Papa Francesco: p. Lombardi, «un papato intenso e coraggioso».
«Tutta la grande avventura di questo pontificato, che per tanti aspetti non ha mai smesso di stupirci, trova il suo senso complessivo nell’evangelizzazione, ossia nell’annuncio a tutti – ‘tutti, tutti, tutti’ – dell’amore di Dio, della sua misericordia, che si manifesta nel modo più credibile e profondo nel Cuore di Cristo aperto per noi». Padre Federico Lombardi, scrittore emerito de La Civiltà Cattolica e presidente della Fondazione vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, dalle colonne dell’ultimo numero della rivista (quaderno 4.193).
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Papa Francesco: La Civiltà Cattolica, «la Chiesa si sente orfana e grata».
«La Chiesa si sente orfana e allo stesso tempo grata. Perciò, La Civiltà Cattolica, insieme a tutta la Chiesa, vuol esprimere, in questo momento, riconoscenza e gratitudine». È quanto si legge in una nota appena diffusa dalla rivista dei gesuiti che ripercorre i momenti più significativi del pontificato.
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Dio si presenta a noi raggiungibile mediante il lavoro
Il lavoro è sempre stato un tema centrale nel magistero di papa Francesco. Basta ricordare i discorsi ai «movimenti popolari» che hanno al centro le 3 «t» esplicitate nel suo discorso del 28 ottobre 2014: tierra, techo, trabajo, cioè terra, casa e lavoro. Oppure quello pronunciato a Genova, presso l’Ilva il 27 maggio del 2017: «C’è sempre stata un’amicizia tra la Chiesa e il lavoro, a partire da Gesù lavoratore. Dove c’è un lavoratore, lì c’è l’interesse e lo sguardo d’amore del Signore e della Chiesa».
A partire dal 1956, anno in cui la Chiesa celebrò per la prima volta il 1° maggio, e fino ad oggi in occasione della celebrazione del Giubileo dei Lavoratori voluto da papa Francesco, il pensiero va alla grande schiera dei lavoratori giornalieri e occasionali, a quelli con contratti a termine non rinnovati, a quelli pagati a ore, agli stagisti, ai lavoratori domestici, ai piccoli imprenditori, ai lavoratori autonomi, specialmente quelli dei settori più colpiti prima dalla pandemia e oggi dalla crisi finanziaria. Molti sono padri e madri di famiglia che faticosamente lottano per poter apparecchiare la tavola per i figli e garantire ad essi il minimo necessario.
Due articoli per riflettere sul tema del lavoro:
- Il lavoro e la dignità del lavoratore, l’intervista al cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, Prefetto emerito del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale.
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Tornando a Korogocho. La discarica, i gas nocivi e la speranza di chi ce la fa nonostante tutto
Una distesa infinita di baracche, una attaccata all’altra a ridosso (e dentro) la discarica più grande di Nairobi. Dal terreno esalano fumi densi “come se ci fosse una combustione, un inizio di incendio”.
Francesco: un papato intenso e coraggioso
Nei primi tempi dopo l’elezione di papa Francesco, i suoi amici che venivano da Buenos Aires per incontrarlo erano stupefatti della vitalità e dell’energia del nuovo papa. Lo amavano e lo ammiravano ed erano naturalmente felici della sua elezione, ma negli ultimi tempi del suo servizio come arcivescovo avevano avuto l’impressione che fosse meno energico e vivace che in passato, forse perché ormai vicino al traguardo dei 75 anni e quindi al compimento dell’impegno pastorale a cui aveva dedicato per tanto tempo tutte le sue forze. Più di una volta sentii osservare da qualcuno di loro che a Roma trovavano un uomo diverso, in un certo senso molto ringiovanito e più dinamico rispetto a quello che aveva lasciato poco prima l’Argentina.
Anche chi si trovava a collaborare con lui a Roma, senza averlo conosciuto prima, era colpito dalla vivacità e dall’energia che si andava manifestando giorno dopo giorno, in modo piuttosto sorprendente e in un certo senso crescente, in un uomo non più giovane e certo non dotato di un fisico prestante. Negli impegni pastorali, nelle udienze non risparmiava le forze, senza proteggersi neppure dalle intemperie. Si rilanciò senza paura in quei faticosi viaggi internazionali che il suo predecessore aveva riconosciuto ormai superiori alle sue forze. C’era qualcosa di straordinario. Una volta, durante il suo primo viaggio in Corea, gli domandai in confidenza come si spiegasse tale sua inattesa energia. Rispose subito e molto semplicemente: «È la grazia di stato». Voleva dire – come sa ogni credente – che se la volontà di Dio ti mette in una determinata situazione di vita o ti affida una missione, allo stesso tempo ti dà tutta la grazia necessaria per fare quello che si aspetta da te.
Questa «grazia di stato» lo ha accompagnato per 12 anni, un tempo più lungo di quello che forse ci saremmo aspettati e che egli stesso sembrava all’inizio aspettarsi. Ora possiamo guardare indietro e meditare su quanto, collaborando con la grazia di Dio, ha potuto fare a servizio della Chiesa e della comunità umana nel corso di un pontificato che certo lascerà il segno nella storia della Chiesa agli inizi del terzo millennio.
Argentino di origini italiane, primo papa latinoamericano, Jorge Mario Bergoglio scelse – primo e finora unico – il nome «Francesco». Capimmo subito che era una scelta impegnativa e molto coraggiosa: il Cantico delle creature, Madonna Povertà, la visita al Sultano… creazione, poveri, pace. Decise di abitare a Santa Marta piuttosto che nel Palazzo Apostolico. Il Giovedì Santo andò a celebrare la Messa della Cena del Signore non a San Giovanni in Laterano o a San Pietro, ma in un carcere minorile, lavando i piedi a ragazzi e ragazze. Pur non essendo un grande poliglotta, manifestò subito un carisma di prossimità e di empatia spontanea con la gente che ne fece un fenomeno della comunicazione. Entro un mese dall’elezione, raccogliendo un suggerimento delle riunioni pre-conclave dei cardinali, istituì un nuovo Consiglio ristretto di cardinali dei diversi continenti (prima sette, poi nove), con cui incontrarsi più volte l’anno per consultarsi anche al di fuori della Curia romana e studiare progetti di riforma. Fece il suo primo inaspettato viaggio all’isola di Lampedusa, approdo di migranti e naufraghi nel Mediterraneo.
Fin dall’inizio impostò con grande cordialità e trasparenza due rapporti importanti e «nuovi» per un papa: quello con il suo predecessore Benedetto XVI, che rimaneva a vivere in Vaticano, e quello con la Compagnia di Gesù, il suo ordine religioso di appartenenza, allora guidato da p. Adolfo Nicolás. Oltre che al viaggio in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù, dedicò il tempo estivo a stendere l’esortazione apostolica Evangelii gaudium («La gioia del Vangelo»), vero testo programmatico: una Chiesa missionaria, non «autoreferenziale», che ha da portare al mondo un Vangelo fonte di gioia.
Si può dire che nel giro di pochi mesi abbiamo potuto capire senza ambiguità linee e spirito del nuovo pontificato. Una grande corrente di simpatia e di fiducia percorse la Chiesa e il mondo, diffondendo entusiasmo e slancio rinnovati, dopo un periodo in cui alle difficoltà dei tempi si erano aggiunti i turbamenti della crisi degli abusi sessuali, delle vicende di Vatileaks, delle discussioni sullo Ior e infine anche lo sconcerto di chi non aveva compreso il significato della rinuncia di Benedetto XVI. L’avvio del nuovo pontificato fu quindi senz’altro un tempo di dimostrazione di vitalità della Chiesa, di svolta positiva, incoraggiante, se non addirittura entusiasmante. Un tempo di grazia. Ricordare quel tempo ci aiuta oggi a mettere a fuoco le coordinate per leggere i 12 anni trascorsi di cammino della Chiesa guidata da papa Francesco, pur senza la pretesa impossibile di ricordare tutto.
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Evangelizzazione
La missione della Chiesa è di annunciare il Vangelo, e questo è una buona notizia, che porta la gioia, segno inconfondibile della presenza dello Spirito Santo. Non è un caso che la parola della gioia evangelica torni non solo nel titolo del già ricordato documento programmatico Evangelii gaudium, ma anche nei titoli di diversi fra i principali testi del pontificato: Amoris laetitia, Laudato si’, Gaudete et exsultate, Veritatis gaudium…
Francesco, in particolare nei primi anni del suo pontificato, ha insistito molto su un annuncio del Vangelo che non si disperda in complicazioni e minuzie, ma vada al centro, all’essenziale, e questo essenziale è la misericordia di Dio. Anche i suoi predecessori avevano parlato molto di misericordia, in particolare Giovanni Paolo II, ma Francesco ha continuato a farlo con grande insistenza e moltiplicando iniziative e gesti esemplari molto efficaci. Il Giubileo straordinario della Misericordia (2015-2016) è stato un tempo culminante e originale, con la prima apertura della Porta santa a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, invece che a Roma; con le Porte sante nelle carceri e nei santuari del mondo, con le visite a sorpresa del venerdì pomeriggio ad asili per poveri, case per anziani e malati e così via: i gesti di misericordia spirituale e corporale. La raccomandazione ai confessori di essere sempre interpreti della misericordia di Dio, di perdonare sempre, ha ravvivato la pratica di questo sacramento, e Francesco non solo ha dato più volte personalmente l’esempio ai sacerdoti di amministrarlo, ma ha dato anche l’esempio ai fedeli di andare a confessarsi senza timore.
L’esempio come evangelizzatore Francesco lo ha dato da subito anche con le omelie delle celebrazioni mattutine a Santa Marta, che – come ricordiamo bene – erano iniziate in forma più riservata, pur ottenendo grande interesse da parte di moltissimi fedeli; ma, durante la pandemia, sono state poi giustamente trasmesse in diretta, diventando fonte di conforto per innumerevoli persone. Vogliamo sottolineare il servizio di consolazione e di sostegno spirituale svolto da Francesco nel tempo della pandemia. Si è trattato di un flagello inaspettato e per certi aspetti nuovo, che ha colpito l’umanità durante il suo pontificato. Questo gli ha richiesto e dato occasione di allargare il suo servizio spirituale al di là di ogni confine. Fra gli eventi più indimenticabili del suo pontificato rimane certamente la sua grande preghiera in una Piazza San Pietro apparentemente del tutto deserta, ma colma di una presenza spirituale e universale intensissima.
Per quanto riguarda le grandi tematiche pastorali della Chiesa nel mondo di oggi, Francesco ha riservato un’attenzione prioritaria alla famiglia, dedicandovi i primi due sinodi, che hanno dato un contributo prezioso non solo per riproporre in forma positiva e convincente il valore dell’amore come fondamento della famiglia, ma anche per sviluppare un approccio equilibrato, dal punto di vista pastorale e dottrinale, alle situazioni problematiche dal punto di vista canonico, oggi sempre più diffuse. Si trattava di affrontare il divario crescente, evidente e imbarazzante fra la realtà di fatto di numerosissime famiglie e l’insegnamento morale cattolico tradizionale. Francesco ha avuto il coraggio di farlo, proponendo la questione in sede sinodale, per trovare un approccio condiviso. Naturalmente non tutto è stato risolto, ma si è fatto un bel passo avanti, in cui ha trovato il suo posto un tema fondamentale nella visione pastorale di papa Francesco: quello del «discernimento» pastorale e spirituale, cioè la ricerca della volontà di Dio nelle situazioni concrete della vita, senza fermarsi, paralizzati, al livello delle norme e regole generali, pur comprendendone il senso.
Un altro grande tema pastorale vissuto e proposto in prima persona da Francesco è stato quello dei giovani. Non solo nelle Giornate Mondiali della Gioventù, che nel tempo non hanno perduto il loro richiamo e la loro efficacia e nelle quali Francesco – a Lisbona nel 2023, come già a Rio de Janeiro, Cracovia, Panama – ha dimostrato il suo carisma eccezionale di comunicatore di gioia ed entusiasmo cristiano, ma anche in un sinodo specifico, organizzato con una metodologia propria per ascoltare e coinvolgere i giovani – compresi i millennials e i nativi digitali –, con i loro nuovi orizzonti e i loro drammatici disagi[1] e che ha trovato espressione nella bella Esortazione apostolica Christus vivit (2019). Come affrontare, alla luce della fede e animati dalla speranza cristiana, le sfide del profondo cambiamento antropologico della posizione dell’uomo nel mondo e nelle sue relazioni con gli altri?
Sulle tracce di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, Francesco ha ripreso con grande decisione le vie del mondo con ben 47 viaggi internazionali in 66 nazioni diverse: viaggi pastorali di conferma della fede della Chiesa, di evangelizzazione, di dialogo e di pace. In tutti i continenti, con una distribuzione geografica sostanzialmente equilibrata sull’insieme del Pianeta. Ma vorremmo mettere in rilievo che Francesco è tornato più volte nell’Asia orientale, dove il suo predecessore non si era recato. Ha potuto anche almeno sorvolare la Cina, al cui popolo e alla cui Chiesa ha dedicato tanta attenzione, riuscendo a riportare nella piena comunione con Roma l’intero episcopato del Paese, senza arrestarsi di fronte ai dubbi, alle difficoltà e alle critiche. Come ai suoi predecessori, anche a lui non è stato possibile recarsi in Russia, ma è riuscito a incontrare almeno una volta il Patriarca ortodosso russo, sebbene a Cuba e di passaggio…
La sua è stata una presenza missionaria globale, aperta al dialogo ecumenico e con le altre religioni, all’incontro con tutti i popoli e le loro diverse culture. Il Vangelo di Gesù Cristo non è solo per i cristiani, ma per tutti, come appare evidente dai grandi messaggi più caratteristici di Francesco per il mondo di oggi.
La creazione, i poveri, la fratellanza per la pace
La più importante fra le encicliche di Francesco è senza dubbio la Laudato si’ (2015), «sulla cura della casa comune»[2]. L’argomento delle problematiche ambientali e della responsabilità dell’uomo non era certo nuovo, ma Francesco è riuscito a trattarlo con grande ampiezza di prospettive – teologiche e spirituali, scientifiche, sociali, economiche e politiche –, facendosi efficacemente interprete delle domande più urgenti, drammatiche e cruciali dell’umanità sul suo futuro e sulle sue responsabilità verso tutte le creature, verso tutti i suoi membri – in particolare i più deboli – e verso le prossime generazioni. Il Papa, che già si era segnalato per molti interventi coraggiosi su questioni drammatiche sui rifugiati, i migranti, le ingiustizie economiche e sociali e la «cultura dello scarto», con questa enciclica – rivolta non solo alla Chiesa, ma a tutto il mondo – si è presentato con decisione sulla scena globale come un leader morale autorevole, capace di riconoscere la gravità oggettiva dei rischi, di leggerne le cause e le interconnessioni, e di contribuire a orientare gli impegni positivi necessari per superarli nella prospettiva del bene comune.
Se questa enciclica è rimasta l’intervento più autorevole, è giusto notare che dopo di essa Francesco ha continuato a ritornare sull’argomento in molteplici occasioni durante tutto il suo pontificato, non solo con ulteriori documenti, discorsi e richiami forti e preoccupati, ma anche intervenendo personalmente in incontri internazionali, esponendosi per sollecitare l’impegno dei responsabili politici, sempre troppo debole e insufficiente rispetto ai problemi[3]. Al passo con i tempi e aperto alle problematiche, negli ultimi anni papa Francesco ha dedicato sempre più attenzione anche al tema dell’Intelligenza artificiale e dei suoi effetti sul futuro dell’umanità[4].
Tutti sanno che Francesco ci ha insegnato a guardare realtà e problemi non tanto dal centro, quanto dalle periferie. I problemi reali e urgenti, le situazioni di ingiustizia e sofferenza non solo si vedono, ma soprattutto si comprendono, si sentono meglio, in modo più coinvolto e urgente, non restando nei luoghi protetti del potere politico, economico e anche culturale, ma condividendo la vita nelle regioni e situazioni marginali geografiche e sociali… La realtà appare diversa, «se vista da Madrid o dallo Stretto di Magellano». In effetti, questa linea si è espressa in modo molto chiaro anche nella successione dei viaggi europei del Papa, che si è sviluppata dando nei primi anni una certa priorità a Paesi meno centrali, come l’Albania, la Bosnia Erzegovina, Malta, la Grecia, la Bulgaria, la Romania, la Slovacchia, l’Ungheria…
L’insistenza e la veemenza degli interventi papali sui temi già ricordati dei migranti, rifugiati, emarginati di ogni genere divennero caratteristiche fin da subito e non si sono mai attenuate nel corso degli anni[5]. Rimangono indimenticabili le visite a Lampedusa e a Lesbo, o nel Sud Sudan, o l’incontro con i Rohingya perseguitati…, ma anche le celebrazioni presso il muro di separazione a Betlemme, o le barriere al confine fra Messico e Stati Uniti… Si potrebbe continuare a parlarne a lungo. In molti Paesi del mondo, la Chiesa cattolica si è sentita fortemente incoraggiata e sostenuta dal Papa nel prendere posizioni e iniziative in favore dei migranti e dei rifugiati, nonostante si trattasse ovunque di un tema delicato e controverso.
L’ispirazione di san Francesco ritorna esplicita ed evidente nell’accento messo dal Papa sulla fratellanza fra tutti gli uomini, che non a caso dà il titolo all’altra grande enciclica del pontificato: Fratelli tutti, «sulla fraternità e l’amicizia sociale» (2020), diretta anch’essa, come la precedente, non solo ai fedeli, ma a tutti gli uomini. Il discorso è allo stesso tempo squisitamente evangelico, prendendo avvio dalla parabola del Samaritano, ma assolutamente aperto al mondo intero: un mondo terribilmente diviso, ma da ricostruire nel dialogo e – appunto – nella fraternità.
Francesco ha avuto veramente un carisma particolare nell’incontro con le persone. Nel tempo, abbiamo capito sempre meglio che cosa voleva dire quando parlava della «cultura dell’incontro». Intendeva un atteggiamento sincero e totale di ascolto, disponibilità, apertura, empatia, comprensione, dialogo fiducioso, che andasse oltre i contenuti concettuali di una discussione, per quanto approfondita, per arrivare a una sintonia della mente e del cuore, che, pur nel rispetto delle differenze, costituisse la premessa di un cammino comune, di amicizia e di passi concreti nella stessa direzione, verso la riconciliazione e la costruzione della pace.
Questa ricerca dell’incontro – non solo una disponibilità «passiva» all’incontro, ma anche una ricerca «attiva» di esso – ha avuto molte applicazioni concrete nel corso del pontificato di Francesco, sia a livello personale, sia a livello più ampio, diplomatico, ecumenico, interreligioso, e ha anche prodotto risultati, talvolta molto importanti e al di là delle aspettative. Forse l’esempio più evidente è il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi nel 2019 da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, una delle personalità più importanti del mondo musulmano sunnita. Un evento in precedenza ritenuto per lo più impensabile, ma non isolato nel quadro di questo pontificato: si pensi anche al viaggio di papa Francesco in Iraq (2021) e al suo incontro a Najaf con la massima autorità religiosa del mondo musulmano sciita, il Grande Ayatollah Ali al-Sistani.
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Ma la costruzione della pace rimane un compito mai concluso su questa terra. Con realismo e profonda acutezza, papa Francesco ha parlato, fin dall’inizio, della «terza guerra mondiale a pezzi». Si è impegnato nella misura delle sue forze per superare i conflitti. Basti pensare alla disponibilità dichiarata per mediare in Venezuela o per la riconciliazione nel Sud Sudan; al coraggioso viaggio nella Repubblica Centrafricana… Ma, nel corso del pontificato, ulteriori orribili pezzi di questa guerra mondiale si sono avvicinati a Roma e lo hanno coinvolto dolorosamente. Pensiamo anzitutto all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022 e poi al conflitto fra Israele, Hamas ed Hezbollah dopo il terribile, feroce attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e le conseguenti distruzioni a Gaza e nel Libano.
Francesco ha mobilitato la diplomazia vaticana, ha moltiplicato iniziative umanitarie, ha conservato una posizione lungimirante e superiore con i suoi appelli e la sua preghiera, ma ha dovuto assistere ancora una volta all’imperversare dell’odio, alla follia distruttrice delle armi, alle «inutili stragi», alla devastazione dei rapporti umani, alla frustrazione di tanti sforzi ecumenici e dei rapporti con l’ebraismo e con l’islam. In questo contesto oscuro e nella sofferenza, Francesco non si è scoraggiato e ha riproposto al mondo come tema del nuovo Anno giubilare proprio quello della speranza, per mantenerla viva nella lotta fondamentale fra l’odio e l’amore. Dobbiamo continuare a evocare i messaggi di pace del viaggio in Terra Santa (2014), l’abbraccio del Papa con il rabbino Skorka e con il leader musulmano Abboud davanti al Muro del Pianto.
Aspetti della «riforma»
Come già accennato, entro la scadenza di un mese dalla sua elezione papa Francesco creò il nuovo «Consiglio di cardinali» (allora detto «il C7») e pose all’ordine del giorno – anzitutto, anche se non solo – il tema della riforma della Curia romana, a cui aggiunse fin dall’inizio le riflessioni sul Sinodo dei vescovi. Il suo predecessore, consapevolmente, pur conoscendone l’importanza, non lo aveva affrontato se non con piccoli ritocchi marginali. Le Congregazioni generali pre-conclave ne avevano perciò affermato l’urgenza. Francesco cominciò coraggiosamente l’opera, avviando un «processo», senza pretendere di avere in partenza un disegno articolato, coerentemente con il suo modo di procedere con fiducia nel cammino guidato dal discernimento.
Il processo non fu facile – non mancò neppure un nuovo Vatileaks – e si svolse attraverso la realizzazione di numerose riforme parziali di quelli che erano le Congregazioni e i Pontifici Consigli, la Segreteria di Stato, le Istituzioni collegate per le comunicazioni sociali; inoltre, con l’istituzione di nuovi Organismi economici, a cui veniva dato un ruolo assai maggiore che in passato, e con altri provvedimenti. La riforma della Curia romana prese così forma gradualmente nel corso di nove anni, fino alla pubblicazione della costituzione apostolica Praedicate Evangelium del marzo 2022. Dal titolo stesso se ne comprende immediatamente l’ispirazione, che in realtà era chiara a Francesco fin dall’inizio: la Curia romana è uno strumento del Papa per il servizio alla Chiesa nel mondo, cioè l’annuncio del Vangelo. Il Dicastero per l’evangelizzazione occupa perciò simbolicamente il primo posto fra i 16 Dicasteri, e il Papa stesso lo presiede direttamente. Un’operazione così ardua e complessa comporta naturalmente difficoltà e limiti, per cui rimane certamente sempre perfettibile. Ma bisogna riconoscere che papa Francesco l’ha condotta in porto nonostante dubbi, obiezioni non tutte infondate e forti resistenze, grazie a una volontà molto ferma, che non ha avuto paura di chiedere anche sacrifici per il bene superiore della missione.
La riforma delle istituzioni non è certo tutto per rinnovare evangelicamente la Chiesa. Perciò Francesco l’ha accompagnata con il richiamo martellante allo spirito di servizio, che deve animare tutte le sue strutture e l’esercizio di ogni forma di autorità e potere. La polemica contro il «carrierismo» o la «burocratizzazione dei servizi» ha accompagnato senza posa i suoi discorsi, cercando anche di tradursi in regole di termini temporali di mandati e incarichi, per ovviare ai rischi in questo campo. In ciò Francesco non ha cercato di «ingraziarsi» gli ambienti curiali, procedendo talvolta con rigore, ma anche con la consapevolezza di poter contare sullo spirito di obbedienza e di amore alla Chiesa e al Papa della gran parte dei suoi collaboratori.
Oltre che alla Curia romana, Francesco pensò anche immediatamente al Sinodo dei vescovi. Anch’esso ha visto una profonda trasformazione nel corso del pontificato, e si può ben dire che ne aveva bisogno per riprendere vitalità e dinamismo nel suo servizio per il cammino della Chiesa. Nel tempo i sinodi erano diventati una lunga rassegna di apprezzabilissimi interventi dei molti padri sinodali, ma con una dinamica interna di dialogo e approfondimento piuttosto ridotta, tanto da risultare quasi in contraddizione con ciò che dice il suo stesso nome: «fare strada insieme». Da parte nostra, abbiamo considerato lo sforzo di rinnovamento della metodologia e del ruolo del Sinodo come non meno importante di quello dedicato da Francesco per la Curia, anzi forse di più[6]. Non siamo evidentemente ancora in grado di valutare i risultati durevoli dei due «Sinodi sulla sinodalità» nel diffondere alle comunità della Chiesa nel mondo la dinamica e lo stile di questa sinodalità, ma certamente abbiamo capito che papa Francesco ci ha indicato questa via e ha fatto il possibile per orientare ad essa il nostro modo di essere Chiesa nel mondo di oggi, continuamente in cammino insieme, domandando e ascoltando lo Spirito Santo che ci accompagna.
Nella Curia romana, come nel Sinodo, negli ultimi anni è andato crescendo sensibilmente lo spazio di responsabilità delle donne, religiose e laiche, anche in posti elevati. Francesco non ha mutato in nulla la posizione della Chiesa circa il sacerdozio per le donne e non ha neppure fatto passi impegnativi in favore del diaconato femminile, a parte l’istituzione di una commissione di studio; ma non si può non vedere un vero progresso nell’incoraggiare la partecipazione attiva e responsabile delle donne nella vita e nella missione della Chiesa. È un progresso assolutamente doveroso e urgente nel nostro tempo, non solo per motivi sociali, ma per coerenza con la corretta visione della dignità e della vocazione di ogni persona battezzata, così fortemente affermate dal Vaticano II.
Papa Francesco è stato eletto in un tempo in cui la crisi per gli abusi sessuali nella Chiesa, in particolare da parte di membri del clero, era molto grave. Papa Benedetto l’aveva affrontata con onestà e coraggio, con il piede giusto, con un ampio ventaglio di risposte e misure: dall’ascolto personale delle vittime alla migliore selezione dei candidati al sacerdozio, al maggior rigore nelle procedure disciplinari e penali e così via. Ma il cammino era ancora lungo e difficile, e Francesco ebbe molto da impegnarsi e soffrire per continuare, approfondire, allargare la strada aperta dal predecessore, combattendo i crimini, le loro radici e il loro occultamento. Si devono perciò ricordare la convocazione di un grande Incontro a Roma dei rappresentanti di tutte le Conferenze episcopali e di altre autorità (febbraio 2019), numerosi nuovi interventi normativi e pastorali[7], i suoi numerosi incontri personali con vittime di abusi, il coinvolgimento nelle vicende del Cile e l’accettazione della rinuncia collettiva dei vescovi del Paese, la costituzione di una Commissione pontificia… Rimane caratteristico di questo impegno di Francesco l’allargamento della prospettiva dagli abusi sessuali su minori a quella dell’ambito più ampio degli abusi di coscienza e di potere, alla critica del «clericalismo» come componente del problema, all’insistenza sul coinvolgimento dell’intero popolo di Dio nel rinnovamento di conversione e guarigione dalla piaga degli abusi.
In continuità con queste problematiche vanno viste anche le numerose misure di «commissariamento» di diverse congregazioni o comunità religiose o movimenti ecclesiali, spesso di non antica creazione, dove l’esercizio dell’autorità era degenerato o rischiava di degenerare in forme diverse di abuso. Anche figure di notevole fama e carisma sono state scoperte inaspettatamente – spesso dopo molti anni – gravemente colpevoli. La presenza del male e del peccato continuerà sempre a insidiare la Chiesa, ma va contrastata sempre e con decisione, e in ciò la trasparenza, la solidità e la profondità della formazione spirituale e umana svolgono un ruolo essenziale. Papa Francesco ha fatto la sua parte.
«Evangelizzatori con Spirito»
L’esortazione apostolica programmatica di papa Francesco Evangelii gaudium (EG) si concludeva con il capitolo intitolato «Evangelizzatori con Spirito»: cioè, dobbiamo essere servitori del Vangelo aperti all’azione dello Spirito Santo, che pregano e che lavorano. «Dal punto di vista dell’evangelizzazione non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore» (EG 262).
Oltre alle continue, innumerevoli occasioni di interventi dedicati alla vita cristiana e alla spiritualità nel corso di discorsi, omelie, udienze, celebrazioni di un papa molto attivo e molto desideroso di vivere la sua vocazione pastorale, vogliamo ricordare alcuni documenti caratteristici della sua esperienza e proposta spirituale.
Il principale rimane probabilmente la splendida esortazione apostolica Gaudete et exsultate («Rallegratevi ed esultate»), «sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo» (2018). Per chi si era fatto un’immagine molto limitata di papa Francesco come concentrato essenzialmente su temi sociali, questo scritto fu una bellissima sorpresa, che rivelò a tutti la profondità spirituale della prospettiva del Papa e la sua capacità di illuminare la quotidianità della vita, riattualizzando quella «chiamata universale alla santità» in cui il Concilio Vaticano II portava a compimento il suo grande discorso sulla Chiesa e sulla sua missione. I «santi della porta accanto», «la classe media della santità» non solo i santi canonizzati, ma i genitori che amano i loro figli, gli operai che portano a casa il pane dell’onesto lavoro, gli anziani e i malati che sorridono, i volontari che accudiscono con serenità… camminano nel popolo di Dio, e noi ci sentiamo accompagnati e incoraggiati da loro. Ma in realtà, questi santi sono coloro che ascoltano e seguono lo Spirito Santo, che li accompagna e li aiuta a «discernere», a cercare e trovare con gioia e fervore la via di un amore sempre più generoso e dimentico di sé e simile a quello di Gesù[8].
Francesco ci ha resi partecipi anche delle sue devozioni più care, che lo hanno sempre accompagnato nella sua vita, già ben prima del pontificato. Pensiamo alla lettera apostolica dedicata a san Giuseppe Patris corde («Con cuore di padre»), del 2020. Proprio nel giorno della solennità di san Giuseppe, Francesco aveva celebrato l’inaugurazione del suo pontificato. Oppure pensiamo all’esortazione apostolica dedicata a santa Teresa di Lisieux C’est la confiance («È la fiducia»), del 2023. E infine Francesco ci ha ancora sorpresi dedicando la sua ultima enciclica, la quarta, al Sacro Cuore di Gesù: Dilexit nos («Ci ha amati»), del 2024.
Questo grande inno finale all’amore di Dio per noi in Gesù Cristo ci riporta naturalmente ai discorsi sulla misericordia di Dio che avevano caratterizzato i primi anni di pontificato. Tutta la grande avventura di questo pontificato, che per tanti aspetti non ha mai smesso di stupirci, trova il suo senso complessivo nell’evangelizzazione, ossia nell’annuncio a tutti – «tutti, tutti, tutti» – dell’amore di Dio, della sua misericordia, che si manifesta nel modo più credibile e profondo nel Cuore di Cristo aperto per noi.
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[1]. La canonizzazione di Carlo Acutis in tempi brevissimi va compresa in questo contesto, come pure quella di Pier Giorgio Frassati.
[2]. La bella enciclica Lumen fidei (2013), in realtà la prima firmata da Francesco, è di fatto rimasta in ombra, perché in gran parte già preparata nel precedente pontificato e poi presto superata nell’interesse dal nuovo documento programmatico di Francesco Evangelii gaudium.
[3]. Ad esempio, si può ricordare l’esortazione apostolica Laudate Deum (4 ottobre 2023) sulla gravità delle conseguenze dei cambiamenti climatici e il fatto che il Papa avrebbe desiderato partecipare di persona alla Cop28 a Dubai, svoltasi sullo stesso tema poche settimane dopo a Dubai. Ricordiamo che sui temi della responsabilità ambientale Francesco ha spesso valorizzato la sua piena sintonia con il Patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo di Costantinopoli, anche con messaggi comuni.
[4]. Proprio sul tema degli effetti dello sviluppo dell’Intelligenza artificiale papa Francesco ha voluto partecipare, con un grande discorso, al G7 svoltosi a Borgo Egnazia, in Puglia, il 14 giugno 2024.
[5]. Ci sia permesso un piccolo ricordo personale. Il giorno in cui Francesco avrebbe ricevuto per la prima volta un gruppo di nuovi ambasciatori presso la Santa Sede, mi telefonò personalmente al mattino presto, mentre facevo colazione, per raccomandarmi di dare eco al breve discorso che avrebbe fatto, dedicato proprio a questi temi.
[6]. Nel ripercorrere il pontificato di Francesco, non si può dimenticare il Sinodo speciale per l’Amazzonia (2019), a seguito del quale Francesco ha pubblicato l’esortazione Querida Amazonia («L’amata Amazzonia»). È stato un sinodo dedicato a una regione specifica, in cui significativamente si sono intrecciate le dimensioni sociali, culturali, ecologiche ed ecclesiali/pastorali. Giustizia, inculturazione, conversione ecologica, evangelizzazione: tutto insieme, in una vivace dinamica di dialogo e ricerca spirituale, che non si deve certo ridurre alle discussioni, di cui tanto si parlò, sul celibato sacerdotale. Un «esperimento» di grande portata della «sinodalità» in una grande regione, cruciale per il futuro del nostro Pianeta.
[7]. Ad esempio, la Lettera al popolo di Dio pellegrino in Cile (31 maggio 2018), la Lettera al popolo di Dio (20 agosto 2018), il motu proprio Vos estis lux mundi (2019), la rimozione del «segreto pontificio» in materia di abusi (2019) ecc.
[8]. Probabilmente proprio qui si trova il punto più «gesuitico» della personalità di Francesco. Essa infatti è ispirata dalla dinamica «ignaziana» dell’apertura a un amore sempre più grande e guidata dal discernimento. Non è qualcosa di particolaristico, ma una via per avvicinarsi al cuore della vita cristiana.
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La Dichiarazione Schuman compie 75 anni
Introduzione
Papa Francesco ha posto la speranza al centro dell’Anno giubilare 2025. Nella bolla di indizione del Giubileo, Spes non confundit[1], esprime il desiderio che esso sia un’occasione di rinnovata speranza nei cuori degli esseri umani. Per i cristiani, questa speranza, che mantiene viva la fiducia nella felicità futura nonostante le incertezze e le difficoltà della vita presente, deriva più direttamente dal «Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto», dalla rivelazione dell’amore di Dio, «l’amore che scaturisce dal cuore di Gesù trafitto sulla croce».
Per alimentare ulteriormente la speranza, papa Francesco invita la Chiesa a leggere «i segni della speranza» nel mondo, in linea con l’attenzione ai segni dei tempi promossa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes (GS). «Porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo» è un antidoto alla tentazione «di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza». Tra questi segni di speranza, il Pontefice colloca al primo posto il desiderio di pace.
È quindi una felice coincidenza che nell’anno 2025 si celebri anche il 75° anniversario della Dichiarazione Schuman, un testo nato da un ardente desiderio di pace. Era infatti il 9 maggio 1950 quando Robert Schuman, allora ministro degli Affari esteri della Francia, durante una conferenza stampa al Quai d’Orsay, rese nota una proposta rivolta alla Germania. La Francia prospettava di gestire congiuntamente i mercati del carbone e dell’acciaio in una modalità nuova, di carattere sovranazionale; tale proposta non era rivolta solo alla Francia e alla Germania, ma doveva essere estesa a tutte le parti interessate. Il progetto, concepito dalla mente lungimirante di Jean Monnet, intendeva offrire una vera e propria via d’uscita ai Paesi europei all’indomani della Seconda guerra mondiale e prevenire soluzioni che avrebbero potuto aggravare le divisioni e rafforzare i sospetti, invece di sanarli. I princìpi della Dichiarazione Schuman di fatto costituirono il punto di partenza e il modello per lo sviluppo di quella che sarebbe diventata dapprima la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, poi la Comunità europea e, infine, l’Unione europea (Ue). Quel giorno può quindi essere considerato fondativo del progetto di integrazione europea, e per questo il Consiglio d’Europa nel 1985 ha proclamato il 9 maggio «Giornata dell’Europa».
Settantacinque anni dopo, tornare al testo della Dichiarazione e ai suoi princìpi fondamentali è ancora fonte di ispirazione. Per molti versi, i temi sviluppati da Schuman e Monnet – come la pace, la riconciliazione, il dialogo, la giustizia equa, la pazienza, per citarne solo alcuni – oggi sono più attuali che mai e sono in profonda sintonia con lo spirito di un Anno giubilare incentrato sulla speranza.
Motivi di disperazione, oggi come ieri
In una nota datata 3 maggio 1950[2], Monnet osservava che «ovunque si guardi nel mondo di oggi, non si incontra altro che un vicolo cieco». Proseguiva elencando alcuni di questi punti morti. C’era, in primo luogo, la diffusa percezione dell’«inevitabilità» di una guerra tra l’Occidente e l’Unione Sovietica. C’era poi la difficoltà di far reintegrare la Germania nel consesso delle nazioni occidentali, con una modalità che non risultasse minacciosa per i suoi ex avversari. Inoltre, la riorganizzazione politica dell’Europa sembrava essersi arenata in un vicolo cieco, con un Consiglio d’Europa appena nato che non soddisfaceva le aspettative dei federalisti europei. E l’elenco potrebbe continuare.
Non è azzardato tracciare alcuni parallelismi fra la situazione dell’Europa degli anni Cinquanta del secolo scorso e quella odierna. Perlomeno, bisogna riconoscere che oggi come allora la diagnosi delle sfide che il continente si trova ad affrontare è piuttosto cupa.
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È forte la tentazione di pensare che oggi siamo più divisi che mai. Sul piano della politica interna, la polarizzazione costituisce un motivo di preoccupazione in molti Paesi. Il crescente malcontento nei confronti dell’establishment politico centrista ha favorito l’ascesa di partiti più radicali, che invocano una revisione brutale dell’attuale sistema e delle sue convenzioni. Le radici della crisi sono diverse. Ma, o che si individui la causa scatenante nella disgregazione delle comunità tradizionali, o in una iniqua distribuzione dei benefici della globalizzazione economica, o in un divario crescente tra élite istruite e ampie fasce della popolazione, o nell’emergere di nuove forme patologiche di comunicazione, o in una gestione inadeguata dei flussi migratori, o in una combinazione di tutti questi fattori, il risultato finale è una profonda alterazione avvenuta nel dibattito pubblico negli ultimi anni. La capacità di ricercare il bene comune – e di accettare compromessi per raggiungerlo – è stata messa in crisi dall’incapacità di ampie componenti dello spettro politico di dialogare tra loro. Sebbene in molti Paesi d’Europa i sistemi elettorali proporzionali siano ancora preservati dagli eccessi della politica di parte che si osservano negli Stati Uniti, tuttavia, con i partiti populisti, da un lato, che sperano di emulare l’indignata politica identitaria che ha favorito Donald Trump, e i partiti centristi, dall’altro, incapaci di rivolgersi ai loro elettori smarriti se non con silenzi o condanne, lo spazio per un dialogo politico costruttivo si è drasticamente ridotto.
Anche sul fronte economico, l’Europa, nonostante la sua relativa prosperità, si sente minacciata. La guerra in Ucraina ha messo in luce l’incapacità dell’Unione europea di superare in modo significativo la produzione militare industriale della Russia, che ha un’economia pari a un decimo della sua in termini di Pil. Per quanto riguarda l’innovazione, cresce la preoccupazione che l’Europa rimanga progressivamente indietro. Gli investimenti privati nella ricerca e nello sviluppo nell’Ue rappresentano circa la metà di quelli statunitensi, e il divario di prosperità tra le due economie, che sta lentamente crescendo, rischia di diventare incolmabile, soprattutto se l’Europa non riuscirà a cogliere le opportunità legate a nuove tecnologie dirompenti, come l’intelligenza artificiale. Settori chiave, come l’industria automobilistica tedesca, mostrano segni di cedimento, e le industrie che erano state presentate quali motori del futuro, come quella delle auto elettriche o dell’energia verde, vedono oggi la Cina superare l’Europa. Rapporti recenti, come quello di Enrico Letta sul mercato unico[3], o quello di Mario Draghi sulla competitività[4], hanno formulato diagnosi preoccupanti e indicato possibili vie da percorrere. Ma c’è anche un diffuso scetticismo sulla capacità dell’Unione di mobilitare risorse politiche e finanziarie per attuare effettivamente le soluzioni proposte. Come se tutto questo non bastasse, la guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti aggiunge un ulteriore motivo di incertezza al futuro economico dell’Europa.
L’Unione europea è (di nuovo?) alla ricerca della propria anima sul piano del funzionamento istituzionale. Di fronte a crisi senza fine, avanza la tentazione di accentrare il potere. Il funzionamento della Commissione si concentra sempre più intorno alla Presidenza, per dare priorità alla rapidità delle decisioni. Al contempo, il Consiglio rafforza la propria importanza nei confronti del Parlamento, in un contesto dominato da questioni di sicurezza su cui quest’ultimo dispone di competenze limitate. Gli interessi nazionali tornano a imporsi, soprattutto in tema di migrazioni, con governi che minacciano apertamente di disattendere l’applicazione del diritto dell’Unione. Le contestazioni dirette all’idea del sovranazionalismo diventano sempre più frequenti, con richieste di ripensare la sussidiarietà così come oggi viene intesa. Giorno dopo giorno, si moltiplicano le discussioni per revocare normative e regolamenti ritenuti eccessivamente vincolanti per l’economia europea. Non molto tempo fa, queste regolamentazioni erano considerate lo strumento privilegiato dell’Europa per proiettare il proprio potere attraverso il cosiddetto «effetto Bruxelles»[5]. Con la prospettiva di un’ulteriore estensione dell’Unione verso Est, fino a includere l’Ucraina, si diventa consapevoli del fatto che l’attuale architettura istituzionale dell’Ue non è adatta a un tale allargamento, che altererebbe in modo considerevole le dinamiche di potere.
Tuttavia, tutte queste preoccupazioni impallidiscono di fronte agli sconvolgimenti geopolitici in corso. L’Europa è stata bruscamente risvegliata dall’aggressione contro l’Ucraina, dopo tre decenni in cui non aveva conosciuto minacce esistenziali al proprio territorio. I vicinati europei – meridionale e orientale –, dati quasi per scontati come zone d’influenza, riemergono oggi come un luogo di competizione. Una cosiddetta «guerra ibrida», che combina propaganda, influenza economica e attacchi digitali, vede l’Europa e i suoi alleati democratici impegnati a difendersi da tentativi di ridisegnare le sfere d’influenza. Infine, la presuntuosa politica estera statunitense America First ha portato molti a concludere che l’idea di un Occidente unito – che ha sostenuto una comune visone del mondo per ottant’anni – è giunta a una brusca fine. L’Europa potrebbe essere costretta a cavarsela da sola, cercando al contempo di tenere a bada un alleato passato a una logica puramente utilitaristica.
Se a ciò aggiungiamo le preoccupazioni legate a un possibile ridimensionamento del Green Deal, un insieme di politiche pensato per fare dell’Europa un leader nella transizione ecologica, e il crollo dei finanziamenti destinati agli aiuti umanitari e allo sviluppo, avremo un’idea del quadro scoraggiante che anima le menti e le discussioni a Bruxelles. Perché soffermarvisi? Semplicemente per ricordare che, se oggi ci sentiamo preoccupati per il contesto attuale, anche nei primi anni Cinquanta del secolo scorso non mancavano motivi di profonda inquietudine. Spesso diamo per scontato il passato, ma un ritorno al periodo della Dichiarazione Schuman ci mostra che nemmeno allora il contesto era più semplice. Dobbiamo prendere sul serio le preoccupazioni di Monnet così come quelle attuali, per cogliere appieno quanto sia stata rivoluzionaria la proposta contenuta nella Dichiarazione Schuman.
Anche allora esisteva una forte polarizzazione, sebbene assumesse una forma diversa. Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’emergere della «guerra fredda», gli atteggiamenti verso l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti tracciavano forti linee di divisione. I partiti comunisti furono rapidamente esclusi dai governi dell’Europa occidentale (nel 1947 sia in Francia sia in Italia, dove erano tra i più forti del continente), ma mantennero comunque una notevole influenza. Le divergenze ideologiche rendevano rapidamente impossibile un dialogo costruttivo. Ogni tentativo di stabilire una cooperazione in Europa veniva screditato dall’estrema sinistra come una manovra teleguidata dagli Usa e volta a impedire la pacifica convivenza con l’Urss. I socialisti moderati, da parte loro, erano spesso paralizzati dalle critiche provenienti dalla loro sinistra, non volendo dare l’impressione di concedere troppo agli Stati Uniti.
Sul piano economico, la scelta del carbone e dell’acciaio viene spesso spiegata con la loro importanza per la produzione di armamenti e con la necessità di instaurare un clima di fiducia tra ex nemici. Ma queste industrie ponevano problemi sotto altri aspetti. All’inizio degli anni Cinquanta, era evidente che l’attività mineraria in alcune regioni della Francia e del Belgio sarebbe presto risultata non competitiva rispetto al carbone proveniente dalla Germania. Vi erano inoltre timori circa la sopravvivenza dei cartelli siderurgici in Germania e circa i vantaggi che questi avrebbero potuto offrire loro rispetto ai produttori francesi. Anche il rischio di investimenti non coordinati nella produzione siderurgica a livello europeo diventava evidente. Tutto ciò, unito alla capacità degli ex Alleati di imporre la propria volontà alla Germania nella gestione economica delle regioni della Ruhr e della Saar, stava preparando il terreno per un aspro scontro di interessi nazionali.
Anche il futuro dell’integrazione europea appariva incerto. I federalisti avevano sperato che l’entusiasmo europeista, culminato nel Congresso dell’Aia del maggio 1948, avrebbe condotto alla creazione di istituzioni dotate di un chiaro mandato federale. Questo non si concretizzò, e prevalse invece un approccio basato sulla cooperazione tra Stati sovrani. In un Paese come la Francia, il principio del sovranazionalismo era tutt’altro che scontato: l’orgoglio nazionale rappresentava un pilastro fondamentale della ricostruzione postbellica, alimentato dal riferimento alla Resistenza e alla lotta contro la Germania nazista. Qualsiasi gesto distensivo nei confronti della Germania poteva essere considerato un tradimento. Allo stesso tempo, la Germania cominciava a manifestare insofferenza nei confronti della tutela esercitata dagli Alleati, che tradiva dubbi sulla sincerità del suo nuovo orientamento democratico e pacifico. La vicenda della Saar, che era stata sottratta alla Germania per essere trasformata in un protettorato francese, stava avvelenando i rapporti tra i due Paesi.
Per quanto riguarda il contesto geopolitico, a dominare la scena era la «guerra fredda». Con l’esplosione della prima bomba atomica sovietica nel 1949, il mondo era entrato in una fase completamente nuova, caratterizzata da un equilibrio precario e da una feroce competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica. In quei primi anni, l’Europa stessa era ancora il campo di battaglia su cui si tracciavano senza scrupoli le sfere d’influenza. Si andavano formando nuove alleanze, la più rilevante delle quali fu l’Alleanza atlantica. Ma anche allora il rapporto fra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale era difficile. Desiderosi che l’Europa si assumesse al meglio la propria difesa, gli statunitensi premevano per un rapido riarmo della Germania e per il suo inserimento nelle istituzioni dell’Occidente. Una prospettiva che dagli altri governi europei era vista come prematura, per il timore di dover spiegare tale riarmo alle loro popolazioni. Sulla scena globale, le tensioni tra europei e statunitensi si concentravano soprattutto sul tema delle colonie, con gli Stati Uniti che spingevano per la decolonizzazione, a volte in modo aggressivo.
Rifiutare la disperazione
Nella già citata nota del 3 maggio 1950, Monnet collega strettamente tutti questi aspetti. Egli vede in atto un processo quasi ineluttabile. Poiché l’attenzione di tutti i leader era focalizzata sulla «guerra fredda» e sulla necessità di contenere l’Unione Sovietica, le politiche sarebbero state subordinate a tale obiettivo. Di conseguenza, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbero voluto mobilitare le risorse della Germania. Il primo passo sarebbe stato quello di aumentare la produzione industriale, in particolare quella dell’acciaio. Con l’industria francese incapace di competere, ciò avrebbe portato a politiche protezionistiche, compromettendo le prospettive generali di crescita in Europa (e della Francia in particolare) e alimentando vecchi rancori (tra Francia e Germania certamente, ma anche tra Francia e altre potenze che avessero forzato la mano sulla questione). A lungo andare, qualsiasi prospettiva di riconciliazione sarebbe stata compromessa. In effetti, una conferenza degli Alleati, prevista a Londra per il 10 maggio, avrebbe probabilmente avviato tale processo. Come osserva ancora Monnet, questo corso d’azione sarebbe avvenuto non perché qualcuno lo volesse, ma solo per mancanza di una soluzione migliore ai problemi in questione.
Questa diagnosi non era di per sé originale. Dall’altra parte del confine, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer era giunto a conclusioni analoghe. Desideroso di ripristinare la sovranità del proprio Paese e di porre fine alla molteplicità di regole imposte all’industria tedesca, era ben consapevole della necessità di farlo con una modalità che rafforzasse la fiducia, soprattutto nei confronti della Francia. Nel marzo del 1950, egli aveva proposto l’idea di una piena unione politica ed economica tra Germania e Francia, possibilmente come premessa di più ampi Stati Uniti d’Europa. Questa proposta però era stata respinta subito dai leader francesi, che l’avevano definita irrealistica.
Non si sottolineerà mai abbastanza che, a fronte di questo quadro di determinismo pessimistico e di speranze frustrate, nel corso degli anni si era preparato un più generale sfondo di speranza. L’idea di promuovere la pace attraverso una qualche forma di integrazione europea era in fase di elaborazione da decenni. Idee di federalismo europeo erano già state proposte nel periodo tra le due guerre mondiali, in particolare da Richard Coudenhove-Kalergi e Aristide Briand, in reazione ai massacri della Prima guerra mondiale. Gli orrori della Seconda guerra mondiale diedero ad esse nuovo impulso. Il Congresso dell’Aia del 1948 è un esempio di questo momento politico e culturale, in cui a molti apparve in un certo senso evidente una qualche forma di profonda cooperazione europea.
Oltre agli imperativi del momento, altri fattori alimentarono l’immaginazione di quegli attori che diedero forma alla prima integrazione europea. Parte delle aspirazioni verso nuove forme di solidarietà europea può essere ricondotta alle origini di alcuni di tali protagonisti, come Robert Schuman o Alcide De Gasperi: entrambi provenivano da regioni di confine, che nel corso degli anni avevano regolarmente cambiato appartenenza, il che li rendeva profondamente consapevoli della complessa relazione tra appartenenza locale e identità nazionale. Anche le esperienze personali della Seconda guerra mondiale furono determinanti, sia per quei leader europei che strinsero nuovi legami durante il loro esilio all’estero, come Jean Monnet e Paul-Henri Spaak, sia per coloro che avevano sperimentato in prima persona i pericoli di un nazionalismo incontrollato, come Adenauer.
Una comunità di intenti tra molti dei primi artefici di un’Europa unita può essere fatta risalire anche alla loro comune appartenenza alla Democrazia cristiana. L’ideale europeo era stato strettamente legato al pensiero cristiano da figure influenti come Jacques Maritain, e ulteriormente sostenuto dall’interesse per l’unificazione europea manifestato da papa Pio XII. Il fatto che, verso il 1950, i partiti democratico-cristiani fossero al governo in molti Paesi dell’Europa continentale avrebbe certamente favorito i primi passi dell’integrazione europea[6].
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Tuttavia, la proposta di Monnet, fatta propria da Schuman, non era solo una conseguenza logica del corso della storia né una semplice continuazione del passato. Era al contrario un tentativo deliberato di invertire il corso della storia rispetto a quello che sembrava il suo naturale svolgimento. Lasciata andare «con il pilota automatico», l’Europa avrebbe potuto facilmente ricadere nei suoi vecchi demoni. Tracciare un’altra rotta richiedeva, da un lato, una chiara visione di un futuro migliore: gli ideali e la buona volontà di fondo c’erano, ma non erano sufficienti. Dall’altro lato, per preservare le aspirazioni europee alla pace e all’unità e per dare alla speranza un futuro, il progetto doveva trovare un nuovo veicolo, determinare un cambio di paradigma.
Un nuovo percorso
Il percorso tracciato dalla Dichiarazione Schuman cerca di evitare le insidie di due approcci logici alle difficoltà dell’Europa. Il primo consisteva nel creare strutture intergovernative ad hoc, finalizzate a gestire problemi specifici, o nell’istituire organi intergovernativi di coordinamento. Un simile approccio non comporta alcuna perdita di sovranità per gli Stati e si basa su decisioni negoziate. Il pericolo è che il risultato della negoziazione spesso non si fondi su una soluzione ottimale, ma su un equilibrio tra i diversi interessi nazionali. Inoltre, si tratta di un equilibrio di potere, che potrebbe essere percepito come ingiusto qualora un attore si trovasse in una posizione di debolezza. Il modo in cui la Francia affrontò la reintegrazione della Germania, dando priorità alla propria sicurezza e sentendosi al contempo minacciata dai tentativi anglosassoni di modificare lo status quo, dimostra i limiti di tale percorso.
Il secondo approccio, più vicino agli ideali del federalismo, non cerca di fornire soluzioni dirette a problemi specifici. Piuttosto, cerca di creare un nuovo quadro generale entro cui risolvere tutti i problemi futuri. Logicamente, tale quadro trarrebbe la propria legittimità da qualche tipo di sostegno popolare, assumendo la forma di un processo costituente, dell’istituzione di qualcosa che almeno assomigli a una costituzione. Dotata di una propria legittimazione democratica, la nuova entità può giustificare il proprio potere rispetto alle precedenti istituzioni nazionali. Tuttavia, una simile soluzione richiede un enorme slancio politico per essere avviata. Ne è un esempio la proposta di una piena unione politica tra Francia e Germania avanzata da Adenauer nel marzo del 1950 e respinta come prematura.
Il nuovo approccio, che è alla base della Dichiarazione, affronta una questione specifica, sottraendola alle competenze nazionali e ponendola sotto una nuova autorità sovranazionale. In tal modo, gli ex concorrenti devono vedere la situazione da una nuova prospettiva. Questa nuova dinamica, se gestita con onestà, li spinge ad adottare una prospettiva più ampia, che apre nuove possibilità. Regolamentazioni vantaggiose, come le leggi antitrust, che in precedenza avrebbero potuto essere rifiutate o rinviate per timore di indebolire la posizione del proprio Paese, diventano improvvisamente concepibili, una volta che vengano applicate equamente a tutti. Inoltre, una sottomissione comune a un’autorità sovranazionale ristabilisce l’uguaglianza tra i Paesi, e con essa anche la dignità, perché i Paesi in posizione di debolezza non sono più costretti a elemosinare concessioni, ma partecipano equamente al processo decisionale. Idealmente, gli Stati vengono così spinti ad abbandonare l’atteggiamento di commercianti che cercano i propri interessi e ad assumere invece quello di collaboratori alla ricerca del modo migliore per costruire qualcosa insieme. Presumibilmente, nelle intenzioni di Schuman e Monnet, questo atteggiamento di cooperazione avrebbe dovuto radicarsi ed estendersi a nuovi settori della vita economica e politica.
Qui si assiste a un chiaro trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali alla nuova autorità. Esso è reso politicamente accettabile, in un primo momento, dalla sua portata limitata. Tuttavia, la legittimità democratica a lungo termine di un tale approccio può essere paragonata a una scommessa di speranza. Con gli Stati nazionali ancora in vita, la nuova struttura dovrà dimostrare la necessità della sua esistenza in base ai risultati che sarà in grado di produrre. La complessità della valutazione di tali risultati deriva dal fatto che alcuni di quegli obiettivi sono ambiziosi e fluidi, mentre altri sono più pratici.
Gli obiettivi della Dichiarazione
Il testo della Dichiarazione[7] prevede innanzitutto molteplici obiettivi ambiziosi, legati alla messa in comune del carbone e dell’acciaio: creare una solidarietà di fatto, eliminare la secolare opposizione tra Francia e Germania, rendere materialmente impossibile qualsiasi guerra tra i due Paesi, gettare solide basi per la loro unificazione economica, contribuire all’innalzamento del tenore di vita, perseguire lo sviluppo del continente africano ecc. Tutti questi obiettivi si riassumono in un’unica dinamica: una fusione di interessi indispensabile per la creazione di un sistema economico comune, da cui possa nascere una comunità più ampia e profonda. Questa comunità, necessaria per preservare la pace, dovrebbe prendere corpo in una Federazione europea.
Gli obiettivi pratici della Dichiarazione appaiono piuttosto modesti rispetto a questa grande visione. Essi sono enunciati così: 1) assicurare nel più breve tempo possibile la modernizzazione della produzione e il miglioramento della sua qualità; 2) fornire carbone e acciaio a condizioni identiche ai mercati francese e tedesco, nonché a quelli degli altri Paesi membri; 3) sviluppare esportazioni comuni verso altri Paesi; 4) uniformare e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori in queste industrie.
Qualsiasi valutazione dell’eredità della Dichiarazione Schuman, o della traiettoria del progetto europeo alla luce dei suoi princìpi fondanti, deve tener conto di questi molteplici livelli di intenzionalità. Un primo livello di interrogativi deve riguardare gli obiettivi pratici dell’impresa, che si rivelano come un intreccio complesso. Lungi dall’essere focalizzati semplicemente su un mercato ottimale del carbone e dell’acciaio o sulla crescita economica, essi rivelano anche una preoccupazione sociale per le condizioni di vita dei lavoratori (e non solo per le loro condizioni di lavoro). La scelta delle industrie del carbone e dell’acciaio non era infatti disgiunta da una riflessione sociale: le condizioni lavorative in tali industrie erano emblematiche di quelle affrontate dalla classe operaia nel suo complesso. In due discorsi pronunciati al Collegio di Bruges nel 1953[8] – che probabilmente sono tra i migliori commenti che si possano leggere sulla Dichiarazione –, Schuman sottolineava l’importanza dei sindacati nella definizione dell’atto fondativo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Allo stesso modo, il riferimento all’uguaglianza delle condizioni di vita confuta l’idea che le condizioni di vita in tutta Europa si possano armonizzate semplicemente attraverso le forze del mercato. Impatto economico, progresso sociale e armonizzazione degli standard di vita: ecco tre indicatori di una visione concreta dell’Europa.
Non sorprende che questi obiettivi concreti si integrino perfettamente con gli obiettivi ambiziosi menzionati nella Dichiarazione. Ciò che era stato previsto per il settore del carbone e dell’acciaio era infatti solo un modello iniziale per un progetto più ampio. Nei suoi discorsi del 1953, Schuman tuttavia sottolineò che questo settore era, in pratica, un obiettivo abbastanza facile. Il livello tecnologico simile tra i Paesi, il numero ridotto di imprese rispetto alla loro importanza per l’economia, l’indipendenza da fattori culturali facevano sì che l’armonizzazione non presentasse particolari difficoltà. Oggi, questo motivo di preoccupazione potrebbe tradursi nel chiedersi se, in primo luogo, lo sviluppo indotto dalla partecipazione all’Unione europea sia sufficiente ad assicurare la coesione di un’Unione sempre più diversificata e, in secondo luogo, quanto siano dannose per la dinamica dell’integrazione politica le persistenti differenze di ricchezza tra i Paesi europei.
L’accenno al contribuire allo sviluppo dell’Africa, per quanto ambiguo potesse essere nel 1950 nel contesto del colonialismo ancora in corso, dovrebbe anche indurre a una riflessione critica, quando si tratta del rapporto tra un continente ricco e il resto del mondo[9].
Per approfondire ulteriormente la questione, bisognerebbe chiedersi se gli sviluppi degli ultimi 75 anni abbiano effettivamente portato a quella fusione di interessi e a quel sistema economico comune immaginati da Monnet. Alla luce degli evidenti risultati raggiunti dall’Unione europea, una domanda più pertinente che potremmo porci è se un sistema economico apparentemente comune abbia effettivamente portato a una fusione commensurabile di interessi nazionali, da un punto di vista oggettivo come pure soggettivo.
La comunità come obiettivo
Quando si tratta di valutare l’obiettivo finale della Dichiarazione Schuman, sarebbe un tragico errore confondere il mezzo – un’Europa federale – con il fine – la creazione di una comunità –. In effetti, il risultato finale formale previsto – il federalismo – era soltanto un modo per preservare ciò che era stato raggiunto durante l’intero processo. L’idea di comunità dà un’anima al federalismo. Il pericolo sarebbe quello di concentrarsi sulle istituzioni e sui progressi esteriori raggiunti verso il federalismo formale, senza valorizzare ciò che esso incarna realmente: la cura reciproca, la fiducia, la solidarietà. Tutti questi valori non si scoprono creando istituzioni, ma attraverso l’esperienza esistenziale del lavoro comune, reso a sua volta possibile da nuove istituzioni e dall’esplorazione comune di nuovi campi di cooperazione.
L’accento posto sulla comunità permette inoltre di creare un ponte tra la dimensione collettiva e quella personale. Mentre gli ideali di azione comune, appartenenza e responsabilità possono orientare l’azione collettiva e fornirle una direzione, essi possono essere sperimentati solo da persone concrete. Poiché l’Europa non può mobilitare le risorse della storia nazionale per giustificare la propria esistenza come comunità «naturale», essa deve continuamente interrogarsi su come aiutare i propri cittadini a sperimentare concretamente questo senso di comunità attraverso l’azione comune.
In quest’ottica, consentire all’Unione europea di svilupparsi verso uno stile di relazioni tra i suoi membri più transnazionale, nel quale la conciliazione degli interessi nazionali venga considerata soddisfacente tanto quanto il consenso innovativo, rappresenterebbe un tradimento delle intenzioni dei suoi fondatori pari a quello di un totale euroscetticismo.
Sempre a Bruges, nel 1953, Schuman spiegò come l’idea di comunità fosse al centro delle sue azioni: «Si tratta di un cambiamento senza precedenti nel nostro pensiero politico. L’idea di comunità deve costituire la base di tutte le future relazioni tra Paesi belligeranti. Questo è l’inizio di una comunità generalizzata, una comunità politica, una comunità militare, una comunità economica, al di là del settore del carbone e dell’acciaio. Questa è l’inevitabile catena degli eventi che volevamo. […] Questa comunità, questo principio di comunità, è una di quelle idee potenti, un’idea paragonabile a una scoperta scientifica il cui risultato non solo rimane stabilmente consolidato nel proprio campo, ma diventa anche il punto di partenza per nuovi progressi, più adatto alle esigenze di un’epoca più evoluta. La storia umana è quindi costituita da fasi successive, ciascuna delle quali si basa sulle esperienze precedenti, ma apporta il proprio contributo distintivo. Cerchiamo quindi, come nazioni e come individui, di essere gli strumenti della Provvidenza quando si tratta di individuare e far emergere quegli elementi che non abbiamo inventato noi, ma che dobbiamo portare alla luce nella nostra coscienza e nella coscienza dei popoli con cui siamo in cammino»[10].
In tempi di rinnovata polarizzazione, si corre il rischio di leggere queste parole e giudicarle ingenue, segni di un periodo di eccessivo ottimismo. Ma, così facendo, dimenticheremmo che questo appello alla comunità non è stato lanciato in tempi più facili dei nostri. Inoltre, perderemmo di vista il fatto che la comunità a cui Schuman aspirava non era un dato di fatto, ma qualcosa ancora da realizzare, qualcosa ancora da costruire sulle ceneri della guerra e di secoli di risentimenti. Così facendo, ci condanneremmo alla disperazione e all’isolamento, perché non c’è un modo giusto di relazionarsi agli altri se non all’interno di una comunità.
Qualunque giudizio possiamo dare sui risultati dei 75 anni di integrazione europea, la questione non è se abbiamo realizzato una comunità europea. Realisticamente, non l’abbiamo realizzata, e probabilmente non la realizzeremo mai completamente. La domanda è piuttosto: permettiamo ancora all’idea di comunità di plasmare le nostre speranze per l’Europa?
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[1]. Cfr Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, 9 maggio 2024.
[2]. Cfr Discussion paper by Jean Monnet, 3 maggio 1950, disponibile sul sito web del Centre virtuel de la connaissance sur l’Europe, cvce.eu/obj/discussion_paper_b…
[3]. Cfr E. Letta, «Much more than a Market (Speed, Security, Solidarity)», aprile 2024 (https://www.consilium.europa.eu/media/ny3j24sm/much-more-than-a-market-report-by-enrico-letta.pdf).
[4]. Cfr M. Draghi, «Il futuro della competitività europea», settembre 2024 (eunews.it/2024/09/09/il-rappor…).
[5]. È l’idea secondo la quale il mercato europeo sia così rilevante da spingere le imprese ad adottare le normative dell’Ue – spesso più rigorose – come linee guida e pratiche di riferimento per operare non solo nell’Unione, ma anche a livello globale.
[6]. Per un’introduzione ai primi anni dell’integrazione europea dalla prospettiva dei padri fondatori, cfr V. M. de la Torre, Europe, a Leap into the Unknown: A Journey Back in Time to Meet the Founders of the European Union, Frankfurt a. M., Lang, 2014.
[7]. Per il testo della Dichiarazione in italiano, cfr european-union.europa.eu/princ…
[8]. Cfr «Discours de Robert Schuman sur les origines et sur l’élaboration de la CECA», Bruges, 22-23 ottobre 1953 (cvce.eu/obj/discours_de_robert…).
[9]. Questa menzione, di fatto, è assente dal progetto di Monnet e appare soltanto nella versione letta da Schuman, a sottolineare l’importanza attribuita all’argomento.
[10]. «Discours de Robert Schuman sur les origines et sur l’élaboration de la CECA»,cit.
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Il Pkk e la svolta storica di Öcalan
Dopo 40 anni di lotta armata, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il gruppo armato curdo che ha combattuto per l’indipendenza e l’autonomia della popolazione curda, ha annunciato ufficialmente di deporre le armi nella sua lotta contro lo Stato turco, che considera questa organizzazione il suo principale nemico. Ciò è avvenuto dietro iniziativa del suo leader supremo, Abdullah Öcalan, imprigionato nell’isola di Imrali, nel Mar di Marmara, e su decisione del Comitato esecutivo del Pkk, che ha la sua sede nel Nord dell’Iraq. Öcalan non guida più attivamente l’organizzazione dal 1999 (anno del suo arresto), ma la sua figura rimane centrale nella storia del movimento. Di fatto, egli continua a esercitare una grande influenza sull’organizzazione e sulla sua ideologia politica. La decisione avrà certamente conseguenze, oltre che in Turchia, anche in tutta la regione, soprattutto in Siria e in Iraq, dove sono attivi gruppi alleati o vicini al Pkk[1].
Ricordiamo che i curdi in Medio Oriente sono circa 40 milioni[2], distribuiti in diversi Paesi (Turchia, Siria, Iraq e Iran); 15 milioni sono presenti nella parte anatolica della Turchia[3], dove si è sviluppata l’organizzazione armata. Se alle parole e alle decisioni seguiranno i fatti, come si spera, si tratterebbe di una svolta storica per la Turchia e per l’intero Medio Oriente, che non va in nessun modo sottovalutata.
Il messaggio di Öcalan
Il messaggio di Öcalan è datato 25 febbraio 2025 ed è stato letto in una conferenza stampa da una rappresentanza del partito filo-curdo Dem (Partito democratico dei popoli), la terza forza politica rappresentata nel Parlamento turco e il maggior partito di opposizione. Si legge nel documento: «Non c’è alternativa alla democrazia per ottenere rispetto per le identità, libera espressione e autoorganizzazione democratica. Tutti i gruppi devono abbandonare le armi, il Pkk deve sciogliersi». Öcalan poi afferma: «La volontà di Bahçeli, insieme con la volontà de Presidente [Erdoğan] e le risposte positive degli altri partiti hanno creato le condizioni per chiedere di deporre le armi. Davanti alla Storia mi prendo la responsabilità di questo appello»[4].
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Era dal mese di ottobre 2024 che il governo turco trattava con i curdi, attraverso la mediazione di Devlet Bahçeli, per porre fine al lungo conflitto che, a partire dagli anni Ottanta, aveva causato la morte di circa 40.000 persone. Va ricordato che Bahçeli è un leader del Partito del movimento nazionalista (Mhp), che è al governo con Erdoğan, quindi tradizionalmente lontano dalla causa nazionale curda[5]. I colloqui si sono intensificati dopo la caduta, a dicembre, di Assad in Siria, che faceva intravedere ai turchi maggiori spazi di manovra e la possibilità di porre fine al terrorismo curdo. Il Pkk è considerato un’organizzazione terroristica non solo dalla Turchia, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. Da parte curda, la svolta per l’autoscioglimento è maturata in tre incontri in carcere tra Öcalan e alcuni deputati del Partito democratico dei popoli. L’appello ha avuto un’accoglienza positiva sia da Nechirvan Barzani, il leader curdo della regione autonoma irachena, dove il Pkk ha basi e depositi di armi, sia dalla comunità internazionale, come l’Onu, la Casa Bianca e le cancellerie occidentali[6].
Un’opportunità storica
Il presidente turco Erdoğan ha definito l’annuncio un’opportunità storica, ma non si sa ancora che cosa abbia concesso o concederà in cambio il governo di Ankara, anche se Öcalan, che è un fine politico, ha certamente ricevuto alcune promesse. I curdi, da parte loro, vogliono diritti, autonomia amministrativa e la liberazione di centinaia di prigionieri politici rinchiusi nelle carceri turche[7]. Tra essi, il leader del Dem Selahattin Demirtaş, condannato a 42 anni di prigione con una sentenza contestata dalla Corte di giustizia europea. Come minimo, il Dem si aspetta la fine della repressione che deve subire in quanto viene considerato dal governo in carica il braccio politico del Pkk: un’accusa che è stata sempre negata dal partito filo-curdo. Inoltre, si aspetta il riconoscimento della legittimità delle elezioni amministrative in molti comuni curdi: negli ultimi 10 anni oltre un centinaio di sindaci del partito Dem, democraticamente eletti, sono stati licenziati e sostituiti dal governo, e in alcuni casi arrestati. Decine di altri politici curdi hanno subìto la stessa sorte.
L’appello di Öcalan e l’autoscioglimento del Pkk dovrebbero normalizzare la situazione e avviare un processo di pacificazione, sebbene Erdoğan abbia detto che non intende scendere a patti con il Pkk. Ciò che la Turchia sta cercando, egli ha dichiarato, non è un processo di pace, ma la resa incondizionata del movimento armato. Nel primo sabato di Ramadan, il premier ha affermato di essere pronto a riprendere le operazioni militari contro il Pkk, fino all’eliminazione dell’ultimo terrorista, «se la promessa di lasciare le armi rimane in stallo e vedremo solo qualche mossa apparente e qualche cambio di nome»[8].
Non tutti nell’organizzazione hanno accolto favorevolmente l’appello di Öcalan; Cemil Bayik, uno dei fondatori del Pkk e membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle comunità curde, in un messaggio ha affermato: «Il popolo curdo combatte per difendersi ed evitare lo sterminio. Se ci siamo armati, è perché la Turchia persegue politiche di violenza, guerra e massacri per eliminare i curdi. Se il Pkk si disarma, si risolve il problema? No. Se lo “zio” Öcalan fa questo appello, il problema svanisce? No. Lo Stato turco sta ingannando sia la sua società sia la comunità internazionale»[9].
Cauta è stata la reazione di Mazloum Abdi, comandante delle Forze democratiche siriane (Fds), che sostengono i curdi al confine siriano nel Rojava. Egli ha detto di accogliere con favore la prospettiva di pace in Turchia, ma ha lasciato intendere che il suo gruppo non è vincolato alle dichiarazioni del Pkk: «Non vogliamo sciogliere le Fds; al contrario, crediamo che rafforzeranno il nuovo esercito siriano»[10].
Nonostante lo scetticismo di una parte dei miliziani curdi, la dirigenza del Pkk ha accolto l’appello di Öcalan e ha dichiarato unilateralmente il cessate il fuoco a partire dal 1° marzo 2025, per «aprire la strada alla pace – si legge nel comunicato – e a una società democratica», sottolineando che, se «non saremo attaccati, non attaccheremo»[11]. Secondo quanto dichiarato, il gruppo è pronto a convocare un congresso che sancirà formalmente l’autoscioglimento dell’organizzazione paramilitare, come stabilito dal suo fondatore. A tale riguardo, si chiede che Öcalan venga rilasciato dalla prigione e che possa presiedere il congresso. Cosa che non sembra per nulla facile.
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Insomma, siamo di fronte a un passaggio storico, che dovrebbe segnare la fine del lungo e sanguinoso conflitto tra Pkk e Stato turco. Secondo Gülistan Kiliç Koçyiğit, vicepresidente del partito Dem, «adesso si apre un’occasione grazie alla quale non solo i curdi, ma tutti i turchi possono vincere. Perché ciò che chiamiamo questione curda è in realtà una questione di libertà, un problema di uguaglianza, un problema del riconoscimento dell’identità, un problema di accettazione come popolo»[12].
Secondo alcuni osservatori, lo scioglimento del gruppo armato negli ultimi tempi era prevedibile, dal momento che esso aveva subìto numerose sconfitte da parte dell’esercito turco. «Da un punto di vista militare – si è detto –, l’organizzazione è molto indebolita. I suoi vertici hanno accettato l’accordo anche perché negli ultimi dieci anni la Turchia ha fatto notevoli sforzi, in termini di nuove tecnologie, droni e armi, per indebolirlo militarmente»[13].
Öcalan dalla lotta armata alla lunga prigionia
Ma chi è Abdullah Öcalan, denominato dai propri sostenitori e amici «Apo» (in curdo, «zio»)? Nato nel 1949 da una famiglia di contadini nel villaggio di Omerli, Öcalan si avvicinò all’estrema sinistra quando frequentava, ad Ankara, la Facoltà di Scienze politiche. Nel 1978, assieme a un gruppo di studenti universitari curdi, fondò il Pkk, ponendo l’ideologia marxista-leninista alla base della lotta di liberazione del Kurdistan. Ne 1980 fu mandato in esilio fuori dalla Turchia e iniziò il suo peregrinare tra Damasco e la Valle della Bekaa libanese (che a quel tempo apparteneva alla Siria). Lì i curdi del Pkk si addestravano per la lotta armata, sparando a manichini e imparando ad assemblare ordigni esplosivi[14]. Nel 1998 Damasco gli intimò di abbandonare il Paese, e così Öcalan continuò la sua peregrinazione alla ricerca di un asilo politico. Dopo aver cercato rifugio in Russia, in Italia (65 giorni) e in Grecia, nel 1999 venne catturato a Nairobi, in Kenya, dagli agenti dei servizi segreti turchi. Detenuto nell’isola-prigione di Imrali, fu condannato alla pena di morte per tradimento e attentato alla sovranità dello Stato. Questa pena nel 2002 gli fu commutata in ergastolo.
L’attività terroristica del movimento cominciò nell’estate del 1984, quando il Pkk prese di mira le postazioni e i blindati dell’esercito turco. Fu l’inizio di uno scontro che durò 40 anni ed ebbe il suo epicentro nel sud-est della Turchia, regione a maggioranza curda[15]. Lo scontro, negli anni, assunse i connotati di una vera e propria guerra civile combattuta da un’organizzazione paramilitare (composta da circa 10.000 guerriglieri) che sia Ankara sia i Paesi occidentali considerano terroristica. Öcalan è ritenuto il leader dell’organizzazione; la sua persona è quasi oggetto di culto da parte dei suoi sostenitori, e di fatto le sue decisioni influenzano i destini dei curdi turchi, siriani e iracheni. Del resto, è proprio in Iraq, sulle montagne di Qandil, al confine con l’Iran, che è situato il quartiere generale dell’organizzazione.
I 26 anni di prigionia in un carcere di massima sicurezza, e in regime di isolamento, per Öcalan non sono trascorsi invano. Per l’organizzazione da lui creata è stato come un nuovo inizio sotto il profilo ideologico-politico. In quegli anni, egli ha cambiato il paradigma della lotta curda, «passando dall’indipendenza e dai postulati marxisti-leninisti a una visione confederale per i popoli del Medio Oriente, basata sulla democrazia diretta, sul femminismo e sull’ambientalismo, che oggi è condiviso da gran parte delle organizzazioni curde»[16]. In effetti, anche se i curdi sono in gran parte musulmani sunniti, nelle loro comunità le donne hanno ruoli politici e amministrativi di rilievo e l’autonomia locale di solito è molto sviluppata. Va anche sottolineato che essi non sono, come gli sciiti o i drusi, una fazione del variegato molto islamico, ma semplicemente un popolo che vive sparso in diversi Paesi, senza patria, senza uno Stato che li rappresenti.
Tornando all’appello di Öcalan, va ricordato che esso non è l’unico da lui lanciato in tutti questi anni. Altri appelli per la pacificazione erano stati inviati dalla prigione di Imrali. In quello del 28 settembre 2006, Öcalan, attraverso il suo legale, chiedeva al Pkk di dichiarare un armistizio e di cercare di raggiungere la pace con la Turchia: «È molto importante – scriveva – costruire un’unione democratica tra i turchi e i curdi. Con questo processo la via al dialogo democratico verrà finalmente aperta»[17]. Il messaggio non ebbe però alcun risultato e la lotta continuò come prima. Un nuovo appello dello stesso tenore fu lanciato nel marzo del 2013, quando Erdoğan era primo ministro e considerava Öcalan, per la sua grande autorevolezza e popolarità tra i curdi, la persona giusta per porre fine ai combattimenti. In un messaggio letto davanti a un’immensa folla radunata in occasione del capodanno curdo, nel marzo del 2015, Öcalan scrisse: «Questa lotta del nostro movimento quarantenne, che è stata piena di dolore, non è andata sprecata, ma allo stesso tempo è diventata insostenibile»[18]. Allora si arrivò a un cessate il fuoco, che però dopo pochi mesi, il 25 luglio 2015, saltò, e il conflitto entrò nella sua fase più sanguinosa. In quella occasione alcune città a maggioranza curde, come Diyarbakir, furono distrutte dall’esercito turco.
La differenza tra gli appelli precedenti di Öcalan e l’ultimo è che, mentre i primi chiedevano una tregua nei combattimenti, ora il leader e il comitato esecutivo del Pkk chiedono all’organizzazione di deporre le armi, di sciogliersi e di accettare il percorso democratico nazionale. Il cammino verso la pacificazione appare non scontato. La decisione del Pkk ha rappresentato certamente un’apertura importante, ma è stata accolta con cautela da entrambi i fronti. Alcuni settori della società turca hanno denunciato l’operazione come un tradimento nei confronti delle famiglie delle vittime degli attentati del Pkk. Inoltre, tra le forze nazionaliste c’è un forte scettiscismo nei confronti della pacificazione; in particolare, c’è il timore che ai curdi vengano concessi diritti di autoregolamentazione troppo ampi[19].
Conclusione
L’appello di Öcalan avrà una grande ripercussione anche fuori della Turchia, in particolare al confine siriano del Rojava, roccaforte dei curdi, dove le Fds, sostenute militarmente dagli Stati Uniti (presenti nel territorio con circa 2.000 soldati[20]), subiscono le pressioni sia dal nuovo governo di Damasco sia dalla Turchia, che ne chiedono insistentemente la soppressione. In particolare, la nuova leadership siriana, guidata dal presidente ad interim Ahmed al-Sharaa, vuole che le Fds si disarmino e si sciolgano, proponendo di inserirne una parte nel nuovo esercito nazionale siriano e, inoltre, che il controllo delle numerose riserve di idrocarburi nelle regioni in mano alle forze curde venga trasferito a Damasco[21]. I curdi, da parte loro, sono disposti a integrarsi in Siria, ma come unità collettiva, non come individui[22].
La Turchia nel frattempo ha minacciato un’offensiva di terra contro le milizie curde presenti nel Fds[23], perché le considera un’estensione del Pkk. Da tempo Ankara stava pianificando un’operazione contro il Pkk nel nord della Siria. Questo non è stato possibile, perché all’inizio del 2025 c’è stato un cambio di potere a Damasco[24]. Recentemente, il governo di al-Sharaa ha raggiunto un accordo con il capo delle Fds per l’integrazione di tutte le istituzioni civili e militari curde del nord-est della Siria, all’interno dell’amministrazione statale. L’attuazione di questo piano è prevista entro la fine del 2025. Nell’accordo è specificato che «la comunità curda è una componente essenziale dello Stato siriano, che garantisce il suo diritto alla cittadinanza e tutti i suoi diritti costituzionali»[25].
Infine, l’appello di Öcalan alla pacificazione ha anche un’importante ricaduta sulla politica interna turca. Erdoğan, il cui mandato presidenziale scade nel 2028, non potrà ricandidarsi, a meno che non riuscirà a convincere il Parlamento a modificare la Costituzione o a indire elezioni anticipate. Poiché il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) e il suo partner di coalizione (ilPartito del Movimento Nazionalista) non hanno i numeri per portare avanti tale progetto, egli potrebbe aver bisogno dell’aiuto di un altro grande partito. Alcuni osservatori «ritengono che egli finirà per usare il nascente processo di pace e il possibile sostegno del Dem, partito filo-curdo, per ottenere ciò che vuole»[26]. In ogni caso, lo scioglimento del Pkk potrebbe dargli quella spinta di popolarità fondamentale per prolungare il suo governo. Erdoğan «potrebbe passare alla storia come colui che ha ridimensionato o addirittura pacificato e completamente disarmato il Pkk»[27]. E questo gli darà, anche in termini elettorali, molto credito.
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[1] Cfr F. Gnetti, «Come la decisione di Öcalan può cambiare le cose in Siria e in Iraq», in Internazionale, 6 marzo 2025.
[2] Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», in Internazionale, 28 febbraio 2025.
[3] Cfr «One of the world’s longest conflicts may be ending», in The Economist, 27 febbraio 2025.
[4] F. Tonacci, «Turchia, storico appello di Öcalan: “Il Pkk si sciolga e deponga le armi”», in la Repubblica, 28 febbraio 2025.
[5] Cfr M. Ricci Sargentini, «La svolta storica di Öcalan: “Basta armi, il Pkk si sciolga”», in Corriere della Sera, 28 febbraio 2025, 14.
[6] Cfr ivi.
[7] Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», cit.
[8] F. Tonacci, «Il Pkk depone le armi. Svolta storica in Turchia: “Ora liberate Öcalan”», in la Repubblica, 2 marzo 2025.
[9] Id., «Turchia, storico appello di Öcalan: “Il Pkk si sciolga e deponga le armi”», cit.
[10] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», in Internazionale, 7 marzo 2025.
[11] F. Tonacci, «Il Pkk depone le armi…», cit.
[12] Ivi.
[13] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», cit.
[14] Cfr F. Tonacci, «Lo zio che sognava una patria e ha mostrato al mondo la causa del popolo curdo», in la Repubblica, 28 febbraio 2025.
[15] I curdi in Turchia rappresentano il 20% della popolazione. Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», cit.
[16] M. Ricci Sargentini, «La lotta, la fuga e l’infinita prigionia. L’odissea di “Apo” che coinvolse l’Italia», in Corriere della Sera, 28 febbraio 2025, 15.
[17] Ivi.
[18] Ivi.
[19] Cfr msn.com/it-it/notizie/mondo/tu…
[20] Erdoğan ha chiesto a Trump di ritirare le truppe e di lasciare che l’esercito turco si occupi della gestione dei campi di detenzione dove sono internati i guerriglieri dell’Is e le loro famiglie. Considerata la politica di disimpegno del nuovo Presidente, è possibile che gli Usa in futuro abbandonino il Paese.
[21] Cfr «One of the world’s longest conflicts may be ending», cit.
[22] Cfr F. Gnetti, «Come la decisione di Öcalan può cambiare le cose in Siria e in Iraq», cit.
[23] Le cosiddette «Unità di difesa popolare», che costituiscono la spina dorsale delle Fds.
[24] Cfr C. Hage, «L’ultimatum della Turchia alle forze curde», in Internazionale, 17 gennaio 2025.
[25] F. Tonacci, «Siria, caccia jihadista agli alawiti. Damasco fa l’accordo con i curdi», in la Repubblica, 11 marzo 2025.
[26] «One of the world’s longest conflicts may be ending», cit.
[27] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», cit.
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La concezione cristiana dell’impresa
San Giovanni Paolo II, incontrando lavoratori e imprenditori durante la sua visita in Spagna nel 1982, affermò che il lavoro, pur essendo certamente un bene dell’uomo e per l’uomo, non può essere adeguatamente valorizzato se per prima cosa non si riconosce l’inviolabile dignità di ogni essere umano. Aggiunse che la disoccupazione involontaria va contro il diritto ad avere il lavoro, che è un diritto fondamentale, perché assolutamente necessario per poter soddisfare le necessità vitali. E dopo aver riconosciuto ed elogiato gli imprenditori per l’opera che svolgono, in quanto generatori di occupazione e di ricchezza, li invitò a riflettere sulla concezione cristiana dell’impresa. Ricordò loro che l’economia non ha senso se non è riferita all’uomo, al cui servizio deve porsi. Poiché il lavoro è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro, di conseguenza l’impresa è per l’uomo, e non l’uomo per l’impresa[1].
Karol Wojtyła, che solo un anno prima aveva pubblicato l’enciclica Laborem exercens (LE)[2], rinnovò la sua proposta centrale: la necessità di superare l’innaturale e illogica antinomia tra capitale e lavoro. Sottolineò che solo l’uomo – imprenditore o lavoratore – è il soggetto del lavoro, ed è persona; il capitale non è altro che un insieme di cose. Concluse sintetizzando il concetto di impresa proprio della Dottrina sociale della Chiesa: essa non è solo una struttura produttiva, bensì una comunità di vita, un luogo dove l’uomo convive e si pone in relazione con i suoi simili e in cui viene favorito lo sviluppo personale.
Ci proponiamo qui di chiarire se questa proposta rappresenti soltanto un ideale o se si tratti di un progetto realizzabile. Quali modelli di impresa può ispirare? E di fatto li ha ispirati?
I rapporti umani in azienda
Che cosa significa considerare l’impresa come una comunità umana? Siamo di fronte a una proposta sviluppata per gradi. La sua portata può essere compresa solo se si mettono in evidenza la retrostante concezione del lavoro, della retribuzione e del ruolo dei lavoratori nella gestione dell’impresa, e quale sia la concezione della funzione e dei doveri dell’imprenditore.
Il lavoro è la preoccupazione primaria della Dottrina sociale della Chiesa. Ne sta addirittura all’origine, dal momento che essa non nasce come una considerazione astratta, ma in reazione alle concrete, e in particolare disumane, condizioni del lavoro nelle fabbriche e nelle miniere che la Rivoluzione industriale aveva causato. Con espressioni molto vicine a quelle di Karl Marx, Leone XIII, nella Rerum novarum (RN), denuncia il fatto che un piccolo gruppo di ricchi abbia imposto poco meno che il giogo della schiavitù a una moltitudine di proletari. Quindi, la prima cosa da fare è liberare i poveri operai dalla crudeltà degli sfruttatori che abusano delle persone. Bisogna fare in modo che la giornata lavorativa non duri più ore di quelle consentite dalle forze, e sempre a condizione che il lavoro venga interrotto di tanto in tanto e ci sia spazio per il riposo[3].
La sua seconda preoccupazione e richiesta è che il salario sia giusto, e da lì si creano le basi per il necessario ruolo dei sindacati. Il salario, elemento fondamentale per giudicare la giustizia dei rapporti tra dipendenti e datori di lavoro, non può essere determinato semplicemente dal libero gioco della domanda e dell’offerta[4]: deve coprire i bisogni della famiglia che è a carico dal lavoratore e, allo stesso tempo, deve tener conto delle condizioni economiche dell’azienda e della società nazionale nel suo insieme. Queste affermazioni furono sottolineate da Pio XI nella Quadragesimo anno (QA).
A poco a poco, nel discorso dei Papi si faceva strada il diritto di partecipazione alla gestione come un requisito naturale del lavoro. Pio XI, raccogliendo la riflessione provocata in quarant’anni di esistenza del sistema capitalista e nella crisi del 1929, consigliava di introdurre nel contratto di lavoro alcuni elementi del contratto societario. Così i dipendenti venivano associati alla conduzione e all’amministrazione e partecipavano in una certa misura dei benefici. Giovanni XXIII ha proseguito questo discorso nella Mater et magistra (MM), e il Vaticano II lo ha ripreso nella Gaudium et spes (GS)[5].
La Laborem exercens (1981) di Giovanni Paolo II rappresenta il culmine della dottrina pontificia, in quanto considera il lavoro come la chiave più adeguata per comprendere e valorizzare eticamente tutti i problemi sociali. L’enciclica prende le mosse dalla constatazione del grande conflitto scatenato dalla Rivoluzione industriale tra il «mondo del capitale» e il «mondo del lavoro», perché i datori di lavoro cercano di fissare il salario più basso, togliendo sicurezza al lavoro e garanzie alla salute. Ricorda che il principio della Dottrina sociale della Chiesa è quello della priorità del lavoro sul capitale. Il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il capitale, cioè l’insieme dei mezzi di produzione, è solo uno strumento o la causa strumentale. Il capitale non può essere separato dal lavoro, né il lavoro può essere contrapposto al capitale, o il capitale al lavoro, né agli uomini specifici che stanno dietro a questi concetti. L’enciclica stabilisce che può essere intrinsecamente vero e allo stesso tempo moralmente legittimo quel sistema di lavoro che supera alla radice l’antinomia tra lavoro e capitale, cercando di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della priorità sostanziale ed effettiva del lavoro[6].
L’imprenditore nella Dottrina sociale della Chiesa
Certamente la Chiesa ha avuto cura di specificare il profilo dell’imprenditore che ritiene adatto per realizzare la sua proposta riguardante l’impresa, e non poteva essere altrimenti. Lo ha fatto in relazione alle varie circostanze prevalenti. Così Leone XIII, allo scoppio della Rivoluzione industriale, enunciò i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore in termini di padrone-operaio. Stabilì che i padroni non dovevano trattare gli operai come schiavi, ma rispettarne la dignità, senza imporre un lavoro eccessivamente gravoso, e remunerare il lavoro tempestivamente. Gli operai dovevano rispettare il contratto, non danneggiare il capitale, non offendere i padroni e non fomentare rivolte.
Questo era il discorso pertinente in quel momento. L’evoluzione degli eventi economici ha fatto sì che nell’analisi entrassero nuovi elementi. Per questo Giovanni XXIII, che continuava e sviluppava la visione di Pio XI sul diritto dei lavoratori a partecipare alla vita attiva dell’impresa, ha attribuito all’imprenditore la missione di garantire l’unità necessaria per una gestione efficiente[7].
In questo contesto, Pio XII ha manifestato il suo caloroso apprezzamento del lavoro degli imprenditori per il ruolo essenziale che essi ricoprono nello sviluppo dell’economia: «Sarebbe sbagliato credere che quest’attività coincida sempre con il proprio interesse […]. Si potrebbe paragonarla piuttosto all’invenzione scientifica, all’opera artistica che nasce da un’ispirazione disinteressata e che si rivolge molto di più all’intera comunità umana che arricchisce»[8]. Paolo VI ha confermato e ampliato questo ritratto dell’imprenditore: «Qualunque sia il giudizio che si voglia dare di voi, si dovrà riconoscere la vostra bravura, la vostra potenza, la vostra indispensabilità. La vostra funzione è necessaria per una società, che trae dal dominio della natura la sua vitalità, la sua grandezza, la sua ambizione. Avete molti meriti e molte responsabilità»[9].
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Visione dell’imprenditore dopo il crollo del comunismo e la crisi del 2008
La Dottrina sociale della Chiesa è un intreccio di princìpi immutabili e applicazioni contingenti e mutevoli in risposta ai diversi problemi che si presentano. Questa dimensione storica, che le è così propria, ha fatto sì che essa reagisse a due eventi di grande importanza. Trentaquattro anni fa, nel 1991, scompariva l’Unione Sovietica. Nel 2008 abbiamo assistito a una nuova crisi finanziaria che ha scosso l’economia internazionale. Due encicliche hanno preso in considerazione gli insegnamenti di tali eventi: la Centesimus annus (CA) di Giovanni Paolo II e la Caritas in veritate (CV) di Benedetto XVI.
Secondo Giovanni Paolo II, il fattore decisivo che ha avviato il processo di caduta del comunismo è stato senza dubbio la violazione dei diritti dei lavoratori (cfr CA 23). A ciò si è aggiunta l’inefficienza del sistema economico a causa della violazione dei diritti umani all’iniziativa, alla proprietà e alla libertà nel settore economico. Ciò lo porta a riconoscere che il libero mercato è lo strumento più efficace per allocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni; e che sono evidenti e decisivi il ruolo del lavoro umano, disciplinato e creativo, e quello delle capacità di iniziativa e di spirito imprenditoriale come parte essenziale del lavoro stesso[10]. In precedenza Giovanni Paolo II, nella già citata Laborem exercens, aveva distinto due tipologie di datori di lavoro. Quella diretta comprende la persona o l’ente con cui il lavoratore stipula il contratto di lavoro a determinate condizioni; in quella indiretta, invece, rientrano tutti coloro che in un modo o nell’altro influenzano il contratto e le condizioni del lavoro (partiti politici, sindacati, associazioni di categoria, associazioni dei consumatori e lo Stato stesso).
Benedetto XVI, in reazione alla crisi economica del 2008 – la più grave dal secondo dopoguerra, causata dalla speculazione finanziaria basata sui mutui senza garanzie sufficienti concessi negli Stati Uniti –, ha affermato che la grande sfida è quella di dimostrare che non si possono lasciare da parte i princìpi tradizionali dell’etica sociale e che il principio di gratuità e la logica del dono come espressione di fraternità possono e devono trovare posto all’interno della normale attività economica come esigenza della sua logica intrinseca, della carità e della verità[11].
Tutto questo ha dato origine a un documento del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, pubblicato nel 2012 con un titolo un po’ sorprendente: La vocazione del leader d’impresa[12].
La vocazione imprenditoriale
Questo documento è una guida destinata agli imprenditori e ai docenti di economia, che mette in luce l’importanza della vocazione dell’imprenditore nel contesto dell’economia globalizzata, nonché l’apporto dei princìpi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa per l’organizzazione delle moderne attività di impresa[13]. Le sue formulazioni principali possono essere riassunte nei seguenti punti.
- Quando le aziende e i mercati, adeguatamente regolati dai governi, funzionano bene, contribuiscono in modo insostituibile al benessere materiale e spirituale della società. La recente esperienza della crisi finanziaria ha dimostrato fino a che punto, quando ciò non avviene, possano arrivare i danni provocati.
- Gli imprenditori cristiani possono sempre contribuire al raggiungimento del bene comune.
- Le difficoltà a contribuire con il lavoro personale e a servire il bene comune derivano dalle carenze dello stato di diritto, dalla corruzione, dall’avidità e dalla cattiva amministrazione delle risorse; ma, sul piano personale, la difficoltà più grande si manifesta quando si accetta di condurre una vita dissociata e di tributare una deplorevole devozione al successo mondano. Una leadership ispirata al servizio e fondata sulla fede aiuta a bilanciare le esigenze del business con i presupposti dell’etica sociale. Questo richiede di vedere, giudicare e agire.
- Vedere i segni dei tempi implica considerare quattro fattori, anch’essi ambigui e intrecciati: la globalizzazione; lo sviluppo delle comunicazioni; lo sviluppo dell’economia finanziaria; l’ascesa dell’individualismo.
- Le buone decisioni imprenditoriali sono quelle basate sul rispetto della dignità umana e sulla ricerca del bene comune. Ciò porta a produrre beni che soddisfino necessità umane autentiche in modo responsabile, con un’organizzazione che riconosca la dignità dei lavoratori. In base al principio di sussidiarietà, i lavoratori acquisiscono esperienza, si assumono le proprie responsabilità e possono prendere decisioni. Usando la loro libertà e intelligenza, diventano coimprenditori. In questo modo si ottiene una ricchezza sostenibile, che può essere distribuita equamente, cioè attraverso prezzi, salari, benefici e tasse equi.
- I leader aziendali seguono la loro vocazione quando praticano virtù e princìpi etici nel loro lavoro quotidiano. In questo modo, chi ha ricevuto molto restituisce molto alla comunità. I leader creano così un mondo migliore. La loro saggezza pratica consente di rispondere alle sfide, vedendole e giudicandole secondo princìpi illuminati dal Vangelo, e di agire come credenti che servono Dio.
Valutazione del documento
Questo documento approfondisce le potenzialità del mercato nella sua versione migliore e il comportamento corretto da mantenere al suo interno. I contributi fondamentali che offre riguardano, come attesta il titolo, l’attività imprenditoriale, intesa in termini di vocazione cristiana, e la stretta relazione che questa ha con il perseguimento del bene comune, e quindi con una visione positiva di tale attività in quanto generatrice di ricchezza.
La riflessione che vi si dipana è rivolta a coloro che, lavorando nelle aziende, hanno una profonda convinzione di essere stati chiamati da Dio a tale attività, e di essere quindi collaboratori della sua creazione. Si comincia da qui. Questa convinzione, d’altronde, viene subito rafforzata, affermando che la vocazione all’esercizio dell’impresa è un’autentica vocazione dal punto di vista sia umano sia cristiano. Bisogna tener conto del fatto che questo documento nasce in un seminario sulla citata enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, in cui è centrale la riflessione sullo sviluppo umano come vocazione[14].
L’importanza di tale formulazione è inestimabile. Come abbiamo detto, contrariamente all’opinione di chi tende a vedere i lavori rilevanti nel sistema di mercato come realtà difficilmente compatibili con una vita cristiana e con la pratica della spiritualità, si afferma che tale attività costituisce un’autentica vocazione cristiana, e per giunta di tale importanza da non avere nemmeno bisogno di essere ulteriormente fondata. Essa contribuisce al bene comune. Una buona gestione promuove la dignità dei dipendenti e lo sviluppo di virtù quali la solidarietà, la saggezza pratica, la disciplina e il sacrificio. I potenziali benefìci sono evidenti. Basta guardare alla storia recente per capire come l’innovazione nelle aziende abbia portato prosperità in innumerevoli modi, alcuni notevoli, come l’eliminazione di terribili malattie. Quando parliamo e riflettiamo sui benefìci che lo sviluppo economico ci ha apportato, spesso dimentichiamo di riconoscere coloro che vi hanno svolto un ruolo essenziale: gli imprenditori, creatori di ricchezza, che hanno reso le nostre società più prospere e più umane. A loro dobbiamo attribuire gran parte del merito del fatto che oggi viviamo, nelle aree sviluppate, molto meglio dei nostri genitori e nonni.
Qual è il limite fondamentale di questo documento? Forse il fatto di riflettere un contesto specifico: quello del mondo accademico e imprenditoriale cattolico negli Stati Uniti[15]. Il documento rispecchia i suoi risultati e convinzioni su come le aziende dovrebbero essere a tutti i livelli, ed esprime l’impresa ideale[16]. È consapevole che «costruire una impresa come una comunità di persone […] non è un compito facile. In particolare, le grandi multinazionali possono trovare difficile creare prassi e politiche atte a promuovere una comunità di uomini tra i propri associati»[17].
La realtà delle imprese tradizionali
Le organizzazioni imprenditoriali tradizionali sono caratterizzate dalla separazione dei lavoratori dai proprietari, dalla concentrazione del potere decisionale nella proprietà e dall’attribuzione a essa dei benefìci economici. Poiché mirano soprattutto a massimizzare la ricchezza degli azionisti, perseguono incessantemente la minimizzazione dei costi. Ciò significa che per loro i lavoratori sono un mero fattore di produzione, e pertanto, se c’è da alleviare una situazione economica o semplicemente da migliorare la redditività, esse ricorrono all’attuazione di politiche di licenziamento.
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
La perdita dell’impiego ha conseguenze disastrose per i lavoratori colpiti, per le loro famiglie e per la comunità. Essi subiscono il venir meno del sostegno economico, la comprensibile demoralizzazione, la perdita di autostima, di dignità e l’emarginazione sociale.
È noto che la globalizzazione produttiva comporta la perdita di posti di lavoro, che emigrano verso le economie meno sviluppate, dove i salari sono più bassi[18]. Le acquisizioni implicano che coloro che hanno costruito l’azienda vengano spesso licenziati. L’automazione comporta che i robot svolgano lavori che prima venivano assegnati agli esseri umani. «Ristrutturazione» è un eufemismo che in realtà significa «licenziamento». Inoltre, l’eliminazione dei dipendenti stabili crea un gruppo contingente di lavoratori a tempo limitato e con uno stipendio inferiore. Così si avvantaggia la proprietà.
Spesso vengono offerte spiegazioni inverosimili del licenziamento dei lavoratori, e questo è un attentato alla dignità umana e alla dignità del lavoro umano. Quanti manager si assumono la responsabilità personale, chiedendo scusa per gli errori che hanno contribuito a causare quei problemi che ora essi vogliono risolvere con i licenziamenti? Quanti accettano una riduzione del salario e dei benefìci per condividere l’onere della ristrutturazione? C’è chi guadagna prestigio anche come manager inesorabile, capace di sbarazzarsi delle persone. Per gente simile si tratta solo di forza lavoro.
Questa pratica crea un ambiente di paura e di abuso sul posto di lavoro. Coloro che rimangono occupati spesso si ritrovano sovraccarichi e vulnerabili. Il capo che agisce con metodi coercitivi arreca disagio, provoca dolore. Lavorare in un ambiente intimorito priva le persone della loro dignità: «La paura permea tutto il nostro essere, trasformando il coraggio in codardia, la nostra passione in dolore, la nostra verità in menzogna, e la nostra mente creativa e fertile in una terra desolata. Può distruggere le nostre anime e le nostre idee»[19].
Giovanni Paolo II ha scritto: «Nel lavoro […] l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità. È noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo […], che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro» (LE 21)[20]. Nello stesso tempo, Giovanni Paolo II ha condannato il pensiero economico che riduce il lavoro umano a una «merce» che il lavoratore «vende» all’imprenditore, proprietario del capitale, come mero fattore di produzione[21]. Secondo il Premio Nobel per l’economia Milton Friedmann, la responsabilità sociale delle imprese non va oltre l’aumentarne i profitti[22].
L’economicismo porta a escludere le persone
In un mondo sempre più competitivo e agguerrito, i diritti dei lavoratori ne risentono. L’irruzione della Cina nell’economia mondiale ha influito negativamente sui salari di molti lavoratori in Occidente, con conseguenze sociali e politiche[23]. Il fattore «lavoro», dopo la grande recessione del 2008, è stato caratterizzato da un’intensificazione della precarietà e della disuguaglianza, da una maggiore flessibilità e da cambiamenti strutturali derivati dalla polarizzazione dell’occupazione e del progresso tecnologico. Sebbene siano stati compiuti sforzi per mitigare gli effetti della crisi, i suoi impatti sono ancora visibili nelle condizioni lavorative e nelle disuguaglianze socioeconomiche a livello globale[24]. Il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione internazionale del lavoro hanno valutato la situazione in questi termini: «La disoccupazione colpisce con particolare durezza le economie avanzate e avrà ripercussioni sociali a lungo termine, per esempio sulla salute e sui figli dei lavoratori licenziati»[25]. Numerosi studi hanno evidenziato che la disoccupazione e la sottoccupazione sono cause di suicidio[26]. Non è forse proprio questo il contesto della denuncia di papa Francesco: «Oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”»[27]?
L’immagine che ricaviamo della moderna vita economico-imprenditoriale non è piacevole. Troppe volte chi viene considerato superfluo viene scartato, e chi è semplicemente utilizzato non viene rispettato. Con ciò si corre il rischio che troppi esseri umani non siano in grado di affrontare le sfide che si presentano e cadano nella depressione e nell’emarginazione[28].
Si tratta di mettere in pratica la vocazione che gli esseri umani hanno di essere costruttori di fraternità. La cultura dell’indifferenza e dello scarto va contrastata promuovendo la cultura della cura[29]. Ciò richiede che si affronti la questione centrale di come superare l’antinomia tra capitale e lavoro riconoscendo la priorità del lavoro (cfr LE 13).
Un nuovo modello d’impresa conforme alla dignità del lavoro
Il movimento cooperativo esiste da quasi 200 anni. È nato come reazione agli eccessi del capitalismo. I promotori si ispirarono alle idee dei socialisti utopisti, in particolare a quelle di Robert Owen.
Oggi, più di 720 milioni di persone nel mondo hanno qualche tipo di rapporto con una cooperativa. Il fatto che queste cooperative in nessun Paese rappresentino più del 10% del Pil dimostra che questa formula non è stata un’alternativa maggioritaria alle scelte aziendali tradizionali. Esiste però l’eccezione della Corporación Mondragón. Riferimento mondiale nel movimento cooperativista per sviluppo e coerenza, essa è il più grande gruppo imprenditoriale dei Paesi Baschi e il decimo in Spagna[30], un modello paradigmatico di creazione e mantenimento di posti di lavoro.
Queste imprese sono caratterizzate dal principio che tutte le persone hanno la stessa dignità e devono essere trattate di conseguenza, e che quindi è essenziale promuovere la partecipazione dei lavoratori alla gestione, ai benefìci e alla proprietà delle aziende. La solidarietà tra i componenti si manifesta in una ripartizione retributiva ragionevole. Ciò facilita la coesione sociale e un progetto condiviso. Lo scopo dell’organizzazione non è solo quello di ottenere benefìci, ma di produrre beni utili per le persone e la società, e l’azienda deve anche assumersi la responsabilità di collaborare alla risoluzione dei loro problemi. Queste aziende fanno parte di un gruppo in cui esiste intercooperazione, in modo che una cooperativa accetta le eccedenze di personale delle altre. Nessun socio viene eliminato, ma eventualmente viene trasferito. Padre José María Arizmendiarrieta, il suo ispiratore, aveva come obiettivo un progetto di trasformazione sociale a partire dalla trasformazione dell’impresa in base ai princìpi e ai valori dell’umanesimo cristiano. La sua visione, nelle sue stesse parole, è che «il socio nella cooperativa, oltre a essere un lavoratore, è anche un imprenditore»[31].
Verso un cambio di paradigma
Il nostro grande compito oggi è quello di cercare di evangelizzare l’economia, e questo implica concepire adeguatamente l’impresa, prima cellula economica sociale. Il compito è quello di realizzare un’economia sia etica sia efficace, che abbia a cuore anche la comunità.
Oggi si moltiplicano le alternative all’organizzazione tradizionale. Così nella Caritas in veritate si fa cenno all’Economia di Comunione. Questa, fondata da Chiara Lubich nel maggio 1991 a San Paolo, comprende imprenditori, lavoratori, manager, consumatori, risparmiatori, cittadini, ricercatori e operatori economici impegnati a diversi livelli nella promozione di una prassi e di una cultura economica caratterizzate dalla comunione, dalla gratuità e dalla reciprocità, proponendo e vivendo uno stile di vita alternativo a quello dominante nel sistema capitalista. Altre proposte imprenditoriali che vanno in questa linea sono i movimenti come l’autogestione, l’economia solidale, l’economia di cooperazione, l’economia civile di mercato, l’economia del bene comune e l’economia popolare e solidale.
Sappiamo che nella società i cambiamenti di paradigma non avvengono all’improvviso, né con la stessa celerità in tutte le sue componenti. Ma senza dubbio questo è stato uno degli sforzi di papa Francesco. A mo’ di conclusione, riportiamo qui due paragrafi della Dichiarazione finale di The Economy of Francesco: «Crediamo fermamente che attraverso il lavoro siamo in grado di partecipare alla creazione di Dio, realizzando noi stessi all’interno delle nostre comunità. Chiediamo una nuova cultura del lavoro che dia priorità alla dignità delle persone, che riconosca il contributo di ogni lavoratore, che generi un valore economico condiviso, rompendo la povertà dei lavoratori. […] Crediamo nella gestione come l’arte di unire le persone per il bene comune attraverso la leadership comunitaria, non la supremazia»[32].
Senza credere negli ideali non si può vivere. Realizzarli permette di essere all’altezza della vocazione alla quale siamo stati chiamati (cfr Ef 4,1-13).
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[1]. Cfr Giovanni Paolo II, s., Incontro con i lavoratori e gli imprenditori, Barcellona, 7 novembre 1982 (vatican.va/content/john-paul-i…).
[2]. Con quel documento il Papa avviò il rilancio della Dottrina sociale della Chiesa, dandole una importanza maggiore di quanta ne avesse avuto prima e accentuando aspetti che le elaborazioni del Vaticano II e dello stesso Paolo VI avevano lasciato più in ombra. Giovanni Paolo II era un Papa diverso, veniva dal freddo e aveva conosciuto il vero socialismo in prima persona, e ora si trovava a fronteggiare il liberalismo.
[3]. Questa denuncia conserva tuttora la sua ragion d’essere. Per esempio, ai raccoglitori nei campi della Florida e del Texas (Usa) la legislazione lavorativa non riconosce il diritto alle pause programmate per evitare colpi di calore (cfr aljazeera.com/program/fault-li…).
[4]. Viene in mente il famoso passo di John Steinbeck: «Metti che tu hai lavoro per un operaio, e che per avere quel posto si presenta solo uno. Ti tocca dargli la paga che vuole. Ma metti che si presentano in cento. […] Metti che quel posto lo vogliono in cento. Metti che quei cento hanno dei bambini, e che quei bambini sono affamati. Metti che dieci centesimi bastano per comprare un po’ di farina di mais a quei bambini. […] Tu offrigli cinque centesimi, e vedi se non s’ammazzano tra loro per avere i tuoi cinque centesimi» (J. Steinbeck, Furore, Milano, Bompiani, edizione Kindle Amazon, 2024, 359).
[5]. Cfr QA 65; MM 82-83; GS 65.
[6]. Cfr LE 13.
[7]. Cfr MM 83-91.
[8]. Pio XII, Discorso ai Partecipanti al Congresso dell’Associazione Internazionale degli economisti, Roma, 9 settembre 1956, in Acta Apostolicae Sedis XLVIII, 673.
[9] . Paolo VI, s., Discorso al XI Congresso nazionale dell’Unione cristiana imprenditori e dirigenti, 8 giugno 1964 (vatican.va/content/paul-vi/it/…).
[10]. Cfr CA 23; 24; 32.
[11]. Cfr CV 36.
[12]. Il documento La vocazione del leader d’impresa. Una riflessione trae origine da un seminario, svoltosi nel febbraio 2011, su «Caritas in veritate: la logica del dono e il significato dell’impresa», organizzato dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, assieme al John A. Ryan Institute for Catholic Social Thought presso l’Università St. Thomas a Minneapolis, Minnesota, e alla Fondazione Ecophilos. Il documento, preparato da una équipe di colleghi provenienti da tutto il mondo, è stato coordinato da Michael Naughton, direttore del John A. Ryan Institute, e da Helen Alford, attuale presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali (tinyurl.com/yckcd2uj).
[13]. In inglese ne è apparsa, nel 2018, una quarta edizione, in cui vengono inseriti gli insegnamenti più recenti di papa Francesco riguardo alla vocazione dell’imprenditore, all’ecologia integrale, al paradigma tecnocratico e all’importanza di una più equa distribuzione della ricchezza (tinyurl.com/fe32ymfp).
[14]. Cfr CV 11; 16-19.
[15]. Cfr H. Alford – M. Naughton, Managing as if Faith Mattered: Christian Social Principles in the Modern Organization, Notre Dame, IN, University of Notre Dame Press, 2001.
[16]. Cfr S. Del Bove – F. de la Iglesia, «Annotazioni a margine del decennale della pubblicazione del documento “La vocazione del leader d’impresa”», in Gregorianum, n. 103, 2022, 877-900.
[17]. La vocazione del leader d’impresa, cit., 59.
[18]. Cfr M. Camdessus, «Globalization, Subjective Dimensions of Work and the World Social Order», in Pontifical Council for Justice and Peace, Work as Key to the Social Question, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002, 291-300.
[19]. L. Wright – M. Smye, Corporate Abuse: How «Lean and Mean» Robs People and Profits, New York, MacMillan, 1996, 6.
[20]. Cfr H. Alford, «Job design in the perspective of “Laborem Exercens”, in Pontifical Council for Justice and Peace, Work as Key to the Social Question, cit., 215-233.
[21]. Cfr R. G. Lipsey – P. N. Courant – D. D. Purvis – P. O. Steiner, Economics: Tenth Edition, New York, Harper Collins College Publishers, 1992, 178; P. Drucker, Management: Tasks, Responsibilities, Practices, New York, Harper Colophon, 1985, 40.
[22]. Cfr M. Friedman, «A Friedman Doctrine – The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits», in The New York Times (nytimes.com/1970/09/13/archive…), 13 settembre 1970.
[23]. Cfr R. B. Freeman, «Are Your Wages Set in Beijing?», in The Journal of Economic Perspectives, vol. 9, n. 3, 1995, 15-32 (aeaweb.org/articles?id=10.1257…).
[24]. F. Hoffer, «La Gran Recesión. ¿Un momento decisivo para el trabajo?», in Crisis financieras, deflación y respuestas de los sindicatos. ¿Cuáles son las enseñanzas?, Ginevra, Oficina internacional del trabajo, 2010 (tinyurl.com/3wxzzmbr).
[25]. «Fuerte aumento del desempleo debido a la recesión mundial», in Boletín del FMI, 2 settembre 2010 (imf.org/external/spanish/pubs/…).
[26]. Cfr A. Skinner et Al., «Unemployment and underemployment are causes of suicide», in Science Advances, vol. 9, n. 28, 12 luglio 2023 (science.org/doi/10.1126/sciadv…).
[27]. Francesco, Evangelii gaudium (EG), n. 53.
[28]. Cfr F. Chica Arellano, «Globalización y desperdicio: grandes desequilibrios y desafíos socioeconómicos y ambientales para la búsqueda de la paz», in Ecclesia 38 (2024) 301-327.
[29]. «Francesco: dobbiamo opporci alla cultura dello scarto con la cultura della tenerezza», in Vatican News (vaticannews.va/it/papa/news/20…), 20 febbraio 2023.
[30]. La Corporación Mondragón impiega più di 70.000 persone; ha una presenza globale e opera nei settori della finanza, dell’industria, della distribuzione e della conoscenza. Conta su una banca, una compagnia di assicurazioni e una propria università. Cfr F. de la Iglesia Viguiristi, «Don José María Arizmendiarrieta, creatore della “esperienza cooperativa di Mondragón”», in Civ. Catt. 2024 IV 373-389.
[31]. J. M. Arizmendiarrieta, Pensamientos. Selección de Joxe Azurmendi, Otalora, 2023, n. 492.
[32]. The Economy of Francisco, Dichiarazione finale di Assisi 2022, nn. 7 e 9 (francescoeconomy.org/it/final-…).
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Il Verbo incarnato tra divinità e umanità
Il ritratto di Gesù nel Vangelo di Giovanni differisce molto rispetto a quello dei Sinottici. Non solo la forma del Vangelo è diversa rispetto a Matteo, Marco e Luca, ma anche il Gesù che ne emerge presenta caratteristiche peculiari. A dispetto dell’onniscienza che egli rivela nel corso del racconto evangelico[1], nonostante appaia pienamente sovrano durante tutta la narrazione della passione, e sebbene la sua solida relazione con il Padre venga menzionata più volte, Gesù si mostra anche fragile e vulnerabile. Nel quarto Vangelo, egli è stanco e nel bisogno (Gv 4,6); chiede da mangiare (Gv 21,5) e da bere (Gv 19,28); è assetato (Gv 4,7); è costretto alla fuga (Gv 10,39; 11,54); dichiara di essere contento (Gv 11,15), ma anche appare in più occasioni turbato (Gv 11,33; 12,27; 13,21) e grato (Gv 11,41), fino al pianto (Gv 11,35).
Il Vangelo di Giovanni esordisce con un Prologo che rivela e sintetizza la convergenza-congiunzione di divino e umano in Gesù: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). La Parola divina si incarna e assume su di sé la precarietà della carne (sarx), facendo propri la debolezza e il limite della condizione umana, fino alla morte. Il turbamento e il pianto di Gesù, dunque, non vanno considerati come una finzione, ma sono parte dell’esperienza umana del Verbo incarnato. Pertanto, come interpretare il Gesù giovanneo alla luce delle manifestazioni delle sue emozioni e dei suoi bisogni?
Lo zelo appassionato di Gesù nel tempio
Nel secondo capitolo del quarto Vangelo, Gesù inaugura il suo ministero a Gerusalemme con un’azione irruente, a tratti violenta, scacciando dal tempio i venditori e gli animali, ribaltando i loro banchi, gettando via il denaro e ammonendo i mercanti con veemenza[2]. La drammatizzazione scenica risulta quindi impressionante e travolgente: «Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”»(Gv 2,15-17).
Le emozioni di Gesù si esprimono in maniera dirompente. I discepoli vedono questa azione profetica di Gesù e la interpretano secondo il Sal 69,9. Lo zelo-gelosia del salmista è ardore e fervore dello spirito, come una passione che consuma[3]. Questo zelo ora viene attribuito a Gesù che si scaglia contro la mercificazione del tempio. Nel testo del Vangelo è presente una variazione rispetto al Salmo; in Giovanni il verbo «divorare» è al futuro, è un’anticipazione, che rinvia alla glorificazione della croce: Gesù, Verbo incarnato, si consumerà fino all’estremo per la sua missione.
Gesù, onnisciente e vulnerabile
Nel racconto della risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11) convergono e coesistono tutti gli elementi finora menzionati: la sicurezza e l’onniscienza di Gesù, basata sul suo rapporto incrollabile con il Padre che sempre lo ascolta (cfr Gv 11,42), e la sua vulnerabilità davanti alla morte dell’amico Lazzaro e nel confronto con la sofferenza di chi gli sta intorno.
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Dalle parole di Marta e Maria apprendiamo che Gesù voleva bene a Lazzaro, il loro fratello che si era ammalato: «Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, colui a cui vuoi bene[4] è malato”» (Gv 11,3). Anche la voce narrante fa capire al lettore i sentimenti di Gesù, affermando che egli ama Marta, Maria e Lazzaro con un amore totale e incondizionato, espresso dal verbo agapaō: «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (Gv 11,5). Più avanti è lo stesso Gesù che definisce Lazzaro «il nostro amico (philos)» (Gv 11,11).
Nonostante tutte queste espressioni di affetto, Gesù si mostra distaccato. La notizia della malattia dell’amico non sembra turbarlo: «All’udire questo, Gesù disse: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”» (Gv 11,4). A queste parole, che esprimono fiducia, si accompagna il fatto che Gesù rimane dov’è, senza far nulla, per due giorni interi, fino a quando decide di andare in Giudea dall’amico Lazzaro. Le sue parole allora sono taglienti: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!» (Gv 11,14-15). Paradossalmente, Gesù esprime la propria contentezza – chairō – per non aver visitato prima Lazzaro, in modo che i discepoli possano credere. Egli appare sicuro di sé, fiducioso, nel pieno controllo della situazione e dei propri sentimenti. Non c’è alcuna reazione emotiva di dolore; Gesù sa che Lazzaro, ora addormentato, si risveglierà.
La situazione cambia quando Gesù arriva a Betania. L’incontro con Marta prima, e con Maria dopo, intacca in lui quell’aura di apparente distacco e imperturbabilità. Davanti alla protesta di Marta – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 21) –, Gesù la invita a credere che suo fratello risorgerà, perché lui è la risurrezione e la vita.
La conversazione con Maria, invece, assume immediatamente un tono diverso, più affettivo. Il rimprovero rivolto a Gesù è lo stesso – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 32) –, ma quello che accade dopo suscita stupore. Al lettore viene presentata la situazione di Gesù, che vede Maria e coloro che sono con lei piangere addolorati per il lutto (in greco, klaiō): «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, fremette nello spirito e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”» (Gv 11,33-34). Gesù ora perde quella compostezza che lo aveva caratterizzato sin dall’annuncio della malattia mortale dell’amico Lazzaro. La sua reazione viene descritta dal narratore con due verbi: «fremette nello spirito» (enebrimēsato tō pneumati) e «fu turbato» (etaraxen eauton).
La traduzione del primo verbo, embrimaomai, è complessa, perché esso indicherebbe lo sbuffare con indignazione, come un cavallo incollerito e arrabbiato[5]. Contro chi è infuriato Gesù? Contro la morte che lo ha privato dell’amico[6]? Contro Maria e i presenti che non credono? Oppure egli freme dentro di sé, con sé stesso – letteralmente, nel suo spirito – perché non si è mosso prima per salvare l’amico?
Il secondo verbo, tarassō, esprime l’agitazione interiore di Gesù, scosso come l’acqua quando è mossa (cfr Gv 5,4). Gesù è turbato e agitato, e sarà accompagnato da questo stato d’animo anche nelle fasi successive del racconto evangelico. Mentre è turbato, chiede dove sia il corpo di Lazzaro. Il Verbo incarnato non è indifferente davanti al pianto degli esseri umani. Egli sa che Lazzaro risorgerà, ma adesso il dolore di chi lo circonda è reale, ed egli ne viene scosso. «Gesù scoppiò in pianto (dakruō). Dissero allora i Giudei: “Guarda come gli voleva bene!”. Ma alcuni di loro dissero: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”» (Gv 11,35-37).
Gesù piange. Questo è il versetto più breve del Nuovo Testamento. Questa volta non viene usato il verbo klaiō («piangere»), ma il verbo dakruō, presente solo qui nel Nuovo Testamento[7]; questo verbo indica il versare lacrime e il piangere silenziosamente. Si tratta di una commozione profonda e personale, che viene interpretata in modo differente da coloro che sono presenti. Il pianto di Gesù può essere una dimostrazione di affetto, secondo l’opinione dei giudei, che usano il verbo phileō; oppure un segno di inazione o di impotenza. Anche in questo caso, l’equivoco e il fraintendimento accompagnano il Gesù giovanneo[8].
Gesù allora si reca al sepolcro, fremendo dentro di sé: «Allora Gesù, ancora una volta, fremendo in se stesso, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra» (Gv 11,38). Ancora una volta ricorre il verbo embrimaomai («fremere»), accompagnato dal pronome riflessivo en eautō («in sé stesso»). Persiste in Gesù uno stato di inquietudine interiore, mista a irritazione. Il comando di sollevare la pietra suscita perplessità in Marta, che è esitante; ma, di fronte all’insistenza di Gesù, la pietra viene tolta: «Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”» (Gv 11,41-42).
Gesù alza gli occhi, cioè si rivolge al Padre e lo interpella direttamente. Gli rende grazie, come aveva fatto già al momento della moltiplicazione dei pani e dei pesci (cfr Gv 6,11.23). La sua gratitudine giunge dopo lo sconvolgimento emotivo e il pianto, e prima che Lazzaro, l’amico morto, esca vivo dalla tomba. La relazione di Gesù con il Padre è salda, al di là delle vicissitudini e della turbolenza interiore. Poi egli grida verso Lazzaro, che esce dal sepolcro. Di fronte a questo segno, c’è chi crede in Gesù e c’è chi riferisce la notizia ai farisei, che fanno un complotto contro di lui.
Alle soglie della passione
Il turbamento di Gesù però continua anche nei capitoli successivi e si rivela come una disposizione emotiva che persiste e lo accompagna alle soglie della sua passione. Nel capitolo 12 di Giovanni, è Gesù stesso a esprimere il proprio stato d’animo ad Andrea e Filippo: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,27-28).
Tuttavia Gesù non si lascia condizionare dal proprio stato d’animo, perché confida nel Padre e nel suo proposito. Successivamente, all’inizio dell’Ultima Cena, il narratore rivela al lettore che Gesù è mosso da un amore totale e oblativo verso i propri discepoli, che si manifesta concretamente nel gesto della lavanda dei piedi[9]: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
Dopo aver citato la Scrittura per annunciare il tradimento di un amico – «Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno [cfr Sal 41,10]» –, Gesù rimane profondamente turbato nel suo intimo: «Dette queste cose, Gesù fu turbato nello spirito e dichiarò: “In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà”» (Gv 13,21). Dopo l’uscita di Giuda dalla sala, mentre era notte fuori e dentro il traditore (cfr Gv 13,30), Gesù riprende a parlare e, in modo sorprendente, confessa il suo amore per i discepoli, esortandoli ad amare come ha fatto lui: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34); «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9); «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
I discepoli non sono i servitori, ma gli amici (philoi) di Gesù, a cui il Signore offre tutta la propria vita. C’è una condivisione intima e profonda di Gesù con i discepoli. Proprio con loro egli vuole condividere la gioia paradossale che alberga dentro di sé: «Nessuno ha un amore (agapē) più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici (philoi), se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,13-15). «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). «Perché abbiano in sé stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13). Inoltre, Gesù confessa di amare il Padre e di essere amato da lui (cfr Gv 15,9-10; 17,23-26), in una relazione reciproca: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco» (Gv 14,31).
Al tempo stesso, Gesù invita i suoi discepoli a non rimanere turbati, a superare la paura davanti all’«ora» che lo attende: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. […] Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,1.27).
Il lungo discorso di addio (cfr Gv 13–16) e la preghiera di Gesù al Padre (cfr Gv 17) costituiscono insieme quasi un testamento, la Magna Carta per i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo. Nell’ambito del quarto Vangelo, essi rappresentano una svolta, perché, quando sarà catturato, Gesù non mostrerà più agitazione e turbamento, ma apparirà sereno e pienamente consapevole di ciò che accade, in cammino verso quella glorificazione che si manifesterà attraverso la croce. È lui che nella passione conduce i giochi, e non appare per nulla in balìa degli eventi e di chi vuole eliminarlo. Il Gesù che va verso la croce è solenne e composto, come chi si avvia verso un’intronizzazione, e non come chi sta andando al patibolo: «Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: “Chi cercate?”. Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,4-6).
Il discepolo che Gesù amava
Nella seconda parte del Vangelo di Giovanni è presente la figura misteriosa del discepolo che Gesù amava, identificato dalla tradizione con l’evangelista (cfr Gv 21,24) e apostolo Giovanni. «Era adagiato nel grembo (kolpon) di Gesù uno dei suoi discepoli, quello che Gesù amava» (Gv 13,23). Questo personaggio esordisce nel racconto dell’Ultima Cena. È uno dei discepoli, che però occupa un posto speciale accanto a Gesù, proprio sul suo grembo. Questo rivela una grande intimità tra lui e il maestro e rimanda il lettore direttamente al Prologo del Vangelo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: Il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno (kolpon) del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18)[10].
La relazione tra il discepolo e Gesù corrisponde a quella tra Gesù e il Padre. Qui c’è senz’altro una dimensione affettiva, ma anche una teologica: l’intimità con il Verbo incarnato porta direttamente nel grembo della Trinità.
Dopo avercelo mostrato accanto a Gesù, la voce narrante annota che questo discepolo era quello che Gesù amava. Il verbo agapaō all’imperfetto sta a indicare un affetto duraturo, che persiste nel tempo e che caratterizza la relazione di Gesù con questo discepolo. Tale relazione privilegiata con il maestro è testimoniata anche da Pietro, che si rivolge proprio al discepolo amato per sapere di chi stia parlando Gesù quando afferma che qualcuno lo tradirà (cfr Gv 13,21): «Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?”» (Gv 13,24-25). Il gesto del discepolo è eloquente: egli si china sul petto di Gesù, mostrando una grande confidenza e familiarità. Il legame tra Gesù e questo discepolo emerge in maniera chiara e forte proprio in un momento di intenso turbamento emotivo per il maestro a causa del tradimento ormai prossimo da parte di uno dei suoi discepoli.
Il discepolo che Gesù amava è presente anche in un altro momento topico del quarto Vangelo: sul Golgota, quando gli viene affidata da Gesù sua madre. Il Signore crea un nuovo legame e una nuova relazione tra i due sotto la croce. È qui l’origine della Chiesa, che nasce dall’«amore» (agapē) di Gesù «fino alla fine» (Gv 13,1): «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26-27).
A Pasqua, il discepolo amato è colui che corre al sepolcro vuoto, vede e crede (cfr Gv 20,8), a differenza di Pietro, ed è capace di riconoscere i segni della risurrezione nell’assenza del corpo di Gesù. «[Maria di Magdala] corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”» (Gv 20,2).
Anche nel terzo racconto della risurrezione compare nuovamente questo discepolo, che il narratore presenta ancora come «colui che Gesù amava». Egli è il primo a riconoscere Gesù: «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare» (Gv 21,7).
Mentre Gesù dialoga con Pietro – «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?» (Gv 21,15) –, il discepolo che Gesù amava è presente. Il narratore lo richiama attraverso un flashback che rimanda alla sua prima comparsa nel racconto giovanneo: «Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”» (Gv 21,20). In questo contesto, il discepolo che Gesù amava, sulla cui sorte Pietro rivolge una domanda a Gesù (cfr Gv 21,21-23), viene identificato come il testimone veritiero che ha scritto il Vangelo: «Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera» (Gv 21,24).
Solo l’amore permette di conoscere e penetrare il mistero del Dio fatto carne che viene nel mondo. Questa è la strada per ogni discepolo e per il lettore del Vangelo, che può identificarsi in questo testimone anonimo e raccontare l’amore ricevuto da Gesù.
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Parlare delle emozioni e degli affetti di Gesù nel Vangelo di Giovanni non è facile, perché il racconto su Gesù viene letto attraverso le lenti della peculiare teologia giovannea. Il Verbo incarnato rimane Dio, ma, una volta fattosi carne, assume tutta la precarietà e fragilità dell’essere umano.
Il Gesù onnisciente e il Gesù turbato sono la stessa persona. Colui che confida nel Padre e colui che piange il dolore degli uomini sono la stessa persona. Gesù non è un essere scisso o schizofrenico, ma è lo stesso Gesù, uomo-Dio, che soffre e ama fino alla fine, totalmente. In lui c’è la rivelazione di un Dio che è appassionato per l’uomo. Non è il dio imperturbabile e impassibile dei filosofi[11], ma è il Dio vivo e vivace, agitato e irrequieto, pieno di compassione. Come testimonia anche il profeta Osea, dando voce all’amore viscerale e vibrante di Dio: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,8).
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[1]. Cfr J. Tripp, «Jesus’s Special Knowledge in the Gospel of John», in Novum Testamentum 61 (2019/3) 269-288.
[2]. Nei Vangeli sinottici, invece, questa azione di Gesù è collocata prima della sua passione e morte (cfr Mt 21,8-19; Mc 11,7-19; Lc 19,45-48).
[3]. L’espressione ebraica el-kana (cfr Dt 4,24; 5,9; 6,15; e anche Es 20,5; 34,14) di solito viene tradotta con «Dio geloso»; più propriamente la si potrebbe tradurre con «Dio appassionato», indicando la dimensione affettiva ed emotiva di un Dio che coniuga insieme giustizia e misericordia. Per un’approfondita trattazione di questo argomento, cfr D. Markl, «Ein “leidenschaftlicher Gott”. Zu einem zentralen Motiv biblischer Theologie», in Zeitschrift für Katholische Theologie 137 (2015) 193–205.
[4]. Qui viene usato il verbo phileō. Riguardo ai termini philia, agapē ed eros, papa Benedetto XVI afferma: «Quanto all’amore di amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell’amore che si esprime attraverso la parola agapē, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell’amore. […] In opposizione all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca» (Benedetto XVI, Deus caritas est,nn. 3; 6).
[5]. Cfr Eschilo, I sette contro Tebe, 460–464. Nel Nuovo Testamento, il verbo embrimaomaiviene utilizzato in Mt 9,30: «Quindi Gesù li ammonì dicendo: “Badate che nessuno lo sappia!”»; in Mc 1,43: «E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito»; e in Mc 14,5: «Ed erano infuriati contro di lei». La connotazione del verbo è negativa.
[6]. Come intendono i Padri della Chiesa.
[7]. Invece, il sostantivo dakruon («lacrima») nel Nuovo Testamento si trova anche in Mc 9,24 (alcuni manoscritti); Lc 7,38.44; At 20,19.31; 2 Cor 2,4; 2 Tm 1,4; Eb 5,7; 12,17; Ap 7,17; 21,4.
[8]. Cfr Gv 2,19-21; 3,3-5; 4,10-15; 4,31-34; 6,32-35; 6,51-53; 7,33-36; 8,21-22; 8,31-35; 8,51-53; 8,56-58; 11,11-15; 11,23-25; 12,32-34; 13,36-38; 14,4-6; 14,7-9; 16,16-19.
[9]. Il Vangelo di Giovanni è il Vangelo dell’amore che si dona incondizionatamente, espresso attraverso il verbo agapaō, che compare 37 volte (il sostantivo agapē, invece, ha 7 occorrenze). In Mt il verbo agapaō ricorre 11 volte, in Mc 8, in Lc 15. Anche il verbo phileō («voler bene») in Gv compare 13 volte, con un’evidente sproporzione rispetto a Mt (5), Mc (1) e Lc (2).
[10]. Riguardo alla traduzione di kolpos come «grembo», cfr D. F. Stramara, Jr., «The Kolpos of The Father (Jn. 1:18) As The Womb of God in The Greek Tradition», in Magistra 22 (2016/2) 37-53.
[11]. Per i filosofi greci, l’atarassia è l’imperturbabilità, ossia lo stato di annientamento di tutti i desideri e impulsi naturali e la rimozione di tutte le paure che consente all’uomo di sperimentare la piena felicità. Al contrario, Gesù, uomo-Dio, non è indifferente, ma passionale, come conferma anche la presenza del verbo tarassō (cfr Gv 11,33; 12,27; 13,21), che letteralmente è l’opposto di a-tarassia («mancanza di turbamento»). Gesù è turbato per il suo amore per l’uomo.
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I 1700 anni del concilio di Nicea: contesto storico, convocazione e principali decisioni
Nel mese di giugno dell’anno 325 ebbe inizio il primo Concilio ecumenico, quello di Nicea, voluto dall’imperatore Costantino. Tra i tanti temi trattati, che cercheremo di affrontare brevemente, due in particolare sono passati alla storia: il Credo che, con varie modifiche, divenne la professione di fede ufficiale di tutta la cristianità, e la decisione di unificare la data della celebrazione della Pasqua. Questa celebrazione dei 1700 anni del Concilio di Nicea è diventata un’occasione per sviluppare nuovi filoni di studio.
Secondo la storiografia tradizionale, intorno all’anno 320 il presbitero Ario, in un incontro del clero alessandrino con il suo vescovo Alessandro, avrebbe negato la divinità del Figlio di Dio, sostenendo che egli era stato creato dal nulla prima dei tempi e dell’eternità, come la prima e la più eccelsa creatura di Dio; perciò era anche mutevole e avrebbe potuto peccare; tuttavia non era arrivato a questo, perché Dio gli aveva dato la grazia di non peccare, conoscendo in anticipo la sua fermezza e pietà[1]. Sembra che il contesto della disputa fosse costituito da un problema che esisteva da tempo nella Chiesa alessandrina, cioè il contrasto tra i filo-monarchiani, preoccupati a tal punto di non separare il Figlio dal Padre da non riuscire a esprimere la fede nella personalità propria del Figlio, cadendo in un monoteismo estremo, e certi teologi, fedeli alla tradizione di Origene, i quali sottolineavano la diversità tra le Persone divine, rischiando di cadere nel triteismo.
Si discusse su questo argomento, e il vescovo Alessandro chiese ad Ario di presentare la sua fede per iscritto. Ario redasse il proprio Credo in forma di lettera, che fece arrivare al vescovo[2]. Costui, con il sinodo dei vescovi egiziani, dopo il dovuto esame, scomunicò Ario e un gruppo di suoi sostenitori, tra cui due vescovi. Successivamente Alessandro informò i vescovi delle altre province di tale condanna[3], e Ario a sua volta scrisse ai suoi amici, tra cui Eusebio di Cesarea ed Eusebio di Nicomedia. La disputa, che all’inizio era di interesse locale, si diffuse poi in tutto il mondo, diventando così un problema globale. Per questo l’imperatore Costantino intervenne con una lettera indirizzata ad Alessandro e ad Ario[4], chiedendo che i due si riconciliassero tra loro. La lettera venne portata dal vescovo Ossio di Cordova, il quale, dal momento che i due non volevano far pace, tornò a Nicomedia, alla corte di Costantino. L’imperatore allora convocò il Concilio ecumenico per risolvere tale importante questione.
L’invito al Concilio e la pace religiosa
La disputa poteva veramente assumere questa forma, sebbene sembri eccessivo considerarla l’unica causa della convocazione del grande Concilio. L’imperatore poté scrivere la suddetta lettera solo dopo aver concluso la guerra con Licinio, suo ex-collega Augusto e cognato, lo stesso con il quale firmò il cosiddetto «Editto di Milano» nel 313, prima che le loro strade si separassero. Le divergenze tra loro riguardavano anche la religione, perché, mentre Costantino mirava alla pace religiosa nell’impero appoggiandosi alla Chiesa, Licinio invece perseguitava i cristiani. La vittoria di Costantino avvenne il 18 settembre 324, nella battaglia presso Crisopoli, in Bitinia, vicino a Calcedonia. Licinio fu sconfitto e poco dopo ucciso. Costantino si trasferì nel palazzo imperiale a Nicomedia, potendo godere della pace e del potere pieno di unico imperatore e festeggiare la vittoria. Egli era stato proclamato Augusto dall’esercito il 25 luglio 306. Così, nello stesso giorno del 325 cominciava l’anno giubilare, le vicennalia del suo dominio. In preparazione a questo evento, l’imperatore scrisse varie lettere sul ristabilimento della pace nella Chiesa, sulla fine delle persecuzioni e sui provvedimenti in favore dei beni ecclesiastici che erano stati sequestrati in passato. Ma non tutto era roseo, e nella Chiesa persistevano fenomeni che offuscavano l’atmosfera di pace. Scriveva Eusebio: «Ma proprio mentre [Costantino] si rallegrava di questi fatti, gli fu riferita la notizia che la Chiesa era lacerata da un turbamento non da poco, e quando il suo orecchio fu colpito dalla notizia, egli si mise a pensare a una cura contro questo male» (VC II, 61,2); «Alcuni nella stessa Alessandria disputavano come bambini a proposito degli argomenti più eccelsi, altri in tutto l’Egitto e l’alta Tebaide dissentivano su un’annosa questione che già da tempo si era presentata, e così le Chiese si trovavano ovunque divise» (VC II, 62).
Un’altra questione, che lo stesso Costantino segnala nella lettera ad Alessandro e ad Ario, riguarda il donatismo, lo scisma dei «puri», katharoi, i quali, dopo le persecuzioni dell’inizio del IV secolo, fondarono una Chiesa parallela a quella cattolica. L’imperatore scriveva così: «Infatti, quando si diffuse per tutta l’Africa un’inaccettabile follia a causa di quanti avevano osato, con leggerezza sconsiderata, scindere in sètte diverse i culti religiosi dei popoli, io, volendo arginare questa malattia, non riuscivo a trovare altro rimedio adatto alla circostanza se non, una volta distrutto il nemico comune dell’impero che aveva opposto ai vostri santi sinodi la sua empia dottrina, inviare alcuni di voi in soccorso per ristabilire la concordia tra le opposte fazioni» (VC II, 66).
Il donatismo esisteva già da tempo, e l’imperatore aveva convocato sinodi a Roma (313) e ad Arles (314) per cercare la riconciliazione, ma senza successo. Anche allora, cioè dopo la vittoria sul nemico, Costantino mandò i delegati per cercare una soluzione[5].
Per quanto riguarda la parte orientale dell’Impero, si manifestavano due problemi: il primo, considerato da Costantino poco serio – «da bambini», come egli scriveva –, era legato alle dispute inutili che si svolgevano ad Alessandria; il secondo, più serio, che interessava tutto l’Egitto e la Tebaide e che si protraeva già da anni, riguardava lo scisma meleziano. Il vescovo Melezio, in Egitto, all’inizio del IV secolo aveva fondato una Chiesa parallela a quella cattolica: una Chiesa di «puri», intransigente verso i «peccatori», specialmente verso coloro che durante le persecuzioni si erano mostrati deboli; una Chiesa simile a quella dei donatisti in Africa. Essa si era talmente diffusa durante il IV secolo da arrivare a costituire la metà delle Chiese egiziane[6]. Questo tema era così importante che il Concilio se ne dovette necessariamente occupare, dedicando a esso e agli altri «puri» (katharoi) il canone ottavo.
Agli occhi di Costantino, invece, la disputa alessandrina valeva al massimo un ammonimento, in quanto disturbo alla pace. Basta leggere alcune frasi della lettera, per rendersi conto di quanta poca importanza avesse per lui tale contesa: «Riflettiamo dunque su quanto è stato detto con maggior attenzione e con più acuta comprensione: se cioè sia opportuno che una contesa verbale banale e di poca importanza spinga i fratelli a opporsi ai fratelli e che a causa di un’empia discordia si divida la preziosa unità del sinodo, per colpa nostra, che litighiamo tra noi su questioni trascurabili e niente affatto necessarie. Un tale atteggiamento, oltretutto, risulta volgare e si addice a menti infantili piuttosto che essere adeguato all’intelligenza di sacerdoti e di uomini saggi» (VC II, 71,3). E ancora: «La causa che ha provocato tra voi questa disputa meschina, dal momento che non riguarda l’autorità della legge nel suo complesso, non susciti tra voi alcuna divisione o ribellione» (VC II, 71,5).
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Costantino considerava la controversia così poco seria, perché probabilmente era stato informato su di essa da Eusebio di Nicomedia, il quale difendeva Ario, sostenendo che la sentenza di condanna inflittagli da Alessandro era troppo severa e che per una questione di così poca importanza Ario non avrebbe dovuto essere espulso dalla Chiesa. Costantino credette facilmente a questa relazione, perché ai suoi occhi l’unità della religione non doveva basarsi sull’unità del pensiero, ma su quella del culto e della prassi religiosa. Le dispute teologiche non avevano grande rilevanza per lui: per una questione di così poca importanza sarebbe dovuto bastare un ammonimento e un’esortazione alla concordia.
Poteva l’imperatore sospettare la disobbedienza da parte di sudditi dei quali si sentiva capo in quanto legittimo pontifex maximus, e quindi responsabile della pacifica coesistenza fra tutte le religioni dell’impero? Difficile crederlo. Ma anche se questo fosse stato vero, non avrebbe preoccupato troppo Costantino, visto lo scarso valore che la controversia aveva ai suoi occhi e la gravità degli scismi presenti in Africa e in Egitto, che egli considerava ben più seri. Ossio di Cordova, una volta conosciuta l’intransigenza di Alessandro, non avrebbe potuto informare la corte sull’accaduto, perché allora non c’era nessuna nave che potesse ricondurlo a Nicomedia, dal momento che durante la stagione invernale i porti restavano chiusi[7]. Atanasio, allora diacono ad Alessandria, scriverà più tardi che Ossio aveva partecipato a un sinodo ad Alessandria, svoltosi tra il 324 e il 325, dedicato allo scisma meleziano[8]. Per questo gli sarebbe rimasto tanto meno tempo per un suo trasferimento.
Poiché, come abbiamo detto, per Costantino l’idea della pace religiosa doveva fondarsi sull’unità di culto più che sull’uguaglianza delle credenze teologiche, possiamo affermare che il tema più importante per lui era la data della Pasqua, che fino a quel momento non era stata unificata nella Chiesa. Eusebio dedica l’intero capitolo quinto del libro III della Vita Constantini a questo problema. Costantino stesso, nella lettera destinata a tutti i vescovi dopo il Concilio[9], presenta la decisione sulla data della Pasqua come il frutto più importante del Concilio. Ricordiamo inoltre che l’imperatore già in precedenza aveva chiesto ai vescovi di Arles di fissare tale data[10], ma non aveva ottenuto in risposta altro che il desiderio di stabilirla.
Così, alla fine del 324, Costantino sperava di risolvere questi problemi tramite i delegati e le lettere. Si avvicinava però il giubileo, che doveva essere celebrato solennemente. A Roma, nel 315, si era solennizzata la ricorrenza dei decennali con la costruzione dell’Arco di Costantino. Il giubileo sarebbe stata una buona occasione per proclamare la vittoria di Costantino, la riconciliazione di tutti i dissidenti o scismatici e definire il calendario per i cristiani, come indicano alcune fonti.
La lettera di Costantino – conservata in siriaco – con l’invito al Concilio ha un paragrafo introduttivo in cui si legge che l’imperatore aveva invitato i vescovi per il 19 giugno, per celebrare il ventesimo anno del suo dominio (vicennalia)[11]. Eusebio lodò l’imperatore, che «fu il solo e l’unico imperatore di tutti i tempi che, intrecciata per Cristo una corona con i vincoli della pace, la offriva al suo Salvatore come un dono di ringraziamento davvero degno di Dio, realizzando nella nostra epoca un’immagine analoga a quella del consesso apostolico» (VC III, 7,2). Si può pensare, allora, che Costantino giudicasse opportuno invitare i vescovi e con loro dichiarare solennemente la pace universale dopo le sue vittorie, la riconciliazione di tutte le parti in contrasto, una sola fede e l’unica data della Pasqua per tutta la Chiesa. Questo sembra essere un motivo sufficiente per convocare tanti illustri ospiti, senza badare a spese. Infatti, per celebrare l’inizio del giubileo, fu imbandito, al termine del Concilio, un grande banchetto, al quale furono invitati tutti i partecipanti[12].
Ma se i lavori finirono il 25 luglio, con quale anticipo l’imperatore avrebbe dovuto invitare i vescovi al Concilio? Secondo lo storico Socrate[13], il Concilio sarebbe cominciato il 20 maggio; invece, la lettera di Costantino sopra menzionata parla del 19 giugno[14]. La prima data sembra da escludere, perché sarebbe soltanto un mese dopo la Pasqua (18 aprile), e quindi, per l’arrivo di tutti gli invitati, il tempo sarebbe stato troppo breve. Se l’invito fosse stato fatto nella primavera, il loro arrivo sarebbe avvenuto troppo tardi. Quindi, la lettera di invito sarà stata scritta, probabilmente, nello stesso periodo in cui l’imperatore inviava la sua lettera ad Alessandria, ossia a ottobre-novembre del 324. Così, quando, un secolo più tardi, Teodosio II inviterà al Concilio di Efeso per il 7 giugno 431, manderà le lettere il 19 novembre 430, e il vescovo di Cartagine scriverà di averla ricevuta soltanto nei giorni di Pasqua, e che quindi per lui non c’era più tempo per scegliere i delegati da mandare[15]. D’altra parte, i vescovi di Antiochia non riuscirono ad arrivare in tempo, e non vi riuscirono neppure i legati del vescovo di Roma. Ciò sembra dimostrare che Costantino non poteva aspettare l’esito della missione di Ossio, ma che aveva dovuto agire molto prima.
L’apertura del Concilio
Per avere un’idea dell’importanza dell’assemblea conciliare, leggiamo ciò che scrive Eusebio: «Vi si riunì insieme il fiore dei ministri di Dio di tutte le Chiese che si trovavano nell’Europa intera, in Libia e in Asia. Un unico luogo di preghiera, come ampliatosi per opera divina, accoglieva al suo interno e in una medesima sede i Siri e i Cilici, i Fenici, gli Arabi e i Palestinesi e, oltre a costoro, anche gli Egiziani e i Tebani, i Libici e quanti si erano messi in viaggio dalla Mesopotamia. Partecipava al sinodo un vescovo persiano, né mancava all’appello quello della Scizia; anche il Ponto e la Galazia, la Cappadocia e l’Asia, la Frigia e la Panfilia inviarono i loro uomini più illustri. Si presentarono anche i Traci e i Macedoni, i Greci e gli Epiroti, e tra questi pure coloro che abitavano più lontano» (VC III, 7,1).
Con tanta varietà geografica, culturale e di tradizioni, ci si può giustamente domandare in che modo e in che misura l’imperatore sia riuscito a realizzare il suo scopo. Sullo svolgimento dei lavori purtroppo abbiamo una documentazione molto scarsa e parziale. Sappiamo che, all’apertura del sinodo, uno dei vescovi salutò ufficialmente l’imperatore. Secondo Sozomeno, questo vescovo sarebbe stato Eusebio di Cesarea[16]; secondo Teodoreto di Ciro, invece, Eustazio di Antiochia[17], ma la questione rimane incerta.
Dopo le parole del vescovo, l’imperatore espresse la sua gratitudine a Dio ed esortò i vescovi a sospendere tutte le controversie[18]. Costantino chiamava i vescovi «sacerdoti di Cristo» e parlava in latino, che veniva tradotto simultaneamente in greco, perché quelli che comprendevano il latino erano in netta minoranza. Questo fatto sembra strano, perché, come afferma Eusebio, durante le discussioni «Costantino si esprimeva in greco, perché non ignorava affatto questa lingua» (VC III, 13,2). Si potrebbe ipotizzare che il suo discorso fosse da comprendere come un intervento ufficiale, in qualità di pontifex maximus, rivolto al collegio sacerdotale. Ogni culto aveva il proprio collegio sacerdotale, ma il cristianesimo ufficialmente non lo aveva ancora, così come non aveva ancora un calendario liturgico stabilito. Il pontifex maximus avrebbe parlato nella lingua ufficiale, istituendo i vescovi come «collegio sacerdotale» del cristianesimo, con l’intenzione di proclamare il calendario e la formula di fede. In precedenza, i vescovi e i presbiteri raramente venivano designati come sacerdoti. Questo avveniva quando un omileta interpretava i testi anticotestamentari sul sacerdozio e cercava di attualizzarli, come per esempio faceva Origene quando spiegava il libro del Levitico[19]. Il cristianesimo era stato già riconosciuto ufficialmente come religio licita nel 313; adesso i vescovi venivano equiparati ai collegi sacerdotali delle religioni, quindi potevano aspettarsi di ricevere gli stessi privilegi.
La formulazione del «Credo» e la decisione sulla data della Pasqua
Sembra che Costantino avesse previsto che i vescovi volessero trattare varie questioni importanti per loro, e forse per questo li aveva invitati con un mese di anticipo rispetto all’inizio del giubileo. In effetti fu così, ma risulta che essi hanno esagerato nel proporre le questioni: le petizioni, infatti, furono così numerose che alla fine l’imperatore ordinò di raccoglierle e di bruciarle tutte[20]. Eusebio di Cesarea si dimostra più contenuto e, anche se ricorda il gran numero di petizioni e le contese avvenute tra i vescovi, sottolinea la calma e l’attenzione prestata da Costantino a tutti[21]. Poi passa a parlare dell’accordo raggiunto circa il Credo e il calendario. Ci informa anche delle (almeno) due fazioni o schieramenti che si stabilirono tra i vescovi[22].
La scarsità delle fonti potrebbe indurci in errore circa l’andamento del Concilio. Abbiamo già accennato alla lettera di Costantino inviata a tutti i vescovi e distribuita ai partecipanti alla fine dell’assemblea, dalla quale risulta che si era certamente discusso sull’unità della fede, ma che il tema principale era la data della Pasqua. A questo tema, infatti, l’imperatore dedicò gran parte del suo scritto. Conserviamo anche la lettera che Eusebio di Cesarea inviò alla sua Chiesa dopo il Concilio, per giustificare il suo operato all’interno dell’assemblea, cioè il suo consenso al nuovo Credo lì elaborato[23]. Egli scrive solo di questo argomento, per cui potremmo pensare che il tema principale del Concilio fosse la composizione del Credo, mentre l’imperatore nella sua lettera sembra liquidare questo tema con poche frasi: «Ogni aspetto del culto è stato sottoposto a un’indagine adeguata, finché non è stata portata alla luce la conclusione gradita al Dio che tutto presiede, nella direzione di un accordo unitario, a tal punto che non è rimasto più alcun margine per le divergenze di opinione e le dispute sulla fede» (VC III, 17,2).
Secondo la lettera di Eusebio, fu lui a presentare la bozza del Credo, che fu accettata dall’imperatore, ma criticata dagli altri. Si giunse a una formula concordata con le precisazioni fornite dallo stesso Costantino, il quale avrebbe suggerito il termine homoousios, «consostanziale», attribuito al Figlio nei riguardi del Padre. Può essere stato così, perché l’imperatore non era a conoscenza del passato «eretico» di tale termine, che non era stato ancora usato da nessuno dei Padri da noi conosciuti. Infatti, ci vollero vari anni perché, grazie alle spiegazioni date negli anni 350-380 soprattutto da Atanasio, Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa, il termine potesse essere accolto. Forse l’imperatore fu così conciso perché era convinto che, con la sua lettera, tutti i vescovi avrebbero portato a casa anche il testo del Credo e i canoni, che dovevano bastare per chiarire la questione. Sulla data della Pasqua, invece, li avrebbe voluti informare personalmente, perché per lui essa era molto più importante.
Sembra che il Credo universale servisse più all’imperatore che ai vescovi. In quel tempo, in ogni Chiesa veniva proclamato un proprio Credo trinitario, usato nel catecumenato e nell’amministrazione del battesimo, e nessun vescovo sentiva il bisogno di uniformarlo. La data della Pasqua interessava le Chiese, ma, dopo le discussioni del II secolo, e dopo tanti sinodi in cui era stato trattato l’argomento[24], sembrava che tutti si fossero adeguati alla situazione, accettando la soluzione data da Ireneo, che cioè la tradizione degli apostoli permetteva di servirsi ugualmente del calendario giudaico come degli altri calendari. Questo problema riguardava piuttosto l’imperatore, il quale, in quanto pontifex maximus, si sentiva obbligato a unificare il calendario e la formula di fede.
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Non sappiamo nulla sulle discussioni in proposito. Solo Costantino ci informa, nella lettera postsinodale, che «quando fu affrontata la questione inerente alla data della santissima Pasqua, con decisione unanime, sembrò opportuno che tutti in ogni luogo la celebrassero nello stesso giorno» (VC II, 18,1), perché non c’era più nessuna consuetudine in comune con i giudei e perché era più ragionevole e conveniente seguire «la regola che è rispettata con unica e concorde disposizione d’animo» (VC II, 19,1) nella maggior parte delle Chiese.
I canoni conciliari
Il Concilio formulò 20 canoni di indubbia genuinità, nessuno dei quali menziona né la Pasqua né il Credo [25]. Senza dubbio essi rispecchiano l’andamento del dibattito, perché i canoni non venivano formulati mai senza qualche discussione previa. Essi possono indicarci il contesto ecclesiale, cioè i problemi che la Chiesa viveva e che l’imperatore voleva risolvere, meglio che le lettere monotematiche. Abbiamo già notato come tante proposte o richieste presentate dai vescovi fossero state accantonate e persino bruciate. Possiamo quindi supporre che quelle rimaste fossero le più importanti per vaste aree della Chiesa, e come tali considerate dall’imperatore.
Daremo ora un breve sguardo ai canoni approvati. Nei primi si stabilisce che quelli che si evirano non devono essere ammessi tra il clero (canone 1); lo stesso vale per i neofiti (canone 2), e si proibisce ai chierici di «avere con sé una donna, a meno che non si tratti della propria madre, di una sorella, di una zia, o di una persona che sia al di sopra di ogni sospetto» (canone 3). Dato che qui si tratta di tutti i membri del clero, anche di quello inferiore, che poteva sposarsi – cioè, ostiari, lettori e accoliti –, sembra che abitare con la moglie non fosse vietato. I cristiani potevano essere ordinati diaconi e presbiteri anche da sposati, ma non potevano risposarsi. Vari decenni più tardi il sinodo di Cartagine del 390 stabilirà, nel canone 2, l’obbligo di continenza per loro.
Il canone 4 parla della consacrazione del vescovo da parte di almeno tre vescovi della provincia. Non sappiamo come la Chiesa si fosse organizzata in precedenza su questo punto: probabilmente si procedeva all’elezione, e il neoeletto assumeva i doveri in forza di tale elezione ecclesiale, anche senza l’imposizione delle mani da parte di altri vescovi.
Nel canone 5 si parla degli scomunicati e si vieta di riconciliarli al di fuori della Chiesa che li ha condannati. Dobbiamo notare che questo canone in seguito verrà ripreso più volte[26]. Ciò sta a significare che le situazioni nelle quali gli scomunicati, sentendosi forse ingiustamente perseguitati, cercavano la riconciliazione fuori della propria Chiesa, si verificavano spesso. Per evitare ingiustizie, il canone raccomanda che i sinodi provinciali si svolgano due volte l’anno, per discutere insieme i problemi. Potrebbe darsi che l’occasione immediata della formulazione di questo canone sia stato il caso di Ario. Di fatto, non si parla di lui in nessun documento coevo; anche Atanasio di Alessandria, nel De decretis Nicaenae synodi, si limita a presentare l’interpretazione antiariana del Credo, senza menzionare Ario. Potrebbe darsi che qualcuno – per esempio, Eusebio di Nicomedia, o qualcun altro a nome suo – abbia chiesto all’assemblea la riconciliazione con Ario. Il canone lo proibisce, e lo stesso Costantino dopo il Concilio chiese ad Alessandro – e più tardi ad Atanasio – di riconciliare Ario, perché egli era l’unico in grado di farlo, in quanto vescovo di Alessandria[27]. Non si parla neppure della condanna di Ario a Nicea, perché sarebbe stato controproducente scomunicare uno che era stato già di fatto scomunicato.
Il canone 6 stabilisce la precedenza delle sedi vescovili: la prima rimane quella romana, seguita dall’alessandrina e dall’antiochena. Questo canone si rivelerà una pietra d’inciampo per la Chiesa costantinopolitana, che, nei decenni seguenti, vorrà assumere il primo posto in Oriente, con grande irritazione delle altre due sedi orientali sopra citate. Si riconosce anche il posto privilegiato di Gerusalemme (canone 7), ma senza attribuirle la giurisdizione metropolitana.
Il canone 8 tocca un tema scottante per la Chiesa, cioè la riconciliazione dei càtari, divisi in vari raggruppamenti. Non c’è nessun argomento convincente per limitarla ai soli novaziani, come è stato ripetuto per secoli[28]. I chierici càtari – siano essi novaziani, donatisti, montanisti, meleziani o altri ancora – possono rimanere nel clero, perché le loro ordinazioni sono valide, ma devono impegnarsi per iscritto a osservare la prassi della Chiesa rispetto ai peccatori pentiti, siano essi i lapsi delle persecuzioni, o i digamoi, sposati due volte: dopo la debita penitenza, essi hanno diritto alla comunione della Chiesa, e chi glielo nega, viene scomunicato dalla Chiesa. Non viene precisato se si tratta di vedovi/e risposati/e o di divorziati/e, ma, poiché la legge statale permetteva i divorzi, anch’essi dovevano essere presi in considerazione nella prassi penitenziale[29].
Il canone 9 tratta il tema dei chierici promossi troppo presto al sacerdozio. Il canone 10 si riferisce a chi è stato ordinato nonostante abbia rinnegato la fede e abbia mantenuto nascosto questo fatto. Il canone 11 parla dei fedeli che hanno rinnegato la fede e sono finiti tra i laici, e delle penitenze da imporre ad essi. Si può notare come dopo la persecuzione avvenuta ai tempi di Licinio fossero rimaste nel corpo della Chiesa varie ferite: bisognava ristabilire una serie di regole perché esse potessero cicatrizzarsi.
Anche il canone 12 si riferisce a quel periodo, e parla di «chi ha rinunciato al mondo e poi vi è ritornato». Coloro che all’inizio si erano mostrati coraggiosi e avevano abbandonato il servizio militare (durante il quale era richiesta la partecipazione ai sacrifici agli dèi), ma successivamente, per fare carriera, erano tornati indietro e avevano cercato di essere reintegrati nel servizio lasciato, dovevano fare penitenza; il canone raccomanda di trattarli con discernimento, ma seriamente.
Il canone 13 si riferisce a «quelli che in punto di morte chiedono la comunione». Anche in questo caso, si tratta della penitenza dei lapsi dai tempi di Licinio. Ricordiamo che Cipriano non permetteva di privare della comunione colui al quale era stata data una volta, durante la malattia[30]. Ora, invece, per lo stesso caso, si prescrive che il penitente guarito debba continuare la penitenza, sebbene mitigata: «Se poi egli non muore dopo essere stato perdonato e ammesso alla comunione, sia accolto tra coloro che partecipano alla sola preghiera (fino a che non sia trascorso il tempo stabilito da questo grande concilio ecumenico)».
Ciò starebbe forse a significare che si erano verificati abusi, più frequenti che non 70 anni prima in Africa? Potrebbe darsi, ma in questo caso dovremmo supporre che anche il grado della trasgressione fosse maggiore, che la Chiesa unificata da Costantino dopo gli anni delle guerre civili presentasse un profilo morale assai basso e che il numero dei lapsi fosse perfino maggiore di quello del 250. Anche il canone 14 tocca questo tema, concentrandosi sui catecumeni che avevano rinnegato la fede.
I quattro canoni successivi trattano del clero. I canoni 15 e 16 parlano di coloro che, abbandonata la propria Chiesa per la quale erano stati ordinati, si trasferiscono di propria iniziativa da una città all’altra. Il fatto che questo tema ritorni in tanti sinodi ci fa capire che si tratta di un problema ricorrente. Infatti, se lo stesso Eusebio di Nicomedia, vescovo della capitale, sede dell’imperatore, si comportava così e, dopo essere stato ordinato a Beritto (Beirut), si era trasferito a Nicomedia, e qualche anno dopo a Costantinopoli[31], cosa si poteva pretendere dal clero inferiore? Possiamo pensare che per l’imperatore – il quale evidentemente approvava i trasferimenti di Eusebio, e anche di altri – questa fosse una questione di poca importanza. Ai suoi occhi, il trasferimento di un funzionario da una sede all’altra, poteva essere segno di prestigio e di promozione, se la nuova sede era più grande e più ricca della precedente. Diveniva, invece, segno di decadenza e punizione in caso contrario. Forse proprio la mancanza del sostegno imperiale aveva provocato l’insuccesso di questo canone e la necessità che dovesse essere ripreso più volte[32].
Il canone 17 minaccia la riduzione allo stato laicale di chierici usurai.
Il canone 18 ricorda che i diaconi devono essere subordinati ai presbiteri anche nel ricevere la Comunione: i diaconi la possono ricevere dai sacerdoti, ma non darla ad essi, perché non hanno il potere di consacrare. Oggi questa prescrizione potrebbe sembrare banale, ma rispecchia la disciplina di allora, dal momento che il ruolo dei diaconi era diverso nelle varie Chiese. A Roma essi erano soltanto sette e avevano posti di comando presso il vescovo. In Oriente, come testimoniano le Costituzioni apostoliche, erano considerati al secondo posto dopo il vescovo, e stavano accanto a lui come Cristo sta presso il Padre, mentre i presbiteri erano considerati i successori degli apostoli. Di conseguenza, i diaconi potevano, in certi casi e in certi luoghi, sentirsi più importanti dei sacerdoti.
Il canone 19 stabilisce come ricevere nella Chiesa gli eretici seguaci di Paolo di Samosata. Nel canone 8 si prescriveva che i chierici scismatici potevano essere accettati con la sola benedizione; qui invece si prescrive di battezzarli e, se un chierico è ritenuto degno del suo posto, occorre ordinarlo di nuovo. In questo contesto, troviamo l’unica menzione delle diaconesse: esse rimangano tra i laici, perché non hanno avuto l’imposizione delle mani.
La differenza nel trattamento degli scismatici è importante e merita di essere menzionata; il trascurarla, infatti, provocò, dopo il Concilio, molti problemi nella Chiesa. Atanasio, divenuto vescovo di Alessandria nel 328, cominciò a trattare gli scismatici meleziani come se fossero eretici e non riconosceva la validità della loro ordinazione, pretendendo che dovessero ricevere l’ordinazione da lui. Ciò suscitò lo sdegno di Costantino, che lo condannò all’esilio.
Alla chiusura del Concilio, forse nessuno di coloro che avevano partecipato poteva immaginare quale significato esso avrebbe avuto in futuro. Nei 20 anni seguenti, quasi non se ne parlò, ma quando le discussioni tra varie fazioni teologiche continuarono a crescere, pian piano il Credo niceno andò acquistando sempre più sostenitori e la «consostanzialità» del Padre e del Figlio, proclamata dal Concilio, si rivelò la formula più adeguata per esprimere la fede della Chiesa. Con le precisazioni fornite dai Padri cappadoci e con l’appoggio degli imperatori, la professione di fede di Nicea divenne comprensibile ai più, e infine divenne canone dell’ortodossia. Per quanto riguarda la celebrazione comune della Pasqua da parte di tutti i cristiani, essa rimane ancora auspicabile, e possiamo sperare che le celebrazioni dell’anniversario del Concilio nel 2025 aiutino a superare tutti gli ostacoli.
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[1] Cfr Ario, Thalia, in Atanasio di Alessandria, s., Apologia contra Arianos, I, 6; Epistula encyclica ad episcopos Aegypti et Libyae, II, 12.
[2] Lettera citata da Atanasio di Alessandria, s., De Synodis,16; Epifanio di Salamina, Panarion, 69, 7.
[3] Alessandro di Alessandria, s., Lettera a tutti i vescovi; Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 6.
[4] Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, II, 64-72; nel testo, questa opera verrà citata con la sigla VC. Cfr H. G. Opitz, Athanasius Werke, III, 1, Berlin – Leipzig, Walter de Gruyter and Co, 1934, 32 ss.; H. Pietras, Concilio di Nicea (325) nel suo contesto, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2021, 85-110.
[5] Cfr S. G. Hall, «Some Constantinian Documents in the Vita Constantini», in S. N. C. Lieu – D. Montserrat (edd.), Constantine. History, Historiography and Legend, London – New York, Routledge, 1998, 86-103.
[6] Cfr A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au IVe siècle (328-373), Roma, École française de Rome, 1996, 303-312.
[7] Cfr Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, La navigazione mediterranea nell’Alto Medioevo, Spoleto, Fondazione Cisam, 1978; R. Chevallier, Voyages et déplacements dans l’Empire romain, Paris, Armand Colin, 1988.
[8] Atanasio di Alessandria, s., Apologia contra arianos, 76; H. Pietras, Concilio di Nicea…, cit., 58 s.
[9] Costantino, Lettera a tutte le Chiese, in VC III, 17-20.
[10] Il sinodo di Arles si tenne nel 314. Cfr A. Di Berardino (ed.), I canoni dei concili della Chiesa antica, Roma, Institutum Patristicum Augustinianum, 2010, 38; Id., «L’imperatore Costantino e la celebrazione della Pasqua», in G. Bonamente – F. Fusco, Costantino il Grande dall’Antichità all’Umanesimo, t. I, Macerata, Università degli Studi di Macerata, 1992, 363-384.
[11] Cfr F. Nau, «Littérature canonique syriaque inédite», in Revue de l’Orient chrétien 4 (1909) 5 s.
[12] Cfr VC III, 15-16.
[13] Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 13,13. Lo seguono M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma, Istituto Patristico Augustinianum, 1975, 38; G. Alberigo (ed.), Storia dei concili ecumenici, Brescia, Queriniana, 1990, 26.
[14] Cfr F. Nau, «Littérature canonique syriaque inédite», cit., 6. Si dicono d’accordo con lui N. P. Tanner, Decrees of the Ecumenical Councils, vol. I, London – Washington, Sheed & Ward – Georgetown University Press, 1990 e i commentatori di Socrate in Sources Chrétiennes, n. 477.
[15] Cfr G. Caprèolo, «Epistula“ad concilium Ephesinum”», in Acta Conciliorum Oecumenicorum I-II, 64 s; Patrologia Latina Supplementum,3, 259 s.
[16] Cfr Sozomeno, Historia Ecclesiastica, I, 19, 2.
[17] Sulle discussioni intorno all’oratore che avrebbe avuto questo onore, cfr la nota 2 in Teodoreto di Ciro, Histoire Ecclésiastique, Paris, Cerf, 204 s.
[18] Per l’intervento di Costantino, cfr VC III, 12. Per il seguito, cfr H. Pietras, Concilio di Nicea…, cit., 133 s.
[19] Cfr H. Pietras, «Od prezbiteratu do kapłaństwa: ewolucja pojęć i urzędu», in Studia Bobolanum 3 (2002) 5-17.
[20] Cfr Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 8, 19; Rufino di Aquileia, Historia Ecclesiastica, X, 2. La scena è illustrata da un affresco nel battistero lateranense.
[21] Cfr VC III, 13.
[22] Cfr VC III, 13, 1.
[23] Cfr Eusebio di Cesarea, Lettera alla Chiesa di Cesarea, in Atanasio di Alessandria, Il credo di Nicea, appendice; Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 8.
[24] Per esempio, Roma (154 e 193), Mesopotamia (196), Osroene (196), Pont (197), Lyon (197), Cesarea di Palestina (198).
[25] Su di essi, cfr H. Pietras, Concilio di Nicea…, cit., cap. 5.
[26] Cfr, per esempio, Antiochia (341), c. 6; Serdica (343), c. 53; Carthago (390), c. 7 ecc.
[27] Atanasio di Alessandria, s., Apologia contra Arianos, 59. Cfr H. Pietras, «Fonti sulla condanna di Ario a Nicea nel 325», in Gregorianum 104/3, 2023, 491-493.
[28] Per l’esame della questione, cfr H. Pietras, «Fonti sulla condanna di Ario a Nicea nel 325», cit., 493-496; Id., Concilio di Nicea…, cit., 144-149.
[29] Cfr G. Cereti, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Roma, Aracne, 2013.
[30] Cfr Cipriano di Cartagine, s., Epistula, 64, 1.
[31] Cfr Socrate, Historia Ecclesiastica, II, 7.
[32] Tra i Concili e i Sinodi più importanti che ne hanno trattato, ricordiamo: Ancyra (314), c. 18; Arles (314) I, 2; II, cc. 2; 21; 27; Antiochia (341), cc. 3; 16; 21; Cartagine (ca. 348), cc. 5; 7; Roma (376-377), 9 (Tomus Damasi); Calcedonia (451), cc. 5; 10; 20; Quinisexta (692), cc. 17-18; Nicea (787), cc. 10; 15.
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Il ricordo di un testimone della fede: Mons. Eduard Profittlich S.I.
La prossima beatificazione del vescovo gesuita Eduard Profittlich è un evento di straordinaria importanza per la Chiesa estone. La sua beatificazione non solo commemora la sua persona, ma anche la storia della persecuzione e dell’oppressione della Chiesa durante il dominio comunista nel Paese.
Dopo il suo arresto, avvenuto il 27 giugno 1941, per mezzo secolo non se ne seppe più nulla. Nonostante i comunisti avessero «messo a tacere» la sua morte, il suo ricordo è sempre rimasto vivo tra i fedeli in Estonia, oltre che nella sua famiglia e nella sua parrocchia natale di Santo Stefano, a Leimersdorf.
Tutti gli sforzi della Chiesa per scoprire qualcosa sulle sue sorti dopo l’arresto sono stati vani. Il 24 febbraio 1942 l’ex ministro degli Esteri dell’Estonia comunicò alla Segreteria di Stato che il nome di Profittlich era tra quelli riportati in una lista di 57.000 persone deportate, ma non fu in grado di fornire ulteriori informazioni a riguardo. Una prima notizia ambigua sulla morte di Profittlich giunse alla Segreteria di Stato tramite una lettera del Segretario generale della Croce Rossa estone, datata 12 agosto 1948, nella quale però non si indicava una data di morte, ma c’era solo la comunicazione che era «morto in esilio». Nel 1957 ci fu un ulteriore tentativo, da parte del parente Alois Profittlich, di ottenere informazioni dalla Croce Rossa sulla sorte del vescovo, ma anche in questo caso non si ebbero notizie[1]. Solo nel 1990, dopo il crollo dell’impero sovietico, i governanti russi concessero l’accesso ai documenti riguardanti la sua deportazione.
Ma come sono andate concretamente le cose? In occasione dei 100 anni dalla sua nascita, il 30 marzo 1990 il parroco di Leimersdorf si rivolse alla Santa Sede chiedendo se, alla luce dei cambiamenti intervenuti nei rapporti con la Russia, non fosse possibile scoprire la data della sua morte[2]. Questa richiesta fu inoltrata il 14 maggio 1990 dalla parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Tallinn al Consiglio per gli affari religiosi dell’Unione Sovietica, il quale, otto giorni dopo, rispose che i documenti personali riguardanti Profittlich erano stati consegnati alla Corte suprema della Repubblica sovietica estone il 19 febbraio 1990: la Corte lo aveva completamente riabilitato, cosa che fu poi comunicata alla parrocchia dei Santi Pietro e Paolo il 12 giugno 1990[3].
Questa comunicazione scritta rese noto per la prima volta anche il giorno della sua morte, avvenuta il 22 febbraio 1942 nel carcere di Kirov, preceduta dalla condanna a morte per fucilazione emessa il 16 gennaio. Grazie alle copie consegnate alla Chiesa cattolica estone, relative al periodo che va dalla sua cattura alla sua morte, il martirio subìto dal vescovo Profittlich ha potuto essere finalmente chiarito e reso pubblico, tanto che la sua morte è stata immediatamente riconosciuta dai fedeli come quella di un martire.
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La vita
Eduard Profittlich nacque l’11 settembre 1890 a Birresdorf, vicino Ahrweiler, che dal 1974 fa parte del comune di Grafschaft, nel Land tedesco della Renania-Palatinato. Era l’ottavo dei 10 figli dei coniugi Profittlich Markus e Dorothea, nata Seiwert. Fu battezzato il giorno stesso della sua nascita nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano a Leimersdorf, dove ricevette anche la Prima Comunione nel 1903 e il sacramento della Cresima l’anno successivo. Dopo aver terminato la scuola elementare a Leimersdorf, frequentò la scuola secondaria di primo grado ad Ahrweiler dal 1905 al 1909 e successivamente il liceo a Linz am Rhein, dove si diplomò nel 1912[4].
Eduard voleva entrare subito nella Compagnia di Gesù, ma, poiché i genitori non erano d’accordo, trascorse inizialmente due semestri nel seminario di Treviri. Probabilmente influenzato dal fratello maggiore Peter, gesuita (1878-1915), un anno dopo decise di entrare in Compagnia, e così l’11 aprile 1913 iniziò il noviziato a ’s-Heerenberg, nei Paesi Bassi. Gli studi di filosofia presso lo studentato Vaan de Genl Valkenburg furono interrotti nel 1916-1917, per prestare servizio sanitario nell’ospedale da campo tedesco di Verviers (Belgio). Dopo la fine della guerra, Eduard poté riprendere gli studi a Valkenburg, dove il 26 marzo 1922 ricevette l’ordinazione diaconale e il 27 agosto quella sacerdotale.
Avendo espresso il desiderio di andare in missione in Russia, p. Profittlich fu mandato a Cracovia per continuare i suoi studi di teologia per due anni. Dopo il Terz’anno[5], che fece nel 1924-1925 a Dziedzice, in Polonia, lavorò per tre anni (dal 1928 al 1930) come missionario popolare a Opole, e fu parroco della parrocchia polacca di Sant’Angar ad Amburgo, dove il 2 febbraio 1930 emise la professione solenne.
Il 10 dicembre 1930 p. Profittlich partì per la «Missione dell’Est» in Estonia e divenne parroco della chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Tallinn. Sei mesi dopo, l’11 maggio 1931, papa Pio XI lo nominò Amministratore apostolico dell’Estonia[6]. P. Profittlich imparò la lingua estone e contribuì a far conoscere la Chiesa cattolica alla popolazione estone. Per migliorare l’assistenza spirituale dei fedeli di diverse nazionalità e lingue sparsi in tutto il Paese, fondò nuove parrocchie e nel 1933 iniziò a pubblicare il settimanale Kiriku Elu («Vita della Chiesa»), invitando anche alcuni sacerdoti e suore provenienti dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia a recarsi in Estonia per fornire il loro aiuto. Aveva a cuore soprattutto l’educazione religiosa dei giovani, e riuscì a far introdurre l’insegnamento della religione nelle scuole, anche in diverse lingue.
Poiché si identificava completamente con la sua missione pastorale e si sentiva profondamente legato alla popolazione locale, chiese la cittadinanza estone, che gli fu concessa il 10 aprile 1935. Il 27 novembre 1936 fu nominato arcivescovo titolare di Adrianopoli, e il 27 dicembre fu consacrato vescovo nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Tallinn, diventando così il primo vescovo cattolico attivo in Estonia dal XVII secolo.
Con il patto Molotov-Ribbentrop, nell’agosto del 1939, Hitler e Stalin non solo conclusero un accordo di non aggressione, ma si spartirono anche i Paesi e concordarono il trasferimento delle minoranze tedesche, ucraine e bielorusse nella loro sfera di influenza. Non fu solo l’invasione dell’Estonia da parte dell’esercito sovietico, iniziata il 17 giugno 1940, a seguire la logica di questo accordo, ma lo stesso accadde per la successiva richiesta a tutti i tedeschi di lasciare il Paese. Tale disposizione provocò un conflitto interiore nel vescovo Profittlich, come dimostrano le sue lettere alla Segreteria di Stato della Santa Sede dell’ottobre 1940[7]. La questione era se doveva tornare in Germania, come gli era stato ordinato, o rinunciare alla cittadinanza tedesca e accettare quella sovietica per poter rimanere in Estonia con la sua comunità.
«Restare qui è la volontà di Dio»
Come si risolse tale questione per il vescovo Profittlich dopo la presa del potere sovietico in Estonia, e che cosa fu per lui determinante, lo possiamo comprendere dalla lettera che egli scrisse ai suoi fratelli l’8 febbraio 1941. Egli ne spiega innanzitutto il motivo: «Vorrei scrivere a tutti, ancora una volta, ciò che ora riempie il mio cuore. Sarà una lettera d’addio, una lettera d’addio forse solo per mesi, o forse per anni, o forse per sempre»[8]. Poi parla della sua decisione: «Avrete sicuramente sentito e letto sui giornali che è in corso un nuovo trasferimento di tedeschi dagli Stati baltici di Lituania, Lettonia ed Estonia; è iniziato da poco e dovrebbe concludersi presto. Mi è stato vivamente consigliato di trasferirmi, in quanto tedesco, e non nego che diversi motivi mi abbiano spinto a pensare a questa soluzione, ma non posso raccontarveli qui nei dettagli. In ogni caso, tali motivi erano così forti che ho preso seriamente in considerazione l’idea del trasferimento e stavo già per contattare la Commissione. Ma poi diverse circostanze della mia vita si sono collegate in modo così strano che ho capito che era la volontà di Dio che rimanessi qui. Il fattore decisivo è stato poi un telegramma che ho ricevuto da Roma, dal quale ho capito che questa decisione corrispondeva anche al desiderio del Santo Padre»[9].
Poi il vescovo parla delle conseguenze della sua decisione. La prima è la fine della corrispondenza epistolare, perché, dopo la partenza della delegazione tedesca, una corrispondenza con la Germania lo avrebbe reso in qualche modo sospetto, e quindi sarebbe stato considerato e trattato dai bolscevichi come una spia tedesca. «Per questo – egli scrive – la lettera di oggi sarà la mia ultima. Non potrò più scrivervi finché le circostanze qui non saranno cambiate. E vi chiederei di fare anche voi lo stesso, per il momento». L’importanza di questa richiesta viene poi sottolineata da questa nota a margine, aggiunta alla seconda pagina: «Vi prego di non far arrivare questa lettera nelle mani di altri e, soprattutto, nulla di tutto questo deve finire sui giornali. I bolscevichi potrebbero considerare i dettagli della lettera come un tradimento, e questo potrebbe danneggiare non solo me, ma anche la Chiesa qui».
Questa scelta non solo lo portò a rinunciare alla protezione di cui godeva in quanto cittadino tedesco, ma lo fece anche diventare un cittadino sovietico a tutti gli effetti, sottomettendosi completamente al potere dello Stato sovietico. Il vescovo scriveva: «Conoscendo la posizione fondamentalmente ostile dello Stato sovietico nei confronti della religione, e in particolare la sua visione negativa della Chiesa cattolica, comprenderete come questa decisione possa avere conseguenze di vasta portata». Conseguenze che vengono descritte con alcuni esempi[10]: la nazionalizzazione di quasi tutti gli edifici ecclesiastici, ma anche di alcune chiese e cappelle; il timore che in futuro si sarebbero dovuti pagare affitti ingiustamente alti per l’uso delle chiese, come già avveniva per gli appartamenti dei sacerdoti («Per il clero verrà fissato un canone di affitto più alto»).
Tuttavia, poiché la gente stava facendo molti sacrifici, Profittlich non era ancora preoccupato del fatto che potessero mancare ad essa i beni di prima necessità. «L’unico pericolo che potrebbe minacciarmi è che si inizino a mandare via o arrestare i sacerdoti. […] È improbabile che ci sia un pericolo diretto per la vita, a meno che non si manifesti una malattia dovuta a uno sforzo maggiore, perché, come sapete, la mia salute non è proprio delle migliori e il mio corpo non è più così forte». Questo ci fa capire che in quel momento egli prevedeva che la sua vita sarebbe stata direttamente in pericolo solo in caso di guerra.
Dopo aver descritto la sua situazione fisica, come si sentiva interiormente e le conseguenze della sua decisione, Profittlich continua esprimendo la sua profonda gioia e gratitudine a Dio, che lo ha reso capace di prendere questa decisione: la decisione di intraprendere un cammino di martirio. Egli afferma: «Nonostante il futuro non sarà dei più rosei, umanamente parlando, ho comunque deciso di rimanere qui. È giusto che il pastore rimanga con la sua comunità, per condividere sia le gioie sia i dolori. Devo dire che la decisione mi è costata alcune settimane di riflessione, ma non l’ho presa in preda alla paura e all’ansia; anzi, mi sentivo pervaso dalla gioia. E quando finalmente mi è apparso chiaro che sarei rimasto, la mia felicità è stata così grande che ho recitato un Te Deum di gioia e di ringraziamento. In generale, ho sentito così forte l’azione della grazia di Dio sulla mia anima che raramente nella vita mi sono sentito così felice come giovedì sera, dopo aver preso la decisione, e non ho mai celebrato la Santa Messa con tanta devozione come l’ho celebrata il giorno dopo. Avrei voluto dire a tutti quanto Dio è buono con noi se ci affidiamo completamente a Lui; quanto si possa essere felici se si è disposti a dare tutto a Cristo, anche la libertà e la vita. Sono sicuro che in questo periodo molte persone hanno pregato per me, affinché Dio mi indicasse la via giusta e mi concedesse molte grazie. Non sono mai stato così riconoscente a Dio per la grazia del sacerdozio come in questi ultimi giorni».
La decisione di rimanere con la sua comunità e di condividere con essa gioie e dolori è stata il frutto di un processo di discernimento spirituale, e la gioia e la gratitudine provate sono state per Profittlich una conferma della sua giustezza. In questo ha sperimentato l’azione della grazia di Dio, e ha anche ringraziato Dio per le preghiere che molte persone avevano fatto per lui. Ciò che inizialmente lo opprimeva, alla fine lo porta a sperimentare un profondo senso di gratitudine. «E non solo perché Dio è stato così buono con me, ma anche perché ho trovato tanto amore e tanta gratitudine nelle persone quando hanno saputo che sarei rimasto qui». Questo ha cambiato anche il suo modo di vedere la realtà: «Certamente all’esterno negli ultimi anni è stato distrutto molto di tutto ciò che ho cercato di costruire con tanta fatica e preoccupazione. Ma molto di quello che ho potuto fare per tanti, invece, è rimasto. E proprio alcuni dei convertiti che ho accolto nella Chiesa negli ultimi anni mostrano adesso un amore e una gratitudine commoventi per tutto ciò che hanno ricevuto da Dio attraverso di me. Pertanto, nonostante tutto, non sarò mai abbastanza grato al buon Dio per tutto ciò che mi ha permesso di fare qui».
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Profittlich non guarda più tanto alle sue azioni e al suo operato, ma piuttosto a ciò che Dio gli ha permesso di fare e a ciò che ha compiuto attraverso di lui. In questo modo acquisisce una grande fiducia in Dio, con la quale è in grado di affrontare un futuro incerto senza paura, perché «Dio sarà sempre con lui».
Poi afferma: «Per quanto riguarda il futuro, ovviamente non so che cosa accadrà. Nessuno può prevedere con certezza l’evoluzione delle cose, ma di una cosa sono sicuro: è volontà di Dio che io rimanga qui, e questo non solo mi rende felice, ma mi dà anche la forza di affrontare il futuro con grande fiducia, perché so che qualunque cosa accada, Dio sarà con me. E allora tutto andrà bene. Così la mia vita e, se sarà, la mia morte saranno una vita e una morte per Cristo. E non c’è niente di più bello».
Alla fine della lettera, Profittlich ringrazia ancora una volta tutti per il loro amore e per le donazioni fatte alla missione in Estonia, e chiede anche di pregare per lui. È consapevole della sua debolezza in quanto essere umano, ma anche del dono della sua chiamata a offrire la vita per Cristo e a rimanere fedele a tale vocazione, ed è proprio questa richiesta che lo commuove profondamente: «Vi chiedo, dal profondo del cuore, di pregare per me. Se volete fare qualcosa di buono per me, allora fate celebrare una Messa. Forse il parroco di Leimersdorf può chiedere ai miei concittadini di pregare per me, affinché Dio non mi neghi la sua grazia neppure in futuro, affinché in tutto ciò che mi accadrà io possa rimanere fedele alla mia alta e santa vocazione e al mio compito, rendendomi sempre disponibile a spendere tutte le mie forze per Cristo e per il suo regno e, se sarà la sua volontà, anche la mia vita. Perché non potrei pensare a una fine più bella».
Con questo desiderio di offrire la propria vita Profittlich si congeda dai suoi fratelli e sorelle, chiedendo a Dio di mantenerli tutti «fedeli al suo santo servizio e alla sua santa fede» e di benedirli tutti. Con la benedizione episcopale «da lontano», li saluta un’ultima volta come «il loro Eduard».
Conforto e incoraggiamento per una Chiesa perseguitata
Profittlich era consapevole della sua grande responsabilità e del significato della sua decisione. Nel novembre 1939, di fronte a tutto il clero dell’Estonia e alla presenza del nunzio apostolico, ebbe l’opportunità di esortare con parole commoventi tutti i presenti a sopportare coraggiosamente la persecuzione e, eventualmente, anche il martirio, se ciò si fosse reso necessario per il bene delle anime e della Chiesa[11]. Era anche perfettamente consapevole del fatto che, se avesse seguito la richiesta di tornare in Germania, avrebbe dato indirettamente un cattivo esempio non solo ai cattolici, ma anche ai non cattolici dell’Estonia, perché, a causa delle sue origini tedesche, sarebbe stato visto da molti come un «servo pagato», e non come un «buon pastore».
Profittlich sperimentò gli effetti positivi della sua decisione non soltanto in prima persona, provando un senso di gioia interiore e profonda gratitudine, ma anche attraverso l’esperienza di «amore e gratitudine delle persone quando hanno saputo che sarebbe rimasto». La sua decisione fu un conforto per loro, in quanto le fece sentire apprezzate, ma allo stesso tempo egli diede loro nuovo coraggio e speranza in una situazione difficile, perché non si sentissero abbandonate, ma sapessero che egli avrebbe percorso il cammino insieme a loro.
La disponibilità a rimanere con le persone a lui affidate non significò soltanto conforto e incoraggiamento in quel momento, ma il ricordo del vescovo Profittlich fu anche fonte di consolazione per i credenti dell’Estonia durante i 50 anni di oppressione comunista e un importante esempio per la loro vita di fede. Sebbene non sapessero dove fosse, o se fosse ancora vivo, egli rimase vivo nella loro memoria come il «buon pastore» che non abbandona la sua comunità e continua a prendersene cura, come una persona pronta a condividere con loro la propria vita nella persecuzione e anche a dare la propria vita per loro. L’avvio del processo per la sua beatificazione è stato una rivisitazione di questa «memoria», con l’obiettivo di rafforzare la fede di altre persone e incoraggiarle nelle loro difficoltà con il ricordo del suo martirio.
Il processo di beatificazione e il suo significato
Nella sua lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, Giovanni Paolo II parla della persecuzione dei credenti, affermando che alla fine del secondo millennio la Chiesa è «diventata la Chiesa dei martiri». Esorta le Chiese locali a fare tutto il possibile per «non perdere la memoria di coloro che hanno subìto il martirio»[12] .
In seguito a questo invito, dopo il ripristino delle strutture ecclesiastiche in Russia, il 31 maggio 2003 a San Pietroburgo è stato aperto il processo di beatificazione di 16 martiri, il primo dei quali era il vescovo Profittlich. Per vari motivi, nel corso degli anni alcuni «servi di Dio» erano stati staccati da questo gruppo, e per loro sono stati avviati processi distinti, come nel caso di Profittlich, nel 2014, su richiesta dell’amministratore apostolico dell’Estonia, mons. Philippe Jourdan. Il processo diocesano a Tallinn, iniziato nel 2017 con la nomina della postulatrice diocesana, la dottoressa Marge-Maria Paas, si è concluso due anni dopo, il 5 marzo 2019.
Sebbene la raccolta di tutte le informazioni e i documenti possibili riguardanti il «servo di Dio» Profittlich, nel processo diocesano sia servita innanzitutto a creare una base solida per la dichiarazione di santità o di martirio, ha contribuito anche a far conoscere sempre più a fondo la sua persona. I documenti raccolti per il processo di beatificazione di mons. Profittlich ci mostrano chiaramente che sia tutto ciò che egli ha dovuto affrontare fino alla sua morte in carcere a Kirov sia la sua morte stessa sono stati veramente quelli di un martire. Ma ci mostrano anche come egli stesso abbia dovuto lottare nella fede e come solo con l’aiuto di Dio abbia potuto prendere quella decisione che lo ha condotto sulla via del martirio. Per grazia di Dio, la sua vita e la sua morte sono diventate un esempio luminoso di sequela di Cristo e una testimonianza del suo grande amore per le persone che gli erano state affidate in Estonia.
La prossima beatificazione sarà la solenne proclamazione del significato dell’offerta della propria vita, che lo ha reso un «buon pastore», che non abbandona la sua comunità nemmeno nelle più grandi avversità e necessità. Sarà una celebrazione di ringraziamento per l’esempio di sequela del Signore crocifisso che Profittlich ha dato con la sua decisione di rimanere in Estonia anche sotto il dominio comunista e durante la persecuzione religiosa. Ma soprattutto sarà per noi un invito a guardare a lui e a ricordare la sua testimonianza di fede per trarre conforto e incoraggiamento dalla sua vita e dalle sue azioni per il nostro cammino di fede, sia nelle situazioni di persecuzione religiosa sia nelle difficoltà quotidiane.
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[1] La fonte sono le lettere contenute nella Positio, conservate nell’Archivio Storico della Segreteria di Stato – Sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali (Affari Ecclesiastici Straordinari), Paesi Baltici.
[2] Ivi.
[3] Questi documenti, come pure i verbali degli interrogatori a Kirov e gli atti di condanna, si trovano nell’Archivio Storico Estone di Tartu, Fondo 130, 11503.
[4] Cfr Ch. Wrembek, «Estland: Deutscher Märtyrer auf dem Weg zur Seligsprechung», in wrembek.net/estland-deutscher-…
[5] Il Terz’anno è l’ultima tappa della formazione dei gesuiti, prima della professione solenne.
[6] Il decreto di nomina è conservato presso l’Archivio Apostolico Vaticano, Santa Sede, 1018 XI [7].
[7] Cfr le lettere del 25 e del 31 ottobre 1940, in Archivio Storico della Segreteria di Stato – Sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali – Affari Ecclesiastici Straordinari, Paesi Baltici, fasc. 120, 10136/40 e 10138/40.
[8] L’originale della lettera si trova a Bad Breisig, nell’archivio della famiglia Profittlich.
[9] Il primo telegramma fu inviato a Profittlich il 23 novembre 1940; il secondo, in risposta alle sue considerazioni sui pro e contra, il 1° febbraio 1941, cioè una settimana prima della sua lettera ai fratelli.
[10] Profittlich descrisse in modo molto simile la situazione della Chiesa nella lettera inviata il 14 gennaio 1941 al cardinale Segretario di Stato, Luigi Maglione.
[11] Cfr il rapporto del nunzio del 30 gennaio 1941, conservato nell’Archivio Storico della Segreteria di Stato – Sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali – Affari Ecclesiastici Straordinari, fasc. 120, 792/41.
[12] Cfr Giovanni Paolo II, s., Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, n. 37.
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Grace Paley: un esercizio di ascolto
Vita e opere
«Grace Paley, per me, è una specie di santa laica. Chi è il santo? Un individuo particolarmente attento alle cose come sono e straordinariamente in grado di accettarle»[1]. Così scriveva George Saunders nel decennale della morte di Paley. Chi è la scrittrice che meritò un simile tributo? Grace Paley nasce a New York, Bronx, nel 1922. Figlia di due ebrei socialisti di origine ucraina, arrivati negli Stati Uniti nei primi anni del Novecento in seguito alle persecuzioni antisemite nell’Europa dell’Est da parte delle autorità zariste[2], Paley cresce nella Grande Mela e lì vive per quasi tutta la sua vita, fino ai primi anni Novanta, quando decide di trasferirsi con il secondo marito nel Vermont, dove muore nel 2007.
L’importanza della figura della scrittrice è inversamente proporzionale all’ampiezza della sua produzione letteraria. Paley, infatti, scrisse appena tre antologie di racconti, vari saggi brevi, discorsi e testi di circostanza – quasi tutti riuniti in un unico volume –, varie raccolte di poesia. Poco rispetto alla lunghezza della vita, e ancor meno rispetto alla potente bellezza dei suoi racconti, grazie ai quali ha acquistato già in vita lo statuto di classico della letteratura nordamericana e internazionale.
Le tre raccolte si distribuiscono nell’arco di circa un quarto di secolo: Piccoli contrattempi del vivere (1959), Enormi cambiamenti all’ultimo minuto (1974), Quello stesso giorno (1985). Undici racconti il primo testo, diciassette il secondo e altrettanti il terzo, per un totale di 45 storie, tutti ambientati a New York. Come altri scrittori – ad esempio, Alice Munro –, Paley ha trovato nel racconto breve la propria misura espressiva. Invitata a tentare le vie del romanzo, per la diffusa convinzione editoriale che solo questo costituisce la fonte della fama e dell’indispensabile riscontro economico, dopo un tentativo durato un paio di anni, abbandonò il progetto e coltivò unicamente la forma del racconto breve.
Cinque ragioni per amare Paley
Sono molteplici le ragioni che rendono la lettura di Paley un passaggio importante e necessario. Possiamo indicarne, in modo sintetico, cinque.
La prima è l’universalità dell’esperienza umana che la scrittrice rivela al lettore nella tenace fedeltà a un territorio ben delimitato. I suoi racconti hanno una fortissima connotazione geografica. Tutti hanno luogo a New York, e quasi tutti negli stessi quartieri. La fedeltà alla propria realtà locale, l’incarnazione in un luogo e nelle sue lingue, lungi dal soffocare la creatività della scrittrice, l’ha valorizzata e fatta espandere in termini universali. I personaggi dei racconti di Paley sono uomini e donne ordinari. Il contesto è urbano, e le vicende nelle quali li vediamo coinvolti sono il quotidiano di lavoro, fatica, piccoli impegni, grandi sacrifici e gioie semplici, amicizie e frustrazioni, tradimenti e illusioni. Storie di vita quotidiana sullo sfondo della Storia più ampia, che fa capolino di tanto in tanto nei commenti e nei ricordi dei personaggi. Paley stessa scrisse: «Quanto alla fortuna grande[3]: quella ha a che fare con i movimenti politici, con la Storia che ti capita mentre stai facendo i piatti, con le guerre che gli uomini progettano per i loro figli, i nostri figli»[4]. La straordinarietà dei racconti di Paley, infatti, è la loro densità. In poche pagine l’autrice riesce a sovrapporre in modo armonico pluralità di temi e questioni. La sua lingua vitale coglie la complessità della realtà e della vita, che si dà tutta insieme e non a pezzi e scomparti, così che non si può dire che la scrittrice parli solo della condizione femminile, o solo della politica, o delle relazioni familiari, o di quelle tra uomo e donna, o della condizione degli ebrei sopravvissuti all’Olocausto[5], ma di tutto insieme, come avviene nella vita.
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La seconda ragione è l’autenticità del rispetto che Paley dimostra nei confronti della vita, che lei ascolta con attenzione e lascia libera di essere, valorizzandone la bellezza, accogliendone le contraddizioni, esplorandola come un mistero[6] da conoscere e sapendo di non poterlo esaurire, alimentando la speranza, e quindi accettando che nelle situazioni più difficili ci possa essere una possibilità non vista che si affaccerà nella vita dei suoi personaggi[7], guardando con la tenerezza dell’ironia[8], che è una forma più elevata di empatia. «Tutta l’opera di Grace Paley è contraddistinta da calore umano, precisione e attenzione per gli altri, e trabocca di vita reale e caotica, e delle sensazioni che la vita reale, vissuta davvero, ci dà: quelle di essere impotenti, circondati di amici, a corto di tempo, pieni di rimpianti, insopportabilmente felici o talmente innamorati da diventare scemi»[9].
La terza ragione per apprezzare la scrittrice newyorchese è la postura etica che imprime alla sua scrittura: Paley è responsabile delle vite che mostra, e avverte profondamente la responsabilità di impegnarsi per migliorare il mondo. Lo ha testimoniato con una vita di impegno politico a favore di iniziative di pace[10]; lo ha perseguito anche con la scrittura, che per lei è uno strumento per migliorare il mondo, recuperando dalla tradizione ebraica l’idea del Tikkun ‘Olan, che significa «riparare e aggiustare» il mondo[11].
La quarta ragione è la potenza della sua lingua, che non descrive un mondo pre-pensato e sistemato, ma lo mostra, lasciando che emerga dalla pagina attraverso la voce delle parole. Il mondo descritto e raccontato da Paley è il mondo del Bronx di New York e di pochi altri quartieri della grande città. È un mondo di voci e di suoni che si intrecciano, e ciò che colpisce è la capacità della scrittrice di evocarlo, portandolo davanti al lettore. Un linguaggio fatto di modi di dire, di intonazioni, un mondo che va ascoltato. E l’ascolto rappresenta una delle attitudini principali di Paley e ciò che lei chiede al lettore. Questa peculiare caratteristica permane persino nei racconti tradotti. I racconti di Paley sono racconti sonori, almeno in due modi: il primo, quando raccolgono le voci delle persone che abitano a New York; il secondo, quando lei li scrive. C’è chi ha sostenuto che i racconti di Paley dovrebbero essere letti ad alta voce. Di sé stessa la scrittrice afferma: «Nel ’54 o ’55 decisi di scrivere un racconto. Avevo scritto qualche bel paragrafo con dentro alcune frasi di prima qualità, ma non ero riuscita a far entrare le donne e gli uomini in carne e ossa nella lingua, né a trovare la storia in quei passaggi di prosa. […] Scrivere i racconti gli aveva permesso [qui Paley fa riferimento al proprio orecchio] – all’improvviso – di fare il suo lavoro, di ricordare la lingua della strada e la lingua di casa con i suoi accenti russi e yiddish, una lingua che i miei primi personaggi conoscono bene, l’unica che io parlassi. Due orecchi, uno per la letteratura e uno per la casa, a una scrittrice servono»[12].
La quinta ragione del valore dei racconti di Paley è il modo in cui lei dà spazio alla voce delle donne, madri e mogli[13]. Fulminante è l’incipit del racconto Faith sull’albero: «Proprio quando più avevo bisogno di conversazioni importanti, di un refolo del vasto mondo mascolino, insomma, di almeno un compagno dotato di cervello che potesse tradurre la mia lingua di amica nel suo idioma d’imperituro amore carnale, mi ritrovai costretta a oziare nel parchetto del quartiere, circondata da bambini»[14].
Paley trascende la scrittura di genere, perché rappresenta la condizione femminile con una trasparenza particolare, usando una serie di personaggi ricorrenti, tra i quali in primis vi è Faith Darwin, suo alter ego letterario, personaggio sempre più ricorrente, e le sue amiche Ruth, Susan e Kitty. Nella prima raccolta, il personaggio di Faith compare due volte; nella seconda antologia, sei volte; e nell’ultima, nove volte. Il personaggio è una sorta di alter ego di Paley, che gli regala una serie di elementi tratti dalla propria biografia: il suo essere ebrea di origine ucraina e il contesto urbano newyorchese nel quale è cresciuta. Al tempo stesso Faith è un personaggio letterario autonomo, che la scrittrice varia e modifica in alcuni tratti: a volte lei ha due figli, a volte tre; a volte è casalinga, altre volte lavora, altre volte ancora è scrittrice[15].
Un racconto: «Il pomeriggio di Faith»
Il racconto che prendiamo in considerazione per mostrare in concreto le caratteristiche della scrittura di Paley è intitolato «Il pomeriggio di Faith», presente nella seconda raccolta Enormi cambiamenti all’ultimo minuto (1974).
In questo racconto di 19 pagine, Paley racconta la visita di Faith ai due genitori, che hanno deciso di ritirarsi in una casa di riposo dal significativo nome «Figli di Gerusalemme». È l’occasione per aggiornarsi reciprocamente sulla vita fuori e dentro il ricovero. Con Paley, il racconto diventa una meditazione sulla precarietà delle relazioni affettive e dell’esistenza, con note relative alla Storia – con la «S» maiuscola – come parte ordinaria della quotidianità. Con qualche nota di passaggio, Paley colloca saldamente Faith nell’alveo della religione e della cultura ebraica, con un tono di benevola ironia, che serve a stemperare memorie ben altrimenti faticose. L’incipit ricorda il tono solenne di Whitman ed è al tempo stesso un calco ironico di alcuni atteggiamenti new age di recupero del passato ancestrale: «Quanto a te, compagno libero pensatore del blocco occidentale, se hai qualcosa di sensato da dire, non aspettare. Gridalo forte in questo istante. Tra vent’anni, primavera più primavera meno, i tuoi nipotini si ritroveranno stesi nei parchi giochi di tutto il mondo, orecchio a terra, a cercar di captare segnali del lontano passato»[16].
A lei spetta un passato est-europeo: «A mezzanotte di quasi tutti i giorni feriali Faith tiene la testa sotto il cuscino, madida di sogni, e ha il mal di mare per il rombo dell’oceano, il vento che stride incastrato nella coda rampante dell’alta marea. Questo perché suo nonno, solcando mari salati, pattinava per chilometri lungo le spiagge ghiacciate del Baltico, con un’aringa congelata in tasca. E lei, tutta orecchi, è nata a Coney Island»[17].
In realtà, gli antenati sono appena due, mamma e papà, e il suo ambiente è costituito da un fratello e una sorella dal nome significativo «Hope», «speranza». La scelta dei genitori di ritirarsi appena sessantenni in una casa di riposo di ebrei che parlano yiddish desta lo sconcerto dei figli; la figlia Hope rimprovera la madre di andare in mezzo a persone che non parlano inglese, e la madre risponde: «In vita mia d’inglese ne ho parlato anche troppo»[18]; il figlio rimprovera ai genitori il fatto che non decidano di trasferirsi in Israele, argomentando: «“La gente lo capirebbe di più”. “Lasciandovi tutti qui?”, aveva detto lei, con gli occhi lucidi al pensiero dei figli tutti soli, a sfasciarsi la vita sulle secche di ogni giorno, in assenza del suo sguardo lacrimoso»[19].
La mamma di Faith, la signora Darwin, ha risolto la questione identitaria in un modo ferreo, determinato, e Paley lo descrive con l’acutezza di un’immagine che dice la concretezza delle parole, il loro gusto e il carattere della donna: «Sua madre al contrario se n’è fregata alla grande e, una volta al sicuro tra i propri simili a Coney Island, ha imparato lo yiddish come si deve, ha aiutato il marito che per le lingue non era troppo portato, e non appena raccolti sotto il palato tutti i verbi e i sostantivi necessari, ha fatto voto di lagnarsi in yiddish e dolersi in yiddish, e vi ha mantenuto fede fino a oggi»[20]. Le parole sono raccolte sotto il palato, perché vanno assaporate e gustate.
Faith «è andata a trovare i genitori una volta soltanto, da quando ha iniziato a capire che a causa di Ricardo per un certo periodo le sarebbe toccato essere infelice. Faith è americana per davvero, e come tutti è stata allevata con la felicità come presupposto tangibile. Dubbi non ce ne sono, da qualunque parte la si guardi ora è infelicissima. E davanti ai suoi se ne vergogna»[21]. L’infelicità è come un’influenza o una sorte che bisogna sopportare, e il suo essere americana non consente che viva altrimenti che felice. I genitori sono intellettuali impegnati; perciò sono coinvolti nei dibattiti di quegli anni: «Per la testa hanno una serie di fatti. Gerusalemme divisa; la seconda guerra mondiale che seguita a occupare le loro discussioni; l’uso pacifico dell’energia atomica (è davvero necessaria?): le nuove ondate di antisemitismo che lambiscono le spiagge placide delle loro conquiste»[22].
Di fronte a questi orizzonti di impegno e di sviluppo, per i genitori l’infelicità è questione troppo personale e banale per meritare attenzione; sembra di avvertire sospesa nell’aria una domanda: come si può essere infelici in America? Paley lo sottolinea in modo magistrale: «Faith e la sua ridicola posizione nel bel mezzo di tempi prosperi non possono che disgustarli. La sua cocciuta infelicità li fa vergognare»[23]. Che finezza Paley dimostra nel tratteggiare la difficoltà degli anziani genitori ad avere a che fare con l’infelicità della figlia e la loro umanissima proiezione su altri dei propri tratti caratteriali, per cui è l’infelicità di Faith a essere cocciuta, non la loro posizione intransigente!
Segue la presentazione del primo marito di Faith, Ricardo, che la scrittrice dipinge in questo modo: «Quel Ricardo, il primo marito di Faith, era un uomo raffinato. Era orgoglioso e felice perché gli altri uomini lo ammiravano. E infatti, diceva, io sono un maschio vero. E come tutti i maschi veri, correva dietro alle donne. […] A ognuna dava un nomignolo, che di norma era collegato a un difetto fisico»[24]. E così ci sono Pelatina, Ciccetta, Pidocchietta. In tre righe Paley presenta l’uomo con il carico dei limiti e dei difetti, dicendo che è «raffinato»: in realtà, è vanesio, superficiale e preoccupato solo di quel che pensano altri uomini. Con questo cammeo, inoltre, Paley descrive il tono delle relazioni uomo-donna di un certo periodo storico, e così, senza troppo darlo a vedere, evoca il contesto sociale nel quale l’uomo che denigra la donna pensa di essere spiritoso.
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
La comunicazione fatta da Faith alla madre, che il matrimonio con Ricardo è in crisi, è una vera pennellata. Faith dice alla madre: «Io e Ricardo non staremo più tanto insieme come prima»[25]. È il tentativo di dire e non dire, simulando, velando, mistificando, per attenuare l’impatto della dura realtà: non stare più tanto insieme come prima… La risposta della madre è stupefacente: «“Faithy!”, le aveva detto la madre. “Tu hai un caratteraccio. No, senti, ascolta. È già successo a tante nella vita. Un paio di giorni e vedrai che torna. Alla fin fine, i figli… digli che ti dispiace e basta. È una bazzecola. Una sciocchezza. M’era parso molto migliorato, quand’è stato qui un paio di mesi fa. Non ci pensare. Pulisci casa, metti su una bistecca. Di’ ai bambini di stare un po’ tranquilli, mandali dalla vicina a vedere la televisione. Prima che te ne renda conto, tornerà. Non farci caso. Vai a farti una messa in piega, papà sarebbe più contento di darti qualcosina da spendere. […] Non preoccuparti. Domani torna. Anzi, adesso vai a casa e lo trovi che accende il giradischi”. “Mamma, Ricardo è stonato”. “Oy, Faithy, tu devi vivere un po’ meglio di così”»[26].
La risposta della signora Darwin alla figlia è un quadro di vita intera che comunica una molteplicità di sentimenti e di idee: nella brevità delle frasi si avverte il panico della madre. L’affanno nel respiro per negare e ridurre, per trovare le colpe e le responsabilità (che sono della figlia) e i mezzi per recuperare la situazione, in un misto di ingiunzioni – «Non ci pensare», «non farci caso» –, e l’invito piuttosto a sistemare casa e sé stessa, per rendere nuovamente gradevole l’ambiente, per favorire il ritorno del marito. Tutto nasce dalla convinzione che la donna debba sopportare, che la donna senza un uomo non possa vivere, che la figlia debba vivere meglio di così, ossia senza un marito accanto. È un capolavoro di negazione della realtà e, al tempo stesso, di silenziosa comprensione intergenerazionale femminile.
In quel momento entra nella stanza, su una sedia a rotelle, una vicina molto più anziana (e più disillusa), la signora Gittel Hegel-Shtein, che si meraviglia di trovare la figlia dell’amica in visita. «Aspetta, non dirmi niente, questa qui è Faith. Ma tu pensa Faith? Hope la conosco, ma questa è proprio Faith. Ma allora ce l’hai un momentino per venire a trovare la tua mamma… Che fortuna per lei, che tu non sia impegnata in eterno»[27]. La madre prende subito le difese della figlia: «“Dai, Gittel, ti prego, fa’ la brava”, disse mortificata la madre di Faith. “Davvero, ti prego. Faith viene quando può. È una mamma. Ha due bambini piccoli. Lavora. Te lo sei scordato, Gittel, com’era a quei tempi, quando sono ancora piccolini? Chi viene prima? I bambini… i bambini piccoli, vengono prima loro”»[28]. La madre chiede comprensione per la figlia, evocando la comune condizione femminile che anche Gittel ha vissuto e non può aver dimenticato.
E qui la pennellata ulteriore di Paley, che restituisce alla signora in carrozzella la parola: «Ma certo, certo, prima, so tutto sul venire prima. Archie non è forse venuto prima? Che grande onore. Mi hanno mandato una cartolina dalla Florida, il signore e la signora Prima»[29]. Ecco la sorgente dell’astio e del rimprovero: la solitudine che prova la donna. Nelle assenze di Faith quel Gittel ritrova il senso di abbandono che lei stessa prova perché il figlio lontano e la cognata non la vengono a trovare e le mandano appena una cartolina dalla Florida. A questo punto, la signora Hegel-Shtein tira fuori matasse di lana da riavvolgere in gomitoli, e le tre donne in questo gesto così quotidiano e ordinario ritrovano uno spazio di concordia e d’intesa: «“Altra lana, altra lana”, disse la signora Darwin infilando un gomitolo finito in una busta della spesa. Erano industriose come api in un muliebre mormorio di vita e di vite. Lavoravano. Si scambiavano informazioni essenziali e parevano il ritratto di un Kibbutz»[30].
In questo spazio di armonia recuperata, la figlia chiede: «Bè, mamma, che si dice nel quartiere?” […]. Forse potevano trascorrere qualche istante di allegria prima che l’ombra incombente di Ricardo le cacciasse un dito in un occhio»[31]. Faith ha il cuore pieno di tristezza, e la memoria dell’uomo che ha sposato incombe come il pianto a fior di palpebra, un dito nell’occhio romperebbe le dighe delle lacrime.
Dietro insistenza di Gittel, la madre di Faith è spinta a parlare di alcune amiche della figlia, superando la ritrosia che vorrebbe tener segreto quel che sa di varie situazioni familiari. L’amica Tess Slovinsky, alla quale anni prima era nato un bambino «che era un mostro. Un vero mostro. Non lo vide nessuno. Lo misero in un istituto. Bene. Poi il secondo. Sono ripartiti subito e ci hanno riprovato e ne hanno avuto un secondo. Quest’altro è nato pieno di allergie. Il succo di arancia gli dava l’eritema. Si strozzava con il latte. Lo portavano in campagna e gli si gonfiavano gli occhi. Bene. Poi a suo marito, Arnold Lever, davvero un caro ragazzo, gli è venuto un cancro. […] Gli hanno tagliato un dito. È peggiorato. Gli hanno amputato la mano. Non è servito. Fine di quel caro giovanotto adorabile»[32]. In quel «bene» che scandisce l’elenco delle disgrazie, quanta forza di accettazione, o forse è solo la contabilità della rassegnazione!
Poi c’è la storia di June Braun, che insieme al marito ha subìto un tracollo finanziario. Per lei Faith non prova simpatia. Hanno voluto vivere come «gentili», dimenticando le loro radici ebree; non suscitano simpatia. Poi c’è la vicenda di Anita Franklin, sposata a un ebreo sefardita, professore universitario. L’amica d’infanzia è stata abbandonata dal marito, che ha messo incinta un’alunna. Paley a questo punto trova un’immagine straordinaria per esprimere il coinvolgimento di Faith, che sino a quel momento ha accolto le notizie con contegno, ma che nella vicenda dell’amica ritrova la propria condizione di moglie abbandonata: «Proprio in quell’attimo l’ombra incombente di Ricardo le ficcò nell’occhio il dito sinistro, svelando al mondo la superficialità della sua faglia idrica. In quel preciso momento sulle terrazze della sua carne si sarebbe potuto piantare del riso, che forte e bellissimo sarebbe germogliato nelle fiumane che la travolsero da quell’istante e per il resto del pomeriggio. Per sé e per Anita Franklin, Faith chinò il capo e pianse»[33]. L’immagine delle terrazze colme d’acqua per coltivare il riso sta a significare la quantità di lacrime che Faith versa; esse inondano il corpo, che vediamo scosso e grosso, perché fornisce addirittura terrazze d’acqua. E poi silenzio.
Il racconto prosegue con il dialogo con il padre, che è entrato nella stanza e al quale Faith nasconde di aver pianto. Riaccompagnando la figlia alla metro per tornare a casa, il padre attraversa le sale della residenza, dove «erano in corso tremendi alterchi politici sugli ebrei in Russia oggi»[34], e il cancello di ferro «sopra il quale, in uno sconcertante corsivo metallico, un saldatore aveva scritto Figli di Gerusalemme»[35]. Con appena un tratto Paley continua a evocare la temperie del dibattito di quegli anni, e persino l’ombra del recente passato dei campi di concentramento tedeschi. A un certo punto, durante la chiacchierata, il padre, vecchio socialista che ha trascorso una vita nei sindacati, commenta: «Be’… sai com’è, potrei anche lasciar perdere tutta questa storia della politica, se davvero ti piace. Sono un po’ spaesato, negli ultimi tempi. È una transizione. Non ridere, Faithy. Un giorno dovrai sopravvivere anche tu a eventi come questi. Impara dalla vita, la mia. Io volevo sindacalizzare il personale di servizio. I custodi, i lift, hai presente? Quasi sempre gente di colore. Avrai notato che ora si stanno facendo strada. E malgrado tutte le speranze, non avrei mai creduto che succedesse mentre ero ancora vivo. È stata la guerra, mi sa. Tu che ne pensi, Faith? La guerra ha reso gli ebrei americani e i negri ebrei»[36]. In questo passaggio Paley riesce a comunicare le inquietudini e le profonde trasformazioni sociali che attraversano la società statunitense a partire dagli anni Cinquanta (la questione razziale in primis) e il senso della scalata sociale che alcune delle sue componenti vissero. È quello che si diceva nella prima parte dell’articolo: ci troviamo di fronte a una piccola storia – la visita a una coppia di genitori anziani –, che intercetta la grande Storia e la fa trasparire nelle parole dei suoi personaggi.
E poi c’è il finale aperto, ambiguo. Torna l’ombra della condizione familiare: «“Lo so com’è quando sono piccoli, Faith, si è sempre legati. Noi non ci siamo potuti muovere per anni. Io andavo solo alle riunioni, nient’altro. Non mi piaceva andare al cinema a divertirmi senza tua madre. E a quei tempi non c’erano le baby-sitter. Splendida invenzione le baby-sitter. Grazie a loro, due coniugi potrebbero rimanere amanti per sempre. Oh, scusa!”, ansimò, “tesoro mio…”. Faith rimase sorpresa dalla sua esclamazione, perché le erano venute le lacrime agli occhi prima ancora di sentire il dolore»[37]. Di nuovo troviamo espressi insieme il ricordo di una vita di impegno sociale, la difficoltà a crescere i bambini e a ritagliarsi uno spazio come coppia, la pennellata delle lacrime che arrivano prima del dolore. Sul limitare della scala che conduce alla metro, il padre chiede alla figlia di tornare presto a trovarli: «“Faith”, la chiamò lui, “puoi tornare presto?”. “Oh, papà”, disse lei alzando lo sguardo da quattro gradini sotto di lui, “non posso tornare finché non sono un pochino felice”»[38]. E il dialogo prosegue brevemente tra l’insistenza del vecchio genitore e la resistenza della figlia, finché lei accetta di portare i bambini dal nonno.
A questo punto – siamo alle ultime righe –, Paley «inventa», nel senso che «trova», un gesto paterno che rende il saluto tra i due indimenticabile: «Il signor Darwin allungò una mano da dietro la ringhiera per prenderle le dita. Gliele strinse e gliele portò alle guance umide. Poi disse: “Aaah…”, un’esplosione di nausea, di assoluto disgusto digestivo. E prima che lei potesse distogliere lo sguardo dalla vecchiezza del suo viso offeso e correre a casa giù per le scale della metro, lui le aveva lasciato scivolare via la mano sudata dalla propria e si era girato dall’altra parte»[39].
Il gesto e l’esplosione del padre segnano una radicale ambiguità: è il gesto dell’anziano che è consapevole che non rivedrà la figlia per molto tempo? È il gesto di dolore nei confronti della vita? È il giudizio di disgusto di sé che lo ha colto di fronte a quel momento di emotività? È la vergogna che lo colpisce, quella che Faith denuncia all’inizio del racconto? È un finale ambiguo, certo non di pacificazione riconciliante, come l’happy ending di molti film hollywoodiani, ma è l’umanissimo riconoscimento che la vita è anche questo. Al tempo stesso, il carattere aperto del racconto garantisce una possibilità di speranza: Faith tornerà a essere felice, tornerà a visitare i genitori senza dover nascondere le lacrime; i due anziani vivranno e vedranno i nipoti crescere.
Conclusione
Paley costruisce una «superficie verbale scintillante»[40], che non vuole restituire la linearità del mondo (che non esiste), ma evoca il suo scintillio, come di caleidoscopio che rifrange la luce in immagini e cristalli di colore sempre nuovi, usando il materiale povero che qualsiasi cassetto potrebbe contenere. Con la sua incredibile capacità di ascolto empatico, la scrittrice compie un gesto ben più profondo: ci ricorda che il mondo «ha bisogno piuttosto di essere amato di più. O forse, siamo noi che abbiamo bisogno di qualcuno che ci ricordi di amarlo e ci faccia vedere come: perché a volte, occupati come siamo a sopravvivere, l’amore per il mondo ci sfugge di mente»[41].
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[1] G. Saunders, «La santa patrona del vedere», in G. Paley, Tutti i racconti, Roma, SUR, 2018, 7.
[2] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare. Parole e scrittura in Grace Paley, Roma, Donzelli, 2012, XVII.
[3] Per Paley, la fortuna «piccola» fu di incontrare a metà degli anni Cinquanta Ken McCormick, l’editore che la spinse a scrivere altri racconti, oltre ai tre che aveva letto su invito della moglie, amica di Paley.
[4] G. Paley, Tutti i racconti, cit., 25.
[5] Su questo punto, cfr G. Paley, «Come tutte le altre nazioni», in Id., L’importanza di non capire tutto, Torino, Einaudi, 2007, 43-51.
[6] Cfr ivi, 170-175.
[7] Cfr il racconto «Una conversazione con mio padre», in G. Paley, Tutti i racconti, cit., 320-327.
[8] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare…, cit., 99-101.
[9] G. Saunders, «La santa patrona del vedere», cit., 15.
[10] Paley fu più volte arrestata, nella sua vita, per aver partecipato a sit-in e manifestazioni di protesta contro la guerra in Vietnam. Nel crogiuolo degli anni Sessanta matura anche la prima sensibilità ecologista e di tutela della natura, oltre alla grande rivoluzione dei costumi, che porta a ripensare profondamente la figura e il ruolo della donna nella società. Qui va ricordato che la storica sentenza della Corte Suprema, che dichiarava incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole, è solo del 1954. Paley scrive, partecipa a dibattiti e si impegna per portare avanti le posizioni pacifiste, antinucleari, antimilitariste e di tutela democratica; viaggia molto e in tutto il mondo: in Cina, in Vietnam del Nord, in Russia, in vari Paesi del Centroamerica.
[11] Cfr G. Paley, Tutti i racconti, cit., 129 s.
[12] Ivi, 23 s.
[13] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare…, cit., 66-88. Sul tema della maternità come ruolo e responsabilità sociale condivisa, cfr G. Paley, «Altre madri», in Id., L’importanza di non capire tutto, cit., 30-35. Cfr anche il racconto «Parchi giochi nordest»,inId., Tutti i racconti, cit., 308-311. Si veda anche il finale del racconto «Il momento costoso», nel quale Faith Darwin e una donna in visita dalla Cina si confrontano su come educare i figli e scoprono nell’esperienza della maternità una condizione, trasversale a ogni frontiera e ideologia politica, che le accomuna (cfr Id., Tutti i racconti, cit., 504).
[14] Id., Tutti i racconti, cit., 247.
[15] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare…, cit., 6-8.
[16] G. Paley, Tutti i racconti, cit., 211.
[17] Ivi.
[18] Ivi, 212.
[19] Ivi.
[20] Ivi, 213.
[21] Ivi.
[22] Ivi, 213 s.
[23] Ivi.
[24] Ivi, 214.
[25] Ivi, 216.
[26] Ivi.
[27] Ivi, 217.
[28] Ivi.
[29] Ivi.
[30] Ivi, 218.
[31] Ivi, 219.
[32] Ivi, 221.
[33] Ivi, 225.
[34] Ivi, 226.
[35] Ivi.
[36] Ivi, 227.
[37] Ivi, 228.
[38] Ivi.
[39] Ivi, 229.
[40] G. Saunders, «La santa patrona del vedere», cit., 8.
[41] Ivi.
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Liberi? Storie di celibato volontario
Dopo alcuni mesi di tranquilla preparazione, la nuova editrice gesuitica Il Pellegrino ha pubblicato, sul finire del 2023, i suoi primi volumi all’insegna del dialogo tra la realtà culturale contemporanea e la sensibilità religiosa, che comunque permea tutta la società odierna. Infatti, nei primi titoli troviamo argomenti che ruotano attorno a Cormac McCarthy, Kafka, il dialogo tra cristianesimo e induismo, mentre, andando più avanti, troviamo perfino una Bibbia breve, a cura di p. Alonso Schökel (1920-1998), e anche scritti, più o meno recenti, di alcuni padri gesuiti. Tra questi, Liberi? Storie di celibato volontario, del gesuita p. Mario Danieli. E proprio quando manifestavamo il desiderio di recensire questo libro, è sopraggiunta la notizia della morte dell’A., il 5 ottobre 2024.
Questo libro – nella prima edizione, Liberi per chi? (Bologna, EDB, 1994) – è utile soprattutto per i giovani che hanno scelto di vivere una vita celibataria con la maggiore verità e serenità possibile, per superare difficoltà e perfino crisi. Per aiutare meglio quanti già si rivolgevano a lui nella direzione spirituale, l’A. ha scelto di rivisitare a modo suo una serie di fatti e di storie reali, utilizzando spesso le parole e i dialoghi dei protagonisti stessi, proposti non con i loro veri nomi.
P. Danieli ci sorprende, perché, pur procedendo in maniera ordinata, fa seguire a una parte introduttiva (che entra già nella problematica) una prima parte di «Testimonianze», volta a sottolineare alcuni temi, e poi una seconda parte, intitolata «Un decalogo senza pretese per un celibato più sereno», che tende ad andare più a fondo negli argomenti trattati. Essi sono, solo per citare i più importanti: affettività, senso del peccato, maternità e paternità, masturbazione, omosessualità, narcisismo, visione della donna. I temi emergono pian piano, sempre in un clima colloquiale.
La seconda parte tende anche a offrire una serie di semplici soluzioni: parlare dei problemi, vivere rapporti sani, mettere Dio al primo posto, pensare la sessualità in termini positivi, nutrire sentimenti veri, vivere relazioni significative, valorizzare al meglio i propri talenti, accettare di non essere perfetti, avere una comunità di riferimento, essere uomini e donne per gli altri ecc.
Nelle conclusioni, nelle quali l’A. vuole esortarci a una vita religiosa non superficiale, ci sembra di sentirlo parlare con la sua inconfondibile bonomia e simpatia, come se sorridesse anche nell’esporre argomenti scabrosi e che, ovviamente, tenderebbero a provocare un inevitabile imbarazzo.
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