvisa di una frequenza cardiaca. Attorno all’incubatore numero uno, i medici discutono del colore grigio-verde, così lo chiamano, del neonato. Nel suo sangue, gli antibiotici di terza linea trattengono a stento la forza replicativa del germe che continua a replicarsi da quando è nato. Le infezioni congenite sono un’altra conseguenza delle gravidanze non seguite. Spesso conducono a nascite premature, come quelle di B., nato nel mese di novembre a 27 settimane e 700 grammi di peso. Quando sua madre ci incontra, nelle corsie dell’ospedale, con il suo velo rosso e gli occhi nerissimi affilati come aghi, allarga le braccia per salutarci e sussurra ringraziamenti in farsi. Il suo piccolo continua a crescere, viene definito da tutti un piccolo miracolo.
(Anabah, Emergency, credits Carlotta Marrucci)
Lo scarso accesso alle cure è determinato anche dai costi e dalle distanze che le coppie devono coprire per raggiungere le strutture sanitarie. La scelta alla quale le donne si trovano di fronte se vogliono eseguire degli screening in gravidanza è tra le strutture private e quelle pubbliche. Negli ospedali privati, i costi delle prestazioni, dei medicinali, della degenza sono proibitivi per la maggioranza della popolazione afghana. La crisi economica in cui versa il Paese, d’altro canto, continua a svuotare la sanità pubblica di beni e servizi.
F. è l’infermiera della sala parto, ha almeno vent’anni di esperienza in quest’ospedale. Mentre avvolge un nuovo nato, il quindicesimo della giornata alle 17.00 del pomeriggio, in un telo asciutto e riscaldato, ci tiene a precisare che la sanità nazionale dovrebbe essere gratuita: “Spesso non ci sono le medicine, però, così i parenti devono andare a comprarle da fuori. Né le garze, né le siringhe. A volte mancano proprio i medici. Di notte, per esempio, nessuno resta di guardia. Al pomeriggio spesso si assentano per arrotondare facendo visite negli ambulatori privati. E quanti medici hanno già lasciato questo Paese, e quanti vogliono farlo”, sospira, aggiustandosi il velo. Secondo un rapporto pubblicato da Emergency e CRIDEMIM nel marzo 2023, un afghano su due non avrebbe accesso ai medicinali e oltre l’85% della popolazione avrebbe contratto dei debiti per potersi permettere le cure mediche.
La povertà continua a rappresentare in tutte le sue forme il più grave pericolo per la salute materno-infantile in Afghanistan. Secondo le Nazioni Unite, almeno 29 milioni di abitanti saranno dipendenti dagli aiuti umanitari nel 2024, la maggior parte di loro in condizioni di difficoltà “estrema”. A preoccupare le organizzazioni internazionali è la possibilità che dal prossimo anno la situazione in Afghanistan non sarà più considerata un’”emergenza”, con una conseguente contrazione dei finanziamenti per il terzo settore, nonostante il 4 dicembre scorso l’UNHCR, l’Agenzia Onu per i rifugiati, abbia definito quella nel Paese “un’emergenza per sempre”.
Alla fine della giornata, l’infermiera T. si lava le mani insaponandosi fino ai gomiti, poi è pronta per la notte, è lei la nuova capo turno. E’ orgogliosa del suo lavoro, nonostante avrebbe voluto continuare a studiare, per diventare un medico, ci dice. Come lei, sono tante le donne che hanno dovuto rinunciare agli studi, da quando, nel dicembre del 2022, il decreto del governo de facto ha vietato alle donne di frequentare l’università. Nella maternità, però, le infermiere, le ostetriche e le specializzande in ginecologia hanno ancora la possibilità di imparare e di diventare delle brave professioniste. T., per questo, sorride sempre, anche se a volte, racconta, “la situazione è davvero difficile”. E’ l’unica a portare uno stipendio a casa, nella sua famiglia numerosa, ma non è solo la sua situazione personale a preoccuparla. “Qui la gente ha fame, non ha niente. Io mi sento fortunata”. Come le sue colleghe, quando le si chiede come immagina il futuro, scrolla le spalle, dice che proprio non lo sa. Poi va verso la lavagnetta in corridoio, quella che tiene il conto dei neonati. Corregge il numero dei pazienti in terapia intensiva, ne aggiunge uno, ricoverato mezz’ora fa. Un altro nato prematuro da una gravidanza non seguita, una nuova incubatrice sulla quale vigilare con pazienza.
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USA e Gran Bretagna attaccano lo Yemen. Navi, sottomarini e aerei colpiscono la capitale e le città portuali l Pagine Esteri
"USA e Gran Bretagna hanno bombardato nella notte lo Yemen, colpendo obiettivi logistici e militari Houthi nella capitale Sanaa e in altre città, compresa Hodeidah, la più grande città portuale controllata dagli Houthi."
Nessun vanto, ma salvi
Dunque vantarsi è escluso. Ma il vanto è anche la conseguenza di un mondo competitivo, in cui devi sempre dimostrare di essere all’altezza, di essere migliore… Ci si vanta infine perché siamo riusciti a prevalere in qualche ambito.
Invece, il non aver niente per cui vantarci, ci toglie da questo schema competitivo con gli altri, con noi stessi e con il nostro Signore. Per la sua croce, Gesù proclama beati i miti, i poveri di spirito, coloro che cercano sì giustizia, ma non se la possono fare da soli, e ci dà speranza di resurrezione.
Non siamo più in competizione, dunque e riceviamo la grazia di Dio e viviamo liberi dalla paura di non farcela, di non essere in grado. In questo modo daremo il meglio di noi e saremo gli uni con gli altri fraterni.
pastore D'Archino - Nessun vanto, ma salvi
La comunità di Corinto a cui l’apostolo Paolo scrive è attratta da eloquenti predicatori e da teorie filosofiche, che quelli presentano come potenti e salvifiche. Paolo ribadisce invece che lui ha …pastore D'Archino
L'antifascismo da salotto del PD e la tolleranza all'olio di ricino dei liberali l L'Antidiplomatico
"L'indignazione del centro-sinistra, che per decenni ha lavorato con solerzia alla riabilitazione dei neofascisti e alla revisione storica della Resistenza, non può che apparire come un gioco delle parti, un'occasione per PD e Italia viva di simulare l'opposizione che non c'è al governo di Giorgia Meloni."
Ben(e)detto del 12 gennaio 2024
Cerimonia conclusiva Scuola di Liberalismo Messina 2023 – Servizio TV Gazzetta del Sud
Scuola di Liberalismo, cerimonia conclusiva – Gazzetta del Sud
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Ben(e)detto dell’11 gennaio 2024
“Digital euro”: Pirate amendments want to enable real digital cash
On Monday, the negotiating teams in the European Parliament’s LIBE Committee will discuss amendments for the first time. Pirate Party MEP Patrick Breyer, his group’s lead negotiator in the LIBE Committee, is requesting fundamental changes to the proposal:
“For the digital euro to be worthy of its name and have meaning and added value compared to credit cards and cryptocurrencies, digital cash must be as anonymous and free to use as notes and coins – not just when both parties are physically present. The introduction of digital cash is overdue in the current reality of life in the information age.
As there is no limit to the amount of cash we can hold and pass on, there should be no limit to the amount of digital euros in our hands. And just as cash can be used to make confidential payments and controversial donations anonymously and without fear of disclosure, trace-free payments in digital euros must not be made impossible or limited to an unknown and variable amount, as proposed by the EU Commission. The justification of wanting to combat money laundering and terrorism is just a pretext for gaining more and more control over our private transactions. Where every payment is recorded and stored forever, there is a threat of hacker attacks, unauthorised investigations and chilling government control over every payment.
Cash is financial freedom without the pressure to justify it. What medicines or sex toys I buy is nobody’s business. For thousands of years, societies around the world have lived with privacy-preserving cash. This financial freedom must also be guaranteed in the information age. We need to find ways to take the best features of cash into our digital future.”
Specifically, Breyer calls for decentralised offline payments directly between end devices to be permitted not only in physical presence (amendment 76) and for them not to be subject to any disadvantages compared to cash, such as limits (amendments 203-205, 207).
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La parabola di Chiang Wan-an, sindaco di Taipei
Una storia che riflette il rapporto dell'isola di Taiwan con l'ex presidente (e suo bisnonno) Chiang Kai-shek
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In Cina e Asia – Cina e Usa accelerano il dialogo prima delle elezioni a Taiwan
Cina e Usa accelerano il dialogo prima delle elezioni a Taiwan
Cina e Russia insieme contro la “politica conflittuale” dell'Occidente
Mar cinese meridionale, la ministra tedesca Baerbock: “Azioni rischiose che violano i diritti e lo sviluppo delle Filippine e preoccupano l’Europa”
Seul accusa la Corea del Nord di vendere nuovi missili alla Russia
Papua Nuova Guinea: distrutte proprietà cinesi, Pechino protesta
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I CASCHI VERDI PER L’AMBIENTE ITALIANI A DISPOSIZIONE DELLE NAZIONI UNITE
UN ARTICOLO SULL’EVOLUZIONE DEL RUOLO DELL’ONU NELLE OPERAZIONI DI PEACEBUILDING
L’ultimo numero della rivista edita dal CoESPU (Centro di eccellenza per le Unità di polizia di stabilità) ci fornisce l’occasione per tornare a parlare di ambiente e del ruolo in questo contesto delle operazioni di peacekeeping a guida Nazioni Unite.
copertina della Rivista CoESPU
Il Tenente Colonnello Donatello Cirillo, comandante del Gruppo Carabinieri Forestali di Catanzaro, indica che alla protezione dell’ambiente nelle operazioni di pace dell'ONU dovrebbe essere data la stessa importanza della tutela dei diritti umani.
Logo del CoESPU
Innanzitutto, che cos’è il CoESPU? Si tratta di un think tank a guida Carabinieri italiani, che lavora in collaborazione con la Global Peace Operations Initiative degli Stati Uniti, per aiutare a costruire capacità globale per le Nazioni Unite e le operazioni regionali di sostegno alla pace, addestrando le forze di mantenimento della pace. La sua sede è a Vicenza.
Peacekeeper ONU
Nel suo articolo, Il Colonnello Cirillo argomenta che la sicurezza è fondamentale per la stabilità di un Paese. Richiede quindi un approccio antropocentrico e multidimensionale, che includa la sicurezza economica, ambientale e personale, la stabilità sociale, la stabilità politica, la sicurezza alimentare e la garanzia della salute.
Il concetto di gestione ambientale postbellica si è evoluto negli anni ’70, con particolare attenzione ai danni ambientali causati dai conflitti.
Le Nazioni Unite hanno posto la protezione ambientale al centro del loro modello di sviluppo umano sin dagli anni ’70, con la creazione del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP).
La politica ambientale delle Nazioni Unite mira a preservare le risorse naturali dello Stato ospitante e a prevenire effetti negativi sul personale e sul conflitto stesso. Sottolinea inoltre la creazione di un ambiente protettivo per i civili per prevenire la violenza fisica, sostenere la legittimità dello Stato ospitante e stabilire lo stato di diritto e la catena della giustizia penale.
Peacekeeper ONU
Queste azioni dovrebbero diventare prioritarie una volta che il conflitto si sarà calmato e saranno presenti condizioni favorevoli: dovrebbero includere la riforma del settore della sicurezza, i sistemi amministrativi, i quadri giuridici, i diritti umani e la governance democratica. Anche il sostegno ai processi politici, inclusa la partecipazione delle donne, è fondamentale per la protezione a lungo termine dei civili.
L’obiettivo principale del rafforzamento delle capacità nelle operazioni multidimensionali è creare una pace sostenibile, concentrandosi sull’auto sostenibilità e sulla gestione delle risorse naturali. Il mandato del Consiglio di Sicurezza per la protezione civile copre tutte le azioni necessarie per prevenire le minacce alla pace, compresa la protezione degli ecosistemi. La scarsità, lo sfruttamento eccessivo, la cattiva gestione e l’iniqua ridistribuzione delle risorse naturali spesso causano tensioni e conflitti, portando a tentativi di pace più complessi e resistenti. I conflitti ambientali precipitati in violenza tendono a riemergere più facilmente e ad esacerbarsi più di altri. Il Sud del mondo è quello che registra il maggior numero di conflitti a causa della concentrazione delle risorse naturali e della debolezza delle istituzioni. Il cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce, che incide sull’acqua, sul cibo, sulla salute e sulla vita delle persone, colpendo in modo sproporzionato le popolazioni più povere e più esposte.
Peacekeeper ONU
Le attività di rafforzamento delle capacità ambientali richiedono personale altamente specializzato e la qualità del personale dispiegato è fondamentale per garantire la corretta esecuzione del mandato e il buon esito delle missioni sul terreno. Il Decreto Clima italiano del 2019 fornisce un modello per ampliare la componente ambientale in operazioni multidimensionali, attivando la task force “Caschi Verdi per l’Ambiente”, un gruppo di 22 esperti dell’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e di personale tratto dall’Arma dei carabinieri, per intervenire negli scenari nazionali e internazionali a tutela della biodiversità e risorse ambientali e forestali all’interno dei siti protetti.
Si può quindi affermare che le operazioni multidimensionali di costruzione della pace mirano principalmente a creare una pace sostenibile e a proteggere l’ambiente naturale. Tuttavia, queste operazioni sono tecnicamente complesse e richiedono una pianificazione a lungo termine, compresa la gestione sostenibile delle foreste e delle risorse naturali, la protezione dell’ecosistema e un’adeguata gestione dei rifiuti.
Avere cura dell'ambiente
La transizione e il consolidamento devono essere guidati dai principi di proprietà nazionale e di inclusività, compresa la riconversione delle attività economiche preesistenti. L’importanza e la portata degli interventi richiedono programmi con lunghi periodi di sviluppo ed effetti positivi visibili solo dopo pochi decenni.
Si rileva inoltre una tendenza generale al ribasso del personale impiegato a livello globale, con il contributo principale fornito dai paesi in via di sviluppo.
Il Fondo delle Nazioni Unite per il peacebuilding ha stanziato almeno 60 milioni di dollari per la cooperazione ambientale, e altre agenzie delle Nazioni Unite hanno iniziato a inviare esperti di sicurezza climatica nelle zone di conflitto vulnerabili dal punto di vista ambientale. L'approccio della comunità internazionale alla pace e alla sicurezza è cambiato radicalmente negli ultimi decenni, con l'aumento degli attori non statali e la necessità di personale più specializzato.
La concezione contemporanea dello scenario di sicurezza si è evoluta dalla prevenzione dei conflitti al mantenimento e al consolidamento della pace. Per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, dobbiamo agire con urgenza per ridurre le minacce dei conflitti armati all’ambiente, alla salute e ai mezzi di sussistenza. Va quindi in conclusione sottolineata l’importanza della protezione ambientale prima, durante e dopo i conflitti.
Per scaricare l'articolo originale (in inglese), clicca qui => tinylink.onl/3757
#ONU #Peacebuilding #Caschiverdiperlambiente #Ambiente #ISPRA #Armadeicarabinieri #DonatelloCirillo #UNEP #COESPU
USA e Gran Bretagna attaccano lo Yemen. Navi, sottomarini e aerei colpiscono la capitale e le città portuali
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Pagine Esteri, 12 gennaio 2023. USA e Gran Bretagna hanno bombardato nella notte lo Yemen, colpendo obiettivi logistici e militari Houthi nella capitale Sanaa e in altre città, compresa Hodeidah, la più grande città portuale controllata dagli Houthi.
Il viceministro degli Esteri Houthi ha dichiarato “Il nostro paese è stato sottoposto a un massiccio attacco aggressivo da parte di navi, sottomarini e aerei da guerra americani e britannici. Dovranno ora prepararsi a pagare un prezzo pesante e a sopportare tutte le terribili conseguenze di questa palese aggressione”.
L’attacco è stato supportato da Bahrain, Canada e Paesi Bassi. Il primo ministro inglese Rishi Sunak ha definito i bombardamenti del Regno Unito allo Yemen un “atto di autodifesa”.
Il presidente USA Joe Biden ha dichiarato che “sono un chiaro messaggio che gli Stati Uniti e i nostri partner non tollereranno attacchi al nostro personale o permetteranno agli attori ostili di mettere in pericolo la libertà di navigazione in una delle rotte commerciali più critiche del mondo. Non esiterò a indirizzare ulteriori misure per proteggere la nostra gente e il libero flusso del commercio internazionale, se necessario”.
Alcuni membri democratici del Congresso USA non hanno però accolto con favore la decisione del presidente Biden, sottolineando che secondo la Costituzione statunitense solo il Congresso può autorizzare il coinvolgimento militare nei conflitti all’estero.
Gli Houthi hanno attaccato ripetutamente le navi israeliane e quelle dirette verso Israele in risposta ai bombardamenti di Tel Aviv nella Striscia di Gaza che hanno causato più di 23.000 morti. I loro portavoce hanno più volte dichiarato che non vogliono mettere a rischio il commercio mondiale nel Mar Rosso ma che non intendono permettere il passaggio di navi israeliane o con carichi diretti a Tel Aviv.
La Russia ha chiesto una riunione urgente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per discutere degli attacchi allo Yemen.
Il portavoce di Ansrallah (Houthi), Mohammed AI-Bukhait, ha dichiarato: “Se non fosse stato per la follia di Bush nello spingere Ali Saleh ad attaccarci a Saada nel 2004, il popolo yemenita non avrebbe lanciato la rivoluzione del 2014 che ha posto fine al governo dell’ambasciatore americano a Sana’a e ne ha espulso i Marines.
Se non fosse stato per la follia di America e Gran Bretagna nello spingere l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti a dichiararci guerra nel 2015, lo Yemen non sarebbe stato in grado oggi di adempiere al proprio dovere religioso, morale e umanitario nel sostenere la Palestina.
Non c’è dubbio che l’America e la Gran Bretagna oggi rimpiangano le loro precedenti follie, e presto si renderanno conto che l’aggressione diretta contro lo Yemen è stata la più grande follia della o loro storia”. Pagine Esteri
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Le Maldive mollano l’India e rafforzano i legami con la Cina
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di Redazione
Pagine Esteri, 11 gennaio 2024 – La Cina e le Maldive hanno rafforzato in maniera sostanziale le loro relazioni, dopo il rapido peggioramento dei rapporti tra l’arcipelago e l’India, storica rivale regionale della Repubblica Popolare.
Mercoledì il neoeletto presidente maldiviano Mohamed Muizzu ha compiuto la sua prima visita a Pechino. Il presidente cinese Xi Jinping, parlando alla Grande Sala del Popolo, ha definito Muizzu “un vecchio amico” dopo aver posto le basi per ulteriori investimenti nell’arcipelago dell’Oceano Indiano con la firma di un “partenariato cooperativo strategico globale”. I due presidenti hanno assistito alla firma di venti accordi di cooperazione e Pechino si è detta disponibile a contribuire allo sviluppo delle scarse infrastrutture maldiviane. «Le relazioni tra Cina e Maldive si trovano di fronte a un’opportunità storica per avanzare verso il futuro» ha detto il leader cinese.
Muizzu è entrato in carica nel novembre scorso, dopo aver vinto una campagna incentrata soprattutto sullo slogan “India Out” (Fuori l’India) in cui definiva l’enorme influenza di Nuova Delhi una «minaccia per la sovranità» dello stato insulare. Dopo la vittoria di Muizzu, sostenuto dal Progressive Party of Maldives (PPM) e dal People’s National Congress (PNC) il governo di Malé ha chiesto ai 75 militari indiani di stanza alle Maldive di abbandonare il paese, tentando al tempo stesso di incrementare gli investimenti di aziende cinesi .
Rafforzando i legami con le Maldive, la Cina sta ponendo le basi per un aumento della propria egemonia economica e politica nell’area dopo aver già fatto lo stesso con lo Sri Lanka, anch’esso allontanatosi da Nuova Delhi. Tradizionalmente le Maldive, pur essendo un paese a maggioranza islamica, è rimasto nell’orbita politica, economica e militare della vicina India prima di un avvicinamento a Pechino iniziato nell’ultimo decennio e consolidatosi rapidamente. Stando ai dati della Banca Mondiale, la Cina è il primo creditore delle Maldive con 1,4 miliardi di dollari, seguita a grande distanza da Arabia Saudita (124 milioni) e India (123 milioni).
All’inizio della settimana India e Maldive hanno convocato i rispettivi rappresentanti diplomatici dopo che il governo di Malé ha sospeso tre viceministri responsabili di aver diffuso commenti caustici nei confronti del premier indiano Narendra Modi. I tre esponenti dell’esecutivo maldiviano non hanno preso bene la visita del leader della destra induista indiana nell’arcipelago di Lakshadweep (note in Italia come Isole Laccadive), al largo della costa indiana del Malabar, allo scopo di promuovere il turismo nell’area, definendo Modi un “pagliaccio”, un “terrorista” e un “burattino di Israele”.
Il progetto di promozione turistica delle Lakshadweep sembra destinato al lancio su vasta scala di una meta tropicale domestica alternativa proprio alle Maldive, visitate ogni anno da molti facoltosi villeggianti indiani. – Pagine Esteri
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Palestina, la pace attraverso il diritto. Hanno detto… a proposito del conflitto (7) l Pressenza
Understanding Body-Related Data Practices and Ensuring Legal Compliance in Immersive Technologies
Organizations are increasingly incorporating immersive technologies like extended reality (XR) and virtual worlds into their products and services, blurring the boundaries between the physical and digital worlds. Immersive technologies hold the potential to transform the way people learn, work, play, travel, and take care of their health, but may create new privacy risks as well. Many of these technologies rely on large amounts of data about individuals’ bodies, without which they would be less immersive, and in some cases couldn’t function at all.
Body-related data raises particular privacy risks, and leading organizations in the immersive technology space are adopting risk-based approaches for handling this type of data. Focusing on the risks—to the organization and to those impacted by the organization’s data practices—makes it easier not only to comply with the law but also to ensure more ethical data practices.
There are concrete steps organizations can take to ensure that body-related data is handled safely and responsibly. As part of their data protection strategies, organizations should:
- Understand their data practices: mapping these practices, specifying their purposes, and identifying all relevant stakeholders.
- Evaluate their legal obligations: analyzing existing legal obligations, as well as how they may change in the near future based on emerging trends.
- Identify risks to individuals, communities, and society: cataloging the features of their data and data practices that create greater risks.
- Implement best practices: operationalizing technical, organizational, and legal safeguards to prevent or mitigate the identified risks.
To guide organizations as they develop their body-related data practices, the Future of Privacy Forum created the Risk Framework for Body-Related Data in Immersive Technologies. This framework serves as a straightforward, practical guide for organizations to analyze the unique risks associated with body-related data, particularly in immersive environments, and to institute data practices that are capable of earning the public’s trust. Developed in consultation with privacy experts and grounded in the experiences of organizations working in the immersive technology space, the framework is also useful for organizations that handle body-related data in other contexts as well. This post will explore the first two stages of the risk framework: understanding an organization’s data practices, and evaluating legal obligations to ensure compliance.
I. Understanding how organizations handle personal data
The first step to handling body-related data is for organizations to understand how they handle personal data. Doing so will help them communicate these practices to their users, regulators, the general public, and other relevant stakeholders. Developing a comprehensive understanding of an organization’s data practices is also critical for identifying potential privacy risks and implementing best practices to mitigate them. Organizations should bring together experts from different teams to document how they collect, use, and onwardly transfer body-related data. The following steps help organizations conduct these processes effectively.
Create data maps of data practices, particularly in regard to body-related data
Data mapping is the process of creating an inventory of all the personal data an organization handles, including how it’s used, to whom it is transferred, and how long it is kept. While tools exist to assist organizations with data mapping, it is helpful to assign a designated person within an organization, such as a chief privacy officer or data protection officer, to be responsible for completing the data map. Data mapping also helps organizations in certain jurisdictions maintain compliance with legal obligations related to data practice documentation. Certain kinds of body-related data—such as data about people’s faces, hands, voices, and body movements—will be particularly relevant in immersive environments, and organizations operating in this space should pay special attention to them.
Document the purpose of each data practice
In order to determine which data practices are necessary, and which may be adjusted, organizations must be able to specify what goal or purpose each practice serves. Organizations might engage in a particular data practice for a variety of purposes: enabling relevant features or products, improving a product’s technical performance, facilitating targeted advertising, or customizing a user’s experience, to name a few. This documentation will help inform an organization’s evaluations of its privacy risks and legal obligations, and generate buy-in from business stakeholders within the organization by linking their interests to privacy compliance.
Identify all relevant stakeholders impacted by data practices
Evaluating an organization’s legal obligations and privacy risks requires key organizational leaders to understand which stakeholders are implicated—both as partners in data transfer agreements and as people impacted by the organization’s data practices. Organizations must understand the kinds of entities with whom they are transferring data, and who specifically within these third parties are handling the data. They should also understand who is impacted by their data practices, including data subjects or users as well as bystanders whose data may also be implicated. Special attention should be paid to individuals and communities whose data may raise additional legal or ethical considerations, such as children and teens, and people from historically marginalized or vulnerable communities.
II. Analyzing relevant legal frameworks and ensuring compliance
Once an organization has established a thorough understanding of its data practices, the next step in preparing to handle body-related data is to evaluate whether the enumerated data practices are in compliance with the law. Collecting, using, or transferring body-related data may implicate a number of issues under current U.S. privacy law. However, most existing regulations were not drafted with immersive technologies in mind. It can therefore sometimes be unclear how these rules apply to immersive technologies, and an organization’s obligations will depend on where it operates, what kind of data it handles and why, and the size and nature of the organization, among other factors.
To understand and comply with all existing obligations, organizations need to know the scope of data types covered by current laws, the requirements and rights that attach to them, and the unique considerations that may apply in immersive spaces and in regard to body-related data. Existing privacy laws in the U.S. apply, depending on jurisdiction, to body-related data involving personal, biometric, sensitive, health, and publicly available data, and organizations should pay special attention to the specific requirements under such laws.
Organizations dealing with these data types have certain legal obligations, including:
- Granting users access, correction, and deletion rights
- Providing opportunities to provide consent
- Avoiding “dark patterns” and manipulative or deceptive design
- Being transparent and providing notice to users
- Minimizing data collection and retention when necessary
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2023 proved to be a significant year for state privacy laws, and new legislation and regulations will continue to impact the data privacy legal landscape. Organizations should keep an eye on the major areas for emerging legislation such as youth privacy and safety, as well as consumer health data. They should also monitor how emerging litigation impacts current requirements through interpreting current legislative language.
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In Cina e in Asia – Dialogo aperto sul gasdotto Balticconnector danneggiato da un mercantile cinese
I titoli di oggi: Dialogo aperto sul gasdotto Balticconnector danneggiato da un mercantile cinese La corruzione colpisce anche il calcio Le aziende cinesi usano le schede grafiche dei videogames Nvidia per l’Ai Le Maldive a caccia di turisti cinesi Dialogo aperto sul gasdotto Balticconnector danneggiato da un mercantile cinese Dialogo costruttivo. È questo il risultato della videochiamata tra il presidente ...
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Dialoghi. La battaglia legale tra Temu e Shein
A dicembre la piattaforma di shopping online Temu ha fatto causa al brand di fast fashion Shein per “intimidazioni di stampo mafioso”, riaprendo una battaglia legale dopo neanche due mesi di tregua
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GAZA. Israele sul banco degli imputati alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia
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DI CRAIG MOKHIBER – PHYLLIS BENNIS – COUNTERPUNCH
(Pagine Esteri pubblica i punti principali dell’articolo)
Il 1948 fu un anno di tragica ironia. Quell’anno vide l’adozione sia della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che della Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, che insieme promettevano un mondo in cui i diritti umani sarebbero stati protetti dallo stato di diritto. Nello stesso anno, il Sudafrica adottò l’apartheid e le forze israeliane attuarono la Nakba, la violenta espropriazione di massa di centinaia di migliaia di palestinesi. Entrambi i sistemi facevano affidamento sul sostegno coloniale occidentale…
…Gli orrori della Nakba originaria si sono scontrati con decenni di assoluta impunità per Israele, alimentando ulteriore violenza. Ma questa volta, a tre decenni dal rovesciamento dell’apartheid in Sud Africa, la “Nazione Arcobaleno” post-apartheid sta prendendo l’iniziativa di sfidare l’assalto genocida di Israele. Il 29 dicembre, il Sud Africa è diventato il primo paese a presentare un ricorso all’alto braccio giudiziario delle Nazioni Unite, la Corte internazionale di giustizia, avviando un procedimento di genocidio contro Israele per “atti minacciati, adottati, condonati, commessi e perpetrati dal governo, dai militari dello Stato di Israele contro il popolo palestinese”.
Con dettagli strazianti e terrificanti, il documento di 84 pagine del Sud Africa descrive una litania di azioni israeliane come “di carattere genocida, poiché sono commesse con l’intento specifico richiesto… di distruggere i palestinesi a Gaza come parte del più ampio sistema nazionale, razziale, sociale palestinese. e gruppo etnico”.
Un terribile bilancio per i civili a Gaza e in Cisgiordania
Il 2023 è stato l’anno più sanguinoso nei territori palestinesi dalla distruzione della Palestina storica e dalla fondazione dello Stato di Israele.
Nella prima metà dell’anno, gli attacchi israeliani contro i palestinesi in Cisgiordania avevano già raggiunto il culmine, con ondate successive di arresti di massa, pogrom di coloni e attacchi militari contro città e campi profughi palestinesi, compresa la pulizia etnica di interi villaggi. Allo stesso tempo, milioni di civili a Gaza già soffrivano difficoltà insopportabili sotto un assedio imposto da Israele durato 17 anni.
Il 7 ottobre, i militanti con sede a Gaza hanno lanciato un attacco devastante contro obiettivi militari e civili israeliani e hanno sequestrato più di 200 militari e ostaggi civili. Con uno spaventoso atto di punizione collettiva di massa, Israele ha immediatamente tagliato tutto il cibo, l’acqua, le medicine, il carburante e l’elettricità ai 2,3 milioni di civili palestinesi intrappolati a Gaza. Poi è iniziata un’incessante campagna di annientamento attraverso massicci bombardamenti e attacchi missilistici, seguita da un’invasione a livello del suolo che ha portato resoconti scioccanti di massacri, esecuzioni extragiudiziali, torture, percosse e detenzioni di civili di massa.
Da allora sono stati uccisi a Gaza più di 22.000 civili , in stragrande maggioranza bambini e donne, insieme a un numero record di giornalisti e operatori umanitari delle Nazioni Unite rispetto a qualsiasi altra situazione di conflitto. Altre migliaia sono ancora intrappolate sotto le macerie, morte o morenti per ferite non curate, e ora altre muoiono per malattie dilaganti causate dalla negazione da parte di Israele di acqua pulita e assistenza medica, anche se l’assalto militare israeliano continua. L’85% di tutti gli abitanti di Gaza sono stati costretti a lasciare le proprie case. E ora la fame imposta da Israele sta prendendo piede .
Lo standard legale per il genocidio
Gli analisti del genocidio, gli avvocati, gli attivisti e gli specialisti dei diritti umani di tutto il mondo – non estranei alla crudeltà umana – sono rimasti scioccati sia dalla brutalità degli atti di Israele sia dalle sfacciate dichiarazioni pubbliche di intenti genocidari da parte dei leader israeliani. Centinaia di questi esperti hanno lanciato l’allarme genocidio a Gaza, sottolineando l’allineamento punto per punto tra le azioni di Israele e le intenzioni dichiarate dei suoi funzionari da un lato, e i divieti enumerati nella Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite dall’altro.
La richiesta sudafricana “condanna inequivocabilmente tutte le violazioni del diritto internazionale da parte di tutte le parti, compresi gli attacchi diretti contro civili israeliani e altri cittadini e la presa di ostaggi da parte di Hamas e altri gruppi armati palestinesi”. Ma ricorda alla Corte: “Nessun attacco armato sul territorio di uno Stato, non importa quanto grave – nemmeno un attacco che comporti crimini atroci – può, tuttavia, fornire alcuna possibile giustificazione o difesa per violazioni della [Convenzione sul genocidio] sia come una questione di diritto o di moralità”.
A differenza di molti aspetti del diritto internazionale, la definizione di genocidio è piuttosto semplice. Per qualificarsi come genocidio o tentato genocidio, sono necessarie due cose. In primo luogo, l’intento specifico dell’autore del reato di distruggere tutto o parte di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso identificato. In secondo luogo, la commissione di almeno uno dei cinque atti specificati volti a realizzare ciò.
La petizione del Sud Africa all’ICJ è piena di esempi chiari e terribilmente convincenti, che identificano le azioni israeliane che corrispondono ad almeno tre dei cinque atti che costituiscono genocidio quando collegati a intenti specifici. Queste includono l’uccisione di membri del gruppo, la causa di gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo e, forse più indicativo di uno scopo genocida, la creazione di “condizioni di vita calcolate per provocare la loro distruzione fisica”. Come documenta il Sudafrica, Israele ha mostrato al mondo, a livelli senza precedenti nel 21 ° secolo , quali sono queste condizioni.
Il Sudafrica fa riferimento a dozzine di dichiarazioni rilasciate da leader israeliani, tra cui il presidente, il primo ministro e altri funzionari di gabinetto, nonché membri della Knesset, comandanti militari e altro ancora.
Abituati a decenni di impunità sostenuta dagli Stati Uniti, i funzionari israeliani sono stati incoraggiati, descrivendo apertamente la loro intenzione di realizzare “un’altra Nakba”, di spazzare via tutta Gaza, di negare qualsiasi distinzione tra civili e combattenti, di radere al suolo Gaza, ridurlo in macerie e seppellire vivi i palestinesi, tra molte altre dichiarazioni simili.
Il loro linguaggio deliberatamente disumanizzante include descrizioni dei palestinesi come animali, sub-umani, nazisti, cancro, insetti, parassiti – tutto linguaggio progettato per giustificare l’eliminazione totale o parziale del gruppo. Il primo ministro Netanyahu è arrivato al punto di invocare un versetto biblico sull’Amalek, ordinando che “l’intera popolazione sia sterminata, che nessuno venga risparmiato, uomini, donne, bambini, lattanti e bestiame”.
Anche gli Stati Uniti potrebbero essere complici del genocidio di Israele
La petizione all’ICJ è fortemente incentrata sulle violazioni da parte di Israele della Convenzione sul genocidio. Non si occupa della complicità di altri governi, e soprattutto del ruolo degli Stati Uniti nel finanziare, armare e proteggere Israele mentre porta avanti i suoi atti genocidi.
Ma il ruolo attivo degli Stati Uniti nell’assalto israeliano, anche se non sorprende, è stato particolarmente scioccante. In quanto Stato parte della Convenzione sul genocidio, gli Stati Uniti sono obbligati ad agire per prevenire o fermare il genocidio. Invece, abbiamo visto gli Stati Uniti non solo venire meno ai propri obblighi di prevenzione, ma invece fornire attivamente sostegno economico, militare, di intelligence e diplomatico a Israele mentre era impegnato nelle sue atrocità di massa a Gaza.
In quanto tale, questo non è semplicemente un caso di inazione degli Stati Uniti di fronte al genocidio (di per sé una violazione dei suoi obblighi legali), ma anche un caso di complicità diretta – che è un crimine distinto ai sensi della Convenzione sul genocidio. Il Centro per i Diritti Costituzionali , a nome delle organizzazioni palestinesi per i diritti umani e dei singoli palestinesi e palestinesi-americani, ha intentato una causa presso la corte federale statunitense in California incentrata sulla complicità degli Stati Uniti negli atti di genocidio di Israele.
La denuncia del genocidio del Sudafrica è un grido di battaglia per la società civile.
In una situazione come questa, incorniciata dalla scioccante complicità occidentale da un lato e da un massiccio fallimento delle istituzioni internazionali alimentato dalla pressione degli Stati Uniti dall’altro, l’iniziativa del Sud Africa presso l’ICJ potrebbe avere un significato che va oltre la decisione finale della Corte.
Questo caso si inserisce nel contesto di una mobilitazione straordinaria di proteste, petizioni, sit-in, occupazioni, disobbedienza civile, boicottaggi e molto altro ancora da parte di difensori dei diritti umani, attivisti ebrei, organizzazioni religiose, sindacati e organizzazioni ad ampio spettro. movimenti negli Stati Uniti e nel mondo.
In quanto tale, questa mossa pone il Sudafrica, e potenzialmente la stessa Corte Internazionale di Giustizia, dalla parte della mobilitazione globale per il cessate il fuoco, per i diritti umani e per la responsabilità. Uno dei valori più importanti di questa petizione della Corte internazionale di giustizia potrebbe quindi essere il suo utilizzo come strumento per intensificare le mobilitazioni della società civile globale che chiedono ai loro governi di rispettare gli obblighi imposti a tutte le parti della Convenzione sul genocidio.
Com’era prevedibile, Israele ha già respinto la legittimità del caso davanti alla Corte. Fiducioso che gli Stati Uniti e i loro alleati non permetteranno che Israele venga ritenuto responsabile, il governo israeliano continua con aria di sfida il suo sanguinoso assalto a Gaza (così come alla Cisgiordania). Se Israele e i suoi collaboratori occidentali riusciranno ancora una volta a bloccare la giustizia, la prima vittima sarà il popolo palestinese. Allora la credibilità del diritto internazionale stesso potrebbe andare perduta come danno collaterale.
Ma l’azione della Corte Internazionale di Giustizia del Sud Africa ha aperto una crepa in un muro di impunità vecchio di 75 anni attraverso il quale una luce di speranza ha cominciato a risplendere. Se le proteste globali riuscissero a cogliere l’attimo per trasformare quella crepa in un portale più ampio verso la giustizia, potremmo vedere l’inizio di una reale responsabilità per i colpevoli, di un risarcimento per le vittime e di un’attenzione alle cause profonde della violenza a lungo trascurate: colonialismo di coloni, occupazione, disuguaglianza e apartheid.
Craig Mokhiber è un avvocato internazionale per i diritti umani ed ex direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, che si è dimesso dal suo incarico nel 2023 e ha scritto una lettera ormai virale sul genocidio in corso e sui fallimenti delle Nazioni Unite. Phyllis Bennis è membro dell’Institute for Policy Studies e funge da consulente internazionale per Jewish Voice for Peace.
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Ecuador. Quando la criminalità è gobalizzata. Il ruolo delle mafie balcaniche nel caos del Paese
L’Ecuador sta attraversando un periodo di instabilità e caos.
Questa instabilità deriva in parte dalle attività di gruppi criminali dei Balcani occidentali che sono diventati grandi attori nel contrabbando di cocaina dall'Ecuador all'Europa occidentale.
Quando la criminalità è globalizzata.
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Tre indizi provano la natura moralista e manettara della sinistra
C’è un filo, ed è un filo rosso, che accomuna le reazioni delle sinistre alle tre notizie che in questi giorni si sono guadagnate le aperture di giornali e telegiornali. La chiave di lettura all’emendamento Costa che vieta la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, ai saluti romani di Acca Larentia e all’abrogazione dell’abuso d’ufficio è chiaramente moralistica e lo sbocco politico che ne discende è oggettivamente giustizialista. Panpenalistico, o, per dirla in volgare, manettaro.
A differenza di quanto sostenuto dal PD e dal Movimento 5 Stelle, l’emendamento Costa non rappresenta affatto un “bavaglio” alla libera informazione. Non vieta la pubblicazione delle notizie di reato, vieta solo la pubblicazione integrale o per stralci delle ordinanze di custodia cautelare scritte dai pm. Un modo per provare, almeno provare, a garantire il principio della parità tra accusa e difesa su cui si fonda lo Stato di diritto. La levata di scudi delle sinistre dimostra che tale principio è oggettivamente estraneo alla loro cultura.
Più che comprensibile l’orrore provato da molti per i saluti romani di Acca Larentia, ma si tratta della libera manifestazione del pensiero tutelata dall’articolo 21 della Costituzione. Principio che più d’una sentenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione ha sancito proprio in materia di saluti romani. Per la nostra Costituzione, che vieta la ricostituzione del Partito fascista, ma anche per la legge Scelba del ‘52 e per la legge Mancino del ‘93 salutare romanamente ad una commemorazione funebre non costituisce reato. Le sinistre, invece, invocano le manette.
Quanto all’abuso d’ufficio, divenuto reato per volontà di Mussolini, è una fattispecie talmente generica e fumosa da rappresentare una pistola carica nelle mani di un qualsiasi pubblico ministero. Una pistola che, per quanto caricata a salve, scoraggia gli amministratori pubblici dall’assumere qualsivoglia iniziativa. Non lo sostiene solo il governo, lo sostengono quasi tutti i sindaci in carica, anche e soprattutto quelli del Partito democratico. I dati confermano il giudizio: nel 2021 ci sono stati 5418 indagati per abuso d’ufficio, le condanne sono state solo 27. Eppure, l’abrogazione del reato non viene letta come una garanzia dei diritti individuali e/o della funzionalità delle pubbliche amministrazioni, ma come un lasciapassare per corrotti e delinquenti.
Si grida allo scandalo, si evoca il fascismo, si prospetta l’impunità, si invocano sanzioni penali esemplari. Il moralismo come ripiego della morale perduta, il panpenalismo come succedaneo della violenza politica.
L'articolo Tre indizi provano la natura moralista e manettara della sinistra proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Usa e Cina riprendono i colloqui di militari. Ecco perché è una buona notizia
I funzionari militari americani e cinesi si sono incontrati questa settimana a Washington per discutere insieme delle principali questioni di politica militare e di difesa che legano le due superpotenze, riprendendo un appuntamento annuale cancellato da Pechino nel 2022. I Defense policy coordination talks (Dpct) si tenevano di solito a rotazione tra Washington e Pechino, ma le tensioni tra le due potenze avevano portato la Repubblica popolare a cancellare l’incontro dello scorso anno, parte di un generale congelamento di tutte le comunicazioni militari con le loro controparti americane. La ripresa odierna del dialogo rappresenta dunque un passo importante per la ripresa complessiva delle comunicazioni con Pechino. Il team statunitense è stato guidato dal vice segretario alla Difesa per Cina, Taiwan e Mongolia Michael Chase, mentre la delegazione cinese era guidata dal generale Song Yanchao, vice direttore dell’Ufficio per la cooperazione militare internazionale della Commissione militare centrale, l’istituzione gemella del Partito e dell’Assemblea nazionale del popolo responsabile della direzione militare della Cina.
L’incontro a Washington
Secondo quanto riportato dal Pentagono, “le due parti hanno discusso delle relazioni tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese in materia di difesa”. In particolare il vice segretario Chase “ha sottolineato l’importanza di mantenere aperte le linee di comunicazione militari per evitare che la competizione sfoci in conflitto”. Secondo la fonte Usa, il funzionario del Pentagono avrebbe anche “discusso dell’importanza della sicurezza operativa nella regione indo-pacifica” ribadendo “che gli Stati Uniti continueranno a volare, navigare e operare in modo sicuro e responsabile ovunque il diritto internazionale lo consenta” e sottolineando come “l’impegno degli Stati Uniti nei confronti dei nostri alleati nell’indo-pacifico e a livello globale rimane saldo”. Non sono mancanti punti in agenda delicati, con la parte statunitense che ha protestato contro “ripetute molestie della Repubblica Popolare Cinese” nei confronti delle navi filippine nel mar Cinese meridionale, ribadendo come gli Usa “rimangono impegnati nella politica di una sola Cina”.
I pregressi
Ad interrompere i rapporti tra le due superpotenze era stato il caso della visita di Nancy Pelosi a Taipei, ma Pechino aveva rinfacciato a Washington anche altri dossier delicati, come la vendita di armi statunitensi a Taiwan, le tensioni nel Mar Cinese Meridionale e l’abbattimento di un pallone spia cinese da parte degli Stati Uniti al largo della costa orientale a febbraio. Il dialogo military-to-military era stato il segmento che aveva risentito di più del gelo diplomatico. Dopo il summit in California a novembre, dove il presidente Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping sembravano orientati verso un miglioramento delle relazioni tra le due potenze, è stata annunciata l’intenzione di riprendere i rapporti militari di alto livello — dopo che vari incontri diplomatici erano ripresi nei mesi precedenti. A dicembre, poi, si erano incontrati i capi di Stato della Difesa di Usa e Cina, rispettivamente CQ Brown e Liu Zhenli, un segnale interpretato come un fondamentale passo avanti per rafforzare le relazioni tra Washington e Pechino.
Le tensioni nel Pacifico
I funzionari della difesa Usa hanno più volte ribadito l’importanza di mantenere aperte le comunicazioni, non solo per evitare la possibilità che piccoli incidenti, come incontri di navi o aerei in zone contese dei mari cinesi, possano scatenare una spirale fuori controllo verso l’escalation, ma anche alla luce delle ambizioni, espresse dalla Cina e dal presidente Xi Jinping, di voler riunificare l’isola di Taiwan – considerata da Pechino una provincia ribelle – al resto del Paese. Le dichiarazioni del presidente Usa Joe Biden che hanno chiarito come, in caso di invasione, gli Stati Uniti siano pronti a difendere Taipei, oltre che un messaggio per Pechino sono state un segnale anche per il Dipartimento della Difesa a stelle e strisce, che è impegnato da tempo nel potenziamento e modernizzazione delle Forze armate Usa in ottica di mantenere il vantaggio sulla minaccia rappresentata dall’Esercito popolare di liberazione. Tuttavia, il Pentagono ha anche voluto minimizzare i recenti commenti di Xi sulle rivendicazioni cinesi su Taiwan, sottolineando che il conflitto non è né imminente, né inevitabile. Per Washington, il punto fondamentale resta quello di continuare a lavorare per mantenere aperte le linee di comunicazione con Pechino, sono importanti per evitare che la competizione sfoci in un conflitto.
Foto: Dipartimento della Difesa Usa
Senza difesa non può esserci pace. Il punto di Crosetto sugli aiuti militari a Kyiv
Il sostegno all’Ucraina deve continuare finché non cesseranno gli attacchi russi, e l’Italia intende proseguire con convinzione nel sostegno a Kyiv anche tramite l’invio di sistemi d’arma per la sua difesa: “Non esiste pace giusta se un popolo aggredito non ha la possibilità di difendersi”. Questo il cuore dell’intervento tenuto dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso delle comunicazioni alla Camera dei deputati in materia di proroga dell’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina, durante il quale il ministro ha fatto il punto sui quasi due anni di guerra, spiegando la necessità e le motivazioni che rendono necessario prorogare gli aiuti, militari e civili, fino al 31 dicembre 2024, come previsto dal decreto.
Gli aiuti
“La strada da percorrere è ancora lunga ma sarebbe un errore strategico e politico drammatico fare un passo indietro”, ha ribadito Crosetto, per il quale è necessario continuare “con convinzione” a sostenere l’Ucraina a fronte dell’aggressione russa, nonostante le difficoltà che questa decisione potrebbe creare. Come spiegato dall’inquilino di palazzo Baracchini, “dopo sette pacchetti di aiuti militari già formalizzati”, il governo ha dato il via libera a una ottava tranche di forniture a Kyiv. Nel corso della sua disamina, il ministro ha confermato che anche questo ottavo pacchetto “è costituito da sistemi d’arma volti a rafforzare solo le capacità difensive delle forze armate ucraine”. “Allo stato attuale – ha ulteriormente dettagliato Crosetto – pensiamo di fornire [all’Ucraina] sistemi d’arma già in nostro possesso, in linea con l’attuale quadro normativo”. Il ministro ha anche annunciato che, tra le varie azioni portate avanti dall’Italia, c’è anche la manifestazione di interesse a partecipare al progetto per lo sminamento del territorio ucraino promosso dalla Lituania della Demining coailition. “L’Intelligence ucraina stima in oltre otto milioni le mine impiegate dai russi a protezione delle loro posizioni” ha spiegato Crosetto, sottolineando come le difficoltà ucraine sul campo siano anche “da imputare alla presenza di vasti campi minati”.
La situazione strategica
Come sottolineato ancora da Crosetto, “il nostro sostegno deve continuare finché non cesseranno gli attacchi russi”. Analizzando il contesto del conflitto, infatti, il ministro ha ribadito come ci sia “una nazione che ogni giorno, ogni mattina, ogni pomeriggio, ogni sera è attaccata e si deve difendere da centinaia di bombe che cadono su obiettivi civili e militari, da quasi due anni”, una situazione che ha portato al peggioramento delle condizioni di sicurezza non solo in Europa, ma anche nel globale. “Nella guerra tra Russia e Ucraina – ha detto ancora Crosetto – esiste un aggredito e un aggressore, esiste una nazione che ogni giorno bombarda obiettivi militari e civili di un’altra nazione” aggiungendo come “in questi due anni i pacchetti di aiuti militari hanno permesso di salvare decine di migliaia di vite ucraine”.
Il percorso diplomatico
Parlando delle possibilità di un percorso diplomatico verso la pace, il ministro ha voluto sottolineare come solo “quando passeranno ventiquattrore” senza attacchi e bombardamenti russi su “asili, ospedali” e altri obiettivi civili e militari, allora si potrà parlare di pace, ma “in attesa che questo accada dobbiamo impedire a quelle bombe di cadere”. Di fronte a questo scenario, “se il consesso delle nazioni decide di girarsi dall’altra parte”, allora “perderemo spazi di libertà, di democrazia e sicurezza”. “La Russia non sembra dare segni di cedimento – ha detto il ministro – e siamo consapevoli che la strada è ancora lunga e la situazione difficile ma sarebbe un errore drammatico fare un passo indietro adesso”.
L’approccio italiano verso la pace
Per questo, però l’Italia intende portare avanti “un approccio diverso”, diventando “una delle prime nazioni come quantità e qualità di aiuti” ma anche uno dei primi Paesi che ribadisce la possibilità di costruire “una strada diplomatica” per arrivare alla fine del conflitto. Per Crosetto, infatti, potrebbe essere giunto il momento “per un’incisiva azione diplomatica che affianchi gli aiuti che stiamo portando avanti perché si rilevano una serie di segnali importanti che giungono da entrambe le parti in causa” con “le dichiarazioni di diversi interlocutori russi evidenziano una lenta e progressiva maturazione di una disponibilità al dialogo per porre fine alla guerra”. Per il ministro, “il supporto della Difesa italiana, al pari di quelle di tutti gli altri paesi europei, dovrà essere da traino e sprone per l’Unione europea per creare le condizioni per avviare interlocuzioni con Mosca nella piena consapevolezza che quello in Ucraina è un conflitto sul territorio europeo”. “Ogni giorno questa guerra ci ricorda che abbiamo il dovere di difendere la libertà delle nazioni e il diritto internazionale. Ogni possibile trattativa di pace non può che partire da qui”.
È possibile pubblicare post su Lemmy dal tuo blog WordPress?
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Mastodon Tips: how to use Friendica groups/forums and Lemmy communities
NB: this post is the automatic translation of this post which is, in turn, the simplified version of another, much more detailed post published a few weeks ago. We recommend that anyone who has time or curiosity read it anyway, also in order to learn interesting details about the Fediverse in general. In both cases these are “users” of the fediverse and which…
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Dallo skimming fisico a quello digitale: occhio alla truffa delle carte di pagamento
Skimming digitale = rubare i dati della carta di credito o della carta di pagamento ai clienti di un negozio online. Evoluzione dello skimming “fisico” sugli sportelli bancomat.
#Europol e #CSIRT nazionali scoprono la compromissione di dati di clienti su 443 commercianti online.
Una guida su come proteggersi.
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In Cina e Asia – Alto funzionario del Pcc negli Usa, mentre prosegue il dialogo militare
I titoli di oggi Alto funzionario del Pcc negli Usa, mentre prosegue il dialogo militare Bhutan, secondo mandato in vista per il premier Tobgay Great Firewall, rintracciati utenti che avrebbero diffuso “contenuti inappropriati” Economia, Cina ancora fonte di profitto per le multinazionali mentre le industrie offrono incentivi per trattenere i cittadini a Capodanno Cina, in ripresa il turismo in entrata, ...
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Il Marocco chiede la presidenza del Consiglio dei Diritti Umani. Proteste nei territori occupati del Sahara Occidentale
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di Alessandra Mincone
Pagine Esteri, 10 gennaio 2024. Nel mese di Gennaio 2024 si svolgeranno le elezioni delle Nazioni Unite per la Presidenza del Consiglio dei diritti umani. La candidatura del Marocco ha sollevato polemiche, soprattutto da parte di Oubi Bouchraya Bachir, rappresentante in Svizzera e per le Nazioni Unite del Fronte Polisario, l’organizzazione di liberazione popolare dei territori del Sahara Occidentale. Bachir ha riportato all’attenzione i crimini che l’esercito marocchino perpetra dal ’75, vale a dire l’occupazione e l’amministrazione illegale di una parte dei territori saharawi, e le detenzioni arbitrarie cui fanno seguito torture e sparizioni forzate contro attivisti, giornalisti e in generale dissidenti. Facendo presente che anche all’interno dei confini marocchini il governo reprime la libertà di espressione, discrimina le donne e le minoranze, Bachir ha poi concluso evidenziando che il Marocco impedisce alle stesse missioni delle Nazioni Unite di accedere alle aree occupate, negando di fatto il monitoraggio sulla situazione dei diritti umani, per cui l’elezione del Marocco rappresenterebbe “un’ulteriore prova della disfunzione strutturale delle istituzioni internazionali”. Infine Bachir ha ricordato che il Marocco è l’unico paese che non ha ratificato la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli.
In merito alla candidatura ad una carica così significativa, non sono mancati i tentativi di protesta nei territori occupati del Sahara, nella città di El Aaiún, dove è stato dispiegato un quantitativo ingente di militari, soprattutto nel quartiere di Maatala (considerato il concentramento della manifestazione), per impedire fisicamente agli abitanti saharawi di uscire di casa per l’occasione. Alcuni video fatti circolare sui canali di informazione saharawi testimoniano che le forze dell’ordine marocchine hanno aggredito i manifestanti e preso di mira Khadijatou Doeih, vice-presidente del Collettivo dei difensori dei diritti umani saharawi (CODESA) e dei suoi colleghi.
Agli inizi di Ottobre 2023, mentre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconfermava la carica di membro al Consiglio dei diritti umani al Marocco per altri tre anni, il CODESA si univa al grido di giustizia del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria (WGAD) che dichiarava illegale la prigionia di un gruppo di attivisti saharawi arrestati nel novembre 2010. Noti come i prigionieri di Gdeim Izik, gli attivisti furono portati in carcere a seguito dell’operazione di sgombero dell’accampamento di Gdeim Izik, a sud della città di El Aaiún. Più di una ventina di attivisti e difensori dei diritti umani si erano stanziati in quel campo in segno di protesta pacifica per denunciare la discriminazione sociale, l’occupazione marocchina e per difendere il diritto all’auto determinazione della popolazione saharawi. Hassana Aalia era uno degli attivisti che prese parte alle mobilitazioni: “L’accampamento della dignità è stata un’azione nonviolenta, pacifica che ha riunito tra i 20 e i 30mila saharawi di tutte le età. Lasciammo le nostre città, le nostre case, per andare nel deserto con le nostre tende e rimanervi fino a ottenere il diritto di vivere liberamente nei nostri territori. Montammo più di 8mila tende, mandammo al Marocco un messaggio chiaro: siamo un popolo ben organizzato. Fu incredibile vedere i tanti volti felici dei saharawi, perché era la prima volta che vivevamo insieme, uniti, in libertà. Per 28 giorni non vedemmo coloni. Eravamo liberi dai nostri oppressori.”
Alla violenza dell’esercito per mettere fine alla manifestazione, seguirono violente proteste prima interne al campo e poi estese a tutta la città, con un bilancio di undici guardie marocchine e due civili saharawi rimasti uccisi. “La repressione fu inaspettata e brutale. Bruciarono, spararono, da veicoli e da elicotteri. Già il 24 ottobre assassinarono un ragazzino di 14 anni mentre cercava di entrare nell’accampamento (…) Quel risveglio all’alba dell’8 di novembre fu uno shock. Famiglie che non respiravano, gente che correva, cadeva, aveva paura. Distrussero tutto. Da El Aaiún si vedeva il fumo, la gente si incamminò verso la città, con le poche cose che era riuscita a mettere in salvo. Quel giorno si manifestò in città fino a mezzogiorno. La polizia e l’esercito cercarono di fermarci, ma eravamo tanti. Allora la polizia chiamò i coloni a scendere in piazza contro di noi. La repressione che seguì fu brutale. In dicembre fui arrestato anch’io. Ricordo una delle sale dove torturavano, c’era sangue sui muri, dappertutto.”
Nel febbraio 2013 gli attivisti furono condannati prima dal Tribunale militare di Rabat con una sentenza poi revocata. Uno degli avvocati dei prigionieri, dichiarò che “l’annullazione della sentenza del tribunale militare riafferma che le imputazioni non sono state giustificate per omicidio e complicità” e che ci fossero tutte le condizioni per considerare quel processo “politico”. Nel 2017, dopo ormai 13 anni di carcere, il maxiprocesso si concluse nella Corte d’Appello di Salé che giudicò le imputazioni per “la formazione di organizzazione criminale, violenza contro la forza pubblica con esito mortale e mutilazione di cadaveri”. Furono condannati all’ergastolo il co-fondatore della Lega saharawi per la protezione dei prigionieri politici nelle carceri marocchine, il Presidente del Comitato per la protezione delle risorse naturali del Sahara occidentale (CSPRON) e il Presidente del Centro per la conservazione della memoria collettiva saharawi. Tutti gli altri, in prevalenza attivisti e giornalisti, furono condannati a scontare dai 25 ai 30 anni di carcere. Il gruppo di prigionieri, a novembre ha indetto due giornate di sciopero della fame a seguito della richiesta di rilascio da parte della WGAD e in solidarietà con uno dei prigionieri rimasto in isolamento per circa 20 giorni. Ad oggi il Governo non ha ancora assicurato la liberazione per tutti i prigionieri.
A dicembre 2023, anche il Segretario Generale dell’Unione dei giornalisti e degli scrittori Saharawi, Nafi Ahmed Mohamed, ha messo in guardia l’ONU sui crimini contro i professionisti della comunicazione, vittime di persecuzioni sistemiche come i pedinamenti, gli accerchiamenti militari nelle abitazioni, lo spionaggio dei dispositivi elettronici e dei social network, fino alle detenzioni arbitrarie nell’obiettivo di “minare il morale degli saharawi e attaccarne l’identità in una guerra psicologica”.
Neanche l’interesse a ricoprire un ruolo di primo ordine in materia di diritti umani pare aver allentato la morsa della repressione contro gli attivisti per la causa saharawi. Aminetu Haidar, definita anche “ la Ghandi del Sahara” per la sua vocazione non violenta, dagli anni ’80 è impegnata nella lotta per l’indipendenza e la liberazione dei prigionieri politici nelle carceri marocchine. Nell’87 fu arrestata per la prima volta, risultò “scomparsa” ai familiari per 4 anni in cui venne tenuta prigioniera senza alcun capo d’accusa. “Mi mettevano dei prodotti chimici urticanti in bocca, nel naso e negli occhi e mi percuotevano continuamente con bastonate. Poi c’erano le scariche elettriche. Perdevo i sensi tutte le volte. Per tutti e quattro gli anni avevo gli occhi bendati notte e giorno. Volevano farmi perdere la nozione del tempo e dello spazio”. È in carcere che si ammalò di epilessia e gastrite senza mai ricevere cure. Dopo il secondo arresto e dopo un nuovo calvario di torture, ricevette l’appoggio e la solidarietà di molti personaggi di spicco della comunità internazionale come Josè Saramago, Adolfo Pérez Esquivel, Ken Loach e Paul Laverty. Ma in realtà, come denunciato più volte, lei e la sua famiglia sono ancora controllati dall’intelligence marocchina vittime di aggressioni e discriminazioni dalle forze armate. Agli inizi di gennaio, dopo aver vissuto molti anni in Spagna, dove emigrò per poter accedere a delle cure medicali, è stata espulsa per degli errori di trascrizione nella compilazione del suo permesso di soggiorno per rifugiata, costretta a far rientro nel mirino del regime marocchino.
Contro le violazioni del Marocco, pesanti denunce sono arrivate anche dall’Osservatorio dei diritti umani della Mauritania, che proprio il 9 gennaio ha evidenziato a mezzo stampa l’aumento delle vittime nei continui raid aerei provocati dalle forze marocchine, indirizzati nelle aree liberate del Sahara dal Fronte Polisario. Anche l’Ufficio Saharawi per il coordinamento delle attività minerarie (SMACO), in una riunione del 7 gennaio ha stimato che dalla fine del cessate il fuoco tra i militari del polisario e dell’esercito marocchino, siano morti almeno 66 civili mauritani e 3 algerini, oltre a quasi 100 saharawi disarmati, di cui la gran parte lavoratori delle miniere e allevatori di bestiame. Lo stesso giorno, il 7 gennaio, in risposta a un attacco con droni di fabbricazione marocchina del 1 Gennaio che hanno causato la morte di dieci civili mauritani, il Governo mauritano ha risposto con un aumento del 171% delle tasse doganali per il transito delle merci nell’area di El Guerguerat, zona cuscinetto e d’interesse strategico per il Marocco verso le regioni dell’ECOWAS. Secondo la stampa mauritana, diversi trasportatori facente capo a società marocchine, hanno rifiutato di pagare la nuova tassa e sono rimasti bloccati in questa striscia di confine tra Marocco e Mauritania, provocando un impatto negativo sulla distribuzione dei prodotti freschi come frutta e verdura. Alcuni video che circolano in rete, mostrano anche alcuni camion di società di trasporto merci marocchine che bruciano, poiché considerati carichi di risorse rubate al territorio saharawi. È proprio a El Guerguerat che dal Novembre 2020 sono ripresi gli scontri tra l’esercito del Fronte Polisario e quello marocchino, in risposta alle violazioni del divieto di accesso sancito dalle Nazioni Unite per il traffico commerciale.
La tassazione improvvisa imposta dalla Mauritania ad oggi potrebbe rappresentare un motivo di tensione tra i due governi, per la contesa di uno sbocco commerciale in un territorio già martorizzato dalla depredazione delle sue risorse oltre che dal fallimento della sua decolonizzazione. La politica di repressione marocchina contro la popolazione saharawi e la volontà di annessione del territorio desertico, trova le sue basi nelle innumerevoli attività estrattive a cui può attingere il Marocco: basti pensare che il Regno marocchino ad oggi è il secondo produttore e il primo esportatore al mondo di fosfato grezzo e di acido fosforico, oltre a essere ai primi posti per l’esportazione di concimi fosfatici attraverso la Office chérifien des phosphates, società tra le più importanti a livello mondiale nella produzione di fertilizzanti, visto che si rifocilla proprio da Sahara, territorio detentore del 70% delle riserve di fosfato mondiali ; inoltre gestisce con numerose aziende di materiali di costruzione europee la compravendita di migliaia di tonnellate di sabbia del Sahara; non per ultimo, si interessa sempre di più alla ricerca e all’estrazione di petrolio in diversi punti del Sahara occupato e non. Esiste anche una lunga tradizione di attività di pesca sulle coste del Sahara che oggi può essere sintetizzata nell’accordo tra Unione Europea e Regno del Marocco scaduto a Luglio 2023. L’accordo attribuiva all’UE “la possibilità di pesca in cambio di una contropartita finanziaria complessiva pari a 208 milioni di EUR”, comprendendo a prezzi vantaggiosi anche le attività nelle aree marittime del Sahara Occidentale. Poi nel 2021, una sentenza del Tribunale dell’Unione Europea, accogliendo le istanze del Fronte Polisario, ha sancito l’illegalità dell’accordo perché stipulato contro il consenso delle istituzioni saharawi.
Oggi il Presidente Ghali del Sahara rinnova l’invito all’Unione europea ad aderire al diritto internazionale e ad astenersi dal firmare qualsiasi accordo con il Regno del Marocco, sia che riguardi terre, spazio aereo o acque del Sahara. Mentre nell’attesa di un percorso istituzionale, sembra che si stiano intensificando gli attacchi operati dai militari del Fronte Polisario contro obiettivi militari marocchini. e, in un comunicato stampo del 9 Gennaio, si legge: “il popolo saharawi è pienamente impegnato in questo sacro diritto ed è pronto a difenderlo con tutti i mezzi legittimi garantiti dalla legittimità internazionale, compresa la lotta armata”. Forse anche senza considerare la convocazione di fine anno 2023 dei Paesi del Sahel a Marrakech per discutere di alleanze nuove geostrategiche, non è da escludere che a un maggiore livello di tensione possa coincidere una nuova escalation militare nel mondo arabo e nord africano.
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L'articolo Il Marocco chiede la presidenza del Consiglio dei Diritti Umani. Proteste nei territori occupati del Sahara Occidentale proviene da Pagine Esteri.
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