Parker Solar Probe, mai così vicini al Sole
Lo scorso 20 dicembre, gli operatori della missione Parker Solar Probe al Johns Hopkins Applied Physics Laboratory di Laurel, nel Maryland, dove la sonda è stata progettata e costruita, hanno ricevuto una trasmissione di segnali che rassicurava sul normale funzionamento di tutti i sistemi di bordo. Un semaforo verde – anche di speranza – per l’evento di domani, martedì 24 dicembre, quando alle 12.53 ora italiana la missione solare statunitense si spingerà fino a 6.1 milioni di chilometri dalla superficie della nostra stella, avvicinandosi a essa come niente e nessuno prima.
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Rappresentazione artistica che mostra la sonda della Nasa Parker Solar Probe mentre entra nella corona solare. Crediti: Nasa/Johns Hopkins APL/Ben Smith
«Questo è un esempio dell’audacia delle missioni della Nasa, che fanno qualcosa che nessun altro ha mai fatto prima per rispondere a domande di lunga data sul nostro universo», commenta Arik Posner, scienziato del programma Parker Solar Probe alla sede centrale della Nasa a Washington. «Non vediamo l’ora di ricevere il primo aggiornamento sullo stato della sonda e di iniziare a ricevere i dati scientifici nelle prossime settimane».
Non solo la più vicina, ma anche la più veloce. Parker Solar Probe volerà infatti una velocità di circa 692mila chilometri all’ora e raggiungerà temperature di circa 982 gradi Celsius mentre viaggia all’interno della corona solare. A una distanza così ravvicinata, la sonda si trova proprio all’interno della corona: un’occasione che consente di svolgere indagini scientifiche senza precedenti con il potenziale di cambiare davvero la visione della nostra stella. La corona solare, con le sue temperature estremamente più alte della superficie della stella, è infatti uno dei fenomeni legati al Sole finora meno compresi. Già nel 2021, durante l’ultimo passaggio ravvicinato di Parker Solar Probe sul Sole, la sonda era riuscita a fotografare da vicino per la prima volta delle strutture chiamate “flussi coronali”, e a vedere i confini della corona.
Per arrivare fin qui, sin dal suo lancio nel 2018, la missione della Nasa ha effettuato orbite che l’hanno progressivamente avvicinata al Sole, usando il pianeta Venere a più riprese per effettuare una serie di fionde gravitazionali che la spingessero sempre più vicina alla stella. L’ultimo flyby di Venere, quello che ha instradato la sonda al massimo avvicinamento di oggi, è avvenuto lo scorso 6 novembre.
Per gli aggiornamenti sul record di oggi però bisognerà attendere qualche giorno. Durante il perielio, infatti, la trasmissione dei dati dalla sonda a terra sarà interrotta a causa dell’estrema vicinanza alla stella. Il primo segnale radio dovrebbe arrivare venerdì 27 dicembre: sarà un cosiddetto beacon tone, e servirà solo a confermare – speriamo – lo stato di salute di Parker Solar Probe dopo il flyby sul Sole. Alla fine di gennaio 2025, quando la sonda raggiungerà una posizione lungo la sua orbita in cui riuscirà a vedere bene la Terra, comincerà l’invio di tutti i dati scientifici raccolti durante il sorvolo.
Godetevi cenone e pranzo di Natale, dunque, e lasciate passare pure Santo Stefano. Ma poi tornate a sbirciare qui, o nella pagina dedicata della Nasa, per avere notizie calde – l’aggettivo non potrebbe essere più azzeccato – su quanto accadrà fra poche ore.
Come Indiana Jones, ma su Marte
Vi trovate in un museo a cielo aperto, non sulla Terra, ma su un altro pianeta: Marte.
Qui, i resti di rover, lander e sonde spaziali non sono semplici “rifiuti spaziali”, ma testimonianze preziose di un’umanità che si spinge oltre i confini del proprio mondo.
È questa la visione dell’antropologo Justin Holcomb dell’Università del Kansas: un commento del quale è primo autore, pubblicato la settimana scorsa su Nature Astronomy, propone che gli artefatti lasciati dall’uomo su Marte debbano essere considerati patrimonio culturale. Non spazzatura galattica, quindi, ma eredità storica. E proprio come Indiana Jones esplorava templi e scavava nella storia, gli antropologi ora vogliono studiare e proteggere le tracce lasciate dalla nostra specie durante l’epopea dell’esplorazione interplanetaria.
Mappa che illustra le quattordici missioni su Marte, i siti chiave e gli esempi di manufatti che hanno contribuito allo sviluppo della documentazione archeologica (cliccare per ingrandire). Crediti: J. Holcomb
Secondo Holcomb, il desiderio umano di esplorare lo spazio è una naturale continuazione della nostra storia evolutiva. «Homo sapiens sta attualmente attraversando una fase di dispersione, che è iniziata dall’Africa, ha raggiunto altri continenti e ora si è spostata in ambienti extra terrestri», dice il ricercatore. «Abbiamo iniziato a popolare il Sistema solare. E proprio come usiamo i manufatti e le tracce storiche per seguire il nostro movimento, la nostra evoluzione e la nostra storia sulla Terra, potremmo farlo su altri pianeti o nello spazio seguendo le sonde, i satelliti, i lander e i vari materiali lasciati dietro di noi».
Dalla migrazione fuori dall’Africa fino alla colonizzazione di continenti remoti, l’espansione di Homo sapiens ha, dunque, lasciato una traccia fisica che gli archeologi possono seguire attraverso manufatti, insediamenti e altri resti andando letteralmente a rovistare nelle discariche per rivelare i segreti delle società passate sulla Terra. Questo processo, argomenta l’antropologo, si sta estendendo oltre i confini del nostro pianeta e gran parte del materiale considerato “spazzatura spaziale” può invece avere un grande valore archeologico e ambientale.
«Sono i primi segni materiali della nostra presenza», osserva Holcomb. «Molti scienziati si riferiscono a questo materiale come fossero rifiuti galattici. La nostra argomentazione è che non si tratta di spazzatura spaziale: è in realtà qualcosa di molto importante. È fondamentale cambiare questa narrativa e considerarlo come “patrimonio culturale”, perché la soluzione per i rifiuti è la rimozione, mentre per il patrimonio c’è la conservazione. C’è una grande differenza».
La fotocamera del rover Perseverance ha catturato le immagini di un pezzo della coperta termica utilizzata durante l’atterraggio. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu
L’argomentazione di Holcomb per la conservazione delle tracce dell’esplorazione umana su altri pianeti si basa su un lavoro precedente, in cui si sosteneva la necessità di dichiarare un “antropocene lunare”, ovvero un’epoca di dominio umano sul paesaggio lunare. E la sua proposta va oltre il semplice riconoscimento del valore simbolico di questi artefatti. Egli sostiene che le future missioni spaziali dovrebbero considerare con attenzione l’impatto che potrebbero avere su siti già “occupati” da tracce umane. Atterrare in prossimità di veicoli, rover o strumenti precedenti potrebbe infatti compromettere il contesto archeologico o storico di questi oggetti.
L’uomo ha raggiunto Marte per la prima volta oltre cinquant’anni fa, dando inizio alla storia dell’attività umana sul Pianeta rosso. Il primo indizio tangibile della nostra presenza su Marte risale al 1971, quando il rover sovietico Mars 2 Orbiter si schiantò sulla superficie del pianeta. Da allora, ogni missione ha lasciato il segno: dalle sonde americane Viking degli anni ’70, al rover Perseverance e al piccolo elicottero Ingenuity – primo drone a volare su un altro pianeta. Tutte testimonianze importanti del progresso scientifico e tecnologico nella conquista di uno dei pianeti più vicini al nostro. Purtroppo però, mentre gli antropologi hanno una certa conoscenza di come il clima e la geologia contribuiscano al degrado degli artefatti sulla Terra, i processi marziani e le caratteristiche come la velocità e la gravità dei danni sui reperti causati da raggi cosmici, venti, acqua e suolo sono attualmente poco conosciuti.
«La geoarcheologia studia gli effetti geologici sui materiali archeologici», spiega Holcomb. «La geoarcheologia planetaria è un settore di studi futuro, e dobbiamo considerare i materiali non solo su Marte in generale ma anche in diverse aree del pianeta dove i processi sono differenti. Ad esempio, nelle latitudini settentrionali e meridionali Marte ha una criosfera, e l’azione del ghiaccio accelera sicuramente l’alterazione dei materiali. Ancora: con le sabbie ferrose di Marte, cosa succede quando i materiali vengono sepolti? Inoltre, le tempeste marziani di polvere globali sono uniche nel loro genere, una singola tempesta può letteralmente attraversare l’intero globo. Il rover Spirit, ad esempio, si trova proprio accanto a un campo di dune che alla fine lo seppellirà. E, una volta sepolto, sarà molto difficile da ritrovare».
Lander, scudo termico e paracadute nella zona chiamata Elysium Planitia su Marte della missione InSight. Crediti: Nasa
Marte potrebbe idealmente diventare il primo “museo extraterrestre”, non costruito con mura o monumenti, ma formato dall’intero pianeta. Occorrerebbe, secondo gli studiosi, stabilire una metodologia per monitorare e catalogare i reperti, creando un archivio di oggetti da preservare utilizzando database come, per esempio, il Registro degli oggetti lanciati nello spazio esterno. dell’Onu.
Ogni pezzo di tecnologia lasciato sul suolo marziano è un frammento della nostra evoluzione. «Come le punte di Clovis in America o gli antichi utensili di pietra in Africa, questi artefatti», conclude Holcomb, «marcano momenti chiave nella storia dell’umanità, una traccia della nostra transizione da specie terrestre a esploratori del cosmo».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “The emerging archaeological record of Mars”, di Justin A. Holcomb, Beth L. O’Leary, Alberto G. Fairén, Rolfe D. Mandel e Karl W. Wegmann
Siamo polvere presa in prestito al cosmo
Hannah Arnesen. Stardust. Polvere di Stelle. Orecchio Acerbo 2024. 352 pagine, 33 euro
Com’è nato l’universo? E le stelle, i pianeti, la vita sulla Terra? Che ne sarà di tutto questo, un giorno? Sono domande che affrontiamo quotidianamente qui, sulle pagine di Media Inaf. E sono anche alcune delle domande che contribuiscono a tessere la trama di Stardust. Polvere di stelle, albo illustrato della svedese Hannah Arnesen, pubblicato in Italia da Orecchio Acerbo nella traduzione di Laura Cangemi. Una trama fatta di storie umane passate, presenti e future, che si intrecciano con la storia più grande – quella biologica e geologica del nostro pianeta e quella, cosmica, dell’universo.
Riassumere quasi 14 miliardi di anni in 350 pagine, per giunta con una prospettiva sul futuro, tanto dell’umanità quanto del cosmo, è un’impresa ambiziosa. Vengono in aiuto le splendide illustrazioni acquerellate che accompagnano le poche, misurate parole. Dalle prime stelle che rischiarano le tenebre primordiali alla colorata nebulosa da cui prende forma il Sole, con la sua corte di pianeti tra i quali fa bella mostra di sé, in terza posizione, il nostro pallido puntino blu. Dalle collisioni di comete e asteroidi, piccoli corpi forieri d’acqua e altre sostanze essenziali alla vita come la conosciamo sulla Terra, fino all’esplosione della vita stessa, che popola dapprima gli abissi marini per poi spingersi in ogni angolo del globo, attraversando innumerevoli trasmutazioni per sopravvivere a grandi e piccoli cambiamenti e forgiare, miliardi di anni più tardi, qualcosa che ci somiglia, in cui ci riconosciamo. Qualcosa che, oggi, interviene sull’ambiente in maniera sempre più massiccia, imponente e impattante, mettendo in moto mutamenti che rischiano di diventare fatali proprio per noi e per quanto di più bello abbiamo costruito in questa lunga evoluzione.
Il libro si articola in tre grandi sezioni. Tre lunghissime lettere d’amore. La prima è un inno alla Terra, culla delle nostre (dis)avventure, che ha visto alternarsi glaciazioni, estinzioni di massa, prodigiose fioriture e grandi rivoluzioni. La seconda si rivolge a chi legge: a noi e ai nostri corpi caduchi, fatti di materia riciclata, sintetizzata nei miliardi d’anni di storia cosmica e presa in prestito solo temporaneamente all’universo. Corpi che respirano le stesse molecole inalate da chi ci ha preceduto sul pianeta, che esitano ogni giorno di più a riconoscere il mondo che cambia e che a volte, in quest’era di emergenza climatica – anzi, emergenza umana – faticano a immaginare o addirittura a mettere al mondo chi verrà dopo di loro. La terza lettera, scritta per un figlio ancora non nato, pronostica possibili futuri. Futuri apocalittici, nei quali la transizione energetica non è mai arrivata a compimento, ma anche futuri più rosei, responsabili, in cui la cura e l’azione collettiva hanno cambiato il corso della storia.
In bilico tra arte e scienza, Stardust spazia dall’intimo e microscopico a quanto di più grande riusciamo a immaginare: c’è il buio pesto degli spazi intergalattici spolverizzati di stelle, il rosa dei tramonti terrestri, il verde brulicante di vita e il grigio degli incendi che sempre più spesso affollano le nostre notizie quotidiane. Creature multiformi emergono dalle pennellate di Arnesen, come il primo pesce ad avventurarsi sulle terre emerse centinaia di milioni di anni fa, uno “zio acquatico” di calviniana memoria, ignaro della colossale trasformazione iniziata con il suo pionieristico primo passo. Affiorano tra le pagine anche i nostri volti: volti dai molteplici toni e colori, omaggio alle Humanæ variazioni che rendono la nostra specie così ricca. E non mancano i corpi ingabbiati, le carcasse macellate delle altre, di specie, quelle che il modo di produzione dominante ha ridotto a mera merce, incurante sia delle emozioni animali sia dell’impatto che ha l’allevamento intensivo sull’ambiente. Il tutto scandito da grafici che mostrano l’andamento della temperatura terrestre nella storia e corredato dalle reazioni di adulti, adolescenti e bambini alla catastrofe climatica in corso, raccolte dall’autrice nei quattro anni di studio che hanno portato alla realizzazione di questo volume. Perché se è vero che “un giorno il Sole si gonfierà fino a diventare una gigante rossa […] e si spegnerà, diventerà un corpo celeste freddo e buio” è anche vero che, oggi, il terzo pianeta intorno al Sole “è la nostra casa, l’unica che conosciamo” e di cui prendersi cura, noi che altro non siamo se non “polvere di stelle sulla Terra”.
Universi, è uscito il numero di dicembre
Copertina del numero di dicembre di Universi, con una foto del Telescopio Nazionale Galileo. Crediti: Fabrizio Villa
È online – e probabilmente già sotto l’albero degli abbonati – il numero di dicembre di Universi. Anche in questo numero i ricercatori e le ricercatrici dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) presentano cinque approfondimenti su recenti scoperte, pubblicate negli ultimi sei mesi sulle principali riviste internazionali.
Con il primo approfondimento, grazie alla sapiente narrazione di Roberto Decarli e Federica Loiacono, ci avviciniamo alla comprensione dei quasar e delle loro interazioni con le galassie circostanti, avvenute appena un miliardo di anni dopo il Big Bang.
Nel secondo approfondimento, Luigi Bedin racconta di un progetto guidato dall’Inaf che, grazie al telescopio spaziale James Webb, ha prodotto immagini straordinarie dei due ammassi globulari più vicini alla Terra. Queste osservazioni hanno permesso di studiare gli oggetti più deboli mai rilevati in ammassi stellari: nane bianche e nane brune.
Paolo d’Incecco ci porta sull’Etna, guidando un progetto internazionale che selezionerà e analizzerà vulcani terrestri attivi come analoghi per lo studio del vulcanismo su Venere. Come riportato anche su Media Inaf questo mese, i ricercatori del gruppo Avengers – così si chiama il progetto, indimenticabile soprattutto per gli amanti di Tony Stark – sono stati a La Palma e Tenerife.
Melania Del Santo e Thomas Russell ci svelano i segreti di insoliti e potenti “pasti spaziali”: eventi in cui un oggetto con un forte campo gravitazionale cresce sottraendo materia a una stella vicina. Parte di questa materia, prima di essere inghiottita, viene espulsa attraverso meccanismi di lancio ancora poco conosciuti.
L’ultimo approfondimento, curato da Andrea Bulgarelli, esplora il mondo dei computer quantistici. Con la loro capacità di elaborare enormi quantità di dati simultaneamente, queste tecnologie stanno rivoluzionando il mondo della ricerca, diventando un alleato imprescindibile anche per l’astrofisica.
In questo numero, due interviste arricchiscono il panorama dei contenuti: la prima è con Piero Boitani, filologo, saggista e Accademico dei Lincei, che il 18 gennaio 2024 – nell’ambito della mostra dell’Inaf “Macchine del Tempo” a Palazzo delle Esposizioni Roma – ha tenuto una conferenza su scienza e umanesimo dal titolo Vaghe stelle dell’Orsa: Leopardi tra astronomia e poesia. Boitani approfondisce il tema della scienza come storia e mito, soffermandosi sul caso esemplare di Leopardi. Nella versione online dell’intervista è disponibile un link al testo integrale della lecture, gentilmente concesso dall’autore.
La seconda intervista è con Alessandro Bogliolo, professore all’Università di Urbino e ideatore di CodyTrip, il format di gite scolastiche online che, solo a ottobre, ha portato circa 42mila partecipanti alla scoperta del Telescopio Nazionale Galileo a La Palma, alle Canarie. Dal 2022, grazie alla collaborazione con l’Inaf, questo progetto ha aperto le porte della ricerca astrofisica italiana alle scuole di tutta Italia, accompagnandole virtualmente nei principali centri di ricerca dell’Istituto.
Infine, la rubrica Visione ci porta all’Osservatorio astrofisico di Torino, con gli splendidi scatti di Riccardo Bonuccelli che immortalano laboratori e ricercatori all’opera. Non mancano poi le rubriche consolidate dedicate a società, arte, musica, scuola e libri, e altre ancora… tutte legate dal filo conduttore dell’astronomia.
Ricordo che dal sito della rivista è possibile abbonarsi alla versione cartacea, almeno fino a esaurimento delle nostre scorte. Per chi invece preferisce il digitale, sul sito sono presenti tutti gli articoli.
Non mi resta che augurarvi buona lettura e buone feste.
Luna, vecchia dentro, giovane fuori
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Si pensa che l’ultimo grande impatto sulla Terra abbia formato la Luna. La datazione di questo evento, basata sull’età di diverse rocce che si presume si siano cristallizzate dall’oceano magmatico lunare, non è univoca ma varia fra 4,35 e 4,51 miliardi di anni fa, a seconda che si utilizzino le età di campioni di roccia lunare intera o di singoli grani di zircone. Un nuovo articolo pubblicato su Nature, però, prende posizione affermando che la Luna si sia formata tra 4,43 e 4,51 miliardi di anni fa. Dopo la sua formazione, infatti, la crosta del nostro satellite si sarebbe fusa nuovamente fuorviando i ricercatori nel determinare con esattezza la sua età.
Cominciamo quindi dall’inizio. La storia della Luna, dicevamo, parte da un’enorme collisione: un asteroide grande come Marte si è schiantato contro una giovane Terra. L’impatto ha generato un calore tale che il nostro pianeta si è fuso completamente e ha espulso nello spazio un’imponente quantità di materiale. Materiale che si è poi raggruppato per formare la Luna, inizialmente ricoperta da un enorme oceano di roccia calda e liquida. Nei milioni di anni successivi, il corpo appena formato si è raffreddato e si è allontanato sempre di più dalla Terra, fino a raggiungere l’orbita attuale a una distanza di circa 384mila chilometri.
Alcune centinaia di milioni di anni dopo la sua formazione, la Luna fu soggetta a un’intensa attività vulcanica. La distanza tra la Terra e la Luna era allora molto minore di quella attuale. Crediti: Mps/Alexey Chizhik
Alcune centinaia di milioni di anni dopo la sua formazione, però, la Luna orbitava ancora molto vicino alla Terra rispetto a oggi: a circa un terzo della distanza attuale. Le forze di marea che derivavano dalla sua orbita riscaldavano il suo interno, originando un’attività vulcanica talmente intensa che potrebbe aver fuso la sua crosta a più riprese. Ed è proprio questo ad aver creato opinioni contrastanti circa l’età del nostro satellite. Alcuni ricercatori, infatti, pensano che la sua formazione risalga a 4,35 miliardi di anni fa, altri ne datano la nascita a 4,51 miliardi di anni fa. E questo perché da un lato quasi tutti i campioni di roccia lunare indicano l’età più giovane, dall’altro alcuni rari cristalli di silicato di zirconio, noti come zirconi, sono significativamente più antichi. Secondo gli autori del nuovo studio hanno ragione entrambi. Come è possibile? Perché, come dicevamo, la crosta lunare è stata in gran parte fusa di nuovo dopo la sua formazione e solo alcuni zirconi sono stati in grado di resistere inalterati a queste condizioni estreme.
Come dimostrano i calcoli dei ricercatori, il flusso di calore proveniente dall’interno lunare era sufficiente a fondere e smuovere l’intero mantello. Il che non significa che la Luna fosse coperta da un oceano di magma, ma che nel corso di diversi milioni di anni il calore dall’interno ha raggiunto gradualmente ogni parte della superficie, liquefacendo la maggior parte della roccia sulla crosta – forse anche più volte.
«I campioni di roccia lunare ci raccontano l’intera e turbolenta storia della Luna», dice Thorsten Kleine, direttore del Max Planck Institute for Solar System Research di Göttingen e coautore dello studio. «Ci parlano della sua formazione e del successivo violento vulcanismo. Finora non avevamo letto correttamente questi indizi».
Il forte vulcanismo ha probabilmente resettato l’orologio geologico della Luna, e i campioni di rocce lunari non rivelano quindi la loro età originale, ma solo quando sono stati riscaldati per l’ultima volta. Solo alcuni zirconi resistenti al calore forniscono prove di un passato più lontano, come mostrano i ricercatori nei loro calcoli. In alcuni punti in cui la lava non ha raggiunto la superficie, i grani di zircone sono rimasti freddi e hanno mantenuto le loro proprietà originarie inalterate.
Tirando le somme, quindi, la Luna avrebbe un’età compresa tra 4,43 e 4,51 miliardi di anni, mentre il violento vulcanismo avrebbe modellato la sua crosta circa 4,35 miliardi di anni fa. Un risultato, questo, che non solo fornisce una risposta più precisa alla domanda “quant’è vecchia la Luna”, ma che risolverebbe anche altre contraddizioni riguardo la sua storia. Il numero relativamente basso di crateri presenti sulla Luna, ad esempio, era un altro argomento a sfavore della sua vecchiaia. In un tempo così lungo, il nostro vicino cosmico avrebbe dovuto assistere a un maggior numero di impatti. Il vulcanismo offre ora una spiegazione anche a questo: la lava proveniente dall’interno della Luna potrebbe aver riempito i primi bacini di impatto, rendendoli così irriconoscibili. Una situazione simile a quella in cui versava la Luna all’epoca è osservabile ancora oggi sulla luna di Giove Io, che percorre un’orbita leggermente ellittica attorno al gigante gassoso. Le enormi forze di marea di Giove rendono la piccola luna il corpo più vulcanicamente attivo del Sistema solare. La Luna primordiale della Terra era probabilmente all’altezza di Io.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Tidally driven remelting around 4.35 billion years ago indicates the Moon is old“, di Francis Nimmo, Thorsten Kleine e Alessandro Morbidelli
Accordo inter-enti per l’Einstein Telescope
Nel pomeriggio di ieri, giovedì 19 dicembre, nel corso di una videoconferenza, la presidente della Regione autonoma della Sardegna, Alessandra Todde, i rettori delle università di Cagliari e Sassari, Francesco Mola e Gavino Mariotti, e i presidenti dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), Antonio Zoccoli, Roberto Ragazzoni e Carlo Doglioni, hanno firmato un accordo inter-enti per il coordinamento e la promozione in Sardegna di iniziative a supporto della candidatura del sito minerario di Sos Enattos per ospitare l’Einstein Telescope (Et), futura infrastruttura europea per la ricerca di onde gravitazionali.
La miniera di Sos Enattos, in provincia di Nuoro. Crediti: Infn, Ego
L’obiettivo dell’accordo, di cui la Regione Sardegna è capofila, è creare un coordinamento permanente per il sostegno alla candidatura dell’area intorno alla miniera dismessa nel comune di Lula (NU), che faciliti la realizzazione di azioni comuni tra gli enti coinvolti. Tali iniziative avranno sia una finalità promozionale – come il rafforzamento della sensibilizzazione e dell’informazione sulla candidatura, la promozione territoriale e la valorizzazione dell’identità culturale e del patrimonio archeologico – sia una più strettamente scientifica e didattica, come la formazione in ambito scientifico e tecnico e la promozione di attività di ricerca in diversi ambiti chiave per Et, dalla geologia all’architettura fino all’ingegneria, passando per l’impatto ambientale e socio-economico. Inoltre, tra le azioni citate nell’accordo non mancano anche iniziative di carattere strategico per il territorio, come il rafforzamento dei trasporti aerei e stradali, lo studio di soluzioni per la mobilità sostenibile compatibili con Et, la creazione di scuole internazionali e altre iniziative che favoriscano l’accoglienza di ricercatrici e ricercatori stranieri.
Il coordinamento delle attività previste dall’accordo sarà affidato a un comitato di gestione composto da sei membri (uno per ogni ente coinvolto) e presieduto dalla Regione Sardegna.
«Tenevamo molto alla firma di questo accordo, dichiara Alessandra Todde, presidente della Regione Sardegna, ente capofila, «che fa seguito alle delibere e ai finanziamenti già messi in campo nelle scorse settimane. Einstein Telescope è per noi una infrastruttura strategica per la quale stiamo lavorando sin dal primo giorno. L’accordo firmato oggi ci vede in prima linea nella promozione della candidatura e di tutto il territorio, costruendo momenti coordinati e partecipati in tutte le aree della Regione. Vogliamo fare squadra con le università e con gli enti di ricerca, rendendo partecipi le cittadine e i cittadini della Sardegna».
Un ruolo fondamentale nella candidatura sarda per Einstein Telescope è giocato dalle università del territorio, come sottolinea Francesco Mola, rettore dell’Università di Cagliari: «La nostra università è orgogliosa di essere parte integrante di questa iniziativa, che non solo conferma il valore strategico del nostro territorio, ma mette anche in luce le eccellenze scientifiche e accademiche che siamo in grado di offrire. Questo accordo dimostra la forza della sinergia tra istituti nazionali, università, enti pubblici, realtà industriali e la comunità locale».
«L’Università degli studi di Sassari sostiene con convinzione il progetto Et a Lula fin dal principio», aggiunge il rettore dell’ateneo sassarese Gavino Mariotti. «L’Einstein Telescope è molto più di un progetto di ricerca, è un’occasione di rinascita per l’intera isola che oggi soffre di un calo demografico senza precedenti. Et avrebbe in sé la forza di far crescere nuova linfa e nuove menti, innescando in Sardegna processi virtuosi di ampia portata. Questo accordo dimostra che le istituzioni sono pronte a collaborare tra loro per importanti obiettivi comuni».
Rendering del progetto. Crediti: Infn
Le sfide scientifiche di Et richiedono una forte cooperazione tra le istituzioni del territorio e gli enti di ricerca coinvolti, che sarà rafforzata dalla firma dell’accordo. «Einstein Telescope è un progetto di portata scientifica mondiale, ospitare questa grande infrastruttura di ricerca in Sardegna sarebbe un risultato di straordinario valore, per il territorio e per tutto il Paese», sottolinea il presidente dell’Infn Antonio Zoccoli. «Per riuscire in questa impresa è determinante che Einstein Telescope sia un progetto di tutti, sia il più possibile condiviso: dalla società civile, dalle istituzioni, dalla comunità scientifica. Bisogna essere uniti. Questo è il senso dell’accordo sottoscritto oggi, il primo inter-istituzionale, che sancisce formalmente una collaborazione che è già in atto, e la dota di un comitato di coordinamento il cui ruolo sarà fondamentale per promuovere azioni efficaci nel quadro di una strategia comune. Einstein Telescope è una sfida importante e impegnativa che possiamo vincere».
«Per l’Inaf questo accordo rappresenta una duplice conferma della sua vocazione istituzionale allo sviluppo della ricerca astrofisica dai migliori siti e con la migliore tecnologia a disposizione», dichiara il presidente dell’Inaf Roberto Ragazzoni. «Conferma la bontà del sito che, con il suo silenzio sismico, rappresenta il migliore possibile in ambito europeo, in una regione che già ospita il radiotelescopio di San Basilio, gestito dall’Osservatorio astronomico di Cagliari, una delle nostre strutture più importanti. Conferma anche l’impegno in termini di sviluppo tecnologico perché il nostro Istituto intende portare sul sito di Sos Enattos le migliori tecnologie per la manipolazione della luce e delle osservazioni a grandissimo campo, proprio per affinare le capacità di cogliere le controparti ottiche di quei fenomeni celesti che saranno scrutati dal sensibilissimo Einstein Telescope».
«La sigla di questo accordo rappresenta un forte segnale di collaborazione e coesione tra alcune delle realtà scientifiche nazionali più importanti, e segna un passo decisivo nel percorso di promozione della candidatura italiana a ospitare un’infrastruttura di ricerca ambiziosa come Et», aggiunge il presidente dell’Ingv Carlo Doglioni. «L’Ingv, proseguendo la sua attività di caratterizzazione del sottosuolo e del rumore sismico di fondo del sito – grazie ai sensori sismici installati nelle gallerie della miniera – nonché di identificazione dell’origine delle sorgenti di questo rumore attraverso campagne temporanee di misura con strumentazione installata in superficie, conferma il suo impegno nello sviluppo di Et e del suo sito ospitante, Sos Enattos, come casa comune della ricerca italiana di alto profilo, ma lancerà anche il progetto Earth Telescope, finalizzato allo sguardo verso il profondo del pianeta per scoprirne finalmente i segreti della sua struttura e funzionamento».
Guarda su MediaInaf Tv il video di Gloria Nobile sull’Einstein Telescope:
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Va ad Andrew Alberini il premio “Ernesto Capocci”
Si è tenuta oggi all’Auditorium nazionale Inaf, intitolato a Ernesto Capocci, presso l’Osservatorio astronomico di Capodimonte, nel corso della serata intitolata Stelle in festa, la premiazione dell’Ernesto Capocci Scientific Award, dedicato a giovani ricercatori nel campo degli studi rivolti al Sistema solare. Giunto alla sua seconda edizione, il premio è stato conferito ad Andrew Alberini, giovane astrofisico originario di Populonia Stazione, in provincia di Livorno, che sta svolgendo il suo dottorato di ricerca all’Inaf di Arcetri.
La consegna del premio “Ernesto Capocci” al vincitore, Andrew Alberini. Crediti: Modestino Iafanti
La giuria dell’edizione 2024 del premio, composta da Sonia Fornasier dell’Università Lesia di Parigi, da Ivano Bertini dell’Università di Napoli Parthenope e da Fabio Cozzolino dell’Inaf di Napoli, ha deciso di premiare la qualità del lavoro di Alberini proposto nell’articolo “Investigating the stability of aromatic carboxylic acids in hydrated magnesium sulfate under UV irradiation to assist detection of organics on Mars” pubblicato su Scientific Reports. La giuria ha ritenuto l’articolo di Alberini di alta rilevanza negli studi in esobiologia, i cui risultati potranno avere un significativo impatto futuro, in special modo per la missione della Nasa Mars Sample Return. Per la giuria, inoltre, la ricerca di Alberini fornisce input fondamentali, attraverso attività di laboratorio, per la validazione di misure condotte in situ dal rover Perseverance nell’ambito della missione Mars 2020. «È per me un grande onore ricevere questo premio», ha detto Alberini, emozionato per il riconoscimento, «e desidero esprimere la mia profonda gratitudine alla giuria, al comitato scientifico e agli eredi del professor Capocci. L’articolo è frutto del contributo di 20 ricercatori di Italia, Spagna, Francia, Svezia, Canada, Cina e Stati Uniti; desidero, quindi, condividere con loro la soddisfazione di questo importante riconoscimento».
Alberini si è laureato in fisica all’Università di Pisa con una tesi sulla “Zona di abitabilità per pianeti extrasolari” e poi ha ottenuto la laurea magistrale, cum Laude, all’Università di Firenze. Ora sta svolgendo il dottorato di ricerca tra l’Osservatorio di Arcetri e il Dipartimento di fisica e astronomia dell’università fiorentina, investigando le possibili tracce di vita extraterrestre sulla superficie di Marte attraverso l’analisi i dati spettroscopici ottenuti dagli strumenti SuperCam e Sherloc del rover Nasa Perseverance. Gli obiettivi del lavoro di Alberini sono lo studio della fotostabilità delle potenziali molecole organiche nell’ambiente marziano e la creazione di un database a spettroscopia infrarossa di campioni marziani che potrà essere di aiuto per le prossime missioni verso il Pianeta rosso. Alberini tiene a rivolgere anche «uno speciale ringraziamento a John Robert Brucato e Teresa Fornaro per aver reso possibile questo progetto di dottorato e di ricerca presso l’Osservatorio di Arcetri. Mi auguro che i risultati che stiamo ottenendo possano fornire un contributo alla ricerca astrobiologica sulla possibile presenza di vita passata o presente su Marte, un tema ancora ricco di interrogativi ai quali dobbiamo continuare a cercare risposte».
Alla cerimonia di premiazione sono intervenuti anche gli eredi Capocci, che hanno sostenuto l’istituzione del premio dedicato all’astronomo napoletano che nell’Ottocento ha rivolto gran parte delle sue energie scientifiche e divulgative allo studio del Sistema solare. Importanti furono i suoi lavori sulle comete e le sue intuizioni sulla natura della fascia principale degli asteroidi. «Lo studio dei corpi del Sistema solare è iniziato a Capodimonte ai tempi di Ernesto Capocci», ha sottolineato il direttore dell’Osservatorio, Pietro Schipani, consegnando il premio insieme all’erede Capocci, «ed è tuttora una linea di ricerca estremamente attiva. Siamo felici di assegnare annualmente questo premio dedicato alla memoria di un grande scienziato, a beneficio dei giovani ricercatori attivi nel settore».
La serata, a cui ha preso parte anche Michelle Lee, console alla cultura e stampa del Consolato generale degli Stati Uniti a Napoli, è proseguita con la conversazione scientifica di Enrico Cascone dell’Inaf di Napoli dal titolo “L’universo corale, le molte voci delle stelle”, mostrando al pubblico com’è cambiata la nostra conoscenza del cosmo; un tuffo nella moderna astronomia multimessaggera che svela aspetti finora sconosciuti sul funzionamento dell’universo.
Dietro l’incredibile resistenza del batterio Conan
È un microscopico batterio dalla forma sferica. Il suo nome scientifico è Deinococcus radiodurans, ma è ormai conosciuto con il soprannome di “Conan il batterio” per via della sua incredibile resistenza a dosi di radiazioni migliaia di volte superiori a quelle letali per l’essere umano. Il segreto di questa impressionante resistenza è la presenza all’interno della cellula batterica di una potente molecola anti-ossidante. Un team di ricerca guidato da Michael Daly, ricercatore alla Uniformed Services University e Brian Hoffman, scienziato della Northwestern University, ha ora scoperto la struttura di questa molecola.
Immagine al microscopio del batterio Deinococcus radiodurans Crediti: Usu/Michael Daly
Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati la settimana scorsa su Proceedings of the National Academy of Sciences, si basa su una precedente ricerca nella quale gli scienziati hanno cercato di indagare la capacità del Deinococcus radiodurans di resistere alle radiazioni, misurando l’accumulo di molecole di antiossidanti a base di manganese nelle cellule microbiche. I risultati di questa ricerca suggeriscono che la dose di radiazioni a cui un microrganismo o le sue spore possono sopravvivere è direttamente correlata alla quantità di anti-ossidanti che contiene. In altre parole, più anti-ossidanti un batterio dispone, maggiore sarà la resistenza alle radiazioni.
Il motivo di ciò è dovuto al fatto che le radiazioni causano la produzione di radicali liberi, specie reattive dell’ossigeno in grado di provocare un danno a macromolecole biologiche, ad esempio il Dna, e strutture cellulari. La presenza di elevate quantità intracellulari di anti-ossidanti, molecole in grado di prevenire e neutralizzare la formazione di radicali liberi, limita il danno cellulare indotto dalle radiazioni, favorendo così i meccanismi di radioprotezione.
Con l’obiettivo di comprendere meglio la struttura del sistema di protezione contro le radiazioni, nel nuovo studio gli scienziati hanno indagato in laboratorio il meccanismo di radioprotezione utilizzando tre metaboliti di partenza: un decapeptide sintetico (Dp1), lo ione manganese, un cofattore di molti enzimi, e ioni fosfato, tutti elementi presenti all’interno delle cellule del batterio. Attraverso l’uso di avanzate tecniche spettroscopiche, il team ha scoperto che il segreto della protezione dalle radiazioni del batterio è un complesso ternario, costituito dal decapeptide Dp1 legato al manganese e al fosfato, formando così la molecola anti-ossidante Mdp, un protettore dai danni causati da radiazioni molto più potente rispetto al manganese combinato da solo con gli altri componenti.
«Questo complesso ternario è un eccellente scudo contro gli effetti delle radiazioni», dice Hoffman. «Sappiamo da tempo che gli ioni manganese e il fosfato insieme costituiscono un potente anti-ossidante, ma scoprire e comprendere la potenza “magica” fornita dall’aggiunta del terzo componente è una svolta. Questo studio ha fornito la chiave per capire perché questa combinazione è un radioprotettore così potente e promettente»
La comprensione del meccanismo di radioprotezione del batterio Deinococcus radiodurans potrebbe portare alla scoperta di nuovi antiossidanti sintetici specifici per le esigenze umane, utilizzabili ad esempio per la protezione degli astronauti dalle intense radiazioni cosmiche durante le missioni di esplorazione nello spazio profondo. Queste scoperte, concludono i ricercatori, potrebbero aprire nuove strategie per migliorare la resistenza all’ossidazione delle cellule, stimolare lo sviluppo di vaccini cellulari interi inattivati dalle radiazioni e potenzialmente portare ad altri progressi in campo medico.
Per saperne di più:
- Leggi su Proceedings of the National Academy of Sciences l’articolo “The ternary complex of Mn2+, synthetic decapeptide DP1 (DEHGTAVMLK), and orthophosphate is a superb antioxidant” di Hao Yang, Ajay Sharma , Michael J. Daly e Brian M. Hoffman
À rebours: la morte delle stelle svela la loro nascita
Dalla fine delle stelle al loro inizio: è questo l’approccio utilizzato da una ricerca pubblicata su Universe che ha permesso di sfruttare il numero di supernove e raggi gamma osservati nell’universo per ottenere la cosiddetta funzione di massa iniziale (Imf), ossia il modo in cui la massa delle stelle si distribuisce dopo la loro formazione. Applicando un comune metodo computazionale di stima di parametri, gli scienziati sono riusciti a ricavare l’Imf di zone anche molto lontane del cosmo, impossibili da osservare direttamente con i telescopi. La ricerca è stata condotta da un team di studiosi della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste, l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), l’Istituto di fisica fondamentale dell’universo (Ifpu) e l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf).
Francesco Gabrielli, ricercatore alla Sissa e primo autore dello studio pubblicato su Universe. Crediti: Sissa
L’Imf ottenuta dagli autori dello studio è risultata sorprendentemente simile a quella misurata nell’universo più vicino a noi. Questo, sostengono gli scienziati, sarebbe una possibile prova a sostegno di una Imf universale. Il risultato sarà ora messo alla prova dalle osservazioni di telescopi come il Jwst ed Euclid.
L’Imf è un valore universale? Forse
«Tutte le popolazioni stellari osservate nelle nostre vicinanze sembrano mostrare una funzione di massa iniziale sorprendentemente simile. Questo potrebbe indicare che si tratti di una costante universale nella formazione stellare, indipendentemente dalla regione specifica dell’universo in cui si verifica. Sfortunatamente, le limitazioni strumentali impediscono agli scienziati di discernere le popolazioni stellari al di là dell’universo locale e di testare l’universalità dell’Imf», spiega Francesco Gabrielli, ricercatore e autore – con Andrea Lapi e Mario Spera – dello studio.
La formazione stellare è uno dei processi più affascinanti dell’universo. Avviene nelle regioni dense delle galassie, attraverso il collasso e la frammentazione delle nubi di gas molecolare. Quando un singolo grumo gassoso diventa abbastanza caldo e denso, inizia a bruciare idrogeno e comincia a brillare: è in questo momento che nasce una stella.
Supernove e lampi di raggi gamma per calcolare l’Imf
La nuova ricerca è partita con un meccanismo a ritroso e, più in particolare, dalla conoscenza che l’esito della vita di una stella dipende dalla sua massa. Le stelle massicce terminano la loro vita in spettacolari esplosioni, chiamate supernove. Si ritiene che alcune supernove lancino persino un getto di materiale a velocità molto elevate, alimentando l’emissione di raggi gamma, in un cosiddetto lampo di raggi gamma. Poiché il verificarsi di un particolare tipo di esplosione dipende dalla massa della stella, il numero di esplosioni che si verificano nell’universo dipenderà dal numero di stelle che si formano con la giusta massa. In altre parole, dipenderà dall’Imf.
«Sulla base di queste considerazioni», spiega Gabrielli, «il mio gruppo e io abbiamo sviluppato un nuovo metodo per determinare l’Imf oltre l’universo locale. In particolare, abbiamo utilizzato un metodo computazionale in realtà piuttosto comune ma impiegato per la prima volta per riprodurre il numero osservato di supernove e lampi di raggi gamma nell’universo. Poiché queste quantità dipendono strettamente dall’Imf, questo ci ha dato la possibilità di vincolare la forma esatta dell’Imf che meglio riproduce le osservazioni».
Alla prova delle osservazioni
Utilizzando questo approccio per la prima volta, i ricercatori sono stati così in grado di ottenere una nuova metodologia di determinazione dell’Imf. Una cosa particolarmente affascinante scoperta dal team di ricerca è che l’Imf calcolata fino all’universo lontano risulti sorprendentemente simile a quella misurata nell’universo locale, possibile prova a sostegno di un’Imf universale.
«Questo è un momento entusiasmante per gli astrofisici», conclude Gabrielli, «poiché molti nuovi telescopi, come il Jwst ed Euclid, stanno ora iniziando le osservazioni. Di conseguenza, ci si aspetta una quantità straordinaria di osservazioni di supernove ed esplosioni di raggi gamma nei prossimi anni. Sarà emozionante vedere cosa ci dirà questa nuova ricchezza di dati sull’Imf e sulla sua universalità. Una comprensione più profonda dell’Imf permetterebbe di fare importanti passi avanti in svariati ambiti astrofisici, tra cui la formazione ed evoluzione delle stelle, l’arricchimento chimico dell’universo, e l’osservazione di onde gravitazionali emesse da buchi neri in collisione».
Fonte: comunicato stampa Sissa
Per saperne di più:
- Leggi su Universe l’articolo “Constraining the Initial-Mass Function via Stellar Transients”, di Francesco Gabrielli, Lumen Boco, Giancarlo Ghirlanda, Om Sharan Salafia, Ruben Salvaterra, Mario Spera e Andrea Lapi
Blazar da record: è il più distante mai visto
Dodici miliardi e novecento milioni di anni. Tanto è il tempo che la luce dell’oggetto J0410-0139 ha impiegato per giungere fino a noi. Una luce molto particolare: è il fascio di fotoni emesso da un Agn, una galassia nel cui nucleo alberga un buco nero attivo. Iperattivo, in questo caso: stiamo infatti parlando di un quasar, ovvero un nucleo eccezionalmente luminoso. Ma c’è di più: oltre a essere luminosissimo, il fascio di luce emesso da J0410-0139 è puntato dritto verso di noi. Quest’ultimo dettaglio è ciò che lo rende non un semplice quasar, bensì un blazar. Il blazar più distante, e quindi più antico, mai osservato fino a oggi. Dunque un record, certo, ma a rendere questa sua antichità interessante agli occhi degli astronomi è ciò che ne consegue: potrà aiutarli a comprendere come i buchi neri supermassicci siano stati in grado di crescere così rapidamente nell’universo primordiale.
Rappresentazione artistica del blazar più distante dell’universo. Crediti: U.S. National Science Foundation/Nsf National Radio Astronomy Observatory, B. Saxton
La scoperta è il risultato di una ricerca sistematica di nuclei galattici attivi in epoche remote condotta da Eduardo Bañados, astrofisico alla guida di un gruppo specializzato nei primi miliardi di anni di storia cosmica del Max-Planck-Institut für Astronomie tedesco – gruppo del quale fa parte anche Silvia Belladitta, associata Inaf – e da un team internazionale di astronomi fra i quali Roberto Decarli dell’Inaf di Bologna. Poiché la luce impiega un certo tempo per raggiungerci, vediamo gli oggetti lontani come erano milioni o addirittura miliardi di anni fa. Non solo: il cosiddetto redshift cosmologico – fenomeno dovuto all’espansione cosmica – sposta lo spettro della loro luce a lunghezze d’onda molto più lunghe di quelle a cui era stata emessa. Bañados e il suo team hanno dunque sfruttato questa caratteristica per compiere una ricerca sistematica di oggetti talmente spostati verso le frequenze più basse da non apparire nemmeno più nelle survey in luce visibile (in particolare, nella Dark Energy Legacy Survey) ma presenti, invece, come sorgenti luminose in banda radio nella survey a 3 GHz Vlass.
Sono così emersi venti candidati che soddisfacevano entrambi i criteri. Fra questi c’era J0410-0139, l’unico a esibire anche un’altra curiosa caratteristica, tipica dei blazar: significative fluttuazioni di luminosità nel regime radio. Per avere la certezza che proprio di un blazar si trattasse, gli autori dello studio hanno scomodato una quantità ragguardevole di telescopi in tutto il mondo e nello spazio, fra i quali l’Ntt per le osservazioni in infrarosso, il Vlt, Lbt, uno dei telescopi Keck e il telescopio Magellan per gli spettri, i due telescopi spaziali per raggi X Chandra e Xmm-Newton, il Vla per la banda radio e, infine, gli array Alma e Noema per le osservazioni a onde millimetriche. Grazie a questa campagna multibanda è stato anche possibile determinare il redshift esatto del blazar, risultato pari a z=6.9964, e di conseguenza il tempo che la sua luce ha impiegato per giungere fino a noi: come dicevamo in apertura, 12.9 miliardi di anni.
Visualizzazione schematica delle tappe principali del Big Bang. L’universo è composto da gas neutro a 400mila anni dopo il Big Bang, e la radiazione delle prime stelle inizia a re-ionizzare l’idrogeno. Dopo diverse centinaia di milioni di anni l’universo è completamente ionizzato. Crediti: Osservatorio astronomico nazionale del Giappone (Naoj)
Luce dunque risalente a un’epoca – quella della reionizzazione – di estremo interesse per gli astronomi. La luce del precedente detentore del record di “blazar più distante” (a redshift z=6.1) ha impiegato circa cento milioni di anni in meno per raggiungerci. Cento milioni di anni in più o in meno possono sembrare pochi alla luce del fatto che stiamo guardando indietro di oltre 12 miliardi di anni, ma in realtà la differenza è cruciale. Parliamo infatti di un periodo in cui l’universo sta cambiando rapidamente. In quei cento milioni di anni, un buco nero supermassiccio può aumentare la sua massa di un ordine di grandezza. In base ai modelli attuali, il numero di quasar dovrebbe essere aumentato di un fattore da cinque a dieci durante quei cento milioni di anni. Detto altrimenti, trovare un blazar risalente a 12.8 miliardi di anni fa non sarebbe inaspettato, ma trovare un blazar risalente a 12.9 miliardi di anni fa, come in questo caso, è tutta un’altra cosa.
«Il fatto che J0410-0139 sia un blazar – un getto che per caso punta direttamente verso la Terra – ha immediate implicazioni statistiche», sottolinea a questo proposito Bañados. «Per fare un’analogia con la vita reale, immaginate di leggere che qualcuno ha vinto cento milioni di dollari alla lotteria. Considerata la rarità di una tale vincita, si può immediatamente dedurre che ci debbano essere state molte altre persone che hanno partecipato a quella lotteria, ma che non hanno vinto una somma così esorbitante. Allo stesso modo, trovare un Agn con un getto che punta direttamente verso di noi implica che in quel periodo della storia cosmica dovessero esserci molti Agn con getti che non puntavano verso di noi».
Silvia Belladitta, ricercatrice postdoc al Max Planck e associata Inaf. Crediti: Giulia Perotti
In altre parole, riassume efficacemente Belladitta, «dove ce n’è uno, ce ne sono altri cento». Ed è per questo che la scoperta di J0410-0139 è di grande rilievo per ricostruire l’evoluzione del cosmo: si pensa infatti che i buchi neri con getti possano crescere molto più rapidamente di quelli senza getti.
L’eccezionale antichità di J0410-0139 ha poi un altro risvolto di notevole interesse per gli astronomi: è un faro eccezionale per guardare la reionizzazione “in controluce”, analizzando le righe d’assorbimento dovute alla materia incontrata dalla luce del blazar nella sua corsa fino a noi attraverso lo spazio e il tempo. «Un radio-quasar molto brillante a z~7 – come questa sorgente – potrebbe permetterci di studiare la “foresta” della linea 21 cm, cioè una serie di segnali radio prodotti dall’idrogeno neutro», spiega Belladitta a Media Inaf. «Osservare la 21 cm forest è una delle chiavi per ricostruire i primi momenti della storia cosmica, perché ci permette di studiare direttamente l’idrogeno neutro, la sua temperatura, i suoi movimenti. E di capire, guardando sia la profondità che la forma del segnale di assorbimento, quali tipi di oggetti – stelle, galassie o buchi neri – abbiano prodotto abbastanza energia per ionizzare l’idrogeno. Questo ci aiuta a rispondere a una domanda fondamentale: quali sono state le vere “protagoniste” della reionizzazione cosmica?»
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A blazar in the epoch of reionization”, di Eduardo Bañados, Emmanuel Momjian, Thomas Connor, Silvia Belladitta, Roberto Decarli, Chiara Mazzucchelli, Bram P. Venemans, Fabian Walter, Feige Wang, Zhang-Liang Xie, Aaron J. Barth, Anna-Christina Eilers, Xiaohui Fan, Yana Khusanova, Jan-Torge Schindler, Daniel Stern, Jinyi Yang, Irham Taufik Andika, Christopher L. Carilli, Emanuele P. Farina, Andrew Fabian, Joseph F. Hennawi, Antonio Pensabene e Sofía Rojas-Ruiz
- Leggi la press release del Max-Planck-Institut für Astronomie (in inglese)
- Leggi la press release del National Radio Astronomy Observatory (in inglese)
Antico buco nero dormiente catturato da Webb
Anche i buchi neri schiacciano un sonnellino, tra una mangiata e l’altra. Un team internazionale di scienziati, guidato dall’Università di Cambridge, ha scoperto un antichissimo buco nero supermassiccio “dormiente” in una galassia compatta, relativamente quiescente e che vediamo come era quasi 13 miliardi di anni fa. Il buco nero, descritto in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, ha una massa pari a 400 milioni di volte quella del Sole e risale a meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang, rendendolo uno degli oggetti più antichi e massicci mai rilevati.
Questo mastodontico oggetto è inoltre il primo buco nero supermassiccio non attivo, in termini di accrescimento di materia, osservato durante l’epoca della reionizzazione, una fase di transizione nell’universo primordiale durante la quale il gas intergalattico è stato ionizzato dalla radiazione delle prime sorgenti cosmiche. Probabilmente rappresenta solo la punta dell’iceberg di una intera popolazione di buchi neri “a riposo” ancora da osservare in questa epoca lontana. La scoperta, a cui partecipano ricercatrici e ricercatori anche dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), della Scuola Normale Superiore di Pisa e della Sapienza Università di Roma, si basa sui dati raccolti telescopio spaziale James Webb (Jwst), nell’ambito del programma Jades (Jwst Advanced Extragalactic Survey).
Immagine in falsi colori ottenuta dal telescopio spaziale Jwst, che mostra una piccola frazione del campo Goods-North. La galassia evidenziata nel riquadro ospita un antichissimo buco nero supermassiccio “dormiente”. Crediti: Jades Collaboration
In che senso il buco nero è “dormiente”? Grazie a questi dati, il gruppo di ricerca ha stabilito che, nonostante la sua dimensione colossale, questo buco nero sta accrescendo la materia circostante a un ritmo molto basso a differenza di quelli di massa simile osservati nella stessa epoca (i cosiddetti quasar) – circa cento volte inferiore al limite teorico massimo – rendendolo praticamente inattivo.
Un’altra peculiarità di questo buco nero ad alto redshift (ossia collocato nell’universo primordiale) è il suo rapporto con la galassia ospite: la sua massa rappresenta il 40 per cento della massa stellare totale, un valore mille volte superiore a quello dei buchi neri normalmente osservati nell’universo vicino. «Questo squilibrio», spiega Alessandro Trinca, ricercatore post-doc oggi in forza all’Università dell’Insubria ma già postdoc all’Inaf di Roma per un anno, «suggerisce che il buco nero abbia avuto una fase di crescita rapidissima, sottraendo gas alla formazione stellare della galassia. Ha rubato tutto il gas che aveva a disposizione prima di diventare dormiente lasciando la componente stellare a bocca asciutta».
«Comprendere la natura dei buchi neri», aggiunge Rosa Valiante, ricercatrice all’Inaf di Roma coinvolta nel team internazionale e coautrice dell’articolo, «è da sempre un argomento che affascina l’immaginario collettivo: sono oggetti apparentemente misteriosi che mettono alla prova “famose” teorie scientifiche come quelle di Einstein e Hawking. La necessità di osservare e capire i buchi neri, da quando si formano a quando diventano massicci fino a miliardi di volte il nostro Sole, spinge non solo la ricerca scientifica a progredire, ma anche l’avanzamento tecnologico».
Illustrazione artistica che rappresenta l’aspetto potenziale del buco nero supermassiccio scoperto dal team di ricerca durante la sua fase di intensa attività super-Eddington. Crediti: Jiarong Gu
I buchi neri supermassicci così antichi, come quello descritto nell’articolo su Nature, rappresentano un mistero in astrofisica. La rapidità con cui questi oggetti sono cresciuti nelle prime fasi della storia dell’universo sfida i modelli tradizionali, che non sono in grado di spiegare la formazione di buchi neri di tale portata. In condizioni normali, i buchi neri accrescono materia fino a un limite teorico, chiamato “limite di Eddington”, oltre il quale la pressione della radiazione generata dall’accrescimento contrasta ulteriori flussi di materiale verso il buco nero. La scoperta di questo buco nero primordiale supporta l’ipotesi che fasi brevi ma intense di accrescimento dette “super-Eddington” siano essenziali per spiegare l’esistenza di questi “giganti cosmici” nell’universo primordiale. Si tratta di fasi durante le quali i buchi neri riuscirebbero a inglobare materia a un ritmo molto superiore, sfuggendo temporaneamente a questa limitazione, intervallate da periodi di dormienza.
«Se la crescita avvenisse a un ritmo inferiore al limite di Eddington, il buco nero dovrebbe accrescere il gas in modo continuativo nel tempo per sperare di raggiungere la massa osservata. Sarebbe quindi molto improbabile osservarlo in una fase dormiente», spiega Raffaella Schneider, professoressa al Dipartimento di fisica della Sapienza.
Immagine in tre colori del nucleo galattico attivo e della galassia ospite Jades Gn 1146115. L’immagine è stata creata con diversi filtri (rosso F444W, verde F277W e blu F115W) utilizzando gli strumenti NirCam e NirSpec dwl James Webb Space Telescope in modalità multi-oggetto, come parte del programma Jades. La galassia si trova a un redshift di 6.68, che corrisponde a un’epoca di meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Crediti: I. Juodzbalis et al. / Nature (2024)
Gli scienziati ipotizzano che buchi neri simili siano molto più comuni di quanto si pensi, ma oggetti in un tale stato dormiente emettono pochissima luce, il che li rende particolarmente difficili da individuare, persino con strumenti estremamente avanzati come il telescopio spaziale Webb. E allora come scovarli? Sebbene non possano essere osservati direttamente, la loro presenza viene svelata dal bagliore di un disco di accrescimento che si forma intorno a loro. Con il Jwst, telescopio delle agenzie spaziali americana (Nasa), europea (Esa) e canadese (Csa) progettato per osservare oggetti estremamente poco luminosi e distanti, sarà possibile esplorare nuove frontiere nello studio delle prime strutture galattiche.
«Questa scoperta», conclude Stefano Carniani, ricercatore della Scuola Normale Superiore di Pisa e membro del team Jades, «apre un nuovo capitolo nello studio dei buchi neri distanti. Grazie alle immagini del James Webb, potremo indagare le proprietà dei buchi neri dormienti, rimasti finora invisibili. Queste osservazioni offrono i pezzi mancanti per completare il puzzle della formazione e dell’evoluzione delle galassie nell’universo primordiale».
La scoperta rappresenta solo l’inizio di una nuova fase di indagine. Il Jwst sarà ora utilizzato per individuare altri buchi neri dormienti simili, contribuendo a svelare nuovi misteri sull’evoluzione delle strutture cosmiche nell’universo primordiale.
Per saperne di più:
- Leggi su Media Inaf l’intervista a Rosa Valiante
- Leggi su Nature l’articolo “A dormant, overmassive black hole in the early Universe”, di Ignas Juodžbalis, Roberto Maiolino, William M. Baker, Sandro Tacchella, Jan Scholtz, Francesco D’Eugenio, Raffaella Schneider, Alessandro Trinca, Rosa Valiante, Christa DeCoursey, Mirko Curti, Stefano Carniani, Jacopo Chevallard, Anna de Graaff, Santiago Arribas, Jake S. Bennett, Martin A. Bourne, Andrew J. Bunker, Stephane Charlot, Brian Jiang, Sophie Koudmani, Michele Perna, Brant Robertson, Debora Sijacki, Hannah Ubler, Christina C. Williams, Chris Willott e Joris Witstok
Il bell’addormentato nel cosmo
Rosa Valiante, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica a Roma
Un colosso cosmico, a metà strada tra un predatore insaziabile e un gigante dormiente. Così potremmo descrivere il buco nero appena individuato nell’universo primordiale grazie al telescopio spaziale James Webb. Un team internazionale di scienziati guidato dall’Università di Cambridge è riuscito infatti a identificare questo mostro da record: un buco nero supermassiccio con una massa pari a 400 milioni di volte quella del Sole, situato in un’era remota della storia dell’universo, a soli 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Una scoperta che sfida i modelli attuali di formazione e crescita di questi oggetti estremi.
Si tratta di un buco nero insolito non solo per le dimensioni, ma anche per il suo stato di dormienza: questo mostro cosmico che ha apparentemente “mangiato troppo”, dopo un periodo di iperattività, ha ridotto drasticamente il suo accrescimento. Questo comportamento, sebbene raro da osservare, potrebbe rivelarsi comune per i buchi neri dell’universo primordiale.
Per sapere di più su questa straordinaria scoperta, pubblicata oggi sulla rivista Nature, abbiamo parlato con Rosa Valiante, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e coautrice dello studio.
Cosa rende quest’oggetto così speciale rispetto ad altri buchi neri supermassicci?
«Questo buco nero, con una massa pari a 400 milioni di volte quella del Sole, è uno dei primi di questa portata osservati dal James Webb Space Telescope. È unico non solo per le dimensioni, ma anche perché si trova a una distanza straordinaria, in un’epoca dell’universo risalente a soli 800 milioni di anni dopo il Big Bang, nella cosiddetta epoca della reionizzazione. Per dare un’idea, oggi l’universo ha circa 13,8 miliardi di anni. Un’altra peculiarità è che questo buco nero rappresenta il 40 per cento della massa totale della galassia che lo ospita, un valore molto superiore alla media osservata per i buchi neri nell’universo locale (cioè più vicini a noi), che solitamente copre solo lo 0,1 per cento. E ciò che lo rende ancora più insolito è che non sta accrescendo attivamente materia, quindi è “dormiente”».
Come avete fatto a capire che proprio lì ci fosse un buco nero e che fosse “dormiente”?
«Le osservazioni del James Webb sono state fondamentali. In particolare, i ricercatori di Cambridge hanno analizzato una riga spettrale dell’idrogeno chiamata Hα. Questa riga, anziché avere la forma “stretta” tipica delle galassie, risultava più larga, consistente con la presenza di un buco nero. Grazie alle caratteristiche di questa riga, è stato possibile stimare la massa del buco nero e la sua luminosità, che però è risultata essere molto bassa: oltre cento volte inferiore a quella stimata per i buchi neri attivi di massa simile osservati alla stessa epoca. Questo ha confermato che il tasso di accrescimento è estremamente ridotto rispetto alla norma, solo il 2 per cento del tasso limite di Eddington».
Nonostante cresca lentamente, questo buco nero ha una massa – ci diceva – pari al 40 per cento di quella stellare della galassia. Quali implicazioni ha questo rapporto anomalo?
«Un rapporto così elevato suggerisce che il buco nero, nelle sue fasi iniziali, abbia consumato gran parte del gas disponibile per crescere, lasciando “a bocca asciutta” la formazione stellare. Questo fenomeno sembra indicare che il buco nero abbia attraversato dei periodi in cui la sua crescita ha sovrastato l’evoluzione della componente stellare della galassia. Probabilmente la maggior parte delle stelle osservate oggi si è formata solo dopo che il buco nero è entrato in una fase dormiente, cioè quando il suo tasso di accrescimento ha iniziato a diminuire, fino ad arrivare molto al di sotto del limite di Eddington. È un comportamento mai investigato nel dettaglio finora; infatti, i modelli teorici suggerivano una crescita più sincronizzata tra buchi neri e galassie».
Il campo Goods-North, nel quale è stato individuato il buco nero supermassiccio dormiente, osservato con lo strumento Nircam a bordo del telescopio spaziale Webb. Crediti: Nasa, Esa, Csa, B. Robertson (Uc Santa Cruz), B. Johnson (Cfa), S. Tacchella (Cambridge), M. Rieke (University of Arizona), D. Eisenstein (Cfa)
Quindi questa scoperta sembrerebbe contrastare con i modelli attuali, oppure no?
«Una scoperta come questa rappresenta una sfida per i modelli esistenti. Se un fenomeno così non viene previsto, significa che il modello deve essere rivisto. Tuttavia, questa è anche un’opportunità d’oro: ci permette di testare la validità delle nostre descrizioni della fisica e, se necessario, cambiarle. Nel nostro caso, abbiamo trovato una spiegazione grazie a un modello super-Eddington sviluppato da Alessandro Trinca durante il suo dottorato all’Università di Roma “La Sapienza” e messo a punto durante il suo postdoc all’Inaf. Questo modello, che prevede fasi brevi di accrescimento estremamente rapido, al di sopra appunto della soglia limite di Eddington, intervallate da lunghi periodi di dormienza, è riuscito a descrivere le caratteristiche di questo oggetto. Ora stiamo facendo simulazioni numeriche per migliorarlo ulteriormente e per spiegare meglio tutte le caratteristiche di questo buco nero».
Ha citato più volte questo ‘limite di Eddington’, ma cos’è esattamente e perché è così importante?
«Il limite di Eddington definisce la quantità massima di materia che un buco nero può accrescere entro un certo lasso di tempo, in condizioni di equilibrio tra la pressione di radiazione del materiale che si trova attorno al buco nero e la forza di gravità di esso. Stimare il tasso di accrescimento di materia in rapporto al limite di Eddington è importante per studiare e modellare i processi fisici che regolano la crescita del buco nero e il suo eventuale impatto (feedback) sulla galassia che lo ospita. Sia le osservazioni che i modelli teorici suggeriscono che, in condizioni estreme, questa soglia massima può essere superata, almeno per brevi periodi».
Questo buco nero potrebbe rappresentare la punta dell’iceberg di una intera popolazione di buchi neri “dormienti” ancora da osservare in questa epoca lontana?
«Il James Webb continuerà a cercare oggetti simili. Nuove campagne osservative sono già in programma, questa volta mirate specificamente a individuare buchi neri dormienti. La scoperta di questo oggetto è stata una sorpresa, ma ora ci aspettiamo di trovare un’intera popolazione di oggetti simili, soprattutto nell’universo primordiale. Inoltre, entro il 2030-2031, saranno lanciate missioni spaziali dedicate alle onde gravitazionali. Questo aprirà un nuovo canale di osservazione, complementare a quello delle onde elettromagnetiche. La combinazione dei due metodi ci permetterà di ottenere una visione ancora più completa dei buchi neri e della loro evoluzione. Non sai mai cosa aspettarti insomma, c’è sempre una nuova sorpresa, anche questo è il bello della scienza».
Per saperne di più:
- Leggi il comunicato stampa dell’Inaf
- Leggi su Nature l’articolo “A dormant, overmassive black hole in the early Universe” di Ignas Juodžbalis, Roberto Maiolino, William M. Baker, Sandro Tacchella, Jan Scholtz, Francesco D’Eugenio, Raffaella Schneider, Alessandro Trinca, Rosa Valiante, Christa DeCoursey, Mirko Curti, Stefano Carniani, Jacopo Chevallard, Anna de Graaff, Santiago Arribas, Jake S. Bennett, Martin A. Bourne, Andrew J. Bunker, Stephane Charlot, Brian Jiang, Sophie Koudmani, Michele Perna, Brant Robertson, Debora Sijacki, Hannah Ubler, Christina C. Williams, Chris Willott e Joris Witstok
Intelligenza artificiale che legge tra le righe
L’era delle indagini astronomiche su larga scala rappresenta una sfida che richiede approcci innovativi per fare fronte a una mole sempre più voluminosa di dati da analizzare, e una direzione promettente per affrontare questa sfida è certamente offerta dall’intelligenza artificiale.
Uno studio ora in uscita su Astronomy & Astrophysics propone di integrare tecniche sofisticate di machine learning – già applicate con successo in altri campi scientifici – e di adattarle all’analisi degli spettri di galassie per predire quantità fondamentali come redshift, massa stellare e tasso di formazione stellare delle galassie. Il modello si chiama M-Topnet (Multi-task network outputting probabilities) ed è basato su una rete neurale artificiale piuttosto articolata. M-Topnet non si limita a classificare o stimare un singolo parametro ma, grazie all’apprendimento multi-task, analizza contemporaneamente diverse proprietà fisiche delle galassie. Inoltre, è capace di associare alle stime di queste grandezze anche una distribuzione di probabilità – e quindi un’incertezza – permettendo così di valutare l’affidabilità di ciascun risultato. Lo strumento è stato progettato per essere capace di elaborare gli spettri prodotti dallo spettrografo di ultima generazione Moons (Multi Object Optical and Near-infrared Spectrograph), che verrà installato nei prossimi mesi al Very Large Telescope dell’Eso, in Cile.
Michele Ginolfi, astrofisico dell’università di Firenze. Crediti: Inaf
Ma cosa c’è di veramente nuovo in questo strumento di intelligenza artificiale? Lo abbiamo chiesto a Michele Ginolfi dell’Università di Firenze, alla guida dello studio.
In cosa si distingue M-Topnet dai metodi standard di machine learning?
«I metodi standard per analizzare gli spettri di galassie si basano principalmente sul confronto con modelli teorici o template preesistenti, cercando il miglior match. Questi metodi funzionano, ma hanno dei limiti: sono lenti, richiedono una grandissima quantità di informazioni e tendono a perdere precisione con dati di bassa qualità o quando le caratteristiche spettrali non sono ben definite. Il nostro metodo, invece, sfrutta una rete neurale artificiale molto flessibile che, una volta addestrata, è in grado di imparare direttamente dai dati come collegare lo spettro osservato alle proprietà fisiche della galassia. Ciò che lo rende speciale è che, per il redshift, non fornisce un singolo valore, ma una distribuzione di probabilità: una sorta di “mappa” che mostra quanto siamo sicuri delle diverse possibili soluzioni».
Cosa si intende per apprendimento multi-task?
«Si tratta di un approccio in cui un modello di intelligenza artificiale viene addestrato per svolgere più compiti contemporaneamente, anziché uno solo. Questo approccio ha diversi vantaggi: i compiti sono connessi tra loro, quindi le informazioni che il modello impara da uno possono aiutare a migliorare le predizioni sugli altri. Compiti principali come la stima del redshift sono affiancati da funzioni ausiliarie, come l’identificazione delle linee spettrali. Questi compiti secondari aiutano il modello a costruire una rappresentazione interna più completa dei dati, che non solo migliora le prestazioni nei compiti principali, ma rende il modello più robusto e capace di generalizzare meglio. Pensiamo alla cucina: se vuoi diventare un maestro nel preparare primi piatti spettacolari, probabilmente non andresti a una scuola che insegna solo primi piatti. Preferiresti piuttosto un corso di cucina completa su come preparare primi, secondi, dolci e altro, perché in questo modo impareresti in modo più versatile e generale tecniche che sono comuni ai diversi tipi di piatti, come dosare il sale, gestire i tempi di cottura o abbinare i sapori».
Definite il vostro modello diverso da una delle solite “scatole nere”. Cosa significa?
«Le reti neurali artificiali spesso vengono definite “black box” perché è difficile capire cosa avviene al loro interno: sappiamo cosa entra e cosa esce, ma non sempre riusciamo a interpretare come si arriva a certe conclusioni. Nel nostro caso, però, non è proprio così. Analizzando lo spazio latente – cioè le rappresentazioni interne che la rete costruisce per interpretare i dati – siamo riusciti a individuare una struttura ben precisa, che riflette alcune proprietà fisiche delle galassie, incluse alcune mai mostrate al modello durante l’addestramento. Un esempio? La rete distingue spontaneamente tra galassie passive ed attive, una caratteristica che non era parte del processo di apprendimento. È come se la rete avesse imparato da sola a identificare nuovi pattern e simmetrie nei dati, suggerendo informazioni emergenti. Questo non solo rende la pipeline più interpretabile, ma apre anche la strada a nuove scoperte».
Mi scusi, cosa è una pipeline?
«Per pipeline intendiamo una sequenza organizzata di passaggi, o fasi, che i dati attraversano per essere analizzati e trasformati. Nel nostro caso, la pipeline parte dallo spettro della galassia e, tramite vari passaggi di elaborazione, stima alcune proprietà fisiche della galassia stessa. È come una “catena di montaggio” del dato: ogni passaggio è progettato per aggiungere informazioni o raffinare il risultato finale».
It’s my pleasure to introduce the M-TOPnet (Multi-Task network Outputting Probabilities) pipeline to you“Measuring redshift and galaxy properties via a multi-task neural net with probabilistic outputs: an application to simulated MOONS spectra”t.co/AlgCLXhAyu pic.twitter.com/cE1Gay6uTm
— Michele Ginolfi (@micginolfi) October 31, 2024
In cosa la vostra pipeline è diversa, per esempio, da ChatGpt, che ci risulta già più familiare?
«ChatGpt è un modello generativo multi-modale, progettato per comprendere e generare testo e immagini appartenenti a un dominio molto ampio e generale. Il nostro modello, invece, è specializzato nell’affrontare un compito più mirato in un dominio più specifico: misurare le proprietà fisiche delle galassie a partire dai loro spettri. A differenza di ChatGpt, non si limita a produrre una risposta “diretta”, ma ci fa sapere quando non è convinto di un risultato. È interessante notare che modelli simili a ChatGpt stanno iniziando a emergere anche in astronomia, e saranno capaci di trattare dati complessi come testo, immagini e spettri, integrandoli per nuove analisi. Ne vedremo delle belle!».
Come fate a capire se le risposte fornite dal vostro modello sono affidabili?
«Questo è proprio uno degli aspetti più innovativi della nostra pipeline. Grazie a un approccio probabilistico integrato, il nostro modello tiene conto sia delle incertezze nei dati (aleatorie) sia di quelle legate alla rete neurale stessa (epistemiche). Così, possiamo non solo fare previsioni accurate, ma anche capire quanto possiamo fidarci di esse. L’aspetto dell’incertezza associata alla misura è particolarmente cruciale per dati complessi come gli spettri di galassie. Ad esempio, abbiamo osservato che quando la predizione è sbagliata – magari perché il segnale è troppo debole e nascosto nel rumore, oppure perché lo spettro non presenta righe di emissione – il modello offre tante soluzioni diverse, mostrando una grande incertezza. Questo è particolarmente utile perché ci permette di identificare i casi “senza speranza” e dire: meglio per ora non considerare una stima poco affidabile, e aspettare osservazioni più profonde per migliorare la qualità dei dati».
Però esistono già modelli che associano ai parametri richiesti anche un’incertezza. In che modo possiamo dire che il vostro lavoro sia ancora più innovativo?
«È vero, per esempio il lavoro di Nils Candebat, Germano Sacco e altri colleghi dell’Inaf di Arcetri associa l’incertezza a un modello di machine learning, ma lo fa in modo diverso. Il loro approccio utilizza reti neurali invertibili, che permettono di fare un’inferenza simile a quella bayesiana in modo naturale, ed è particolarmente efficace per certi tipi di predizioni. Il nostro metodo, invece, è più specializzato nella stima del redshift, che richiede una precisione estrema e spesso può presentare più di una soluzione possibile. Da qualche mese stiamo collaborando tutti insieme – io, Germano Sacco, Francesco Belfiore e i nostri collaboratori più giovani – su progetti che vanno proprio in questa direzione. Grazie a diverse pubblicazioni recenti e ai progetti in corso, l’Osservatorio di Arcetri sta diventando un nodo importante nello sviluppo di metodi di machine learning per l’astrofisica capaci di gestire bene le incertezze nelle predizioni, un aspetto cruciale per il nostro campo».
Lo spettrografo ottico e infrarosso Moons, destinato al Very Large Telescope dell’Eso, in Cile (illustrazione artistica). Crediti: Eso
Perché avete scelto proprio Moons per testare questo strumento?
«Moons è uno strumento rivoluzionario, progettato per raccogliere dati spettroscopici di altissima qualità su un numero enorme di galassie – quasi mezzo milione – coprendo un’ampia gamma di redshift. Grazie alla sua combinazione di sensibilità, alta risoluzione spettrale e capacità di osservare contemporaneamente molti oggetti, Moons sarà fondamentale per studiare l’evoluzione delle galassie in momenti cruciali della storia dell’universo, come l’epoca del “mezzogiorno cosmico”, quando l’universo aveva circa la metà della sua età attuale. La sua copertura spettrale, che si estende fino al vicino infrarosso, consente inoltre di accedere a diagnostiche essenziali per analizzare proprietà come il tasso di formazione stellare, la massa stellare e la metallicità, anche in galassie lontane e deboli. Un aspetto fondamentale è che per Moons disponiamo di dati simulati estremamente realistici, scrupolosamente preparati dai miei colleghi. Questi dati ci permettono di addestrare e testare il nostro modello con precisione, preparandoci al meglio per l’arrivo dei dati reali. Il nostro tool può anche supportare la definizione di strategie osservative ottimali, massimizzando l’efficienza del prezioso tempo osservativo che scienziati e scienziate avranno a disposizione con Moons. Ci tengo a sottolineare che questo lavoro è frutto di uno sforzo corale: dalla generazione dei dati per l’addestramento del modello, alla progettazione della rete neurale, fino all’interpretazione dei risultati, ogni fase è stata possibile grazie a un lavoro di squadra».
In che modo ritiene che il machine learning cambierà il lavoro dell’astrofisico o si integrerà con questo?
«Il lavoro dell’astrofisico sta già subendo la stessa trasformazione che coinvolge molte altre discipline scientifiche. Pensiamo al metodo galileiano: esso si basa sull’interconnessione tra osservazione, ipotesi ed esperimento. Tradizionalmente, al centro di questo ciclo c’è sempre stato l’essere umano, l’osservatore. Con l’intelligenza artificiale, però, non è più solo il cervello umano a guidare questo processo, ma siamo affiancati anche da “cervelli digitali”.
Questi strumenti possono aiutarci in due modi principali: ottimizzando e velocizzando processi già noti, e rivelando schemi e relazioni nascoste nei dati. Quest’ultimo punto è particolarmente interessante, perché non solo ci permette di gestire meglio la crescente complessità dei dati, ma può anche suggerire nuove ipotesi, aprendo la strada a scoperte inaspettate.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Measuring redshift and galaxy properties via a multi-task neural net with probabilistic outputs: An application to simulated MOONS spectra”, di Michele Ginolfi, Filippo Mannucci, Francesco Belfiore, Alessandro Marconi, Nicholas Boardman, Lucia Pozzetti, Micol Bolzonella, Enrico Di Teodoro, Giovanni Cresci, Vivienne Wild, Myriam Rodrigues, Roberto Maiolino, Michele Cirasuolo ed Ernesto Oliva
Stella binaria attorno al buco nero centrale
Un’equipe internazionale di ricercatori ha scoperto una stella binaria in orbita vicino a Sagittarius A*, il buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia. È la prima volta che una coppia di stelle viene trovata nelle vicinanze di un buco nero supermassiccio. La scoperta, basata sui dati raccolti dal Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (l’Osservatorio europeo australe), ci aiuta a capire come le stelle sopravvivano in ambienti con gravità estrema e potrebbe aprire la strada alla scoperta di pianeti vicino a Sagittarius A*.
L’immagine indica la posizione della stella binaria D9, appena scoperta, che orbita attorno a Sagittarius A*, il buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia. Si tratta della prima coppia di stelle mai trovata vicino a un buco nero supermassiccio. Il ritaglio mostra il sistema binario rilevato dallo spettrografo Sinfoni del Very Large Telescope dell’Eso. Sebbene in questa immagine le due stelle non siano distinguibili separatamente, la natura binaria di D9 è stata rivelata dagli spettri acquisiti da Sinfoni nel corso di diversi anni. Questi spettri hanno mostrato che la luce emessa dall’idrogeno gassoso intorno a D9 oscilla periodicamente verso le lunghezze d’onda del rosso e del blu mentre le due stelle orbitano l’una intorno all’altra. Crediti: Eso/F. Peißker et al., S. Guisard
«I buchi neri non sono così distruttivi come pensavamo», dice Florian Peißker, ricercatore all’Università di Colonia, in Germania, e autore principale dello studio pubblicato oggi su Nature Communications. Le stelle binarie, coppie di stelle in orbita l’una attorno all’altra, sono molto comuni nell’universo, ma non erano mai state trovate prima vicino a un buco nero supermassiccio, dove l’intensa gravità può rendere instabile il sistema stellare.
Questa nuova scoperta dimostra che alcune stelle binarie possono prosperare brevemente, anche in condizioni distruttive. D9, come viene chiamata la stella binaria appena scoperta, è stata rivelata appena in tempo: si stima che abbia solo 2,7 milioni di anni e la forte forza gravitazionale del buco nero lì vicino probabilmente la farà fondere in un’unica stella prima di appena un milione di anni, un lasso di tempo molto breve per un sistema così giovane.
«Abbiamo solo una breve finestra, sulle scale temporali cosmiche, per osservare un tale sistema binario, e ci siamo riusciti», esulta la coautrice Emma Bordier, anch’essa ricercatrice all’Università di Colonia ed ex studentessa all’Eso.
Per molti anni, gli scienziati hanno anche pensato che l’ambiente estremo vicino a un buco nero supermassiccio impedisse la formazione di nuove stelle. Diverse giovani stelle trovate in prossimità di Sagittarius A* hanno smentito questa ipotesi. La scoperta della giovane stella binaria ora mostra che anche le coppie di stelle possono formarsi in queste condizioni difficili. «Il sistema D9 mostra chiari segni della presenza di gas e polvere attorno alle stelle, il che suggerisce che potrebbe trattarsi di un sistema stellare molto giovane che deve essersi formato nelle vicinanze del buco nero supermassiccio», spiega il coautore Michal Zajaček, ricercatore all’Università Masaryk, Repubblica Ceca, e all’Università di Colonia.
Questa immagine mostra una linea di emissione dell’idrogeno mappata dallo strumento SInfoni del Very Large Telescope dell’Eso. Crediti: Eso/F. Peißker et al.
La binaria appena scoperta è stata trovata in un denso ammasso di stelle e altri oggetti in orbita intorno a Sagittarius A*, chiamato ammasso S. I più enigmatici in questo ammasso sono gli oggetti G, che si comportano come stelle ma sembrano nubi di gas e polvere.
È stato durante le osservazioni di questi misteriosi oggetti che il gruppo ha trovato uno schema sorprendente in D9. I dati ottenuti con lo strumento Eris del Vlt, combinati con i dati di archivio dello strumento Sinfoni, hanno rivelato variazioni ricorrenti nella velocità della stella, indicando che D9 era in realtà composta da due stelle in orbita l’una attorno all’altra. «Pensavo che la mia analisi fosse sbagliata», spiega Peißker, «ma lo schema spettroscopico si ripeteva per circa 15 anni ed era quindi chiaro che questa scoperta fosse effettivamente la prima binaria osservata nell’ammasso S».
I risultati gettano nuova luce su cosa potrebbero essere i misteriosi oggetti G. L’equipe suggerisce che potrebbero in realtà essere una combinazione di stelle binarie che non si sono ancora fuse con il materiale rimanente di stelle già fuse.
La natura precisa di molti degli oggetti in orbita intorno a Sagittarius A*, così come il modo in cui potrebbero essersi formati così vicini al buco nero supermassiccio, rimane un mistero. Ma presto Gravity+, lo strumento aggiornato per l’interferometro del Vlt (Vlti), e lo strumento Metis sull’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso, in costruzione in Cile, potrebbero cambiare le cose. Entrambi gli strumenti consentiranno all’equipe di effettuare osservazioni ancora più dettagliate del centro galattico, svelando la natura degli oggetti già noti e scoprendo senza dubbio altre stelle binarie e sistemi giovani. «La nostra scoperta ci consente di fare ipotesi sulla presenza di pianeti, poiché questi si formano spesso attorno a stelle giovani. Sembra plausibile che la rivelazione di pianeti nel centro galattico sia solo questione di tempo», conclude Peißker.
Fonte: comunicato stampa Eso
Sorvegliati spaziali, anche quest’anno su Rai Gulp
Martedì 17 dicembre, alle 19.35, torna su Rai Gulp “Meteo Spazio”, il programma di divulgazione astronomica di Rai Kids dedicato ai ragazzi (8-14 anni), ma in grado di coinvolgere anche un pubblico più adulto. Il programma vede la partecipazione dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf(.
In questa nuova stagione, Riccardo Cresci, comandante dell’astronave Star Gulp, riprenderà la sua emozionante esplorazione dello spazio con un nuovo itinerario cosmico: esplorare pianeti, stelle, lune e asteroidi alla ricerca di un corpo celeste abitabile.
Le trenta puntate di questa edizione, ognuna da nove minuti circa, saranno registrate nello studio virtuale del Centro di produzione di Torino con il supporto scientifico del progetto Sorvegliati spaziali dell’Inaf, dedicato alla divulgazione della difesa planetaria.
Anche quest’anno Daria Guidetti dell’Inaf – Istituto di radioastronomia, referente di Sorvegliati spaziali, sarà consulente scientifica del programma, per il quale produrrà anche videopillole di approfondimento su ogni tema trattato. Paolo Romano e Lidia Contarino, entrambi dell’Inaf – Osservatorio astrofisico di Catania e membri del team di Sorvegliati spaziali, forniranno aggiornamenti settimanali sull’attività solare per garantire che la navicella Star Gulp possa evitare i pericoli dovuti a radiazioni e flussi di particelle troppo intensi durante il suo viaggio. Collaborerà al programma anche la giovane divulgatrice scientifica Linda Raimondo.
«Sono estremamente soddisfatta che Sorvegliati spaziali sia stato nuovamente coinvolto in questo programma, dopo il successo della scorsa edizione», dice Daria Guidetti. «In un panorama televisivo dove i programmi di divulgazione scientifica, e in particolare quelli dedicati all’astronomia, sono ancora troppo pochi, è un privilegio poter contribuire con un progetto pensato soprattutto per i ragazzi. Quello che rende questa esperienza ancora più speciale è che, durante la scorsa edizione, ho ricevuto feedback positivi anche da tanti nonni e adulti che hanno seguito le puntate insieme ai più giovani».
«Siamo grati a Rai Kids», aggiunge Guidetti, «per la fiducia che ha dimostrato nei confronti del nostro lavoro e per il grande apprezzamento ricevuto. Siamo dunque ancor più motivati a continuare con entusiasmo e dedizione su questa strada».
«Le osservazioni della fotosfera e della cromosfera solare, effettuate con il telescopio di Catania, e i dati delle missioni spaziali sulla corona solare ci permettono di monitorare l’attività del Sole», spiega Paolo Romano, «e quindi analizzare le regioni attive solari, i brillamenti e le condizioni della corona, per fornire informazioni precise e aggiornate sugli effetti che questi fenomeni possono avere sull’ambiente spaziale e sulla Terra. Per “Meteo Spazio” facciamo un passo in più: traduciamo le informazioni ottenute in una narrazione più accessibile e appassionante per i più giovani, e che si inserisca nel contesto di ogni puntata, rendendo in tal modo il nostro contributo ancora più gratificante».
Non resta dunque che sintonizzarsi su Rai Gulp ogni martedì alle 19:35 per seguire questa nuova stagione, nata per i ragazzi ma che piace anche ai più grandi. E se doveste perdere un episodio, niente paura: tutte le puntate saranno sempre disponibili su RaiPlay pronte per essere guardate quando e dove volete.
Guarda il reel di presentazione con Daria Guidetti:
Materia oscura nell’inflazione calda
Gabriele Montefalcone (foto fornita dall’intervistato)
Non sappiamo che cos’è. Non abbiamo la più pallida idea di coma sia fatta. E a dirla tutta non siamo nemmeno così sicuri che esista veramente. Parliamo di quegli inaccessibili quattro quinti di materia che gli stessi fisici definiscono oscura. Della sua natura non conosciamo nulla. Ma gli scienziati non si lasciano scoraggiare per così poco. E continuano a sfornare ipotesi e modelli. Ipotesi e modelli in grado di spiegare, per esempio, quando si possa essere formata. Uno tra gli scenari più suggestivi è stato pubblicato il mese scorso su Physical Review Letters e colloca l’epoca della comparsa della materia oscura nell’universo addirittura – ora chiariremo in che senso – prima del Big Bang.
Lo scenario è ben riassunto dal titolo dell’articolo: produzione di materia oscura durante l’inflazione calda attraverso il freeze-in. E a formularlo sono tre fisici teorici del Weinberg Institute for Theoretical Physics dell’Università del Texas a Austin, negli Stati Uniti: Katherine Freese, Barmak Shams Es Haghi e un ventisettenne romano laureato a Princeton: Gabriele Montefalcone. Nel suo caso, l’etichetta di fisico teorico sta un po’ stretta, e ve ne potete rendere conto anche solo cercando il suo nome in rete: le prime immagini che escono mostrano tutte un giovane atleta alto e muscoloso intento a correre i 400 ostacoli.
Montefalcone, è sempre lei? Il fisico teorico e il campione sportivo?
«Sì, sono sempre io, anche se non so ancora per quanto tempo. Negli ultimi anni ho corso a livello professionale, ho partecipato a varie competizioni internazionali, e nel 2023 anche ai mondiali universitari. Ero anche in preparazione per le Olimpiadi, per andare a Parigi».
Poi cos’è successo?
«Purtroppo ho un problema cronico al piede sinistro che mi dà fastidio ormai da sette anni e che proprio l’anno scorso ha deciso di mollarmi. La voglia di correre e spingermi oltre i miei limiti è ancora forte, ma considerando i miei altri obiettivi professionali e personali, non so se sia più fattibile; per ora mi sto prendendo del tempo per riflettere. Fortunatamente, ho sempre avuto il desiderio di coniugare la carriera sportiva con lo studio, e gli Stati Uniti mi hanno dato la possibilità di realizzare entrambi».
Gabriele Montefalcone (foto fornita dall’intervistato)
E si è così trovato, tra un ostacolo e l’altro, ad affrontare anche questo ostacolo non piccolo dell’origine della materia oscura. Chiariamo anzitutto un dubbio terminologico che viene a tutti noi quando leggiamo che potrebbe essersi formata prima del Big Bang: per voi fisici teorici il Big Bang – che per noi profani è l’inizio di tutto – viene subito dopo l’inflazione, è così? Per quale motivo?
«Il termine ‘Big Bang’, scientificamente, si riferisce a uno stato iniziale in cui tutte le particelle dell’universo erano in equilibrio termico a una temperatura molto elevata, e da lì in poi l’universo si espande. Quindi si identifica l’inflazione prima del Big Bang perché durante l’inflazione non c’è questa radiazione e l’inflazione è il meccanismo che sostanzialmente spiega e produce le condizioni iniziali che osserviamo nel Big Bang. In questo senso, lo distinguiamo da ciò che comunemente viene inteso come Big Bang, ovvero la singolarità iniziale».
Diciamo dunque che se volessimo disegnarne la timeline la sequenza sarebbe: singolarità, inflazione, Big Bang e infine l’espansione. È corretto?
«Sì, perché inizialmente il Big Bang veniva concepito come qualcosa che arrivava fino alla singolarità, anche se parlare di temperatura o di qualsiasi altra proprietà alla singolarità non ha realmente senso. Quindi quando si parlava della teoria del Big Bang si arrivava fino a un certo punto e si diceva: bene, qui ho tutte le particelle in equilibrio termico. L’inflazione, in questo contesto, può essere vista come una sorta di “ponte” tra la singolarità e il Big Bang».
Ed è in questa brevissima fase di rapidissima espansione, culminata con il Big Bang, che secondo il vostro modello si sarebbe formata la materia oscura. Gli altri modelli ritengono invece che sia comparsa più tardi?
«Occorre una premessa: noi stiamo utilizzando una classe di modelli di inflazione specifica, una grande classe di modelli chiamata warm inflation, “inflazione calda”. L’idea di inflazione originale, quella standard, che potremmo chiamare “inflazione fredda”, prevede che ci sia una particella, l’inflatone, che causa un’accelerazione quasi esponenziale dell’universo. Una volta che l’inflatone ha perso sufficiente energia, ecco che inizia a decadere. L’inflazione si interrompe, nel senso che il periodo di espansione accelerata si conclude. E l’inflatone decade in tutte le altre particelle che formano la materia standard. Un processo, questo, che viene chiamato reheating. In pratica, ci sono due fasi principali: inizialmente l’universo si espande in modo quasi esponenziale, che è ciò che ti garantisce di arrivare a un universo omogeneo e piatto. Ma fino a questo punto non c’è dentro niente, quindi occorre far decadere l’inflatone e produrre tutto il resto. Ciò pone però un problema: se l’inflatone produce tutte le particelle, deve necessariamente esistere un’interazione tra l’inflatone e le particelle stesse. Quindi uno si potrebbe chiedere: è possibile che mentre espando produco queste particelle? La risposta è sì, ma nel caso standard – quello dell’inflazione fredda – questa produzione è così lenta da risultare inutile, nel senso che l’espansione è talmente grande che nella mia piccola regione d’universo rimango senza niente».
Mentre invece con la vostra classe di modelli, quella dell’inflazione calda, che succede?
«L’inflazione calda prevede che ci sia un’interazione tale da rendere possibile – durante la stessa inflazione – mantenere una densità di radiazione sufficiente. Ovviamente, questa interazione non può essere dominante, perché altrimenti l’espansione dell’universo non sarebbe possibile. Perché l’universo si espanda, infatti, è necessario che l’energia totale sia principalmente associata all’inflatone. Ma se l’inflatone, mentre espande, decade a sufficienza, si può arrivare a una sorta d’equilibrio – e questo è stato dimostrato dai teorici dell’inflazione calda – tale da mantenere una temperatura, diciamo. Si chiama inflazione calda proprio per questo: prevede che già in quell’epoca l’universo abbia una temperatura, mentre nel caso dell’inflazione fredda non l’avrebbe».
E quale problema risolve, un modello basato sull’inflazione calda?
«Il vantaggio è che se le cose stanno così non c’è più bisogno della fase di reheating di cui parlavamo prima. Possiamo addirittura immaginare che, a un certo punto, l’energia dell’inflatone venga completamente espressa nella radiazione, dando così luogo a una sorta di transizione continua: si scivolerebbe, cioè, dal regno dell’inflatone, dov’era lui a dominare, a quello della radiazione, senza la necessità di un secondo passaggio».
Prima però ci diceva che i modelli più standard, quelli più sviluppati, sono quelli dell’inflazione fredda. Perché quella calda è rimasta più, diciamo, di nicchia?
«Perché dal punto di vista teorico, di costruzione dei modelli, è rimasta a lungo molto più complessa. Solo da pochi anni, nel 2016, si è arrivati a un modello d’inflazione calda gestibile, diciamo. Poi nel 2019 ne è stato sviluppato un altro ancora più interessante. Insomma è solo nell’ultima decina d’anni che ha iniziato a diffondersi un po’ di più fra gli addetti ai lavori».
Inflazione calda, dunque. Durante la quale si sarebbe prodotta una quantità di materia non più insignificante rispetto all’espansione ma significativa – sufficiente a spiegare quel che vediamo oggi. Anche materia oscura?
«La risposta breve è sì. Prima però occorre mettersi d’accordo su come si produce la materia oscura. È una domanda che ci siamo posti ormai circa sessant’anni fa, e il modello originario è quello che viene chiamato di freeze out. È il meccanismo che ha motivato la ricerca di materia oscura negli esperimenti che ci sono tutt’oggi, anche in Italia. Quello che prevede, molto in breve, è che all’inizio la materia oscura sia in equilibrio con tutto il resto. Ci sono le particelle standard e ci sono quelle di materia oscura. E si può fare proprio un calcolo: se hai una determinata interazione e una determinata massa, a un certo punto, man mano che l’universo si espande, quando il rate d’interazione diventa minore del rate d’espansione ecco che tu, particella, non interagisci più. Da qui il freeze out: mentre le particelle continuano a interagire, il loro numero può variare, ma una volta che le interazioni cessano, l’abbondanza delle particelle è fissata – praticamente non parli più con nessuno. Nel modello standard, le prime particelle che fanno freeze out sono i neutrini: avendo un’interazione piccolissima, non passa nemmeno un secondo dal Big Bang che subito iniziano a viaggiare senza parlare più con nessuno».
E la materia oscura quando avrebbe fatto freeze out?
«Se ipotizziamo che anche la materia oscura si sia formata così, puoi farti un conto: sai quanta ne hai oggi, perché più o meno abbiamo un’idea di quanta ce ne debba essere, e puoi calcolare quale dovrebbe essere l’interazione con il modello standard, e dunque la massa. Sono i calcoli che hanno portato a ipotizzare che dovesse essere una particella che interagiva con la weak force e avere una massa attorno ai 100 GeV. Calcoli che hanno motivato esperimenti come quelli al Gran Sasso per la ricerca delle wimps, insomma».
Che però non sono mai state trovate…
«Purtroppo non ancora, nonostante oramai i trent’anni di ricerche. Ecco allora che i fisici hanno iniziato a chiedersi se potessero esserci altre possibilità – sempre sperando che ci sia una qualche interazione tra questa materia oscura e quella ordinaria, perché se non c’è il gioco è finito, o diventa veramente duro, diciamo. Un’altra possibilità c’è, ed è che l’interazione sia molto più piccola di quanto si pensasse. Molto più piccola, in particolare, di quella che occorre per arrivare al freeze out: sufficientemente piccola da far sì che non ci sia mai equilibrio termico tra la materia oscura e il modello standard».
Secondo il modello descritto nell’articolo su Physical Review Letters, le particelle di materia oscura (punti neri) hanno iniziato a formarsi quando l’universo si è espanso rapidamente durante un periodo chiamato inflazione cosmica, poco prima del Big Bang. Crediti: Gabriele Montefalcone
E dunque quando avverrebbe la sua formazione?
«Be’, anzitutto assumiamo che all’inizio non ci sia la materia oscura, c’è soltanto il modello standard. Se c’è un’interazione piccolissima, la materia oscura viene prodotta da questa interazione. Perché per esempio può accadere, anche se raramente, che due particelle di modello standard si annichiliscano in materia oscura. Ma l’opposto non accadrà mai. Ecco così che pian piano produci materia oscura: è il processo che chiamiamo freeze in. Uno scenario molto semplice, che parte da una piccolissima interazione e pian piano arriva all’abbondanza di materia oscura che osserviamo».
Arriviamo ora al vostro scenario: questo processo di freeze in che ci ha appena descritto come si intreccia con l’inflazione calda?
«Proviamo a chiederci: e se non fosse vero che all’inizio, diversamente da quanto assunto prima, non c’è abbondanza di materia oscura? È possibile? Nel modello d’inflazione calda che ho descritto prima, ricordiamocelo, c’è anche la radiazione. C’è già prima del Big Bang. E se questa radiazione ha una anche minima interazione con la materia oscura, non possiamo più escludere che possa produrla. Certo, a dominare sarebbe sempre l’inflatone, con un piccolo residuo di radiazione. E a sua volta una porzione minima della radiazione diventerebbe materia oscura. Insomma, la conclusione alla quale arriviamo è che ci sia un’inflazione calda, e durante quest’inflazione calda avvenga una qualsiasi piccola interazione tra la radiazione e la materia oscura, come previsto dal meccanismo del freeze in: ecco così che di materia oscura se ne produrrà già durante l’inflazione. E se ne produrrà un bel po’».
Affascinante. C’è modo di sottoporlo a verifica, questo scenario? Sperimentalmente, intendo? È che a questo punto la natura della materia oscura mi sembra ancora più oscura delle Wimps…
«È senz’altro molto difficile. Purtroppo, nella ricerca della materia oscura, siamo arrivati a una situazione in cui abbiamo una classe di modelli che possiamo sottoporre a sperimentazione, ma sono molto circoscritti rispetto ai modelli che ci siamo nel frattempo inventati, che abbiamo postulato. La cosa che però trovo interessante del nostro modello è che qualche possibilità di verifica c’è. Prevedendo interazioni così lievi con la materia standard, i modelli di freeze in sono praticamente impossibili da verificare, almeno per i prossimi 20-30 anni. Ma nel nostro caso verrebbe tutto prodotto durante l’inflazione, dunque è prevista una connessione tra l’inflatone e la materia oscura. Ciò significa che future osservazioni che ci aiutino a determinare il modello di inflazione ci daranno anche un po’ d’informazione su questa materia oscura. In questo senso potremmo avere possibilità sperimentali, per quanto indirette, nei prossimi dieci anni».
Come? Cosa dovrebbe accadere nei prossimi dieci anni?
«Se siamo fortunati avremo nuove informazioni, sia dall’osservazione della radiazione cosmica di fondo che dalle grandi survey di galassie, su due elementi relativi all’inflazione. Anzitutto, quante onde gravitazionali primordiali sono state prodotte, dall’inflazione. Secondo elemento, l’ammontare di non gaussianità nello spettro di queste perturbazioni. Detto altrimenti, l’inflazione calda ha una smoking gun, una firma abbastanza peculiare: una quantità ridottissima – sostanzialmente nulla – di onde gravitazionali primordiali, che dunque non dovremmo vedere, e allo stesso tempo dovrebbe avere non gaussianità abbastanza elevate nello spettro di perturbazione. Quindi se nel prossimo decennio noi riuscissimo a osservare queste non gaussianità e, al tempo stesso, non trovassimo traccia di onde gravitazionali primordiali, secondo me ci troveremmo davanti a un’evidenza abbastanza significativa della possibilità che ci sia effettivamente stata un’inflazione calda».
E quali fra i telescopi in costruzione potrebbero portare a queste osservazioni? Poiché parliamo di onde gravitazionali primordiali, immagino non si riferisca a Lisa o all’Einstein Telescope, giusto?
«No, quelli lavorano a frequenze totalmente diverse. Penso anzitutto a una missione spaziale come LiteBird, ma anche, da terra, al Simon Observatory e a Cmb-S4, il cui obiettivo scientifico principale è proprio la misura della cosiddetta tensor-to-scalar ratio, dunque delle onde gravitazionali primordiali».
Per saperne di più:
- Leggi su Physicsal Review Letters l’articolo “Dark Matter Production during Warm Inflation via Freeze-In”, di Katherine Freese, Gabriele Montefalcone e Barmak Shams Es Haghi
Dischi protoplanetari: una volta duravano di più
Quando l’universo era giovane i dischi protoplanetari duravano più a lungo di quanto finora previsto dai modelli. Questa la scoperta pubblicata oggi su The Astrophysical Journal da un team internazionale di scienziati guidato da Guido De Marchi dell’Agenzia spaziale europea. I dati che hanno permesso di raggiungere questo risultato sono stati raccolti dal James Webb Space Telescope (Jwst) e risolvono un enigma lungo più di vent’anni, iniziato con osservazioni raccolte dal telescopio spaziale Hubble.
Rappresentazione artistica di un disco protoplanetario. Crediti: Gemini Observatory/Aura; autrice Lynette Cook
Già nel 2003 Hubble aveva trovato prove del fatto che potessero esistere pianeti in orbita attorno a stelle molto vecchie, così vecchie da possedere solo piccole quantità di elementi pesanti, ritenuti necessari per la formazione dei pianeti. Questo ha aperto il campo alla possibilità di formare pianeti anche quando l’universo era molto giovane. Oltre vent’anni dopo, grazie al telescopio James Webb, i ricercatori hanno potuto osservare in dettaglio Ngc 346, una regione di formazione stellare massiccia nella Piccola Nube di Magellano che contiene una piccola quantità di elementi pesanti, proprio come l’universo da giovane. Non soltanto alcune stelle mostrano la presenza di dischi protoplanetari, ma questi dischi hanno un’età maggiore rispetto a quelli osservati attorno alle stelle giovani della Via Lattea.
Katia Biazzo, ricercatrice all’Inaf di Roma e coautrice dello studio pubblicato su ApJ
Dunque l’intuizione di Hubble è confermata da Jwst, ed è necessario ripensare ai modelli di formazione planetaria, così come a quelli che spiegano le prime fasi evolutive nell’universo giovane.
«Le stelle che si sono formate nell’universo primordiale avevano a disposizione principalmente gli elementi più leggeri della tavola periodica, idrogeno ed elio, e pochi elementi più pesanti. Finora eravamo convinti che con questa composizione i dischi protoplanetari dovessero sopravvivere per un tempo breve, meno di pochi milioni di anni, e che questo non avrebbe permesso ai pianeti di formarsi», dice una delle autrici dello studio, Katia Biazzo dell’Inaf di Roma. «Il dubbio sorto con le prime osservazioni di Hubble ci ha portato a puntare di nuovo sulla Piccola Nube di Magellano con il Jwst, concentrandoci su Ngc 346, un laboratorio perfetto per la formazione di stelle in un ambiente povero di elementi pesanti. Grazie a precedenti osservazioni con Hubble, sospettavamo che lì avremmo trovato stelle di circa 20-30 milioni di anni di età con dischi protoplanetari che le circondavano».
Secondo quanto osservato nella nostra galassia e quanto previsto dai modelli, questi dischi dovrebbero dissiparsi al massimo nell’arco di pochi milioni di anni, ma in assenza di informazioni spettroscopiche non era possibile stabilire con certezza che quelle stelle avessero effettivamente attorno a loro un disco protoplanetario. Ora, grazie alla sensibilità di Jwst, è stato possibile ottenere i primi dati spettroscopici di stelle in formazione simili al Sole e del loro ambiente circostante in una galassia vicina alla Via Lattea. I risultati confermano che queste stelle, nonostante l’ambiente povero di elementi pesanti e un’età “avanzata” di circa 20-30 milioni di anni, hanno effettivamente dei dischi che le circondano. Questo significa che i pianeti hanno più tempo per formarsi attorno a queste stelle rispetto alle regioni di formazione stellare nella nostra galassia.
I ricercatori propongono due meccanismi per l’esistenza e la sopravvivenza di dischi protoplanetari in ambienti poveri di elementi pesanti: da un lato è probabile che alla stella occorra più tempo del previsto per spazzare via il disco con il suo vento, proprio a causa dell’assenza di elementi più pesanti, che renderebbero più efficace il vento stesso; dall’altra è possibile che per formare una stella simile al Sole in un ambiente povero di elementi pesanti occorra una nube di gas più grande, che dunque produrrà un disco di dimensioni maggiori, che avrebbe bisogno di più tempo per essere disperso. È anche possibile che la spiegazione sia una combinazione di entrambi i processi fisici proposti: solo nuovi dati e nuovi risultati potranno aiutarci a distinguere tra questi scenari.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Sun-like stars take longer to form when the metallicity is low” di De Marchi G., Giardino G., Biazzo K., Panagia N., Sabbi E., Beck T. L., Robberto M., Zeidler P., Jones O. C., Meixner M., Fahrion K., Habel N., Nally C., Hirschauer A. S., Soderblom D. R., Nayak O., Lenkic L., Rogers C., Brandl B. e Keyes C. D.
Giornata dello spazio, tutti gli eventi Inaf
Lancio del satellite San Marco 1 della base americana di Wallops Island il 15 dicembre 1964
L’Italia dello spazio spegne 60 candeline: era infatti il 15 dicembre 1964 quando venne lanciato il primo satellite artificiale italiano, il San Marco 1, facendo del nostro paese il terzo al mondo – dopo Unione Sovietica e Stati Uniti – a mettere in orbita un satellite artificiale interamente realizzato a livello nazionale. Ideato dal “padre“ dell’astronautica italiana Luigi Broglio, il San Marco 1 era una sfera di 66 centimetri per 115 chilogrammi in grado di misurare la densità dell’alta atmosfera in modo continuo e con una precisione mai raggiunta prima grazie a una bilancia inerziale, la ‘bilancia Broglio’; a bordo c’era anche un altro esperimento per investigare le proprietà della ionosfera. Dopo il lancio, dalla base statunitense di Wallops Island con un razzo Scout della Nasa, il satellite rimase in orbita per nove mesi, rientrando il 14 settembre 1965.
Per celebrare questo importante traguardo, nel 2021 la Presidenza del Consiglio dei ministri ha istituito la Giornata nazionale dello spazio, di cui oggi ricorre la quarta edizione. Obiettivo principale della giornata è quello di sensibilizzare e informare la cittadinanza sui contributi che la scienza e la tecnologia applicate allo spazio apportano alla qualità della vita sulla Terra per l’umanità in termini di crescita, benessere, immagine e ruolo sul piano globale del Paese.
Tra le iniziative di questa giornata, si è svolta oggi alle 11 a Montecitorio la cerimonia di consegna del Premio Luigi Broglio, istituito quest’anno dalla Camera dei Deputati e dall’Agenzia spaziale italiana (Asi) per ricordare le tre componenti chiave dello storico progetto San Marco: i satelliti, il sistema di lancio e la scienza.
Marco Tavani, presidente Inaf dal 2020 al 2024
Il prestigioso riconoscimento è stato conferito al professor Marco Tavani, già presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), per i risultati scientifici della missione spaziale tutta italiana Agile, di cui è stato principal investigator. Satellite Asi dedicato all’astrofisica delle alte energie lanciato nel 2007, Agile è stato operativo fino allo scorso febbraio studiando raggi cosmici, pulsar, supernove e molto altro. Tra i premiati anche il professor Ugo Ponzi, per gli sviluppi dei satelliti San Marco 1 e 2, per la realizzazione della bilancia e per aver vissuto integralmente l’epoca del progetto San Marco, e la professoressa Amalia Ercoli Finzi, per la sua attività scientifica, testimonianza e divulgazione delle scienze spaziali.
Dal passato al futuro, una diretta online organizzata da Asi, Inaf e l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) celebra oggi una nuova, importante missione che porta avanti la lunga e gloriosa tradizione nazionale della scienza dello spazio: Euclid, satellite dell’Agenzia spaziale europea dal forte contributo italiano, lanciato nel 2023 per studiare la materia oscura e l’energia oscura, due componenti misteriose che dominano l’universo. Partecipano alla diretta Chiara Sirignano, professoressa all’Università di Padova e ricercatrice Infn, Barbara Negri, vice-direttrice della Direzione scienza e innovazione di Asi, e Roberto Scaramella, ricercatore Inaf e responsabile della survey all’interno del consorzio Euclid. Per saperne di più su questa straordinaria impresa e su come potrebbe cambiare la nostra comprensione del cosmo, basta sintonizzarsi sui canali YouTube di Asi Tv, Media Inaf e Infn lunedì 16 dicembre, ore 17.30.
Locandina dell’evento del 16 dicembre
In occasione della Giornata nazionale dello spazio, l’Inaf apre inoltre le porte della sua sede centrale, la quattrocentesca Villa Mellini a due passi dal centro di Roma, per offrire al pubblico un viaggio suggestivo nel cuore dell’astronomia direttamente da uno dei luoghi più affascinanti della Capitale. Il programma prevede la visita al Museo astronomico e Copernicano, seguita da un’esplorazione della torre solare, osservazioni del cielo al telescopio (meteo permettendo) e un incontro con ricercatrici e ricercatori Inaf coinvolti nei molteplici ambiti di ricerca dell’ente, comprese le missioni spaziali per comprendere sempre più a fondo il nostro posto nell’universo.
Lo scorso 12 dicembre, sempre nell’ambito delle celebrazioni per la Giornata nazionale dello spazio, si è tenuto un evento internazionale dedicato al ruolo dell’Italia nel settore spaziale presso l’Ambasciata d’Italia a Washington D.C. L’evento, organizzato in collaborazione con Ice – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, l’Agenzia spaziale italiana, la Nasa, l’Istituto nazionale di astrofisica e la U.S. Space Foundation, ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Mark Clampin, direttore della Divisione astrofisica della Nasa, e Roberto Ragazzoni, presidente Inaf.
Segui la diretta Euclid: una finestra sull’universo oscuro sul canale YouTube di Media Inaf:
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Webb vede gli asteroidi più piccoli mai rivelati
Osservavano il sistema planetario intorno alla stella Trappist-1 gli astronomi Artem Burdanov e Julien de Wit quando è venuta loro un’idea. Che nulla aveva a che vedere con i sette pianeti rocciosi scoperti attorno alla debole stella rossa tra il 2016 e il 2017. Per chi non è interessato alle loro caratteristiche, gli asteroidi rappresentano dei fastidiosissimi contaminanti delle immagini astronomiche, specialmente se state osservando dei corpi celesti prossimi al piano dell’eclittica. Noiose macchie che mutano di domicilio nella successione di pose che immortalano una sorgente astronomica di interesse. Artefici di seccanti “persistenze“, ovvero strascichi di segnale spurio nei pixel delle vostre immagini, se siete un astronomo che indaga i flebili segnali prodotti dalle galassie all’inizio dei tempi e avete la sventura che la vostra osservazione sia stata programmata subito dopo quella di un asteroide, o in generale di qualche sorgente brillante. Che lascerà la sua impronta indesiderata sui vostri tanto attesi dati e a voi l’onere non banale di rimuoverla, prima di abbozzare anche la minima considerazione scientifica rispetto alla galassia lontana che con tanto ardore desideravate studiare. Come talvolta capita nella vita e un evento inizialmente funesto può rivelarsi provvidenziale, allo stesso modo, se letti sotto una luce inconsueta, gli elementi indesiderati di un’osservazione astronomica possono rivelarsi portatori di inopinate scoperte.
Illustrazione che mostra il telescopio alla ricerca di piccoli asteroidi nella Fascia principale che brillano nella luce infrarossa. Crediti: E. Maru e J. de Wit
Questo è più o meno ciò che è accaduto a Burdanov e de Wit quando hanno deciso di sfruttare i dati pensati per cercare le atmosfere degli esopianeti più prossimi a Trappist-1 per indagare i loro inquilini non graditi: gli asteroidi. Centotrentotto ne hanno scoperti, di asteroidi capitati per caso nelle immagini e che mai erano stati catalogati, e che fanno parte della Fascia principale degli asteroidi, quella regione situata tra Marte e Giove che pullula di corpi celesti rocciosi, relitti della formazione del Sistema solare.
La straordinarietà della scoperta, che è valsa la pubblicazione su Nature della ricerca, presentata in un articolo uscito questa settimana, sta nelle piccole dimensioni degli stessi, tutti entro alcune decine di metri. Si tratta di «uno spazio nuovo, finora inesplorato», come affermato da Burdanov, primo autore dello studio, scienziato al Department of Earth, Atmospheric and Planetary Science del Mit, in Massachusetts. Per fare un confronto, l’asteroide che annientò i dinosauri e la maggior parte delle specie viventi 65 milioni di anni fa era grosso una decina di chilometri. Impatti con oggetti come quello sono catastrofici ma piuttosto improbabili, ne capiterebbe uno ogni qualche centinaio di milioni di anni. Gli asteroidi scoperti da Burdanov e collaboratori, invece, collidono col nostro pianeta con frequenza molto maggiore, in quanto possono più facilmente abbandonare la Fascia principale per diventare near-Earth objects (Neos), oggetti che si avvicinano pericolosamente al nostro pianeta. Asteroidi di questo tipo sono quello che rase al suolo milioni di alberi nella regione di Tunguska, in Siberia, nel 1908, o quello, più recente, che squarciò nel 2013 i cieli di Čeljabinsk, sempre in Russia, ferendo quasi millecinquecento persone e danneggiando oltre settemila edifici. Fino ad ora gli asteroidi più piccoli conosciuti avevano dimensioni da circa un chilometro fino a qualche centinaio di metri. «Eravamo in grado di rivelare i Neos fino alle dimensioni di dieci metri quando sono molto vicini alla Terra. Adesso abbiamo un modo per stanarli quando sono molto più lontani, così possiamo tracciarne più accuratamente le orbite, il che è cruciale per la difesa del pianeta», dice Burdanov.
La scoperta è stata realizzata combinando oltre diecimila immagini di Trappist-1 ottenute con il James Webb Space Telescope, che è sensibile alla luce infrarossa. Questa regione dello spettro elettromagnetico è particolarmente favorevole per lo studio degli asteroidi, in quanto essi risultano più brillanti a queste lunghezze d’onda che nella luce visibile. Gli scienziati stanno discutendo anche la possibile origine di questi piccoli corpi celesti. «Pensavamo che avremmo rivelato solo pochi oggetti sconosciuti, ma ne abbiamo trovati molti di più di quelli che ci aspettavamo, soprattutto quelli più piccoli», dice de Wit, secondo autore dello studio. «È la prova che stiamo esplorando una popolazione nuova, nella quale si formano molti più piccoli oggetti attraverso cascate di collisioni, molto efficienti nel disgregare gli asteroidi in pezzi sotto il centinaio di metri.» Dagli scontri di corpi più grandi deriverebbero dunque gli insidiosi frammenti, potenzialmente rischiosi per il nostro pianeta.
Lo scorso anno, sempre grazie a Webb, era stato osservato un asteroide grosso più o meno quanto il Colosseo, dunque più grande rispetto ai protagonisti dello studio, sempre nella Fascia principale. Anche all’epoca l’asteroide venne stanato durante le osservazioni di un altro oggetto. Osservazioni che non erano neppure andate a buon fine a causa di alcuni problemi tecnici, a testimoniare che pure con le osservazioni fallite di Webb si può fare della scienza «se si ha la giusta mentalità e un pizzico di fortuna», come ebbe a dire Thomas Müller, uno degli autori dello studio. Quello dello scorso anno e il lavoro di Burdanov e collaboratori offrono un magnifico esempio degli usi inaspettati del telescopio Webb e, come conclude il primo autore, «di ciò che possiamo fare quando guardiamo i dati in maniera differente. Qualche volta c’è una grossa ricompensa, e questa è una di quelle volte.»
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “JWST sighting of decameter main-belt asteroids and view on meteorite sources” di A. Y. Burdanov, J. de Wit, M. Brož, T. G. Müller, T. Hoffmann, M. Ferrais, M. Micheli, E. Jehin, D. Parrott, S. N. Hasler, R. P. Binzel, E. Ducrot, L. Kreidberg, M. Gillon, T. P. Greene, W. M. Grundy, T. Kareta, P. Lagage, N. Moskovitz, A. Thirouin, C. A. Thomas e S. Zieba
Il mistero delle dark comet si infittisce
media.inaf.it/2024/12/13/dark-…
Nel 2023 Davide Farnocchia (Jet Propulsion Laboratory), con un paper sull’asteroide main-belt (523599) 2003 RM, e contemporaneamente Darryl Seligman (Cornell University), con un paper su altri sei asteroidi (“Dark Comets? Unexpectedly Large Nongravitational Accelerations on a Sample of Small Asteroids)”, hanno introdotto una nuova categoria di asteroidi attivi: le “comete oscure” (o dark comets). Si tratta di corpi minori che si muovono su orbite simili a quelle degli asteroidi, non mostrano chiome rilevabili (da qui il soprannome di “oscure”), ma sperimentano accelerazioni non-gravitazionali fuori dal piano orbitale che non sono coerenti con effetti radiativi, quindi non possono essere attribuite alla pressione della radiazione solare oppure all’effetto Yarkovsky.
Farnocchia e Seligman hanno dimostrato che un processo di degassamento è coerente sia con le accelerazioni osservate, sia con la mancata osservazione delle chiome: in pratica si tratta di comete con un’attività molto bassa, rilevabile solo attraverso l’orbita che devia da quella calcolata tenendo conto solo della forza di gravità del Sole e delle perturbazioni planetarie. In un certo senso il prototipo delle comete oscure è stato ‘Oumuamua, il primo oggetto interstellare ad essere scoperto, nel 2017. Oltre alle loro accelerazioni non-gravitazionali e all’assenza della chioma, le comete oscure mostrano altre proprietà: sono generalmente piccoli corpi con diametri dell’ordine di 10-100 metri che ruotano rapidamente attorno al proprio asse con periodi di 0,05-2 ore (però i periodi di rotazione sono noti solo per una frazione minoritaria della popolazione) e le accelerazioni sono dirette al di fuori del piano dell’orbita. Secondo uno studio pubblicato l’estate scorsa da un team guidato da Aster Taylor, l’ipotesi più plausibile sull’origine delle comete oscure è che siano il risultato finale di un processo a cascata di frammentazioni rotazionali per effetto dell’outgasing, il che sarebbe coerente con le loro proprietà fisiche note.
Questo disegno mostra uno dei possibili aspetti dell’oggetto interstellare 1I/2017 U1 (‘Oumuamua). Anche se non si tratta di una cometa oscura, l’accelerazione non-gravitazionale di ‘Oumuamua ha aiutato i ricercatori a comprendere meglio la natura delle 14 dark comet finora scoperte. Crediti: European Southern Observatory/M. Kornmesser.
Fino a poco tempo fa gli oggetti noti di questa nuovissima categoria di corpi minori erano solo sette: (523599) 2003 RM, 1998 KY26, 2005 VL1, 2016 NJ33, 2010 VL65, 2006 RH120, e 2010 RF12. Finora non sono pervenute al Minor Planet Center segnalazioni di attività cometaria per nessuno di questi piccoli corpi e sono quindi tutti classificati come asteroidi.
In un articolo di Darryl Seligman e colleghi pubblicato questa settimana su Pnas viene ora riportata la scoperta di accelerazioni non-gravitazionali per altri sette oggetti classificati come inattivi, ma che in realtà non rispettano la legge di Newton della gravitazione. In pratica è stata raddoppiata la popolazione delle comete oscure conosciute. Fra queste nuove dark comet ci sono gli asteroidi main-belt (150177) 1998 FR e (208316) 2001 ME. Una ricerca dettagliata sui dati d’archivio delle survey non ha permesso di rilevare alcuna attività d’emissione di polvere in nessuno di questi asteroidi, sia in immagini singole o su somme di immagini, quindi si tratta di dark comet a pieno titolo.
Analizzando la riflettività (che insieme al valore della magnitudine assoluta permette di stimare le dimensioni) e le orbite di tutta la popolazione nota delle dark comet, è stato così scoperto che nel Sistema Solare ci sono due diversi tipi di comete oscure. Il primo tipo, chiamano delle comete oscure esterne, ha caratteristiche simili alle comete della famiglia di Giove: hanno orbite altamente eccentriche e dimensioni pari o superiori alle centinaia di metri. Il secondo gruppo invece, quello delle comete oscure interne, risiede nel Sistema solare interno (che include Mercurio, Venere, Terra e Marte), i membri si muovono su orbite quasi circolari e hanno dimensioni più piccole rispetto al gruppo esterno, con diametri dell’ordine delle decine di metri o meno.
Come tante scoperte astronomiche, le ricerche di Seligman e Farnocchia non solo ampliano la nostra conoscenza sulle comete oscure, ma sollevano anche diverse domande: da dove hanno avuto origine? Cosa causa la loro accelerazione non-gravitazionale? Potrebbero contenere ghiaccio? Questi oggetti potrebbero rappresentare le diverse fasi del ciclo di vita di una popolazione di corpi minori ricca di materiali volatili, non rilevata in precedenza ma potenzialmente numerosa, che miliardi di anni fa potrebbe aver fornito materiale essenziale per lo sviluppo della vita sulla Terra. La vita operativa della sonda Hayabusa2 della Jaxa, reduce dell’invio sulla Terra dei campioni dell’asteroide Ryugu, esplorerà la dark comet 1998 KY26 nel luglio 2031. Si tratta di un asteroide near-Earth su un’orbita di tipo Apollo con un diametro di circa 30 metri e un periodo di rotazione di quasi 11 minuti: che cosa troverà Hayabusa2? Non lo sappiamo, ma il mondo dei corpi minori è sempre ricco di sorprese.
Per saperne di più:
- Leggi su PNAS l’articolo “Two distinct populations of dark comets delineated by orbits and sizes”, Darryl Z. Seligman, Davide Farnocchia, Marco Micheli e Karen J. Meech
Brillamento di luce gamma nel getto di M87
La collaborazione scientifica internazionale Event Horizon Telescope (Eht), che nel 2019 aveva pubblicato la prima “foto” di un buco nero, quello supermassiccio al centro della galassia Messier 87 (denominato M87*), ha recentemente osservato e studiato a diverse lunghezze d’onda uno spettacolare brillamento (flare in inglese) proveniente dal potente getto relativistico al centro della stessa galassia, la più luminosa dell’ammasso della Vergine. Lo studio – coordinato dal gruppo di ricerca Eht-Mwl, che include anche l’Università di Trieste, l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e l’Agenzia spaziale ialiana (Asi) – presenta i dati della seconda campagna osservativa di Eht, realizzata nell’aprile del 2018 che ha coinvolto oltre 25 telescopi terrestri e in orbita. Nello studio gli autori riportano la prima osservazione in oltre un decennio di un brillamento di raggi gamma ad altissime energie – fino a migliaia di miliardi di elettronvolt – da M87* dopo aver ottenuto quasi in simultanea gli spettri della galassia con il più ampio intervallo di lunghezze d’onda finora raccolti. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
Curva di luce del brillamento a raggi gamma (in basso) e raccolta di immagini quasi-simultaneee del getto di M87 (in alto) a varie scale ottenute in radio e raggi X durante la campagna del 2018. Lo strumento, la lunghezza d’onda di osservazione e la scala sono mostrati in alto a sinistra di ogni immagine. Crediti: Eht Collaboration, Fermi-Lat Collaboration, Hess Collaboration, Magic Collaboration, Veritas Collaboration, Eavn Collaboration
«Siamo stati fortunati a rilevare un brillamento di raggi gamma da M87* durante la campagna multi-lunghezza d’onda dell’Event Horizon Telescope. Questo è il primo episodio di brillamento di raggi gamma in questa sorgente dal 2010. Le osservazioni, comprese quelle eseguite con un’infrastruttura più sensibile nel 2021 e 2022, così come quelle pianificate per i prossimi anni, ci offriranno ulteriori approfondimenti e un’incredibile opportunità per investigare la fisica attorno al buco nero supermassiccio M87*, spiegando la connessione tra il disco di accrescimento e il getto emesso, nonché l’origine e i meccanismi responsabili dell’emissione di fotoni di raggi gamma», commenta Giacomo Principe, responsabile del progetto, ricercatore dell’Università di Trieste, associato Inaf e Infn.
Il brillamento energetico, durato circa tre giorni, ha rivelato che l’emissione era sbilanciata verso energie più elevate di quelle tipiche emesse dal buco nero di M87. «Insieme alle osservazioni sub-millimetriche dell’Eht, i nuovi dati raccolti in molteplici bande di radiazione offrono un’opportunità unica per comprendere le proprietà della regione di emissione di raggi gamma, collegarla a potenziali cambiamenti nel getto di M87 e consentire test più sensibili sulla relatività generale», sottolinea Principe.
Spingendo materiale ad altissima energia al di fuori della galassia ospite, il getto relativistico esaminato dai ricercatori e dalle ricercatrici ha un’estensione sorprendente arrivando a dimensioni che superano quelle dell’orizzonte degli eventi del buco nero per decine di milioni di volte: come dire la differenza che c’è in termini di dimensioni tra un batterio e la più grande balenottera azzurra conosciuta.
Gli osservatori e i telescopi che hanno partecipato alla campagna multibanda del 2018 per la rilevazione del brillamento di raggi gamma ad alte energie dal buco nero M87*. Crediti: Eht Collaboration, Fermi-Lat Collaboration, Hess Collaboration, Magic Collaboration, Veritas Collaboration, Eavn Collaboration
Tra i telescopi coinvolti nella campagna troviamo Fermi (con lo strumento Lat), NuStar, Chandra e Swift della Nasa, e i tre più grandi apparati di telescopi Iact (Imaging Atmospheric Cherenkov Telescope) per astronomia a raggi gamma di altissima energia da terra (Hess, Magic e Veritas), con i quali è stato possibile osservare e studiare le caratteristiche di durata ed emissione del brillamento ad alta energia.
«Fermi-Lat ha rivelato un aumento notevole di flusso nello stesso periodo degli altri osservatori», dice Elisabetta Cavazzuti, responsabile del programma Fermi per l’Asi, «contribuendo a cercare di identificare la zona di emissione dei raggi gamma durante questi aumenti di luminosità. M87 è un laboratorio che ci dimostra ancora una volta l’importanza di avere osservazioni coordinate a più lunghezze d’onda e anche ben campionate per caratterizzare pienamente la variabilità spettrale della sorgente, variabilità che probabilmente si estende su diverse scale temporali, con una visione il più possibile completa attraverso tutto lo spettro elettromagnetico».
Dati di elevata qualità sono stati poi raccolti nella banda dei raggi X da Chandra e NuStar. Le osservazioni radio Vlba (Very Long Baseline Array), per le quali sono state coinvolte anche le stazioni radioastronomiche dell’Inaf, presentano un chiaro cambiamento, su base annuale, dell’angolo di posizione del getto entro pochi milliarcosecondi dal nucleo della galassia.
«In particolare», continua Principe, «questi risultati offrono la prima possibilità in assoluto di identificare il punto in cui vengono accelerate le particelle che causano il brillamento, il che potrebbe potenzialmente risolvere un dibattito di lunga data sull’origine dei raggi cosmici (particelle ad altissima energia provenienti dallo spazio) rilevati sulla Terra».
Brillamento a raggi gamma ad altissima energia osservato dai telescopi Cherenkov (Hess, Magic e Veritas). Crediti: Eht Collaboration, Fermi-Lat Collaboration, Hess Collaboration, Magic Collaboration, Veritas Collaboration, Eavn Collaboration
I dati pubblicati nell’articolo mostrano anche una variazione significativa nell’angolo di posizione dell’asimmetria dell’anello (il cosiddetto “orizzonte degli eventi” del buco nero), così come nella posizione del getto, rivelando connessioni tra queste strutture su scale dimensionali molto diverse. «Nella prima immagine durante la compagna osservativa del 2018», ricorda Principe, «si era visto che questo anello non era omogeneo, presentava quindi delle asimmetrie (cioè delle zone più brillanti). Le successive osservazioni condotte nel 2018 e legate a questa pubblicazione scientifica hanno confermato i dati evidenziando però che l’angolo di posizione dell’asimmetria era cambiato».
«Come e dove le particelle vengono accelerate nei getti del buco nero supermassiccio è un mistero di lunga data. Per la prima volta possiamo combinare l’imaging diretto delle regioni vicine all’orizzonte degli eventi di un buco nero durante i brillamenti di raggi gamma derivanti da eventi di accelerazione delle particelle, e possiamo testare le teorie sulle origini dei brillamenti stessi», dice Sera Markoff, all’Università di Amsterdam e co-autrice dello studio.
«Queste osservazioni», conclude Principe, possono far luce su alcuni principali quesiti dell’astrofisica tuttora ancora irrisolti: come sono originati i potenti getti relativistici che vengono osservati in alcune galassie? Dove vengono accelerate le particelle responsabili dell’emissione dei raggi gamma? Quale fenomeno le accelera fino a energie del TeV? Qual è l’origine dei raggi cosmici?».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Broadband Multi-wavelength Properties of M87 during the 2018 EHT Campaign including a Very High Energy Flaring Episode”, di Event Horizon Telescope – Multi-wavelength science working group, Event Horizon Telescope Collaboration, Fermi Large Area Telescope Collaboration, H.E.S.S. Collaboration, Magic Collaboration, Veritas Collaboration, Eavn Collaboration
Niente oceano di magma liquido per Io
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Rappresentazione artistica della struttura interna di Io, una luna di Giove e il più interno dei quattro satelliti medicei. I dati della sonda Juno della Nasa suggeriscono che Io non possieda un oceano di magma globale e poco profondo, ma sia coerente con un mantello prevalentemente solido (toni verdi), con una fusione sostanziale (gialli e arancioni) sovrastante un nucleo liquido (rosso/nero). Crediti: Nasa/Caltech-Jpl/SwRI
Sotto la superficie di Io, il terzo satellite di Giove per grandezza, non c’è un oceano di magma liquido come si era pensato fino a oggi, ma un mantello quasi solido. A rivelarlo è uno studio pubblicato su Nature, guidato da Ryan Park del Jet Propulsion Laboratory della Nasa, al quale hanno preso parte anche numerosi ricercatori dell’Università di Bologna, della Sapienza Università di Roma e dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). Il risultato si basa sia sui dati storici della missione Galileo che su quelli emersi da due recenti sorvoli ravvicinati della missione Juno, insieme a una serie di osservazioni astrometriche.
«I due sorvoli ravvicinati di Io sono stati progettati come parte della missione estesa di Juno proprio per determinare se su questo satellite esistesse effettivamente un oceano globale di magma», spiega Marco Zannoni del Dipartimento di ingegneria industriale dell’Università di Bologna. «I risultati ottenuti mostrano che non è così: una scoperta che non solo rivoluziona la comprensione della struttura interna di Io, ma offre anche nuovi spunti per interpretare l’evoluzione geologica di questi tipi di corpi celesti».
Simile alla nostra Luna per dimensioni e massa, Io è un satellite unico nel sistema di Giove grazie alla sua intensa attività vulcanica, che lo rende l’oggetto geologicamente più attivo del Sistema solare. Questo fenomeno è alimentato dall’enorme attrazione gravitazionale di Giove lungo l’orbita eccentrica di Io.
Per decenni si è creduto che l’influsso di Giove fosse sufficiente a “sciogliere” l’interno di Io, creando così un oceano di magma sotto la sua superficie. Una teoria, questa, che trovava riscontro anche nelle osservazioni realizzate della missione Galileo, la sonda della Nasa che tra il 1995 e il 2003 ha esplorato il sistema di Giove. Basandosi su misure di induzione magnetica, i dati raccolti da Galileo avevano infatti suggerito la presenza di un oceano di magma su Io.
A ribaltare questo scenario sono però ora le nuove osservazioni realizzate da Juno, la sonda della Nasa che ha sostituito Galileo e che dal 2016 sta esplorando Giove e le sue lune. Juno ha sorvolato per due volte Io a circa 1500 chilometri di altitudine, raccogliendo dati con una precisione di un ordine di grandezza superiore rispetto a quelli della missione Galileo.
«Abbiamo compreso quali sono le modalità con cui il riscaldamento mareale influenza l’interno di una luna come Io, con implicazioni anche per la storia passata della luna terrestre», dice uno dei coautori dell’articolo, Alessandro Mura, ricercatore dell’Inaf di Roma e coordinatore scientifico dello strumento Jiram a bordo della sonda Juno. «Il risultato pubblicato oggi su Nature smentisce l’ipotesi che l’attività vulcanica di Io sia alimentata da un oceano globale di magma e dimostra che le forze mareali non creano universalmente oceani di magma globali, nemmeno su esopianeti e super-Terre dove tali strutture erano state ipotizzate».
I dati raccolti indicano insomma che l’ipotizzato oceano di magma globale non esiste. Al contrario, le nuove stime sono coerenti con la presenza di un mantello quasi solido sotto la superficie di Io.
«Dopo quasi vent’anni dalla fine della missione Galileo, senza ulteriori dati in situ, la sonda Juno ha fornito gli ultimi elementi necessari per confermare questo risultato», conclude Luis Gomez Casajus, ricercatore al Dipartimento di ingegneria industriale dell’Università di Bologna. «Non possiamo ancora escludere completamente la presenza di un oceano di magma, che sarebbe però a questo punto a una profondità di circa 500 chilometri, molto più simile al cosiddetto oceano di magma basale ipotizzato per la Terra, piuttosto che a un oceano di magma superficiale».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Io’s tidal response precludes a shallow magma ocean”, di R. S. Park, R. A. Jacobson, L. Gomez Casajus, F. Nimmo, A. I. Ermakov, J. T. Keane, W. B. McKinnon, D. J. Stevenson, R. Akiba, B. Idini, D. R. Buccino, A. Magnanini, M. Parisi, P. Tortora, M. Zannoni, A. Mura, D. Durante, L. Iess, J. E. P. Connerney, S. M. Levin e S. J. Bolton
Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
Scintillare di lucciole all’alba dell’universo
Com’era la nostra galassia appena nata? Un biografo della Via Lattea che ne volesse ricostruire il volto e la storia sin dai primissimi istanti di vita si troverebbe in seria difficoltà: non esiste infatti un album fotografico al quale attingere, né un testimone pronto a raccontare. Gli astronomi che si cimentano in quest’impresa sono dunque costretti a ricorrere a un escamotage: sfruttare quella meravigliosa macchina del tempo che ci mette a disposizione la finitezza della velocità della luce per cercare galassie simili alla nostra ma molto distanti da noi, e dunque collocate là dove l’universo era ancora giovanissimo.
La galassia Firefly Sparkle e le sue due piccole compagne. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, Chris Willott (Nrc-Canada), Lamiya Mowla (Wellesley College), Kartheik Iyer (Columbia)
È ciò che è riuscito a fare ora un team guidato da Lamiya Mowla del Wellesley College (Usa) puntando il telescopio spaziale James Webb verso una remota galassia – osservata per la prima volta con il telescopio spaziale Hubble – che si è formata quando l’universo aveva circa 600 milioni di anni. Una galassia dal nome evocativo, Firefly Sparkle, dovuto all’emissione luminosa dei suoi ammassi stellari, che ricorda quella degli insetti bioluminescenti e che potremmo tradurre come “scintillare di lucciole”. Ed è proprio la fievolezza della luce emessa da questa galassia – fioca quanto possono esserlo, appunto, i tenui bagliori prodotti da una lucciola in una notte di inizio estate – a renderla idonea più di altre a rappresentare la Via Lattea neonata. Di galassie già presenti all’epoca di cui stiamo parlando ne conosciamo infatti parecchie, ma sono perlopiù molto grandi e luminose. Troppo grandi e luminose rispetto a quel che doveva essere la nostra galassia alla loro età. Firefly Sparkle è diversa: con una massa stellare pari a circa dieci milioni di volte quella del Sole, è grande più o meno quanto gli astronomi stimano fosse la Via Lattea in origine.
I dieci ammassi stellari risolti all’interno della galassia Firefly Sparkle. Fonte: L. Mowla et al. 2024/arXiv:2402.08696
Non è un caso se Firefly Sparkle è fra le poche galassie così piccole a essere state osservate in dettaglio in epoche così remote. L’enorme distanza spaziotemporale che la separa da noi – misurata in redshift analizzandone lo spettro si trova a z= 8,296 – rende praticamente impossibile coglierne la debole luce. Per riuscirci, e per arrivare addirittura a distinguerne i dettagli, nemmeno Webb sarebbe stato sufficiente: è stata solo la fortunata presenza lungo la linea di vista di una lente gravitazionale a consentire il successo dell’impresa, riportata oggi su Nature.
Sotto lo sguardo senza rivali di Webb e della lente gravitazionale insieme, ecco così che Firefly Sparkle si è rivelata essere anzitutto non da sola bensì accompagnata da due piccole galassie vicine, battezzate da Mowla e colleghi “la migliore amica di Firefly” e “la nuova migliore amica di Firefly” (Firefly-Best Friend e Firefly-New Best Friend), situate rispettivamente a 6mila e 40mila anni luce da Firefly Sparkle, vale a dire meno delle dimensioni che ha la Via Lattea oggi. Non meno interessante, poi, anche al fine di ricostruire la possibile storia della Via Lattea, è che è stato possibile distinguere gli ammassi stellari al suo interno: gli astronomi ne hanno osservati dieci, per una massa totale, come dicevamo, pari a circa dieci milioni di volte quella del Sole. Questo fa di Firefly Sparkle, fra quelle osservate in un’epoca così remota, una delle galassie con la massa più bassa – simile appunto a quella che poteva avere la Via Lattea – per le quali sia stato possibile distinguere gli ammassi stellari.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Formation of a low-mass galaxy from star clusters in a 600-million-year-old Universe”, di Lamiya Mowla, Kartheik Iyer, Yoshihisa Asada, Guillaume Desprez, Vivian Yun Yan Tan, Nicholas Martis, Ghassan Sarrouh, Victoria Strait, Roberto Abraham, Maruša Bradač, Gabriel Brammer, Adam Muzzin, Camilla Pacifici, Swara Ravindranath, Marcin Sawicki, Chris Willott, Vince Estrada-Carpenter, Nusrath Jahan, Gaël Noirot, Jasleen Matharu, Gregor Rihtaršič e Johannes Zabl
Sara Lucatello protagonista di “The Women Era”
È Sara Lucatello la donna scelta per aprire la nuova serie The Women Era, prodotta e realizzata da Freeda e disponibile su Prime Video. Un viaggio per l’Italia in cui due conduttrici, Lucrezia Milillo, antropologa e dottoranda all’università St. Andrews, e Diletta Begali, content creator, globetrotter e attrice, incontrano cinque donne che stanno “guidando la storia del nostro paese”, nei settori più disparati: incontreranno una paracadutista e stuntwoman di fama internazionale, un’imprenditrice nel settore tessile della seta, la prima comandante donna di barche da diporto, una giovane guida parco, e un’astrofisica. Noi di Media Inaf abbiamo quindi guardato la serie, e abbiamo raggiunto Sara Lucatello, ricercatrice dell’Inaf di Padova e prima presidente donna della European Astronomical Society (Eas), per saperne di più.
Sara, com’è nata questa occasione? Come sei stata contattata?
«Il primo contatto è stato via email, nei primi mesi del 2024, dall’agenzia di produzione, Freeda. Sono seguiti un paio di colloqui telefonici conoscitivi, durante i quali ho parlato con gli autori, che poi hanno scelto le donne che sono state protagoniste della serie».
A sinistra, la cover di “Il soffitto di cristallo”, primo episodio della serie “The Women Era”. A destra, Sara Lucatello, astronoma dell’Inaf di Padova, presidente della European Astronomical Society (crediti per la foto: Riccardo Bonuccelli/Inaf)
E poi com’è andata? Come sono state le giornate di ripresa?
«È stata un’esperienza interessante, diversa da come me l’aspettavo. Le giornate di riprese sono state due in primavera inoltrata, una a Padova e una ad Asiago (dove si trovano alcuni telescopi dell’Inaf, ndr), entrambe a tempo pieno. In video nella puntata mi si vede per meno di 15 minuti, ma le riprese effettive sono state di almeno 10 ore, più preparazioni, spostamenti, foto e molte, molte attese. Nel senso che Diletta, Lucrezia, io e una parte dello staff attendevamo mentre i cameramen e i tecnici del suono effettuavano riprese di background».
Cosa significa per te essere stata scelta fra le cinque donne che guidano la storia del nostro paese? In cosa senti di poter dare l’esempio?
«Sono parole lusinghiere, ma certamente eccessive. Quello che mi auguro, nel mio piccolo, è di poter essere un esempio positivo, soprattutto per le giovani donne, per perseguire le loro aspirazioni con determinazione».
Hai guardato la puntata quando è uscita? Ti è piaciuta?
«Sicuramente la produzione ha fatto un ottimo lavoro!»
Cosa ne pensi in generale di questo progetto? Chi sarebbe importante che lo vedesse, a tuo avviso?
«È interessante e realizzato da professionisti di ottimo livello. Si propone di veicolare un messaggio importante, anche se ovviamente in tempi così ristretti è difficile approfondire i contenuti. La disponibilità su una delle piattaforme più importanti lo rende accessibile al pubblico generalista e anche ai più giovani, che tendono a preferire l’on-demand rispetto alla televisione. Spero che proprio loro lo guardino, e magari possano anche trarne uno spunto per riflettere sul ruolo della donna nella società’ ed in generale sulle tematiche di genere».
Guarda il trailer di “The Women Era” sul canale YouTube di Freeda:
L’Eso ha detto sì: Soxs è pronto per il Cile
Ntt, il telescopio all’Osservatorio di La Silla dell’Eso, in Cile, sul quale verrà installato lo spettrografo Soxs. Crediti: Eso
Semaforo verde per Soxs, il futuro “cacciatore di transienti” destinato al New Technology Telescope (Ntt) dell’Eso, lo European Southern Observatory, in Cile. Progettato per studiare sorgenti transienti e variabili del cielo, dalle comete alle stelle variabili nella nostra galassia fino alle supernove o ai lampi di luce gamma ai confini dell’universo, Soxs – acronimo di Son of X-Shooter, dal nome di un altro strumento dell’Eso – è uno spettrografo a banda larga (copre l’intervallo fra i 300 e i 2000 nm) e media risoluzione estremamente flessibile: consente di cambiare il programma osservativo nel giro di pochi minuti e in qualunque momento, permettendo così di rispondere in tempo reale alle sfide che il cielo proporrà ogni notte, e di studiare quindi gli oggetti con più rapida variabilità.
Progettato e realizzato da un consorzio internazionale guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (che contribuisce a metà del progetto, essendo responsabile del braccio infrarosso dello spettrografo, dei rivelatori, della criogenia e dell’integrazione), con un diametro di 170 cm per 776 kg di peso, Soxs ha ottenuto venerdì scorso dall’Eso, al termine di una minuziosa ispezione, il permesso formale a essere inviato in Cile: una sorta di “via libera alla spedizione” detta in gergo ‘Pae’.
«Nella costruzione di uno strumento per l’Eso», spiega Media Inaf il principal investigator di Soxs, Sergio Campana dell’Istituto nazionale di astrofisca, «la cosiddetta Pae – sigla che sta per Preliminary Acceptance in Europe – ricopre un ruolo fondamentale: è infatti l’ultima occasione che ha l’Eso, che nel tempo diventerà proprietario dello strumento, per verificare che sia funzionante e pronto ad essere attaccato al proprio telescopio. È un po’ come quando si affitta una macchina: prima di prenderla verifichi bene che tutto sia completamente in ordine. Proprio per questo la Pae è un processo lungo: per Soxs è iniziato a giugno 2024, ed è terminato venerdì 6 dicembre a Padova con l’approvazione. Pae granted!».
In primo piano, lo strumento Soxs. Dietro, da sinistra: Roberto Ragazzoni (presidente Inaf), Pietro Schipani (Inaf, project manager di Soxs), Kalyan Radhakrishnan (Inaf, deputy system engineer di Soxs) e Frédéric Derie (capo delegazione dell’Eso)
«Pur essendo un importante traguardo», continua Campana, «ancora molto lavoro resta da fare. Abbiamo già iniziato a smontare e impacchettare Soxs, non per regalarlo ma appunto per spedirlo in Cile, all’inizio del nuovo anno. Poi andrà (ri)montato al New Technology Telescope di La Silla, attorno febbraio-marzo 2025, infine seguiranno tre intensi periodi di commissioning in cui si guarderà il cielo e si calibrerà e caratterizzerà lo strumento».
Quando Soxs sarà pienamente operativo, il consorzio dovrà coordinare le operazioni e preparare ogni notte il programma delle osservazioni. Le sorgenti verranno selezionate in modo dinamico, senza limitazioni, in modo da assecondare al meglio l’aleatorietà del cielo e massimizzare il ritorno scientifico dello strumento.
Per saperne di più:
Protagonisti della scienza: la top ten di Nature
Sono appena stati annunciati i nomi delle dieci persone che secondo Nature più hanno contribuito a dare forma e sostanza la scienza nel 2024. Persone che insieme ai colleghi, spiega la rivista britannica, hanno contribuito a scoperte straordinarie, certo, ma anche a portare la dovuta attenzione su questioni cruciali della contemporaneità.
Due sono quelle più strettamente legate all’astronomia: il geologo planetario cinese Li Chunlai e l’astrofisica canadese Wendy Freedman – ora vedremo perché proprio loro. Prima però vale la pena passare in rapida rassegna gli altri otto nomi. Il servizio di apertura spetta a Ekkehard Peik, fisico dell’istituto di metrologia tedesco, per i suoi studi sugli orologi nucleari – in particolare sull’impiego del nucleo del torio-229 – promettente alternativa agli ormai classici orologi atomici, in quanto molto più precisi. Huji Xu e Placide Mbala sono stati scelti per le loro scoperte, rispettivamente, sull’impiego delle cellule Car-T nella cura di alcune malattie autoimmuni e nel contenimento dell’epidemia di Mpox (il cosiddetto “vaiolo delle scimmie”) in Africa. L’impiego dell’intelligenza artificiale per le previsioni meteo è il motivo per cui c’è in lista anche Rémi Lam, ricercatore a Google DeepMind.
La sesta persona in lista è forse quella che più fra tutte non ha bisogno di presentazioni: l’economista e banchiere bengalese Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace 2006 per aver ideato e sostenuto il microcredito nella sua versione moderna. A fargli ora guadagnare la menzione di Nature è il suo impegno, come capo del governo ad interim, a favore degli studenti bengalesi.
Di grande rilievo è la presenza nella top ten di tre donne il cui impegno ha avuto, e sta avendo, un notevole impatto sul mondo scientifico. Una è l’avvocata svizzera Cordelia Bähr, protagonista lo scorso aprile di una vittoria storica presso l’Echr (la Corte europea dei diritti dell’uomo): non facendo il necessario contro il crescente riscaldamento globale, ha decretato l’Ehcr, la Svizzera sta violando i diritti delle donne più anziane. Poi c’è Anna Abalkina , coraggiosa ricercatrice russa, oggi alla Freie Universität di Berlino, per le sue indagini sulle frodi nel mondo dell’editoria scientifica, dal plagio fino alla clonazione di intere riviste. A completare questo trio di paladine della scienza contemporanea c’è infine Kaitlin Kharas, dottoranda canadese in oncologia pediatrica che – insieme ai suoi compagni di Sos (Support Our Science) – è riuscita con determinazione a ottenere un risultato eccezionale: un aumento significativo – il più consistente da vent’anni a questa parte – dell’importo delle borse di PhD e postdoc. Un esito della cui importanza sono ben consapevoli per primi i dottorandi qui in Italia, dove ancora le borse non raggiungono i 1200 euro al mese.
Walkouts, petitions and tweets: Canada just hiked PhD and postdoc pay — here’s how to get your country to do it, too t.co/AroI56OEeQ— nature (@Nature) July 9, 2024
Ed eccoci ora ai due astronomi. Li Chunlai e in realtà più un geologo, ma le rocce che ha analizzato sono niente meno che i primi – e per ora unici – campioni giunti sulla Terra dal lato nascosto della Luna, quello a noi invisibile. Rocce e polvere raccolte nei pressi del polo sud del nostro satellite naturale e portate qui sul nostro pianeta dalla missione cinese Chang’e-6, della quale Li è deputy chief designer. A chiudere la top ten 2024 è infine Wendy Freedman, astronoma dell’Università di Chicago che lavora da anni a uno fra i tempi più controversi dell’astrofisica contemporanea: il tasso d’espansione dell’universo, e in particolare la discrepanza fra misure “cosmologiche” e misure “astrofisiche” – la cosiddetta tensione di Hubble. Ebbene, confrontando il valore della costante incriminata ottenuto usando le stelle cefeidi con quello che invece risulta da altre due “candele standard” – alcune stelle del ramo delle giganti rosse e altre del ramo asintotico delle giganti rosse – osservate con il telescopio spaziale James Webb, Freedman e colleghi potrebbero aver aperto la strada alla soluzione di questo dilemma. Occhi dunque puntati su di loro nel 2025.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature lo speciale “Nature’s 10. Ten people who helped shape science in 2024”
Macchine del tempo alle Ogr Torino
In alto, il banner della mostra. In basso, il Binario 1 delle Ogr Torino (crediti: Michele D’Ottavio/Ogr Torino)
Dal 15 marzo al 2 giugno 2025, le Officine Grandi Riparazioni di Torino (Ogr Torino) si trasformano in un portale spazio-temporale grazie all’arrivo di Macchine del tempo. Il viaggio nell’universo inizia da te. Dopo il successo della prima edizione, svoltasi al Palazzo Esposizioni Roma, la mostra offrirà al pubblico un’esperienza unica: un viaggio a bordo della luce tra stelle, galassie, pianeti extrasolari, asteroidi e buchi neri. Un’esperienza innovativa e inclusiva alla scoperta del remoto passato del nostro universo per comprendere meglio il futuro che ci attende.
Nel Binario 1 delle ex Officine per la riparazione dei treni saranno quindi presenti installazioni interattive, ambientazioni immersive, videogiochi in puro stile anni Ottanta e molto altro, per un viaggio a bordo delle futuristiche macchine del tempo progettate dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). Il percorso espositivo è pensato per un pubblico appassionato di scienza, alla scoperta delle frontiere dell’astrofisica moderna, e per chiunque desideri tuffarsi alla scoperta del remoto passato del nostro universo per comprendere meglio il futuro che ci attende.
La mostra è ideata dall’Istituto nazionale di astrofisica e realizzata dalle Ogr Torino e Pleiadi, con il contributo dell’Inaf di Torino, di Infini.to Planetario di Torino-Museo dell’astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari” e Mu-Ch Museo della chimica.
Per saperne di più:
Incontro ravvicinato con il quasar 3C 273
Quando, una sessantina di anni fa, gli astronomi Allan Sandage e Thomas Matthews si ritrovarono al cospetto della radiosorgente 3C 48, possiamo verosimilmente immaginare che non poco fu lo sconcerto in cui dovettero piombare i fronte alla bizzarria di quell’oggetto. Benché emettesse intensi segnali radio, la sorgente in questione appariva niente meno che come una placida, anonima, stella azzurra. Nel giro di poco tempo, nuovi oggetti iniziarono a distinguersi per tale stravaganza. Diverse radiosorgenti si rivelavano infatti ai telescopi ottici con la parvenza di ordinarie stelle. Tra queste 3C 273, settima sorgente più brillante del Third Cambridge Catalogue of Radio Sources (da cui l’acronimo 3C), un importante catalogo di sorgenti radio pubblicato nel 1959. Ci pensò Maarten Schmidt nel 1963 a sbrogliare quello che appariva un rompicapo inestricabile. Utilizzando il telescopio da 5 metri dell’Osservatorio di Monte Palomar, l’astronomo di origine olandese catturò uno spettro di 3C 273, accorgendosi che le misteriose righe emesse dalla radiosorgente non erano nient’altro che le familiari righe dell’idrogeno, rese irriconoscibili da quello che, per quei tempi, era un notevole spostamento verso il rosso (redshift): 0.158. Mai vista era pure la loro luminosità. Schmidt stimò infatti che, data la distanza di 2,5 miliardi di anni luce, 3C 273 fosse nella banda ottica centinaia di volte intrinsecamente più brillante delle tipiche galassie osservate in precedenza. Ci vollero alcuni anni affinché le prodigiose luminosità dei quasar – da quasi-stellar radio source, a causa della loro parvenza stellare – come 3C 273 venissero interpretate come il prodotto dell’accrescimento di materiale su un buco nero supermassiccio. Da allora, all’incirca un milione di quasar si conoscono nell’universo, dal più vicino, Markarian 231, a quasi seicento milioni di anni luce dalla Terra, a J0313-1806, il quasar più lontano conosciuto, a oltre tredici miliardi di anni luce dal nostro pianeta.
Due immagini del quasar 3c 273 realizzate con Hubble rispettivamente senza (a sinistra) e con il coronografo Stis (a destra). Bloccando la luce prodotta dal luminosissimo quasar, lo strumento consente di studiare diverse strutture prima sconosciute in prossimità del buco nero centrale. Crediti: Nasa, Esa, B. Ren (Université Côte d’Azur/Cnrs), J. Bahcall (Ias), J. DePasquale (StScI)
Eppure, benché siano passati sessantun anni dal disvelamento della sua natura, 3C 273, cuore pulsante di una galassia ellittica gigante nella costellazione della Vergine, non ha smesso di far parlare di sé. È infatti della scorsa settimana la notizia che, utilizzando il telescopio spaziale Hubble, si è riusciti ad acquisire l’immagine più ravvicinata mai ottenuta di un quasar. L’ambiente attorno a 3C 273 si presenta ricco di «cose bizzarre», dice Bin Ren dell’Observatoire de la Côte d’Azur e dell’Université Côte d’Azur di Nizza. «Abbiamo alcuni blob di diverse dimensioni e una misteriosa struttura filamentare a forma di ‘L’. Tutto ciò entro sedicimila anni luce dal buco nero». Sembrerebbe che alcuni di questi oggetti siano delle piccole galassie satelliti che stanno precipitando sul buco nero e che in tal modo andrebbero ad alimentare il luminosissimo quasar.
Che i quasar vengano alimentati da collisioni con altre galassie non è una novità. Questi oggetti erano più abbondanti all’incirca tre miliardi di anni dopo il Big Bang, quando gli scontri tra galassie erano più frequenti. La novità è la scala molto piccola su cui queste interazioni sono state osservate. Gli astronomi si sono serviti dello Space Telescope Imaging Spectrograph (Stis) montato a bordo di Hubble, che può essere utilizzato come un coronografo – ovvero uno strumento che blocca la luce prodotta dal quasar, un po’ come fa la Luna con il nostro Sole durante le eclissi solari –, consentendo agli scienziati di studiare le regioni nei paraggi, che svelano dettagli insospettabili. In passato lo stesso strumento era stato utilizzato per rivelare i dischi protoplanetari attorno alle stelle e adesso ha consentito di scrutare il cuore di 3C 273 a distanza otto volte più ravvicinata di quanto fosse stato fatto in passato. Anche il colossale getto di materia, prodotto dal quasar e che si protende per oltre trecentomila anni luce, è stato investigato con le nuove osservazioni. Confrontando i nuovi dati con quelli ottenuti ventidue anni fa, il gruppo guidato da Ren ha si è accorto che il getto si muove più velocemente nella parte più lontana dal quasar.
Le bizzarrie di 3C 273 dunque non sono relegate agli anni ‘60, ma pure al giorno d’oggi il nucleo scoppiettante della gigantesca ellittica non smette di sorprendere gli astronomi. «Ricostruendo le strutture spaziali nel dettaglio e il moto del getto, Hubble ha colmato una lacuna tra l’interferometria radio su piccola scala e le immagini ottiche su larga scala, e perciò possiamo fare un salto in avanti, verso una più completa comprensione della morfologia della galassia che ospita il quasar. La nostra visione precedente era molto limitata, ma Hubble ci sta consentendo di ricostruire la complessa morfologia del quasar e le interazioni con le altre galassie nel dettaglio. In futuro, osservare ulteriormente 3C 273 nella luce infrarossa col telescopio spaziale James Webb potrebbe fornirci maggiori indizi su questo oggetto», conclude Ren.
Campioni extraterrestri: il rischio contaminazione
Ernesto Palomba (Inaf Iaps Roma), con la scatola contenente Kiki e Totoro, due frammenti dei grani dell’asteroide Ruygu. Crediti: Infn Lnf
Batteri in un campione di roccia dell’asteroide Ryugu, quelli portati sulla Terra quattro anni fa dalla missione giapponese Hyabusa 2. Batteri terrestri, chiariamolo subito. Batteri di genere Bacillus che hanno contaminato il campione che stavano analizzando i ricercatori dell’Imperial College London. La notizia, pubblicata dagli stessi ricercatori il 13 novembre su Meteoritics & Planetary Science, è stata ripresa nei giorni scorsi da varie testate, a partire da Nature e dal New Scientists. Un bel resoconto lo potete trovate anche su Sorvegliati spaziali.
Fra i gruppi di ricerca nel mondo che hanno ricevuto campioni di Ryugu da analizzare ce n’è anche uno guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica, quello al quale sono stati affidati i frammenti Kiki e Totoro. Abbiamo contattato lo scienziato che ha coordinato l’analisi, Ernesto Palomba, dell’Inaf di Roma, per provare a capire cosa possa essere accaduto al team dei suoi colleghi inglesi, quanto siano frequenti episodi di questo tipo e, soprattutto, come comportarsi per tentare d’evitarli.
Palomba, parliamo di campioni simili? Intendo dire, quello contaminato dell’Imperial College è analogo ai due che sono stati affidati al suo team?
«Sì, quelli distribuiti ai vari laboratori nel mondo, provenendo dall’asteroide Ryugu, sono tutti grani simili ai nostri. Noi ne abbiamo ricevuti due, uno raccolto nella parte più antica, l’altro proveniente invece da un sito che è sicuramente più giovane, ma per il resto sì, sono assolutamente simili a quello analizzato a Londra».
Quello “incriminato”. È qualcosa che accade spesso, che avvenga una contaminazione di campioni provenienti dallo spazio?
«La contaminazione di materiale extraterrestre è un problema enorme. Era già noto da tempo, grazie all’analisi di meteoriti. Io stesso ho un aneddoto da raccontare. Parlo di circa trent’anni fa, mentre stavo cercando di analizzare un meteorite marziano. Era il periodo in cui veniva data notizia delle prime potenziali forme di vita “extraterrestri”, ovviamente tra virgolette: mi riferisco al famoso paper di David McKay del 1996 – che ha poi un po’ spinto la nascita dell’astrobiologia, dell’esobiologia – dove una struttura analizzata al microscopio elettronico era stata in qualche modo associata a qualche forma di vita microbica. Ecco, in quel periodo, appunto, io stavo osservando un campione della meteorite Zagami – una shergottite – al microscopio elettronico, e notai delle strutture filamentose proprio tipo quelle che sono state osservate all’Imperial College sui campioni da Ryugu. Queste strutture filamentose, sotto il fascio molto potente del microscopio elettronico, pian piano si sono consumate. Segno del fatto che si trattava di strutture organiche, strutture di contaminazione dovute a forme di vita microbica – terrestre – cresciute sul tessuto del minerale della meteorite Zagami. Dunque sì, la contaminazione è un problema noto da tempo, e se non si prendono le giuste accortezze è possibile che anche i campioni d’asteroide riportati dallo spazio – come questi di Ryugu, o di Itokawa, che sono i primi campioni rocciosi portati a Terra, o anche in futuro quelli di Bennu – possano venire contaminati».
Ma quando può essere accaduto, nel caso dell’Imperial College?
«Quando esattamente sia accaduto è difficile dirlo. È comunque sempre necessario adottare accortezze estreme per isolare il campione dall’atmosfera. Questo è il primo passo».
Voi come avete fatto, con i vostri campioni?
«Abbiamo fatto tutto il possibile per lavorare sempre in un ambiente protetto, sempre flussato con azoto, in modo da minimizzare ogni contatto con l’atmosfera terrestre, in particolare con con il vapor d’acqua. Nel nostro caso eravamo molto preoccupati per la contaminazione da vapor d’acqua, che è sicuramente quella più comune: può accadere con grande facilità, almeno rispetto a quella da batteri terrestri, che è invece più rara. Ma anche quest’ultima può comunque accadere, nel caso di una raccolta, o di un’archiviazione, di un cosiddetto storing del materiale in condizioni non perfette».
Ora dove si trovano, i due campioni affidati a voi?
«Attualmente sono nel nostro laboratorio, all’Inaf Iaps di Roma, all’interno di un portacampioni flussato di azoto, quindi in condizioni molto protette. È un portacampioni che abbiamo costruito ad hoc proprio per evitare la contaminazione dell’ambiente terrestre, in particolare la possibilità che l’atmosfera – quindi il vapor d’acqua – possa in qualche modo contaminare i granelli di Ryugu, circostanza che produrrebbe anche una trasformazione dei minerali presenti all’interno di questi granelli».
Potrebbero essersi contaminati anche loro, come quelli inglesi?
«Abbiamo fatto delle misure a distanza di qualche mese cercando una qualche contaminazione, anche minima, dell’atmosfera terrestre – in particolare quella dovuta a qualche molecola di vapor d’acqua, che come dicevo è la più facile che possa accadere – che potesse essere rilevata mediante la microscopia infrarossa. Ebbene, con due misure effettuate a mesi di distanza con la microscopia infrarossa, appunto, siamo stati in grado di determinare che i granelli sono rimasti sostanzialmente nelle condizioni originali, quindi sicuramente in condizioni primitive, come quando sono arrivati dall’asteroide. Questo grazie anche al nostro portacampioni».
Ma se si trovasse un batterio alieno in un campione dallo spazio, come si può essere ragionevolmente certi che non sia frutto di una contaminazione? Qual è la firma più affidabile?
«Ecco, hai detto bene: batterio alieno. Nel senso che ci aspettiamo che tutto ciò che troviamo su una particella di Ryugu sia “alieno” rispetto a Ryugu: detto altrimenti, che sia in realtà una contaminazione terrestre che possa essere stata innestata sul granello stesso. Quel che si può fare è eseguire misure molto specifiche, molto particolari, che possono richiedere ad esempio il sequenziamento del Dna, ma è molto raro imbattersi in un batterio o resti di batteri, com’è accaduto in questo caso».
Un’ultima cosa: è di questa settimana l’annuncio della candidatura di Prato a ospitare un laboratorio – una Curation Facility – interamente dedicato all’analisi di campioni extraterrestri. Potrà aiutare, avere un laboratorio dedicato, a ridurre eventi come questo avvenuto all’Imperial College?
«Sicuramente sarà una struttura molto importante. Noi stessi, come Istituto nazionale di astrofisica, facciamo parte del consorzio. Sarà importante perché all’interno della facility ci sarà strumentazione in grado di permetterci d’effettuare diversi tipi di misure – e quindi di caratterizzazione dei materiali extraterrestri presenti – contemporaneamente e nello stesso posto. Per quanto riguarda specificamente la riduzione delle possibilità di contaminazione, è vero che si può fare già oggi, come abbiamo fatto appunto noi realizzando, come dicevo, un portacampioni ad hoc e trasferendo le particelle di Ryugu utilizzando le glove box – scatole a tenuta che garantivano l’isolamento dei grani dall’atmosfera terrestre. Rimane il fatto che, sempre per riferirci al nostro caso, abbiamo dovuto portare i campioni qua e là per vari laboratori, anche in città diverse – abbiamo fatto analisi a Roma e a Firenze. Una facility come quella in fase di realizzazione ci permetterebbe invece di avere tutta la strumentazione in un unico posto, e questo sicuramente aiuterà parecchio a mantenere i campioni nello stato “primordiale”, incontaminati. Rappresenterà insomma un notevole avanzamento, non vediamo l’ora che sia disponibile».
Per saperne di più:
- Leggi su Meteoritics & Planetary Science l’articolo “Rapid colonization of a space-returned Ryugu sample by terrestrial microorganisms”, di Matthew J. Genge, Natasha Almeida, Matthias Van Ginneken, Lewis Pinault, Louisa J. Preston, Penelope J. Wozniakiewicz e Hajime Yano
Vega-C torna a volare: portato in orbita Sentinel-1C
Sentinel-1C, il terzo satellite della minicostellazione per l’osservazione della Terra Sentinel-1, del programma Copenicus, è stato lanciato ieri sera, giovedì 5 dicembre, alle 22:20 ora italiana, con un razzo Vega-C dallo spazioporto europeo di Kourou, nella Guyana francese. Attesissimo dalla comunità scientifica e non solo, Sentinel-1C, lavorando in coppia con Sentinel-1A in orbita polare eliosincrona, fornirà immagini radar ad alta risoluzione per monitorare i cambiamenti dell’ambiente terrestre e introdurrà nuove funzionalità di rilevamento e monitoraggio del traffico marittimo.
Vega-C has successfully returned to flight carrying @CopernicusEU Earth observer #Sentinel1 C to space on 5 December 2024.The mission is the next in a series with advanced radar technology to provide an all-weather, day-and-night supply of imagery of Earth’s surface to benefit… pic.twitter.com/b6Zc39Cgua
— European Space Agency (@esa) December 5, 2024
«Siamo entusiasti di celebrare il lancio di Sentinel-1C, a testimonianza della partnership duratura tra l’Esa e la Commissione europea. La missione svolge un ruolo cruciale nell’affrontare sfide globali come i cambiamenti climatici e la risposta alle catastrofi», spiega Simonetta Cheli, direttrice dei Programmi di osservazione della Terra dell’Esa, «garantendo al contempo la continuità dei dati radar vitali per il monitoraggio della terra, degli oceani e del ghiaccio della Terra».
Altrettanto entusiasmo e comprensibile sollievo si registra per il successo del lanciatore, il razzo made in Italy Vega-C, prodotto da Avio negli stabilimenti di Colleferro e in grado di portare in orbita carichi utili fino a 2300 kg. Pochi mesi dopo il volo inaugurale del 13 luglio 2022, nel dicembre dello stesso anno, il secondo lancio di Vega-C era fallito a causa di un graduale deterioramento dell’ugello del motore del secondo stadio, uno Zefiro 40, causando la perdita dei due payload e una battuta d’arresto del programma. Poter ora di nuovo contare su un lanciatore così versatile rappresenta un passo fondamentale nel ripristino dell’accesso indipendente dell’Europa allo spazio.
Infografica sui quattro stadi del razzo Vega-C: i primi tre stadi usano propellente solido, mentre il quarto, l’Avum+, è dotato di un motore a propellente liquido, in grado di essere acceso e spento fino a 5 volte per missione. Crediti: Avio
«Il lancio di oggi costituisce una pietra miliare», ha infatti dichiarato Toni Tolker-Nielsen, direttore del Trasporto spaziale dell’Esa, «riaffermando l’accesso indipendente europeo allo spazio. Con Vega-C di nuovo in volo e il lancio inaugurale di Ariane 6 lo scorso luglio, ci posizioniamo in maniera ottimale per il futuro».
«Combinando due grandi risultati, il terzo lancio di un satellite Sentinel-1 e il terzo lancio di Vega-C», sottolinea il direttore generale dell’Esa, Josef Aschbacher, «questo momento determina un ritorno in azione trionfale per entrambi questi progetti europei di punta».
Insomma, una giornata da ricordare, quella di ieri, per l’Europa nello spazio. Senza però dimenticare che c’è ancora parecchia strada da fare per mettersi pienamente al passo con il resto del mondo. «Siamo ancora molto lontani dalle capacità di altri attori non europei», ha infatti rimarcato il presidente dell’Agenzia spaziale italiana, Teodoro Valente. «La giornata odierna ci sprona a muoverci con la massima possibile rapidità, per recuperare almeno una parte del gap che fino a pochi mesi fa sembrava del tutto incolmabile e così garantire una soluzione in house quantomeno per gli asset strategici. È necessario partire dalla consapevolezza che le dinamiche sono cambiate: efficacia, efficienza, rapidi tempi di risposta, contenimento dei costi e uso tempestivo delle risorse, sono aspetti strategici da cui non si può prescindere. Ciò richiede modelli organizzativi ed operativi adeguati, non più vetusti. Servono fatti più che discussioni puramente speculative che traggono origine da impostazioni ormai superate, non adatte ai tempi correnti e alle prospettive future».
Tornado magnetici ai poli di Giove
Una veduta colorata artificialmente di Giove in luce ultravioletta. Oltre alla Grande Macchia Rossa, che appare di colore blu, si può notare un’altra caratteristica ovale nella foschia marrone al polo sud. L’ovale, una zona in cui la foschia è molto densa, è forse il risultato di un rimescolamento generato da un vortice più in alto nella ionosfera del pianeta. Questi ovali scuri appaiono periodicamente anche al polo nord, anche se con minore frequenza. Crediti: Troy Tsubota and Michael Wong, Uc Berkeley
Mentre la Grande Macchia Rossa di Giove caratterizza il pianeta da secoli, gli astronomi dell’Università della California, Berkeley, hanno scoperto macchie altrettanto grandi ai poli nord e sud del pianeta che appaiono e scompaiono apparentemente a caso. Queste macchie ovali, le cui dimensioni sono paragonabili a quella della Terra, sono visibili solo a lunghezze d’onda ultraviolette e – quando visibili – si trovano quasi sempre appena sotto le luminose regioni aurorali di ciascun polo.
Le macchie appaiono scure perché assorbono una quantità maggiore di raggi ultravioletti rispetto all’area circostante. Nelle immagini scattate dal telescopio spaziale Hubble tra il 2015 e il 2022, gli ovali scuri appaiono il 75 per cento delle volte al polo sud, mentre al polo nord appaiono solo in una delle otto immagini scattate.
Queste macchie sono indicative di insoliti processi che avvengono nel forte campo magnetico di Giove e che si propagano fino ai poli e in profondità nell’atmosfera, molto più in profondità dei processi magnetici che producono le aurore sulla Terra. Sono state rilevate per la prima volta da Hubble alla fine degli anni ’90, ai poli nord e sud, e successivamente al polo nord dalla sonda Cassini, che ha sorvolato Giove nel 2000. Nonostante questo, hanno attirato poca attenzione.
Quando Troy Tsubota, studente della Uc Berkeley, ha condotto uno studio sistematico sulle immagini recenti ottenute da Hubble, ha scoperto che al polo sud sono una caratteristica piuttosto comune: ha contato otto ovali scuri meridionali (Sudo, acronimo di southern Uv-dark ovals) tra il 1994 e il 2022. In tutte le 25 mappe di Hubble che mostrano il polo nord di Giove, Tsubota e Michael Wong dello Space Sciences Laboratory della Uc Berkeley, hanno trovato solo due ovali scuri settentrionali (Nudo, acronimo di northern Uv-dark ovals).
La maggior parte delle immagini Hubble sono state acquisite nell’ambito del progetto Outer Planet Atmospheres Legacy (Opal), diretto da Amy Simon, scienziata planetaria del Goddard Space Flight Center della Nasa e coautrice dell’articolo. Utilizzando Hubble, gli astronomi di Opal effettuano osservazioni annuali di Giove, Saturno, Urano e Nettuno per comprendere le loro dinamiche atmosferiche e la loro evoluzione nel tempo.
Per vederci più chiaro, Wong e Tsubota hanno consultato due esperti di atmosfere planetarie – Tom Stallard della Northumbria University e Xi Zhang della Uc Santa Cruz. Stallard ha teorizzato che l’ovale scuro è probabilmente agitato dall’alto da un vortice che si crea quando le linee del campo magnetico del pianeta risentono dell’attrito in due luoghi distanti: nella ionosfera, dove Stallard e altri astronomi hanno precedentemente rilevato un movimento rotatorio utilizzando telescopi a terra, e nello strato di plasma caldo e ionizzato intorno al pianeta, diffuso dalla luna vulcanica Io.
Il vortice ruota più velocemente nella ionosfera, indebolendosi progressivamente man mano che raggiunge gli strati più profondi. Come un tornado che tocca terra su un suolo polveroso, l’estensione più profonda del vortice agita l’atmosfera creando le macchie dense osservate da Wong e Tsubota. Non è chiaro se il mescolamento porti in superficie più foschia dagli strati sottostanti o se ne generi di nuova.
«La foschia negli ovali scuri è 50 volte più densa della concentrazione tipica», riporta Zhang. «Questo suggerisce che probabilmente si forma a causa delle dinamiche vorticose dei vortici piuttosto che delle reazioni chimiche innescate da particelle ad alta energia provenienti dall’alta atmosfera. Le nostre osservazioni hanno dimostrato che i tempi e la posizione di queste particelle energetiche non sono correlati alla comparsa degli ovali scuri».
Capire come le dinamiche atmosferiche nei pianeti giganti del Sistema solare differiscono da quelle che conosciamo sulla Terra è l’obiettivo del progetto Opal: «Studiare le connessioni tra i diversi strati atmosferici è molto importante per tutti i pianeti, sia che si tratti di un esopianeta, di Giove o della Terra», conclude Wong. «Vediamo prove di un processo che collega tutto nell’intero sistema di Giove, dalla dinamo interna ai satelliti, ai loro tori di plasma, dalla ionosfera alle foschie stratosferiche. Trovare questi esempi ci aiuta a capire il pianeta nel suo complesso».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “UV-dark polar ovals on Jupiter as tracers of magnetosphere–atmosphere connections” di Troy K. Tsubota, Michael H. Wong, Tom Stallard, Xi Zhang & Amy A. Simon
Droni in volo guidati dalle stelle
Navigare nel buio della notte come facevano i marinai d’un tempo, orientandosi con il solo ausilio delle stelle. È quel che consente di fare un nuovo algoritmo messo a punto da una coppia d’ingegneri australiani. Pensato però non per le imbarcazioni ma per velivoli senza pilota di medie dimensioni. Per droni, insomma.
Sullo sfondo, una porzione di cielo osservata dal prototipo, con le stelle guida individuate ed etichettate. Nel riquadro in basso a sinistra, il sistema di ricostruzione della posizione, costituito da un Raspberry Pi 5 e da un sensore monocromatico Alvium 1800 U-240 dotato di un obiettivo grandangolare da 6 mm f/1,4. Crediti: University of South Australia
La precisione, com’è facile immaginare, non è il suo punto forte: l’errore medio stimato sul calcolo della posizione è di circa 4 km, si legge nell’articolo pubblicato il mese scorso su Drones che descrive il prototipo, realizzato con un Raspberry Pi 5 e montato su un drone con un’apertura alare di circa quattro metri. Niente a che vedere, dunque, con la manciata di metri di precisione consentiti dai nostri smartphone.
E allora a chi può mai servire, oggi, volare guidati dalle stelle? «Questo tipo di navigazione», spiega il primo autore dello studio, Samuel Teague, della University of South Australia, «è ideale per le operazioni sugli oceani o in zone di guerra dove il disturbo del segnale Gps è un rischio. Oltre che nel settore della difesa, potrebbe essere molto utile anche per il monitoraggio ambientale».
Il principio è quello degli star trackers, ampiamente utilizzati in campo astronomico per il puntamento dei telescopi, da quelli amatoriali a quelli su satellite. Si basa su un algoritmo che utilizza i dati in banda ottica delle stelle e li elabora attraverso sistemi standard per autopilota. Ma «a differenza dei tradizionali sistemi di navigazione basati sulle stelle, che sono spesso complessi, pesanti e costosi, il nostro», nota Teague, «il nostro è più semplice, più leggero e non necessita di hardware di stabilizzazione, rendendolo adatto ai droni più piccoli».
Guarda il video (in inglese) della University of South Australia:
Con Xrism nel cuore nero del Cigno
L’osservatorio Xrism (X-ray Imaging and Spectroscopy Mission), guidato dalla Jaxa – in collaborazione con Esa e Nasa, che hanno sviluppato lo strumento Resolve – ha catturato il ritratto più dettagliato di sempre dei gas che fluiscono all’interno di Cygnus X-3, una delle sorgenti più studiate del cielo a raggi X. Cygnus X-3 è una binaria nella quale un raro tipo di stella massiccia è legata gravitazionalmente a una compagna compatta, probabilmente un buco nero.
Rappresentazione artistica di Cygnus X-3, una binaria composta da un oggetto compatto (probabilmente un buco nero) e da una stella Wolf-Rayet calda. La spettroscopia a raggi X ad alta risoluzione indica due componenti gassose: un vento pesante emesso dalla stella massiccia e una struttura turbolenta – forse una scia scavata nel vento – situata vicino alla compagna orbitante. Come mostrato qui, la gravità di un buco nero cattura parte del vento nel disco di accrescimento e il moto orbitale del disco scolpisce un percorso (arco giallo) attraverso il flusso di gas. Durante le forti esplosioni, la compagna emette getti di particelle che si muovono a una velocità prossima a quella della luce, che qui si vedono estendersi sopra e sotto il buco nero. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center
«La natura della stella massiccia è uno dei fattori che rendono Cygnus X-3 così intrigante», dichiara Ralf Ballhausen, dell’Università del Maryland, primo autore di un articolo che uscirà su The Astrophysical Journal. «Si tratta di una stella di Wolf-Rayet, una tipologia di stelle che si è evoluta fino al punto in cui forti flussi, chiamati venti stellari, strappano il gas dalla superficie della stella e lo spingono verso l’esterno. L’oggetto compatto raccoglie e riscalda parte di questo gas, provocando l’emissione di raggi X».
«Questa insolita sorgente è stata studiata da tutti i satelliti a raggi X, quindi osservarla è una sorta di rito di passaggio per le nuove missioni a raggi X», aggiunge Timothy Kallman, astrofisico del Goddard.
Alla fine di marzo Xrism ha osservato Cygnus X-3 per 18 ore, acquisendo uno spettro ad alta risoluzione che ha permesso di capire le complesse dinamiche del gas che vi operano. In particolare, il gas in uscita dalla stella calda e massiccia, la sua interazione con la compagna compatta e una regione turbolenta che potrebbe rappresentare una scia prodotta dalla compagna mentre le orbita attorno, passando attraverso il gas.
Lo strumento Resolve di Xrism ha acquisito lo spettro a raggi X più dettagliato finora acquisito di Cygnus X-3. I picchi indicano i raggi X emessi dai gas ionizzati, mentre le valli si formano dove i gas assorbono i raggi X; molte righe sono spostate a energie più alte o più basse dai movimenti del gas. In alto: lo spettro completo di Resolve, da 2 a 8 keV (kiloelettronvolt), traccia i raggi X con un’energia migliaia di volte superiore a quella della luce visibile. Alcune righe sono etichettate con i nomi degli elementi che le hanno prodotte, come zolfo, argon e calcio, insieme a numeri romani che si riferiscono al numero di elettroni che questi atomi hanno perso. In basso: zoom su una regione dello spettro spesso dominata da caratteristiche prodotte da transizioni nel guscio elettronico più interno (guscio K) degli atomi di ferro. Queste caratteristiche si formano quando gli atomi interagiscono con raggi X o elettroni ad alta energia e rispondono emettendo un fotone a energie comprese tra 6,4 e 7 keV. Questi dettagli, chiaramente visibili per la prima volta con lo strumento Resolve aiuteranno gli astronomi a perfezionare la comprensione di questo insolito sistema. Crediti: Collaborazione Jaxa/Nasa/Xrism
In Cygnus X-3, la stella e l’oggetto compatto sono così vicini da completare un’orbita in sole 4,8 ore. Si pensa che questo sistema binario si trovi a circa 32mila anni luce di distanza, in direzione della costellazione del Cigno. Mentre le spesse nubi di polvere del piano della Galassia oscurano la luce visibile di Cygnus X-3, la binaria è stata studiata nella luce radio, infrarossa e dei raggi gamma, oltre che nei raggi X.
Il sistema è immerso nel flusso di gas della stella, che viene illuminato e ionizzato dai raggi X emessi della compagna compatta. Il gas emette e assorbe i raggi X e molti dei picchi e delle valli più importanti dello spettro sono rappresentativi di entrambi gli aspetti. Tuttavia, comprendere lo spettro non è banale perché alcune delle sue righe sembrano essere nel posto sbagliato. Questo perché il rapido movimento del gas, a causa dell’effetto Doppler, sposta queste caratteristiche rispetto alle frequenze alle quali appaiono normalmente in laboratorio. Le valli caratteristiche dell’assorbimento si spostano tipicamente verso energie più alte, indicando che il gas si muove verso di noi a velocità fino a 1,5 milioni di chilometri orari. I picchi di emissione invece si spostano verso energie più basse, indicando che il gas si allontana da noi, a velocità inferiori.
Alcune caratteristiche spettrali mostrano assorbimenti molto più forti dei picchi di emissione. Secondo i ricercatori, la ragione di questo squilibrio è la dinamica del vento stellare che permette al gas in movimento di assorbire una gamma più ampia di energie dei raggi X emessi dalla compagna. Il dettaglio dello spettro, in particolare alle energie più alte – ricche di righe prodotte dagli atomi di ferro ionizzati – ha permesso agli scienziati di distinguere questi effetti.
«La chiave per acquisire questi dettagli è stata la capacità di Xrism di monitorare il sistema nel corso di diverse orbite», conclude Brian Williams, project scientist della Nasa. «C’è molto altro da esplorare in questo spettro, e alla fine speriamo che ci aiuti a determinare se l’oggetto compatto di Cygnus X-3 è davvero un buco nero».
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal “The XRISM/Resolve view of the Fe K region of Cyg X-3”, della Xrism Collaboration
Antichi e molto rari, i periodici dell’Inaf di Brera
Pubblicati a Lipsia in latino (allora la lingua universale della scienza), gli Acta Eruditorum sono una delle più antiche riviste scientifiche. Per un secolo, tra il 1682 e il 1782, queste “Pubblicazioni dei dotti” – fondate da Gottfried Wilhelm von Leibniz e Otto Mencke – permisero agli scienziati di conoscere, grazie a recensioni, articoli e saggi, le ricerche che venivano intraprese in tutto il mondo e in tutti gli ambiti del sapere, dalla fisica alla religione, dalla medicina alla filosofia alla giurisprudenza.
Il frontespizio e una magnifica scena di caccia nel primo volume (1672-1673) degli Acta Eruditorum. Crediti foto: Cristina Bernasconi
Gli Acta Eruditorum sono la rivista più antica conservata presso la biblioteca dell’Osservatorio astronomico di Brera dell’Inaf, nella sede di Milano, insieme ad altri duemiladuecento titoli il cui elenco completo sarà a disposizione nei prossimi giorni sul sito della biblioteca e dell’archivio storico dell’Osservatorio.
Un lavoro durato parecchi anni, curato dalla scrivente – Agnese Mandrino – e Anna Cortesi, permette ora di conoscere per intero la più corposa raccolta di periodici completamente riordinata presso un osservatorio astronomico italiano. Grazie a un finanziamento del Servizio biblioteche, musei e terza missione dell’Inaf, è possibile ricercare i titoli dei periodici della biblioteca di Brera anche attraverso il Catalogo nazionale dei periodici (Acnp).
Urania circondata dagli strumenti astronomici e dai puttini nelle Effemeridi dell’Osservatorio di Parigi del 1763. Crediti foto: Cristina Bernasconi/Inaf
Al di là dei periodici più antichi, che sono spesso corredati da meravigliose illustrazioni, la biblioteca conserva pubblicazioni sicuramente meno “belle” e graficamente più “povere”, ma altrettanto preziose per la loro rarità e completezza, come ad esempio riviste semi sconosciute, memorie dedicate alle ricerche intraprese negli osservatori e in altre istituzioni scientifiche, effemeridi, serie di osservazioni astronomiche, meteorologiche, magnetiche, sismiche o di altro tipo, bollettini e circolari. Scorrerne tutti i titoli significa non solo accedere a tante informazioni scientifiche, ma attraversare la storia e la geografia di tutto il mondo.
Il primo volume (1875) della lunga serie dei dati meteorologici raccolti dagli Inglesi in India. Crediti foto: Cristina Bernasconi/Inaf
Troviamo, ad esempio, le serie di osservazioni meteorologiche effettuate in India dagli inglesi e a Giava e in Birmania dagli olandesi: pagine che ci raccontano la dominazione coloniale di questi territori e che sono oggi una fonte indispensabile per lo studio del cambiamento climatico.
Forse per la tradizione che legava tra loro gli osservatori astronomici gesuiti, come fu alle sue origini Brera, possiamo accedere alle pubblicazioni ottocentesche di quelli della Cina, che ebbe proprio nel gesuita Matteo Ricci una figura di primo piano per le scienze astronomiche e matematiche.
Tante pubblicazioni provengono poi dalle Americhe, dagli Stati Uniti e dal Canada, ma anche da Messico, Perù, Ecuador, Guatemala e dalle Ande Colombiane: queste sudamericane ci mostrano, sempre per rimanere in ambito geo-climatico, una cellulosa così diversa da quella del nostro Vecchio Mondo da richiedere di essere ora maneggiata con estrema cautela, pena lo sbriciolamento.
Innumerevoli sono poi le pubblicazioni delle centinaia di piccoli istituti privati, spesso religiosi, che costellavano l’Italia e che ci consentono di disporre di una rete capillare di informazioni meteorologiche e astronomiche; tra loro ricordiamo il santuario di Oropa vicino a Biella, l’Osservatorio senese di padre Ignazio Maccioni, il collegio Agostini Pennisi di Acireale, l’abbazia di Montecassino prima del bombardamento del febbraio del 1944, ma ce ne sono molti altri.
Una pubblicazione di poche pagine, per finire, con il linguaggio scarno della rilevazione del dato scientifico, registrato alla data del 28 dicembre 1908, ci dà conto di un “terremoto disastrosissimo che produsse la rovina di Messina”: anche qui la scienza registra un avvenimento che è diventato un momento tragico della nostra storia.
La registrazione del terremoto di Messina del 1908 tra le osservazioni meteorologiche nell’annuario dell’università della città. Crediti foto: Cristina Bernasconi
Nell’elenco che viene pubblicato sono riportate alcune informazioni bibliografiche essenziali, quali il titolo del periodico, le annate possedute, la collocazione ed altre notizie utili per reperire il materiale.
A queste informazioni ne sono però state aggiunte altre, certo non peculiari di un catalogo bibliografico, ma che servono a rispecchiare e tramandare l’anima della biblioteca dell’Osservatorio di Brera, che è stata quella di Ruggero Boscovich, Barnaba Oriani, Francesco Carlini, Giovanni Virginio Schiaparelli, Emilio Bianchi e degli altri astronomi milanesi che l’hanno utilizzata e arricchita nel corso dei secoli. Non solo con splendidi libri, ma anche con pubblicazioni “minori” ma di grande valore scientifico: internet ancora non esisteva e la carta è l’unico supporto con il quale, pur in una forma spesso dimessa ma estremamente durevole, ci sono state trasmesse.
Piccolo asteroide cade in Siberia
No, non stiamo parlando dell’asteroide la cui caduta ha provocato la catastrofe di Tunguska il 30 giugno 1908, ma di un piccolo asteroide di circa 1 metro di diametro scoperto alle 05:54 UTC del 3 dicembre 2024 (in pratica stamattina), dal telescopio Bok dell’osservatorio di Kitt Peak, in Arizona. Al momento della scoperta l’asteroide era di magnitudine +21 e si trovava a 418mila km dalla Terra, in avvicinamento con una velocità radiale di circa 11 km/s. L’asteroide, designato provvisoriamente C0WEPC5, è stato messo nella Neo confirmation Page del Minor Planet Center e ben presto è stato confermato e seguito da diversi altri osservatori come il Magdalena Ridge di Socorro, il Lowell Discovery Telescope ancora in Arizona, il Faulkes Telescope North, lo Steward Observatory e altri.
Subito dopo le prime osservazioni astrometriche è risultato chiaro che C0WEPC5 avrebbe colpito la superficie terrestre dalle parti della Siberia e la zona di incertezza si è progressivamente ridotta all’aumentare del numero delle osservazioni astrometriche. Al momento in cui scrivo siamo a 40 osservazioni e la zona dell’impatto a 50 km di quota è a queste coordinate: Lat. 60,85° N, Long. 118,51° E, ore 16:15 UTC del 3 dicembre 2024. La zona è in Siberia, a circa 950 km a sud-est dell’epicentro di Tunguska. Ovviamente non c’è nessuna relazione fra i due eventi di caduta, vista la distanza fra le due date: la Russia è un paese molto esteso e statisticamente è probabile che ci siano più cadute di asteroidi rispetto a paesi molto più piccoli, come l’Italia.
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I due possibili strewn field teorici per la caduta di CoWEPC5, la sovrapposizione è evidente. La lunghezza di ciascun strewn field è di circa 6 km. La grandezza dei cerchi è proporzionale alla massa delle possibili meteoriti (da 1 kg a 1 g). Crediti Albino Carbognani, Inaf-Oas.
Che cosa sarà accaduto a C0WEPC5 quando leggerete queste righe? In base ai dati del near-earth objects coordination centre dell’Esa, l’asteroide a 100 km di quota aveva una velocità geocentrica di 15,5 km/s e si muoveva da sud-ovest verso nord-est. Come tutti i piccoli asteroidi a circa 20-40 km dal suolo si sarà frammentato per effetto dell’onda d’urto atmosferica dando vita a un piccolo airburst, mentre alcuni pezzi saranno arrivati al suolo.
A questo punto la domanda è: dove saranno finite le meteoriti? In Siberia non esistono reti di camere all-sky per triangolare i fireball come accade per la rete Prisma coordinata dall’Inaf in Italia. In casi come questi bisogna ricorrere al calcolo di uno strewn field “ab initio”.
Ipotizzando una strength di 1 e 5 MPa per l’asteroide e tenendo conto del profilo locale dell’atmosfera, si può stimare la posizione dello strewn field teorico, ossia delle posizione al suolo delle possibili meteoriti. In questo caso l’asteroide è arrivato con una inclinazione di circa 50° rispetto alla superficie terrestre, quindi i due possibili strewn field sono in gran parte sovrapposti. Purtroppo la zona in cui andare a cercare è disabitata e si trova a circa 33 km a nord-est rispetto al villaggio di Kiliyer, dove al momento la temperatura è sotto i -30 °C.
Mappa dell’universo nelle onde gravitazionali
Grazie a quasi cinque anni di osservazioni con il radiotelescopio sudafricano MeerKat, un gruppo di ricerca guidato dalla collaborazione MeerKat Pulsar Timing Array (Mpta) ha trovato ulteriori conferme all’ipotesi dell’esistenza di un fondo cosmico di onde gravitazionali aventi frequenze estremamente basse (1-10 nanoHertz), ottenendo la mappa finora più dettagliata della distribuzione di queste onde gravitazionali nell’universo. Il segnale potrebbe provenire da una popolazione di coppie di buchi neri supermassicci spiraleggianti. Gli esiti di questo sforzo internazionale, che ha visto coinvolti anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dell’Università di Milano-Bicocca, ha prodotto tre studi pubblicati oggi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.
Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKaT, gestito dall’Osservatorio Sarao. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (Sarao)
Il MeerKat Pulsar Timing Array è un esperimento internazionale che utilizza il sensibilissimo radiotelescopio MeerKat (gestito dal South African Radio Astronomy Observatory) proprio per osservare, circa ogni due settimane, decine e decine di pulsar e misurare il tempo di arrivo degli impulsi radio con una precisione che può raggiungere le decine di nanosecondi. «Grazie a queste caratteristiche, Mpta costituisce il più potente rivelatore di onde gravitazionali di frequenza ultra bassa nell’intero emisfero australe», sottolinea Federico Abbate, ricercatore dell’Inafdi Cagliari e tra gli autori di tutti e tre gli articoli pubblicati oggi.
Le pulsar, stelle di neutroni in rapida rotazione, fungono da orologi naturali e i loro impulsi radio regolari permettono agli scienziati di rilevare minime variazioni causate dal passaggio delle onde gravitazionali. Nel corso di questi anni abbiamo imparato a conoscere cosa sono queste onde gravitazionali, perturbazioni nel tessuto dello spazio-tempo teorizzate già negli anni venti dello scorso secolo da Albert Einstein e causate da alcuni degli eventi più potenti dell’universo (per esempio la coalescenza di un sistema binario formato da due buchi neri). La sovrapposizione di queste onde, la cui rilevazione è particolarmente difficile, forma una sorta di ronzio cosmico che fornisce preziosi indizi sui processi nascosti che modellano la struttura dell’Universo.
Il team ha infatti trovato ulteriori forti indicazioni circa l’esistenza di segnali di onde gravitazionali provenienti dal lento spiraleggiare, uno attorno all’altro, di buchi neri supermassicci, catturando però un segnale più intenso rispetto a esperimenti simili in corso con altri strumenti. Ulteriori dati e tecniche di analisi ancora più avanzate sono adesso necessari per confermare tale ipotesi e individuare univocamente il sistema binario di buchi neri supermassicci.
«Siamo fortunati che la natura ci abbia fornito orologi così precisi distribuiti in tutta la nostra galassia, le cosiddette pulsar», aggiunge Kathrin Grunthal, ricercatrice del Max-Planck-Institut für Radioastronomie e prima autrice di uno degli articoli scientifici pubblicati oggi. «Utilizzando MeerKat, uno dei radiotelescopi più potenti al mondo, possiamo monitorare con precisione questi oggetti e cercare nel loro comportamento minuscoli cambiamenti causati dalle onde gravitazionali che risuonano attraverso l’universo».
«Studiare il ronzio delle onde gravitazionali ci permette di sintonizzarci sugli echi di eventi cosmici avvenuti nel corso di miliardi di anni», spiega Matthew Miles, ricercatore di OzGrav e della Swinburne University of Technology, nonché autore principale di due degli articoli pubblicati oggi su Mnras.
«Rivelare onde gravitazionali a frequenze nell’ordine dei nanohertz», aggiunge Golam Shaifullah, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, a sua volta coinvolto nella ricerca, «ci permetterà non solo di cercare sistemi binari formati da buchi neri supermassicci, ma anche di aprire una finestra sulle fasi più antiche della formazione dell’Universo, oltre che su una varietà di processi fisici esotici».
A 18 mesi di distanza dalla prima serie di pubblicazioni da parte di altri tre esperimenti internazionali (tra cui l’European Pulsar Timing Array, Epta, in cui sono è coinvolto Inaf, l’Università di Milano Bicocca e il Gran Sasso Science Institute), i risultati pubblicati oggi offrono nuove prospettive per la comprensione dei buchi neri più massicci dell’universo, sul loro ruolo nella formazione del cosmo e sull’architettura cosmica che hanno lasciato dietro di sé.
«Comprendere e modellare il rumore di fondo che affligge il segnale delle pulsar, causato dagli effetti del gas ionizzato interposto tra le stelle, la Terra e il Sole», spiega Caterina Tiburzi, ricercatrice dell’Inaf di Cagliari coinvolta nella collaborazione Epta, «è l’elemento chiave per confermare definitivamente i risultati di Mpta, così come quelli di Epta e degli altri esperimenti precedenti. I nuovi ricevitori a bassa frequenza di MeerKat saranno strumenti straordinari per questo scopo».
«Oltre all’entusiasmo per i nuovi esiti osservativi», conclude infine Andrea Possenti, dell’Inaf Cagliari, e membro della collaborazione Mpta fin dalla sua fondazione nel 2018, «questo è un momento cruciale, che dimostra come la collaborazione internazionale negli esperimenti di tipo Pulsar Timing Array, nei quali l’Inaf è coinvolto da oltre 20 anni, spalancherà infine le porte dell’astronomia delle onde gravitazionali di frequenza ultra bassa».
Per saperne di più leggi i tre articoli pubblicati oggi su sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society:
- “The MeerKAT Pulsar Timing Array: Maps of the gravitational-wave sky with the 4.5 year data release” di K. Grunthal et al.
- “The MeerKAT Pulsar Timing Array: The 4.5-year data release and the noise and stochastic signals of the millisecond pulsar population” di Matthew T. Miles et al.
- “The MeerKAT Pulsar Timing Array: The first search for gravitational waves with the MeerKAT radio telescope” di Matthew T. Miles et al.
Thales Alenia Space punta i riflettori sulla CO2
È di pochi giorni fa la notizia che l’azienda Thales Alenia Space (una joint venture fra Thales, 67 per cento, e Leonardo, 33 per cento) sarà alla guida della prossima costellazione di satelliti per il monitoraggio dell’anidride carbonica emessa dall’uomo. Primo nel suo genere, il progetto Carb-Chaser punterà l’occhio direttamente sugli emettitori locali, riuscendo a quantificare le emissioni di anidride carbonica di singoli impianti industriali.
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Immagine della Terra catturata dalla serie di missioni Meteosat di seconda generazione il 23 marzo 2022. Crediti: EumetSat/Esa
Carb-Chaser è finanziato dal governo francese nell’ambito del piano di rilancio Francia 2030 e consentirà all’azienda di sviluppare il payload, finalizzare la dimensione della costellazione e definire il satellite precursore. L’idea è quella di sviluppare una serie di satelliti dall’architettura compatta con il miglior compromesso fra contenimento dei costi ed efficienza. Ogni satellite Carb-Chaser trasporterà un interferometro multispettrale ipercompatto, una tecnologia brevettata da Thales Alenia Space che si basa sulla miniaturizzazione di tecnologie chiave utilizzate in altri programmi come i satelliti meteorologici geostazionari Meteosat e Copernicus. Questi inteferometri offriranno la capacità di localizzare singoli pennacchi di anidride carbonica e di attribuirne la fonte a uno specifico impianto industriale, anche in condizioni atmosferiche complesse (vento, aerosol, vapore acqueo, ecc.). Queste misure indipendenti saranno poi verificate e certificate dall’agenzia spaziale europea (Esa) e dall’agenzia spaziale francese (Cnes). Non solo, grazie alla geolocalizzazione ad alta precisione, le emissioni saranno attribuite in modo accurato a specifici impianti industriali, e i dati potranno poi essere verificati anche mediante indagini in situ.
Carb-Chaser opererà in sinergia con i programmi europei esistenti dedicati alla misurazione delle emissioni di carbonio su diverse scale: MicroCarb è una missione scientifica per valutare i flussi di CO₂ su scala globale, e CO2M misurerà la CO₂ prodotta dall’uomo su scala regionale. Carb-Chaser, infine, come dicevamo, si concentrerà sulle emissioni su scala locale. I dati serviranno anche per compilare inventari atmosferici e monitorare i progressi diretti al perseguimento degli obiettivi climatici. Queste tre missioni, per quanto distinte, si completeranno e si manterranno a vicenda per fornire un quadro globale e integrato delle emissioni di carbonio e per sostenere gli sforzi internazionali nel ridurre l’impatto delle attività umane sul clima.
Acqua nelle profondità di Urano e Nettuno?
Pioggia di diamanti? Acqua superionica? Queste sono solo due delle proposte che gli scienziati planetari hanno avanzato per spiegare cosa si nasconde sotto le spesse atmosfere bluastre di idrogeno ed elio di Urano e Nettuno, i giganti ghiacciati del Sistema solare. Uno scienziato planetario dell’Università della California, Berkeley, propone ora una teoria alternativa: che gli interni di entrambi i pianeti siano stratificati e che i due strati, come l’olio e l’acqua, non si mescolino. Questa configurazione spiegherebbe perfettamente gli insoliti campi magnetici dei pianeti.
Una vista dell’interno di un pianeta gigante di ghiaccio come Nettuno. Una nuova teoria propone che al di sotto della densa atmosfera si trovi uno strato ricco di acqua che si è separato da uno strato più profondo di carbonio, azoto e idrogeno caldi e ad alta pressione. La pressione spreme l’idrogeno dalle molecole di metano e ammoniaca, creando strati di idrocarburi stratificati che non possono mescolarsi con lo strato d’acqua, impedendo così la convezione che crea un campo magnetico dipolare. Crediti: Calvin J. Hamilton/Nasa
In un articolo pubblicato questa settimana sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, Burkhard Militzer sostiene che appena sotto gli strati di nubi si trova un profondo oceano d’acqua e, al di sotto, un fluido altamente compresso di carbonio, azoto e idrogeno. Le sue simulazioni al computer mostrano infatti che, alle temperature e alle pressioni dell’interno dei pianeti, una combinazione di acqua, metano e ammoniaca si separerebbe naturalmente in due strati, principalmente perché l’idrogeno verrebbe “spremuto fuori” dal metano e dall’ammoniaca che compongono gran parte dell’interno profondo. Questi strati immiscibili spiegherebbero perché né Urano né Nettuno hanno un campo magnetico come quello terrestre, come riscontrato dalla missione Voyager 2 alla fine degli anni Ottanta.
Quando un pianeta si raffredda a partire dalla sua superficie, il materiale più freddo e denso tende ad affondare, mentre le sacche di fluido più caldo risalgono verso l’alto, simili al movimento dell’acqua in ebollizione. Questo fenomeno è noto come convezione. Se l’interno è elettricamente conduttore, uno spesso strato di materiale in convezione genererà un campo magnetico dipolare simile a quello di una barra magnetica. Ma Voyager 2 ha scoperto che nessuno dei due giganti di ghiaccio presenta un tale campo di dipolo, bensì solo campi magnetici disorganizzati. Ciò implica che non ci sia movimento convettivo di materiale in uno strato spesso negli interni profondi dei pianeti.
Un diagramma della struttura interna di Urano che mostra quattro strati distinti: idrogeno (blu chiaro), acqua (blu scuro), idrocarburi (rosso) e nucleo roccioso (giallo). Urano ha un campo magnetico disordinato che ha origine dallo strato d’acqua. L’immagine mostra anche l’estrema inclinazione dell’asse di Urano rispetto alla sua orbita e uno dei deboli anelli di materiale che circondano il pianeta. Crediti: Burkhard Militzer, Uc Berkeley, e Nasa
Per spiegare queste osservazioni, più di 20 anni fa due gruppi di ricerca distinti proposero che i pianeti avessero strati che non possono mescolarsi, impedendo così la convezione su larga scala e un campo magnetico dipolare globale. Tuttavia, la convezione in uno degli strati potrebbe produrre un campo magnetico disorganizzato. Ma nessuno dei due gruppi riuscì a spiegare di cosa fossero fatti questi strati non mescolabili.
Dieci anni fa, Militzer tentò ripetutamente di venirne a capo, utilizzando simulazioni al computer di circa 100 atomi con proporzioni di carbonio, ossigeno, azoto e idrogeno che rispecchiavano la composizione nota degli elementi del Sistema solare primordiale. Alle pressioni e alle temperature previste per l’interno dei pianeti – rispettivamente 3,4 milioni di volte la pressione atmosferica della Terra e 4.750 Kelvin – non riuscì a trovare un modo per formare gli strati. Fin quando l’anno scorso, con l’aiuto dell’apprendimento automatico, Militzer è riuscito a simulare il comportamento di 540 atomi e, con sua grande sorpresa, ha scoperto che gli strati si formano in modo naturale quando gli atomi vengono riscaldati e compressi.
«Un giorno ho guardato il modello e l’acqua si era separata dal carbonio e dall’azoto. Quello che non ero riuscito a fare 10 anni prima, ora stava accadendo», racconta Militzer. «Ho pensato: Wow! Ora so perché si formano gli strati: uno è ricco di acqua e l’altro è ricco di carbonio, e in Urano e Nettuno è il sistema ricco di carbonio a trovarsi sotto. La parte pesante rimane in basso e la parte più leggera rimane in alto e non può fare alcuna convezione. Non avrei potuto scoprirlo senza avere un grande sistema di atomi, e il grande sistema non potevo simularlo 10 anni fa».
La quantità di idrogeno “spremuta” aumenta con la pressione e la profondità, formando uno strato di carbonio-azoto-idrogeno stabilmente stratificato, quasi come un polimero plastico. Mentre lo strato superiore, ricco di acqua, probabilmente presenta convezione che produce il campo magnetico disorganizzato osservato, lo strato più profondo, ricco di idrocarburi, non può farlo. Quando ha modellato la gravità prodotta da una siffatta stratificazione di Urano e Nettuno, i campi gravitazionali hanno coinciso con quelli misurati dal Voyager 2 quasi 40 anni fa.
Militzer ne è piuttosto certo: non è la pioggia di diamanti e nemmeno l’acqua superionica a spiegare cosa si nasconde di Urano e Nettuno, bensì la separazione tra i due strati.
Lo scienziato prevede che al di sotto dell’atmosfera di Urano, spessa circa 5mila chilometri, si trovi uno strato ricco di acqua di circa 8mila chilometri e uno strato ricco di idrocarburi, anch’esso di circa 8mila chilometri. Il suo nucleo roccioso ha le dimensioni del pianeta Mercurio. Nettuno, pur essendo più massiccio di Urano, ha un diametro inferiore, un’atmosfera più sottile, ma strati ricchi di acqua e idrocarburi di spessore simile. Il suo nucleo roccioso è leggermente più grande di quello di Urano, approssimativamente delle dimensioni di Marte.
I modelli per le strutture interne dei pianeti giganti ghiacciati Urano e Nettuno prevedono due strati intermedi distinti: uno strato superiore, ricco di acqua, in cui si generano campi magnetici disorganizzati, e uno strato inferiore, non convettivo, ricco di idrocarburi. Nuove simulazioni al computer mostrano che i materiali ghiacciati si separano naturalmente ad alta pressione e temperatura in questi due strati. Crediti: Burkhard Militzer, Uc Berkeley
Il prossimo passo potrebbe essere quello di verificare con esperimenti di laboratorio a temperature e pressioni estremamente elevate se gli strati si formano in fluidi con le proporzioni di elementi che si trovano nel sistema protosolare. Anche una missione della Nasa su Urano potrebbe fornire una conferma, se il veicolo spaziale avesse a bordo un imager Doppler per misurare le vibrazioni del pianeta. Secondo Militzer, infatti, un pianeta stratificato vibrerebbe a frequenze diverse rispetto a un pianeta in convezione. Il suo prossimo progetto è proprio quello di utilizzare il suo modello computazionale per calcolare le differenze tra le vibrazioni planetarie.
Per saperne di più:
- Leggi su Proceedings of the National Academy of Sciences l’articolo “Phase separation of planetary ices explains nondipolar magnetic fields of Uranus and Neptune” di Burkhard Militzer
Proba-3: il 4 dicembre il lancio dall’India
Rappresentazione artistica dei due satelliti in volo allineati con la Terra. Crediti: Esa
Realizzare eclissi di Sole “artificiali”: è l’obiettivo dell’ambiziosa missione spaziale europea Proba-3, composta da due satelliti in formazione, uno per coprire il Sole e l’altro per osservarlo. La missione dell’Agenzia spaziale europea, che vede coinvolto anche l’Istituto nazionale di astrofisica, è pronta alla partenza con un razzo Pslv-Xl dal Centro spaziale Satish Dhawan, in India, programmata per mercoledì 4 dicembre alle 11:38 ora italiana.
«A livello tecnologico è una delle nostre missioni più eccitanti, sia per la grande rilevanza scientifica, perché ci fornirà preziose informazioni sul alcune caratteristiche del Sole ancora poco note, e sia perché metterà alla prova le nostre capacità tecniche», ha detto il direttore del Dipartimento di tecnologia dell’Esa, Dietmar Pilz, durante la conferenza stampa di presentazione della missione.
«Si tratta di una tecnica mai usata prima e che ci permetterà per la prima volta di poter “generare” eclissi di Sole lunghe circa 6 ore, e quasi una volta al giorno», dice Joe Zender, mission scientist dell’Esa. Coprire il disco solare è l’unico modo per osservarne gli strati più esterni, perché la luce diretta del Sole di fatto acceca la vista. «Finora le uniche occasioni per poter studiare la corona erano le eclissi naturali, all’incirca una volta l’anno e per 1 o 2 minuti al massimo. Ora si apre un’opportunità completamente nuova».
When ️️ spacecraft are better than ️…Launching next week, ESA’s Proba-3 platforms will manoeuvre precisely down to 1 mm to cast a shadow from one to the other, to form orbital solar eclipses on demand: t.co/qpbVjEifPv pic.twitter.com/WqbmoVdQJc
— ESA Technology (@ESA_Tech) November 27, 2024
Proba-3 è composta da due satelliti separati che, una volta in orbita, dovranno allinearsi tra loro mantenendosi in formazione a una distanza di circa 150 metri con un margine di errore di appena un millimetro: l’obiettivo è che uno dei due satelliti copra perfettamente il disco solare mentre l’altro possa guardare verso la nostra stella e, sfruttando l’ombra generata dal satellite compagno, osservare la corona solare, ossia la parte più esterna del Sole, il cui studio è fondamentale per capire meglio la nostra stella, ad esempio per poter in futuro prevedere le tempeste solari. le temibili espulsioni coronali di massa e altri fenomeni per molti versi ancora enigmatici.
Per produrre un’eclissi solare stabile dall’occultatore al coronagrafo per le sei ore previste, la coppia dovrà mantenere la formazione con una precisione di un singolo millimetro. La coppia di satelliti farà tutto questo autonomamente, impiegando una serie di sensori. Gli inseguitori stellari e la navigazione satellitare sono integrati da collegamenti radio intersatellitari, telecamere ottiche che tracciano i led, un laser che rimbalza attraverso i retroriflettori e infine sensori d’ombra – progettati e realizzati dall’Inaf – che circondano l’apertura del coronografo Aspiics. Crediti: Esa-F. Zonno
Una missione ambiziosa ed estremamente complessa, a cui l’Italia partecipa anche attraverso l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), Leonardo e Aviotec.
Animazione che mostra il metodo utilizzato dai due satelliti della missione per generare eclissi solari artificiali. Crediti: Esa
«L’Istituto nazionale di astrofisica, in particolare l’Osservatorio di Torino, ha avuto la responsabilità per lo studio, lo sviluppo, la realizzazione ed i test di qualifica e di accettazione di uno fra gli strumenti più accurati a bordo di Proba-3: il sistema metrologico Sps, lo Shadow Position Sensors», dice Silvano Fineschi dell’Inaf di Torino, che abbiamo raggiunto mentre è in viaggio verso la base indiana per assistere al lancio. «Si tratta di una serie di sensori progettati per monitorare con estrema precisione la simmetria della penombra generata dall’occultatore esterno sul piano della pupilla di Aspiics, il coronografo a bordo di Proba-3. Grazie a un algoritmo estremamente specializzato, sviluppato anch‘esso all’Inaf di Torino, saranno in grado di misurare con grande accuratezza (<0.5 mm) ogni spostamento del satellite con l’occultatore che mette nell’ombra il telescopio sull’altro satellite, a 150 m di distanza dal primo».
«Sempre l’Inaf di Torino», aggiunge Fineschi, «ha poi contribuito alle attività per la realizzazione di un altro sistema metrologico: Opse, ascronimo di Occulter Position Sensors. Opse è un sistema basato su una terna di led posizionati al centro della superficie dell’occultatore rivolta verso il telescopio, che vengono osservati insieme alla corona grazie ad un foro nell’occultatore interno del coronografo. Come l’Sps, anche l’Opse permette di misurare lo spostamento relativo tra i due satelliti».
Lo strumento Aspiics nel Laboratorio spaziale Inaf “Optical Payload Systems” durante le calibrazioni del telescopio e degli Sps. Crediti: Inaf
«Il nostro interesse nella missione è soprattutto scientifico», precisa Fineschi. «L’Inaf ha realizzato filtri a banda spettrale molto stretta che il telescopio Aspiics utilizzerà per l’osservazione del plasma ionizzato della corona e delle tempeste solari la cui comprensione è rilevante nella meteorologia spaziale». Il coinvolgimento dei ricercatori dell’Inaf nella missione è stato fondamentale anche nella fase di calibrazione dello strumento, presso il Laboratorio spaziale “Optical Payloads System”, e continuerà anche dopo il lancio: il gruppo dell’Inaf di Torino è infatti parte del Science Working Team di Proba-3.
Webb vede bracci a spirale nell’infrarosso
media.inaf.it/2024/11/28/jwst-…
L’immagine che vi proponiamo per chiudere la giornata è stata ripresa dal telescopio spaziale James Webb e ritrae la galassia a spirale Ngc 2090, nella costellazione della Colomba. I dati – raccolti dai due strumenti Miri e NirCam – mostrano i due bracci a spirale della galassia e i vortici di gas e polvere del suo disco, con un livello di dettaglio impressionante.
Galassia a spirale con un ampio disco di forma ovale. Ha un punto luminoso al centro dal quale emergono due bracci a spirale curvilinei, di colore rosso pallido, che si avvolgono intorno alla galassia. Sono circondati da un vortice di fili luminosi e macchie di polvere, con punti di formazione stellare sparsi. Il bagliore del disco sfuma dolcemente sullo sfondo, dove si vedono alcune macchie di polvere e stelle in primo piano. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, A. Leroy
Ngc 2090 è stata una delle molte galassie studiate dal telescopio spaziale Hubble per perfezionare la misura della velocità di espansione dell’universo, la costante di Hubble. Tale misura può essere fatta osservando uno speciale tipo di stelle variabili chiamate cefeidi in galassie relativamente vicine. La misurazione basata sulle cefeidi, condotta nel 1998, ha determinato che Ngc 2090 si trova a 37 milioni di anni luce dalla Terra. Secondo le ultime misurazioni, invece, Ngc 2090 dovrebbe essere leggermente più lontana, a 40 milioni di anni luce. Oltre a questa immagine di Webb, questa settimana è stata pubblicata anche una nuova immagine Hubble di Ngc 2090.
Già prima del 1998, Ngc 2090 era stata ben studiata come esempio rilevante di formazione stellare. Descritta come una spirale “flocculante”, questa galassia presenta un disco polveroso a chiazze e bracci che si sfaldano, per lo più nemmeno visibili. Questo almeno è quello che si nota dalle immagini a luce visibile di Hubble.
Nei nuovi dati NirCam nel vicino infrarosso i bracci della spirale si vedono con notevole chiarezza. NirCam rileva anche la luce delle stelle – in blu nell’immagine – più visibile al centro della galassia. Allo stesso tempo, Miri cattura la luce nel medio infrarosso dei composti a base di carbonio – in rosso nell’immagine – lungo i numerosi filamenti di gas e polvere.
Questi dati di Ngc 2090 sono stati raccolti nell’ambito di un programma osservativo che ha catturato molte galassie simili, massicce e in formazione stellare. Tali galassie si trovano alla giusta distanza e hanno un buon livello di attività, così che gli strumenti di Webb riescono a catturare un’immagine dettagliata della loro attività di formazione stellare, regalandoci una visione unica degli ammassi di giovani stelle e delle nubi di gas in esse presenti. Questa ricca collezione di immagini così dettagliate sarà molto utile agli astronomi che studiano la formazione stellare per gli anni a venire.