Commentario Biblico per il XXI secolo
Esistono opere che è corretto definire «monumentali», ma non tanto per la loro mole o il numero di pagine quanto per la completezza e l’autorevolezza sia del testo sia degli autori. In questa categoria rientra senza dubbio il Commentario biblico per il XXI secolo, che in ambito internazionale è meglio noto con il suo titolo originale: The Jerome Biblical Commentary (JBC). Jerome è un chiaro riferimento a san Girolamo e vuole marcare un tributo di riconoscenza e di ispirazione nei confronti della sua famosa Vulgata, risalente alla fine del IV secolo.
Fin dalla prima edizione statunitense del 1968, il volume si caratterizza come un ampio manuale di base di sicuro riferimento per l’esegesi biblica di ambito cattolico, ma in generale è apprezzato dagli studiosi e dagli uomini di cultura di tutte le confessioni religiose, senza tuttavia escludere i laici non credenti interessati ad approfondire la lettura delle Sacre Scritture.
La traduzione in lingua italiana è condotta sulla terza edizione, pubblicata in lingua inglese nel 2022, e tutto il Commentario è stato completamente riveduto e aggiornato non soltanto per tener conto dei progressi negli studi biblici verificatisi dal 1990 (data della seconda edizione) ai giorni nostri, ma anche per renderlo maggiormente fruibile alle persone del nostro secolo.
I testi sono tutti redatti da specialisti per ogni singola materia (se ne contano almeno una novantina). Come viene riconosciuto nella Prefazione, oggi sono a disposizione dei commentatori molteplici strumenti, che vanno dal metodo storico-critico all’analisi retorica, dall’approccio canonico all’analisi narrativa, dall’indagine semiotica agli approfondimenti sociologici, antropologici, culturali e psicologici; e si può ben dire che gli autori dei singoli commenti facciano ricorso a svariati di essi, con talvolta punti di vista o prospettive di approccio chiaramente differenti, che contribuiscono a fornire al lettore un quadro d’insieme pluralistico, al passo con i tempi e teologicamente stimolante.
La prima parte del Commentario è costituita da una serie di articoli introduttivi dedicati alla geografia biblica, all’archeologia dell’Antico e del Nuovo Testamento, alla storia d’Israele, al Gesù storico e alla prima comunità cristiana: articoli propedeutici certamente indispensabili per calare nel contesto storico-ambientale originale gli scritti del canone biblico cattolico.
La seconda e la terza parte sono rispettivamente dedicate ai testi dell’antica e della nuova Alleanza, con uno schema didascalico molto appropriato, perché ogni libro della Bibbia viene affrontato tramite un’ampia introduzione e un puntuale commento, corredandolo infine con una strutturata bibliografia, molto utile per coloro che vogliono indagare ulteriormente i singoli aspetti trattati.
La quarta e ultima parte è interamente dedicata agli approfondimenti di ordine generale. In essa si trattano argomenti complementari ai commenti biblici, ma tutt’altro che secondari, come per esempio la storia dell’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, le questioni connesse alla natura della Rivelazione biblica, all’ispirazione e al canone, nonché alla liturgia, all’etica, all’ecumenismo e ai punti di vista interpretativi degli esegeti di differenti aree geopolitiche (africana, latinoamericana, nordamericana, asiatica e, ovviamente, europea).
Particolarmente importante è infine la Prefazione di papa Francesco, che rappresenta uno dei suoi ultimi scritti prima di tornare alla casa del Padre. In essa Francesco ricorda come «la relazione tra il Signore risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura sia essenziale per la nostra identità di cristiani», tanto è vero che «San Gerolamo ha potuto affermare che l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (p. 9). La Bibbia dunque «unisce i credenti e li rende un popolo», e pertanto è indispensabile non soltanto leggerla quotidianamente, ma anche conoscerla in profondità per ricavarne tutta l’ispirazione che da essa promana in diversi rivoli e in differenti strati.
Francesco riteneva fondamentale il contributo della scienza biblica alla Chiesa, così come si è espresso in questo autorevole Commentario; infatti, «il ministero di chi disvela la parola di Dio al popolo di Dio è un compito sacro che richiede studio serio, amore profondo e apertura alla bellezza e alla potenza delle Scritture» (p. 10). Lo studio attento e contemplativo della Bibbia fa comprendere ai suoi lettori, e tra loro soprattutto ai credenti, di essere «depositari di un bene che rende più umani e aiuta a condurre una vita nuova» (ivi). A ben guardare, non c’è dunque niente di più prezioso della fede contenuta nei testi sacri per tracciare una rotta sicura per la propria esistenza.
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Le esigenze sociali del giubileo
Nella Chiesa cattolica la tradizione del Giubileo risale al 22 febbraio 1300, data in cui papa Bonifacio VIII pubblicò la bolla Antiquorum habet fida relatio, con la quale promosse il pellegrinaggio a Roma in segno di penitenza[1]. Da allora si è cominciato a celebrare periodicamente un Anno giubilare, attualmente ogni 25 anni, ferma restando l’esistenza degli Anni giubilari straordinari, come quello del 1983 indetto da Giovanni Paolo II, a 1950 anni dalla morte e risurrezione di Cristo, e quello del 2015, «il Giubileo della Misericordia», proclamato da papa Francesco.
Con la bolla Spes non confundit papa Francesco ha indetto il Giubileo ordinario dell’anno 2025[2]. In essa ci invitava a costruire la pace e ad aprirci alla vita. Inoltre, esortava le nazioni più ricche a condonare i debiti dei Paesi poveri e a riconoscere la propria responsabilità ecologica nei confronti di essi. Ci spronava a intraprendere un autentico cammino di conversione e di rinnovamento sociale. A tale scopo, è opportuno comprendere che cosa comportava la celebrazione del Giubileo in Israele, quale ne fosse il progetto e quale grado di attuazione possa e debba avere oggi. In questo articolo ci proponiamo di affrontare tali questioni.
Dall’esperienza dell’esodo nacque un progetto sociale
La confessione del popolo ebreo: «Il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente» (Dt 6,21) attraversa tutto l’Antico Testamento. Essa costituisce il nucleo della fede di Israele, che riconosce l’esistenza di un Dio liberatore, il quale lo ha sottratto alla schiavitù e lo ha costituito come popolo di sua proprietà, fatto di persone uguali tra loro e davanti a lui.
A partire da questo disegno divino, gli israeliti introdussero profondi cambiamenti nella società tradizionale cananea, affinché tutte le famiglie e i clan potessero accedere in modo equo alle risorse fondamentali e ai mezzi di sussistenza (cfr Gs 13–21). Per garantire tale condizione, si avvertì presto la necessità di creare istituzioni capaci di rimuovere le ingiustizie, ristabilire l’uguaglianza e conservare l’unità scaturita dall’esperienza dell’esodo. Nacquero così l’Anno sabbatico e l’Anno giubilare[3].
L’Anno sabbatico è un’istituzione propria di Israele. Secondo gli antichi codici giuridici, andava celebrato ogni sette anni[4]. Questo settennio si ispirava alla settimana: come ogni sette giorni c’è un giorno di riposo, il sabato, così pure ogni sette anni c’è un anno di riposo, l’Anno sabbatico. Durante questa celebrazione si prescrivevano il riposo della terra, la liberazione degli schiavi e la remissione dei debiti. Era un eccellente programma e una magnifica utopia: l’opportunità di rivivere come popolo, ogni sette anni, l’esperienza di giustizia, libertà e uguaglianza nata dal ricordo liberante dell’esodo.
L’Anno giubilare doveva essere celebrato ogni 50 anni, al termine delle sette settimane di anni (cfr Lv 25,8-55). Era un tempo di liberazione per tutti gli abitanti d’Israele: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,10). Le norme dell’Anno giubilare, redatte dopo l’esilio (587-538 a.C.), radicalizzarono le esigenze dell’Anno sabbatico. Tra esse spiccano le leggi relative alla proprietà della terra e il divieto di prestiti a interesse.
L’esperienza dell’esodo rivela il Signore come Dio liberatore. Credere nel Signore significa riconoscere che egli è l’unico proprietario della terra e il garante della sua giusta distribuzione. La terra apparteneva al Signore già prima che Israele vi entrasse (cfr Es 15,13.17); fu lui a prometterla e a donarla a Israele nel corso della storia della salvezza. Essa costituiva la sua eredità. Come il Signore è geloso e proibisce altri dèi, così vieta altri modelli sociali all’interno dell’organizzazione tribale.
La lotta del Signore – e dei suoi inviati, i profeti – contro l’idolatria si spiega come difesa della fede nell’unico Dio e del modello di convivenza sociale che ne deriva. Occorre considerare che siamo dinanzi all’irrinunciabile specificità del Dio rivelato: Dio è così, è un Dio generoso, misericordioso, pura gratuità. È un Dio anche giusto, ma nel senso pieno del termine: non vi è infatti ingiustizia più grave che quella di trattare tutti allo stesso modo. Le stesse clausole dell’Alleanza lo dimostrano (cfr Es 20–24; Lv 19; Dt 24).
L’Anno giubilare esprime una delle utopie sociali e umane più straordinarie della storia. Non abbiamo alcun indizio, né nella Bibbia né in documenti extrabiblici, che le sue prescrizioni siano state messe in pratica; tuttavia la sua utopia orientò il popolo d’Israele verso la costruzione di un mondo migliore e contribuì a mantenere viva la sua speranza[5].
La realtà economica e sociale di Israele
La Palestina era una terra piccola e povera. La terra, ben distribuita e coltivata, offriva tutto il necessario per rispondere ai bisogni quotidiani in un’economia fondamentalmente familiare e di sussistenza. «Giuda e Israele erano al sicuro; ognuno stava sotto la propria vite e sotto il proprio fico, da Dan fino a Bersabea» (1 Re 5,5). Purtroppo, già nell’VIII secolo a.C. il contrasto tra ricchi e poveri diveniva scandaloso. I profeti condannavano il lusso, l’accaparramento di terre e l’appropriazione di case, e si schieravano dalla parte dei poveri[6].
In caso di carestie o disgrazie familiari, le persone si impoverivano e si indebitavano. Per saldare i debiti, erano costrette a vendere i propri campi. Così cadevano in miseria e, in molti casi, finivano per doversi vendere come schiavi. I precetti dell’Anno sabbatico e di quello giubilare intendevano ristabilire l’uguaglianza perduta. Il cuore del messaggio è che «non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi» (Dt 15,4). L’ideale è che la società di Israele sia egualitaria, che ogni famiglia possieda la terra, affinché tutte possano vivere libere, autonome, autosufficienti, in comunione con gli altri. Questo è il progetto del Signore per il suo popolo.
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Nel libro del Levitico si chiede agli israeliti di prestare ai propri fratelli senza interesse (cfr Lv 25,35-38). La legge che regola il prestito tra israeliti riflette una solidarietà straordinaria, soprattutto se confrontata con la durezza del mondo antico. In Babilonia, il tasso d’interesse annuale sui prestiti in denaro poteva raggiungere il 25%; in Assiria arrivava fino al 50% per i cereali. Questi tassi portavano spesso alla rovina e alla schiavitù. I codici giuridici proteggevano poco i debitori poveri. Al contrario, la legge israelita proibiva di prestare denaro a interesse, esigeva di accogliere il fratello divenuto povero e obbligava a condonare i debiti[7]. Era un progetto umano straordinario, ma la sua pratica tendeva a essere scarsa. Prestare ai poveri era un’opera buona, ma molti si rifiutavano di farlo[8]. Il debitore insolvente, in mancanza di un bene da offrire in garanzia, entrava al servizio del creditore o si vendeva come schiavo[9].
L’impossibilità di pagare i debiti era la causa principale della riduzione in schiavitù degli israeliti. La cancellazione del debito significava allora un ritorno alla libertà. I due aspetti vengono trattati nella stessa legge (cfr Dt 15,1-18) e rimandano entrambi al ciclo settennale. La norma sabbatica e quella giubilare favorivano la ricerca dell’uguaglianza sociale e permettevano di ricominciare a chi aveva perso tutto. La storia del popolo di Israele è attraversata da una chiamata alla liberazione. Il Signore ascolta il grido del suo popolo schiavo in Egitto (cfr Es 3,7) e si fa garante del povero, voce dei senza voce. L’ingiustizia sociale, nel linguaggio biblico, è considerata una forma di idolatria. Quest’ultima, infatti, non si riduce all’adorazione di immagini di legno: la vera pratica idolatrica consiste nell’escludere il Signore, il Dio liberatore, dal centro della vita, per sostituirlo con idoli di morte, come l’avidità di possesso e la brama di potere.
L’Anno di grazia del Signore
Il passo in cui si manifesta più chiaramente il legame fra il progetto di Gesù e il Giubileo è la presentazione che egli fa di sé stesso nella sinagoga di Nazaret: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).
Questa profezia si realizza in Gesù, e la sua portata è universale. Non si tratta di un Giubileo tra i tanti di Israele, ma di un Giubileo unico, quello perfetto della grazia: accogliere l’inviato del Padre, Gesù. Egli è il compimento pieno dell’anno di grazia del Signore: buona notizia per i poveri, liberazione e perdono per tutti[10]. È giunto il regno di Dio. È quel Regno che chiediamo che venga e, come chiediamo al Padre che perdoni i nostri debiti, così pure noi perdoniamo ai nostri debitori (cfr Mt 6,12). Il Signore ci dona la sua misericordia e, al tempo stesso, ci chiede di perdonare sempre e senza condizioni (cfr Mt 18,21-22). Gesù porta a compimento il principio sabbatico della remissione dei debiti[11]. Inoltre, si prende cura del povero: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Lo spirito e il pensiero cristiano
Nelle prime comunità cristiane «nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (At 4,32). Ognuno dava secondo le proprie possibilità; ognuno riceveva secondo il proprio bisogno. I primi cristiani vollero vivere l’utopia del Giubileo: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso» (At 4,34).
Questo nuovo spirito dei primi cristiani, ammirato tanto da Diogneto, che si interrogava sulla natura dell’affetto che essi si portavano l’un l’altro[12], fu progressivamente elaborato dottrinalmente e adattato alle circostanze sociali di ogni epoca. I Padri della Chiesa, interpreti autorevoli delle Sacre Scritture e testimoni privilegiati della Tradizione, hanno avuto un ruolo fondamentale nel rendere evidente il senso sociale delle Scritture e nel mostrare che lo spirito comunitario è un elemento essenziale del cristianesimo. Hanno sviluppato alcuni dei concetti basilari della dottrina sociale della Chiesa e ne hanno avviato la riflessione sistematica.
Le idee dei Padri della Chiesa sulle ricchezze sottopongono la vita economica alle esigenze della giustizia e della comunione; affermano il primato dei valori umani nell’economia e il dominio dell’essere umano sui beni materiali. Liberato dalle catene dell’avarizia e del desiderio di lucro, egli deve disporne secondo la loro destinazione comune e in base ai doveri morali e sociali della persona. Infine, viene presentata l’utilità comune, piuttosto che l’interesse particolare, come motore dell’azione economica individuale; la ricerca del bene comune conduce anche al conseguimento dell’interesse personale[13].
Nelle loro predicazioni, i Padri denunciavano i ricchi che chiudevano il cuore ai bisogni dei poveri. Tra questi Padri spicca, per valore dottrinale e testimonianza attiva, san Basilio, vescovo di Cesarea. Ricco aristocratico[14], egli si spogliò di tutti i suoi beni a favore dei poveri e condusse, non solo a parole ma anche con i fatti, una straordinaria opera sociale, fondando numerose istituzioni assistenziali, che giunsero a costituire una vera e propria città, denominata «Basiliade».
Situata nei pressi di Cesarea, questa cittadella era un grande complesso con strutture sanitarie per malati, personale infermieristico e medico, abitazioni per anziani e infermi, un ricovero per viaggiatori, un ospizio per i lebbrosi espulsi dalla città a causa della loro condizione, laboratori per la formazione dei lavoratori, una chiesa e un monastero. Per il sostentamento degli operatori vi erano cucine, refettori, bagni, magazzini e stalle. Gli edifici erano così numerosi che Gregorio Nazianzeno la definì «una “nuova città”, in cui “la malattia” è curata dai monaci, “la disgrazia” è una benedizione e “la compassione” è onorata»[15]. Essa fu la casa madre di molte istituzioni analoghe sorte in altre diocesi, e rappresentava un costante richiamo ai ricchi a usare i propri averi in modo cristiano.
Per difendere il sostegno pubblico alla sua opera, Basilio scrisse al governatore provinciale Elia, ricordandogli quanto la nuova fondazione offriva alla società e la vastità delle sue attività: «Tutto questo costituisce un progresso per la comunità e un motivo di orgoglio per il nostro governatore, poiché le lodi ricadono su di lui»[16]. Le moderne istituzioni ospedaliere di cura e recupero dei malati hanno origine in Cappadocia, attorno all’anno 370, in quest’opera fondata dal vescovo Basilio[17].
Quattro omelie di Basilio meritano una particolare menzione: Contro gli usurai (PG 29, 265-280; Basilio fu il primo Padre della Chiesa a dedicare un intero scritto a questo problema sociale); Sul passo evangelico: «Demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi» (PG 31, 261-277); Contro i ricchi (PG 31, 277-304); e In tempo di fame e siccità (PG 31, 305 ss.). Nessuno come Basilio seppe mostrare il carattere sociale e comunitario dei beni, la funzione e i limiti della proprietà e l’obbligo della condivisione, accompagnando tutto questo con una critica energica ai ricchi e alla loro mancanza di coscienza sociale. Famose sono la sua netta condanna dell’usura e la sua descrizione della fame.
E a Gregorio di Nissa, suo fratello minore, si deve la più radicale e piena condanna della schiavitù, mai uguagliata da alcun altro autore ecclesiastico o laico[18].
L’usura, una condanna costante
In contrapposizione a una mentalità mondana che vedeva nel profitto lo scopo della vita ed era accompagnata da un forte individualismo, la Chiesa continuava a insegnare una dottrina fondata sulla Scrittura e sui Padri[19]. Si opponeva in modo particolare all’accumulo della ricchezza a danno dei poveri. La condanna dell’usura in senso ampio – ossia di qualsiasi tipo di prestito a interesse – era giustificata dalla volontà di proteggere i poveri dalla cupidigia dei ricchi. I prestiti a interesse non facevano che sfruttare la disgrazia dei meno fortunati, e usurai erano coloro che vendevano a prezzo maggiorato a chi non poteva pagare subito, o che approfittavano della povertà altrui per acquistare a basso prezzo, prima del raccolto, grano, vino o olio.
La Chiesa si oppose a questa mentalità per secoli, anche quando subentrò la legislazione civile che si ispirava all’umanesimo. Non si rese conto però che la sua dottrina si fondava su un tempo in cui il prestito era essenzialmente un prestito di consumo, dal ricco al povero, mentre i tempi moderni parlano di prestiti commerciali e produttivi destinati a chi li richiede. Allo stesso tempo, all’interno della Chiesa prendeva forma la descrizione di una società ideale, conforme ai princìpi rivelati dal Signore e sviluppati dai Padri.
Il mondo idealizzato da Tommaso Moro
San Tommaso Moro, Lord cancelliere d’Inghilterra sotto Enrico VIII, umanista e giurista, amico di Erasmo, durante il suo soggiorno ad Anversa nel 1515, rimase profondamente colpito dal netto contrasto tra l’opulenza delle città fiamminghe e la miseria dei lavoratori londinesi. Al tempo stesso, fu affascinato dal fatto che, nel Nuovo Mondo, gli abitanti non attribuissero alcun valore ai metalli preziosi. Questa duplice constatazione lo condusse a descrivere la «distopia», ossia un mondo pervertito, e l’«utopia», un «mondo diverso», in cui la felicità è possibile.
In una pagina vibrante, egli afferma che nella «distopia» – la terra della disgrazia – le pecore divorano gli uomini; condanna l’egoismo dei grandi proprietari che espellono le famiglie rurali dalle loro case, costringendole al vagabondaggio[20]. Un vero e proprio esodo di famiglie che dà origine a un sottoproletariato abbandonato a sé stesso. In questa condizione, molti si vedono costretti a rubare. Il loro destino è il carcere o la forca. Sotto il regno di Enrico VIII, furono impiccati oltre 12.000 ladri e vagabondi.
Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA
Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.
Tommaso Moro non vede altra soluzione alla miseria se non quella dell’instaurazione della comunione dei beni. Solo così è possibile eliminare l’ingiustizia sociale e impedire che i lavoratori vengano trattati come bestie da soma, condannati a una vita più misera di quella degli schiavi. Nella sua Utopia – paese fuori dal tempo, isola della felicità, città dell’innocenza –, il denaro è stato bandito: gli abitanti non usano moneta. Oro e argento sono considerati segni d’infamia. Gli stranieri che ignorano queste usanze vengono derisi. È prescritta la condivisione dei beni, e l’avidità che genera disordine sociale è abolita. Quando viene annunciato loro Cristo, gli abitanti di Utopia riconoscono nella sua dottrina una grande somiglianza con la loro credenza fondamentale, e molti abbracciano il cristianesimo.
All’amico britannico Tommaso Moro, considerato precursore del socialismo utopistico, Erasmo da Rotterdam dedicò il suo Elogio della follia: «Mi ci ha fatto pensare [a scrivere l’elogio della Follia] il tuo nome di famiglia “Moro”, che si avvicina nell’etimo al termine “Morìa” nella stessa misura in cui tu che lo porti sei del tutto lontano dalla follia. È opinione davvero universale che tu ne sia lontanissimo»[21]. Alla vigilia dell’epoca moderna, l’Utopia di Tommaso Moro non raccoglie soltanto il grido dei poveri oppressi e la denuncia dell’atteggiamento anticristiano degli Stati ufficialmente cristiani, ma esprime anche la sete di giustizia che si apre alla speranza di un mondo migliore. È possibile realizzarlo?
L’utopia realizzata
Nei territori spagnoli del Nuovo Mondo, la difesa dei poveri si rivelò spesso più difficile che nella vecchia Europa, perché il sistema dell’encomienda aveva istituzionalizzato lo sfruttamento delle popolazioni indigene americane. Contro tale sistema, la Compagnia di Gesù avviò, a partire dal 1610, la realizzazione di un modello di società cristiana.
In effetti, i gesuiti si resero conto che era difficile annunciare un Dio buono a esseri umani condannati alla schiavitù da altri cristiani. Con il sostegno del governo di Madrid, essi riuscirono a riunire le tribù disperse, dopo aver compreso il funzionamento delle società della popolazione indigena. Seppero mantenere la pace e proteggere i guaraní dalla schiavitù. Garantirono l’uguaglianza, organizzando le «riduzioni» come repubbliche comunitarie cristiane.
Ogni riduzione costituiva una repubblica indipendente, governata secondo la formula «A ciascuno secondo il suo bisogno». Ciascuna funzionava con un’economia di baratto e, grazie alla condivisione di molti beni, era una comunità autonoma e autosufficiente[22]. Esistevano la proprietà privata, che consisteva in appezzamenti affidati alle famiglie indigene per il loro sostentamento, e la «terra di Dio», terreno comune, coltivato a turno da tutti e i cui frutti venivano destinati alle spese collettive, al miglioramento delle infrastrutture o al rafforzamento dell’economia della riduzione. Gli strumenti agricoli e i laboratori artigianali erano di proprietà comune. Grazie a tecniche agricole efficienti, la varietà e l’abbondanza dei prodotti coltivati, inclusa la yerba mate, come pure il numero di capi di bestiame allevati spesso superavano i bisogni interni. Ogni famiglia riceveva ciò di cui aveva bisogno. I giovani sposi ottenevano una casa per tutta la vita, i campi da lavorare e le piantagioni.
Le missioni guaraní anticiparono di quasi tre secoli il diritto al lavoro contemporaneo: fissarono la giornata lavorativa a sei ore – la metà di quelle delle encomiendas, ma con una produttività ben maggiore –, permettendo agli indios di dedicarsi anche ad attività religiose e artistiche. Il riposo era garantito la domenica e il giovedì. Attorno alla piazza principale sorgevano gli edifici pubblici della riduzione: la chiesa, la scuola, la casa dei gesuiti e le strutture destinate ai malati, alle vedove e ai forestieri.
In effetti, i gesuiti non volevano dar vita a una semplice comunità fondata sulla rinuncia, ma a una società completa, organizzata per produrre e capace di durare. Era un’economia pianificata secondo un paternalismo teocratico. All’apice del sistema, tra il 1660 e il 1720, in 38 riduzioni vivevano oltre 150.000 indigeni, organizzati in una confederazione con istituzioni comuni: difesa, commercio estero, legislazioni civile e giudiziaria. La sanzione più severa era l’espulsione. Tutto il sistema penale – che non prevedeva la pena di morte – era molto più avanzato di quello di qualunque Paese europeo dell’epoca. Le riduzioni coprivano un territorio vasto quanto l’Italia nel sud del Brasile, nell’attuale Paraguay e nel nord dell’Argentina.
Le riduzioni rappresentano un interessante esperimento di eliminazione della povertà, una sorta di utopia realizzata. «Si è trovato il modo di mettere al bando l’indigenza in questa cristianità: non vi si vede né povero né mendicante e tutti sono in una uguale abbondanza delle cose necessarie»[23]. Illuministi come Montesquieu e Rousseau lodarono le riduzioni gesuite come esempio di attuazione dell’utopia platonica. Voltaire le descrisse come un trionfo dell’umanità. Senza dubbio, le riduzioni guaraní sono state le comunità utopiche più perfette e durature della storia.
Il 12 luglio 1949 Pio XII dichiarò, dinanzi all’ambasciatore del Paraguay, Julián Augusto Saldívar, che tali realizzazioni sociali «sono rimaste come motivo di ammirazione per il mondo, onore per il vostro paese e gloria dell’insigne Ordine che le realizzò, così come della Chiesa cattolica, nel cui grembo materno sorsero»[24]. Il biblista e storico delle religioni Alfred Loisy sosteneva che si attendeva il regno di Dio, ma era venuta la Chiesa; qui, invece, si realizzava una sorta di regno di Dio in terra, instaurato dalla Chiesa, che ha capovolto il mondo.
Ancora non applichiamo le prescrizioni del Giubileo biblico
Come abbiamo visto, la legge del Giubileo prescrive il riposo della terra, la restituzione delle proprietà e il divieto dell’usura. Essa mira a obiettivi altissimi di giustizia ed ecologia, perché l’essere umano non è separato dalla Terra e dal creato: il loro destino è intrecciato. Purtroppo, tutto questo o viene ignorato o è considerato un’utopia.
La Terra ha bisogno di riposo e di guarigione, dopo tanto sfruttamento egoistico. Essa è essenziale per noi: è il Pianeta che abitiamo, che ci sostiene, il fondamento stesso della nostra vita. Ma oggi è una Terra stanca, sovrasfruttata, inquinata, aggredita e depredata[25]. La Terra ci nutre e ci fornisce materie prime per vestirci e ripararci; tuttavia, fino al 40% dei territori del mondo risulta degradato[26], mettendo a rischio la nostra capacità di sostenere una popolazione mondiale in crescita, mentre il Pianeta continua a riscaldarsi[27]. La temperatura media nel 2024 ha superato di 1,6°C i livelli preindustriali, aggravando i fenomeni meteorologici estremi e provocando miseria a milioni di persone. La Terra offre risorse sufficienti per nutrire tutti, ma la fame di molti – 733 milioni di persone ne soffrono[28] – convive con il lusso e lo spreco di una minoranza. Queste disuguaglianze mettono in discussione la giustizia del nostro sistema economico.
La schiavitù è stata formalmente abolita nella quasi totalità dei Paesi del mondo da oltre un secolo. La Dichiarazione universale dei diritti umani, proclamata dall’Onu nel 1948, recita all’articolo 4: «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma». Tuttavia lo stesso organismo internazionale si è visto costretto, nel 1975, a istituire una commissione sulle nuove forme di schiavitù, per indagare sulle violazioni degli accordi internazionali in materia. Secondo le stime più recenti, nel 2019 oltre 40,3 milioni di persone vivevano in condizioni di schiavitù moderna: lavoro coatto, sfruttamento sessuale, matrimoni forzati[29].
Quando si parla di debito estero, di solito si fa riferimento alle somme che i Paesi del Sud devono a entità e governi del Nord a seguito di prestiti concessi a partire dagli anni Settanta. I Paesi poveri accolsero quegli stanziamenti per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Le banche concessero prestiti senza valutare adeguatamente le richieste né controllare l’uso effettivo dei fondi. A causa dell’irresponsabilità sia dei creditori sia dei debitori, gran parte del denaro fu speso in progetti da cui non trassero vantaggio i poveri, ma una ristretta élite, che si arricchì. La Banca mondiale (Bm) e il Fondo monetario internazionale (Fmi), nella loro assemblea congiunta tenutasi a Washington dal 26 settembre al 2 ottobre 1999, giunsero a un accordo per alleggerire il debito estero dei Paesi più poveri.
San Giovanni Paolo II ha scritto: «Nello spirito del Libro del Levitico (25,8-28), i cristiani dovranno farsi voce di tutti i poveri del mondo, proponendo il Giubileo come un tempo opportuno per pensare, tra l’altro, ad una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte Nazioni»[30]. Tuttavia la situazione rimane irrisolta. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, è urgente mettere in atto un’iniziativa sistemica di riduzione del debito, per aiutare i Paesi più poveri a rompere il circolo vizioso dell’insufficienza di investimenti per lo sviluppo[31].
Va inoltre considerato il debito ecologico. Lo ribadisce la recente nota del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale sulla remissione del debito ecologico. In essa si afferma che le economie più industrializzate sono le principali responsabili della crisi climatica, causata dal loro eccessivo sfruttamento delle risorse naturali del Pianeta. I Paesi più poveri, privi dei mezzi per adattarsi o reagire, subiscono contemporaneamente una crisi economica e ambientale di cui non sono colpevoli, con inevitabili ripercussioni sullo sviluppo umano delle loro popolazioni. In questa prospettiva, conclude il documento, la cancellazione del debito finanziario che grava sui Paesi più poveri non dovrebbe essere vista come un gesto di solidarietà o generosità, ma come un atto di giustizia riparativa[32].
Conclusioni
Se il motore dell’attività economica è unicamente il profitto, senza attenzione al bene comune, le conseguenze sociali e ambientali non tardano a manifestarsi in tutta la loro durezza: si genera la distopia. Un sistema del genere è quello che si è andato imponendo e sostenendo, provocando la situazione in cui ci troviamo ora: un mondo scosso, in profonda crisi, in cui mancano la solidarietà e lo spirito di collaborazione.
Sono passati 10 anni dagli Accordi di Parigi e dall’enciclica di papa Francesco Laudato si’, ma la nostra situazione non sembra migliorare. Già nel 2008 l’avidità dei mercati finanziari aveva provocato una crisi economica che aveva generato disoccupazione e sofferenza in tutto il mondo. Oggi, nel sistema finanziario, le criptovalute svolgono un ruolo quanto mai ambiguo.
È urgente avviare riforme. Questo è il primo frutto di una conversione autentica, a livello sia personale sia sociale. Oggi manca un’autorità mondiale capace di strutturare la cooperazione e la solidarietà. I poveri sono molti, e tra essi tanti soffrono la fame. In questa situazione, gli aiuti internazionali sono diminuiti. Al tempo stesso, i poveri sono costretti a pagare interessi su un debito dal quale non hanno mai tratto beneficio. Questo è un onere materialmente e moralmente insolubile. Non ha termine e costringe a vivere sotto il giogo di interessi gravosi. Lo sviluppo di molti è compromesso, per cui non si può fare a meno di menzionare la storia dell’usura. Tutti dobbiamo ricordare qual è la volontà del Signore: che non ci siano poveri in mezzo a noi. A livello personale, l’elemosina è un dovere.
Una conversione personale autentica richiede che si riconosca il potere del denaro, che può essere diabolico. A questo proposito, la natura demoniaca dell’oro viene descritta bene dallo scrittore Bruno Traven (pseudonimo), il quale, nel suo romanzo El tesoro de Sierra Madre (1927), rileva come il possesso trasformi radicalmente il carattere umano, anzi deformi l’anima, che è consegnata a un circolo vizioso: più si possiede e più si desidera. Ne rimane compromessa la capacità stessa di discernere e giudicare: si vive nell’oblio della differenza fra ciò che è onesto e ciò che non lo è, fra bene e male[33]. Ricordiamo ciò che dice la Scrittura: «L’avidità del denaro […] è la radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10).
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[1] Cfr M. Milvia Morciano, «Bonifacio VIII e l’idea del primo Giubileo», in Vatican News (vaticannews.va/it/vaticano/new…), 23 aprile 2024.
[2] Cfr Francesco, Bolla di indizione del Giubileo 2025 Spes non confundit (tinyurl.com/mwbettaj), 9 maggio 2024.
[3] Cfr R. de Vaux, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Torino, Marietti, 1964, 180-184.
[4] Cfr Es20,22-33; Es23,10-11;Lv25,1-7; Dt15,2.
[5] Cfr J.-F. Lefebvre, «Le jubilé biblique», in Cahiers Évangile, n. 211 (Paris, Cerf, 2025), 51. La menzione dell’Anno giubilare si trova in Lv 25 come norma generale e in due norme minori (Lv 27,16-25; Nm 36,4) che precisano alcuni aspetti giuridici della norma principale. Tuttavia nessun racconto ne attesta l’effettiva applicazione.
[6] Cfr Am 3,15; Is 5,8; Mi 2,2; Is 3,14-15 e Am 4,1, rispettivamente.
[7] Cfr Lv 25,36; Lv 25,35 e Dt 15,1, rispettivamente.
[8] Cfr Sal 112,5; Sir 29,4-5.
[9] Cfr Dt 15,12; Lv 25,39.47.
[10] Cfr G. Ravasi, Il significato del Giubileo, Bologna, EDB, 2015, 60 s.
[11] Cfr F. Ramis et Al., Año de gracia. Año de liberación. Una Semana Bíblica sobre el Jubileo, Estella, Verbo Divino, 2000, 100-106.
[12] Cfr Lettera a Diogneto (liturgia.it/content/diogneto/d…).
[13] Cfr R. Sierra Bravo, El mensaje social de los Padres de la Iglesia, Madrid, Ciudad Nueva, 1989, 19.
[14] Cfr J. Gribomont, «Un aristocrate révolutionnaire, évêque et moine: S. Basile», in Augustinianum 17 (1977) 179-191.
[15] R. L. Wilken, «The Sick, the Aged, and the Poor: The Birth of Hospitals», in Id., The First Thousand Years: A Global History of Christianity, New Haven, Yale University Press, 2012, 159 s.
[16] Basilio di Cesarea, s., Epistola 94, in PG 32, 488 bc.
[17] Per i dettagli sull’organizzazione e sulle strutture dell’opera, cfr R. L. Wilken, «The Sick, the Aged, and the Poor…», cit., 161 s.
[18] Cfr Gregorio di Nissa, s., Omelia sul Qoèlet, IV, in PG 44, 664-668.
[19] Cfr J. Delumeau, Naissance et affirmation de la Réforme, Paris, PUF, 1973, 301 s.
[20] Cfr Tommaso Moro, s., Utopia, Torino, Utet, 1971, 18-20.
[21] Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia. Corrispondenza Dorp – Erasmo – Moro, Milano, Paoline, 2004, 139 s.
[22] Sul sistema monetario, cfr G. Romanato, Le riduzioni gesuite del Paraguay. Missione, politica, conflitti, Brescia, Morcelliana, 2021, 140 s.
[23] P. Christophe, I poveri e la povertà nella storia della Chiesa, Padova, Messaggero, 1995, 239.
[24] Pio XII, «Discorso a S. E. Julián Augusto Saldívar, ambasciatore della Repubblica del Paraguay presso la Santa Sede», 12 luglio 1949, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XI anno di pontificato (2 marzo 1949 – 1° marzo 1950), Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, 301.
[25] Cfr «COP16 on biodiversity: In Cali, countries will have to turn promises to halt nature’s destruction into action», in Le Monde (tinyurl.com/4v9wunb5), 21 ottobre 2024.
[26] Cfr UNCCD, Global Threat of Drying Lands: Regional and global aridity trends and future projections, rapporto 2024 (tinyurl.com/mvv4p6dh).
[27] Cfr Copernicus Climate Change Service, Global Climate Highlights 2024 (climate.copernicus.eu/global-climate-highlights-2024).
[28] Cfr UNHCR, «733 millones de personas pasan hambre en el mundo», 7 novembre 2024 (tinyurl.com/bd9c89x3).
[29] Cfr ONU, A/HRC/42/44: Formas actuales y nuevas de esclavitud. Informe de la Relatora Especial sobre las formas contemporáneas de la esclavitud, incluidas sus causas y consecuencias (docs.un.org/es/A/HRC/42/44), 25 luglio 2019.
[30] Giovanni Paolo II, s., Lettera apostolica Tertio millennio adveniente, 10 novembre 1994, n. 51 (tinyurl.com/3adebf3s).
[31] Cfr UNDP, «El creciente aumento del pago del servicio de la deuda de los países más pobres alcanza niveles alarmantes», in UNDP Noticias (tinyurl.com/5wa7zajx), 25 febbraio 2025.
[32] Cfr Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, Giubileo 2025: remissione del debito ecologico, 24 giugno 2025 (tinyurl.com/bdhrhwa7).
[33] Cfr B. Traven, El tesoro de Sierra Madre, Biblioteca Libre y Virtual Omegalfa, 2018, 56.
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Corea del Sud: una democrazia resiliente
Il 3 giugno 2025 il candidato del partito liberale Lee Jae-myung è stato eletto presidente della Corea del Sud in un’elezione lampo, scatenata dall’improvviso decreto di legge marziale del suo predecessore, il presidente conservatore Yoon Suk-yeol, dal suo impeachment e dalla sua rimozione dall’incarico. La vittoria di Lee è stata decisiva: egli ha ottenuto il 49,42% dei voti contro il 41,15% del suo rivale conservatore Kim Moon-soo[1].
La crisi era iniziata esattamente sei mesi prima, quando, alle 22,25 del 3 dicembre 2024, il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol aveva annunciato in diretta televisiva la dichiarazione della legge marziale, giustificandola con minacce alla sicurezza nazionale da parte della Corea del Nord. Tuttavia questa misura drastica, che sembrava appartenere a un passato superato dopo il ripristino della democrazia nel 1987, non è durata a lungo. La risposta della popolazione e delle istituzioni non si è fatta attendere: migliaia di cittadini si sono precipitati verso l’Assemblea nazionale, per impedire che le truppe, in seguito alla legge marziale, prendessero il controllo dell’edificio. Alcuni hanno persino aiutato i parlamentari a scavalcare i muri per aggirare i blocchi della polizia. In un colpo di scena, i deputati dell’opposizione, insieme ad alcuni membri del Partito del potere del popolo (Ppp), forza politica del presidente, hanno votato per annullare il decreto di legge marziale. Alle 4,30 del mattino successivo, Yoon non ha avuto altra scelta che conformarsi a questa decisione. Di seguito, sono state avviate le procedure di impeachment nei suoi confronti e, al secondo tentativo, il 14 dicembre, l’Assemblea ha approvato la messa in stato d’accusa del presidente con 204 voti favorevoli.
In seguito, il 4 aprile 2025, la Corte costituzionale ha ufficialmente rimosso Yoon dall’incarico[2]. Nella sentenza si legge: «L’imputato è venuto meno al suo dovere di proteggere la Costituzione e ha tradito gravemente la fiducia del popolo sudcoreano, sovrano della Repubblica di Corea. […] Il beneficio derivante dalla tutela della Costituzione mediante la rimozione dell’imputato è così grande da superare la perdita nazionale che deriva dalla destituzione del presidente. Per questo, la Corte decide all’unanimità che l’imputato presidente Yoon Suk-yeol sia rimosso dall’incarico»[3].
La legge marziale, una misura temporanea che consente alle autorità militari di assumere il controllo in situazioni di emergenza nazionale, non veniva dichiarata in Corea del Sud da 46 anni. Questo spiega perché, quando si è diffusa per la prima volta la notizia del decreto del 3 dicembre 2024, molti inizialmente hanno pensato che si trattasse di una fake news, sebbene tra le file dell’opposizione circolassero voci di qualcosa di inedito.
Questo articolo cerca di evidenziare come i coreani abbiano fatto progredire la democrazia attraverso l’azione collettiva, passando da una società a struttura confuciana a una moderna società democratica[4]. Per comprendere appieno il momento attuale, dobbiamo considerare gli ultimi 100 anni di storia coreana, che implicano molti casi in cui il popolo si è sollevato contro gli abusi di potere e ha lottato per ripristinare il governo democratico. Inizieremo dunque esaminando il contesto della dichiarazione della legge marziale, seguito dalla tempistica dell’impeachment, dalla rimozione del presidente e dall’elezione del suo successore.
La storia moderna della Corea del Sud
Dopo la Seconda guerra mondiale, la Corea – già sottoposta per 35 anni al dominio coloniale giapponese – fu divisa in due dalle potenze vincitrici (gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica). Sorsero così la Corea del Nord, comunista, e la Corea del Sud, capitalista. Nel 1950 scoppiò la guerra di Corea. La Corea del Sud, uscita dal conflitto come una delle nazioni più povere del mondo, si trasformò negli anni successivi in una potenza industriale, oggi nota per l’esportazione di semiconduttori, automobili e navi.
L’industrializzazione del Paese iniziò negli anni Sessanta, sotto la guida del generale Park Chung-hee, divenuto poi presidente. La sua strategia economica, basata sulle esportazioni, diede risultati notevoli. Tuttavia, per consolidare il proprio potere, egli dichiarò la legge marziale e riscrisse la Costituzione, giustificando questo operato come necessario per la crescita economica e per la difesa dalla Corea del Nord comunista. I suoi sostenitori, per lo più conservatori, tra cui i grandi gruppi economici che avevano beneficiato della rapida crescita industriale, vennero definiti «forze dell’industrializzazione». Al contrario, coloro che sostenevano riforme democratiche e una maggiore uguaglianza sociale, opponendosi all’autoritarismo di Park, vennero definiti «forze della democratizzazione».
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Nel corso della storia, queste due forze hanno interagito in modo molto complesso[5]. Guardando al passato, da quando, alla fine del XIX secolo, intraprese la via della modernizzazione, la Corea spesso diede priorità allo sviluppo industriale, sottovalutando, o ignorando totalmente, le istanze democratiche. Tuttavia, nonostante questo disinteresse o violazione, la ricerca della democratizzazione continuò e, dopo la cosiddetta «democratizzazione del 1987», divenne un’importante agenda sociale[6]. La storia della Corea del Sud è stata caratterizzata dalla competizione e dalla riconciliazione finale tra queste due correnti.
Il 1° marzo 1919 sorse in Corea un movimento spontaneo a favore dell’indipendenza contro la colonizzazione giapponese (1910-1945). Anche se fallì, lasciò un segno duraturo, portando all’istituzione del Governo provvisorio della Repubblica di Corea a Shanghai, in Cina. Questo gruppo continuò a lottare per l’indipendenza del Paese. Tuttavia, dopo la Seconda guerra mondiale, il governo militare statunitense si affidò in larga misura, per la gestione provvisoria della Corea del Sud, a molti degli ex collaboratori del Giappone; il Governo provvisorio e gli attivisti per l’indipendenza furono messi da parte, provocando risentimenti e divisioni; e questo fu uno dei fattori che portarono allo scoppio della guerra di Corea. Molti di quegli ex collaboratori o i loro discendenti formarono l’élite che sostenne i primi regimi autoritari della Corea del Sud, compreso quello del presidente Syngman Rhee (1948-1960).
Nonostante i suoi fallimenti dopo la guerra di Corea, Rhee cercò di estendere il suo potere con elezioni considerate fraudolente, scatenando l’indignazione dell’opinione pubblica. Tutto questo culminò nelle proteste studentesche dell’aprile del 1960, durante le quali morirono 186 manifestanti favorevoli alla democrazia. In seguito alla rivolta, il movimento democratico riuscì temporaneamente a insediarsi al governo, ponendo le basi per le riforme politiche ed economiche. Ma questo fu di breve durata: il 16 maggio 1961, il generale Park Chung-hee prese il potere con un colpo di Stato militare. Sebbene a lui si riconoscesse il merito di una rapida crescita economica della Corea del Sud, il suo governo intransigente represse l’opposizione politica. In particolare, i futuri presidenti Kim Dae-jung e Kim Young-sam, entrambi protagonisti della restaurazione della democrazia nel 1987, subirono gravi persecuzioni sotto il suo regime.
Il governo autoritario di Park si concluse nel 1979, quando egli fu assassinato da Kim Jae-gyu, capo della Korean Intelligence Agency (Kcia) e suo dipendente. Dopo il suo assassinio, fu dichiarata la legge marziale e le forze militari a lui fedeli ripresero il controllo, rafforzando il regime autoritario. Questo nel maggio 1980 portò alla rivolta di Gwangju in favore della democrazia, durante la quale furono uccise 165 persone, e altre 65 risultarono scomparse. L’evento fu successivamente immortalato nel romanzo Atti umani, di Han Kang, vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 2024[7].
Il generale Chun Doo-hwan, che prese il potere dopo la morte di Park, nel 1987 cercò di far succedere al proprio governo autoritario il suo amico ed ex generale Roh Tae-woo; ma, di fronte a massicce proteste, fu costretto a capitolare e a ripristinare la democrazia. Fu emendata la Costituzione, riducendo il mandato del presidente a un solo quinquennio e limitando il suo potere di sciogliere l’Assemblea nazionale. Fu così che nacque la Costituzione democratica, che è tuttora in vigore.
Kim Young-sam, figura di spicco delle forze democratiche, divenne presidente nel 1993. Sebbene le sue radici politiche fossero nella corrente democratica, si alleò con i sostenitori dei tre ex generali diventati presidenti – Park Chung-hee, Chun Doo-hwan e Roh Tae-woo – per conquistare il potere. Durante la sua presidenza (1993-1998), stabilì il principio del controllo civile sull’esercito, smantellando le fazioni segrete che sostenevano l’estensione del governo militare sul Paese. Questa riforma sarebbe stata determinante nel fallimento della legge marziale dichiarata da Yoon nel 2024. Nel 1997, verso la fine del mandato di Kim, la Corea del Sud dovette affrontare una grave crisi finanziaria, che mise a dura prova la resistenza economica del Paese.
A succedere a Kim Young-sam fu Kim Dae-jung, presidente dal 1998 al 2003, sostenitore del duplice programma di sviluppo economico e di democratizzazione. Egli riformò il welfare sociale, promosse la cultura e la tecnologia, e avviò un dialogo intercoreano, che gli valse nel 2000 il premio Nobel per la pace. Il suo successore, Roh Moo-hyun (2003-2008), proseguì le riforme a favore della democrazia, consolidando l’impegno del Paese per l’innovazione economica e la governance democratica.
Dopo un decennio di governo liberale, la Corea del Sud ha visto il ritorno di due presidenti di area conservatrice: l’ex magnate dell’industria Lee Myung-bak (2008-2013) e Park Geun-hye (2013-2017), figlia del presidente assassinato Park Chung-hee. Lee si è fatto apprezzare per la gestione della crisi finanziaria globale del 2008, mentre la presidenza di Park è stata travolta da un grosso scandalo di corruzione e abuso di potere, che ha portato al suo storico impeachment nel dicembre 2016 e alla successiva rimozione dall’incarico nel marzo 2017: era la prima volta che un presidente sudcoreano veniva rimosso dalla Corte costituzionale.
Tra i protagonisti dell’inchiesta che la destituì vi era Yoon Suk-yeol, all’epoca capo della Procura del Distretto centrale di Seul, il quale si è guadagnato fama nazionale per aver condotto le indagini che hanno segnato la fine del mandato di Park. Quando, nel 2017, Moon Jae-in, avvocato per i diritti umani e membro del Partito democratico, è subentrato a Park, ha nominato procuratore generale Yoon, che cinque anni dopo sarebbe diventato presidente.
Il presidente Moon non avrebbe mai immaginato che Yoon Suk-yeol gli avrebbe voltato le spalle. Ma lo stile di quest’ultimo lo ha portato presto a scontrarsi con l’amministrazione Moon. Così, con una svolta imprevista, Yoon si è unito al partito conservatore Ppp e si è candidato alla presidenza, vincendo le elezioni del 2022. Per arrivare a tale vittoria, aveva il sostegno dell’elettorato conservatore più radicale, dopo aver condotto indagini aggressive sul fidato ministro della Giustizia di Moon, Cho Kuk, considerato all’epoca un forte candidato alla presidenza.
Tra i suoi sostenitori conservatori, Yoon veniva elogiato per l’avvicinamento della Corea del Sud agli Stati Uniti e al Giappone. Altri invece lo criticavano per aver concesso eccessiva indulgenza al Giappone in questioni storiche, per aver gestito male, nel 2022, il disastro della calca di Halloween a Seul (in cui morirono 158 persone) e per aver provocato uno sciopero nazionale dei medici con la sua decisione di aumentare drasticamente le ammissioni alle facoltà di Medicina. Inoltre, i suoi oppositori sostenevano che la democrazia sudcoreana sotto la sua guida aveva subìto un indebolimento, facendo riferimento alle repressioni contro i giornalisti e gli organi di stampa.
La dichiarazione della legge marziale e l’«impeachment»
Yoon ha attribuito la responsabilità del fallimento delle sue «quattro riforme» – del lavoro, delle pensioni nazionali, dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria – all’Assemblea nazionale, controllata dall’opposizione. D’altra parte, i media a lui favorevoli hanno continuato a pubblicare notizie sulle indagini riguardanti i suoi principali avversari politici, in particolare il leader dell’opposizione, Lee Jae-myung, il quale, nelle elezioni presidenziali del 2022, per poco non lo aveva sconfitto[8].
In questo contesto, nelle elezioni generali dell’aprile 2024, il partito di Yoon ha avuto una pesante sconfitta, perdendo 192 dei 300 seggi dell’Assemblea nazionale a favore dell’opposizione. Nonostante ciò, Yoon non ha modificato il suo stile di leadership. Il suo rapporto con l’opposizione è rimasto difficile, esercitando il potere di veto sulle decisioni dell’Assemblea e rifiutando il dialogo. Secondo i critici, egli aveva iniziato a considerare la possibilità di dichiarare la legge marziale in risposta alla sconfitta elettorale del suo partito. In effetti, dichiarando la legge marziale il 3 dicembre 2024, ha presentato come giustificazione le minacce da parte delle forze comuniste della Corea del Nord e la necessità di «sradicare» una non ben definita «fazione pro-Nord e anti-Stato».
Nei mesi precedenti, autorevoli esponenti dell’opposizione avevano messo in guardia da una simile mossa, invitando i colleghi a recarsi immediatamente all’Assemblea nazionale in tale caso. Quando le truppe sono state inviate per bloccare l’ingresso dei deputati all’Assemblea nazionale, il loro arrivo è stato ritardato dal maltempo e dalla necessità di ottenere l’autorizzazione dell’aviazione. Così, quando i soldati sono giunti in elicottero, hanno trovato i parlamentari già all’interno del palazzo, sostenuti da cittadini comuni. Colti di sorpresa e incerti sul da farsi, essi hanno esitato. Nel giro di due ore e mezza, 192 parlamentari si sono riuniti e hanno votato all’unanimità per il ritiro della legge marziale. Di conseguenza, tre ore dopo, Yoon ha revocato il decreto.
L’opposizione ha immediatamente denunciato la mossa del presidente come un atto illegale di tradimento e ha lanciato una campagna nazionale per l’impeachment[9]. In Corea del Sud, per la messa in stato d’accusa del presidente è necessaria la maggioranza dei due terzi dell’Assemblea nazionale. Il primo tentativo, il 7 dicembre, è fallito per mancanza del quorum. Ma il 14 dicembre, con l’aiuto di alcuni legislatori conservatori, è stato raggiunto il numero necessario per votare l’impeachment. Il presidente è stato quindi perseguito penalmente, in quanto la dichiarazione della legge marziale è stata considerata un atto di tradimento. Egli ha opposto resistenza per un mese, ma alla fine è stato arrestato.
Il 4 aprile 2025, la Corte costituzionale ha ufficialmente rimosso Yoon Suk-yeol dalla presidenza. Così egli è diventato il secondo presidente sudcoreano a essere destituito, dopo Park Geun-hye (destituita il 10 marzo 2017). Ironia della storia, era stato proprio Yoon a condurre, nel ruolo di principale procuratore, le indagini che avevano portato all’impeachment di Park. Dopo l’arresto, Yoon ha difeso il suo operato, sostenendo che la legge marziale era necessaria per mettere in guardia la popolazione da quella che egli definiva la «dittatura legislativa» dell’opposizione. Perciò ha accusato l’opposizione di abusare della propria maggioranza per bloccare i suoi progetti e per mettere sotto accusa i suoi funzionari. Ma la sentenza della Corte ha dichiarato che, «anche se l’imputato riteneva che l’esercizio del potere da parte dell’Assemblea nazionale fosse una forma di tirannia della maggioranza, comunque avrebbe dovuto garantire che i pesi e i contrappesi fossero realizzati attraverso misure previste dalla Costituzione»[10].
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Yoon e il suo avvocato hanno poi affermato che i sospetti di brogli elettorali avevano indotto il presidente a trattare la situazione come un’emergenza nazionale e a dichiarare la legge marziale, ma non sono riusciti a fornire prove concrete a sostegno delle loro affermazioni[11]. Yoon ha anche addotto minacce da parte della Corea del Nord e della Cina, ma non è riuscito a fornire alcun riscontro concreto. Invece, un appunto sequestrato a Noh Sang-won, ex comandante del Defense Intelligence Command, arrestato dalla polizia perché sospettato di essere coinvolto nella dichiarazione della legge marziale, faceva riferimento proprio a un piano per provocare l’esercito nordcoreano.
Possiamo affermare che il processo di impeachment ha posto in evidenza una questione centrale: quella di obbedienza versus coscienza da parte dei comandanti militari. Alcuni importanti comandanti coinvolti nell’attuazione della legge marziale e funzionari governativi chiamati a testimoniare si sono rifiutati di sostenere Yoon, condannando le sue azioni. Questo episodio è diventato un momento drammatico e determinante nella storia democratica della Corea del Sud, offrendo una lezione preziosa per le generazioni future.
Le ragioni del fallimento della legge marziale
Yoon Suk-yeol ora è chiamato a rispondere a varie accuse, tra cui quella di tradimento. La sua ascesa alla presidenza era stata alimentata dall’insoddisfazione pubblica per il fallimento del governo liberale nell’affrontare l’aumento dei prezzi immobiliari nella zona metropolitana di Seul. Ma il suo rapido passaggio da procuratore generale a presidente lo ha trovato impreparato ad affrontare le sfide del governo. Privo di una visione chiara, egli ha fatto ricorso alle politiche del defunto presidente Park Chung-hee a favore delle grandi imprese, ignorando le lotte delle piccole imprese, dei lavoratori e dei cittadini a basso reddito. I tagli alle imposte per le grandi aziende hanno aggravato il deficit del bilancio statale, comportando riduzioni al welfare sociale e aumentando il debito nazionale. Con l’aggravarsi della situazione economica nazionale, il sostegno politico a Yoon è venuto meno. Secondo gli analisti, è stato questo il motivo che lo ha spinto a dichiarare la legge marziale, nel disperato tentativo di conservare il potere.
Il fallimento di tale tentativo può essere spiegato in definitiva da una serie di fattori. Innanzitutto, una matura coscienza civica: infatti, nonostante i militari bloccassero l’accesso all’Assemblea nazionale, i parlamentari sono riusciti a riunirsi e hanno approvato una mozione per revocare il decreto presidenziale. Anche i cittadini si sono mobilitati, alcuni arrivando persino a bloccare fisicamente i veicoli militari. Questo coraggio collettivo affonda le sue radici nella lunga storia di resistenza della Corea del Sud: dalle rivolte antigiapponesi alle lotte per la democrazia degli anni 1960, 1980, 1987 e 2017. Si deve anche considerare il cambiamento nella cultura militare sudcoreana. L’esercito, che un tempo aveva sostenuto il regime autoritario, ha avuto significative riforme a partire dagli anni Ottanta. In particolare, dopo lo smantellamento della potente fazione «Hanahoe» da parte del presidente Kim Young-sam nel 1993, i militari sono diventati più trasparenti e più consapevoli dei crimini commessi in passato, cosicché oggi l’esercito sudcoreano si mostra custode della democrazia.
Un ruolo essenziale nel contrastare la legge marziale lo hanno avuto anche i media. Le dirette televisive delle azioni dei militari presso l’Assemblea nazionale, assieme ad analisi approfondite sulla legittimità della legge, hanno garantito trasparenza e informazione continua dell’opinione pubblica. Questa trasparenza è in netto contrasto con la segretezza e la censura che avevano caratterizzato episodi simili in passato. Tuttavia, rimangono ancora delle sfide, come le fake news e la polarizzazione dell’opinione pubblica, che riflettono questioni sociali più profonde.
Le ultime settimane prima dell’impeachment e della destituzione sono state segnate da scontri violenti tra i sostenitori di Yoon e gli attivisti dell’estrema destra, da una parte, e le forze liberali favorevoli alla democrazia, dall’altra. Ma, per i primi, difendere un presidente impopolare le cui qualifiche venivano messe in questione non è stato facile, soprattutto quando anche i principali media del Paese gli hanno voltato le spalle.
La scelta di un nuovo leader
Per molti aspetti, Lee Jae-myung era in netto contrasto con Yoon Suk-yeol. Figlio di un contadino, egli ha iniziato la sua carriera come avvocato per i diritti umani, difendendo i poveri e i lavoratori. Poi, disilluso dai limiti del lavoro legale, è passato alla pubblica amministrazione. Le sue prestazioni come sindaco di città e governatore di provincia gli sono valse il riconoscimento nazionale, portando infine il popolo sudcoreano a eleggerlo come 21° presidente. Il suo percorso verso la presidenza è stato irto di avversità. Senza un background familiare influente o legami con l’élite, è arrivato alla presidenza solo grazie alla tenacia personale e al sostegno pubblico. Yoon, ex presidente ed ex procuratore generale, ha mobilitato la procura per perseguirlo, ma Lee si è difeso grazie alla sua integrità e al suo carattere inflessibile.
Nel maggio di quest’anno ha dovuto affrontare una sfida particolarmente aspra. Secondo la legge elettorale della Corea del Sud per i funzionari pubblici, una condanna penale comporta l’esclusione dalla candidatura. Inizialmente dichiarato colpevole nel processo di primo grado, Lee è stato assolto in appello il 26 marzo 2025[12]. L’accusa immediatamente ha fatto ricorso alla Corte Suprema, che ha insolitamente accelerato il processo: il 1° maggio essa ha annullato l’assoluzione e ha rinviato il caso alla Corte d’appello, chiedendo un verdetto di colpevolezza. La Corte d’appello ha quindi fissato l’apertura di una nuova udienza per il 15 maggio. La difesa di Lee ha sostenuto che la magistratura stava interferendo nelle elezioni presidenziali e ha chiesto che l’udienza fosse rinviata a dopo le elezioni del 3 giugno. Di fronte alla crescente rabbia dell’opinione pubblica, espressa online e nelle strade contro quella che veniva percepita come un’interferenza della magistratura nelle elezioni, la Corte d’appello ha rinviato l’udienza, riprogrammandola per il 18 giugno, dopo le elezioni.
Dopo queste vicende tempestose, Lee Jae-myung, 61 anni, si è assicurato la presidenza con un forte sostegno pubblico. Il fatto che un outsider politico abbia potuto ascendere alla massima carica è una testimonianza della mobilità verso l’alto ancora presente nella giovane democrazia sudcoreana.
Durante il suo mandato quinquennale Lee dovrà affrontare sfide enormi: ricostruire la reputazione internazionale del Paese; fronteggiare la crisi economica e sanare le fratture interne causate dal tentato colpo di mano. Dovrà anche affrontare un contesto geopolitico sempre più instabile, fra la crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina e l’imprevedibilità delle politiche estere del presidente statunitense Donald Trump, in un momento in cui le tensioni nella penisola coreana continuano a salire.
Conclusioni
Nonostante il colpo inferto alla democrazia sudcoreana dal tentativo di instaurazione della legge marziale, la crisi ha rivelato, ancora una volta, la straordinaria resilienza del Paese. I cittadini sono scesi in strada a migliaia durante le settimane successive, sfidando le temperature gelide e partecipando ogni sera a manifestazioni a lume di candela, riaffermando così il loro impegno per la democrazia. La storia della Corea del Sud insegna che, quando la democrazia è minacciata da leader autoritari, il popolo si oppone fermamente per ristabilirla: così è accaduto nel 1987, con la fine della dittatura militare, e questo si è ripetuto nel 2017 con la destituzione di Park Geun-hye[13].
La Costituzione democratica del 1987 imponeva limiti rigorosi ai poteri presidenziali, compreso quello di dichiarare la legge marziale. In base a tale Costituzione, Yoon è stato obbligato a conformarsi alla decisione dell’Assemblea nazionale di revocare il decreto da lui emesso. Anche la Corte costituzionale fu istituita in base alla stessa Costituzione del 1987. Questo episodio conferma che il patrimonio democratico della Corea del Sud costruito nel tempo è in grado di proteggere il Paese nei momenti di crisi.
Ci si potrebbe chiedere: dove la democrazia funziona meglio: nell’eleggere leader competenti e affidabili, oppure nella possibilità di rimuoverli quando tradiscono la fiducia popolare? La democrazia sudcoreana ha dimostrato una notevole efficacia nel correggere le scelte sbagliate. La democrazia non è un sistema perfetto, ma è come un organismo vivente: si evolve costantemente, adattandosi alla volontà del popolo.
La sovranità popolare, la separazione dei poteri, il sistema dei pesi e contrappesi sono essenziali per prevenire la corruzione e l’abuso di potere, garantendo il corretto funzionamento del sistema e delle istituzioni. La democrazia è un sistema aperto, il cui successo dipende dalla consapevolezza delle persone e dallo sviluppo complessivo del Paese in tutti i settori. La democrazia sudcoreana può ancora migliorare, ma ha già dimostrato di saper reagire e rinnovarsi di fronte alle crisi.
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[1] Cfr L. Hui Jie – A. Bao, «South Korea’s opposition leader Lee Jae-myung wins presidential election», in CNBC (tinyurl.com/2v2cmwd2), 2 giugno 2025.
[2] Cfr J. Mackenzie, «The unravelling of Yoon Suk Yeol: South Korea’s “stubborn and hot-tempered” martial law president», in BBC (bbc.com/news/articles/c86py30q…), 4 aprile 2025.
[3] S. Seung-hyun – C. Jae-hee, «The verdict that removed South Korean President Yoon Suk Yeol from power», in The Korea Herald (koreaherald.com/article/104583…), 6 aprile 2025.
[4] «The Republic of Korea shall be a democratic republic. The sovereignty of the Republic of Korea shall reside in the people, and all state authority shall emanate from the people» (Costituzione della Repubblica della Corea del Sud, art. 1).
[5] Un’analisi ben strutturata, che affronta in profondità la complessità di questo tema si trova in A. S. List-Jensen, «Economic Development and Authoritarianism: A Case Study on the Korean Developmental State», Aalborg University (Denmark), 2008.
[6] Per le discussioni correlate in Corea, cfr K. Sang Joon, «Characteristic Features of Korean Democratization», in Asian Perspective 18 (1994/2) 181-196; C. Jang-Jip, Democracy After Democratization: The Korea Experience, Stanford, Walter H. Shorenstein Asia-Pacific Research Center, 2012.
[7] Su Han Kang, cfr D. Mattei, «Han Kang, premio Nobel per la letteratura 2024», in Civ. Catt. 2025 I 90-104.
[8] Cfr S. Bok-gyu, «Lee Jae-myung proclaims victory over political prosecutors after acquittal», in Biz Chosun (tinyurl.com/mr2mbu7w), 26 marzo 2025. Cfr J. Chong Che-chon, «Le elezioni presidenziali coreane e le loro conseguenze», in Civ. Catt. 2022 II 254-266.
[9] Cfr J. Kim – J. Ha Park, «Timeline: The swift rise and fall of martial law in South Korea», in Korea Pro (tinyurl.com/yhup8vau), 5 dicembre 2024.
[10] S. Seung-hyun – C. Jae-hee, «The verdict that removed South Korean President Yoon Suk Yeol from power», cit.
[11] Cfr «Yoon’s Legal Team: Yoon Declared Martial Law due to Suspicions of Election Fraud», in KBS World (world.kbs.co.kr/service/news_v…), 17 gennaio 2025.
[12] Tra i cinque capi d’accusa che gli sono stati contestati c’è la diffusione di notizie false ai sensi della legge sulle elezioni dei funzionari pubblici. Le accuse derivavano da due fatti. In primo luogo, rispondendo a un’intervista dei media, egli aveva testimoniato di non conoscere nessuno dei suoi dipendenti con cui aveva giocato a golf all’estero molti anni prima. C’erano foto di circa 10 di loro assieme a lui. L’accusa ha ingrandito solo parzialmente quattro di esse e le ha presentate alla Corte come prova. Egli ha definito le foto «falsificate», ma l’accusa lo ha incolpato di aver mentito sul fatto di non aver giocato a golf con il dipendente. In secondo luogo, un altro dipendente ha detto di aver subìto pressioni dai livelli superiori del governo, ma l’accusa gli ha rinfacciato di aver esagerato quella che era solo una raccomandazione di routine.
[13] Cfr «S Koreans protest against President Park on New Year’s Eve», in BBC News (bbc.com/news/world-asia-384791…), 31 dicembre 2016.
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Le molteplici sfaccettature della diaspora africana
La diaspora africana è un fenomeno vario e complesso, che va oltre i semplici movimenti migratori e riflette una storia segnata da scambi culturali e lotte identitarie. In tutto il mondo, gli africani e i loro discendenti hanno contribuito a modellare le società, spesso in contesti difficili, dimostrando resilienza e capacità di innovazione.
Questa definizione esclude i discendenti della tratta degli schiavi e si concentra sugli africani che hanno lasciato la propria terra natale volontariamente o sotto costrizione. La diaspora africana comprende quindi le comunità dell’Africa subsahariana stabilitesi in Europa, in Nordamerica, in Asia, alle Antille e ai Caraibi. Questi gruppi svolgono un ruolo fondamentale nella diversità e nelle dinamiche socioculturali dei Paesi di accoglienza. Inoltre, la definizione include gli africani stabilitisi altrove in Africa, al di fuori del proprio Paese di origine, mettendo in luce una migrazione che continua a influenzare il mondo contemporaneo.
Itinerario
A partire dalle dichiarazioni di indipendenza degli anni Sessanta, l’emigrazione degli africani verso l’Europa e il Nordamerica si è intensificata. Inizialmente percepita come un freno allo sviluppo del Continente, è stata progressivamente vista sotto una luce più positiva. Infatti, le comunità africane della diaspora si sono rivelate attori chiave nello sviluppo locale, contribuendovi attraverso trasferimenti finanziari, investimenti e condivisione di competenze. In un mondo segnato dalla globalizzazione e dalla mobilità transnazionale, queste partnership svolgono un ruolo strategico, specialmente nei rapporti Nord-Sud e nella promozione della solidarietà internazionale. In generale, queste interazioni si articolano intorno a tre ambiti principali: lo sviluppo locale, il mondo degli affari e la scienza. Dovendo far fronte a condizioni di vita precarie o animati da aspirazioni personali e collettive, numerosi africani lasciano il proprio Paese alla ricerca di prospettive migliori, spesso idealizzate.
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A partire dagli anni Settanta del secolo scorso[1], l’Africa ha assistito a un notevole esodo di talenti, caratterizzato dalla partenza di professionisti qualificati verso l’Europa e il Nordamerica in cerca di riconoscimento e migliori opportunità. Anche la crisi economica degli anni Ottanta, aggravata dai programmi di aggiustamento strutturale imposti dalla Banca Mondiale e dal Fmi, ha spinto numerosi imprenditori a emigrare. I decenni successivi sono stati segnati da nuove ondate migratorie dovute a fattori ecologici, politici ed economici, mentre i flussi migratori dall’Africa al Nordamerica sono cresciuti.
Sin dalla fine del XX secolo, l’emigrazione africana si è imposta come fenomeno globale, portando alla dispersione, in esilio volontario o forzato, di popolazioni provenienti da diversi contesti sociali. Il concetto di diaspora illustra perciò questa realtà dei migranti che, nonostante la lontananza, conservano un forte legame con il proprio Paese di origine. Le associazioni di espatriati si organizzano generalmente per Paese, regione o località, favorendo una cultura della solidarietà e dell’impegno. La loro integrazione nelle società di accoglienza varia a seconda del contesto, passando da un pieno inserimento a situazioni di precarietà ed esclusione. Quali che siano le loro condizioni di vita, le comunità africane della diaspora restano un prolungamento attivo della società civile della loro terra natale e agiscono come una forza trainante sul piano economico, politico e culturale.
Queste comunità hanno infatti un ruolo importante nello sviluppo locale, soprattutto attraverso l’economia. Da sole o in collaborazione con le associazioni dei Paesi del Nord, prendono iniziative a sostegno delle comunità di origine mediante l’invio di beni, il finanziamento di progetti locali e il trasferimento di fondi istituzionalizzati. D’altra parte, i lavoratori qualificati in esilio contribuiscono al dinamismo economico dei Paesi ospitanti. Inoltre, gli attuali progressi tecnologici consentono alle comunità della diaspora di partecipare attivamente al rafforzamento delle capacità scientifiche e tecnologiche dell’Africa. Il continente africano potrebbe accelerare il suo sviluppo mobilitando risorse finanziarie e umane, riducendo così la dipendenza dagli aiuti esterni e dal commercio con i Paesi del Nord. Per uscire da questa crisi permanente, è essenziale che i dirigenti riconoscano tale opportunità e facciano della diaspora un volano strategico. Ciò implica valorizzare l’ingegno dei suoi membri e riposizionare l’Africa nel sistema globale, aderendo a movimenti che promuovano una globalizzazione più equa[2].
Alcuni ostacoli incontrati dalle comunità diasporiche africane
I membri delle comunità diasporiche africane affrontano sfide complesse, tra le quali si segnalano il razzismo, la discriminazione e l’isolamento sociale[3]. Questi problemi non riguardano soltanto la loro vita quotidiana, ma anche il futuro, le opportunità e la capacità di incidere sulla società in cui vivono. L’emarginazione a cui sono talora soggetti alimenta disuguaglianze permanenti, alimentando un ciclo di marginalizzazione e rifiuto. Per le popolazioni africane della diaspora le difficoltà di integrazione sono legate al razzismo e alla discriminazione. Questi fenomeni non si limitano a episodi isolati, ma si inseriscono in sistemi ben consolidati.
Spesso il razzismo diventa sistemico, condizionando addirittura la polizia, la giustizia, l’istruzione e il mercato del lavoro. L’esempio più evidente è quello dei controlli di identità a campione da parte della polizia. Diverse inchieste hanno mostrato che gli uomini neri o arabi vengono fermati per controlli 20 volte più spesso rispetto agli uomini bianchi[4]. Un altro esempio di razzismo sistemico è la discriminazione nell’accesso alla casa per le persone immigrate, che riguarda ben il 45% della popolazione della diaspora. Questi immigrati raccontano che per loro è sempre molto difficile trovare casa[5]. Le comunità della diaspora devono confrontarsi regolarmente con stereotipi, esclusione sociale, discriminazioni economiche e violenza, tutti fattori che rappresentano ostacoli sia per la loro integrazione sia per il loro riconoscimento. Una donna di 45 anni che ha trascorso la maggior parte della sua vita in Europa, soprattutto in Francia, ha testimoniato questa realtà. Arrivata negli anni Novanta, ha frequentato scuole in cui spesso era l’unica bambina africana. Se alcuni compagni di classe mostravano curiosità o riserbo di fronte alla sua diversità, da parte degli adulti ha sperimentato soprattutto discriminazioni e sguardi carichi di pregiudizi. Le battute sui capelli crespi o sul colore della pelle dopo una nuotata erano frequenti. Osservazioni ripetute, quali «X, tu non hai certo bisogno di abbronzarti…», tradivano un rifiuto subdolo della sua identità e singolarità. Tali esperienze, sebbene personali, sono tutt’altro che isolate. Esse evidenziano quanto il razzismo e la discriminazione si insinuino nella quotidianità, spesso in modo infido sin dall’infanzia, con una presenza continua e concreta.
Queste sfide richiedono una presa di coscienza collettiva e l’adozione di politiche che lottino contro le ingiustizie, affinché ogni individuo possa vivere senza il timore di essere giudicato o respinto a causa delle proprie origini. È in questo senso che va interpretato il «Piano d’azione dell’Ue contro il razzismo 2020-2025»[6]. Esso ha mostrato che l’origine etnica è il principale motivo di discriminazione nell’accesso al lavoro, alla casa, all’istruzione, ai beni e ai servizi. Il Piano prevede diversi strumenti operativi, tra cui un’applicazione più efficace del diritto europeo, una maggiore diversità nel personale dell’Unione e un rafforzamento dell’azione a livello nazionale negli Stati membri. In tale contesto, le comunità della diaspora svolgono un ruolo morale nella lotta al razzismo e alla discriminazione, avviando iniziative per sensibilizzare, denunciare le ingiustizie e fare pressione sui governi europei affinché adottino politiche più inclusive.
In modo analogo, politiche pubbliche, come la legge contro il razzismo e la discriminazione nel Regno Unito (Equality Act 2010), cercano di tutelare i diritti delle minoranze[7]. Ma la loro efficacia dipende spesso dall’impegno civico e dalla pressione esercitata da associazioni e attivisti. Le comunità della diaspora sono in prima linea in questa mobilitazione, attraverso campagne sui social media, manifestazioni e con la creazione di organizzazioni che rivendicano una giustizia più equa.
Contributi delle comunità diasporiche africane
Le comunità della diaspora africana offrono il proprio contributo in diversi ambiti, sia nei Paesi ospitanti sia in quelli di origine. Esercitano un’influenza fondamentale nei Paesi in cui risiedono, incidendo profondamente in settori quali l’economia, la cultura, la politica, l’innovazione sociale e tecnologica[8].
Per quanto riguarda l’economia e l’imprenditoria, i membri della diaspora stanno creando imprese, investendo capitali in settori strategici e contribuendo in modo significativo alla crescita economica dei Paesi di accoglienza. Numerosi imprenditori africani hanno avviato con successo aziende nei settori della moda, della tecnologia e della finanza. Per quanto riguarda i trasferimenti di fondi, le comunità della diaspora inviano ogni anno somme ingenti nei Paesi di origine. Secondo un rapporto pubblicato nel dicembre 2023, i trasferimenti di denaro verso l’Africa subsahariana hanno toccato i 54 miliardi di dollari, con un aumento considerevole dei flussi destinati al Mozambico (+48,5%), al Rwanda (+16,8%) e all’Etiopia (+16%)[9]. Nel 2024 si prevedeva che l’invio dei fondi da parte dei migranti verso i Paesi in via di sviluppo avrebbe raggiunto i 685 miliardi di dollari, superando così il totale degli investimenti diretti esteri (Ide) e dell’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps)[10].
Le comunità diasporiche fanno investimenti anche nei Paesi in cui risiedono. Nel campo dell’innovazione tecnologica, ingegneri e sviluppatori africani svolgono un ruolo importante nella realizzazione delle nuove tecnologie, in particolare nei settori della fintech e dell’intelligenza artificiale.
Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA
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Va anche ricordato che queste comunità contribuiscono in modo significativo all’arricchimento della scena culturale globale, attraverso espressioni artistiche come la musica, la letteratura, il cinema e le arti visive. Esse occupano pertanto un posto centrale nel panorama culturale delle nazioni ospitanti, contribuendo fortemente ad arricchire il patrimonio nazionale e mettendo in discussione rappresentazioni consolidate della cultura e dell’identità. Attraverso la letteratura, il cinema e la musica, propongono una visione innovativa delle società in cui vivono, dando voce all’esperienza della migrazione e dell’appartenenza diasporica. Questa produzione culturale agisce come veicolo di comunicazione interculturale, favorendo una comprensione approfondita e una ridefinizione della convivenza in un contesto multiculturale[11].
Cantanti quali Gims, Burna Boy e Aya Nakamura contribuiscono alla diffusione su scala globale delle musiche africane. Registi e attori africani partecipano a produzioni cinematografiche internazionali, proponendo narrazioni africane. Scrittrici come Chimamanda Ngozi Adichie[12] o Léonora Miano[13] esplorano questioni relative all’identità e all’esperienza della diaspora.
Le comunità diasporiche esercitano un influsso rilevante sulle politiche pubbliche: Ngozi Okonjo-Iweala, nota economista nigeriana, attuale direttrice generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), ha influito sulle politiche economiche globali; Mamadou Diouf, senegalese, storico e professore alla Columbia University, ha contribuito al dibattito sulle politiche africane e le relazioni internazionali; Tidjane Thiam, originario della Costa d’Avorio ed ex amministratore delegato di Crédit Suisse, ha esercitato un influsso sulle politiche economiche e finanziarie europee; Leymah Gbowee, di origine liberiana, attivista per la pace e la giustizia sociale, ha avuto un ruolo importante nei processi di riconciliazione e sviluppo; Mo Ibrahim, imprenditore e filantropo di origine sudanese, ha creato la Mo Ibrahim Foundation per promuovere il buongoverno in Africa.
Le comunità della diaspora partecipano attivamente a iniziative sociali, comprese quelle in ambito politico e di impegno civico. In questo contesto, si fanno promotrici di politiche inclusive e del riconoscimento dei diritti degli immigrati. Creano associazioni volte a promuovere l’integrazione e la solidarietà intercomunitaria[14]. Alcuni membri delle comunità ricoprono cariche politiche e hanno un impatto sui processi decisionali a livello governativo. Inoltre, intellettuali e accademici africani danno un contributo rilevante alla ricerca e all’istruzione nei Paesi in cui risiedono. Tengono corsi presso università prestigiose e contribuiscono al progresso scientifico, promuovendo al contempo collaborazioni fra istituti africani e internazionali. Offrono sostegno ai giovani talenti africani attraverso programmi educativi e l’erogazione di borse di studio[15].
Per quanto riguarda l’integrazione culturale nei Paesi di accoglienza, è importante sottolineare che le comunità adottano un approccio ibrido: assimilano le tradizioni del Paese ospitante, pur continuando a preservare il proprio patrimonio culturale. Questa dinamica genera un’identità diasporica singolare, caratterizzata dalla coesistenza di influssi africani e locali. Nonostante il processo di integrazione, i membri della diaspora conservano le proprie tradizioni attraverso elementi come la lingua, la cucina, le pratiche religiose e le celebrazioni culturali. Creano spazi comunitari che incoraggiano l’acquisizione e la trasmissione del patrimonio attuale alle generazioni future. È essenziale preservare la cultura per mantenere un legame con le radici africane, pur adattandosi alle specificità del Paese di accoglienza[16].
Va poi affrontata una questione fondamentale che suscita grande interesse tra gli africani della diaspora: il ritorno nel Paese d’origine. Come sottolinea il ricercatore Moussa Hissein Moussa, il rientro in patria è una decisione complessa, dettata da ragioni sia intrinseche che estrinseche. Le ragioni intrinseche sono legate alla ricerca di opportunità a livello economico e professionale. Il miglioramento delle condizioni lavorative e la valorizzazione delle competenze spingono alcuni individui a inserirsi nel mercato del lavoro per realizzarsi e contribuire allo sviluppo economico. Anche un ambiente favorevole all’imprenditorialità e all’innovazione può avere un ruolo determinante in questo senso.
Le ragioni estrinseche sono associate a un forte sentimento di patriottismo e al desiderio di partecipare al progresso, malgrado gli ostacoli economici e politici.
Alcuni membri delle comunità diasporiche decidono di tornare nel proprio Paese d’origine per convinzione, motivati da una solida coscienza patriottica che li spinge a impegnarsi in progetti volti a migliorare la società e l’economia locali. Questa decisione è fortemente condizionata dal contesto economico e dalla stabilità politica del Paese di origine. Un contesto sicuro e ricco di opportunità di crescita può favorire il ritorno degli emigrati in patria, mentre un’instabilità prolungata può ostacolarlo.
In definitiva, la diaspora africana occupa un posto fondamentale nel processo di sviluppo del Continente. Quando è opportunamente sostenuto, il ritorno in patria dei migranti può rappresentare un impulso decisivo per la crescita economica e il cambiamento sociale dei loro Paesi[17].
Conclusione
Le comunità della diaspora africana, complesse e diversificate, svolgono un ruolo centrale nelle società ospitanti e nei Paesi di origine. La loro diffusione a livello mondiale favorisce lo scambio culturale e identitario, sebbene esse si trovino ad affrontare sfide importanti come il razzismo e l’esclusione sociale. Nonostante ciò, tali comunità restano una forza propulsiva in svariati ambiti, dalle arti alle scienze. L’attenzione alle proprie radici si traduce in azioni a livello culturale e associativo che rafforzano il legame con l’Africa. Inoltre, le comunità contribuiscono alla promozione del Continente sulla scena internazionale. Il loro futuro dipende dal riconoscimento del loro impatto e dal miglioramento delle condizioni di integrazione che ne permettano il pieno sviluppo.
In ogni caso, le comunità della diaspora non si fermano di fronte agli ostacoli che incontrano, ma costituiscono un vero e proprio catalizzatore di sviluppo in diversi ambiti, spaziando dalle arti alla letteratura, fino al mondo degli affari e alle scienze. Grazie al loro impegno e alla connessione profonda con le loro radici, intrattengono rapporti concreti con il Continente di origine, partecipando a eventi culturali, dedicandosi alla vita associativa e sostenendo progetti di sviluppo. Allo stesso tempo, svolgono una funzione essenziale nella promozione del ruolo dell’Africa e nella creazione di ponti tra i diversi Paesi.
Il futuro delle comunità diasporiche dipende dal riconoscimento del loro contributo e dalla creazione di condizioni più inclusive, che ne favoriscano il pieno sviluppo sia nei Paesi di accoglienza sia nelle loro interazioni con l’Africa. Più che semplici comunità disperse, esse rappresentano un’entità collettiva che, malgrado gli ostacoli che incontra, continua a generare ricchezza, innovazione e speranza. Le comunità della diaspora africana non si definiscono solo a partire dalla dispersione geografica, ma anche dal forte attaccamento alla propria identità, al proprio passato e al proprio futuro.
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[1] È l’epoca dei regimi militari e della nascita delle dittature in Africa: nello Zaire, nell’Impero Centrafricano, in Uganda, nella Guinea Equatoriale ecc.
[2] Cfr Y. Assogba, «Diaspora, mondialisation et développement de l’Afrique», in Nouvelles pratiques sociales 15 (2002/1) 98-110 (erudit.org/fr/revues/nps/2002-…).
[3] Cfr V. Fourreau, «Les Européens d’origine africaine toujours très discriminés», 26 ottobre 2023, in fr.statista.com/infographie/31…
[4] Cfr «Enquête sur l’accès aux droits – volume 1 – Relations police/population: le cas des contrôles d’identité», 20 gennaio 2017, in tinyurl.com/j4b4n36x
[5] Cfr «Enquête sur l’accès aux droits – volume 5 – Les discriminations dans l’accès au logement», 14 dicembre 2017, in tinyurl.com/yy95wvmr
[6] Cfr Commissione Europea, «EU Anti-racism Action Plan 2020-2025», in tinyurl.com/yw5umyre
[7] Cfr «Equality Act 2010», in legislation.gov.uk/ukpga/2010/…
[8] Cfr I. Amadou Dia, «Mobilisation et engagement de la diaspora au service du développement du pays d’origine: contraintes et opportunités et implications en termes de politiques», in acsrm-au.org/wp-content/upload…
[9] Cfr Groupe de la Banque Mondiale, «La croissance des envois de fonds des migrants se poursuit mais ralentit en 2023», 18 dicembre 2023, in tinyurl.com/4syh253y
[10] Cfr D. Ratha – S. Plaza – E. Ju Kim, «En 2024, les envois de fonds des migrants vers les pays en développement devraient atteindre 685 milliards de dollars et dépasser le montant cumulé des IDE et de l’APD», 18 dicembre 2024, in blogs.worldbank.org/fr/voices/…
[11] Cfr «AXE III: Enjeux et représentations culturelles», in diaspafrique.hypotheses.org/ax…
[12] Cfr Radiofrance, «L’écrivaine Chimamanda Ngozi Adichie: “Ce qui m’intéresse c’est la vie des femmes, pas la théorie féministe”», 27 marzo 2025, in tinyurl.com/2mxsuf7e
[13] Cfr A. Bal Ba, «Léonora MIANO, écrivaine quête de guérison», 12 gennaio 2025, in tinyurl.com/35hxp993
[14] Un esempio di queste associazioni è Black Cultural Archives (Bca). Cfr blackculturalarchives.org/feed…
[15] Cfr «Les 10 plus grandes diasporas africaines dans le monde», in oeildafrique.com/enquetes/les-…
[16] Cfr D. Gakunzi, «La diaspora africaine en Europe», 30 novembre 2017, in parisglobalforum.org/2017/11/3…
[17] Cfr M. Hissein Moussa, «La Diaspora Africaine et la Question de Retour: Motivations, Défis, Piège, Enjeux», in tinyurl.com/yk3xrw78
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Siria e Israele. Bombe su Damasco
Dopo gli attacchi in Libano e in Iran, a metà luglio l’esercito israeliano ha lanciato un blitz inaudito nel cuore della capitale siriana, Damasco. Sono stati colpiti il ministero della Difesa, il comando dell’esercito ed è stato sfiorato il palazzo presidenziale. I bombardamenti hanno provocato tre morti e 34 feriti[1]. Da quando al-Sharaa è presidente ad interim della Repubblica, è la prima volta che un evento simile accade. Attacchi condotti da Israele nella più completa impunità, dato che l’esercito siriano è al momento privo di difese antiaeree, distrutte, insieme ai missili e ad altro materiale bellico, dai numerosi raid israeliani, subito dopo la caduta di Assad, con l’intento di indebolire i nuovi padroni del Paese, considerati pericolosi islamisti radicali. Ciò nonostante alcuni mesi fa il presidente siriano, ex jihadista e aderente a formazioni dell’Isis, ha incontrato personalmente in Arabia Saudita il presidente Donald Trump, che gli ha mostrato amicizia e gli ha offerto protezione politica, eliminando le sanzioni statunitensi a carico della Siria e invitando al-Sharaa e Benjamin Netanyahu ad avviare negoziati di pace[2].
Gli attacchi sono stati lanciati in seguito allo scoppio di una violenza settaria nella provincia di Suwayda, a maggioranza drusa, nel sud-ovest della Siria[3]. Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, aveva preannunciato su X questa operazione: «Gli avvertimenti a Damasco sono finiti: ora arrivano gli attacchi più duri. L’Idf continuerà a operare energicamente a Suwayda per annientare le forze che hanno assalito i drusi, fino al loro completo ritiro»[4]. La regione di Suwayda è da lungo tempo – dall’XI secolo – un feudo druso, abitato per l’80% da questa etnia, che la amministra attraverso i suoi capi religiosi, secondo regole e usi propri.
I drusi, come anche gli alauiti, sono una confessione religiosa nata nell’XI secolo dal tronco dello sciismo; per questo possono essere considerati una ramificazione della si’a classica, sebbene dagli «ortodossi» duodecimani siano stati definiti ghulat, ossia «coloro che esagerano», perché non si limitavano alla venerazione di Alì e della sua famiglia, ma lo consideravano il loro primo imam, superiore a Maometto stesso, in quanto manifestazione terrena della divinità[5]. Il nome «druso» pare derivi da Muhammad ibn Ismail Nashkin al-Darazi, uno dei suoi primi predicatori. Il movimento si sviluppò durante il regno del califfato fatimita di al-Hakim bi-Amr Allah. I suoi seguaci iniziarono allora a considerare il califfo come una figura divina. Ma dopo la sua morte furono ferocemente perseguitati. Queste discriminazioni li spinsero verso le zone montuose della Siria e del Libano, fino al monte Hermon, dove ancora vivono[6]. I viaggiatori descrivono le comunità druse come un popolo che vive isolato nelle montagne, coraggioso e ben armato. Oggi i drusi sono circa un milione; sono presenti soprattutto in Siria, in Libano, in Iran e in altri Paesi del Medio Oriente e riconoscono l’autorità religiosa e anche politica degli ayatollah.
Israele in soccorso dei drusi
Ritornando ai fatti recenti, dopo un incidente avvenuto l’11 luglio 2025 (rapimento di un commerciante druso) si sono scatenati feroci combattimenti tra beduini, milizie druse e forze governative siriane, nei quali sono morte centinaia di persone. Israele afferma che lo scopo degli attacchi delle sue forze armate sia a Damasco sia nella regione di Suwayda era quello di porre fine all’aggressione dei soldati inviati dal governo siriano contro i drusi, nonché quello di rafforzare e delimitare la zona demilitarizzata che era stata dichiarata intorno a Suwayda dopo la caduta di Assad e che Israele considerava una garanzia a vantaggio dei propri confini[7]. Insomma, oltre che per venire in soccorso dei drusi, la ragione dei raid contro Damasco era di respingere a nord il nuovo esercito siriano. Il sud della Siria, secondo Israele, deve rimanere smilitarizzato. Per Tel Aviv, questa è una linea rossa che non può essere oltrepassata, in quanto rappresenta una zona di sicurezza tra le alture del Golan e la Siria.
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Dopo i primi scontri tra beduini e drusi, al-Sharaa ha prontamente inviato delle truppe per pacificare la provincia in rivolta[8]. In realtà, con il pretesto di porre fine alle violenze egli voleva stabilire il controllo governativo sulla provincia sud-occidentale. Ciò sta a significare che il governo centrale non ha il controllo di una parte della Siria, in particolare delle regioni in cui vivono le minoranze etniche, gli alauiti, i curdi, i drusi e altri, i quali non accettano la politica di integrazione nazionale propagandata fin dall’inizio da al-Sharaa e preferiscono una gestione pluralistica e federale dei loro territori.
Questo era piuttosto evidente quando, tra marzo e aprile, sono scoppiati, lungo la fascia costiera di Latakia e Tartus, aspri conflitti tra alauiti (accusati di aver sostenuto il regime di Assad) e sunniti fondamentalisti (sostenuti, a quanto pare, da alcuni membri dell’esercito nazionale), che provocarono la morte di migliaia di sciiti. In quella occasione nessuno è intervenuto in aiuto degli alauiti[9]. Da parte del governo centrale, che ha condannato la strage, è stata avviata un’inchiesta, che però finora non ha prodotto nulla di concreto. Questo fatto ha dimostrato che la politica di integrazione nazionale propagandata da al-Sharaa non aveva una reale consistenza e che la Siria rimaneva sostanzialmente un Paese diviso e settario[10]. Pertanto, mentre il Presidente punta sul rafforzamento del potere centrale, le minoranze etniche sono per un sistema federale, che difenda i propri interessi settari.
Mentre al-Sharaa inviava truppe a Suwayda, le comunità druse nel nord di Israele chiedevano al loro governo di intervenire militarmente in soccorso dei loro «fratelli» siriani. Esse hanno bloccato le strade del nord, sfondato le barriere di confine con la Siria e ottenuto un incontro con Netanyahu, che ha accettato di intervenire nel conflitto[11]. Il desiderio di al-Sharaa di fare della Siria una roccaforte sunnita si scontrava con l’egemonia di Israele e con il suo ruolo autodichiarato di protettore delle minoranze regionali, in particolare dei drusi. Va infatti ricordato che il rapporto tra israeliani e drusi è molto forte.
Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA
Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.
In realtà, la condizione dei drusi nello Stato di Israele è particolare. Nella guerra tra quest’ultimo e i Paesi arabi nel 1948, essi mantennero una posizione neutrale. Nel 1956 i capi della comunità siglarono con Ben Gurion un «patto di sangue», e si decise l’ammissione dei drusi nei ranghi dell’esercito israeliano. Ciò ha portato al pieno riconoscimento della loro specificità etnico-religiosa da parte del governo nazionale, per cui oggi molti drusi occupano posti importanti nell’esercito, nell’amministrazione e nella società israeliana[12].
Siria e Israele
Prima di questo incidente e del blitz di Damasco, la riconciliazione tra Israele e Siria sembrava imminente. Trump auspicava che la Siria aderisse agli «Accordi di Abramo», una serie di trattati di pace tra Israele e un gruppo di Stati arabi. Una bozza di patto di non belligeranza avrebbe messo da parte le rivendicazioni siriane sulle alture del Golan, conquistate da Israele nel 1967, sebbene quest’ultimo continuasse a bombardare la Siria, e in particolare i suoi depositi di armi, come se i due Paesi fossero nemici. Un titolo significativo del New York Times riassumeva bene tale situazione: «Strette di mano, oppure bombardamenti: cosa vuole Israele in Siria?».
È lecito pensare che gli israeliani utilizzino i drusi siriani e le loro richieste come strumento di deterrenza. Il politologo Itamar Rabinovich a tale riguardo afferma: «La politica militare israeliana del post 7 ottobre 2023 è uno strano misto di paranoia e senso di potenza dopo i successi in Libano e Iran. E ciò induce a privilegiare la forza sulla diplomazia»[13]. Questo è vero soprattutto per Gaza, dove Israele non intende chiudere una guerra che è divenuta una vera e propria carneficina e che sembra essere senza via di uscita.
Ora i due Paesi – Israele e Siria – appaiono schierati uno contro l’altro e, sebbene pochi giorni dopo sia stato concordato un cessate il fuoco tra le parti in lotta, Israele ha dichiarato di essere pronto a bombardare di nuovo la Siria, qualora le violenze contro i drusi dovessero continuare.
Dopo cinque giorni di scontri feroci, che hanno provocato oltre 500 morti tra beduini, drusi e milizie governative, le truppe inviate da Damasco, dopo la stipulazione del cessate il fuoco (su mediazione americana), si sono ritirate dalla provincia di Suwayda[14]. Questo è avvenuto dopo che gli israeliani avevano colpito i palazzi del potere a Damasco. In un discorso televisivo, il presidente al-Sharaa ha accusato Israele di voler smantellare l’unità del Paese seminando caos e divisione. Ha precisato che la scelta di ritirare le truppe dal sud è stata fatta «non per paura della guerra», ma in nome «degli interessi del popolo siriano»[15]. Inoltre, ha promesso che avrebbe protetto gli interessi dei cittadini drusi e che avrebbe chiamato a rispondere davanti alla giustizia coloro che avevano commesso violenze e abusi[16]. In realtà, questo lo aveva assicurato anche dopo il massacro degli alauiti a marzo, ma finora non si è realizzato.
Per al-Sharaa, che mirava a prendere il controllo di Suwayda e a ricondurre la provincia sotto l’autorità del governo centrale, è la prima vera sconfitta da quando ha assunto il potere. Al contrario, Netanyahu, nonostante la condanna dei Paesi arabi della regione, ha ottenuto, con poco sforzo, un successo considerevole, perché ha imposto con la forza la smilitarizzazione di una fascia di territorio strategicamente importante, vicino al confine israeliano, che si estende dalle alture del Golan fino ai monti a est di Suwayda. «La Siria – ha dichiarato Netanyahu in un video – aveva inviato il suo esercito a sud di Damasco in un’area che avrebbe dovuto rimanere smilitarizzata, e ha iniziato a massacrare i drusi. Non lo potevamo accettare»[17]. La sicurezza di Suwayda ora è affidata allo sceicco Hikmat al-Hijri, il più filoisraeliano fra i tre capi religiosi della provincia, il quale, a differenza degli altri che si mostrano più transigenti nei confronti del governo centrale, rifiuta ogni dialogo con Damasco.
Non va dimenticato che a fianco di al-Sharaa si è schierata buona parte del mondo islamico. Persino l’Iran, pur di andare contro Israele, ha parteggiato per Damasco. L’appoggio più consistente alla Siria viene dalla Turchia, che è il suo maggiore sponsor. Gli Stati Uniti, che hanno mediato per il cessate il fuoco, pur non condannando apertamente l’intervento israeliano, di fatto si sono allineati con la Siria, che ritengono centrale per ridisegnare un nuovo Medio Oriente secondo i loro interessi[18].
Nonostante il cessate il fuoco la regione è ancora attraversata da lotte intestine tra drusi e beduini; episodi di vendetta sono frequenti e mettono a repentaglio la fragile tregua raggiunta. Migliaia di persone, dopo gli episodi di violenza di metà luglio, hanno abbandonato le loro case e si sono spostate in luoghi più sicuri. La comunità internazionale, in particolare il mondo arabo, si adopera affinché la violenza settaria in Siria non faccia implodere la pacificazione nazionale voluta dal presidente ad interim al-Sharaa.
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[1] Cfr L. Cremonesi, «Israele colpisce anche Damasco. L’America spinge per la tregua», in Corriere della Sera, 17 luglio 2025.
[2] Cfr ivi.
[3] Cfr «Why did Israel strike Damascus?», in The Economist, 16 luglio 2025.
[4] F. Tonacci, «Israele, raid su Damasco per difendere i drusi: “Il regime è avvertito”», in la Repubblica, 17 luglio 2025.
[5] Cfr G. Sale, «I drusi. La dottrina religiosa e la storia recente», in Civ. Catt. 2024 III 503-514.
[6] Cfr L. Cremonesi, «I drusi, quella minoranza araba indipendente dall’Islam tra persecuzioni ed esclusione», in Corriere della Sera,18 luglio 2025.
[7] Cfr «Why did Israel strike Damascus?», cit.
[8] Sul fronte interno, i sostenitori di al-Sharaa hanno enfatizzato i «massacri dei beduini» nella provincia di Suwayda. Gli imam di quasi tutte le moschee hanno chiamato alla jihad e invitato i giovani a unirsi alle milizie sunnite per difendere i beduini. A tale richiesta hanno risposto 41 tribù arabe, che contano di arruolare fino a 50.000 combattenti. Ciò sta a significare che, nonostante il cessate il fuoco, la contrapposizione tra le comunità non cesserà e potrebbe esplodere in ogni momento. Cfr G. Stabile, «Siria, jihad e drusi divisi. Così al Sharaa conta di vincere», in La Stampa,19 luglio 2025.
[9] Cfr L. Cremonesi, «Perché la Siria attacca la minoranza? Quale strategia segue Netanyahu?», in Corriere della Sera, 17 luglio 2025.
[10] Cfr S. Khouri, «Le violenze ad Al Suwayda hanno radici profonde», in Internazionale,25 luglio 2025, 16.
[11] Cfr «Why did Israel strike Damascus?», cit.
[12] Cfr G. Sale, «I drusi. La dottrina religiosa e la storia recente», in Civ. Catt. 2024 III 514.
[13] L. Cremonesi, «Al Sharaa: Netanyahu ci destabilizza. Tregua violata, altri morti in Siria», in Corriere della Sera,18 luglio 2025.
[14] Cfr G. Colarusso, «Siria, al Sharaa via dalla regione drusa», in la Repubblica, 18 luglio 2025.
[15] Ivi.
[16] Cfr S. Khouri, «Le violenze ad Al Suwayda hanno radici profonde», cit.
[17] G. Colarusso, «Siria, al Sharaa via dalla regione drusa», cit.
[18] Cfr G. Stabile, «Siria, jihad e drusi divisi. Così al Sharaa conta di vincere», cit.
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Un’icona ecclesiale: Giovanni 21
Il Vangelo di Giovanni si conclude con una scena straordinaria e memorabile: l’apparizione di Cristo risorto ai discepoli sulla riva del lago di Tiberiade. Questa scena molto visiva è immersa in una luce pasquale. La pericope di Giovanni 21,1-14 è, per il Vangelo di Giovanni, ciò che il racconto dei pellegrini di Emmaus è per il Vangelo di Luca, ovvero una composizione in cui l’autore mette in atto tutto il suo talento letterario e sviluppa tutta la sua teologia della Chiesa.
È una scena, piena di familiarità e quotidianità, che parla a tutti. Il suo significato generale è chiaro, eppure sono molti i dettagli che suscitano curiosità. Addirittura i bambini sono molto bravi a individuare le varie incongruenze che costellano il brano. Lungi dall’essere elementi aneddotici più o meno stravaganti, ci sembra che tali «dettagli» non lo siano per davvero e che permettano all’autore di rivelare aspetti importanti del suo progetto teologico.
Anche se numerosi indizi giocano a favore dell’ipotesi che si tratti effettivamente di un epilogo aggiunto in seguito del Vangelo[1], è altrettanto chiaro che sono stati costruiti molti legami con tutto il resto del Vangelo[2], in particolare con il capitolo 6, che descrive la moltiplicazione dei pani e dei pesci sulla riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade (cfr Gv 6,1.16.17.18.19.25).
In questo articolo, dopo aver presentato in maniera succinta il senso ovvio del brano, proponiamo di soffermarci su ognuno di tali enigmi per offrirne una possibile lettura.
Una scena dal messaggio semplice
Quello che in effetti colpisce il lettore comune è l’assoluta chiarezza del messaggio principale. Il gruppo dei discepoli è riunito sotto l’autorità di Pietro. Impegnati nella loro missione di pescatori, essi si scontrano con il fallimento, perché, senza il loro maestro, non possono fare nulla. Gesù risorto, che è sempre misteriosamente irriconoscibile eppure ben presente, si fa riconoscere e, dietro sue istruzioni, la pesca diventa miracolosa. Questa scena di abbondanza situata in Galilea ci ricorda gli altri due «segni» – termine che Giovanni preferisce a quello di «miracolo», usato nei sinottici – in Galilea: il segno di Cana e quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci, che erano anch’essi miracoli di sovrabbondanza.
L’autore precisa – curioso a dirsi (perché indicarci in questo episodio il villaggio galileo di uno solo dei sette discepoli?) – che Natanaele, menzionato in precedenza una volta sola, in Gv 1,45, è originario di Cana. Come se egli ci dicesse: «Lettore, ricordati di quel che è successo a Cana e indovina il finale di questo racconto!». D’altra parte, quando vediamo l’abbondanza di pesci e Gesù che dà ai discepoli il pane e i pesci (cfr 21,13), come non pensare al capitolo 6: «Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano» (Gv 6,11)? Come il Gesù terrestre si prendeva cura dei suoi discepoli – e delle folle –, così fa anche il Gesù risorto. C’è una continuità profonda: è davvero lo stesso uomo. E quella distribuzione passa ormai attraverso la Chiesa riunita sotto l’autorità del pastore supremo, che è Pietro, il quale è il solo a trarre a terra la rete.
I commentatori cattolici non sono gli unici a leggere in Gv 21 un’affermazione del ruolo centrale di Pietro. Come scrive il biblista protestante Jean Zumstein, «nessuno dubita, infatti, che l’immagine di Pietro che trascina (εἵλκυσεν) a riva la rete piena di pesci (v. 11) abbia un senso simbolico» e che «la sua preminenza pastorale […] trovi qui la sua espressione simbolica»[3]. È altrettanto evidente che la dialettica tra Pietro e il «discepolo amato» si conclude con una comunione forte. Per la prima volta, il discepolo amato trasmette le sue conoscenze a un altro dei discepoli[4], e proprio al primo di loro, Pietro. Mentre nella corsa al sepolcro il discepolo amato si era affrettato arrivando per primo, qui si limita a comunicare il suo discernimento e lascia che sia Pietro ad arrivare per primo da Gesù. Le comunità giovannee non vogliono conservare per sé gelosamente la loro luce o la loro conoscenza del Risorto. Più in generale, questo ci fa capire che la Chiesa è un luogo in cui i discepoli si rivelano a vicenda la presenza del Signore vivente. È una magnifica definizione della Chiesa, senza gelosie né egoismi, senza accaparramenti né esclusivismi. Non c’è più la competizione della corsa: «Nel ciclo pasquale è il discepolo amato (e non Pietro) che aveva vinto la corsa alla tomba, segno del suo maggior zelo»[5].
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C’è un altro indizio semantico luminoso. Quando i discepoli giungono a riva, vedono un fuoco, più precisamente un braciere, indicato con il termine alquanto raro ἀνθρακιάν, che in precedenza era stato usato una sola volta, in 18,18, quando Pietro aveva rinnegato Gesù. Ancor prima di sentire la triplice missione riassegnata a Pietro (cfr Gv 21,15.16.17), il lettore intuisce che egli è riabilitato nella sua missione, nonostante il suo rinnegamento (peraltro già annunciato da Gesù), e che la sua fede aveva conosciuto soltanto una «eclissi» (secondo la bella espressione di Luca, in Lc 22,32). Il significato primario del testo è chiaro ed è comprensibile per genitori e figli, adulti e bambini. Ma perché ci sono così tanti particolari sorprendenti?
Passiamo ora agli enigmi o dettagli strani che costellano il brano. Sono numerosi, e i bambini sono bravissimi a scovarli.
Perché i discepoli si dedicano al loro antico mestiere?
È la prima domanda che fanno i bambini: perché gli apostoli non stanno predicando? Perché sembrano essere tornati al loro antico mestiere, come se non fosse accaduto nulla, come se non ci fosse stata la risurrezione di Gesù? Questo è tanto più sorprendente, se si considera che il testo si premura di precisare che si tratta della «terza» apparizione del Risorto. Essi sono dunque «ufficialmente informati», per usare un’espressione giuridica. Inoltre, hanno ricevuto lo Spirito Santo (cfr Gv 20,22-23), che dovrebbe dare loro autorità e fiducia per superare dubbi e paure. «I discepoli, secondo il cap. 21, adottano una condotta per lo meno sorprendente: se ne tornano in Galilea per riprendere il loro mestiere di pescatori, come se non conoscessero la buona novella della risurrezione»[6].
A nostro avviso, il testo lascia intendere che in realtà essi sono già impegnati nel lavoro apostolico, che la pesca è qui al tempo stesso reale e metaforica o parabolica. Perché questa apparente discrepanza? Può accadere che, anche nella vita missionaria, ci si scontri con il fallimento e con la tentazione dello scoraggiamento. Perfino se si è apostoli! Che si tratti davvero di una missione, lo si intuisce dal fatto che è Pietro a proporre di andare a pescare. La notte può esistere, nella sua duplice connotazione di confronto con il male e di desolazione permanente, anche per pescatori esperti. Questa messa in scena ci parla proprio di missione, dei suoi fallimenti e dei suoi successi. È solo Gesù che può consentire agli apostoli di far fruttare la loro fatica.
Perché i discepoli sono solo sette, di cui due anonimi?
Come sa ogni lettore della Bibbia, il numero «sette» esprime una totalità, ma quello stesso lettore, non necessariamente ingenuo, si stupirà nel non vedere ora qui i «Dodici» – conosciuti grazie a Giovanni, perché li menziona in Gv 6,67 – oppure, come fa Matteo in Galilea, gli «Undici» (cfr Mt 28,16). Senza dubbio Luca aveva già introdotto un duplice gruppo tra la missione dei Dodici, da un lato (cfr Lc 9), e quella dei 72, dall’altro (cfr Lc 10), che rappresentavano l’universalità delle nazioni secondo una tradizione che risale alla Genesi. Ma, come in Luca, ciò permette all’autore del quarto Vangelo di lasciare intendere che ci sono altri apostoli oltre ai Dodici.
Giovanni nomina per primo Simon Pietro, e questo fatto annuncia chiaramente il ruolo primario che presto gli verrà solennemente conferito. Introduce quindi Tommaso, già noto da Gv 11,16, con lo stesso soprannome «Didimo» (gemello), uno dei Dodici, ma invece di proseguire con i nomi attesi, menziona Natanaele. Quest’ultimo era stato introdotto in Gv 1,45, perché Filippo lo aveva condotto da Gesù, ma non faceva parte dei Dodici. Natanaele, l’outsider, si rivela essere stato sempre fedele a Cristo, fin dalla Galilea. È lì perché il lettore ricordi il segno dell’abbondanza a Cana.
Vengono poi nominati i «figli di Zebedeo». Li conosciamo bene, noi cristiani, ma è la prima volta che vengono indicati così nel Vangelo di Giovanni. Tra l’altro, anche il fatto che gli apostoli erano pescatori viene rivelato in questo passo, perché l’evangelista non lo aveva mai detto prima. È un argomento forte per sostenere che il Vangelo di Giovanni presuppone la conoscenza dei Vangeli che lo hanno preceduto. Questi sette discepoli simboleggiano tutti gli apostoli cristiani, quale che sia la loro origine, galilaica o giudaica[7].
Infine abbiamo due discepoli anonimi, uno dei quali sembra essere proprio il «discepolo amato», anonimamente nascosto all’interno del gruppo. Anche qui l’evangelista, dopo aver introdotto Natanaele nel gruppo, lascia intendere che questo discepolo non è uno dei Dodici. Ce lo ha presentato come una persona conosciuta dal sommo sacerdote (cfr Gv 18,15), e quindi probabilmente originario di Gerusalemme, o perlomeno un abitante della Giudea (come altri eminenti discepoli dei primi tempi, quali Cleofa, Giuseppe d’Arimatea e Maria, madre di Giovanni Marco). Secondo l’opinione comune dei commentatori, questo discepolo è all’origine della tradizione giovannea. Probabilmente giovane al momento della passione di Gesù, egli ha vissuto molto a lungo, sopravvivendo di circa trent’anni agli apostoli Pietro, Paolo e Giacomo, il che spiega il riferimento, in Gv 21,22-23, alla voce secondo la quale non sarebbe morto prima del ritorno del Signore. Sono chiaramente i fedeli di questo apostolo ad aver messo per iscritto la versione finale del Vangelo di Giovanni.
Questi nomi non sono lì per caso. Come sempre nel Nuovo Testamento, essi sono legati a questioni di legittimità, che qui è fondamentale: la tradizione che sta dietro a Giovanni può rivendicare un legame con i Dodici? Forse no, ma il fondatore del gruppo ha lavorato a stretto contatto con Pietro. Motivo per cui Giovanni fa di tutti questi uomini dei pescatori (un mestiere molto improbabile per persone di Gerusalemme!). Ciò conferma l’ipotesi formulata in precedenza, secondo cui il testo sta parlando di missione e non vuole farci credere che tutti gli apostoli, galilei o giudei, fossero pescatori.
Perché Gesù li chiama «figlioli»?
Quello sconosciuto sulla riva si rivolge ai pescatori chiamandoli «figlioli» (παιδία). Questo non è né il suo modo abituale di parlare, né un modo comune di rivolgersi a pescatori sconosciuti per chiedere loro se hanno del pesce. Certo, ciò conferisce alla scena un’aria di familiarità bucolica piuttosto simpatica, mettendo ancor più in risalto la risposta secca e disillusa dei pescatori: «No!». In precedenza, nel Vangelo di Giovanni, Gesù li aveva già chiamati «figlioli» (Gv 13,33), sebbene con un’altra parola greca (τεκνία). Il richiamo è interessante, perché quel versetto parlava del poco tempo che restava della presenza di Gesù con i suoi discepoli: «Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete». Ebbene, Gesù ora è davvero tornato: egli c’è sempre, e ci sarà sempre, ci dice l’evangelista. Inoltre, quel versetto precedeva di poco l’annuncio del rinnegamento di Pietro (cfr Gv 13,38), e il capitolo 21 tratta espressamente del pieno ripristino del rapporto tra Simon Pietro e Gesù. Il termine «figlioli» è chiaramente affettuoso e familiare. Un grande studioso di Giovanni, Yves Simoens, lo commenta così: «Quando viene, risorto, [Gesù] si presenta come una madre!»[8]. Inoltre osserva che «lo stesso termine viene usato nella Prima lettera di Giovanni per i “bambini” della comunità, che […] in 2,18 indicano tutti i membri della comunità stessa»[9]. Anche altri esegeti hanno messo in risalto questo legame[10].
Lo spunto è affascinante, ma noi proponiamo un’altra interpretazione. Sappiamo quanto il Vangelo di Giovanni insista sull’unità essenziale tra il Padre e il Figlio. Esso contiene questa affermazione basilare: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Mettere queste parole in bocca a Gesù non è forse un modo, al tempo stesso discreto e potente, di sottolineare l’unità essenziale tra il Padre e il Figlio, al punto che il Figlio ora può parlare apertamente come il Padre? Questa è la prospettiva teologica fondamentale dell’intero Vangelo di Giovanni, alla quale qui si fa allusione. Il linguaggio teologico che caratterizzava i discorsi di Gesù in Giovanni scompare in Gv 21: Gesù parla il linguaggio semplice della quotidianità. Eppure è proprio il Figlio, unito dall’eternità al Padre, che parla. Come far percepire meglio questa realtà se non usando la parola «figlioli», dal momento che Gesù amava tanto pronunciare la parola «Abbà» mentre era fra i suoi discepoli? Se un lettore distratto pensasse che il Padre sia scomparso in questo capitolo, deve lasciar risuonare questa piccola parola per ritrovarlo. Come per la lettera rubata di Edgar Allan Poe, il Padre si nasconde nel Figlio, ma parla attraverso la sua bocca.
Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA
Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.
Perché bisogna gettare la rete dalla parte «destra» della barca?
Gesù chiede ai discepoli di gettare la rete dalla parte «destra» della barca. Perché questa precisazione? Se ci sono dei pesci, essi sono ovunque attorno alla barca; e poi… lui è forse un pescatore? Che ne può sapere? Diversi commentatori si limitano a osservare che «il fianco destro […] è quello positivo; cfr. Mc. 16,5; Lc. 1,11; Mt. 25,33»[11], la parte fortunata. Questo probabilmente è vero, ma a noi sembra un po’ riduttivo. A nostro avviso, la parte destra non può che rinviare alla crocifissione, quando un soldato trafigge il fianco di Gesù (cfr Gv 19,34). E quel fianco trafitto evoca a sua volta l’inizio di Ezechiele 47: «Mi condusse poi all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente. Quell’acqua scendeva sotto il lato destro [τοῦ δεξιοῦ] del tempio» (Ez 47,1). È dalla croce che proviene la sorprendente fecondità di Cristo. Tutti i commentatori sottolineano come, per Giovanni, l’ora della croce sia già il luogo della gloria di Cristo. Si potrebbe anche pensare che si tratti di un’allusione alla profezia di Zaccaria: «Guarderanno a me, colui che hanno trafitto» (Zc 12,10).
Noi propendiamo per Ezechiele, perché riteniamo che l’abbondanza di pesci e il numero 153 facciano altresì riferimento a quel capitolo chiaramente escatologico: è una rivelazione dei fiumi di grazia che sgorgano dal tempio. Gesù è il vero tempio da cui scaturisce la grazia sovrabbondante del Padre. Ma questo il lettore lo potrà capire solo dopo aver letto, in questo articolo, il paragrafo sul significato del numero 153.
Perché Simone si veste prima di gettarsi in acqua?
Ecco il dettaglio che diverte sempre i bambini e li fa ridere di gusto! In effetti, sembra davvero inusuale vestirsi prima di gettarsi in acqua. La simbologia della veste nel Nuovo Testamento – e nel giudaismo intertestamentario – è chiara: rappresenta la veste nuova del battezzato e di colui che può presentarsi davanti a Dio con un cuore retto. Come il giovane che tradisce Gesù fugge via nudo all’inizio della passione in Marco (cfr Mc 14,52), così il battezzato salvato, il vincitore, «sarà vestito di bianche vesti; non cancellerò il suo nome dal libro della vita» (Ap 3,5).
Tuttavia si può interpretare questo gesto in modo concreto. È quanto propone di fare un altro biblista: «[Pietro] si stringe il camiciotto intorno al corpo per non essere impedito nel nuoto»[12]. E aggiunge astutamente che «questo dettaglio narrativo prepara l’immagine che nel v. 18 gli corrisponde, quando Gesù annuncia a Pietro: “Un altro ti cingerà”: al gesto autonomo del discepolo corrisponderà più tardi una forzata passività»[13]. È poco probabile che Pietro fosse completamente nudo, sia pure solo per pescare con i suoi compagni. Ad ogni modo, è evidente che «il fatto di indossare una veste simboleggia il rispetto che porta al suo Signore»[14]. Ancora una volta, il genio dell’autore consiste nel permettere una lettura simbolica, facendo sì che il senso primario risulti perfettamente comprensibile. O Pietro si stringe la veste perché vuole nuotare più facilmente, oppure ne indossa una perché non si può mostrare nudo al cospetto del Signore (se si accetta l’ipotesi che egli fosse davvero nudo).
Ma questo fatto sta a significare anche il credente, che deve comparire vestito davanti al suo Signore, accompagnato dalle sue opere, come gli invitati al banchetto di nozze nella parabola di Matteo 22. Nella tradizione giovannea, l’Apocalisse sviluppa ampiamente questo tema: «Le [= alla sposa] fu data una veste di lino puro e splendente» (Ap 19,8). Se Pietro simboleggia, in un certo senso, tutta la Chiesa, e per estensione ogni credente, è naturale che sia accompagnato dalla sua veste. Nel momento in cui egli aveva tradito Gesù, in un certo senso aveva abbandonato la sua veste, come il giovane di Marco; quindi, il suo riconoscere Gesù e la decisione di andare verso di lui equivalgono a ritrovare la propria veste e la propria dignità. Siamo in una luce pasquale e, per ciò stesso, anche in una luce escatologica, quella in cui il credente riceve «la corona gloriosa, nonché la veste di onore nella luce eterna»[15].
Perché Giovanni ci dice che c’erano 153 pesci?
Questa è una domanda che fanno tutti. Il numero è troppo preciso per essere casuale. Cifra triangolare la cui base è 17, il numero 153 rappresenta perciò, secondo sant’Agostino, una doppia totalità: dieci più sette, in una forma ancora più perfetta[16]. Ma è tutto qui? Senza dubbio è sempre prudente affermare che «il numero 153 resta un enigma»[17]. Tuttavia, sulla scia di John Emerton, noi proponiamo una lettura che ci sembra più aderente al testo[18]. L’autore attira l’attenzione del lettore sui pesci, usando due termini per nominarli[19], e invita il lettore a indagare. I testi della Scrittura che parlano dell’abbondanza di pesci non sono molti, e il più rilevante, come abbiamo già visto, è il capitolo 47 di Ezechiele, che menziona un termine molto raro, la parola ebraica «pesce» al femminile (הַ ּ גָ ד ַ ה), per indicare l’abbondanza, e il cui valore numerico è proprio 17[20]. «Il pesce vi sarà abbondantissimo», leggiamo in Ez 47,9. Ma il parallelo non si ferma qui. La visione si conclude con dei pescatori muniti di reti che collegano le due rive del Mar Morto, dalla riva ebraica, En-Gàddi, a quella moabita e pagana, En-Eglàim: «Sulle sue rive vi saranno pescatori: da En-Gàddi a En-Eglàim vi sarà una distesa di reti. I pesci, secondo le loro specie, saranno abbondanti come i pesci del Mare Grande» (Ez 47,10). Ora, Gàddi ha valore numerico 17 e Eglàim 153. E qual è il mistero proclamato dai cristiani del I secolo, per esempio nella lettera agli Efesini, se non che, nella rete dell’unica Chiesa, vi è ormai l’unione tra ebrei e pagani? «Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola» (Ef 2,14). Sarebbe difficile trovare un modo più efficace per esprimere l’unità della Chiesa se non riferendosi a questo testo, e quindi a questo numero.
Inoltre, l’autore si preoccupa di segnalarci che si tratta di «grossi pesci» (Gv 21,11). Perché questa aggiunta apparentemente superflua? Se il numero dei pesci è così decisivo, perché specificarne la grandezza? Cosa può mai aggiungere? Segnalare la ricchezza e l’eccesso? Probabilmente l’autore vuole significare che non ci sono differenze tra gli esseri umani. Come Luca, nella parabola del seminatore (cfr Lc 8,8), intuendo il rischio di stabilire tre categorie di cristiani, aveva eliminato i tre rendimenti del seme (30, 60, 100), così Giovanni non vuole che ci si chieda se si appartiene ai pesci piccoli o a quelli grossi. Un battezzato vale un altro battezzato, e qualsiasi logica gnostica viene rifiutata da questo dettaglio apparentemente insignificante. Non esiste una graduatoria fra i membri della Chiesa, e ogni pesce è «grande» agli occhi di colui che li conta, ossia il Signore, e soltanto lui.
Perché Gesù ha chiesto del pesce, se ne aveva «già» sul fuoco?
Ecco una domanda che non diverte i bambini, ma anzi li lascia perplessi. Essi non capiscono il senso di questo curioso dettaglio, e perché Gesù abbia chiesto una cosa di cui già disponeva. Naturalmente, la presenza del pane richiama la scena di Giovanni in cui Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci: «Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano» (Gv 6,11). E se il riferimento all’Eucaristia è evidente, non è opportuno che Gesù stesso consumi qualcosa[21]. Il suo ruolo è quello di benedire e distribuire; di darsi. Questo dettaglio non è affatto secondario.
Inoltre, Giovanni sottolinea la sovranità di Gesù e il suo accesso a tutti i pesci. Non che trascuri il lavoro dei missionari, o che non conti su di loro. Ma insistendo così sulla libertà di Cristo e rendendo più gratuito il lavoro degli apostoli, l’autore lascia intendere che essi non devono ritenersi indispensabili e diventare egocentrici. Cristo conta su di loro, ma il suo accesso a tutti i pesci è sempre possibile per lui in modo diretto. Non aveva egli forse detto, anche in questo caso in maniera enigmatica: «E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare» (Gv 10,16)?
Gli apostoli devono lavorare con zelo e perseveranza, ma senza credere per questo che Cristo abbia solo loro per accedere ai pesci. La rete che raccoglie tutti i pesci – immagine della Chiesa, «sacramento universale di salvezza» (Lumen gentium, 48b) e «strumento per la salvezza di tutta l’umanità» (Dominus Iesus, 22) –, un tempo affidata ai pescatori di Galilea, è oggi consegnata a tutti gli apostoli, siano essi galilei, giudei o provenienti da Tarso: «Vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1,17). Non esiste missione più grande. Ma quel fuoco già acceso, e già alimentato, è un potente appello all’umiltà degli apostoli e un richiamo della libertà suprema di Cristo. Signore del creato, egli è in grado di catturare qualsiasi pesce quando vuole.
Conclusione
Il capitolo 21 di Giovanni – che sia stato aggiunto in seguito, come è più probabile, al resto del Vangelo o no – è un meraviglioso esempio di fedeltà creativa al messaggio della comunità giovannea e, più in generale, allo spirito di Cristo risorto. In esso Cristo non parla più con grandi discorsi teologici, affermando la propria identità con il Padre (come in Gv 13-17), ma si manifesta di nuovo come quel compagno di viaggio conosciuto in Galilea, dove ha nutrito i suoi discepoli (e non soltanto i Dodici) e ha deciso di dare a Simone il nome di Pietro-Kefa, per guidare il gregge dopo di lui: non al suo posto, perché lui è sempre presente, ma in suo nome. Segno visibile di comunione tra cristiani molto diversi tra loro. La comunità giovannea riafferma al contempo la legittimità della sua tradizione, del suo fondatore e dei suoi insegnamenti, e il suo rispetto sincero e assoluto per il ruolo eminente di Pietro.
L’autore comunica il suo messaggio con un linguaggio semplice e in una scena limpida, disseminando il testo di annotazioni enigmatiche. Nessuna interpretazione può né deve essere fatta in contrasto con il significato primario del testo. Solo una grande malafede ermeneutica permetterebbe di ricavare da questo testo un messaggio gnostico o esoterico, la rivelazione di un segreto nascosto contrario al significato primario. È sorprendente come, nel corso della storia, i commentatori cristiani abbiano gareggiato in immaginazione letteraria o teologica per leggere questi dettagli, giungendo talvolta a conclusioni strane, ma senza mai oscurare il significato primario del testo. No, si tratta semplicemente di mettere alla prova la sagacia dei lettori, affinché, nella Chiesa, possano riflettere su tali dettagli enigmatici e comprendere come essi non facciano altro che mettere ancora più in risalto il significato ovvio.
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[1] Cfr J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni. Volume 2 (13,1-21,25), Torino, Claudiana, 2017, 960-962. L’autore conclude, con la maggior parte dei commentatori: «Il cap. 21 è l’aggiunta di un gruppo appartenente alla scuola giovannea al vangelo già costituito» (ivi, 962).
[2] Cfr Y. Simoens, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, Bologna, EDB, 1997. L’autore afferma: «Le evidenti reminiscenze dei cc. 1–6, per quanto riguarda la prima sezione del Vangelo, e poi dei cc. 13 e 18 per quanto riguarda la seconda parte, mostrano che Gv 21 costituisce uno dei brani principali del quarto Vangelo come insieme letterario compiuto» (ivi, 822).
[3] Cfr J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, cit., 971.
[4] Cfr ivi, 970.
[5] Ivi, nota 30.
[6] Ivi, 961.
[7] Cfr M.-E. Boismard – A. Lamouille, L’évangile de Jean, Paris, Cerf, 1972. Gli autori fanno notare: «I discepoli sono in numero di sette e la parola “discepolo” ricorre sette volte (21,1.2.4.7.8.12.14)» (ivi, 478).
[8] Cfr Y. Simoens, Secondo Giovanni…, cit., 826. L’autore aggiunge: «Il legame tra Gesù e i suoi discepoli appare così ancora più stretto. Essi nascono dalla sua risurrezione!» (ivi).
[9] Ivi.
[10] «La concettualità di Giov. 21 è vicina a quella di I Giov.; le due opere appartengono a uno stadio avanzato della storia della comunità giovannea» (J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, cit., 969, nota 24).
[11] Cfr J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, cit., 969, nota 25.
[12] Cfr X. Léon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2007, 1218.
[13] Ivi.
[14] Cfr J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, cit., 970.
[15] Cfr A. Dupont-Sommer (ed.), La Bible. écrits intertestamentaires.Règle de la communauté, Paris, Gallimard, 1987, 18.
[16] Cfr M.-E. Boismard – A. Lamouille, L’évangile de Jean, cit., 485. Si tratterebbe perciò di «un numero triangolare che rappresenterebbe al contempo la totalità e la moltitudine» (ivi).
[17] J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, cit., 971. L’autore aggiunge che questo numero «con ogni probabilità denota la sovrabbondanza e, di per ciò stesso, l’universalità che caratterizza la chiesa cristiana» (ivi).
[18] Cfr M. Rastoin, «Encore une fois les 153 poissons (Jn 21,11)», in Biblica 90 (2009) 84-92; J. A. Emerton, «The Hundred and Fifty-Three Fishes in John 21», in Journal of Theological Studies 9 (1958) 86-89.
[19] Abbiamo ἰχθύς nei versetti 6; 8; 11 (lo stesso termine di Lc 5), e ὀψάριον nei versetti 9; 10; 13 (termine usato in Gv 6,11).
[20] Secondo il procedimento della gematria, dove ogni lettera ha un valore numerico in base alla sua posizione nell’alfabeto (a=1, b=2 ecc.).
[21] «Si riesce allora a comprendere come il cibo che Gesù offre sia quello da lui già preparato per i suoi discepoli e nello stesso tempo quello che essi a loro volta gli portano»; «[Gesù risorto] consumando se stesso, cadrebbe nella contraddizione a livello logico e simbolico» (Y. Simoens, Secondo Giovanni…, cit., 830).
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Prima della «Rerum Novarum»: cinque encicliche sociali di papa Leone XIII
In una lettera apostolica del 1902, con cui celebra il venticinquesimo anno di ministero petrino, papa Leone XIII osserva che «il voto ardente del Nostro cuore non fu quello soltanto d’illuminare le menti, sibbene di muovere e purificare i cuori, indirizzando i Nostri sforzi a far rifiorire in mezzo ai popoli le virtù cristiane»[1]. Tale desiderio, osserva Leone XIII, lo ha condotto a scrivere ampiamente sulla questione sociale. Forse con sorpresa del lettore del XXI secolo, il Pontefice ricorda di aver composto nove encicliche (elencate in ordine logico, non cronologico), con la Rerum novarum penultima nella serie[2]. Vi include anche testi che oggi non vengono abitualmente fatti rientrare nella Dottrina sociale della Chiesa, come l’enciclica Aeterni Patris sulla filosofia cristiana.
Trent’anni dopo, quando papa Pio XI decide di riproporre al mondo cattolico l’insegnamento sociale leonino, elogia la Rerum novarum come parte di un grande corpus di documenti che, insieme, costituiscono il «fondamento saldissimo ed immutabile» del pensiero sociale del suo illustre predecessore[3].
L’enciclica Rerum novarum di Leone XIII sulla condizione dei lavoratori viene spesso presentata come l’inizio della moderna Dottrina sociale della Chiesa. Essa segna un punto di svolta nel magistero pontificio in materia di politica e società, sia nello spirito sia nei contenuti, mostrando una Chiesa disposta a servire il mondo, impegnandosi con le più urgenti realtà politiche, sociali ed economiche del suo tempo.
Tuttavia, Leone XIII e Pio XI suggeriscono che simili narrazioni comuni sulla Dottrina sociale della Chiesa potrebbero non cogliere il significato più profondo della Rerum novarum: se questa enciclica fa parte di un ricco insieme di testi leoniani, non deve essere letta isolatamente, ma come parte di un più ampio progetto intenzionale di confronto con la modernità. In altre parole, più che l’inizio, essa rappresenta il culmine di tale progetto[4].
Quali insegnamenti emergono dalla lettura delle altre encicliche di Leone XIII? E che cosa esse rivelano sul suo disegno complessivo? Questo articolo presenta una breve trattazione di cinque documenti del Pontefice che precedono la Rerum novarum, proponendo una chiave di lettura suggerita da lui stesso e poi da Pio XI, che li considera essenziali per capire sia l’enciclica del 1891 sia l’intera dottrina sociale leoniana. Nella conclusione, proporremo alcune riflessioni sulla natura e sull’estensione della Dottrina sociale cattolica in Leone XIII. Le sue encicliche sono importanti non solo per comprendere in particolare la Rerum novarum, ma anche per cogliere meglio la portata e la visione del pensiero sociale cattolico. Esse suggeriscono che lo stesso Pontefice intendeva che la Rerum novarum fosse letta come parte di un più ampio patrimonio di sapienza, una messe che egli considerava di aver mietuto piuttosto che seminato[5].
Un abbozzo per la «Rerum novarum»: «Quod Apostolici muneris» (1878)
L’enciclica Quod Apostolici muneris sul socialismo si presenta come precorritrice sia della Rerum novarum sia dell’Arcanum, delineando quel tema che Pio XI chiamerà «le tre società necessarie» – Chiesa, Stato, matrimonio e famiglia –, la cui natura, relazione e salute saranno oggetto ricorrente delle encicliche di Leone XIII[6].
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In questa enciclica il Pontefice sostiene anzitutto che il socialismo diffonde dottrine errate su autorità, uguaglianza e libertà, proponendo un radicale appiattimento della società e negando l’autorità naturale in nome di una falsa uguaglianza[7]. Leone XIII riconosce che «tutti gli uomini sono uguali in quanto, avendo avuto la medesima natura, tutti sono chiamati alla medesima altissima dignità di figliuoli di Dio»[8]; nega tuttavia che tale uguaglianza implichi l’abolizione dell’autorità politica, come se Dio avesse lasciato gli esseri umani privi di una giustizia ordinata. Per il Pontefice, la negazione dell’autorità minaccia l’ordine sociale, in generale, e il matrimonio, in particolare, come fondamento di quell’ordine sociale.
Verso la fine del documento, il Papa affronta esplicitamente la questione dei lavoratori, mettendo in guardia dal pericolo che essi cadano preda del fascino del socialismo, con una chiara inversione della celebre formula che definisce la religione come «oppio dei popoli»[9]. E con un gesto che richiama il principio di sussidiarietà, incoraggia i lavoratori a cercare la propria realizzazione e felicità all’interno delle società. In altre parole, il loro destino dipende in larga misura dalla loro vita coniugale e familiare, così come dall’appartenenza a sindacati e ad altre forme associative analoghe.
L’enciclica Quod Apostolici muneris preannuncia inoltre due preoccupazioni costanti che ricorreranno nelle successive encicliche sociali di Leone XIII: il ruolo della Chiesa e il potere delle idee nella politica. Gli affari pratici e la politica sono realtà mutevoli e contingenti, tuttavia le nostre visioni teoriche in merito restano di fondamentale importanza. Per la Chiesa, dunque, è essenziale non solo articolare, ma anche diffondere insegnamenti che siano veri e utili per la società.
Questa breve presentazione offre motivi fondati per considerare la Quod Apostolici muneris un testo precursore sia dell’Arcanum sia della Rerum novarum, ma anche per comprendere perché questi testi successivi si rendessero necessari. Quod Apostolici muneris è una delle prime formulazioni, da parte di Leone XIII, della triade composta da Chiesa, Stato e famiglia, e quindi è un punto di svolta per le sue future encicliche. Il Papa manifesta una preoccupazione specifica per il modo in cui le idee moderne hanno messo in discussione tali società, al punto che l’insegnamento tradizionale su questi ambiti avrebbe beneficiato di una più ampia elaborazione alla luce delle condizioni contemporanee. Non stupisce, pertanto, che negli anni seguenti il Pontefice sia tornato ad approfondire tutti questi temi e, in particolare, quello del matrimonio. Infatti, il suo grande testo sul matrimonio, l’Arcanum, verrà pubblicato poco più di un anno dopo la Quod Apostolici muneris.
Allora, perché la Rerum novarum arriva soltanto nel 1891? Questa non è una domanda a cui si possa rispondere sulla base della Quod Apostolici muneris. Si può tuttavia notare che per Leone XIII i diritti dei lavoratori sembrano collocarsi logicamente a valle di una serie di altre considerazioni. Pertanto, ha forse senso che essi siano comparsi solo nella parte finale di questa enciclica, ma che un’altra, specifica enciclica a loro dedicata dovesse attendere l’elaborazione di altri documenti. Possiamo anche affermare, seguendo Russell Hittinger, che per Leone XIII i diritti dei lavoratori dovevano trovare il loro posto all’interno delle «tre società necessarie», che sono state messe in discussione nel corso dell’ultimo secolo.
Qui possiamo rilevare una tensione tra ciò che è politicamente urgente e ciò che è logicamente o teoricamente prioritario. Come hanno osservato pensatori sin dall’epoca di Socrate, ciò che è più urgente nella sfera pratica può richiedere una lunga e paziente riflessione sul piano teorico. Si pensi, ad esempio, a temi come il cambiamento climatico o l’intelligenza artificiale: questioni cruciali che reclamano risposte immediate, ma che richiedono anche un tempo adeguato per essere inquadrate in riferimento alle considerazioni fondamentali che le sottendono. La Dottrina sociale della Chiesa, in quanto corpo di sapienza riguardante gli affari pratici, difficilmente può eludere tale tensione.
«Andare e insegnare a tutte le nazioni»: «Aeterni Patris» (1879)
Uno studioso della Dottrina sociale della Chiesa potrebbe sorprendersi nel trovare l’Aeterni Patris inclusa tra i documenti dell’insegnamento sociale di Leone XIII. Sebbene questa sia forse la sua enciclica più conosciuta dopo la Rerum novarum, essa trova solitamente il suo posto nella storia della filosofia piuttosto che nella Dottrina sociale della Chiesa. Tuttavia in essa il Papa sviluppa argomentazioni importanti per la Dottrina sociale della Chiesa, a proposito sia della Chiesa sia del potere delle idee in politica, che la rendono fondamentale nella stessa Dottrina sociale. In effetti, la sua promozione del tomismo può essere compresa non solo come servizio alla conoscenza speculativa, ma anche come orientamento dell’ordine della ragione pratica e della ricerca del bene comune.
Nell’Aeterni Patris, Leone XIII presenta la Chiesa come una fonte di sapere messa a disposizione della vita pubblica, a beneficio della società[10]. La Chiesa non è solo il luogo che custodisce questa sapienza, ma anche un luogo di dialogo, un luogo in cui fede e ragione si incontrano in armonia: «La fede libera e preserva la ragione dagli errori e l’arricchisce di molte cognizioni»[11]. Questo sarà un argomento cruciale nelle encicliche di Leone XIII: la fede e la ragione devono dialogare per il bene comune. Il secondo grande tema dell’enciclica Aeternis Patris è il rapporto tra teoria e prassi. Leone XIII, formatosi nella filosofia di san Tommaso d’Aquino, sa che la politica è un ambito dell’agire pratico, in cui la conoscenza deve essere necessariamente orientata alla ricerca del bene attraverso realtà mutevoli e contingenti.
Qui il Pontefice mostra il suo debito verso il gesuita p. Luigi Taparelli, uno dei primi scrittori de La Civiltà Cattolica[12]. Per quest’ultimo, come per Leone XIII, l’importanza della retta dottrina nella politica e nella società non è questione semplicemente di vincere controversie o di acquisire una conoscenza speculativa, ma anche di essere di beneficio e aiuto per la società. Ciò significa, tra l’altro, che le teorie errate sulla società e sulla politica non solo sono «sbagliate», ma anche dannose per l’essere umano. Il Vangelo e l’insegnamento della Chiesa non solo sono «veri», ma anche buoni per gli esseri umani in quanto cittadini e cristiani.
Alla luce di queste considerazioni, è utile rileggere l’apprezzamento di san Tommaso d’Aquino fatto nell’enciclica[13]. Leone elogia in particolare la capacità di san Tommaso di raccogliere e sintetizzare le dottrine di molti pensatori che l’hanno preceduto, non come un innovatore di idee, ma come uno studioso in grado di raccogliere in modo sistematico e ordinato i frutti e i doni sparsi della Chiesa. Inoltre, ciò che l’Aquinate riesce a compendiare in modo eccellente riguarda questioni di grande utilità per la società domestica, civile ed ecclesiale: gli insegnamenti sulla libertà, l’autorità, l’obbedienza e la carità[14]. Questi sono, naturalmente, gli stessi insegnamenti che, come afferma Leone XIII nell’Aeterni Patris, la Chiesa deve offrire al mondo[15].
Considerando tutto ciò, il Pontefice intende il compito della Chiesa nell’ordine sociale come quello di ricordare al mondo verità perenni, mentre esso cerca di risolvere problemi contingenti e mutevoli. Nell’enciclica, Leone XIII non si presenta come un innovatore radicale per il gusto del sapere, ma come colui che raccoglie una messe seminata da altri nel corso dei secoli, a beneficio dell’ordine sociale. Qui vediamo un approfondimento della sfida che concludeva la sezione precedente: spingere il mondo a una riflessione più profonda, di fronte a urgenze pressanti e immediate[16].
Un manifesto per il matrimonio: «Arcanum» (1880)
L’Arcanum è un’enciclica importante di cui forse i cattolici non hanno mai sentito parlare[17]. Essa è, per il matrimonio, ciò che la Rerum novarum è per il lavoro: una riflessione approfondita sulle sfide del vivere il Vangelo nel contesto moderno[18]. L’enciclica offre anche una delle formulazioni più sintetiche di Leone XIII sulle tre società necessarie – Chiesa, Stato e famiglia – e sul dialogo che propone tra fede e ragione, sviluppandolo a partire dalla Quod Apostolici muneris e andando oltre.
Per il Papa, il matrimonio è un grande dono per la Chiesa, per lo Stato e per la famiglia; infatti, racchiude «fonti ricchissime di pubblica utilità e salvezza»[19]. Il nome dell’enciclica, Arcanum, richiama una sapienza nascosta, ossia l’idea che fin dall’inizio dei tempi Dio ha offerto agli esseri umani una conoscenza dell’importanza e della bontà del matrimonio, la cui pienezza è diventata manifesta solo nella vita di Cristo[20].
Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA
Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.
Tuttavia, questa enciclica – il primo grande documento pontificio sull’argomento dopo il Concilio di Trento – si rende necessaria a causa di coloro che mettono in discussione la natura e il fine del matrimonio, sostenendo, ad esempio, una concezione puramente civile del matrimonio tra cristiani, oppure ammettendo il divorzio[21]. Anche qui si avverte l’influsso di p. Taparelli: la dottrina sul matrimonio è importante non solo sul piano speculativo, ma anche per il bene della società.
Una retta comprensione del matrimonio non può prescindere dal rapporto tra fede e ragione. Fin dai tempi più antichi, l’umanità ha riconosciuto che il matrimonio è assolutamente essenziale, ma spesso ne ha frainteso aspetti fondamentali, talvolta con esiti disastrosi. La Chiesa, grazie alla rivelazione, può contribuire a purificare la ragione, elevandola oltre l’ideologia, verso la grazia soprannaturale. In molti modi, questo è un tema centrale per Leone XIII in tutte queste encicliche: «Benché questo divino rinnovamento che abbiamo detto riguardasse principalmente e direttamente gli uomini costituiti nell’ordine della grazia soprannaturale, tuttavia i suoi preziosi e salutari frutti ridondarono largamente anche nell’ordine naturale»[22]. Questo è il dialogo che il Pontefice propone: non solo predicare la legge naturale sul matrimonio e la famiglia, ma anche chiarirla, rafforzarla e testimoniarla attraverso la rivelazione. Il ricercatore Russell Hittinger si riferisce a questo approccio come a «una pedagogia duplice di Leone XIII»: proporre di «situare l’agente umano che partecipa alla divina provvidenza attraverso la legge naturale e attraverso la legge del Vangelo»[23].
Nell’immaginario collettivo, si tende a tracciare una netta distinzione tra religione e politica. Ma, sin dagli albori del cristianesimo, si è affermato l’importante concetto delle res mixtae: quelle cose che riguardano direttamente sia la Chiesa sia lo Stato. Tra queste, il matrimonio e la famiglia, compresa l’educazione, occupano un posto preminente[24]. Di conseguenza, per Leone XIII il matrimonio si colloca al centro delle relazioni tra Chiesa e Stato ed è anche un limite fondamentale per l’autorità statale. Sebbene egli non adotti una concezione liberale dello Stato, l’enciclica Arcanum propone un’idea di Stato limitato, che non ha autorità per determinare che cosa sia il matrimonio nei suoi elementi essenziali, ma solo per confermarlo[25]. In tal modo Leone XIII apre una via che altri pontefici seguiranno, concependo lo Stato in termini più strumentali[26].
Anche questa sommaria descrizione evidenzia l’affinità tra l’Arcanum e la Rerum novarum: entrambe le encicliche sono dedicate a un tema centrale della dottrina della Chiesa, ma sono anche profondamente consapevoli delle difficoltà da affrontare nel metterla in pratica. Questo spirito di dialogo nasce dal desiderio della Chiesa di condividere con l’intera società la bontà del Vangelo, un’aspirazione che alimenta il dialogo in ogni epoca. Tale impostazione fa capire ancora una volta perché la Rerum novarum debba essere considerata logicamente successiva a questo tipo di considerazioni: per i cattolici che condividono la visione di Leone XIII, gli esseri umani non esistono in un radicale isolamento, come si potrebbe supporre in base alla concezione socialista del lavoratore, ma piuttosto vivono all’interno di società, e prima di tutto come membri di una famiglia.
Tra famiglia e Chiesa: «Diuturnum» (1881) e «Immortale Dei» (1885)
Il messaggio delle encicliche Diuturnum e Immortale Dei può essere riassunto con un passo della prima di esse: «La divina virtù della religione cristiana ha fornito alla cosa pubblica solidi fondamenti di stabilità e di ordine, non appena penetrò nei costumi e nelle istituzioni civili. Non piccolo né ultimo frutto di tale virtù è l’equo e sapiente temperamento dei diritti e dei doveri nei principi e nei popoli»[27].
Per Leone XIII, le vicende del XVIII e XIX secolo hanno minacciato sia l’autorità politica naturale sia l’autorità divina della Chiesa. Egli sottolinea che, una volta demolita l’autorità divina, molte altre cose vengono messe in discussione. Contro questa confusione, il Papa insiste sulla reciprocità del rapporto tra governanti e cittadini, fondato su diritti e doveri. La Chiesa, attraverso la propria missione, cerca di rafforzare ciò che nella società civile è buono e vero, e di correggere ciò che è corrotto o sbagliato. Fa parte del suo compito il contribuire a delimitare la sfera politica. Sviluppando quanto detto nell’Arcanum, il Pontefice presenta in questa enciclica un «movimento a tenaglia», in cui lo Stato è vincolato tra la vita familiare e la Chiesa[28].
Alla base della Diuturnum vi è l’idea che l’autorità politica è naturale, perché gli esseri umani sono per natura politici e hanno bisogno di un’autorità. Non basta affermare che l’autorità deriva accidentalmente dal popolo ai governanti: essa invece è prevista da Dio[29]. Ma questo non equivale a sostenere un diritto divino dei re. La Chiesa, secondo Leone XIII, deve esortare i governanti a un potere mite e giusto, e i cittadini a una giusta obbedienza, pur riconoscendo che talvolta essi hanno il dovere di disobbedire a leggi ingiuste[30]. Il termine che egli invoca è «armonia», o «concordia», che deve esistere tra lo Stato e la Chiesa. Nella Diuturnum, il primo frutto di questa concordia è la libertas della Chiesa di compiere la propria missione, e quindi di aiutare la società, e non in primo luogo di cercare i suoi privilegi[31]. Allo stesso modo, sebbene in queste due encicliche la Chiesa sembri a prima vista, secondo i «modelli» proposti dal cardinale Avery Dulles, soprattutto un’istituzione, essa non è anzitutto preoccupata della propria autoconservazione, ma piuttosto della propria missione a favore dell’intera società, e non solo dei cristiani[32].
Questo spirito di servizio orienta Leone XIII anche nel delineare i rapporti tra le due potestà: ancora una volta la questione centrale tra Chiesa e Stato non sarà tanto quella dei diritti e privilegi della Chiesa in quanto tale, ma soprattutto il matrimonio e la famiglia in quanto res mixtae, e la libertà della Chiesa di difendere tali beni fondamentali[33].
In entrambe le encicliche il Pontefice respinge una concezione rozza della sovranità popolare, di cui egli scrive: «Serve ottimamente ad offrire lusinghe e ad infiammare grandi passioni, non ha in realtà alcun plausibile fondamento, né possiede abbastanza forza per assicurare uno stabile e tranquillo ordine sociale»[34]. Questo linguaggio riecheggia quanto affermato nella Quod Apostolici muneris sull’attrattiva del socialismo per i lavoratori, e lascia intendere che il problema in entrambi i casi risiede, almeno in parte, nella retorica lusinghiera dei demagoghi.
Lettura della «Rerum novarum» e della Dottrina sociale della Chiesa
Concludiamo con tre considerazioni sul confronto tra queste cinque encicliche e la Rerum novarum.
In primo luogo, questo confronto aiuta a identificare le questioni e i temi chiave della Rerum novarum che ricorrono anche nelle altre encicliche di Leone XIII, ma la cui importanza potrebbe sfuggire a chi non conosce l’insieme dei testi leoniani. Per fare un esempio evidente, la Rerum novarum affronta il tema delle tre società necessarie, compreso il matrimonio e la famiglia (cfr nn. 12; 46); il rapporto tra teorie errate e pratiche sociali sbagliate (cfr nn. 17-18); la duplice pedagogia della fede e della ragione (cfr nn. 7-12; 21; 41), compresi gli insegnamenti escatologici e una riflessione sul sabato; il ruolo docente della Chiesa (cfr nn. 2; 16; 21; 25; 26; 63); la vita associativa e la sussidiarietà (cfr n. 48 e seguenti). Una lettura più completa della Rerum novarum richiede che si rivedano le interpretazioni convenzionali alla luce di questi temi.
In secondo luogo, questo confronto consente di delineare una visione più ampia del progetto leoniano. Esso si basa sulle tre società necessarie e sulle loro relazioni, che comprendono elementi sia duraturi sia contingenti. Qualunque opinione Leone XIII abbia avuto su specifiche questioni sociali, essa era sempre legata alla loro incidenza sulla salute di tali società. Queste non sono solo luoghi dove devono essere accolti le teorie e gli insegnamenti giusti, ma soprattutto contesti nei quali essi devono essere vissuti, radicati nella verità sull’essere umano e su Dio. Fondato sulla famiglia e sulla vita matrimoniale, e concependo la Chiesa come un deposito di saggezza, il Papa propone un «movimento a tenaglia», in cui lo Stato deve rispettare e proteggere i diritti, l’autorità e i fini sia della vita familiare sia della Chiesa.
La terza serie di conclusioni riguarda le tensioni durature della Dottrina sociale della Chiesa, che Leone XIII non si aspettava che scomparissero. La prima è di vitale importanza per la filosofia politica: le questioni più urgenti dal punto di vista pratico o politico non sono sempre quelle logicamente prioritarie. Abbiamo visto, ad esempio, che per Leone XIII i diritti dei lavoratori, per quanto importanti, devono essere collocati nel quadro delle tre società necessarie. Una seconda serie di considerazioni riguarda il dialogo tra fede e ragione. Per Leone XIII, buona parte della Dottrina sociale della Chiesa si basa sulla legge naturale ed è, in linea di principio, accessibile con la sola ragione, ma per molti motivi – tra cui la debolezza della volontà e della ragione – la Chiesa deve spesso aiutare la società a comprendere la verità sull’essere umano. Una terza serie di tensioni sembra riguardare le res mixtae, ovvero quegli ambiti della vita sociale che toccano direttamente sia la Chiesa sia lo Stato. Si potrebbe aggiungere che questa sfida non sembra scomparire con il passaggio moderno dalla diade tra Chiesa e Stato a quella tra il singolo individuo credente e lo Stato.
Leone XIII non avrebbe pensato che tali riflessioni si traducessero in prescrizioni immediate per la politica pubblica. Ma questa visione più ampia dei suoi insegnamenti mette in luce alcuni elementi essenziali del suo immaginario sociale.
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[1] Leone XIII, Lettera apostolica Vigesimo quinto anno, 19 marzo 1902.
[2] Étienne Gilson sviluppa efficacemente questo punto nella sua opera The Church Speaks to the Modern World: The Social Teachings of Leo XIII, Garden City, NY, Image Books, 1954, 23-25 (in it. La Chiesa parla al mondo moderno. L’insegnamento sociale di Leone XIII, Cinisello Balsamo [Mi], San Paolo, 1991).
[3] Cfr Pio XI, Enciclica Divini illius Magistri, 31 dicembre 1929, n. 51 (la numerazione, per questo e gli altri scritti di Leone XIII, eccetto la Rerum novarum, è presa dalla versione inglese).
[4] Cfr M. J. Shuck, «Early Modern Roman Catholic Social Thought, 1740-1890», in K. R. Himes et Al. (edd.), Modern Catholic Social Teaching: Commentaries and Interpretations, Washington D.C., Georgetown University Press, 2005, 112.
[5] Cfr F. R. Hittinger, On the Dignity of Society, Washington D.C., Catholic University of America Press, 2024, cc. 4-5.
[6] «L’unico efficace rimedio per il male, che invade la società, è il ritorno ai principii cristiani», che richiede a sua volta «che la Chiesa possa liberamente informarne i popoli» («Il ritorno ai principi cristiani», in Civ. Catt. 1879 I 394).
[7] Cfr É. Gilson, The Church Speaks…, cit., 15-20; 55; 58; Leone XIII, Enciclica Libertas, 20 giugno 1888.
[8] Leone XIII, Enciclica Quod Apostolici muneris, 28 dicembre 1978, n. 5.
[9] Cfr ivi, n. 11.
[10] L’enciclica Aeterni Patris (4 agosto 1879) può essere letta in parallelo con un’altra enciclica citata da Leone XIII nella lettera apostolica Vigesimo quinto anno del 1902, cioè la Sapientiae christianae (10 gennaio 1890). Cfr É. Gilson, The Church Speaks…, cit., 245-247.
[11] Leone XIII, Aeterni Patris, n. 9; cfr nn. 4-5; 10.
[12] Cfr T. C. Behr, Social Justice & Subsidiarity: Luigi Taparelli and the Origins of Modern Catholic Social Thought, Washington D.C., Catholic University Press of America, 2019. Sebbene questo articolo si concentri sul rapporto fra p. Taparelli e papa Leone XIII, un altro gesuita de La Civiltà Cattolica, consigliere del Pontefice, p. Matteo Liberatore, fu il redattore principale dell’enciclica Rerum novarum. Cfr F. Dante, Storia della «Civiltà Cattolica» (1850-1891). Il laboratorio del Papa, Roma, Studium, 1991, 87-114; G. Sale – A. Spadaro, Il coraggio e l’audacia. Da Pio IX a Francesco, «La Civiltà Cattolica» raccontata da dodici papi, 1850–2016, Milano, Rizzoli, 2017, 58.
[13] Cfr Leone XIII, Aeterni Patris, nn. 18; 29.
[14] Cfr ivi, n. 31.
[15] Cfr J. K. A. Smith, «What to Expect from an Augustinian Pope», in America (americamagazine.org/faith/2025…), 12 maggio 2025.
[16] Cfr F. R. Hittinger, On the Dignity of Society, cit., 136 s.; G. Kaplan, Faith and Reason through Christian History: A Theological Essay, Washington D.C., Catholic University of America Press, 2022, 231-235.
[17] Cfr H. A. Rommen, The State in Catholic Thought: A Treatise on Political Philosophy, Providence RI, Cluny Media, 2016 [1945], 535-541.
[18] Cfr Leone XIII, Enciclica Arcanum divinae, 10 febbraio 1880, n. 2.
[19] Ivi, n. 26. Cfr «Del matrimonio secondo l’idea liberalesca», in Civ. Catt. 1880 I 652, dove si parla dell’«immobile fondamento dell’edifizio domestico, la santità delle nozze».
[20] Cfr Leone XIII, Arcanum, nn. 2-5.
[21] Cfr ivi, nn. 16-20; 28-32.
[22] Ivi, n. 3.
[23] F. R. Hittinger, On the Dignity of Society, cit., 132.
[24] Cfr Leone XIII, Arcanum, nn. 35-36; cfr Id., Enciclica Immortale Dei, 1° novembre 1885, n. 13.
[25] Cfr Id., Arcanum, n. 19; J. C. Murray, «Leo XIII: Two Concepts of Government», in Theological Studies 14 (1953) 551-567.
[26] Cfr F. R. Hittinger, «The Problem of the State in Centesimus Annus», in Fordham International Law Journal 15 (1991) 952-996; H. A. Rommen, The State in Catholic Thought, cit., 799.
[27] Leone XIII, Enciclica Diuturnum, 29 giugno 1881, n. 3; cfr Civ. Catt. 1885 I 506-515; 601-614.
[28] Il cardinale Joseph Ratzinger ha affermato nel 1981: «Così il primo servizio che la fede cristiana rende alla politica è quello di liberare l’uomo dall’irrazionalità dei miti politici […] assumendo una posizione di sobrietà» (J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, Cinisello Balsamo [Mi], San Paolo, 1987). Più tardi, dopo essere diventato papa, egli ha sviluppato questa posizione nel discorso tenuto a Westminster Hall nel 2010: cfr Benedetto XVI, Discorso alle autorità civili, Westminster Hall (Londra), 17 settembre 2010 (vatican.va/content/benedict-xv…).
[29] Cfr Leone XIII, Diuturnum, n. 11.
[30] Cfr Id., Enciclica Immortale Dei, 1° novembre 1885, n. 26.
[31] Cfr H. A. Rommen, The State in Catholic Thought, cit., 531-534.
[32] Cfr Leone XIII, Immortale Dei, nn. 10; 27; A. Dulles, Models of the Church, New York, Image Books, 2002, 26 s.
[33] Cfr Leone XIII, Immortale Dei, n. 27.
[34] Ivi, n. 37.
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L’etica è stanca?
Un libro recente di Rocco D’Ambrosio, professore di filosofia politica alla Pontificia Università Gregoriana, ripropone un tema sempre attuale e dibattuto[1]. Si ha l’impressione che la riflessione etica sia in una fase di stanchezza, oppure – il titolo del libro gioca sulle due possibilità, a seconda che si intenda il termine «stanca» come aggettivo o come verbo – che sia lo studio stesso di questa disciplina a risultare pesante, stancante appunto.
Recuperare non solo il valore, ma anche la dimensione attraente dell’etica costituisce un compito arduo al quale D’Ambrosio non si sottrae, interpellando una serie di autori ed esponenti della vita pubblica, nel tentativo di fare il punto sulla situazione. Ne risulta un libro ricco di spunti, capace di stimolare la riflessione su alcune tematiche scottanti del vivere, sulle quali, volenti o nolenti, ciascuno è chiamato a prendere posizione, anche semplicemente dalle scelte quotidianamente messe in atto. Da qui la necessità di sviscerarne i criteri di valutazione, da cui dipende la qualità del vivere comune, ma anche di affrontare le obiezioni spesso rivolte a questa disciplina.
Perché occuparsi di etica?
Una di queste obiezioni, puntualmente riproposta, è la convinzione che i valori dell’onestà e della giustizia siano in fondo una pia illusione, propria di chi non conosce la dura realtà. Riportando un pensiero di Gilbert K. Chesterton (cfr 19), D’Ambrosio precisa che gli ideali non sono affatto meri sogni adolescenziali, ma qualcosa di indispensabile, come i segnali stradali (quello che Aristotele chiamava telos, «fine») per chi intende intraprendere un viaggio. L’immagine stessa del viaggio dice anche della dimensione pratica ed esistenziale del bene, che si chiarisce nel tempo, «cammin facendo», confrontandosi con segni e riferimenti che si possono comprendere in seconda istanza, rileggendo con calma il tragitto compiuto ed esplicitando il punto di arrivo delle scelte intraprese. San Tommaso, trattando del fine ultimo della vita umana – la beatitudo –, riprende proprio la metafora del viaggio: un uomo mostra di conoscere la meta da raggiungere non tanto perché pensa continuamente a essa, ma piuttosto perché è impegnato a compiere bene il proprio cammino (cfr Summa Theologiae I-II, q. 1, a. 6, ad 3um).
La ricerca del bene caratterizza di fatto ogni uomo e donna: chi non si pone la questione corre il rischio di trovarsi dove non vorrebbe, come nella parabola evangelica dell’uomo che, volendo costruire una torre, si è imbarcato nell’impresa senza valutarne i costi e le possibilità a disposizione (cfr Lc 14,28). Il rischio è di sprecare tempo e risorse e, nel caso delle questioni più rilevanti, di sciupare la vita per cose, queste sì, illusorie.
Un esempio di tale approccio, purtroppo estremamente diffuso, è l’emotivismo, la tendenza a trattare questioni serie e complesse a colpi di slogan (o di like): una tendenza accentuata dall’imperare dei social e dei ritrovati offerti dall’intelligenza artificiale. Ma, come insegna la storia, l’emotivismo, quando si sposa con l’ignoranza, può con facilità diventare preda delle derive fondamentaliste (cfr 29-40).
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Da qui l’importanza di cimentarsi con una riflessione seria, anche se faticosa, capace di stabilire dei criteri per riconoscere ciò che davvero è importante. Il libro ne tratta a livello pubblico, partendo dall’assunto che «la persona umana sia il criterio interpretativo e valutativo della sfera pubblica» e quindi, come recita la Costituzione italiana, intende «promuovere condizioni e risorse perché tutti raggiungano un “pieno sviluppo”» (21).
Da dove attingere i valori?
Un serbatoio dal quale la filosofia ha sempre attinto è costituito dalle grandi narrazioni, decisive per l’indagine morale. Come notava un autore – recentemente scomparso –, molto attento alla rivalutazione dell’etica come disciplina: «Posso rispondere alla domanda: “Che cosa devo fare?”, solo se sono in grado di rispondere alla domanda preliminare: “Di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte?”»[2]. In questa prospettiva, la bontà di un progetto, di un percorso di vita può essere valutata grazie alla capacità di conferirvi una possibile unità di senso, di riconoscervi una intelligibilità, un telos nel senso sopra indicato. Purtroppo la progressiva scomparsa delle grandi narrazioni ha portato alla disaffezione nei confronti delle grandi questioni della vita e della condivisione di un patrimonio etico indispensabile per la salute pubblica[3].
L’importanza dell’etica emerge anche nella coerenza con i valori scelti, soprattutto quando essi richiedono di prendere posizione, di essere disposti a pagarne il prezzo. In tali situazioni, un aiuto indispensabile viene da quella che diversi antropologi, come Mary Douglas, chiamano «energia morale», il patrimonio di ideali presenti e promossi in un gruppo sociale e nelle sue istituzioni, che consentono di favorire lo sviluppo umano integrale, personale e comunitario. Aristotele chiamava tale energia «virtù», «lo stato abituale per cui un uomo è buono e compie bene la sua opera» (Etica Nicomachea,1105b 25). E tra le virtù morali metteva al primo posto la giustizia, la più importante, perché verte su tutti gli aspetti della vita pratica. Al filosofo greco si deve la distinzione, tuttora fondamentale, tra giustizia distributiva e giustizia commutativa: la prima mira ad assegnare i beni in base al rango, al posto occupato nella società; la seconda invece è frutto di uno scambio tra contraenti considerati alla pari. In linea con la riflessione dei pitagorici, Aristotele chiama la prima giustizia «geometrica», la seconda «aritmetica» (Etica Nicomachea, 1131a 10 –
1132b 9).
La riflessione sulla giustizia è tornata in auge ai giorni nostri grazie soprattutto al contributo filosofico di John Rawls, anche lui convinto che essa sia il termometro per misurare lo stato di salute pubblica, tanto da dichiarare che «leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. Ogni persona possiede un’inviolabilità, fondata sulla giustizia, su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere»[4].
Il mancato apprezzamento della giustizia distributiva porta a considerare le istituzioni pubbliche come una mera «mucca da mungere»: una mucca che tuttavia con il tempo si ammala, produce sempre meno latte e, per di più, di qualità scadente.
La coerenza con un comportamento giusto, come si notava, implica un costo non indifferente, come tutte le cose importanti. Aristotele non si nascondeva la difficoltà di questo compito, soprattutto quando, come nota anche Rawls, esso può andare a scapito del benessere individuale. Il libro presenta alcuni aspetti dei possibili costi da mettere in conto: l’obiezione di coscienza, l’emarginazione e la parresia (cfr 77-88; 107-109).
Come promuovere il bene?
L’etica, per quanto stanca, non è quindi da inventare, ma piuttosto da riscoprire. Il lavoro del filosofo consiste soprattutto nel rimuovere le incrostazioni e gli equivoci che ne hanno offuscato la bellezza. Sempre Aristotele, riprendendo l’Antigone di Sofocle, nota come un senso morale sia presente in ogni uomo ed emerga soprattutto proprio di fronte alle ingiustizie subite. Esso nasce da quello che la riflessione successiva chiamerà la «legge naturale», ma che nel suo significato sostanziale era ben noto agli antichi – «un giusto e un ingiusto per natura, di cui tutti hanno come un’intuizione e che a tutti è comune», esplicitata nella norma (Retorica, 1373b 7-10) – e che rende equa l’azione concreta.
La domanda che sorge in sede etica – sia essa personale o pubblica – è di come poter promuovere l’etica, restituirne l’attrattività come aiuto a realizzare il desiderio di una vita riuscita. Un aspetto da sempre riconosciuto in sede educativa è la presentazione di esempi adeguati, capaci di incarnare i valori in una concreta vicenda di vita. Essi hanno la capacità di mostrare il fascino di una vita vissuta pienamente, che non di rado è la molla decisiva per attuare le decisioni più difficili. Il valore diventa bello e facilmente realizzabile quando è considerato allettante per il soggetto: «Un comportamento buono è valido nella misura in cui è il frutto del desiderio della bontà. Più che essere buoni, è importante avere la voglia di diventarlo»[5]. Il bene presenta in questo una dimensione di gratuità, trova una soddisfazione in sé stesso, non in vista di altro.
Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA
Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.
Un altro aiuto è dato dall’amicizia, ponte di collegamento ideale tra la dimensione privata e quella pubblica. Aristotele ha dedicato a questo tema ben due libri dell’Etica Nicomachea. L’amicizia, pur nascendo in modo spontaneo e gratuito, ha una grande capacità di incidenza anche a livello politico, costituendo lo spartiacque tra le tante proposte utopiche e ideologiche di impegno per la società e un ambiente permeato da essa. Come notava Clive Staples Lewis: «Sono i piccoli cenacoli di amici che voltano le spalle al mondo, quelli che realmente lo trasformano»[6].
Entrando in merito a questo tema, D’Ambrosio osserva come esso possa anche offrire criteri di valutazione eloquenti su una delle novità che hanno caratterizzato gli anni recenti: la possibile differenza qualitativa tra la vita online e quella offline. Il carattere insostituibile delle interazioni reali è emerso a livello didattico nel corso dell’esperienza terribile, e troppo presto dimenticata, del Covid-19. Pur offrendo nuove preziose possibilità, quanto è accaduto nel corso del primo lockdown ha mostrato anche i costi dei nuovi ritrovati, specie in sede educativa. Le lezioni da remoto si sono rivelate davvero «remote», proposte che non possono affatto essere paragonate alle lezioni in presenza: «L’insegnamento, la trasmissione del sapere è sempre, invece, un fatto relazionale, che coinvolge docente e discente nelle loro dimensioni fisiche, emotive e intellettuali […]. Le limitazioni fisiche e relazionali per la pandemia e la DAD hanno fatto danni enormi sull’apprendimento, specie dei piccoli e degli adolescenti» (42). Non si tratta di abolirle, ma di assegnare ad esse limiti adeguati allo scopo – di nuovo il telos! –, riconoscendo cosa possano o non possano offrire. Specialmente quando, grazie all’anonimato e alla caduta dei freni inibitori propri del web, esso tende a favorire derive violente e messaggi di odio.
Un discorso simile si pone a livello di relazioni. Molti influencer vantano milioni di followers, con i quali dichiarano di instaurare un legame di amicizia; ma è davvero così? Il numero dei rapporti che possono essere effettivamente coltivati ha un limite, espresso da un intervallo piuttosto preciso, chiamato «il numero di Dunbar», dal nome del matematico che lo ha elaborato negli anni Novanta del secolo scorso. Per Robin Dunbar, il numero massimo di relazioni che possono dirsi stabili all’interno di un contesto sociale si aggira intorno a 150. Egli arriva a stabilire questa cifra studiando i gruppi di appartenenza, a livello sociologico e storico, i villaggi, i centri, le comunità e i clan.
Il rapporto quantità-qualità trova in effetti riscontro nella profondità e affidabilità delle relazioni – intese come capacità di dare fiducia –, e quindi della loro effettiva incidenza nella vita dell’individuo. Questo rapporto ha una soglia, speculare a quello che il sociologo Malcolm Gladwell ha chiamato «il punto critico», oltre il quale un fenomeno, nel bene come nel male (da un virus a un movimento culturale), diventa inarrestabile. Anche le idee e la comunicazione sono soggette a un processo di contagio, si diffondono, si allargano, ma, oltrepassato il punto critico, smarriscono la loro forza, indebolendosi sempre più fino a dissolversi[7].
Il ruolo dell’amicizia è dunque fondamentale, ma limitato; riguarda poche e ben precise persone, per le quali la legge e il dovere risultano superflui. Per questo un tale legame non può diventare il criterio della vita pubblica, anche se può contribuire in maniera rilevante alla promozione della giustizia (cfr 115-118).
All’amicizia sono connessi altri valori, espressione della libera creatività, indispensabili per la qualità della vita, come la bellezza e la poesia. Anche se a prima vista possono sembrare alla portata di pochi, essi si trovano in germe in ciascuna persona e possono essere esplicitati con l’educazione e la diffusione dei capolavori che li celebrano. «La bellezza, la bontà, la verità, la giustizia non splendono immediatamente, non sono effetti cinematografici. Sono il frutto di un cammino» (122). Esse, come la poesia, comunicano gusto e colore alla vita: non ci si stanca mai di ritornarvi; anzi, il loro messaggio si dilata e approfondisce sempre più e ci trasforma, consentendoci di cogliere sempre più la ricchezza del reale. Esse sono soprattutto in grado di promuovere atteggiamenti dei quali il mondo attuale, scosso da conflitti terribili e sempre più numerosi, ha urgente bisogno, come la tolleranza, il dialogo, il desiderio di conoscere mondi culturali differenti dal proprio.
Promuovere relazioni sane è dunque una delle priorità da garantire in sede educativa, facendo leva su tre aspetti tra loro interconnessi: identità (come conoscenza di sé e della propria vicenda di vita), dignità (non è possibile parlare di sé senza nominare figure rilevanti con le quali si è entrati in contatto, in senso sia positivo sia negativo), e appartenenza (i luoghi che hanno reso possibile la nascita e lo sviluppo di sé). Da questo percorso emerge la responsabilità, il potere che le decisioni di ciascuno comportano, volenti o nolenti, nei confronti di altri: un concetto ripreso in sede etica da Max Weber come capacità di far fronte agli impegni assunti, portando il peso delle conseguenze delle proprie scelte (cfr 49-53).
Un aiuto in questo difficile compito di valutazione di ciò che è importante può giungere anche dall’umorismo, considerato da Freud una difesa matura, una porta d’ingresso spiazzante nella varietà del reale, capace di mostrarne aspetti inediti ma che consentono di affrontare con uno spirito più leggero le difficoltà della vita. Italo Calvino, nelle celebri Lezioni americane, accostava l’umorismo alla leggerezza, intesa non come banalità, bensì come capacità di notare cose che sfuggono allo sguardo superficiale. Il filosofo Henri Bergson, per descrivere la situazione umoristica, ricorre all’immagine del pupazzo nella scatola, che compare come una novità inaspettata, divertendo e spaventando nello stesso tempo, frutto di un’«apertura» a prima vista invisibile, fisica ma anche intellettuale: il riso disvela ciò che era da sempre sotto gli occhi, ma velato; per questo occorreva un aiuto indicatore come la battuta spiritosa[8].
Questa capacità di penetrazione della realtà mostra come l’intelligenza costituisca un aspetto essenziale dell’umorismo, perché è in grado di leggere tra le righe ciò che capita e può facilitare le relazioni, smussare le tensioni, gestire i conflitti, grazie alla capacità di far emergere cose inaspettate in maniera scherzosa, ma arguta: «Il vero umorista non è un osservatore esterno della scena, ma si sente pienamente coinvolto nel gioco, è pronto ad ironizzare sugli altri e su se stesso, come anche che gli altri lo facciano su di lui. La sua capacità di non prendere troppo sul serio la realtà istituzionale in cui vive nasce dalla sua costante attitudine a non prendere troppo sul serio neanche se stesso» (130 s.).
Un messaggio contestatore
La «stanchezza» dell’etica pubblica rivela la grave crisi della politica: una crisi che sembra purtroppo destinata a crescere con l’ondata dei nuovi populismi, che costituiscono una minaccia mortale nei confronti delle istituzioni democratiche (cfr 139-148). Senza una base di valori comuni condivisi, l’edificio della polis finisce per crollare. I populismi infatti rifiutano la complessità, la mediazione, manipolano l’informazione, vivono di contrapposizioni, alimentando l’odio e il pregiudizio, grazie anche all’utilizzo dei nuovi media.
Il vittimismo e il disimpegno sono altrettanti virus mortali per la democrazia: anch’essi proliferano in un clima di crisi della riflessione etica, sono una forma di rinuncia nei confronti dei compiti che la vita presenta, a danno del bene personale e pubblico. Una resa che si mostra nella crescente disaffezione nei confronti della partecipazione politica, che a sua volta incrementa le derive populiste e antidemocratiche. Quando si rinuncia a decidere, altri decidono per noi, e non certo per il nostro bene; di questo ci si accorge spesso troppo tardi, come attesta anche la recente storia del nostro Paese. Come notava un giovane scrivendo ai familiari la notte prima della sua esecuzione capitale da parte del regime fascista: «Non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini e avete il dovere, se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari»[9].
Assumere le proprie responsabilità nei confronti del presente è fondamentale anche per la stima di sé; significa riconoscere di avere un potere nei confronti di ciò che si sta vivendo e che è indispensabile promuoverlo, a livello personale e comunitario. Tale atteggiamento, riprendendo Emmanuel Mounier, può essere promosso mediante cinque verbi: uscire da sé, comprendere, prendere su di sé, dare, essere fedele. Cinque verbi che riassumono il compito di promuovere la giustizia, in particolare nei confronti dei poveri e dell’ambiente (cfr 58-61).
Di fronte a questa difficile ma inevitabile sfida, il compito urgente dell’etica è quello di indicare gli elementi per la formazione di persone credibili, capaci di governare la cosa pubblica e promuovere relazioni all’insegna della fiducia e della collaborazione: «Esiste infatti uno stretto rapporto tra fiducia e cooperazione […]; decido di spendermi per gli altri, all’interno di un’istituzione o di un gruppo, perché mi fido. Dove per fiducia intendiamo fondamentalmente il riconoscere il valore dell’altro» (153), soprattutto circa la capacità di svolgere il compito che gli è stato affidato. Educare alla fiducia significa anche imparare a valutarne l’operato e, se risulta credibile, sostenerlo con i mezzi a propria disposizione. Gli strumenti per offrire il proprio contributo, come si è visto, non mancano.
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[1]. Cfr R. D’Ambrosio, L’etica stanca. Dialoghi sull’etica pubblica, Roma, Studium, 2025. I numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine dell’opera.
[2]. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Roma, Armando, 2007, 262.
[3]. Cfr G. Cucci, «Miti a bassa intensità. Crisi della narrazione e narrazione della crisi», in Civ. Catt. 2020 IV 340–348.
[4]. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1984, 21.
[5]. A. Manenti, Vivere gli ideali. Fra paura e desiderio/1, Bologna, EDB, 1988, 200.
[6]. C. S. Lewis, I quattro amori. Affetto, Amicizia, Eros, Carità, Milano, Jaca Book, 1980, 68.
[7]. Cfr R. Dunbar, How Many Friends Does One Person Need?: Dunbar’s Number and Other Evolutionary Quirks, London, Faber and Faber, 2010, 11 s.; M. Gladwell, The Tipping Point – How Little Things Make a Big Difference, New York, Little Brown and Company, 2000, 177–181.
[8]. Cfr G. Cucci, «Umorismo e vita spirituale», in Id., La forza dalla debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Roma, AdP, 2022, 256 s.
[9]. Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Torino, Einaudi, 1954, 495 s.
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Il Premio Strega 2025
L’incipit più famoso della letteratura occidentale dice: «Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Si tratta ovviamente delle prime due righe di Anna Karenina, di Lev Tolstoj. A tale esordio sembra essersi ispirato il premio Strega 2025, che quest’anno ha premiato, nelle sezioni narrative principali, due romanzi che parlano di famiglie travagliate e ferite: L’anniversario,di Andrea Bajani[1]; e Il giorno dell’ape, di Paul Murray[2].
Andrea Bajani, che era entrato nella cinquina finalista dello Strega già nel 2021 con Il libro delle case[3], quest’anno si è aggiudicato sia il premio Strega Giovani sia il principale premio Strega. È la quarta volta che ciò avviene nella storia del premio, che rappresenta l’appuntamento letterario più atteso all’inizio dell’estate; è anche il terzo anno consecutivo che si dà questa coincidenza, rivelando la significativa tendenza per la quale il gusto e la scelta dei lettori più giovani convergono con quelli dei lettori «adulti», professionisti del settore. Prima di Bajani l’accoppiata era riuscita a Donatella Di Pietrantonio, con L’età fragile nel 2024[4]; ad Ada d’Adamo, con Come d’aria nel 2023[5]; e a Paolo Cognetti, con Le otto montagne nel 2017[6].
Lo scrittore irlandese Paul Murray, invece, si è aggiudicato il premio Strega europeo con Il giorno dell’ape. Questo romanzo, pubblicato nel 2023, era entrato nel sestetto finalista del prestigioso premio inglese Booker Prize di quell’anno ed è stato pubblicato in italiano, tradotto da Tommaso Pincio, nel 2025.
Romanzi di famiglie ferite, le due opere ben rappresentano le anime della narrativa contemporanea, nella disparità della loro ampiezza. L’anniversario è lungo appena 130 pagine; Il giorno dell’ape raggiunge le 650 pagine. Da un lato, vi è la tradizione del romanzo di fiction, ossia dell’opera di finzione dove lo scrittore crea personaggi, situazioni e trame senza ricorrere alla propria biografia. Dall’altro lato, vi è la declinazione oramai imperante di quella forma letteraria che pesca a piene mani nel vissuto degli scrittori e che assume di volta in volta le forme del memoir o dell’autofiction, varianti contemporanee della biografia e parenti dell’anglosassone non fiction novel, di cui il capostipite e il più noto esempio è A sangue freddo, di Truman Capote.
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«L’anniversario», di Andrea Bajani
«L’ultima volta che ho visto mia madre, mi ha accompagnato alla porta di casa per salutarmi». Così inizia l’ultimo libro di Andrea Bajani, sulla cui copertina campeggia la dicitura: «Un romanzo», affermazione di appartenenza al genere letterario e, al tempo stesso, sottotitolo che indica l’operazione di «individuazione» per estrazione della figura materna, protagonista della storia.
In continuità con l’opera precedente, Il libro delle case, si colloca L’anniversario, che percorre nuovamente una storia di affetti familiari. La forza dell’io narrativo fa sorgere nel lettore la domanda su quanto sia «reale» la storia della famiglia «sventurata» descritta ne L’anniversario. Messa da parte questa possibilità, emerge un testo potente, che ha la postura del saggio biografico, che ritaglia con freddezza chirurgica il vissuto emotivo della «malattia psichica» che tiene unita una famiglia, evocando i toni di quell’opera di insuperata crudeltà che fu Lettera a mio padre, di Franz Kafka. La precisione della lingua di Bajani, la sua compostezza e il tono pacato costituiscono un punto di forza (e di bellezza) del «romanzo»; inoltre, assolvono una funzione «apotropaica», tenendo a bada i fantasmi di una materia emotiva altrimenti caldissima.
Lo scrittore costruisce la geometria familiare e vi rimane fedele sino alla fine; nessun nome proprio e solo attribuzioni di ruolo: madre, padre, sorella, nonna materna, nonno materno, nonna paterna. La gerarchia chiarifica e, al tempo stesso, maschera; fornisce la tassonomia delle relazioni e oscura le persone.
Protagonista dichiarata del «romanzo» è la madre, donna timidissima, autodestinatasi all’invisibilità e al silenzio. Viene ricostruita per calco di vuoti, ipotesi di sottrazione: «Non saprei», «non so», «non credo», «non ricordo», «non vedo». Vi è poi il padre, centro decisivo e decisionale della famiglia. La sua è una «centralità» imposta, costruita per lo più con la violenza dei ricatti affettivi e talvolta anche dei gesti fisici di sopraffazione. Protagonista è anche il figlio, voce narrante che ha più a cuore esplorare la verità della famiglia che riportarne il volto reale. Protagonista è la distanza (chiamata «liberazione»), segnata dall’anniversario decennale che viene festeggiato. Ma protagonista è soprattutto una domanda, che sta all’origine del «romanzo»: è possibile «uscire» dalla famiglia? Se l’uscita, della quale nel «romanzo» vengono date le coordinate familiari che l’hanno resa necessaria, coincide con il silenzio, essa ci sembra solo temporanea e possibile in quanto ribadita.
Il «romanzo» non si sottrae a questo equivoco. Costruire un racconto per verificare se sia umano e umanizzante il suo porsi in antitesi con la parola biblica «Onora il padre e la madre» ha dei costi anche narrativi elevati. A fronte di alcuni passaggi di violenza «normalizzata» che addolorano e sbigottiscono, i «genitori di carta» risultano a tratti un po’ monocordi e spiritualmente piatti: lei (quasi) solo invisibile, lui (quasi) solo violenta manipolazione. In un passaggio, Bajani dichiara che la vita familiare è stata anche molto altro: «E persino la bellezza, che naturalmente ricordo, le pizze estive, le camminate in montagna con mio padre, le sere dopo le gare di nuoto, la delicatezza che a tratti gli scorgevo nelle mani, vederlo ballare da solo – certo di non essere visto – davanti allo stereo che suonava, le lettere che ci spediva al mare, la sua dedizione, il suo portarmi sulle spalle, il mio nome pronunciato da mia madre, la spensierata normalità del mio sedermi insieme a lei, in cucina, e dirci cose di nessuna importanza, senza intenzione, quel calore»[7].
Perché non dar voce anche a questa dimensione? Paura di indebolire le ragioni del distacco? Non è per rispetto del tabù del vincolo di sangue o del genus «cattolico e italiano» che timidamente ci arrischiamo a dire che anche le «vie» della letteratura (non solo quelle della vita) si costruiscono più saldamente sui passi della compassione e della tenerezza, che non è collusione, ma sguardo più ampio capace di accogliere il «patologico» in una prospettiva più estesa.
«Il giorno dell’ape», di Paul Murray
Paul Murray, classe 1975, è lo scrittore irlandese che quest’anno si è aggiudicato il premio Strega europeo con il romanzo titanico Il giorno dell’ape. Titanico nelle dimensioni e nelle aspirazioni. L’autore, nato a Dublino nel 1975, ha scritto appena quattro romanzi nell’arco di 20 anni: An Evening of Long Goodbyes (2003); Skippy Dies (2010), tradotto in italiano Skippy muore nel 2010; The Mark and the Void (2015); e The Bee Sting (2023), che è stato tradotto in italiano con il titolo Il giorno dell’ape.
Qual è il momento determinante? Qual è la scelta che inconsapevolmente segna una vita umana? Quando inizia la fine? Di chi è la colpa? Di chi è la responsabilità? In queste domande, che fanno tremare i polsi, ci sembra possa racchiudersi la ricerca narrativa di Murray sui punti di svolta di una vita umana, in un romanzo nel quale si parla della forza dell’amore e della furia della morte, del sacrificio di sé, del disordine tellurico e spietato a cui conducono il dolore e il peccato. Storia irlandese nelle vesti, greca nell’anima, cattolica per radicate convinzioni, e precristiana per l’istinto di difesa contro la violenza del mondo, a cui pur bisogna cercare risposta, forse rifugio, in ogni caso qualche indicazione per non esserne schiacciati.
Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA
Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.
Romanzo nel quale, di fronte alla tentazione di un’avventura extraconiugale, si leva la voce interiore del personaggio, che con chiarezza dentro di sé dice: «Ma è peccato!». Nella lettura delle foglie del tè viene annunciato un destino; nell’immagine del crocifisso, nella notte di fango e di pioggia, si cerca un barlume di salvezza.
Storia contemporanea nei contenuti, il libro affronta il tema della crisi ambientale e delle teorie complottiste, il «survivorismo» di quegli ambienti che diffidano di ogni informazione ufficiale e si preparano alla fine del mondo; dei pericoli del mondo virtuale e dell’accoglienza e dello stigma dell’affettività omosessuale. Storia antica e barbara nell’energia ctonia, terrena e terrestre, che infonde nelle vicende, attraverso alcuni personaggi, potenti nella loro oscurità brutale, nella loro grettezza fisica e morale e nella loro estraneità ai canoni di normalità: condannano e tracciano vie.
Il giorno dell’ape è la storia di una famiglia, composta dal padre Dickie, dalla madre Imelda, dalla figlia diciottenne Cassandra e dal figlio decenne PJ. In modo graduale lo sguardo del lettore è sospinto sotto la superficie apparentemente felice e benestante del nucleo familiare. Nel piccolo paese di provincia, essi costituiscono una famiglia di riferimento sociale e sono invidiati per le loro possibilità economiche. Ciò che però appare in superficie è appena lo smalto di un benessere che non esiste più. La crisi economica ha colpito duramente il paese e la concessionaria di autovetture Volkswagen che costituiva il polmone economico della famiglia.
Con le difficoltà economiche crescenti si fanno più evidenti le crepe nelle relazioni familiari, di coppia tra i genitori e tra figli e genitori. Cassandra – Cass per amici e parenti – e PJ vivono diverse forme di solitudine all’interno delle pareti di casa. Pur amati, la distrazione dei genitori li getta in forme diverse di isolamento. Con lo scorrere delle pagine, un senso crescente di pericolo si insinua e incombe sulla famiglia. L’ampiezza del disordine, mascherato sino a quel momento dal buon nome di famiglia, soprattutto del padre di Dickie, Maurice, un self-made man che vive la dorata pensione in Portogallo, e dal consumismo vorace di Imelda, si rivela e amplifica l’angoscia che, pur nella lettura sempre agile e avvincente, coglie il lettore. Un pezzo dopo l’altro, cadono le scaglie del presente ed emergono le ferite del passato, che sono state solo nascoste e mai curate in profondità, in un crescendo di disfacimento economico, relazionale ed esistenziale.
Il titolo si ispira alla giornata del matrimonio tra Dickie e Imelda, quando accidentalmente un’ape punge sul volto la sposa mentre sta andando alla cerimonia, e per questo per tutto il giorno rimane velata, e non viene scattata nessuna foto.
La struttura dell’opera è peculiare e rende avvincente la lettura. Il romanzo è infatti diviso in cinque capitoli di disuguale lunghezza. Ogni capitolo è segnato dal punto di vista di uno dei protagonisti.
Il primo segue le inquietudini e le ribellioni della giovane Cass, alla scoperta di sé durante l’ultimo anno del liceo, in quella fase della vita nella quale le amicizie danno regola a tutto, umori, scelte, obiettivi.
Il secondo capitolo è invece scritto dal punto di vista di PJ, oggetto di bullismo a scuola e chiuso nel suo mondo di giochi elettronici e messaggi nelle chat dei gruppi che a tali giochi sono legati, nei quali si annidano pericoli e minacce.
Il terzo, il più ampio, è quello caratterizzato dal punto di vista di Imelda. È il più originale a livello stilistico, perché costruito come un flusso di sensazioni e di pensieri senza punteggiatura, e solo il segnale delle lettere maiuscole è l’indicazione della fine delle frasi, tutte brevissime. Questo capitolo, che copre quasi un terzo del romanzo, contiene il lunghissimo flashback che spiega le origini della condizione attuale della famiglia protagonista.
Il quarto capitolo prende in carico il punto di vista di Dickie. La figura scialba, dimessa e ritratta che abbiamo incontrato nei racconti precedenti assume spessore, e del pacifico e un po’ impacciato imprenditore di provincia scopriamo il grande segreto e insieme i sacrifici compiuti.
Il quinto capitolo, infine, raccoglie tutti i protagonisti, e la scelta della seconda persona singolare permette all’autore di presentarceli in parallelo, con una visione quasi panottica. Il senso del dramma incipiente si costruisce nel seguire le quattro schegge, divise e lontane, che convergono, mosse da una tykē (o destino) greca, che porterà alla resa dei conti finale. L’effetto di vertigine come fiamma ascendente è dato dall’abbreviarsi dei paragrafi, cosicché nelle ultime pagine è tutto un saltare da un personaggio all’altro, da uno sguardo e un pensiero all’altro.
Il giorno dell’ape è un unico romanzo, oppure è un romanzo di romanzi? Nei primi quattro capitoli, infatti, il punto di vista è così caratterizzato e l’arco narrativo così sviluppato da poter suggerire al lettore di leggere il libro come la raccolta di quattro romanzi, raccordati nel capitolo finale dalla voce narrante in seconda persona singolare, che esprime una vibrante varietà di toni e sfumature, in distacco e tenerezza. È una voce ipnotica. Si rivolge a ciascuno di loro con affetto e prossimità; sembra voler spiegare a ciascuno dei personaggi come si sono svolte le vicende altrimenti incomprensibili a loro livello. Non è la voce di Dio, ma piuttosto quella del fato, perché vi è anche un fondo di indifferenza. È vicina, ma non partecipa; è intima, ma non è compassionevole. Il giorno dell’ape è un libro tragico, dove la speranza è solo un’attesa della capitolazione finale.
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[1] Cfr A. Bajani, L’anniversario, Milano, Feltrinelli, 2025.
[2] Cfr P. Murray, Il giorno dell’ape, Torino, Einaudi, 2025.
[3] Cfr A Bajani, Il libro delle case,Milano, Feltrinelli, 2021.
[4] Cfr D. Di Pietrantonio, L’età fragile, Torino, Einaudi, 2023.
[5] Cfr A. D’Adamo, Come d’aria, Roma, Elliot, 2023.
[6] Cfr P. Cognetti, Le otto montagne, Torino, Einaudi, 2016.
[7] A. Bajani, L’anniversario, cit., 74.
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Ricordando Pino Daniele
Quest’anno ricorre il decimo anniversario della morte di Pino Daniele, chitarrista e cantante napoletano, conosciuto in tutto il mondo per le sue canzoni e per la sensibilità del suo tocco alla chitarra.
Nato nel 1955 a Napoli, primo di sei figli, ebbe una fanciullezza segnata da una certa povertà, e visse soprattutto grazie al sostegno di due zie, che gli diedero la possibilità di studiare fino al diploma di ragioneria presso l’Istituto Armando Diaz di Napoli. Proprio negli anni della giovinezza cominciò a suonare la chitarra in un contesto, quello partenopeo, in cui già le sonorità più tradizionali della musica popolare si intrecciavano con i ritmi jazz, afro e blues portati dagli statunitensi durante la Seconda guerra mondiale.
Già negli anni Sessanta e Settanta cominciarono i suoi incontri musicali con il percussionista Rosario Jermano, il sassofonista Enzo Avitabile, ma anche l’ascolto dei concerti di Eugenio Bennato, all’epoca nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, come egli stesso racconta[1], mentre si affermava sempre più in lui il desiderio di esprimersi attraverso un nuovo linguaggio della canzone con personali sonorità della chitarra.
Napoli, un sole amaro
Napoli è città che plasma, attira a sé, permea, ma, allo stesso tempo, sfugge agli stereotipi e alle classificazioni ferree e monolitiche, come mostrano tutti i musicisti che non vi sono nati. Ed è proprio da questo luogo che Daniele comincia la sua ricerca musicale, con un primo album intitolato Terra mia (1977), che contiene una delle più intense canzoni dedicate alla sua città e che egli canterà instancabilmente per tutta la sua carriera: «Napule è». In essa sono già contenute quella nostalgia e quella allegria che saranno le tonalità proprie della musica del cantautore napoletano. L’apertura del brano è affidata al pianoforte, che accompagna la melodia creata dal suono melanconico dell’oboe, mentre l’intervento del mandolino conferisce già l’atmosfera partenopea. Il testo della strofa è in continuità con il tono della musica: Napule è nu sole amaro / Napule è addore e’ mare / Napule è na’ carta sporca / E nisciuno se ne importa / E ognuno aspetta a’ sciorta[2]. Napoli, sottolineata attraverso l’anafora, viene descritta attraverso la sinestesia della luce del sole, accostata al gusto dell’amarezza, e da immagini sensoriali, come quella olfattiva del sapore salmastro del mare che si unisce a quella visiva della carta sporca. Ma la città non è solo questo, come si evince dalle altre strofe: Napule è na’ camminata / Int’ e viche miezo all’ate / Napule è tutto nu suonno / E a’ sape tutto o’ munno / Ma nun sanno a’ verità[3]. Il camminare tra i vicoli porta a sognare, a meravigliarsi, a contemplare, ma, allo stesso tempo, nessuno riesce a comprendere totalmente la città.
Il sentimento dell’amarezza, quell’insieme di tristezza e dispiacere viene ripreso anche nell’incipit di un altro storico brano, che dà il nome anche all’album, ossia «Terra mia»: Comm’è triste, comm’è amaro / Sta’ assettato a guardà / Tutt’e ccose tutt’e parole / Ca niente ponno fa’[4]. La terra, non solo quella partenopea, diviene esperienza di attaccamento e di distacco, di presenza e di assenza, di caducità e di limite; tuttavia è anche portatrice di una libertà che è possibile ascoltare nel profondo del cuore umano: Terra mia, terra mia / Tu si’ chiena ’e libbertà / Terra mia, terra mia / I’ mò sento ’a libbertà[5].
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Musica per gli svantaggiati
Anche il secondo album, intitolato semplicemente Pino Daniele e pubblicato nel 1979, è costellato di brani indimenticabili, che verranno sempre cantati da Daniele durante i suoi concerti, come ad esempio «Je so’ pazzo», in cui si inizia già a sentire in modo evidente quello stile che il cantautore stesso definirà come «Tarumbò», ossia una mescolanza di generi come la tarantella, i ritmi latini e il blues, che appartengono alla musica popolare di diversi continenti e che nel suo stile vengono mescolati con armonia, equilibrio e rispetto. Il brano si ispira alla figura di Masaniello, personaggio storico e avvolto da un’aura epica e leggendaria, che nel 1647 fu a capo dell’insurrezione contro il governo spagnolo e divenne simbolo del riscatto napoletano, soprattutto nei quartieri più popolari. La pazzia, legata a un lato della personalità di Masaniello, viene ripresa più volte nella canzone di Daniele per sottolineare l’essere svincolato dalle leggi precostituite da parte dell’artista e come attraverso la canzone si possa affermare il proprio pensiero: Pecché so’ pazzo/ Je so’ pazzo / Ed oggi voglio parlare[6].
È un parlare soprattutto in contrasto con il pensiero più egoistico, dentro il quale si nascondono i propri interessi che alimentano l’esclusione delle categorie più svantaggiate: C’ho il popolo che mi aspetta / E scusate vado di fretta[7]. Non è un caso che, per accompagnare questo testo, Daniele adotti proprio atmosfere musicali che si rifanno al blues, che è proprio la musica originaria degli schiavi afroamericani in cerca di riscatto e di libertà, divenendo simbolo di attenzione per le problematiche sociali e di giustizia. Lo stesso genere musicale è utilizzato anche nella celebre canzone «A me me piace ‘o blues», contenuta nel terzo album del cantautore napoletano, intitolato emblematicamente Nero a metà (1980), proprio per enfatizzare il suo essere legato a una cultura meticcia, dove convergono differenti aspetti musicali e stilistici. Il titolo, infatti, è un omaggio al musicista Mario Musella, nato nel 1945 da un soldato statunitense e da una ragazza napoletana (e dunque un «nero a metà»), non diversamente dall’altro caro amico e musicista che lo ha accompagnato per tutta la carriera artistica, il sassofonista James Senese.
Nel brano il cantautore insiste ancora sulla libertà di parola: A me me piace ‘o blues / E tutt’ ‘e juorne aggi’ ‘a cantà, / Pecchè so’ stato zitto / E mo è ‘o mumento ‘e me sfucà[8]. E se da una parte esprime la durezza davanti alla vita – So’ blues, astregno ‘e diente[9] –, dall’altra sottolinea la dimensione più intima, più fragile, attraverso il verso del ritornello Ma po nce resta ‘o mare[10], che è simbolo di quell’infinito che si sente nel proprio animo e che fa cadere tutte le difese e le offese che spesso l’esistenza provoca.
L’elemento naturale non è mai puramente estetico nella poetica di Daniele, ma diviene aspetto che evoca sentimenti ed emozioni, come nel brano «Quanno chiove», sempre contenuto nell’album Nero a metà, che descrive la giornata di una prostituta nei vicoli di Napoli. L’incipit della canzone è di una profonda delicatezza: E te sento quanno scinne ‘e scale / ‘E corza senza guarda’ / E te veco tutt’e juorne / Ca ridenno vaje a fatica’ / Ma poi nun ridi cchiù[11]. Immediato è il contrasto tra il riso della protagonista mentre esce dalla sua casa e il commento drammatico del cantautore, che afferma: «Poi non ridi più». Esiste un riso di forma, superficiale, nel senso di superficie, che è difesa dagli attacchi della vita, fatto per nascondere la propria condizione.
La prima strofa si conclude con un’altra considerazione: E luntano se ne va / Tutt’a vita accussì / E t’astipe pe nun muri’[12]. Tutta l’esistenza trascorre in questa maniera, allontanandosi; il che non significa soltanto il trascorrere del tempo, ma anche la distanza che si genera a livello di umanità, di speranza e di futuro, come mostra l’espressione conclusiva «E tu ti conservi per non morire». Così il ritornello diviene quasi un rito battesimale, con l’acqua della pioggia che cade, lava e purifica: E aspiette che chiove / L’acqua te ‘nfonne e va / Tanto l’aria s’adda cagna’[13]. Esiste un’attesa di una pioggia che possa pulire, lavare, purificare dalla miseria della vita, con la speranza che ci possa essere una nuova aria, ossia una nuova vita della quale non ci si debba vergognare: Ma passanno quaccheduno / Votta l’uocchie e se ne va[14]. Oltre che nelle parole, si può ascoltare lo sguardo delicato di Daniele attraverso le opzioni musicali che compongono il brano: egli sceglie armonie maggiori, con intervalli a volte di settime maggiori, che conferiscono all’armonia del brano una sensazione più soave e profonda. Così anche la scelta di un assolo di sax, interpretato magistralmente da James Senese, lascia il brano sognante e non concluso, come la speranza di una vita migliore per la protagonista.
La musica dentro il cinema
Il senso dell’attesa e della speranza è contenuto anche in un’altra canzone celebre della fine degli anni Ottanta, intitolata «Anna verrà», contenuta nell’album Mascalzone latino (1989). È la prima canzone scritta di Daniele in lingua italiana. Il brano è dedicato all’attrice Anna Magnani, che ha interpretato il personaggio di «sora Pina» nel film Roma città aperta, con la regia di Roberto Rossellini, come si può vedere anche nel videoclip che accompagna la canzone, in cui sono presenti diverse scene del film neorealista. L’espressione «Anna verrà» scandisce il tempo della composizione musicale e crea un senso di attesa dinamica – Dimmi quando questa guerra finirà – e allo stesso tempo un’urgenza di agire a livello non solo individuale, ma di comunità – Noi che abbiamo un mondo da cambiare –; ed è un «noi» che comprende tutti coloro che hanno una medesima sensibilità, poetica e sognatrice, come mostra il verso Noi che ci emozioniamo ancora davanti al mare.
Il mare, ancora una volta, racchiude un universo polisemico che non può essere totalmente definito per la sua vastità, ma provoca, come davanti alle immagini del film di Rossellini, emozioni che devono essere perseguite per riuscire finalmente a realizzare una realtà più giusta per tutti, come si afferma nel finale della canzone: Raccoglieremo i cani per strada / Ci inventeremo qualche altra cosa / Per non essere più soli, sì, più soli. Il sapersi chinare sull’altro, superando le barriere degli egoismi, il riconoscersi come esseri in relazione, alla ricerca di un’umanità perduta e di una libertà fraterna – sorridere per questa libertà – non sono istanze utopistiche, ma un sentimento profondo, che deve provocare ciascuno. Per tre volte nella canzone si ripete l’espressione Anna, dimmi se è così lontano il mare,che è anche il verso conclusivo: quanto cammino dovrà fare ancora l’uomo per arrivare finalmente a realizzare il sogno di un mondo più giusto, in cui ci sarà un giorno pieno di sole?
Il cinema è stato sempre presente nella vita del musicista napoletano, come si può osservare anche dalla produzione di colonne sonore, in particolare per l’amico e conterraneo Massimo Troisi, per il quale egli ha firmato le musiche di Ricomincio da tre (1981), Le vie del Signore sono finite (1987) e Pensavo fosse amore… invece era un calesse (1991). Celebre rimane nella memoria la battuta ironica del regista: «Tu mi scrivi una canzone e io faccio un film intorno»[15], pronunciata durante l’intervista di Gianni Minà a Massimo Troisi e Pino Daniele nella trasmissione «Alta classe»[16].
Per il film Pensavo fosse amore… invece era un calesse, è famoso il brano «Quando», che, in linea con la difficoltà delle relazioni d’amore tra i protagonisti del film, presenta un testo ermetico ed evocativo, accompagnato da armonie che collegano la musicalità partenopea con quella più specificatamente brasiliana, trasmettendo emozioni comprese tra la nostalgia, nella strofa, e la speranza, nel ritornello. L’avverbio interrogativo «quando», nella strofa iniziale, che suggella il titolo stesso del brano, esprime la fragilità del sentimento d’amore, così come il «dove»: Tu dimmi quando, quando / Dove sono i tuoi occhi e la tua bocca / Forse in Africa, che importa… / Dove sono le tue mani ed il tuo naso / Verso un giorno disperato. Se da un lato troviamo la concretezza dell’amore, identificato con parti anatomiche, dall’altro osserviamo l’aspetto sfuggente descritto come l’Africa, nell’accezione di Paese lontano, e «verso un giorno», che esprime una dimensione futura e incerta. A conclusione delle strofe il verso Ma io ho sete / ho sete ancora manifesta il desiderio mai appagato della relazione, che è la vera essenza dell’essere umano e, allo stesso tempo, la dimensione esistenziale più complessa e fragile; infatti, il verso Siamo angeli / che cercano un sorriso esprime proprio la mancanza (simboleggiata dal sorriso) che si cerca di completare.
Se volessimo proporre un parallelismo biblico, potremmo citare la mancanza che l’uomo sente all’inizio della creazione: «Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gen 2,20). Il senso di incompletezza, che è elemento intrinseco dell’essere umano, spinge a entrare in relazione – come possiamo vedere anche nel mito delle due metà di Platone[17] – , a ricercare ciò che non si possiede, in una dimensione di alterità che non è mai desiderata totalmente, ma sempre sperata.
La musica dell’incontro
La musica di Daniele continua a essere un viaggio intercontinentale, come si può osservare nell’album Non calpestare i fiori nel deserto (1995), in cui si sentono sonorità africane, scale arabeggianti e jazz sulla chitarra, e ritmiche provenienti dal Sud America. Uno dei suoi brani più emblematici è «Un deserto di parole», scritto insieme a un ancora giovane Jovanotti. Il testo riprende l’idea della ricerca dell’amore già vista in «Quando»: È un deserto questo amore / Per cercare l’acqua ho camminato / Sotto un cielo stellato / Nel deserto nasce un fiore / Fiore della vita la speranza non è finita.
Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA
Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.
La sete di affetti continua attraverso la scelta di due termini, di per sé agli antipodi, che servono all’ascoltatore per comprendere la forza del messaggio: il deserto e l’acqua. La speranza rimane nel saper vedere la bellezza di un fiore che nasce in un luogo inatteso, una metafora che può comprendere molteplici aspetti su ciò che è veramente importante nella vita, come mostra la strofa scritta e cantata da Jovanotti, nel suo inconfondibile stile rap: È un tamtam da un capo all’altro / Del continente, un passaparola di suoni che unisce / La gente che cerca in questo deserto un po’ / D’acqua da bere e la trova… È la cultura che / Si rinnova e si sviluppa dove ha più sofferto / Non calpestare i fiori nel deserto!
L’unione della gente, o meglio dei popoli, anche geograficamente e culturalmente diversi tra loro, è il tema che Daniele sviluppa nel brano «I buoni e i cattivi», contenuto nell’album Come un gelato all’Equatore (1999) e che, musicalmente, continua quell’idea di contaminazione tra differenti generi e stili musicali. Lo testimonia anche la partecipazione di musicisti di fama internazionale alla registrazione dell’album, quali il bassista Pino Palladino e il percussionista Mino Cinelu. Se nella musica è molto più immediato e naturale far sì che le culture, anche differenti, si possano incontrare e dialogare, ben più arduo invece è l’incontro tra i popoli in maniera non contrastante, ma accogliente. Significativi sono i versi della canzone: Suona, chitarra suona nella notte scura / Sulle mura di una città assediata / Dall’occidente che ha paura / Di tutto quello che è diverso. Sembra che la chitarra – una metonimia per riferirsi a tutta la musica, ma che per il cantautore napoletano è lo strumento più personale – risuoni solo per affermare che un mondo includente, rispettoso, privo di timori sia possibile.
La musica diventa la luce nella «notte scura», una speranza che si spinge oltre i muri e le barriere che sono stati innalzati lungo la storia e le diverse geografie. Il compito dell’artista, dunque, è quello di trasmettere i valori insiti nella musica, che sono quelli del mistero della vita e del rispetto e del dialogo: Mistica mistica, etnica etnica / Jazz and free, r’n’b, blues in g. L’artista nel suo canto comunica e diffonde questi ideali, come Daniele canta sul finire del brano, con un inno all’amore: Suona, chitarra suona questa notte / Suona e dille che io l’amo ancora / E che non scordo nemmeno una parola / Di quello che mi ha detto / What we need it’s only love love / It’s only what we need.
Gli anni 2000 sono stati caratterizzati dalla grande amicizia e dalla collaborazione con cantanti italiani (Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia, Ron, Giorgia, Mina, Franco Battiato ecc.) e musicisti stranieri, come ad esempio il maliano Salif Keïta, per l’album Medina (2001), il percussionista Karl Potter in «Iguana cafè» (2005), Al Di Meola in «Ricomincio da 30», o Eric Clapton in alcuni concerti.
Daniele insiste ancora sul tema dell’incontro di fronte a una realtà che sembra sempre più distanziarsi dall’idea del reciproco rispetto. In «Gente di frontiera», che fa parte dell’album Medina, dove sono ancora ben presenti sonorità mediterranee, egli canta: Siam tutti gente di frontiera / Cerchiamo un’altra primavera. L’idea di frontiera appartiene a tutte le popolazioni e non costituisce un confine invalicabile, ma forse proprio un luogo esistenziale in cui è possibile avvicinarsi senza timore, cercando germogli di «primavera», ossia di rinascita e di nuova umanità. E se il mondo sembra andare nella direzione opposta, l’artista rifiuta l’idea che non sia possibile un reale rapporto di rispetto con l’altro: Se a voi sta bene così / A me non mi basta,essendo consapevole che questo cammino di umanità è complesso e impegnativo, Anche se domani anche se domani / Sarà un altro giorno duro.
Nel 2012 Daniele pubblica quello che sarà il suo ultimo lavoro, intitolato La grande madre, ventunesimo album in studio, nel quale si avvale di musicisti del calibro del batterista statunitense Steve Gadd, del percussionista francese Mino Cinelu e del sassofonista britannico Mel Collins. Lo stesso cantautore napoletano definisce così il suo lavoro discografico: «Per me la Grande Madre è il sangue misto nella musica, è il cordone ombelicale che ci lega ai quattro elementi del pianeta, è il codice per entrare a far parte della rinascita ed il rinnovamento dello spirito ogni qual volta le note cercano di comunicare: rinnovarsi attraverso la terra, camminare a piedi nudi per sentirne l’energia, la sensazione di sentire l’acqua sulla pelle bagnandosi le mani, attraversare il fuoco con il suono, ascoltare il vento dell’innovazione, sentirsi parte di un universo che non ha confini. La ricerca della Grande Madre è il viaggio che ognuno spera di intraprendere per un futuro migliore»[18].
Di nuovo ritmi latini e sonorità mediorientali si intrecciano con chitarre elettriche, colori blues, creando un marchio di fabbrica proprio di Daniele. Il camminare, sia nell’accezione letterale di passare da un Paese all’altro sia in quella metaforica del cammino di interiorità dell’essere umano, sembra essere uno dei fili conduttori dell’intero album.
Nella canzone «Due scarpe» – Due scarpe camminano insieme / Ognuna ha una storia diversa – si richiama metaforicamente il senso della vita, relazionale e individuale allo stesso tempo, a contatto con una realtà complessa e che mette alla prova: Il mondo ha l’abitudine di essere crudele. E queste scarpe, che simboleggiano il cammino dell’uomo, che una volta erano nuove scintillanti,rimangono ancorate agli affetti, anche quelli più semplici e genuini – Ma a volte basta poco / Basta dirsi «Come va»? – esprimendo, nella semplicità, il riconoscimento dell’importanza dell’esistenza dell’altro.
Nel brano «Searching for the Water of Life»[19], il cui testo è stato scritto da Kathleen Hagen, si passa, invece, a un cammino attraverso il «fuoco» della guerra, che porta a vedere l’orrore e il dolore soprattutto nei bambini, a cui si interrompe la crescita serena a causa della violenza dei conflitti, che impediscono di correre al ritmo del cuore e cercare l’acqua della vita, come si canta nella strofa: Walking into the desert passing through the fire / Watching other children, looking at their smiles / Running to the heart beat, drumming on for miles / Searching for the water of life[20].
L’ultimo brano dell’album, «I Still Love You», sembra suggellare l’idea dell’umanità di Daniele, nella semplicità e profondità di un pensiero che racchiude una ricerca musicale ed esistenziale capace di abbracciare infinite culture e modi di pensare e di suonare: C’è una risposta sola / A tutto quello che non so / Una carezza che vola / Con gli aquiloni in un giorno di vento / Io ci sarò, tu ci sarai / Con gli occhi verso il cielo. La ricerca esistenziale sembra placarsi – ma non arrendersi – attraverso la bellezza di un gesto semplice come una carezza, che comunica la certezza di una presenza che è bisogno e necessità umana. La carezza è il segno dell’affetto, di un amore che non è possesso, ma reciprocità, alterità e intimità; gli occhi verso il cielo, inoltre, comunicano che esiste un mistero in questo amore, che non è mai compreso totalmente, ma che forse è segno di un infinito che attendiamo.
Conclusioni
La musica di Pino Daniele sgorga così dalla sua geografia e dalla sua iniziale condizione sociale, attraverso la quale egli ha sperimentato la fatica del vivere. Queste esperienze esistenziali hanno contribuito a incanalare la sua creatività artistica, portandolo a intraprendere strade in cui la musica e la relazione con l’altro sono diventate fondanti e fondamentali. I generi musicali che ha saputo armonizzare – tra musica partenopea, ritmi afro-jazz, blues, pop e rock – sono il frutto di un rispetto per le molteplici culture del mondo e per la dignità di ogni persona umana. L’amore, nelle sue complesse sfaccettature, è il tema che egli ha saputo declinare nelle sue canzoni, vedendo l’ampiezza e la profondità del sentimento umano, così arduo e difficile da decifrare.
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[1] Cfr «Oggi è un altro giorno – Eugenio Bennato e il rapporto speciale con Pino Daniele: La confessione dopo anni», in Topic News (topicnews.it), 26 dicembre 2021.
[2] Napoli è un sole amaro / Napoli è odore di mare / Napoli è una carta sporca / E a nessuno gliene importa / E ognuno aspetta la fortuna.
[3] Napoli è una passeggiata / Tra i vicoli in mezzo agli altri / Napoli è tutta un sogno / E la conosce tutto il mondo / Ma non sanno la verità.
[4] Com’è triste com’è amaro / Star seduto e guardare / Tutte le cose e tutte le parole / Che nulla possono fare.
[5] Terra mia, terra mia / Tu sei piena di libertà / Terra mia, terra mia / Io adesso sento la libertà.
[6] Perché sono pazzo / Io sono pazzo / E oggi voglio parlare.
[7] Ho il popolo che mi aspetta / E scusate vado di fretta.
[8] A me piace il blues / E tutti i giorni devo cantare, / Perché sono stato zitto / E ora è il momento di sfogarmi.
[9] Perché sono blues e stringo i denti.
[10] Ma poi ci rimane il mare.
[11] E ti sento quando scendi le scale / Di corsa e senza guardare / E ti vedo tutti i giorni / Mentre ridendo vai a lavorare / Ma poi non ridi più.
[12] E lontano se ne va / Tutta la vita così / E tu ti conservi per non morire.
[13] E aspetti che piova / L’acqua ti bagna e se ne va / Tanto l’aria si deve cambiare.
[14] Ma qualcuno passa / Volta lo sguardo e se ne va.
[15] «Pino Daniele, Massimo Troisi e Gianni Minà – In un pezzo di televisione inimitabile – Alta Classe», in youtube.com/watch?v=500s7Mg_mZ…
[16] Puntata andata in onda il 21 gennaio 1992.
[17] Cfr Platone, Simposio, 191a: «Dopo che la natura umana fu divisa in due parti, ogni metà per desiderio dell’altra tentava di entrare in congiunzione e cingendosi con le braccia e stringendosi l’un l’altra».
[18] pinodaniele.com/music/la-grand…
[19] Il brano è stato composto in favore dell’associazione umanitaria «Save the Children», per supportare la campagna «Every one» per contrastare la mortalità infantile nelle zone più povere dell’Africa.
[20] Camminare nel deserto passando attraverso il fuoco / Guardare altri bambini, guardare i loro sorrisi / Correre al ritmo del cuore, tamburellare per miglia / Cercare l’acqua della vita.
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«Sirât», un’odissea spirituale
Chi decide di intraprendere la visione di Sirât deve prepararsi a un’autentica «discesa agli inferi»: un’esperienza cinematografica intensa, a tratti dolorosa, capace di toccare corde profonde. Fin dalle parole iniziali, il film di Óliver Laxe (Spagna, Francia, 2025) mette in guardia lo spettatore: «Sirât è il ponte tra paradiso e inferno, sottile come un capello e affilato come una lama». È l’inizio di un viaggio allucinato e poetico, che ci trascina nel cuore del deserto marocchino, dove si snoda la storia drammatica di un padre e di un figlio alla ricerca della figlia-sorella scomparsa da mesi. In un contesto surreale e incandescente, i due protagonisti si imbattono in una carovana nomade di ravers, pellegrini della techno, che si spostano di festa in festa. Con loro, padre e figlio intraprendono un’odissea che attraversa lande arse dal sole, tra momenti di trance techno e allucinazioni sonore.
La regia è firmata da Óliver Laxe (1982), cineasta franco-spagnolo, già noto nei circuiti festivalieri per il suo cinema dal taglio poetico e contemplativo, denso di suggestioni spirituali e sensoriali. In un’intervista di qualche anno fa, egli dichiarava: «Appartengo a una generazione di persone che sono libere di confrontarsi con la religione e la spiritualità senza alcun timore. Siamo a nostro agio. Ma non abbiamo fiducia in questo mondo. Per me la religione, la spiritualità, la fede sono la stessa cosa: l’arte»[1].
Tra i nomi più promettenti del panorama internazionale, Laxe ha ottenuto importanti riconoscimenti, in particolare al Festival di Cannes, dove ha esordito nel 2010 con You All Are Captains (Todos vós sodes capitáns), Premio FIPRESCI, per poi affermarsi con Mimosas (Grand Prix Nespresso – Semaine de la Critique, 2016) e O que arde (Fire Will Come, 2019), favola ecologica selezionata nella sezione Un Certain Regard.
Con Sirât, il suo quarto lungometraggio, presentato in concorso a Cannes 2025 e vincitore del Premio della Giuria, Laxe conferma il suo stile personale e ardito, premiato per la forza espressiva e l’audacia artistico-narrativa.
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Un viaggio impossibile
Dalle prime inquadrature emergono con forza due degli elementi centrali del film: la controcultura techno-rave e il deserto. La macchina da presa segue la preparazione rituale degli altoparlanti in uno scenario aspro e roccioso. Le casse, disposte con simmetria quasi sacra, disegnano un’architettura effimera che contrasta con la maestosità del paesaggio naturale. Poi, la techno irrompe con forza martellante: il rave inizia, la musica invade lo spazio, e i corpi in trance danzano come posseduti.
Tra i sei ravers presentati dai titoli di testa, spiccano due figure fuori posto: Luis, padre dall’aspetto piccolo-borghese e dal passo incerto, e il piccolo Esteban, figlio al seguito con tanto di cagnolino. Animati da molta speranza e da non troppa convinzione, essi sono alla ricerca della figlia, una raver scomparsa alcuni mesi prima. Portano con sé una foto della giovane, ma nessuno pare conoscerla. Nonostante i silenzi, i due proseguono nella speranza di trovarla a un altro rave, forse in un altro punto del deserto.
Quando un gruppo di militari interrompe la festa a causa dello scoppio di un grave conflitto dai contorni vaghi e imprecisi, i ravers europei sono costretti a rientrare nei rispettivi paesi. Alcuni irriducibili techno-lovers riescono però a sfuggire al controllo e si dirigono verso un nuovo rave. Padre, figlio e cane decidono di seguirli. Senza troppe esitazioni, si uniscono alla carovana in fuga, intraprendendo un’avventura che sfida la logica e il buon senso. E inizia un viaggio impossibile.
Verso dove?
Il film sfugge a una classificazione univoca: pur partendo dal racconto tipico del road movie, mescola abilmente elementi del film d’azione, del dramma, del giallo, del thriller e persino del western. La musica, protagonista quanto i personaggi, e l’ambiente naturale, insieme a una trama che devia spesso in direzioni inattese, rendono impossibile ridurre l’opera a un’unica etichetta. Piuttosto, ci troviamo di fronte a un corale e folgorante cammino di formazione collettivo, che coinvolge profondamente anche lo spettatore, trascinandolo in un’esperienza tanto fisica quanto spirituale, spesso destabilizzante.
Il viaggio, elemento centrale della narrazione, è enfatizzato da alcune inquadrature che interrompono brevemente l’azione per mostrarci strade, carreggiate e binari in movimento: frammenti sospesi che suggeriscono un percorso anche interiore, dai toni quasi metafisici.
Il deserto – magnificamente filmato, con echi visivi che ricordano Zabriskie Point, di Michelangelo Antonioni – e la musica, particolarmente invasiva e potente nella prima parte del film, contribuiscono a rendere l’esperienza sensoriale intensa. Ed è proprio qui che risiede la forza del film: trasformare un viaggio concreto, fatto di corpi e paesaggi, in un percorso spirituale.
Il cuore del racconto è l’incontro tra due mondi apparentemente inconciliabili: da un lato, un gruppo di ravers, ai margini della società e appartenenti a un universo profondamente controculturale; dall’altro, un nucleo familiare tradizionale, rappresentato dalla relazione padre-figlio. Due realtà inizialmente parallele, ma entrambe tratteggiate con autenticità, attraverso rapide ma incisive pennellate emotive. Il loro cammino – e la reciproca trasformazione – prende forma in modo graduale.
Il film colpisce anche per l’affresco vivido e realistico della scena rave. Non si tratta di una rappresentazione idealizzata: lo sguardo del regista non giudica, ma non nasconde nemmeno gli aspetti più problematici, come l’uso di sostanze stupefacenti. Tuttavia emerge con forza anche la dimensione comunitaria di solidarietà e di condivisione, che i protagonisti, Luis ed Esteban, imparano a riconoscere e accogliere.
Il coinvolgimento emotivo è rafforzato dalla scelta del cast. A eccezione del protagonista Luis – interpretato con grande intensità da Sergi López –, il regista Laxe si affida ad attori non professionisti, provenienti da vere comunità rave. Questo contribuisce a una carica espressiva genuina, che rende ancora più potente il ritratto offerto. Particolarmente toccante è la presenza di alcuni interpreti privi di un arto, feriti nel corpo, ma vitali nella danza, in un’espressione di resilienza che colpisce. Queste mutilazioni, se da un lato suggeriscono ferite interiori legate a una difficile integrazione sociale, dall’altro mostrano la forza di chi, attraverso la danza e la comunità, trova una via per esistere. Una vulnerabilità esibita, che non limita ma rivela, una ricerca autentica di senso, un desiderio profondo che merita ascolto.
Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA
Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.
Paradiso o inferno?
Il percorso fisico e spirituale del nuovo gruppo prende direzioni inaspettate e sconvolgenti. Viene da chiedersi se si tratti davvero di un cammino verso la salvezza, o piuttosto di una discesa verso la dannazione.
La profonda ricerca spirituale personale del regista, che si confronta con la religione islamica, e il potente concetto metafisico evocato dal titolo spalancano molteplici orizzonti di riflessione. Sirât è il ponte dell’escatologia islamica che collega l’inferno al paradiso e che ogni anima deve attraversare dopo la morte. Questo riferimento apre alla possibilità di leggere il film come un viaggio di purificazione.
Senza incasellare l’opera in un’unica interpretazione ma rispettando la coerenza narrativa e stilistica, lo spettatore può accostarsi al film con uno sguardo teologico, dialogando con riferimenti simbolici provenienti da varie tradizioni religiose. In questa ottica, le immagini e la narrazione si prestano a essere lette attraverso lenti bibliche, arricchendo l’esperienza visiva con risonanze letterarie profonde. D’altronde, in termini generali, sono numerosi i riferimenti alla Bibbia che, entrati ormai nella cultura collettiva, evocano dimensioni universali dell’esperienza umana.
In relazione al film, colpisce nei primi minuti un’inquadratura particolarmente suggestiva: su una parete rocciosa, nel buio della notte, delle luci proiettano una scala gigante che sembra unire cielo e terra. L’immagine, potentemente evocativa, renderebbe forse superfluo ogni commento, ma agli occhi di un lettore biblico può richiamare simboli noti: la Torre di Babele (cfr Gen 11,1-9)? La scala di Giacobbe (cfr Gen 28,11-19)? Entrambi i riferimenti alludono al desiderio umano di entrare in contatto con il divino, e i relativi testi biblici aprono a interpretazioni ricche e stratificate sui rischi e le promesse di questo anelito spirituale. Il film di Laxe può divenire così testimone, con il suo racconto profondamente sensoriale e incarnato, di questa ricerca eterna, da parte dell’uomo, di una realtà altra, metafisica. Il dialogo incrociato tra simboli religiosi, letterari e immagini cinematografiche genera un fecondo scambio di significati.
Sulla stessa linea si inserisce un altro topos biblico e universale: l’attraversamento del fiume. Nelle prime sequenze, Luis ed Esteban si trovano ad affrontare un guado. Per i mezzi potenti dei ravers l’ostacolo è facilmente superabile, ma per la loro vecchia auto l’impresa si rivela impossibile. La traversata sarà possibile solo grazie al ritorno delle carovane rave, che li aiuteranno a proseguire, rafforzati, nel loro cammino. Impossibile non pensare all’archetipo dell’attraversamento come momento iniziatico, così centrale nella Bibbia. È il caso del passaggio del Mar Rosso (cfr Es 14, ripreso anche dal Corano), simbolo per eccellenza di liberazione dalla schiavitù, e dell’attraversamento del Giordano (cfr Gs 3), preludio alla terra promessa. Entrambi nella tradizione cristiana sono stati letti come prefigurazioni del battesimo, del passaggio dalla vecchia alla nuova vita, dall’oscurità alla luce.
In questo contesto, risaltano i vaghi accenni del film a un possibile terzo conflitto mondiale appena esploso. Se il mondo lasciato alle spalle sembra incapace di costruire vie di pace, dove può vagare l’essere umano per cercare senso? Quali sentieri intraprendere? Se la fuga dalla realtà e dalle sue regole appare come una possibile risposta – in sintonia con la controcultura rave –, l’ultima scena del film sembra suggerire un’alternativa: un gruppo di persone provenienti da culture diverse si ritrova unito in un silenzio corale – in netto contrasto con il sound intenso dell’inizio –, in cammino verso un nuovo orizzonte.
Il cammino di evoluzione narrativa coinvolge anche uno dei protagonisti invisibili del film: la musica. Se all’inizio essa è invasiva, quasi dissonante, col procedere della narrazione si fa più delicata, intima, risonante. Questa evoluzione sonora accompagna lo spettatore in un viaggio che non è solo geografico, ma interiore. In questo cammino, spicca una scena apparentemente marginale, ma densa di significato: una raver entra in una tenda nel cuore del deserto. In modo quasi surreale, vi trova un tavolino e una televisione accesa. Sullo schermo scorrono immagini di pellegrini che girano attorno alla Mecca: un movimento armonioso, ritmico, che evoca un ordine superiore e un’unità spirituale. È una danza sacra, un rito che supera l’individuo e si apre verso il trascendente.
* * *
Sirât resta un film affascinante, un’intensa esperienza sensoriale ed emotiva, ma anche profondamente spirituale. E non va sottovalutato lo sforzo – sincero e consapevole – di restituire con autenticità l’universo rave, con le sue contraddizioni, le sue energie e le sue aspirazioni.
Si potrebbero criticare l’inverosimiglianza di alcune scelte narrative – un padre con un figlio piccolo nel cuore di un rave party –, o la dispersione di una trama che sembra talvolta vagare senza direzione precisa, tralasciando di approfondire temi importanti come il rapporto padre-figlio o il confronto tra universi culturali. Eppure, Sirât riesce a coinvolgere, a scuotere, a interrogare profondamente. Attraverso un vero e proprio «racconto sensoriale» – in cui il dolore di una storia impossibile prende forma nel deserto bruciato dal sole e nella musica destabilizzante – il film trascina lo spettatore in un viaggio che sfiora gli inferi, ma in cui affiora anche una luce. È proprio grazie a questa intensità percettiva che ciò che normalmente resta invisibile comincia a delinearsi. In fondo, «chi impara realmente a vedere, si avvicina all’invisibile»[2].
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[1] N. Rapold, «Cannes Interview: Oliver Laxe», in Film Comment (filmcomment.com/blog/cannes-in…), 5 luglio 2016.
[2] P. Celan, Microliti, Milano, Mondadori, 2020, 101, citato in Francesco, Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione, 17 luglio 2024.
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Papa Leone XIV incontra La Civiltà Cattolica
Giovedì 25 settembre 2025, papa Leone XIV ha ricevuto in udienza, nella biblioteca privata del Palazzo Apostolico, p. Arturo Sosa S.I., Preposito generale della Compagnia di Gesù, e p. Nuno da Silva Gonçalves S.I., direttore de «La Civiltà Cattolica». Dopo questo colloquio, presso l’Aula del Concistoro, il Pontefice ha incontrato il Collegio degli scrittori insieme agli altri padri della comunità dei gesuiti, alla comunità delle suore e ai collaboratori della rivista e della comunità. Per l’occasione, il Collegio degli scrittori ha voluto donare al Santo Padre una raccolta di scritti su Sant’Agostino apparsi negli ultimi settant’anni sulla rivista.
Di seguito il messaggio di papa Leone XIV, le immagini e il video integrale dell’udienza.
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Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La pace sia con voi!
Buongiorno e grazie per la pazienza!
A pochi mesi dall’inizio del Pontificato, sono contento di accogliere voi, membri del Collegio degli scrittori e collaboratori della rivista “La Civiltà Cattolica”. Saluto il Preposito Generale, che gentilmente ci accompagna in questa udienza.
Questo incontro si svolge nel 175° anniversario della fondazione de “La Civiltà Cattolica”. Colgo dunque l’occasione per ringraziare tutti voi per il servizio così fedele e generoso che per tanti anni avete prestato alla Sede Apostolica. Il vostro lavoro ha contribuito – e continua a farlo – a rendere la Chiesa presente nel mondo della cultura, in sintonia con gli insegnamenti del Papa e con gli orientamenti della Santa Sede.
Qualcuno ha definito la vostra rivista “una finestra sul mondo”, apprezzandone l’apertura, e davvero una sua caratteristica è quella di sapersi accostare all’attualità senza temere di affrontarne le sfide e le contraddizioni.
Potremmo individuare tre aree significative del vostro operato su cui soffermarci: educare le persone a un impegno intelligente e fattivo nel mondo, farsi voce degli ultimi, essere annunciatori di speranza.
Circa il primo aspetto, ciò che scrivete può aiutare i vostri lettori a comprendere meglio la società complessa in cui viviamo, valutandone potenzialità e debolezze, nella ricerca di quei “segni dei tempi” alla cui attenzione ci ha richiamato il Concilio Vaticano II (cfr Cost. past. Gaudium et spes, 4). E ciò li metterà in grado di dare apporti validi, anche a livello politico, su temi fondamentali come l’equità sociale, la famiglia, l’istruzione, le nuove sfide tecnologiche, la pace. Con i vostri articoli, voi potete offrire a chi legge strumenti ermeneutici e criteri d’azione utili, perché ognuno possa contribuire alla costruzione di un mondo più giusto e fraterno, nella verità e nella libertà. Come diceva San Giovanni Paolo II, il «ruolo della Chiesa, che voi siete chiamati ad amplificare e diffondere, è quello di proclamare il vangelo della carità e della pace, promuovendo la giustizia, lo spirito di fraternità e la consapevolezza del destino comune degli uomini, premesse indispensabili per la costruzione dell’autentica pace tra i popoli» (Discorso alla comunità della rivista “La Civiltà Cattolica”, 22 aprile 1999, 4).
Questo ci porta al secondo punto: farsi voce dei più poveri e degli esclusi. Papa Francesco ha scritto che, nell’annuncio del Vangelo, «c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 195). Farsi voce dei piccoli è dunque un aspetto fondamentale della vita e della missione di ogni cristiano. Esso richiede prima di tutto una grande e umile capacità di ascoltare, di stare vicino a chi soffre, per riconoscere nel suo grido silenzioso quello del Crocifisso che dice: «Ho sete» (Gv 19,28). Solo così è possibile farsi eco fedele e profetica della voce di chi è nel bisogno, spezzando ogni cerchio di isolamento, di solitudine e di sordità.
E veniamo al terzo punto: essere messaggeri di speranza. Si tratta di opporsi all’indifferentismo di chi rimane insensibile agli altri e al loro legittimo bisogno di futuro, come pure di vincere la delusione di chi non crede più nella possibilità di intraprendere nuove vie, ma soprattutto di ricordare e annunciare che per noi la speranza ultima è Cristo, nostra via (cfr Gv 14,6). In Lui e con Lui, sul nostro cammino non ci sono più vicoli ciechi, né realtà che, per quanto dure e complicate, possano fermarci e impedirci di amare con fiducia Dio e i fratelli. Come ha scritto Benedetto XVI, al di là di successi e fallimenti, io so che «la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’Amore» (Lett. enc. Spe salvi, 35), e perciò trovo ancora e sempre il coraggio di operare e di proseguire (cfr ibid.). È un messaggio importante questo, specialmente in un mondo sempre più ripiegato su sé stesso.
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P. Nuno Gonçalves S.I., direttore de La Civiltà Cattolica, dona una copia del libro «Agostino» a papa Leone XIV (© Vatican Media)
Carissimi, concludendo vorrei ancora ricordare le parole che Papa Francesco vi ha indirizzato, poco prima di lasciarci, in occasione dell’inizio ufficiale del vostro “giubileo di fondazione”: «Vi incoraggio – scriveva – a proseguire nel vostro lavoro con gioia, mediante il buon giornalismo, che non aderisce ad altro schieramento se non a quello del Vangelo, ascoltando tutte le voci e incarnando quella docile mitezza che fa bene al cuore» (Messaggio al direttore de “La Civiltà Cattolica” nel 175° di pubblicazione, 17 marzo 2025: “L’Osservatore Romano”, 2 aprile 2025, p. 5).
E in un’altra occasione disse, riferendosi al nome del vostro periodico: «Una rivista è davvero “cattolica” solo se possiede lo sguardo di Cristo sul mondo, e se lo trasmette e lo testimonia» (Discorso alla comunità de “La civiltà cattolica”, 9 febbraio 2017). Ecco la vostra missione: cogliere lo sguardo di Cristo sul mondo, coltivarlo, comunicarlo, testimoniarlo. Condividendo appieno le parole del mio compianto Predecessore, di nuovo vi ringrazio, vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e vi benedico di cuore. Grazie!
* * *
Il video integrale dell’udienza:
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Diritto e fede: Rosario Livatino, un esempio per gli operatori di giustizia
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È il 21 settembre del 1990 quando sulla Strada Statale 640, in Sicilia, il giudice a latere delle misure di prevenzione del Tribunale di Agrigento viene raggiunto da quattro sicari assoldati dalla nascente Stidda agrigentina, mentre si sta recando a lavoro senza scorta, a bordo della sua vecchia Ford Fiesta color amaranto. Dopo essere stato speronato dall’auto dei killer, il giudice tenta la fuga a piedi, attraverso i campi, ma viene raggiunto e freddato a colpi di pistola. Un volto sconosciuto ai più, quello di Rosario Livatino, che da quel giorno avrebbe fatto parlare di sé per molto tempo. Un giudice «ragazzino» – un appellativo che a quel tempo scatenò non poche polemiche – che ha saputo coniugare fede e impegno nella propria professione, diventando un testimone del Vangelo in una terra martoriata dalla criminalità organizzata. Non è un caso, infatti, che papa Francesco abbia voluto che il Giubileo degli operatori di giustizia si tenesse proprio a ridosso del 35° anniversario della sua morte.
«Nel suo servizio alla collettività come giudice integerrimo, che non si è lasciato mai corrompere, si è sforzato di giudicare non per condannare ma per redimere. Il suo lavoro lo poneva sempre sotto la tutela di Dio, per questo è diventato testimone del Vangelo fino alla morte eroica. Il suo esempio sia per tutti, specialmente per i magistrati, stimolo ad essere leali difensori della legalità e della libertà»[1].
Papa Francesco
«Ricordo che venne un dipendente a dirmi “hanno ucciso un magistrato di Agrigento”. Francamente non pensai a Rosario Livatino, anche perché il suo modo di gestire le funzioni e il suo modo di esercitare la giurisdizione non potevano giustificare un atto così crudele. Successivamente, la stessa fonte mi venne a chiarire che si trattava di Rosario e allora andai sul posto e lo trovai a terra, coperto da un lenzuolo». È la voce di Salvatore Cardinale, oggi magistrato in pensione, a raccontare l’incredulità di tanti nei confronti dell’omicidio di Livatino. «Ciò che ci dicono le sentenze della Corte d’Appello di Caltanissetta – racconta Cardinale – è che egli fu ucciso per questa smania di questa nuova organizzazione nascente, la Stidda, di presentarsi sul palcoscenico del crimine e accreditarsi sia nei confronti dell’opinione pubblica sia nei confronti della mafia, della quale sostanzialmente voleva prenderne il posto, anche se inizialmente forse cercava un’alleanza.L’uccisione di Rosario ci turbò maggiormente proprio perché Rosario era un magistrato e un uomo particolare».
Cardinale è stato sostituto procuratore della Repubblica di Agrigento e di Caltanissetta, Presidente di Sezione penale e di Corte d’Assise presso il Tribunale di Agrigento, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Enna e Presidente della Corte di Appello di Caltanissetta, una corte di tanti martiri di giustizia, tra cui lo stesso beato Livatino. «Ho conosciuto Rosario nel 1979, quando egli prese servizio come prima sede e con la qualifica di sostituto presso la Procura della Repubblica di Agrigento – racconta Cardinale -, l’ufficio giudiziario dove io già svolgevo analoghe funzioni da sei anni. Ben presto il rapporto di lavoro diventa anche un rapporto amicale che non si interruppe, sebbene io nel 1988 mi fossi trasferito ad altra sede giudiziaria. Egli è stato un cittadino esemplare, che nei rapporti sociali non fece mai pensare le funzioni che svolgeva. Un amico discreto ma sempre presente, disponibile all’ascolto. Un magistrato che suscitava fiducia per la sua indipendenza, la sua professionalità, lo scrupolo con il quale conduceva le sue indagini, l’attenzione alla ragione della difesa degli inquisiti».
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«Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili», diceva il beato Livatino, ucciso dalla mafia a soli trentotto anni. Ma cosa ha da dire la sua figura agli operatori di giustizia di oggi e a quanti intendono intraprendere questa carriera professionale? «All’indomani della sua uccisione, terminate le cerimonie ufficiali con le più alte cariche dello Stato, la figura e il sacrificio di Rosario Livatino subirono ciò che era già accaduto in Sicilia per altri colleghi che avevano condiviso con lui lo stesso destino, cioè silenzio e oblio – continua Cardinale -. Lo si deve all’impegno della professoressa Ida Abate, che era stata insegnante al liceo di Rosario, se dopo vari anni questa nebbia che avvolgeva la storia di Rosario man mano si è diradata. Così è apparsa in tutta la sua grandezza la grande personalità del martire. È stato conosciuto il suo pensiero sui temi della giustizia e della fede, che a distanza di decenni continuano ad essere un faro per i giovani magistrati, ai quali ha lasciato questo ammonimento, cito le parole di Rosario Livatino: “Il giudice di ogni tempo deve essere e apparire indipendente. L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nell’incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta, anche fuori dalle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle manifestazioni della vita sociale, nella scelta delle sue amicizie”. Di conseguenza, dice sempre Livatino, il giudice, oltre che essere, deve anche apparire indipendente per significare che accanto ad un problema di sostanza, certo preminente, ve n’è un altro ineliminabile di forma».
È papa Francesco, nel 2020, ad autorizzare la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto riguardante il martirio In odium fidei, aprendo la strada alla sua beatificazione. Una cerimonia che si è svolta il 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento. Rosario Livatino, così, diventa il primo magistrato beato nella storia della Chiesa.
«Rosario Livatino era un fervente cattolico che tuttavia praticava la sua religione senza ostentazione – aggiunge Cardinale -. Come colleghi che lavoravamo nella stanza accanto, ci siamo accorti di questo suo attaccamento alla religione solo successivamente, dopo la sua morte. Da credente, Rosario Livatino sentiva il contrasto insito nella sua professione tra l’applicazione della fredda norma giuridica, necessariamente oggettiva e punitiva, e il principio religioso della pietà e del rispetto per chi ha sbagliato.Tuttavia, egli riusciva felicemente a congegnare le regole che disciplinano la funzione del magistrato con quelle della sua fede cristiana. E spiega tale sintesi in una altra relazione letta il 30 aprile 1986, intitolata Fede e diritto. Scrive in proposito Livatino: “Compito del magistrato non deve essere solo quello di rendere concreto il comando astratto della legge, ma anche di dare alla legge un’anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non è un fine”.Continua la sua riflessione rilevando che diritto e fede, o se vogliamo giustizia intesa come frutto ultimo del diritto e fede, sono in continuo rapporto tra loro e la finalità ultima di tale rapporto è il superamento del primato del diritto attraverso la carità di cui la giustizia, come insegnava Paolo VI, è la minima parte. In questo brano, io vedo la condivisione convinta dall’insegnamento di San Tommaso che nel commento alle beatitudini di Matteo affermava che la giustizia senza pietà conduce alla crudeltà, ma la misericordia senza giustizia porta alla dissoluzione dell’ordine».
L’uccisione di Rosario Livatino non fu, purtroppo, un evento isolato. Sono pochi, infatti, gli anni che separano il suo sacrificio da quello di chi perse la vita nelle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Eventi che segnarono per sempre la storia della giustizia italiana e che ricordiamo con il grido di san Giovanni Paolo II al termine dell’omelia della messa celebrata nella Valle dei Templi, nel 1993.
«Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole civiltà della vita! […] Lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!»[2].
San Giovanni Paolo II
Sebbene siano passati più di 30 anni dall’epoca delle stragi di mafia, agli operatori di giustizia è chiesto ancora un maggiore impegno per confrontarsi con un fenomeno, quello della criminalità organizzata, che è mutato nel tempo, assumendo nuove e pericolose configurazioni.
«La mafia di oggi sicuramente non è quella che Rosario Livatino aveva conosciuto nel 1979 e fino alla sua morte – continua Cardinale -. Dopo la stagione delle stragi, la criminalità organizzata ha abbandonato la strategia dell’eliminazione dei magistrati e degli investigatori. Ha scelto di inabissarsi, cioè di sparire dalle cronache. Oggi preferisce il silenzio nel quale essa si evolve e si trasforma.Basta pensare, per esempio, al ruolo delle donne che da vestali della mafia, delle famiglie mafiose, sono diventate protagoniste perché comandano i clan, ordinano esecuzioni, riscuotono l’estorsione. Quindi la mafia prospera, fa affari e si estende nel territorio nazionale, nel quale, mi spiace dirlo, trova terreno favorevole in molti ambienti, specie del Nord Italia. Quindi, la risposta dello Stato non può essere quella di ritenere che la mafia sia stata sconfitta ma deve essere prioritariamente quella di non smantellare l’attuale assetto normativo di contrasto che pure ha dato i suoi risultati e anzi di migliorarlo con nuove disposizioni e con maggiori mezzi per adeguarlo alle nuove sfide, anche tecnologiche, alla quale la mafia lo costringe a confrontarsi».
Agli stessi magistrati, papa Francesco aveva indicato il beato Rosario Livatino, come figura di aiuto e di conforto. «Nella dialettica tra rigore e coerenza da un lato, e umanità dall’altro, Livatino aveva delineato la sua idea di servizio nella Magistratura – ha ricordato papa Francesco nel 2022 – pensando a donne e uomini capaci di camminare con la storia e nella società, all’interno della quale non soltanto i giudici, ma tutti gli agenti del patto sociale sono chiamati a svolgere la propria opera secondo giustizia».
«Lo Stato italiano è uno Stato laico e il servizio della giustizia che esso assicura non può che essere anche esso laico – aggiunge Cardinale -. Il giudice deve fondare le decisioni e le determinazioni che assume esclusivamente sui principi giuridici e sulle prove, come detta il nostro Codice di procedura penale. Il giudizio del giudice deve avere come base il rispetto delle leggi e l’applicazione delle norme giuridiche riguardanti il caso concreto e quindi non la morale, la religione o la ideologia politica. Una decisione che non rispetti tali principi a mio giudizio scivola nell’arbitrarietà. Ciò non toglie che il giudice credente non possa attingere ai principi del suo credo nel dare un’anima alla norma astratta, senza tuttavia stravolgere lo spirito di essa»[3].
Il Giubileo degli operatori di giustizia offre, quindi, uno momento importante per continuare a riflettere sul messaggio che papa Francesco affidò ai magistrati nel suo discorso al Consiglio superiore della Magistratura nel 2022:«La domanda sul per chi amministrare la giustizia – affermava papa Francesco – illumina sempre una relazione con quel “tu”, quel “volto”, a cui si deve una risposta: la persona del reo da riabilitare, la vittima con il suo dolore da accompagnare, chi contende su diritti e obblighi, l’operatore della giustizia da responsabilizzare e, in genere, ogni cittadino da educare e sensibilizzare. Per questo, la cultura della giustizia riparativa è l’unico e vero antidoto alla vendetta e all’oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati e permette la bonifica della terra sporcata dal sangue del fratello»[4].
Leggi anche:
[1] vaticannews.va/it/vaticano/new…
[2] https://www.vaticannews.va/it/ chiesa/news/2018-05/giovanni-paolo-ii-mafia-agrigento-convertitevi.html
[3] vatican.va/content/francesco/i…
[4] vatican.va/content/francesco/i…
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Cristiani testimoni per la Chiesa di oggi e di domani
Il libro, scritto a 12 anni dalla morte del cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012), gesuita e biblista di fama internazionale, dal 1980 al 2002 arcivescovo di Milano, riflette sull’attualità del suo magistero, sottolineando la sua profezia e incisività nel pensare il futuro della Chiesa e del cristianesimo occidentale.
Franco Giulio Brambilla e Marco Vergottini si concentrano sull’uso del termine «laicato», con la proposta di un ripensamento radicale della questione laicale, inserendola nei problemi contemporanei della Chiesa e della società, seguendo le suggestioni che il card. Martini aveva anticipato, per un rinnovamento della Chiesa stessa.
Il libro presenta pagine intense ed elaborate con la passione di chi ha potuto frequentare Martini per molto tempo. Molto interessanti e di vivace attualità sono alcune domande che lo stesso cardinale si è posto durante la sua azione pastorale: «Che cosa vuol dire testimoniare Cristo nel mondo di oggi? Che cosa vuol dire, oggi, essere cristiani? La domanda si pone talora in maniera molto acuta» (p. 85). I curatori illustrano la vexata quaestio – impostasi in particolare dopo il Concilio Vaticano II – sul ruolo del laicato: «Il nostro contributo alla quaestio de laicis nasce proprio dal raffronto con le idee professate dal Cardinale. Ci interessa promuovere “lo spazio del laico” nella Chiesa e nel mondo, proprio nel momento in cui l’enfasi sul tema dei ministeri corre il rischio di rinserrare il laico nel recinto ecclesiastico, oppure di abbandonarlo nella landa desolata del mondo secolarizzato» (p. 6).
La proposta pastorale suggerita da Vergottini si basa sulla Lumen gentium. L’A. procede a un profondo confronto con il testo conciliare, cercando quel fil rouge che possa far uscire dall’ombra la vera questione «laici e Chiesa» in questo inizio del terzo millennio: «Sul piano storico-redazionale, occorre prendere le mosse dall’intento dei padri conciliari di assegnare, per la prima volta nella storia dei concili, una fattiva considerazione alla figura dei laici» (p. 25).
È il tempo di riposizionare i laici; scrive Brambilla: «Oggi, lo scenario sembra cambiato e appare polarizzato su due figure contrapposte che si alimentano a vicenda: da un lato, la figura “biografica” della testimonianza, concentrata sulla propria esperienza: il testimone è colui che racconta di un impegno singolare nella storia» (p. 68).
Dalle pagine del libro si evince l’auspicio di un’inversione di rotta: «Gli uomini di oggi non intendono più il linguaggio della salvezza, della redenzione e della riconciliazione, perché il suo lato antropologico è assorbito in una comprensione della riconciliazione e del perdono come “condono”» (p. 72). Il merito di Martini è stato quello «di riportare a una visione forte della riconciliazione e di farlo nel corpo vivo della testimonianza dei cristiani, nel percorso di una “santità cristiana comune”» (p. 73).
Gli AA. affermano: «Un serrato dialogo e un accorto rilancio delle intuizioni di Martini possono essere un giovamento a sciogliere una ingarbugliata matassa, in cui si registrano ancor oggi rigidi stereotipi, inusitati equivoci e puntuali ritardi nella presa d’atto e nella comprensione della realtà» (p. 6). Delineata la prospettiva di uscire dall’ombra, il cattivo discepolo è, come chiarisce Martini, «colui che non capisce questi valori, che li critica, che va alla ricerca di gesti clamorosi, dalle risonanze grandiose» (p. 133).
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I nove doni
Il libro è un inno alla vita e un invito a cogliere le opportunità che essa presenta, specie nelle situazioni più difficili. Giovanni Allevi è un pianista di fama mondiale, appassionato di arte, filosofia, letteratura, attento a dare sempre il meglio di sé. Il 2 giugno 2022, al termine di un concerto, si accorse di essere stato colpito da una grave forma di mieloma, che lo costrinse all’immobilità per molti mesi, con il pericolo di non poter più continuare a coltivare la sua passione per la musica. Eppure egli ha affrontato questa battuta d’arresto come una nuova opportunità per esplorare il mistero della vita: «Avvicinarmi al nucleo della fragilità umana mi ha portato ad acquisire una nuova consapevolezza. Tanto che oggi mi chiedo: forse la malattia è venuta per consegnarmi un messaggio profondo? Nonostante la paura e l’angoscia, oggi riconosco che, assieme al dolore, essa mi ha portato degli inaspettati doni» (pp. 13 s). L’A. ne individua nove: Unicità, Libertà, Prospettiva, Gratitudine, Consapevolezza, Riconoscenza, Spirito, Rigenerazione, Tomorrow, che scandiscono i capitoli del libro.
La malattia lo costringe anzitutto a riconoscere la sua unicità, contro il pericolo, per molti, di ridursi a una serie di numeri: album prodotti, concerti, incassi… La malattia lo spinge a guardare all’essenziale: il cielo, il corpo, il tempo, la dimensione spirituale. Egli scrive: «Più sperimentavo la fragilità del mio corpo, più esploravo la vastità del pensiero» (p. 34). La malattia diventa così un viaggio spirituale dentro la sua persona e la sua vita, per scoprire che si può governare la percezione del dolore, «che varia a seconda del mio stato d’animo, soprattutto della paura di soffrire ancora di più in futuro» (p. 43).
Un altro aiuto importante è la cultura: «Come diceva Umberto Eco, chi non legge vive una sola vita, la sua. Ma chi legge ne può vivere a migliaia e da ognuna trarre insegnamento e conforto» (pp. 63 s). La lettura lo mette soprattutto a contatto con le molteplici forme di sofferenza e con le modalità con cui sono state vissute: così non si sente più solo e scopre in quelle esperienze la possibilità di una vita autentica.
Con la meditazione, Allevi riscopre la gratitudine, anzitutto per la bellezza della natura: «Quando vivi una situazione di estrema difficoltà, hai due modi di reagire: o ti abbandoni allo sconforto oppure diventi una sentinella di bellezza […]. Sono infatti due gli atteggiamenti possibili davanti a un dolore che non hai voluto né cercato: puoi prendertela con il mondo, oppure, dopo lo scoramento iniziale, accorgerti che la vita contiene la luce e il buio e che accadimenti così drammatici possono addirittura fortificarci o portarci a livelli di consapevolezza maggiori» (pp. 78 s.).
Entrando in quel buio, l’A. trova conferma della sua vocazione, la musica, capace di esprimersi nelle situazioni più difficili. Decide quindi di mettere in musica gli aspetti più oscuri e sofferti di sé: traduce le lettere della sua malattia – il mieloma – in note musicali, creando il Concerto per violoncello. E durante il ricovero in ospedale compone 12 album, che testimoniano che tutto quello che la vita ci presenta è un dono di cui essere grati. Allevi sperimenta infatti il valore della riconoscenza soprattutto nei confronti del personale medico e infermieristico che si occupa di lui: «Ogni volta che uno di loro entrava dalla porta per portarmi un farmaco o un antidolorifico, ponevo una domanda per me importantissima: “Ti rendi conto che mi stai salvando la vita?”» (pp. 105 s.).
Il suo è un cammino sempre all’insegna della vita. Quando riprende i concerti, sa che la malattia non è scomparsa, ma scopre che l’anima ha il potere di governare il corpo, il dolore, la paura. Uno dei doni più preziosi è la libertà dello spirito: «I problemi nella sensibilità delle dita e il tremore erano molto evidenti, eppure ogni data è stata un’esplosione di intensità, nonostante il dolore da non respirare […]. Così ho capito che l’anima riesce a fare cose incredibili» (p. 119).
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Un Sogno d’oro
La vittoria alle Olimpiadi di Parigi 2024 della nazionale italiana di pallavolo femminile fa da cornice a questa autobiografia di Anna Danesi, giocatrice e capitana della nazionale, intitolata Un sogno d’oro. Con uno stile immediato e coinvolgente, adatto soprattutto a un pubblico giovanile, l’A. ripercorre le tappe della sua carriera, che inizia a Orago, appena quattordicenne, per poi mollare gli ormeggi e trasformare la passione per la pallavolo in un’attività professionale.
Il racconto è un insieme di flashback che vanno dall’ultima fatica azzurra, ossia la partecipazione alle Olimpiadi di Parigi 2024, sotto la guida del c.t. Julio Velasco, alla conquista della medaglia d’oro, ambita, ricercata e attesa. Il tempo olimpionico, fatto di training e tattica, sotto la pressione di una stampa spesso troppo critica rispetto alla squadra che era stata eliminata alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021, spinge l’atleta a ripercorrere il suo passato, tra i tanti trasferimenti scolastici per i cambi di squadra, i sacrifici per gli intensi allenamenti, le vittorie, ma, soprattutto, le sconfitte, che spesso diventano più importanti degli obiettivi raggiunti.
Quando si osservano i gesti atletici, i salti plastici che si librano nell’aria, quasi a rimanere sospesi per infiniti secondi tra cielo e terra, alla ricerca di una schiacciata o di un muro difensivo, non si pensa che essi sono il risultato di una lunga preparazione, atletica e mentale, fatta di ripetizioni, tentativi, intuito, senso del tempo – timing –, costruiti con dedizione, attenzione e pazienza.
Non solo. L’autobiografia si sofferma spesso – e questo forse è il vero volto del libro – sull’interiorità di Danesi: le insicurezze, le ansie che sono sempre dietro l’angolo, il dover riuscire sempre a sostenere le critiche, che «per me, erano sempre più rilevanti rispetto ai complimenti e alle parole d’incoraggiamento» (p. 31), e che inducono a diventare spesso i peggiori giudici di sé stessi: «Tu non vali niente, non hai fatto nulla e non sei nessuno» (ivi). Sono aspetti psicologici che possono divenire pesanti fardelli soprattutto per chi, in fin dei conti, ha dovuto allontanarsi dall’ambito familiare molto presto, vivendo amicizie temporanee e dovendo confrontarsi con un mondo agonistico che spesso richiede una maturità che si deve acquisire troppo velocemente. E così la pallavolista dedica un intero capitolo all’equilibrio tra corpo e mente, raccontando il percorso di accompagnamento psicologico, facendo anche tesoro di alcuni pensieri dell’allenatore Velasco, che sono validi non solo per le sfide sportive, proprio per il fatto che «le tue insicurezze si fanno sentire sempre di più, il pallone in mano scotta e nella testa si forma una matassa di pensieri impossibile da sbrogliare» (p. 164).
Pagina dopo pagina, si arriva alla finale contro gli Stati Uniti, dopo aver sconfitto squadre come la Serbia ai quarti di finale, la Turchia nelle semifinali. In un racconto che è una cronaca vista in soggettiva da chi è in campo, si narrano i punti fondamentali, uno dopo l’altro, tra pensieri che portano gradualmente alla realizzazione del sogno dell’oro olimpico: una vittoria che è individuale, di squadra, ma anche di nazione.
Nella sua semplicità e immediatezza Un sogno d’oro è adatto a trasmettere, soprattutto agli adolescenti e ai giovani, quanto le proprie passioni e desideri siano da tenere in considerazione e come, per alimentarli costantemente, siano necessarie tenacia, convinzione, ma anche una sana capacità di comprendersi a fondo, custodendo il proprio corpo e ascoltando il proprio animo. L’essere umano non è solamente un fascio di muscoli e nervi che sprigiona forza e agonismo, ma un insieme di anima e corpo, che devono crescere all’unisono, in armonia e integralmente, per riuscire non solo a vincere, ma a saper affrontare le tante sfide che la vita pone davanti.
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Il mio testamento
Per chi ha conosciuto e segue la vicenda del gesuita p. Paolo Dall’Oglio e della comunità monastica da lui fondata presso il Monastero Deir Mar Musa, nel deserto siriano, questi due volumi erano attesi e sono preziosi. Essi sono il frutto di un lungo lavoro. Nascono infatti dalle 135 conversazioni tenute da Dall’Oglio in arabo alla comunità, commentandone la Regola monastica, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, prima di lasciare la Siria e scomparire il 29 luglio 2013. Perciò il titolo Il mio testamento è corretto e vale per ambedue i libri. Le registrazioni sono state trascritte da un amico della comunità (600 pagine in arabo!), tradotte in italiano e curate per la stampa. Molte persone si sono impegnate per farci leggere queste pagine, tra cui è giusto menzionare Adib al-Koury, Elena Bolognesi e Luigi Maffezzoli.
I due volumi si aprono con un’Introduzione del p. Jihad Youssef, attuale guida della comunità monastica e, rispettivamente, con una Prefazione di papa Francesco e con un Messaggio del Presidente Sergio Mattarella: un bel riconoscimento del loro significato!
Paolo parla a una piccola comunità monastica. Lo fa dall’abbondanza del cuore, dalla profondità della sua riflessione religiosa e culturale sul cristianesimo e sull’islam, dalla ricchezza della sua travagliata esperienza e della sua creatività, come portatore di un carisma originale per una nuova comunità. Non è un trattato sistematico, ma una comunicazione orale per la trasmissione di questo carisma, cioè di uno spirito, che è fatta con grande passione. Diciamo pure che non è una lettura facile: va fatta con attenzione, e magari rifatta, per ritrovare il filo dei pensieri, nonostante le non poche – sempre interessanti – digressioni. Tuttavia l’impegno vale certamente la pena, perché con Paolo non si rimane mai al livello superficiale delle disquisizioni teoriche, ma si è obbligati a confrontarsi con la coerenza tra la fede e la vita reale.
Fra i molti temi trattati nelle conversazioni, diversi sono già stati toccati con profondità in altre pubblicazioni: in particolare, l’inculturazione della fede e il dialogo tra cristianesimo e islam, centrali nella missione di Deir Mar Musa. Per evocare lo stile di Paolo, basti una citazione: «La Chiesa non è una comunità contro altre, siano esse l’Islam, l’ebraismo, il marxismo, o altre. Non è nemmeno una comunità tra le altre, una comunità in più da sommarsi al numero totale delle altre. Piuttosto, a causa del nostro battesimo e del nostro rapporto con Gesù (‘Īsā) Cristo, ci troviamo di fronte a una pretesa spaventosa: che dentro di noi c’è il lievito del completamento di ogni religione e di ogni comunità. E che in ogni comunità c’è un tesoro per il completamento di ciò che noi siamo nel mistero ecclesiale. Diciamo, con spaventosa esagerazione, che la Chiesa è il progetto di Dio nella creazione dell’universo» (Dialogo sempre con tutti, p. 39).
Trattandosi di conversazioni per e sulla vita monastica di una comunità insieme maschile e femminile, gran parte di esse approfondiscono l’argomento dei rapporti fra uomini e donne, non al livello della «disciplina della vita religiosa», ma a quello del superamento radicale della «maledizione antica», del conflitto tra uomini e donne e della loro riconciliazione piena come nuove creature in Cristo. Forse è proprio questa la parte più originale dei due libri.
La castità non è in questione: «Se non ami la castità nel cuore e nell’anima, nello spirito e nella lettera, allora non parlate di vita monastica. Perché […] nella castità c’è un segno e una verità mistica fondamentale, fondativa e finale per l’identità monastica nelle Chiese di Dio, nel passato, nel presente e per tutte le generazioni. […] Se non accettate la castità, non avrete nulla a che fare con il monachesimo» (ivi, pp. 153-155). Non si tratta di repressione. Paolo sa che vi sono problemi, ma afferma di «aver conosciuto santi e sante, che conservano nei loro volti e nei loro corpi, nella loro postura e nei loro movimenti, le caratteristiche del successo affettivo. […] Attraverso la loro prosperità spirituale, la loro energia sessuale si è moltiplicata ed è stata imbrigliata al servizio di questa riuscita sublimazione» (ivi, p. 184).
Il dialogo tra uomini e donne è difficile, ma fondamentale: «Trovo nel dialogo profondo fra uomini e donne […] lo spazio fondamentale, il campo educativo per praticare il dialogo interreligioso. Il dialogo tra un uomo e una donna è molto più difficile del dialogo tra un musulmano e un cristiano, e molto più fondamentale. Perché la differenza tra un musulmano e un cristiano è religiosa, intellettuale, culturale e storica, ma la differenza tra un uomo e una donna non ha soluzione. L’uomo, qualunque cosa faccia, non entrerà nella testa della donna per capire le cose come le capisce lei» (ivi, p. 158).
Allo stesso tempo, «ci è parso che la vita consacrata dei discepoli e delle discepole di Cristo sulla via della santità nel quadro di un’unica comunità monastica è possibile, consolante ed è annuncio di una umanità nuova, a condizione che sia costruita sull’umiltà, il realismo, la conoscenza di sé, l’ascesi affettiva, l’apertura all’obbedienza nella direzione spirituale» (Il mio testamento, p. 176). Condizioni quasi impossibili, che valgono però non solo per uomini e donne, ma per uomini e uomini, donne e donne: «È esattamente lo stesso nel caso di una comunità i cui membri siano dello stesso sesso» (ivi).
Paolo è quindi coraggioso e speranzoso, ma giustamente realista: «Mi è stato chiesto: “Come trovi la vita comune tra uomini e donne nel monachesimo?”. Ho risposto: “Molto più bella, molto più ricca e rilevante di quanto immaginassi, e molto più difficile di quanto mi aspettassi”» (Dialogo sempre con tutti, p. 159). Paolo accetta, anche in obbedienza, che nella Chiesa cattolica le donne oggi non siano ammesse agli Ordini sacri, ma sinceramente ne soffre.
Sono passati alcuni decenni da quando Deir Mar Musa ha iniziato il suo cammino, ma è ancora molto giovane rispetto alla storia. Da questi scritti possiamo comprendere ancora una volta la profondità e la forza del suo carisma originario e il suo valore per la Chiesa, sia nel dialogo con l’islam sia nel divenire della vita consacrata. Non possiamo che augurarci che questo carisma continui a trovare le vie per vivere, pur nella storia drammatica della Siria e del mondo, come luogo spirituale di incontro davanti a Dio e tra persone umane diverse, sulla riva di molti deserti.
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Rischi del web e solitudine. Il dramma del suicidio non riguarda solo i giovani
Uno dei casi più eclatanti del 2025 è sicuramente quello di Andrea Prospero, lo studente universitario 19enne trovato senza vita in un appartamento a Perugia lo scorso 29 gennaio, dopo alcuni giorni di ricerche. Un suicidio che ha sconvolto la cittadina umbra per le modalità e il coinvolgimento di altri giovani che, attraverso quella che in più occasioni è stata chiamata la “trappola della rete”[sup][1][/sup], avrebbero incoraggiato il giovane studente fuorisede a togliersi la vita. Un caso che ricorda quello di Adam Raine, il 16enne californiano che si è suicidato l’11 aprile di quest’anno dopo aver passato mesi ad interrogare l’Intelligenza artificiale su come fare per togliersi la vita[2]. Casi estremi che ricordano il fenomeno web conosciuto come Blue Whale che alcuni anni fa aveva allertato le forze dell’ordine e l’opinione pubblica (arrivando a diventare un tema per il governo italiano in un question time alla Camera dei deputati) per il rischio di suicidio tra i giovanissimi sui social[3]. Solo pochi giorni fa, infine, le pagine di cronaca hanno raccontato un nuovo caso di suicidio tra i giovani. Stavolta è una studentessa di Latina di quasi 17 anni a cadere dal quinto piano del palazzo dove abitava dopo aver ricevuto via e-mail l’ennesima bocciatura agli esami di riparazione nel liceo scientifico che frequentava[4].
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Nell’era di internet e dell’intelligenza artificiale, il fenomeno dei suicidi sta assumendo aspetti inediti. Tuttavia, se oggi se ne parla di più rispetto al passato non è soltanto per alcuni eclatanti fatti di cronaca, ma è anche merito di chi in questi anni si è speso per promuovere programmi di informazione, formazione e prevenzione. A questo tema, infatti, è dedicata la Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio che si celebra il 10 settembre e che alla Sapienza Università di Roma, il prossimo 23 e 24 settembre 2025, verrà celebrata con un convengo internazionale a cui parteciperanno alcuni dei più grandi esperti sul tema a livello globale[5]. A presiedere il convegno è il prof. Maurizio Pompili, professore ordinario di Psichiatria all’università Sapienza di Roma e direttore UOC di Psichiatria presso l’azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea di Roma. «Il nostro impegno di questi ultimi 20 anni, alla fine, ha dato dei risultati incontrovertibili – spiega Pompili a La Civiltà Cattolica -. In questi 20 anni è cambiata la sensibilità, la consapevolezza e anche la conoscenza del fenomeno. Se ne parla di più perché abbiamo potuto decodificare il fenomeno suicidario anche in termini di sofferenza dell’individuo, mentre in passato sembrava qualcosa di ineludibile, legato solo ad una diagnosi di disturbo mentale, senza l’esplorazione della mente suicida, e su cui non si poteva fare prevenzione».
Cosa dicono i numeri
Gli ultimi dati messi a disposizione dall’Istat in merito ai suicidi sono quelli del 2022. Secondo l’Istat, la fascia d’età che ha visto aumentare il tasso dei suicidi dal 2015 ad al 2022 è soprattutto quella tra 0 e 49 anni. «Nel 2020, il tasso di mortalità per suicidio, che sull’intera popolazione era diminuito lievemente (-4%), tra gli ultra65enni risultava in leggero aumento. Nel 2021 c’è stato un incremento in quasi tutte le classi di età, con l’eccezione dei 50-64enni, mentre nel 2022 l’aumento si è osservato in tutte le classi tranne la fascia 65-79 anni. Tra i più giovani, l’incremento tra il 2021 e il 2022 è stato lieve e ha seguito l’incremento particolarmente rilevante osservato tra il 2020 e il 2021. Il tasso registrato negli ultimi due anni (0,40 suicidi ogni 10mila abitanti) continua ad essere il massimo osservato dal 2015»[6].
L’andamento dei suicidi – in verde nel grafico dell’Istat – non sembra aver risentito della pandemia. Un dato confermato anche dal prof. Pompili. «In Italia ci sono circa 4mila suicidi ogni anno[7] – aggiunge Pompili -. Ovviamente la pandemia ha creato molto scompiglio, però non ha dato un’impennata del numero dei suicidi così come si poteva immaginare. Sono aumentate situazioni critiche di sofferenza e di comportamenti suicidari, ma non necessariamente di morti per suicidio. Ci sono stati fenomeni di autolesionismo, tentativi di suicidio, questo sì, ma le morti in sé non si sono registrate come fenomeno eclatante».
Gli uomini sono più a rischio e i dati in aumento tra i giovani
Per il prof. Pompili, sono gli uomini a far registrare il numero più alto di suicidi rispetto alle donne. «Il suicidio è sempre stato più prevalente negli uomini, con un rapporto di tre a uno rispetto alle donne – aggiunge Pompili -. Il fenomeno suicidario tende ad aumentare man mano che aumentano le decadi dell’età, ma negli ultimi decenni c’è stato un aumento esponenziale nei giovani, dagli anni 50 ad oggi. Questo non significa che negli anziani sia diminuito, anzi, ha continuato ad essere sempre una quota importante. Tutte le fasce d’età hanno delle criticità. Tuttavia, nei giovani c’è stata una tendenza all’aumento rispetto al passato. Mentre all’inizio del secolo scorso erano pochissimi, dagli anni 60 in poi sono continuati ad aumentare fino ad un numero estremamente importante, tanto da diventare una delle principali cause di morte. Il punto importante, però, è che rispetto al passato, oggi possiamo fare di più; aiutare gli individui in crisi e far sì che si superi la crisi, riproponendo un adagio ormai di comune dominio “il suicidio è una soluzione permanente ad un problema temporaneo”».
Le «trappole» della rete
Challenge estreme, chatbot che forniscono istruzioni su come togliersi la vita, chat con persone senza scrupoli. Il caso di Andrea Prospero, ma anche quello del californiano Adam Raine, hanno riportato all’attenzione il tema dell’istigazione al suicidio attraverso i social e la rete. «Si tratta di un territorio estremamente delicato per il quale c’è ancora poca informazione e formazione – spiega Pompili -. Bisognerebbe fare delle campagne dedicate ai giovani e fare in modo che i social network siano dei luoghi dove fare cultura. Per esempio, oggi nei vari social network se si digita la parola suicidio c’è sempre una sorta di offerta di aiuto. È stata una conquista, perché molti potevano lasciare dei post sul suicidio senza ricevere sostegno. Adesso, invece, vengono fuori dei messaggi in automatico che chiedono se serve aiuto. A prescindere da queste piattaforme, tuttavia occorre raggiungere i giovani dove sono presenti, come scuole, centri sportivi o ricreativi, per fare sensibilizzazione sulla prevenzione del suicidio e informare sulla possibilità di essere aiutati».
Il caso di Latina. La scuola è pronta ad aiutare i giovani?
L’ultimo caso di suicidio di questi giorni, a Latina, invece, ha riportato al centro dell’attenzione il ruolo della scuola. «Sicuramente se ne sta parlando sempre di più e c’è maggiore sensibilità e attenzione – spiega Pompili -. Rispetto al passato sicuramente sono stati fatti passi in avanti, ma si tratta di un percorso che deve essere sempre attivo, implementando campagne mirate per i giovani e chi lavora con loro, con messaggi personalizzati, e con al centro personaggi e tematiche del mondo giovanile. Dove si fa informazione e formazione, infatti, il fenomeno viene in qualche modo prevenuto. Lo abbiamo visto con altri fenomeni come, ad esempio, l’Aids».
I suicidi tra gli anziani, un fenomeno quasi sconosciuto
Secondo Pompili, però, i casi di suicidio tendono a salire con l’aumento dell’età e negli anziani si tratta di «un problema serio», nonostante non faccia notizia. «Si tratta di una fascia foriera di problematiche perché spesso è isolata e non accede a momenti di socializzazione – spiega Pompili -. La solitudine è qualcosa di estremamente temibile, per cui bisognerebbe enfatizzare anche in questo caso la possibilità che vengano accolti in centri anziani e ricreativi o che comunque possano avere la possibilità di chiedere aiuto. Qualsiasi metodo permette di raggiungere degli interlocutori laddove la persona ha bisogno di aiuto, lì si vince la barriera della solitudine e dell’isolamento sociale». Un ruolo strategico, da questo punto di vista, possono averlo i medici di medicina generale, spiega Pompili: «Sono un contesto importante che permette anche di decodificare delle situazioni a rischio e di disagio psichico».
L’intelligenza artificiale a sostegno della prevenzione?
Mentre a livello internazionale il caso di Adam Raine sta facendo discutere sui rischi legati all’utilizzo delle intelligenze artificiali, in Italia c’è chi sta lavorando per fare in modo che queste ultime possano diventare invece uno strumento utile a identificare i fattori di rischio del suicidio negli adolescenti. È il caso dello studio Meyer-Università di Firenze condotto su 237 pazienti, pubblicato un paio di anni fa sulla rivista Science Progress. Lo studio ha permesso di identificare due nuovi fattori predittivi del rischio suicidario nei bambini under 12 e ha evidenziato che l’uso dell’intelligenza artificiale può essere di supporto ai medici per valutare il rischio suicidario stesso[8]. Una buona notizia che apre nuovi orizzonti e che ricorda le parole di papa Leone XIV nel suo Messaggio ai partecipanti alla Seconda Conferenza annuale su intelligenza artificiale, etica e governance d’impresa dello scorso 17 giugno 2025. «L’intelligenza artificiale, specialmente quella generativa, ha dischiuso nuovi orizzonti a molti livelli differenti, tra cui il miglioramento della ricerca in ambito sanitario e le scoperte scientifiche, ma solleva anche domande preoccupanti circa le sue possibili ripercussioni sull’apertura dell’umanità alla verità e alla bellezza, sulla nostra particolare capacità di comprendere ed elaborare la realtà. Riconoscere e rispettare ciò che caratterizza in modo unico la persona umana è essenziale per il dibattito su qualunque quadro etico adeguato per la gestione dell’intelligenza artificiale»[9].
[1] Andrea Prospero, il suicidio in diretta Telegram. Arrestato 18enne: lo avrebbe incoraggiato. Rainews, 18/03/2025 – rainews.it/articoli/2025/03/an…
[2] Adam Raine, la scelta del suicidio e i dialoghi con ChatGpt (che l’ha aiutato a impiccarsi): «Il cappio? Voglio che qualcuno cerchi di fermarmi». «No». Corriere della Sera, 28/08/2025 – corriere.it/cronache/25_agosto…
[3] interno.gov.it/it/notizie/blue…
[4] Giovane di 17 anni precipita dal balcone e muore, era stata bocciata. ANSA, 30/08/2025 – ansa.it/sito/notizie/cronaca/2…
[5] giornataprevenzionesuicidio.it…
[6] istat.it/wp-content/uploads/20…
[7] epicentro.iss.it/mentale/giorn…
[8] meyer.it/index.php/ospedale/uf…
[9] vatican.va/content/leo-xiv/it/…
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Dialogo sempre con tutti
Per chi ha conosciuto e segue la vicenda del gesuita p. Paolo Dall’Oglio e della comunità monastica da lui fondata presso il Monastero Deir Mar Musa, nel deserto siriano, questi due volumi erano attesi e sono preziosi. Essi sono il frutto di un lungo lavoro. Nascono infatti dalle 135 conversazioni tenute da Dall’Oglio in arabo alla comunità, commentandone la Regola monastica, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, prima di lasciare la Siria e scomparire il 29 luglio 2013. Perciò il titolo Il mio testamento è corretto e vale per ambedue i libri. Le registrazioni sono state trascritte da un amico della comunità (600 pagine in arabo!), tradotte in italiano e curate per la stampa. Molte persone si sono impegnate per farci leggere queste pagine, tra cui è giusto menzionare Adib al-Koury, Elena Bolognesi e Luigi Maffezzoli.
I due volumi si aprono con un’Introduzione del p. Jihad Youssef, attuale guida della comunità monastica e, rispettivamente, con una Prefazione di papa Francesco e con un Messaggio del Presidente Sergio Mattarella: un bel riconoscimento del loro significato!
Paolo parla a una piccola comunità monastica. Lo fa dall’abbondanza del cuore, dalla profondità della sua riflessione religiosa e culturale sul cristianesimo e sull’islam, dalla ricchezza della sua travagliata esperienza e della sua creatività, come portatore di un carisma originale per una nuova comunità. Non è un trattato sistematico, ma una comunicazione orale per la trasmissione di questo carisma, cioè di uno spirito, che è fatta con grande passione. Diciamo pure che non è una lettura facile: va fatta con attenzione, e magari rifatta, per ritrovare il filo dei pensieri, nonostante le non poche – sempre interessanti – digressioni. Tuttavia l’impegno vale certamente la pena, perché con Paolo non si rimane mai al livello superficiale delle disquisizioni teoriche, ma si è obbligati a confrontarsi con la coerenza tra la fede e la vita reale.
Fra i molti temi trattati nelle conversazioni, diversi sono già stati toccati con profondità in altre pubblicazioni: in particolare, l’inculturazione della fede e il dialogo tra cristianesimo e islam, centrali nella missione di Deir Mar Musa. Per evocare lo stile di Paolo, basti una citazione: «La Chiesa non è una comunità contro altre, siano esse l’Islam, l’ebraismo, il marxismo, o altre. Non è nemmeno una comunità tra le altre, una comunità in più da sommarsi al numero totale delle altre. Piuttosto, a causa del nostro battesimo e del nostro rapporto con Gesù (‘Īsā) Cristo, ci troviamo di fronte a una pretesa spaventosa: che dentro di noi c’è il lievito del completamento di ogni religione e di ogni comunità. E che in ogni comunità c’è un tesoro per il completamento di ciò che noi siamo nel mistero ecclesiale. Diciamo, con spaventosa esagerazione, che la Chiesa è il progetto di Dio nella creazione dell’universo» (Dialogo sempre con tutti, p. 39).
Trattandosi di conversazioni per e sulla vita monastica di una comunità insieme maschile e femminile, gran parte di esse approfondiscono l’argomento dei rapporti fra uomini e donne, non al livello della «disciplina della vita religiosa», ma a quello del superamento radicale della «maledizione antica», del conflitto tra uomini e donne e della loro riconciliazione piena come nuove creature in Cristo. Forse è proprio questa la parte più originale dei due libri.
La castità non è in questione: «Se non ami la castità nel cuore e nell’anima, nello spirito e nella lettera, allora non parlate di vita monastica. Perché […] nella castità c’è un segno e una verità mistica fondamentale, fondativa e finale per l’identità monastica nelle Chiese di Dio, nel passato, nel presente e per tutte le generazioni. […] Se non accettate la castità, non avrete nulla a che fare con il monachesimo» (ivi, pp. 153-155). Non si tratta di repressione. Paolo sa che vi sono problemi, ma afferma di «aver conosciuto santi e sante, che conservano nei loro volti e nei loro corpi, nella loro postura e nei loro movimenti, le caratteristiche del successo affettivo. […] Attraverso la loro prosperità spirituale, la loro energia sessuale si è moltiplicata ed è stata imbrigliata al servizio di questa riuscita sublimazione» (ivi, p. 184).
Il dialogo tra uomini e donne è difficile, ma fondamentale: «Trovo nel dialogo profondo fra uomini e donne […] lo spazio fondamentale, il campo educativo per praticare il dialogo interreligioso. Il dialogo tra un uomo e una donna è molto più difficile del dialogo tra un musulmano e un cristiano, e molto più fondamentale. Perché la differenza tra un musulmano e un cristiano è religiosa, intellettuale, culturale e storica, ma la differenza tra un uomo e una donna non ha soluzione. L’uomo, qualunque cosa faccia, non entrerà nella testa della donna per capire le cose come le capisce lei» (ivi, p. 158).
Allo stesso tempo, «ci è parso che la vita consacrata dei discepoli e delle discepole di Cristo sulla via della santità nel quadro di un’unica comunità monastica è possibile, consolante ed è annuncio di una umanità nuova, a condizione che sia costruita sull’umiltà, il realismo, la conoscenza di sé, l’ascesi affettiva, l’apertura all’obbedienza nella direzione spirituale» (Il mio testamento, p. 176). Condizioni quasi impossibili, che valgono però non solo per uomini e donne, ma per uomini e uomini, donne e donne: «È esattamente lo stesso nel caso di una comunità i cui membri siano dello stesso sesso» (ivi).
Paolo è quindi coraggioso e speranzoso, ma giustamente realista: «Mi è stato chiesto: “Come trovi la vita comune tra uomini e donne nel monachesimo?”. Ho risposto: “Molto più bella, molto più ricca e rilevante di quanto immaginassi, e molto più difficile di quanto mi aspettassi”» (Dialogo sempre con tutti, p. 159). Paolo accetta, anche in obbedienza, che nella Chiesa cattolica le donne oggi non siano ammesse agli Ordini sacri, ma sinceramente ne soffre.
Sono passati alcuni decenni da quando Deir Mar Musa ha iniziato il suo cammino, ma è ancora molto giovane rispetto alla storia. Da questi scritti possiamo comprendere ancora una volta la profondità e la forza del suo carisma originario e il suo valore per la Chiesa, sia nel dialogo con l’islam sia nel divenire della vita consacrata. Non possiamo che augurarci che questo carisma continui a trovare le vie per vivere, pur nella storia drammatica della Siria e del mondo, come luogo spirituale di incontro davanti a Dio e tra persone umane diverse, sulla riva di molti deserti.
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Chi crede non è un borghese
Questo volume offre certamente una lettura nuova del cristianesimo: ricco di realismo, venato sensibilmente di una sottile ironia, pregno di dialoghi con autori moderni e contemporanei. L’A., giovane studioso francese, insegna all’Institut Catholique di Parigi e firma colonne su La Croix e su Le Figaro. A dire il vero, il titolo originario suona Le bon chrétien, tradotto in italiano in modo provocatorio; non si tratta di una traduzione fedelmente letteraria, ma si intravede tuttavia la volontà dirompente che le pagine intendono presentare.
Il sintomo patologico che indica e determina la malattia del cristianesimo è, secondo l’A., un’agognata calma, una buona sistemazione di coscienza, la percezione di essere arrivati alla presunzione di essere buoni. In effetti, «il buon cristiano non è, non sarà e non cerca mai e poi mai di essere, un uomo “ben sistemato”. Il buon cristiano, se esiste, è quello che ogni giorno dice a se stesso: adesso cominciamo ad essere cristiani! È l’uomo che ha deciso di essere felice e non ha paura di rivolgersi al mondo!» (p. 25).
L’inquietudine e la turbolenza della mente e del cuore – c’è molto del pensiero di Pascal nell’argomentazione dell’A. – mantengono le persone sempre in cammino, sempre tese nella ricerca di libertà e di gioia. Al lettore non sfugge, pur se non citato, un pensiero ricorrente nelle conversazioni che papa Francesco aveva con i gesuiti: la tensione al magis, sostenuta da un’irrequietezza spirituale che rifugge dalla paludosa stasi della mente.
Da questo soqquadro interiore può nascere l’incontro con la persona e il programma di Gesù. La gente non irrequieta ma ben sistemata, «arrivata» nella società, sicura della sua collocazione sociale è quella che non cerca Gesù: questo è il velenoso risultato della borghesia. Colui che sente di aver ricevuto un insegnamento religioso che non ha significato per la sua esistenza non può accettare la mediocrità e si volge a una pienezza umana, all’allegria di vivere. Questa tensione verso la pienezza umana, di tutto l’umano, è il disegno di Gesù, e la sua manifestazione è la gioia versata nell’esistenza. Questa progettualità non appartiene alla borghesia, ma è costitutiva dell’essere cristiano.
La seconda parte del volume si snoda con aperture critiche su eventi storici che hanno scandito momenti della Chiesa, soprattutto in Francia: la crisi illuministica, lo svuotamento delle chiese, la carenza di vera cultura cristiana, l’imborghesimento del cristianesimo avvenuto nei secoli XVIII e XIX, la critica di Nietzsche al cristianesimo borghese (belle pagine contro il falso cristianesimo, la staticità borghese), la fase ultimale contemporanea che porta all’anestesia dell’anima. È vero che l’A. ha la propensione a relazionarsi con la cultura francese – e soprattutto francesi sono i suoi interlocutori del mondo moderno e contemporaneo –, ma la diagnosi attenta e dettagliata delle distorsioni accumulatesi nel cristianesimo è di una diamantina attualità.
Non possiamo non riconoscere il costante dialogo che l’A. attua con personaggi cardine della cultura moderna, in particolare della cultura laica (Pascal, Claudel, Bergson, Bach, Rimbaud, Houellebecq e altri ancora): con essi e per essi si va a scrutare spesso cosa il Vangelo annunziava, cosa Paolo proclamava. Questo dialogo, questa amorevole e inattesa conversazione con illustri testimoni della verità e del pensiero fa del volume un’affascinante avventura spirituale, certamente una cristiana provocazione al paludoso mondo dell’inerzia borghese, questa mefitica aria che tenta di screditare la bellezza della fede in Gesù.
Il libro si legge con piacere, apre mondi di domande e speranze, dispiega il prisma della gioia che la scelta per Gesù arreca nel tessuto sociale, familiare ed ecclesiale. Le pagine 181-190, che concludono il volume, sono un piccolo tesoro: si tratta di poche, ma sostanziali «parole chiave» (i sacramenti, il cristiano, la fede, la santità, la preghiera, la parola di Dio, l’ascesi) che distillano nella brevità la loro essenza.
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Memoria del 16 ottobre 1943, deportazione degli ebrei di Roma: sabato 8 ottobre ore 18,45 marcia da Piazza Santa Maria in Trastevere al Portico d'Ottavia
Ci avviamo a ricordare il 16 ottobre 1943. Una delle date più buie della storia della città di Roma. Una memoria che la Comunità di Sant'Egidio e la Comunità ebraica di Roma hanno custodito in (...)>
Identità Alterità Riconoscimento
In questo libro Marcello Paradiso, docente di teologia sistematica presso l’Istituto teologico abruzzese-molisano di Chieti, affronta tematiche classiche del pensiero occidentale, trattate non soltanto da pensatori cristiani, ma anche da autori comunemente presentati come critici verso l’eredità del pensiero giudaico-cristiano. Le correnti del personalismo, esistenzialismo, dialogismo, e categorie filosofiche come identità, alterità, riconoscimento, relazione, incontro sono il terreno fertile sul quale si fonda la società europea, pur nelle sue diverse declinazioni e versioni, a volte aspre e conflittuali.
La tesi proposta nel libro è che nella cultura europea continua a scorrere un fiume carsico di linfa cristiana, nonostante emergano posizioni estremamente dialettiche. Un pensiero onestamente critico non può non riconoscerlo. Non è illusorio ottimismo nutrire la speranza che tale eredità continui a essere indispensabile per il futuro della nostra civiltà. L’autore non nasconde la pretesa di affrontare problematiche attuali e interrogativi presenti nell’agorà della cultura contemporanea, non tanto per offrire risposte preconfezionate, quanto per contribuire al confronto e al dialogo tra diverse prospettive.
Il libro si articola in quattro capitoli, preceduti da una premessa e un preludio (che precisa i concetti presi in esame) e seguiti da un’appendice. Il primo capitolo è uno sguardo filosofico che va da Hegel fino a Ricœur, passando per alcune figure singolari come Kierkegaard, Heidegger, Sartre, Lévinas, e indaga i registri con i quali il percorso filosofico della modernità e contemporaneità si è cimentato riguardo alle questioni fondamentali dell’identità, alterità, riconoscimento, differenza e relazioni.
Il secondo capitolo è uno sguardo biblico, quasi una modalità di approccio al contenuto della rivelazione dal punto di vista dell’incontro tra Dio e l’uomo.
Il terzo capitolo – che vuol essere il cuore della proposta dell’autore – tratteggia il mistero delle relazioni tra le Persone divine.
Il quarto capitolo è uno sguardo sulla realtà della Chiesa nell’attuale contesto, insistendo sul tema dei suoi rapporti con il mondo, oltre che al suo interno. Il testo si conclude, nell’appendice, con una riflessione sulla preghiera come luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo.
MARCELLO PARADISO
Identità Alterità Riconoscimento. Sulle relazioni umane e divine
Assisi (Pg), Cittadella, 2021, 232, € 17,90.
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