Salta al contenuto principale

Dio si presenta a noi raggiungibile mediante il lavoro



Il lavoro è sempre stato un tema centrale nel magistero di papa Francesco. Basta ricordare i discorsi ai «movimenti popolari» che hanno al centro le 3 «t» esplicitate nel suo discorso del 28 ottobre 2014: tierra, techo, trabajo, cioè terra, casa e lavoro. Oppure quello pronunciato a Genova, presso l’Ilva il 27 maggio del 2017: «C’è sempre stata un’amicizia tra la Chiesa e il lavoro, a partire da Gesù lavoratore. Dove c’è un lavoratore, lì c’è l’interesse e lo sguardo d’amore del Signore e della Chiesa».

A partire dal 1956, anno in cui la Chiesa celebrò per la prima volta il 1° maggio, e fino ad oggi in occasione della celebrazione del Giubileo dei Lavoratori voluto da papa Francesco, il pensiero va alla grande schiera dei lavoratori giornalieri e occasionali, a quelli con contratti a termine non rinnovati, a quelli pagati a ore, agli stagisti, ai lavoratori domestici, ai piccoli imprenditori, ai lavoratori autonomi, specialmente quelli dei settori più colpiti prima dalla pandemia e oggi dalla crisi finanziaria. Molti sono padri e madri di famiglia che faticosamente lottano per poter apparecchiare la tavola per i figli e garantire ad essi il minimo necessario.

Due articoli per riflettere sul tema del lavoro:

The post Dio si presenta a noi raggiungibile mediante il lavoro first appeared on La Civiltà Cattolica.


Francesco: un papato intenso e coraggioso



Nei primi tempi dopo l’elezione di papa Francesco, i suoi amici che venivano da Buenos Aires per incontrarlo erano stupefatti della vitalità e dell’energia del nuovo papa. Lo amavano e lo ammiravano ed erano naturalmente felici della sua elezione, ma negli ultimi tempi del suo servizio come arcivescovo avevano avuto l’impressione che fosse meno energico e vivace che in passato, forse perché ormai vicino al traguardo dei 75 anni e quindi al compimento dell’impegno pastorale a cui aveva dedicato per tanto tempo tutte le sue forze. Più di una volta sentii osservare da qualcuno di loro che a Roma trovavano un uomo diverso, in un certo senso molto ringiovanito e più dinamico rispetto a quello che aveva lasciato poco prima l’Argentina.

Anche chi si trovava a collaborare con lui a Roma, senza averlo conosciuto prima, era colpito dalla vivacità e dall’energia che si andava manifestando giorno dopo giorno, in modo piuttosto sorprendente e in un certo senso crescente, in un uomo non più giovane e certo non dotato di un fisico prestante. Negli impegni pastorali, nelle udienze non risparmiava le forze, senza proteggersi neppure dalle intemperie. Si rilanciò senza paura in quei faticosi viaggi internazionali che il suo predecessore aveva riconosciuto ormai superiori alle sue forze. C’era qualcosa di straordinario. Una volta, durante il suo primo viaggio in Corea, gli domandai in confidenza come si spiegasse tale sua inattesa energia. Rispose subito e molto semplicemente: «È la grazia di stato». Voleva dire – come sa ogni credente – che se la volontà di Dio ti mette in una determinata situazione di vita o ti affida una missione, allo stesso tempo ti dà tutta la grazia necessaria per fare quello che si aspetta da te.

Questa «grazia di stato» lo ha accompagnato per 12 anni, un tempo più lungo di quello che forse ci saremmo aspettati e che egli stesso sembrava all’inizio aspettarsi. Ora possiamo guardare indietro e meditare su quanto, collaborando con la grazia di Dio, ha potuto fare a servizio della Chiesa e della comunità umana nel corso di un pontificato che certo lascerà il segno nella storia della Chiesa agli inizi del terzo millennio.

Argentino di origini italiane, primo papa latinoamericano, Jorge Mario Bergoglio scelse – primo e finora unico – il nome «Francesco». Capimmo subito che era una scelta impegnativa e molto coraggiosa: il Cantico delle creature, Madonna Povertà, la visita al Sultano… creazione, poveri, pace. Decise di abitare a Santa Marta piuttosto che nel Palazzo Apostolico. Il Giovedì Santo andò a celebrare la Messa della Cena del Signore non a San Giovanni in Laterano o a San Pietro, ma in un carcere minorile, lavando i piedi a ragazzi e ragazze. Pur non essendo un grande poliglotta, manifestò subito un carisma di prossimità e di empatia spontanea con la gente che ne fece un fenomeno della comunicazione. Entro un mese dall’elezione, raccogliendo un suggerimento delle riunioni pre-conclave dei cardinali, istituì un nuovo Consiglio ristretto di cardinali dei diversi continenti (prima sette, poi nove), con cui incontrarsi più volte l’anno per consultarsi anche al di fuori della Curia romana e studiare progetti di riforma. Fece il suo primo inaspettato viaggio all’isola di Lampedusa, approdo di migranti e naufraghi nel Mediterraneo.

Fin dall’inizio impostò con grande cordialità e trasparenza due rapporti importanti e «nuovi» per un papa: quello con il suo predecessore Benedetto XVI, che rimaneva a vivere in Vaticano, e quello con la Compagnia di Gesù, il suo ordine religioso di appartenenza, allora guidato da p. Adolfo Nicolás. Oltre che al viaggio in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù, dedicò il tempo estivo a stendere l’esortazione apostolica Evangelii gaudium («La gioia del Vangelo»), vero testo programmatico: una Chiesa missionaria, non «autoreferenziale», che ha da portare al mondo un Vangelo fonte di gioia.

Si può dire che nel giro di pochi mesi abbiamo potuto capire senza ambiguità linee e spirito del nuovo pontificato. Una grande corrente di simpatia e di fiducia percorse la Chiesa e il mondo, diffondendo entusiasmo e slancio rinnovati, dopo un periodo in cui alle difficoltà dei tempi si erano aggiunti i turbamenti della crisi degli abusi sessuali, delle vicende di Vatileaks, delle discussioni sullo Ior e infine anche lo sconcerto di chi non aveva compreso il significato della rinuncia di Benedetto XVI. L’avvio del nuovo pontificato fu quindi senz’altro un tempo di dimostrazione di vitalità della Chiesa, di svolta positiva, incoraggiante, se non addirittura entusiasmante. Un tempo di grazia. Ricordare quel tempo ci aiuta oggi a mettere a fuoco le coordinate per leggere i 12 anni trascorsi di cammino della Chiesa guidata da papa Francesco, pur senza la pretesa impossibile di ricordare tutto.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

Evangelizzazione

La missione della Chiesa è di annunciare il Vangelo, e questo è una buona notizia, che porta la gioia, segno inconfondibile della presenza dello Spirito Santo. Non è un caso che la parola della gioia evangelica torni non solo nel titolo del già ricordato documento programmatico Evangelii gaudium, ma anche nei titoli di diversi fra i principali testi del pontificato: Amoris laetitia, Laudato si’, Gaudete et exsultate, Veritatis gaudium

Francesco, in particolare nei primi anni del suo pontificato, ha insistito molto su un annuncio del Vangelo che non si disperda in complicazioni e minuzie, ma vada al centro, all’essenziale, e questo essenziale è la misericordia di Dio. Anche i suoi predecessori avevano parlato molto di misericordia, in particolare Giovanni Paolo II, ma Francesco ha continuato a farlo con grande insistenza e moltiplicando iniziative e gesti esemplari molto efficaci. Il Giubileo straordinario della Misericordia (2015-2016) è stato un tempo culminante e originale, con la prima apertura della Porta santa a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, invece che a Roma; con le Porte sante nelle carceri e nei santuari del mondo, con le visite a sorpresa del venerdì pomeriggio ad asili per poveri, case per anziani e malati e così via: i gesti di misericordia spirituale e corporale. La raccomandazione ai confessori di essere sempre interpreti della misericordia di Dio, di perdonare sempre, ha ravvivato la pratica di questo sacramento, e Francesco non solo ha dato più volte personalmente l’esempio ai sacerdoti di amministrarlo, ma ha dato anche l’esempio ai fedeli di andare a confessarsi senza timore.

L’esempio come evangelizzatore Francesco lo ha dato da subito anche con le omelie delle celebrazioni mattutine a Santa Marta, che – come ricordiamo bene – erano iniziate in forma più riservata, pur ottenendo grande interesse da parte di moltissimi fedeli; ma, durante la pandemia, sono state poi giustamente trasmesse in diretta, diventando fonte di conforto per innumerevoli persone. Vogliamo sottolineare il servizio di consolazione e di sostegno spirituale svolto da Francesco nel tempo della pandemia. Si è trattato di un flagello inaspettato e per certi aspetti nuovo, che ha colpito l’umanità durante il suo pontificato. Questo gli ha richiesto e dato occasione di allargare il suo servizio spirituale al di là di ogni confine. Fra gli eventi più indimenticabili del suo pontificato rimane certamente la sua grande preghiera in una Piazza San Pietro apparentemente del tutto deserta, ma colma di una presenza spirituale e universale intensissima.

Per quanto riguarda le grandi tematiche pastorali della Chiesa nel mondo di oggi, Francesco ha riservato un’attenzione prioritaria alla famiglia, dedicandovi i primi due sinodi, che hanno dato un contributo prezioso non solo per riproporre in forma positiva e convincente il valore dell’amore come fondamento della famiglia, ma anche per sviluppare un approccio equilibrato, dal punto di vista pastorale e dottrinale, alle situazioni problematiche dal punto di vista canonico, oggi sempre più diffuse. Si trattava di affrontare il divario crescente, evidente e imbarazzante fra la realtà di fatto di numerosissime famiglie e l’insegnamento morale cattolico tradizionale. Francesco ha avuto il coraggio di farlo, proponendo la questione in sede sinodale, per trovare un approccio condiviso. Naturalmente non tutto è stato risolto, ma si è fatto un bel passo avanti, in cui ha trovato il suo posto un tema fondamentale nella visione pastorale di papa Francesco: quello del «discernimento» pastorale e spirituale, cioè la ricerca della volontà di Dio nelle situazioni concrete della vita, senza fermarsi, paralizzati, al livello delle norme e regole generali, pur comprendendone il senso.

Un altro grande tema pastorale vissuto e proposto in prima persona da Francesco è stato quello dei giovani. Non solo nelle Giornate Mondiali della Gioventù, che nel tempo non hanno perduto il loro richiamo e la loro efficacia e nelle quali Francesco – a Lisbona nel 2023, come già a Rio de Janeiro, Cracovia, Panama – ha dimostrato il suo carisma eccezionale di comunicatore di gioia ed entusiasmo cristiano, ma anche in un sinodo specifico, organizzato con una metodologia propria per ascoltare e coinvolgere i giovani – compresi i millennials e i nativi digitali –, con i loro nuovi orizzonti e i loro drammatici disagi[1] e che ha trovato espressione nella bella Esortazione apostolica Christus vivit (2019). Come affrontare, alla luce della fede e animati dalla speranza cristiana, le sfide del profondo cambiamento antropologico della posizione dell’uomo nel mondo e nelle sue relazioni con gli altri?

Sulle tracce di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, Francesco ha ripreso con grande decisione le vie del mondo con ben 47 viaggi internazionali in 66 nazioni diverse: viaggi pastorali di conferma della fede della Chiesa, di evangelizzazione, di dialogo e di pace. In tutti i continenti, con una distribuzione geografica sostanzialmente equilibrata sull’insieme del Pianeta. Ma vorremmo mettere in rilievo che Francesco è tornato più volte nell’Asia orientale, dove il suo predecessore non si era recato. Ha potuto anche almeno sorvolare la Cina, al cui popolo e alla cui Chiesa ha dedicato tanta attenzione, riuscendo a riportare nella piena comunione con Roma l’intero episcopato del Paese, senza arrestarsi di fronte ai dubbi, alle difficoltà e alle critiche. Come ai suoi predecessori, anche a lui non è stato possibile recarsi in Russia, ma è riuscito a incontrare almeno una volta il Patriarca ortodosso russo, sebbene a Cuba e di passaggio…

La sua è stata una presenza missionaria globale, aperta al dialogo ecumenico e con le altre religioni, all’incontro con tutti i popoli e le loro diverse culture. Il Vangelo di Gesù Cristo non è solo per i cristiani, ma per tutti, come appare evidente dai grandi messaggi più caratteristici di Francesco per il mondo di oggi.

La creazione, i poveri, la fratellanza per la pace


La più importante fra le encicliche di Francesco è senza dubbio la Laudato si’ (2015), «sulla cura della casa comune»[2]. L’argomento delle problematiche ambientali e della responsabilità dell’uomo non era certo nuovo, ma Francesco è riuscito a trattarlo con grande ampiezza di prospettive – teologiche e spirituali, scientifiche, sociali, economiche e politiche –, facendosi efficacemente interprete delle domande più urgenti, drammatiche e cruciali dell’umanità sul suo futuro e sulle sue responsabilità verso tutte le creature, verso tutti i suoi membri – in particolare i più deboli – e verso le prossime generazioni. Il Papa, che già si era segnalato per molti interventi coraggiosi su questioni drammatiche sui rifugiati, i migranti, le ingiustizie economiche e sociali e la «cultura dello scarto», con questa enciclica – rivolta non solo alla Chiesa, ma a tutto il mondo – si è presentato con decisione sulla scena globale come un leader morale autorevole, capace di riconoscere la gravità oggettiva dei rischi, di leggerne le cause e le interconnessioni, e di contribuire a orientare gli impegni positivi necessari per superarli nella prospettiva del bene comune.

Se questa enciclica è rimasta l’intervento più autorevole, è giusto notare che dopo di essa Francesco ha continuato a ritornare sull’argomento in molteplici occasioni durante tutto il suo pontificato, non solo con ulteriori documenti, discorsi e richiami forti e preoccupati, ma anche intervenendo personalmente in incontri internazionali, esponendosi per sollecitare l’impegno dei responsabili politici, sempre troppo debole e insufficiente rispetto ai problemi[3]. Al passo con i tempi e aperto alle problematiche, negli ultimi anni papa Francesco ha dedicato sempre più attenzione anche al tema dell’Intelligenza artificiale e dei suoi effetti sul futuro dell’umanità[4].

Tutti sanno che Francesco ci ha insegnato a guardare realtà e problemi non tanto dal centro, quanto dalle periferie. I problemi reali e urgenti, le situazioni di ingiustizia e sofferenza non solo si vedono, ma soprattutto si comprendono, si sentono meglio, in modo più coinvolto e urgente, non restando nei luoghi protetti del potere politico, economico e anche culturale, ma condividendo la vita nelle regioni e situazioni marginali geografiche e sociali… La realtà appare diversa, «se vista da Madrid o dallo Stretto di Magellano». In effetti, questa linea si è espressa in modo molto chiaro anche nella successione dei viaggi europei del Papa, che si è sviluppata dando nei primi anni una certa priorità a Paesi meno centrali, come l’Albania, la Bosnia Erzegovina, Malta, la Grecia, la Bulgaria, la Romania, la Slovacchia, l’Ungheria…

L’insistenza e la veemenza degli interventi papali sui temi già ricordati dei migranti, rifugiati, emarginati di ogni genere divennero caratteristiche fin da subito e non si sono mai attenuate nel corso degli anni[5]. Rimangono indimenticabili le visite a Lampedusa e a Lesbo, o nel Sud Sudan, o l’incontro con i Rohingya perseguitati…, ma anche le celebrazioni presso il muro di separazione a Betlemme, o le barriere al confine fra Messico e Stati Uniti… Si potrebbe continuare a parlarne a lungo. In molti Paesi del mondo, la Chiesa cattolica si è sentita fortemente incoraggiata e sostenuta dal Papa nel prendere posizioni e iniziative in favore dei migranti e dei rifugiati, nonostante si trattasse ovunque di un tema delicato e controverso.

L’ispirazione di san Francesco ritorna esplicita ed evidente nell’accento messo dal Papa sulla fratellanza fra tutti gli uomini, che non a caso dà il titolo all’altra grande enciclica del pontificato: Fratelli tutti, «sulla fraternità e l’amicizia sociale» (2020), diretta anch’essa, come la precedente, non solo ai fedeli, ma a tutti gli uomini. Il discorso è allo stesso tempo squisitamente evangelico, prendendo avvio dalla parabola del Samaritano, ma assolutamente aperto al mondo intero: un mondo terribilmente diviso, ma da ricostruire nel dialogo e – appunto – nella fraternità.

Francesco ha avuto veramente un carisma particolare nell’incontro con le persone. Nel tempo, abbiamo capito sempre meglio che cosa voleva dire quando parlava della «cultura dell’incontro». Intendeva un atteggiamento sincero e totale di ascolto, disponibilità, apertura, empatia, comprensione, dialogo fiducioso, che andasse oltre i contenuti concettuali di una discussione, per quanto approfondita, per arrivare a una sintonia della mente e del cuore, che, pur nel rispetto delle differenze, costituisse la premessa di un cammino comune, di amicizia e di passi concreti nella stessa direzione, verso la riconciliazione e la costruzione della pace.

Questa ricerca dell’incontro – non solo una disponibilità «passiva» all’incontro, ma anche una ricerca «attiva» di esso – ha avuto molte applicazioni concrete nel corso del pontificato di Francesco, sia a livello personale, sia a livello più ampio, diplomatico, ecumenico, interreligioso, e ha anche prodotto risultati, talvolta molto importanti e al di là delle aspettative. Forse l’esempio più evidente è il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi nel 2019 da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, una delle personalità più importanti del mondo musulmano sunnita. Un evento in precedenza ritenuto per lo più impensabile, ma non isolato nel quadro di questo pontificato: si pensi anche al viaggio di papa Francesco in Iraq (2021) e al suo incontro a Najaf con la massima autorità religiosa del mondo musulmano sciita, il Grande Ayatollah Ali al-Sistani.

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

Ma la costruzione della pace rimane un compito mai concluso su questa terra. Con realismo e profonda acutezza, papa Francesco ha parlato, fin dall’inizio, della «terza guerra mondiale a pezzi». Si è impegnato nella misura delle sue forze per superare i conflitti. Basti pensare alla disponibilità dichiarata per mediare in Venezuela o per la riconciliazione nel Sud Sudan; al coraggioso viaggio nella Repubblica Centrafricana… Ma, nel corso del pontificato, ulteriori orribili pezzi di questa guerra mondiale si sono avvicinati a Roma e lo hanno coinvolto dolorosamente. Pensiamo anzitutto all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022 e poi al conflitto fra Israele, Hamas ed Hezbollah dopo il terribile, feroce attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e le conseguenti distruzioni a Gaza e nel Libano.

Francesco ha mobilitato la diplomazia vaticana, ha moltiplicato iniziative umanitarie, ha conservato una posizione lungimirante e superiore con i suoi appelli e la sua preghiera, ma ha dovuto assistere ancora una volta all’imperversare dell’odio, alla follia distruttrice delle armi, alle «inutili stragi», alla devastazione dei rapporti umani, alla frustrazione di tanti sforzi ecumenici e dei rapporti con l’ebraismo e con l’islam. In questo contesto oscuro e nella sofferenza, Francesco non si è scoraggiato e ha riproposto al mondo come tema del nuovo Anno giubilare proprio quello della speranza, per mantenerla viva nella lotta fondamentale fra l’odio e l’amore. Dobbiamo continuare a evocare i messaggi di pace del viaggio in Terra Santa (2014), l’abbraccio del Papa con il rabbino Skorka e con il leader musulmano Abboud davanti al Muro del Pianto.

Aspetti della «riforma»


Come già accennato, entro la scadenza di un mese dalla sua elezione papa Francesco creò il nuovo «Consiglio di cardinali» (allora detto «il C7») e pose all’ordine del giorno – anzitutto, anche se non solo – il tema della riforma della Curia romana, a cui aggiunse fin dall’inizio le riflessioni sul Sinodo dei vescovi. Il suo predecessore, consapevolmente, pur conoscendone l’importanza, non lo aveva affrontato se non con piccoli ritocchi marginali. Le Congregazioni generali pre-conclave ne avevano perciò affermato l’urgenza. Francesco cominciò coraggiosamente l’opera, avviando un «processo», senza pretendere di avere in partenza un disegno articolato, coerentemente con il suo modo di procedere con fiducia nel cammino guidato dal discernimento.

Il processo non fu facile – non mancò neppure un nuovo Vatileaks – e si svolse attraverso la realizzazione di numerose riforme parziali di quelli che erano le Congregazioni e i Pontifici Consigli, la Segreteria di Stato, le Istituzioni collegate per le comunicazioni sociali; inoltre, con l’istituzione di nuovi Organismi economici, a cui veniva dato un ruolo assai maggiore che in passato, e con altri provvedimenti. La riforma della Curia romana prese così forma gradualmente nel corso di nove anni, fino alla pubblicazione della costituzione apostolica Praedicate Evangelium del marzo 2022. Dal titolo stesso se ne comprende immediatamente l’ispirazione, che in realtà era chiara a Francesco fin dall’inizio: la Curia romana è uno strumento del Papa per il servizio alla Chiesa nel mondo, cioè l’annuncio del Vangelo. Il Dicastero per l’evangelizzazione occupa perciò simbolicamente il primo posto fra i 16 Dicasteri, e il Papa stesso lo presiede direttamente. Un’operazione così ardua e complessa comporta naturalmente difficoltà e limiti, per cui rimane certamente sempre perfettibile. Ma bisogna riconoscere che papa Francesco l’ha condotta in porto nonostante dubbi, obiezioni non tutte infondate e forti resistenze, grazie a una volontà molto ferma, che non ha avuto paura di chiedere anche sacrifici per il bene superiore della missione.

La riforma delle istituzioni non è certo tutto per rinnovare evangelicamente la Chiesa. Perciò Francesco l’ha accompagnata con il richiamo martellante allo spirito di servizio, che deve animare tutte le sue strutture e l’esercizio di ogni forma di autorità e potere. La polemica contro il «carrierismo» o la «burocratizzazione dei servizi» ha accompagnato senza posa i suoi discorsi, cercando anche di tradursi in regole di termini temporali di mandati e incarichi, per ovviare ai rischi in questo campo. In ciò Francesco non ha cercato di «ingraziarsi» gli ambienti curiali, procedendo talvolta con rigore, ma anche con la consapevolezza di poter contare sullo spirito di obbedienza e di amore alla Chiesa e al Papa della gran parte dei suoi collaboratori.

Oltre che alla Curia romana, Francesco pensò anche immediatamente al Sinodo dei vescovi. Anch’esso ha visto una profonda trasformazione nel corso del pontificato, e si può ben dire che ne aveva bisogno per riprendere vitalità e dinamismo nel suo servizio per il cammino della Chiesa. Nel tempo i sinodi erano diventati una lunga rassegna di apprezzabilissimi interventi dei molti padri sinodali, ma con una dinamica interna di dialogo e approfondimento piuttosto ridotta, tanto da risultare quasi in contraddizione con ciò che dice il suo stesso nome: «fare strada insieme». Da parte nostra, abbiamo considerato lo sforzo di rinnovamento della metodologia e del ruolo del Sinodo come non meno importante di quello dedicato da Francesco per la Curia, anzi forse di più[6]. Non siamo evidentemente ancora in grado di valutare i risultati durevoli dei due «Sinodi sulla sinodalità» nel diffondere alle comunità della Chiesa nel mondo la dinamica e lo stile di questa sinodalità, ma certamente abbiamo capito che papa Francesco ci ha indicato questa via e ha fatto il possibile per orientare ad essa il nostro modo di essere Chiesa nel mondo di oggi, continuamente in cammino insieme, domandando e ascoltando lo Spirito Santo che ci accompagna.

Nella Curia romana, come nel Sinodo, negli ultimi anni è andato crescendo sensibilmente lo spazio di responsabilità delle donne, religiose e laiche, anche in posti elevati. Francesco non ha mutato in nulla la posizione della Chiesa circa il sacerdozio per le donne e non ha neppure fatto passi impegnativi in favore del diaconato femminile, a parte l’istituzione di una commissione di studio; ma non si può non vedere un vero progresso nell’incoraggiare la partecipazione attiva e responsabile delle donne nella vita e nella missione della Chiesa. È un progresso assolutamente doveroso e urgente nel nostro tempo, non solo per motivi sociali, ma per coerenza con la corretta visione della dignità e della vocazione di ogni persona battezzata, così fortemente affermate dal Vaticano II.

Papa Francesco è stato eletto in un tempo in cui la crisi per gli abusi sessuali nella Chiesa, in particolare da parte di membri del clero, era molto grave. Papa Benedetto l’aveva affrontata con onestà e coraggio, con il piede giusto, con un ampio ventaglio di risposte e misure: dall’ascolto personale delle vittime alla migliore selezione dei candidati al sacerdozio, al maggior rigore nelle procedure disciplinari e penali e così via. Ma il cammino era ancora lungo e difficile, e Francesco ebbe molto da impegnarsi e soffrire per continuare, approfondire, allargare la strada aperta dal predecessore, combattendo i crimini, le loro radici e il loro occultamento. Si devono perciò ricordare la convocazione di un grande Incontro a Roma dei rappresentanti di tutte le Conferenze episcopali e di altre autorità (febbraio 2019), numerosi nuovi interventi normativi e pastorali[7], i suoi numerosi incontri personali con vittime di abusi, il coinvolgimento nelle vicende del Cile e l’accettazione della rinuncia collettiva dei vescovi del Paese, la costituzione di una Commissione pontificia… Rimane caratteristico di questo impegno di Francesco l’allargamento della prospettiva dagli abusi sessuali su minori a quella dell’ambito più ampio degli abusi di coscienza e di potere, alla critica del «clericalismo» come componente del problema, all’insistenza sul coinvolgimento dell’intero popolo di Dio nel rinnovamento di conversione e guarigione dalla piaga degli abusi.

In continuità con queste problematiche vanno viste anche le numerose misure di «commissariamento» di diverse congregazioni o comunità religiose o movimenti ecclesiali, spesso di non antica creazione, dove l’esercizio dell’autorità era degenerato o rischiava di degenerare in forme diverse di abuso. Anche figure di notevole fama e carisma sono state scoperte inaspettatamente – spesso dopo molti anni – gravemente colpevoli. La presenza del male e del peccato continuerà sempre a insidiare la Chiesa, ma va contrastata sempre e con decisione, e in ciò la trasparenza, la solidità e la profondità della formazione spirituale e umana svolgono un ruolo essenziale. Papa Francesco ha fatto la sua parte.

«Evangelizzatori con Spirito»


L’esortazione apostolica programmatica di papa Francesco Evangelii gaudium (EG) si concludeva con il capitolo intitolato «Evangelizzatori con Spirito»: cioè, dobbiamo essere servitori del Vangelo aperti all’azione dello Spirito Santo, che pregano e che lavorano. «Dal punto di vista dell’evangelizzazione non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore» (EG 262).

Oltre alle continue, innumerevoli occasioni di interventi dedicati alla vita cristiana e alla spiritualità nel corso di discorsi, omelie, udienze, celebrazioni di un papa molto attivo e molto desideroso di vivere la sua vocazione pastorale, vogliamo ricordare alcuni documenti caratteristici della sua esperienza e proposta spirituale.

Il principale rimane probabilmente la splendida esortazione apostolica Gaudete et exsultate («Rallegratevi ed esultate»), «sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo» (2018). Per chi si era fatto un’immagine molto limitata di papa Francesco come concentrato essenzialmente su temi sociali, questo scritto fu una bellissima sorpresa, che rivelò a tutti la profondità spirituale della prospettiva del Papa e la sua capacità di illuminare la quotidianità della vita, riattualizzando quella «chiamata universale alla santità» in cui il Concilio Vaticano II portava a compimento il suo grande discorso sulla Chiesa e sulla sua missione. I «santi della porta accanto», «la classe media della santità» non solo i santi canonizzati, ma i genitori che amano i loro figli, gli operai che portano a casa il pane dell’onesto lavoro, gli anziani e i malati che sorridono, i volontari che accudiscono con serenità… camminano nel popolo di Dio, e noi ci sentiamo accompagnati e incoraggiati da loro. Ma in realtà, questi santi sono coloro che ascoltano e seguono lo Spirito Santo, che li accompagna e li aiuta a «discernere», a cercare e trovare con gioia e fervore la via di un amore sempre più generoso e dimentico di sé e simile a quello di Gesù[8].

Francesco ci ha resi partecipi anche delle sue devozioni più care, che lo hanno sempre accompagnato nella sua vita, già ben prima del pontificato. Pensiamo alla lettera apostolica dedicata a san Giuseppe Patris corde («Con cuore di padre»), del 2020. Proprio nel giorno della solennità di san Giuseppe, Francesco aveva celebrato l’inaugurazione del suo pontificato. Oppure pensiamo all’esortazione apostolica dedicata a santa Teresa di Lisieux C’est la confiance («È la fiducia»), del 2023. E infine Francesco ci ha ancora sorpresi dedicando la sua ultima enciclica, la quarta, al Sacro Cuore di Gesù: Dilexit nos («Ci ha amati»), del 2024.

Questo grande inno finale all’amore di Dio per noi in Gesù Cristo ci riporta naturalmente ai discorsi sulla misericordia di Dio che avevano caratterizzato i primi anni di pontificato. Tutta la grande avventura di questo pontificato, che per tanti aspetti non ha mai smesso di stupirci, trova il suo senso complessivo nell’evangelizzazione, ossia nell’annuncio a tutti – «tutti, tutti, tutti» – dell’amore di Dio, della sua misericordia, che si manifesta nel modo più credibile e profondo nel Cuore di Cristo aperto per noi.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1]. La canonizzazione di Carlo Acutis in tempi brevissimi va compresa in questo contesto, come pure quella di Pier Giorgio Frassati.

[2]. La bella enciclica Lumen fidei (2013), in realtà la prima firmata da Francesco, è di fatto rimasta in ombra, perché in gran parte già preparata nel precedente pontificato e poi presto superata nell’interesse dal nuovo documento programmatico di Francesco Evangelii gaudium.

[3]. Ad esempio, si può ricordare l’esortazione apostolica Laudate Deum (4 ottobre 2023) sulla gravità delle conseguenze dei cambiamenti climatici e il fatto che il Papa avrebbe desiderato partecipare di persona alla Cop28 a Dubai, svoltasi sullo stesso tema poche settimane dopo a Dubai. Ricordiamo che sui temi della responsabilità ambientale Francesco ha spesso valorizzato la sua piena sintonia con il Patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo di Costantinopoli, anche con messaggi comuni.

[4]. Proprio sul tema degli effetti dello sviluppo dell’Intelligenza artificiale papa Francesco ha voluto partecipare, con un grande discorso, al G7 svoltosi a Borgo Egnazia, in Puglia, il 14 giugno 2024.

[5]. Ci sia permesso un piccolo ricordo personale. Il giorno in cui Francesco avrebbe ricevuto per la prima volta un gruppo di nuovi ambasciatori presso la Santa Sede, mi telefonò personalmente al mattino presto, mentre facevo colazione, per raccomandarmi di dare eco al breve discorso che avrebbe fatto, dedicato proprio a questi temi.

[6]. Nel ripercorrere il pontificato di Francesco, non si può dimenticare il Sinodo speciale per l’Amazzonia (2019), a seguito del quale Francesco ha pubblicato l’esortazione Querida Amazonia («L’amata Amazzonia»). È stato un sinodo dedicato a una regione specifica, in cui significativamente si sono intrecciate le dimensioni sociali, culturali, ecologiche ed ecclesiali/pastorali. Giustizia, inculturazione, conversione ecologica, evangelizzazione: tutto insieme, in una vivace dinamica di dialogo e ricerca spirituale, che non si deve certo ridurre alle discussioni, di cui tanto si parlò, sul celibato sacerdotale. Un «esperimento» di grande portata della «sinodalità» in una grande regione, cruciale per il futuro del nostro Pianeta.

[7]. Ad esempio, la Lettera al popolo di Dio pellegrino in Cile (31 maggio 2018), la Lettera al popolo di Dio (20 agosto 2018), il motu proprio Vos estis lux mundi (2019), la rimozione del «segreto pontificio» in materia di abusi (2019) ecc.

[8]. Probabilmente proprio qui si trova il punto più «gesuitico» della personalità di Francesco. Essa infatti è ispirata dalla dinamica «ignaziana» dell’apertura a un amore sempre più grande e guidata dal discernimento. Non è qualcosa di particolaristico, ma una via per avvicinarsi al cuore della vita cristiana.

The post Francesco: un papato intenso e coraggioso first appeared on La Civiltà Cattolica.


La Dichiarazione Schuman compie 75 anni


(Foto di Antoine Schibler su Unsplash)

Introduzione


Papa Francesco ha posto la speranza al centro dell’Anno giubilare 2025. Nella bolla di indizione del Giubileo, Spes non confundit[1], esprime il desiderio che esso sia un’occasione di rinnovata speranza nei cuori degli esseri umani. Per i cristiani, questa speranza, che mantiene viva la fiducia nella felicità futura nonostante le incertezze e le difficoltà della vita presente, deriva più direttamente dal «Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto», dalla rivelazione dell’amore di Dio, «l’amore che scaturisce dal cuore di Gesù trafitto sulla croce».

Per alimentare ulteriormente la speranza, papa Francesco invita la Chiesa a leggere «i segni della speranza» nel mondo, in linea con l’attenzione ai segni dei tempi promossa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes (GS). «Porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo» è un antidoto alla tentazione «di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza». Tra questi segni di speranza, il Pontefice colloca al primo posto il desiderio di pace.

È quindi una felice coincidenza che nell’anno 2025 si celebri anche il 75° anniversario della Dichiarazione Schuman, un testo nato da un ardente desiderio di pace. Era infatti il 9 maggio 1950 quando Robert Schuman, allora ministro degli Affari esteri della Francia, durante una conferenza stampa al Quai d’Orsay, rese nota una proposta rivolta alla Germania. La Francia prospettava di gestire congiuntamente i mercati del carbone e dell’acciaio in una modalità nuova, di carattere sovranazionale; tale proposta non era rivolta solo alla Francia e alla Germania, ma doveva essere estesa a tutte le parti interessate. Il progetto, concepito dalla mente lungimirante di Jean Monnet, intendeva offrire una vera e propria via d’uscita ai Paesi europei all’indomani della Seconda guerra mondiale e prevenire soluzioni che avrebbero potuto aggravare le divisioni e rafforzare i sospetti, invece di sanarli. I princìpi della Dichiarazione Schuman di fatto costituirono il punto di partenza e il modello per lo sviluppo di quella che sarebbe diventata dapprima la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, poi la Comunità europea e, infine, l’Unione europea (Ue). Quel giorno può quindi essere considerato fondativo del progetto di integrazione europea, e per questo il Consiglio d’Europa nel 1985 ha proclamato il 9 maggio «Giornata dell’Europa».

Settantacinque anni dopo, tornare al testo della Dichiarazione e ai suoi princìpi fondamentali è ancora fonte di ispirazione. Per molti versi, i temi sviluppati da Schuman e Monnet – come la pace, la riconciliazione, il dialogo, la giustizia equa, la pazienza, per citarne solo alcuni – oggi sono più attuali che mai e sono in profonda sintonia con lo spirito di un Anno giubilare incentrato sulla speranza.

Motivi di disperazione, oggi come ieri


In una nota datata 3 maggio 1950[2], Monnet osservava che «ovunque si guardi nel mondo di oggi, non si incontra altro che un vicolo cieco». Proseguiva elencando alcuni di questi punti morti. C’era, in primo luogo, la diffusa percezione dell’«inevitabilità» di una guerra tra l’Occidente e l’Unione Sovietica. C’era poi la difficoltà di far reintegrare la Germania nel consesso delle nazioni occidentali, con una modalità che non risultasse minacciosa per i suoi ex avversari. Inoltre, la riorganizzazione politica dell’Europa sembrava essersi arenata in un vicolo cieco, con un Consiglio d’Europa appena nato che non soddisfaceva le aspettative dei federalisti europei. E l’elenco potrebbe continuare.

Non è azzardato tracciare alcuni parallelismi fra la situazione dell’Europa degli anni Cinquanta del secolo scorso e quella odierna. Perlomeno, bisogna riconoscere che oggi come allora la diagnosi delle sfide che il continente si trova ad affrontare è piuttosto cupa.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

È forte la tentazione di pensare che oggi siamo più divisi che mai. Sul piano della politica interna, la polarizzazione costituisce un motivo di preoccupazione in molti Paesi. Il crescente malcontento nei confronti dell’establishment politico centrista ha favorito l’ascesa di partiti più radicali, che invocano una revisione brutale dell’attuale sistema e delle sue convenzioni. Le radici della crisi sono diverse. Ma, o che si individui la causa scatenante nella disgregazione delle comunità tradizionali, o in una iniqua distribuzione dei benefici della globalizzazione economica, o in un divario crescente tra élite istruite e ampie fasce della popolazione, o nell’emergere di nuove forme patologiche di comunicazione, o in una gestione inadeguata dei flussi migratori, o in una combinazione di tutti questi fattori, il risultato finale è una profonda alterazione avvenuta nel dibattito pubblico negli ultimi anni. La capacità di ricercare il bene comune – e di accettare compromessi per raggiungerlo – è stata messa in crisi dall’incapacità di ampie componenti dello spettro politico di dialogare tra loro. Sebbene in molti Paesi d’Europa i sistemi elettorali proporzionali siano ancora preservati dagli eccessi della politica di parte che si osservano negli Stati Uniti, tuttavia, con i partiti populisti, da un lato, che sperano di emulare l’indignata politica identitaria che ha favorito Donald Trump, e i partiti centristi, dall’altro, incapaci di rivolgersi ai loro elettori smarriti se non con silenzi o condanne, lo spazio per un dialogo politico costruttivo si è drasticamente ridotto.

Anche sul fronte economico, l’Europa, nonostante la sua relativa prosperità, si sente minacciata. La guerra in Ucraina ha messo in luce l’incapacità dell’Unione europea di superare in modo significativo la produzione militare industriale della Russia, che ha un’economia pari a un decimo della sua in termini di Pil. Per quanto riguarda l’innovazione, cresce la preoccupazione che l’Europa rimanga progressivamente indietro. Gli investimenti privati nella ricerca e nello sviluppo nell’Ue rappresentano circa la metà di quelli statunitensi, e il divario di prosperità tra le due economie, che sta lentamente crescendo, rischia di diventare incolmabile, soprattutto se l’Europa non riuscirà a cogliere le opportunità legate a nuove tecnologie dirompenti, come l’intelligenza artificiale. Settori chiave, come l’industria automobilistica tedesca, mostrano segni di cedimento, e le industrie che erano state presentate quali motori del futuro, come quella delle auto elettriche o dell’energia verde, vedono oggi la Cina superare l’Europa. Rapporti recenti, come quello di Enrico Letta sul mercato unico[3], o quello di Mario Draghi sulla competitività[4], hanno formulato diagnosi preoccupanti e indicato possibili vie da percorrere. Ma c’è anche un diffuso scetticismo sulla capacità dell’Unione di mobilitare risorse politiche e finanziarie per attuare effettivamente le soluzioni proposte. Come se tutto questo non bastasse, la guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti aggiunge un ulteriore motivo di incertezza al futuro economico dell’Europa.

L’Unione europea è (di nuovo?) alla ricerca della propria anima sul piano del funzionamento istituzionale. Di fronte a crisi senza fine, avanza la tentazione di accentrare il potere. Il funzionamento della Commissione si concentra sempre più intorno alla Presidenza, per dare priorità alla rapidità delle decisioni. Al contempo, il Consiglio rafforza la propria importanza nei confronti del Parlamento, in un contesto dominato da questioni di sicurezza su cui quest’ultimo dispone di competenze limitate. Gli interessi nazionali tornano a imporsi, soprattutto in tema di migrazioni, con governi che minacciano apertamente di disattendere l’applicazione del diritto dell’Unione. Le contestazioni dirette all’idea del sovranazionalismo diventano sempre più frequenti, con richieste di ripensare la sussidiarietà così come oggi viene intesa. Giorno dopo giorno, si moltiplicano le discussioni per revocare normative e regolamenti ritenuti eccessivamente vincolanti per l’economia europea. Non molto tempo fa, queste regolamentazioni erano considerate lo strumento privilegiato dell’Europa per proiettare il proprio potere attraverso il cosiddetto «effetto Bruxelles»[5]. Con la prospettiva di un’ulteriore estensione dell’Unione verso Est, fino a includere l’Ucraina, si diventa consapevoli del fatto che l’attuale architettura istituzionale dell’Ue non è adatta a un tale allargamento, che altererebbe in modo considerevole le dinamiche di potere.

Tuttavia, tutte queste preoccupazioni impallidiscono di fronte agli sconvolgimenti geopolitici in corso. L’Europa è stata bruscamente risvegliata dall’aggressione contro l’Ucraina, dopo tre decenni in cui non aveva conosciuto minacce esistenziali al proprio territorio. I vicinati europei – meridionale e orientale –, dati quasi per scontati come zone d’influenza, riemergono oggi come un luogo di competizione. Una cosiddetta «guerra ibrida», che combina propaganda, influenza economica e attacchi digitali, vede l’Europa e i suoi alleati democratici impegnati a difendersi da tentativi di ridisegnare le sfere d’influenza. Infine, la presuntuosa politica estera statunitense America First ha portato molti a concludere che l’idea di un Occidente unito – che ha sostenuto una comune visone del mondo per ottant’anni – è giunta a una brusca fine. L’Europa potrebbe essere costretta a cavarsela da sola, cercando al contempo di tenere a bada un alleato passato a una logica puramente utilitaristica.

Se a ciò aggiungiamo le preoccupazioni legate a un possibile ridimensionamento del Green Deal, un insieme di politiche pensato per fare dell’Europa un leader nella transizione ecologica, e il crollo dei finanziamenti destinati agli aiuti umanitari e allo sviluppo, avremo un’idea del quadro scoraggiante che anima le menti e le discussioni a Bruxelles. Perché soffermarvisi? Semplicemente per ricordare che, se oggi ci sentiamo preoccupati per il contesto attuale, anche nei primi anni Cinquanta del secolo scorso non mancavano motivi di profonda inquietudine. Spesso diamo per scontato il passato, ma un ritorno al periodo della Dichiarazione Schuman ci mostra che nemmeno allora il contesto era più semplice. Dobbiamo prendere sul serio le preoccupazioni di Monnet così come quelle attuali, per cogliere appieno quanto sia stata rivoluzionaria la proposta contenuta nella Dichiarazione Schuman.

Anche allora esisteva una forte polarizzazione, sebbene assumesse una forma diversa. Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’emergere della «guerra fredda», gli atteggiamenti verso l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti tracciavano forti linee di divisione. I partiti comunisti furono rapidamente esclusi dai governi dell’Europa occidentale (nel 1947 sia in Francia sia in Italia, dove erano tra i più forti del continente), ma mantennero comunque una notevole influenza. Le divergenze ideologiche rendevano rapidamente impossibile un dialogo costruttivo. Ogni tentativo di stabilire una cooperazione in Europa veniva screditato dall’estrema sinistra come una manovra teleguidata dagli Usa e volta a impedire la pacifica convivenza con l’Urss. I socialisti moderati, da parte loro, erano spesso paralizzati dalle critiche provenienti dalla loro sinistra, non volendo dare l’impressione di concedere troppo agli Stati Uniti.

Sul piano economico, la scelta del carbone e dell’acciaio viene spesso spiegata con la loro importanza per la produzione di armamenti e con la necessità di instaurare un clima di fiducia tra ex nemici. Ma queste industrie ponevano problemi sotto altri aspetti. All’inizio degli anni Cinquanta, era evidente che l’attività mineraria in alcune regioni della Francia e del Belgio sarebbe presto risultata non competitiva rispetto al carbone proveniente dalla Germania. Vi erano inoltre timori circa la sopravvivenza dei cartelli siderurgici in Germania e circa i vantaggi che questi avrebbero potuto offrire loro rispetto ai produttori francesi. Anche il rischio di investimenti non coordinati nella produzione siderurgica a livello europeo diventava evidente. Tutto ciò, unito alla capacità degli ex Alleati di imporre la propria volontà alla Germania nella gestione economica delle regioni della Ruhr e della Saar, stava preparando il terreno per un aspro scontro di interessi nazionali.

Anche il futuro dell’integrazione europea appariva incerto. I federalisti avevano sperato che l’entusiasmo europeista, culminato nel Congresso dell’Aia del maggio 1948, avrebbe condotto alla creazione di istituzioni dotate di un chiaro mandato federale. Questo non si concretizzò, e prevalse invece un approccio basato sulla cooperazione tra Stati sovrani. In un Paese come la Francia, il principio del sovranazionalismo era tutt’altro che scontato: l’orgoglio nazionale rappresentava un pilastro fondamentale della ricostruzione postbellica, alimentato dal riferimento alla Resistenza e alla lotta contro la Germania nazista. Qualsiasi gesto distensivo nei confronti della Germania poteva essere considerato un tradimento. Allo stesso tempo, la Germania cominciava a manifestare insofferenza nei confronti della tutela esercitata dagli Alleati, che tradiva dubbi sulla sincerità del suo nuovo orientamento democratico e pacifico. La vicenda della Saar, che era stata sottratta alla Germania per essere trasformata in un protettorato francese, stava avvelenando i rapporti tra i due Paesi.

Per quanto riguarda il contesto geopolitico, a dominare la scena era la «guerra fredda». Con l’esplosione della prima bomba atomica sovietica nel 1949, il mondo era entrato in una fase completamente nuova, caratterizzata da un equilibrio precario e da una feroce competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica. In quei primi anni, l’Europa stessa era ancora il campo di battaglia su cui si tracciavano senza scrupoli le sfere d’influenza. Si andavano formando nuove alleanze, la più rilevante delle quali fu l’Alleanza atlantica. Ma anche allora il rapporto fra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale era difficile. Desiderosi che l’Europa si assumesse al meglio la propria difesa, gli statunitensi premevano per un rapido riarmo della Germania e per il suo inserimento nelle istituzioni dell’Occidente. Una prospettiva che dagli altri governi europei era vista come prematura, per il timore di dover spiegare tale riarmo alle loro popolazioni. Sulla scena globale, le tensioni tra europei e statunitensi si concentravano soprattutto sul tema delle colonie, con gli Stati Uniti che spingevano per la decolonizzazione, a volte in modo aggressivo.

Rifiutare la disperazione


Nella già citata nota del 3 maggio 1950, Monnet collega strettamente tutti questi aspetti. Egli vede in atto un processo quasi ineluttabile. Poiché l’attenzione di tutti i leader era focalizzata sulla «guerra fredda» e sulla necessità di contenere l’Unione Sovietica, le politiche sarebbero state subordinate a tale obiettivo. Di conseguenza, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbero voluto mobilitare le risorse della Germania. Il primo passo sarebbe stato quello di aumentare la produzione industriale, in particolare quella dell’acciaio. Con l’industria francese incapace di competere, ciò avrebbe portato a politiche protezionistiche, compromettendo le prospettive generali di crescita in Europa (e della Francia in particolare) e alimentando vecchi rancori (tra Francia e Germania certamente, ma anche tra Francia e altre potenze che avessero forzato la mano sulla questione). A lungo andare, qualsiasi prospettiva di riconciliazione sarebbe stata compromessa. In effetti, una conferenza degli Alleati, prevista a Londra per il 10 maggio, avrebbe probabilmente avviato tale processo. Come osserva ancora Monnet, questo corso d’azione sarebbe avvenuto non perché qualcuno lo volesse, ma solo per mancanza di una soluzione migliore ai problemi in questione.

Questa diagnosi non era di per sé originale. Dall’altra parte del confine, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer era giunto a conclusioni analoghe. Desideroso di ripristinare la sovranità del proprio Paese e di porre fine alla molteplicità di regole imposte all’industria tedesca, era ben consapevole della necessità di farlo con una modalità che rafforzasse la fiducia, soprattutto nei confronti della Francia. Nel marzo del 1950, egli aveva proposto l’idea di una piena unione politica ed economica tra Germania e Francia, possibilmente come premessa di più ampi Stati Uniti d’Europa. Questa proposta però era stata respinta subito dai leader francesi, che l’avevano definita irrealistica.

Non si sottolineerà mai abbastanza che, a fronte di questo quadro di determinismo pessimistico e di speranze frustrate, nel corso degli anni si era preparato un più generale sfondo di speranza. L’idea di promuovere la pace attraverso una qualche forma di integrazione europea era in fase di elaborazione da decenni. Idee di federalismo europeo erano già state proposte nel periodo tra le due guerre mondiali, in particolare da Richard Coudenhove-Kalergi e Aristide Briand, in reazione ai massacri della Prima guerra mondiale. Gli orrori della Seconda guerra mondiale diedero ad esse nuovo impulso. Il Congresso dell’Aia del 1948 è un esempio di questo momento politico e culturale, in cui a molti apparve in un certo senso evidente una qualche forma di profonda cooperazione europea.

Oltre agli imperativi del momento, altri fattori alimentarono l’immaginazione di quegli attori che diedero forma alla prima integrazione europea. Parte delle aspirazioni verso nuove forme di solidarietà europea può essere ricondotta alle origini di alcuni di tali protagonisti, come Robert Schuman o Alcide De Gasperi: entrambi provenivano da regioni di confine, che nel corso degli anni avevano regolarmente cambiato appartenenza, il che li rendeva profondamente consapevoli della complessa relazione tra appartenenza locale e identità nazionale. Anche le esperienze personali della Seconda guerra mondiale furono determinanti, sia per quei leader europei che strinsero nuovi legami durante il loro esilio all’estero, come Jean Monnet e Paul-Henri Spaak, sia per coloro che avevano sperimentato in prima persona i pericoli di un nazionalismo incontrollato, come Adenauer.

Una comunità di intenti tra molti dei primi artefici di un’Europa unita può essere fatta risalire anche alla loro comune appartenenza alla Democrazia cristiana. L’ideale europeo era stato strettamente legato al pensiero cristiano da figure influenti come Jacques Maritain, e ulteriormente sostenuto dall’interesse per l’unificazione europea manifestato da papa Pio XII. Il fatto che, verso il 1950, i partiti democratico-cristiani fossero al governo in molti Paesi dell’Europa continentale avrebbe certamente favorito i primi passi dell’integrazione europea[6].

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

Tuttavia, la proposta di Monnet, fatta propria da Schuman, non era solo una conseguenza logica del corso della storia né una semplice continuazione del passato. Era al contrario un tentativo deliberato di invertire il corso della storia rispetto a quello che sembrava il suo naturale svolgimento. Lasciata andare «con il pilota automatico», l’Europa avrebbe potuto facilmente ricadere nei suoi vecchi demoni. Tracciare un’altra rotta richiedeva, da un lato, una chiara visione di un futuro migliore: gli ideali e la buona volontà di fondo c’erano, ma non erano sufficienti. Dall’altro lato, per preservare le aspirazioni europee alla pace e all’unità e per dare alla speranza un futuro, il progetto doveva trovare un nuovo veicolo, determinare un cambio di paradigma.

Un nuovo percorso


Il percorso tracciato dalla Dichiarazione Schuman cerca di evitare le insidie di due approcci logici alle difficoltà dell’Europa. Il primo consisteva nel creare strutture intergovernative ad hoc, finalizzate a gestire problemi specifici, o nell’istituire organi intergovernativi di coordinamento. Un simile approccio non comporta alcuna perdita di sovranità per gli Stati e si basa su decisioni negoziate. Il pericolo è che il risultato della negoziazione spesso non si fondi su una soluzione ottimale, ma su un equilibrio tra i diversi interessi nazionali. Inoltre, si tratta di un equilibrio di potere, che potrebbe essere percepito come ingiusto qualora un attore si trovasse in una posizione di debolezza. Il modo in cui la Francia affrontò la reintegrazione della Germania, dando priorità alla propria sicurezza e sentendosi al contempo minacciata dai tentativi anglosassoni di modificare lo status quo, dimostra i limiti di tale percorso.

Il secondo approccio, più vicino agli ideali del federalismo, non cerca di fornire soluzioni dirette a problemi specifici. Piuttosto, cerca di creare un nuovo quadro generale entro cui risolvere tutti i problemi futuri. Logicamente, tale quadro trarrebbe la propria legittimità da qualche tipo di sostegno popolare, assumendo la forma di un processo costituente, dell’istituzione di qualcosa che almeno assomigli a una costituzione. Dotata di una propria legittimazione democratica, la nuova entità può giustificare il proprio potere rispetto alle precedenti istituzioni nazionali. Tuttavia, una simile soluzione richiede un enorme slancio politico per essere avviata. Ne è un esempio la proposta di una piena unione politica tra Francia e Germania avanzata da Adenauer nel marzo del 1950 e respinta come prematura.

Il nuovo approccio, che è alla base della Dichiarazione, affronta una questione specifica, sottraendola alle competenze nazionali e ponendola sotto una nuova autorità sovranazionale. In tal modo, gli ex concorrenti devono vedere la situazione da una nuova prospettiva. Questa nuova dinamica, se gestita con onestà, li spinge ad adottare una prospettiva più ampia, che apre nuove possibilità. Regolamentazioni vantaggiose, come le leggi antitrust, che in precedenza avrebbero potuto essere rifiutate o rinviate per timore di indebolire la posizione del proprio Pae­se, diventano improvvisamente concepibili, una volta che vengano applicate equamente a tutti. Inoltre, una sottomissione comune a un’autorità sovranazionale ristabilisce l’uguaglianza tra i Paesi, e con essa anche la dignità, perché i Paesi in posizione di debolezza non sono più costretti a elemosinare concessioni, ma partecipano equamente al processo decisionale. Idealmente, gli Stati vengono così spinti ad abbandonare l’atteggiamento di commercianti che cercano i propri interessi e ad assumere invece quello di collaboratori alla ricerca del modo migliore per costruire qualcosa insieme. Presumibilmente, nelle intenzioni di Schuman e Monnet, questo atteggiamento di cooperazione avrebbe dovuto radicarsi ed estendersi a nuovi settori della vita economica e politica.

Qui si assiste a un chiaro trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali alla nuova autorità. Esso è reso politicamente accettabile, in un primo momento, dalla sua portata limitata. Tuttavia, la legittimità democratica a lungo termine di un tale approccio può essere paragonata a una scommessa di speranza. Con gli Stati nazionali ancora in vita, la nuova struttura dovrà dimostrare la necessità della sua esistenza in base ai risultati che sarà in grado di produrre. La complessità della valutazione di tali risultati deriva dal fatto che alcuni di quegli obiettivi sono ambiziosi e fluidi, mentre altri sono più pratici.

Gli obiettivi della Dichiarazione


Il testo della Dichiarazione[7] prevede innanzitutto molteplici obiettivi ambiziosi, legati alla messa in comune del carbone e dell’acciaio: crea­re una solidarietà di fatto, eliminare la secolare opposizione tra Francia e Germania, rendere materialmente impossibile qualsiasi guerra tra i due Paesi, gettare solide basi per la loro unificazione economica, contribuire all’innalzamento del tenore di vita, perseguire lo sviluppo del continente africano ecc. Tutti questi obiettivi si riassumono in un’unica dinamica: una fusione di interessi indispensabile per la crea­zione di un sistema economico comune, da cui possa nascere una comunità più ampia e profonda. Questa comunità, necessaria per preservare la pace, dovrebbe prendere corpo in una Federazione europea.

Gli obiettivi pratici della Dichiarazione appaiono piuttosto modesti rispetto a questa grande visione. Essi sono enunciati così: 1) assicurare nel più breve tempo possibile la modernizzazione della produzione e il miglioramento della sua qualità; 2) fornire carbone e acciaio a condizioni identiche ai mercati francese e tedesco, nonché a quelli degli altri Paesi membri; 3) sviluppare esportazioni comuni verso altri Paesi; 4) uniformare e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori in queste industrie.

Qualsiasi valutazione dell’eredità della Dichiarazione Schuman, o della traiettoria del progetto europeo alla luce dei suoi princìpi fondanti, deve tener conto di questi molteplici livelli di intenzionalità. Un primo livello di interrogativi deve riguardare gli obiettivi pratici dell’impresa, che si rivelano come un intreccio complesso. Lungi dall’essere focalizzati semplicemente su un mercato ottimale del carbone e dell’acciaio o sulla crescita economica, essi rivelano anche una preoccupazione sociale per le condizioni di vita dei lavoratori (e non solo per le loro condizioni di lavoro). La scelta delle industrie del carbone e dell’acciaio non era infatti disgiunta da una riflessione sociale: le condizioni lavorative in tali industrie erano emblematiche di quelle affrontate dalla classe operaia nel suo complesso. In due discorsi pronunciati al Collegio di Bruges nel 1953[8] – che probabilmente sono tra i migliori commenti che si possano leggere sulla Dichiarazione –, Schuman sottolineava l’importanza dei sindacati nella definizione dell’atto fondativo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Allo stesso modo, il riferimento all’uguaglianza delle condizioni di vita confuta l’idea che le condizioni di vita in tutta Europa si possano armonizzate semplicemente attraverso le forze del mercato. Impatto economico, progresso sociale e armonizzazione degli standard di vita: ecco tre indicatori di una visione concreta dell’Europa.

Non sorprende che questi obiettivi concreti si integrino perfettamente con gli obiettivi ambiziosi menzionati nella Dichiarazione. Ciò che era stato previsto per il settore del carbone e dell’acciaio era infatti solo un modello iniziale per un progetto più ampio. Nei suoi discorsi del 1953, Schuman tuttavia sottolineò che questo settore era, in pratica, un obiettivo abbastanza facile. Il livello tecnologico simile tra i Paesi, il numero ridotto di imprese rispetto alla loro importanza per l’economia, l’indipendenza da fattori culturali facevano sì che l’armonizzazione non presentasse particolari difficoltà. Oggi, questo motivo di preoccupazione potrebbe tradursi nel chiedersi se, in primo luogo, lo sviluppo indotto dalla partecipazione all’Unione europea sia sufficiente ad assicurare la coesione di un’Unione sempre più diversificata e, in secondo luogo, quanto siano dannose per la dinamica dell’integrazione politica le persistenti differenze di ricchezza tra i Paesi europei.

L’accenno al contribuire allo sviluppo dell’Africa, per quanto ambiguo potesse essere nel 1950 nel contesto del colonialismo ancora in corso, dovrebbe anche indurre a una riflessione critica, quando si tratta del rapporto tra un continente ricco e il resto del mondo[9].

Per approfondire ulteriormente la questione, bisognerebbe chiedersi se gli sviluppi degli ultimi 75 anni abbiano effettivamente portato a quella fusione di interessi e a quel sistema economico comune immaginati da Monnet. Alla luce degli evidenti risultati raggiunti dall’Unione europea, una domanda più pertinente che potremmo porci è se un sistema economico apparentemente comune abbia effettivamente portato a una fusione commensurabile di interessi nazionali, da un punto di vista oggettivo come pure soggettivo.

La comunità come obiettivo


Quando si tratta di valutare l’obiettivo finale della Dichiarazione Schuman, sarebbe un tragico errore confondere il mezzo – un’Europa federale – con il fine – la creazione di una comunità –. In effetti, il risultato finale formale previsto – il federalismo – era soltanto un modo per preservare ciò che era stato raggiunto durante l’intero processo. L’idea di comunità dà un’anima al federalismo. Il pericolo sarebbe quello di concentrarsi sulle istituzioni e sui progressi esteriori raggiunti verso il federalismo formale, senza valorizzare ciò che esso incarna realmente: la cura reciproca, la fiducia, la solidarietà. Tutti questi valori non si scoprono creando istituzioni, ma attraverso l’esperienza esistenziale del lavoro comune, reso a sua volta possibile da nuove istituzioni e dall’esplorazione comune di nuovi campi di cooperazione.

L’accento posto sulla comunità permette inoltre di creare un ponte tra la dimensione collettiva e quella personale. Mentre gli ideali di azione comune, appartenenza e responsabilità possono orientare l’azione collettiva e fornirle una direzione, essi possono essere sperimentati solo da persone concrete. Poiché l’Europa non può mobilitare le risorse della storia nazionale per giustificare la propria esistenza come comunità «naturale», essa deve continuamente interrogarsi su come aiutare i propri cittadini a sperimentare concretamente questo senso di comunità attraverso l’azione comune.

In quest’ottica, consentire all’Unione europea di svilupparsi verso uno stile di relazioni tra i suoi membri più transnazionale, nel quale la conciliazione degli interessi nazionali venga considerata soddisfacente tanto quanto il consenso innovativo, rappresenterebbe un tradimento delle intenzioni dei suoi fondatori pari a quello di un totale euroscetticismo.

Sempre a Bruges, nel 1953, Schuman spiegò come l’idea di comunità fosse al centro delle sue azioni: «Si tratta di un cambiamento senza precedenti nel nostro pensiero politico. L’idea di comunità deve costituire la base di tutte le future relazioni tra Paesi belligeranti. Questo è l’inizio di una comunità generalizzata, una comunità politica, una comunità militare, una comunità economica, al di là del settore del carbone e dell’acciaio. Questa è l’inevitabile catena degli eventi che volevamo. […] Questa comunità, questo principio di comunità, è una di quelle idee potenti, un’idea paragonabile a una scoperta scientifica il cui risultato non solo rimane stabilmente consolidato nel proprio campo, ma diventa anche il punto di partenza per nuovi progressi, più adatto alle esigenze di un’epoca più evoluta. La storia umana è quindi costituita da fasi successive, ciascuna delle quali si basa sulle esperienze precedenti, ma apporta il proprio contributo distintivo. Cerchiamo quindi, come nazioni e come individui, di essere gli strumenti della Provvidenza quando si tratta di individuare e far emergere quegli elementi che non abbiamo inventato noi, ma che dobbiamo portare alla luce nella nostra coscienza e nella coscienza dei popoli con cui siamo in cammino»[10].

In tempi di rinnovata polarizzazione, si corre il rischio di leggere queste parole e giudicarle ingenue, segni di un periodo di eccessivo ottimismo. Ma, così facendo, dimenticheremmo che questo appello alla comunità non è stato lanciato in tempi più facili dei nostri. Inoltre, perderemmo di vista il fatto che la comunità a cui Schuman aspirava non era un dato di fatto, ma qualcosa ancora da realizzare, qualcosa ancora da costruire sulle ceneri della guerra e di secoli di risentimenti. Così facendo, ci condanneremmo alla disperazione e all’isolamento, perché non c’è un modo giusto di relazionarsi agli altri se non all’interno di una comunità.

Qualunque giudizio possiamo dare sui risultati dei 75 anni di integrazione europea, la questione non è se abbiamo realizzato una comunità europea. Realisticamente, non l’abbiamo realizzata, e probabilmente non la realizzeremo mai completamente. La domanda è piuttosto: permettiamo ancora all’idea di comunità di plasmare le nostre speranze per l’Europa?

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1]. Cfr Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, 9 maggio 2024.

[2]. Cfr Discussion paper by Jean Monnet, 3 maggio 1950, disponibile sul sito web del Centre virtuel de la connaissance sur l’Europe, cvce.eu/obj/discussion_paper_b…

[3]. Cfr E. Letta, «Much more than a Market (Speed, Security, Solidarity)», aprile 2024 (https://www.consilium.europa.eu/media/ny3j24sm/much-more-than-a-market-report-by-­enrico-letta.pdf).

[4]. Cfr M. Draghi, «Il futuro della competitività europea», settembre 2024 (eunews.it/2024/09/09/il-rappor…).

[5]. È l’idea secondo la quale il mercato europeo sia così rilevante da spingere le imprese ad adottare le normative dell’Ue – spesso più rigorose – come linee guida e pratiche di riferimento per operare non solo nell’Unione, ma anche a livello globale.

[6]. Per un’introduzione ai primi anni dell’integrazione europea dalla prospettiva dei padri fondatori, cfr V. M. de la Torre, Europe, a Leap into the Unknown: A Journey Back in Time to Meet the Founders of the European Union, Frankfurt a. M., Lang, 2014.

[7]. Per il testo della Dichiarazione in italiano, cfr european-union.europa.eu/princ…

[8]. Cfr «Discours de Robert Schuman sur les origines et sur l’élaboration de la CECA», Bruges, 22-23 ottobre 1953 (cvce.eu/obj/discours_de_robert…).

[9]. Questa menzione, di fatto, è assente dal progetto di Monnet e appare soltanto nella versione letta da Schuman, a sottolineare l’importanza attribuita all’argomento.

[10]. «Discours de Robert Schuman sur les origines et sur l’élaboration de la CECA»,cit.

The post La Dichiarazione Schuman compie 75 anni first appeared on La Civiltà Cattolica.


Il Pkk e la svolta storica di Öcalan


Guerriglieri curdi (Foto: Kurdishstruggle/Flickr)
Dopo 40 anni di lotta armata, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il gruppo armato curdo che ha combattuto per l’indipendenza e l’autonomia della popolazione curda, ha annunciato ufficialmente di deporre le armi nella sua lotta contro lo Stato turco, che considera questa organizzazione il suo principale nemico. Ciò è avvenuto dietro iniziativa del suo leader supremo, Abdullah Öcalan, imprigionato nell’isola di Imrali, nel Mar di Marmara, e su decisione del Comitato esecutivo del Pkk, che ha la sua sede nel Nord dell’Iraq. Öcalan non guida più attivamente l’organizzazione dal 1999 (anno del suo arresto), ma la sua figura rimane centrale nella storia del movimento. Di fatto, egli continua a esercitare una grande influenza sull’organizzazione e sulla sua ideologia politica. La decisione avrà certamente conseguenze, oltre che in Turchia, anche in tutta la regione, soprattutto in Siria e in Iraq, dove sono attivi gruppi alleati o vicini al Pkk[1].

Ricordiamo che i curdi in Medio Oriente sono circa 40 milioni[2], distribuiti in diversi Paesi (Turchia, Siria, Iraq e Iran); 15 milioni sono presenti nella parte anatolica della Turchia[3], dove si è sviluppata l’organizzazione armata. Se alle parole e alle decisioni seguiranno i fatti, come si spera, si tratterebbe di una svolta storica per la Turchia e per l’intero Medio Oriente, che non va in nessun modo sottovalutata.

Il messaggio di Öcalan


Il messaggio di Öcalan è datato 25 febbraio 2025 ed è stato letto in una conferenza stampa da una rappresentanza del partito filo-curdo Dem (Partito democratico dei popoli), la terza forza politica rappresentata nel Parlamento turco e il maggior partito di opposizione. Si legge nel documento: «Non c’è alternativa alla democrazia per ottenere rispetto per le identità, libera espressione e autoorganizzazione democratica. Tutti i gruppi devono abbandonare le armi, il Pkk deve sciogliersi». Öcalan poi afferma: «La volontà di Bahçeli, insieme con la volontà de Presidente [Erdoğan] e le risposte positive degli altri partiti hanno creato le condizioni per chiedere di deporre le armi. Davanti alla Storia mi prendo la responsabilità di questo appello»[4].

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

Era dal mese di ottobre 2024 che il governo turco trattava con i curdi, attraverso la mediazione di Devlet Bahçeli, per porre fine al lungo conflitto che, a partire dagli anni Ottanta, aveva causato la morte di circa 40.000 persone. Va ricordato che Bahçeli è un leader del Partito del movimento nazionalista (Mhp), che è al governo con Erdoğan, quindi tradizionalmente lontano dalla causa nazionale curda[5]. I colloqui si sono intensificati dopo la caduta, a dicembre, di Assad in Siria, che faceva intravedere ai turchi maggiori spazi di manovra e la possibilità di porre fine al terrorismo curdo. Il Pkk è considerato un’organizzazione terroristica non solo dalla Turchia, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. Da parte curda, la svolta per l’autoscioglimento è maturata in tre incontri in carcere tra Öcalan e alcuni deputati del Partito democratico dei popoli. L’appello ha avuto un’accoglienza positiva sia da Nechirvan Barzani, il leader curdo della regione autonoma irachena, dove il Pkk ha basi e depositi di armi, sia dalla comunità internazionale, come l’Onu, la Casa Bianca e le cancellerie occidentali[6].

Un’opportunità storica


Il presidente turco Erdoğan ha definito l’annuncio un’opportunità storica, ma non si sa ancora che cosa abbia concesso o concederà in cambio il governo di Ankara, anche se Öcalan, che è un fine politico, ha certamente ricevuto alcune promesse. I curdi, da parte loro, vogliono diritti, autonomia amministrativa e la liberazione di centinaia di prigionieri politici rinchiusi nelle carceri turche[7]. Tra essi, il leader del Dem Selahattin Demirtaş, condannato a 42 anni di prigione con una sentenza contestata dalla Corte di giustizia europea. Come minimo, il Dem si aspetta la fine della repressione che deve subire in quanto viene considerato dal governo in carica il braccio politico del Pkk: un’accusa che è stata sempre negata dal partito filo-curdo. Inoltre, si aspetta il riconoscimento della legittimità delle elezioni amministrative in molti comuni curdi: negli ultimi 10 anni oltre un centinaio di sindaci del partito Dem, democraticamente eletti, sono stati licenziati e sostituiti dal governo, e in alcuni casi arrestati. Decine di altri politici curdi hanno subìto la stessa sorte.

L’appello di Öcalan e l’autoscioglimento del Pkk dovrebbero normalizzare la situazione e avviare un processo di pacificazione, sebbene Erdoğan abbia detto che non intende scendere a patti con il Pkk. Ciò che la Turchia sta cercando, egli ha dichiarato, non è un processo di pace, ma la resa incondizionata del movimento armato. Nel primo sabato di Ramadan, il premier ha affermato di essere pronto a riprendere le operazioni militari contro il Pkk, fino all’eliminazione dell’ultimo terrorista, «se la promessa di lasciare le armi rimane in stallo e vedremo solo qualche mossa apparente e qualche cambio di nome»[8].

Non tutti nell’organizzazione hanno accolto favorevolmente l’appello di Öcalan; Cemil Bayik, uno dei fondatori del Pkk e membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle comunità curde, in un messaggio ha affermato: «Il popolo curdo combatte per difendersi ed evitare lo sterminio. Se ci siamo armati, è perché la Turchia persegue politiche di violenza, guerra e massacri per eliminare i curdi. Se il Pkk si disarma, si risolve il problema? No. Se lo “zio” Öcalan fa questo appello, il problema svanisce? No. Lo Stato turco sta ingannando sia la sua società sia la comunità internazionale»[9].

Cauta è stata la reazione di Mazloum Abdi, comandante delle Forze democratiche siriane (Fds), che sostengono i curdi al confine siriano nel Rojava. Egli ha detto di accogliere con favore la prospettiva di pace in Turchia, ma ha lasciato intendere che il suo gruppo non è vincolato alle dichiarazioni del Pkk: «Non vogliamo sciogliere le Fds; al contrario, crediamo che rafforzeranno il nuovo esercito siriano»[10].

Nonostante lo scetticismo di una parte dei miliziani curdi, la dirigenza del Pkk ha accolto l’appello di Öcalan e ha dichiarato unilateralmente il cessate il fuoco a partire dal 1° marzo 2025, per «aprire la strada alla pace – si legge nel comunicato – e a una società democratica», sottolineando che, se «non saremo attaccati, non attaccheremo»[11]. Secondo quanto dichiarato, il gruppo è pronto a convocare un congresso che sancirà formalmente l’autoscioglimento dell’organizzazione paramilitare, come stabilito dal suo fondatore. A tale riguardo, si chiede che Öcalan venga rilasciato dalla prigione e che possa presiedere il congresso. Cosa che non sembra per nulla facile.

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

Insomma, siamo di fronte a un passaggio storico, che dovrebbe segnare la fine del lungo e sanguinoso conflitto tra Pkk e Stato turco. Secondo Gülistan Kiliç Koçyiğit, vicepresidente del partito Dem, «adesso si apre un’occasione grazie alla quale non solo i curdi, ma tutti i turchi possono vincere. Perché ciò che chiamiamo questione curda è in realtà una questione di libertà, un problema di uguaglianza, un problema del riconoscimento dell’identità, un problema di accettazione come popolo»[12].

Secondo alcuni osservatori, lo scioglimento del gruppo armato negli ultimi tempi era prevedibile, dal momento che esso aveva subìto numerose sconfitte da parte dell’esercito turco. «Da un punto di vista militare – si è detto –, l’organizzazione è molto indebolita. I suoi vertici hanno accettato l’accordo anche perché negli ultimi dieci anni la Turchia ha fatto notevoli sforzi, in termini di nuove tecnologie, droni e armi, per indebolirlo militarmente»[13].

Öcalan dalla lotta armata alla lunga prigionia


Ma chi è Abdullah Öcalan, denominato dai propri sostenitori e amici «Apo» (in curdo, «zio»)? Nato nel 1949 da una famiglia di contadini nel villaggio di Omerli, Öcalan si avvicinò all’estrema sinistra quando frequentava, ad Ankara, la Facoltà di Scienze politiche. Nel 1978, assieme a un gruppo di studenti universitari curdi, fondò il Pkk, ponendo l’ideologia marxista-leninista alla base della lotta di liberazione del Kurdistan. Ne 1980 fu mandato in esilio fuori dalla Turchia e iniziò il suo peregrinare tra Damasco e la Valle della Bekaa libanese (che a quel tempo apparteneva alla Siria). Lì i curdi del Pkk si addestravano per la lotta armata, sparando a manichini e imparando ad assemblare ordigni esplosivi[14]. Nel 1998 Damasco gli intimò di abbandonare il Paese, e così Öcalan continuò la sua peregrinazione alla ricerca di un asilo politico. Dopo aver cercato rifugio in Russia, in Italia (65 giorni) e in Grecia, nel 1999 venne catturato a Nairobi, in Kenya, dagli agenti dei servizi segreti turchi. Detenuto nell’isola-prigione di Imrali, fu condannato alla pena di morte per tradimento e attentato alla sovranità dello Stato. Questa pena nel 2002 gli fu commutata in ergastolo.

L’attività terroristica del movimento cominciò nell’estate del 1984, quando il Pkk prese di mira le postazioni e i blindati dell’esercito turco. Fu l’inizio di uno scontro che durò 40 anni ed ebbe il suo epicentro nel sud-est della Turchia, regione a maggioranza curda[15]. Lo scontro, negli anni, assunse i connotati di una vera e propria guerra civile combattuta da un’organizzazione paramilitare (composta da circa 10.000 guerriglieri) che sia Ankara sia i Paesi occidentali considerano terroristica. Öcalan è ritenuto il leader dell’organizzazione; la sua persona è quasi oggetto di culto da parte dei suoi sostenitori, e di fatto le sue decisioni influenzano i destini dei curdi turchi, siriani e iracheni. Del resto, è proprio in Iraq, sulle montagne di Qandil, al confine con l’Iran, che è situato il quartiere generale dell’organizzazione.

I 26 anni di prigionia in un carcere di massima sicurezza, e in regime di isolamento, per Öcalan non sono trascorsi invano. Per l’organizzazione da lui creata è stato come un nuovo inizio sotto il profilo ideologico-politico. In quegli anni, egli ha cambiato il paradigma della lotta curda, «passando dall’indipendenza e dai postulati marxisti-leninisti a una visione confederale per i popoli del Medio Oriente, basata sulla democrazia diretta, sul femminismo e sull’ambientalismo, che oggi è condiviso da gran parte delle organizzazioni curde»[16]. In effetti, anche se i curdi sono in gran parte musulmani sunniti, nelle loro comunità le donne hanno ruoli politici e amministrativi di rilievo e l’autonomia locale di solito è molto sviluppata. Va anche sottolineato che essi non sono, come gli sciiti o i drusi, una fazione del variegato molto islamico, ma semplicemente un popolo che vive sparso in diversi Paesi, senza patria, senza uno Stato che li rappresenti.

Tornando all’appello di Öcalan, va ricordato che esso non è l’unico da lui lanciato in tutti questi anni. Altri appelli per la pacificazione erano stati inviati dalla prigione di Imrali. In quello del 28 settembre 2006, Öcalan, attraverso il suo legale, chiedeva al Pkk di dichiarare un armistizio e di cercare di raggiungere la pace con la Turchia: «È molto importante – scriveva – costruire un’unione democratica tra i turchi e i curdi. Con questo processo la via al dialogo democratico verrà finalmente aperta»[17]. Il messaggio non ebbe però alcun risultato e la lotta continuò come prima. Un nuovo appello dello stesso tenore fu lanciato nel marzo del 2013, quando Erdoğan era primo ministro e considerava Öcalan, per la sua grande autorevolezza e popolarità tra i curdi, la persona giusta per porre fine ai combattimenti. In un messaggio letto davanti a un’immensa folla radunata in occasione del capodanno curdo, nel marzo del 2015, Öcalan scrisse: «Questa lotta del nostro movimento quarantenne, che è stata piena di dolore, non è andata sprecata, ma allo stesso tempo è diventata insostenibile»[18]. Allora si arrivò a un cessate il fuoco, che però dopo pochi mesi, il 25 luglio 2015, saltò, e il conflitto entrò nella sua fase più sanguinosa. In quella occasione alcune città a maggioranza curde, come Diyarbakir, furono distrutte dall’esercito turco.

La differenza tra gli appelli precedenti di Öcalan e l’ultimo è che, mentre i primi chiedevano una tregua nei combattimenti, ora il leader e il comitato esecutivo del Pkk chiedono all’organizzazione di deporre le armi, di sciogliersi e di accettare il percorso democratico nazionale. Il cammino verso la pacificazione appare non scontato. La decisione del Pkk ha rappresentato certamente un’apertura importante, ma è stata accolta con cautela da entrambi i fronti. Alcuni settori della società turca hanno denunciato l’operazione come un tradimento nei confronti delle famiglie delle vittime degli attentati del Pkk. Inoltre, tra le forze nazionaliste c’è un forte scettiscismo nei confronti della pacificazione; in particolare, c’è il timore che ai curdi vengano concessi diritti di autoregolamentazione troppo ampi[19].

Conclusione


L’appello di Öcalan avrà una grande ripercussione anche fuori della Turchia, in particolare al confine siriano del Rojava, roccaforte dei curdi, dove le Fds, sostenute militarmente dagli Stati Uniti (presenti nel territorio con circa 2.000 soldati[20]), subiscono le pressioni sia dal nuovo governo di Damasco sia dalla Turchia, che ne chiedono insistentemente la soppressione. In particolare, la nuova leadership siriana, guidata dal presidente ad interim Ahmed al-Sharaa, vuole che le Fds si disarmino e si sciolgano, proponendo di inserirne una parte nel nuovo esercito nazionale siriano e, inoltre, che il controllo delle numerose riserve di idrocarburi nelle regioni in mano alle forze curde venga trasferito a Damasco[21]. I curdi, da parte loro, sono disposti a integrarsi in Siria, ma come unità collettiva, non come individui[22].

La Turchia nel frattempo ha minacciato un’offensiva di terra contro le milizie curde presenti nel Fds[23], perché le considera un’estensione del Pkk. Da tempo Ankara stava pianificando un’operazione contro il Pkk nel nord della Siria. Questo non è stato possibile, perché all’inizio del 2025 c’è stato un cambio di potere a Damasco[24]. Recentemente, il governo di al-Sharaa ha raggiunto un accordo con il capo delle Fds per l’integrazione di tutte le istituzioni civili e militari curde del nord-est della Siria, all’interno dell’amministrazione statale. L’attuazione di questo piano è prevista entro la fine del 2025. Nell’accordo è specificato che «la comunità curda è una componente essenziale dello Stato siriano, che garantisce il suo diritto alla cittadinanza e tutti i suoi diritti costituzionali»[25].

Infine, l’appello di Öcalan alla pacificazione ha anche un’importante ricaduta sulla politica interna turca. Erdoğan, il cui mandato presidenziale scade nel 2028, non potrà ricandidarsi, a meno che non riuscirà a convincere il Parlamento a modificare la Costituzione o a indire elezioni anticipate. Poiché il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) e il suo partner di coalizione (ilPartito del Movimento Nazionalista) non hanno i numeri per portare avanti tale progetto, egli potrebbe aver bisogno dell’aiuto di un altro grande partito. Alcuni osservatori «ritengono che egli finirà per usare il nascente processo di pace e il possibile sostegno del Dem, partito filo-curdo, per ottenere ciò che vuole»[26]. In ogni caso, lo scioglimento del Pkk potrebbe dargli quella spinta di popolarità fondamentale per prolungare il suo governo. Erdoğan «potrebbe passare alla storia come colui che ha ridimensionato o addirittura pacificato e completamente disarmato il Pkk»[27]. E questo gli darà, anche in termini elettorali, molto credito.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] Cfr F. Gnetti, «Come la decisione di Öcalan può cambiare le cose in Siria e in Iraq», in Internazionale, 6 marzo 2025.

[2] Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», in Internazionale, 28 febbraio 2025.

[3] Cfr «One of the world’s longest conflicts may be ending», in The Economist, 27 febbraio 2025.

[4] F. Tonacci, «Turchia, storico appello di Öcalan: “Il Pkk si sciolga e deponga le armi”», in la Repubblica, 28 febbraio 2025.

[5] Cfr M. Ricci Sargentini, «La svolta storica di Öcalan: “Basta armi, il Pkk si sciolga”», in Corriere della Sera, 28 febbraio 2025, 14.

[6] Cfr ivi.

[7] Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», cit.

[8] F. Tonacci, «Il Pkk depone le armi. Svolta storica in Turchia: “Ora liberate Öcalan”», in la Repubblica, 2 marzo 2025.

[9] Id., «Turchia, storico appello di Öcalan: “Il Pkk si sciolga e deponga le armi”», cit.

[10] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», in Internazionale, 7 marzo 2025.

[11] F. Tonacci, «Il Pkk depone le armi…», cit.

[12] Ivi.

[13] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», cit.

[14] Cfr F. Tonacci, «Lo zio che sognava una patria e ha mostrato al mondo la causa del popolo curdo», in la Repubblica, 28 febbraio 2025.

[15] I curdi in Turchia rappresentano il 20% della popolazione. Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», cit.

[16] M. Ricci Sargentini, «La lotta, la fuga e l’infinita prigionia. L’odissea di “Apo” che coinvolse l’Italia», in Corriere della Sera, 28 febbraio 2025, 15.

[17] Ivi.

[18] Ivi.

[19] Cfr msn.com/it-it/notizie/mondo/tu…

[20] Erdoğan ha chiesto a Trump di ritirare le truppe e di lasciare che l’esercito turco si occupi della gestione dei campi di detenzione dove sono internati i guerriglieri dell’Is e le loro famiglie. Considerata la politica di disimpegno del nuovo Presidente, è possibile che gli Usa in futuro abbandonino il Paese.

[21] Cfr «One of the world’s longest conflicts may be ending», cit.

[22] Cfr F. Gnetti, «Come la decisione di Öcalan può cambiare le cose in Siria e in Iraq», cit.

[23] Le cosiddette «Unità di difesa popolare», che costituiscono la spina dorsale delle Fds.

[24] Cfr C. Hage, «L’ultimatum della Turchia alle forze curde», in Internazionale, 17 gennaio 2025.

[25] F. Tonacci, «Siria, caccia jihadista agli alawiti. Damasco fa l’accordo con i curdi», in la Repubblica, 11 marzo 2025.

[26] «One of the world’s longest conflicts may be ending», cit.

[27] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», cit.

The post Il Pkk e la svolta storica di Öcalan first appeared on La Civiltà Cattolica.


La concezione cristiana dell’impresa


Un operaio della Copreci, della Corporación Mondragon
San Giovanni Paolo II, incontrando lavoratori e imprenditori durante la sua visita in Spagna nel 1982, affermò che il lavoro, pur essendo certamente un bene dell’uomo e per l’uomo, non può essere adeguatamente valorizzato se per prima cosa non si riconosce l’inviolabile dignità di ogni essere umano. Aggiunse che la disoccupazione involontaria va contro il diritto ad avere il lavoro, che è un diritto fondamentale, perché assolutamente necessario per poter soddisfare le necessità vitali. E dopo aver riconosciuto ed elogiato gli imprenditori per l’opera che svolgono, in quanto generatori di occupazione e di ricchezza, li invitò a riflettere sulla concezione cristiana dell’impresa. Ricordò loro che l’economia non ha senso se non è riferita all’uomo, al cui servizio deve porsi. Poiché il lavoro è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro, di conseguenza l’impresa è per l’uomo, e non l’uomo per l’impresa[1].

Karol Wojtyła, che solo un anno prima aveva pubblicato l’enciclica Laborem exercens (LE)[2], rinnovò la sua proposta centrale: la necessità di superare l’innaturale e illogica antinomia tra capitale e lavoro. Sottolineò che solo l’uomo – imprenditore o lavoratore – è il soggetto del lavoro, ed è persona; il capitale non è altro che un insieme di cose. Concluse sintetizzando il concetto di impresa proprio della Dottrina sociale della Chiesa: essa non è solo una struttura produttiva, bensì una comunità di vita, un luogo dove l’uomo convive e si pone in relazione con i suoi simili e in cui viene favorito lo sviluppo personale.

Ci proponiamo qui di chiarire se questa proposta rappresenti soltanto un ideale o se si tratti di un progetto realizzabile. Quali modelli di impresa può ispirare? E di fatto li ha ispirati?

I rapporti umani in azienda


Che cosa significa considerare l’impresa come una comunità umana? Siamo di fronte a una proposta sviluppata per gradi. La sua portata può essere compresa solo se si mettono in evidenza la retrostante concezione del lavoro, della retribuzione e del ruolo dei lavoratori nella gestione dell’impresa, e quale sia la concezione della funzione e dei doveri dell’imprenditore.

Il lavoro è la preoccupazione primaria della Dottrina sociale della Chiesa. Ne sta addirittura all’origine, dal momento che essa non nasce come una considerazione astratta, ma in reazione alle concrete, e in particolare disumane, condizioni del lavoro nelle fabbriche e nelle miniere che la Rivoluzione industriale aveva causato. Con espressioni molto vicine a quelle di Karl Marx, Leone XIII, nella Rerum novarum (RN), denuncia il fatto che un piccolo gruppo di ricchi abbia imposto poco meno che il giogo della schiavitù a una moltitudine di proletari. Quindi, la prima cosa da fare è liberare i poveri operai dalla crudeltà degli sfruttatori che abusano delle persone. Bisogna fare in modo che la giornata lavorativa non duri più ore di quelle consentite dalle forze, e sempre a condizione che il lavoro venga interrotto di tanto in tanto e ci sia spazio per il riposo[3].

La sua seconda preoccupazione e richiesta è che il salario sia giusto, e da lì si creano le basi per il necessario ruolo dei sindacati. Il salario, elemento fondamentale per giudicare la giustizia dei rapporti tra dipendenti e datori di lavoro, non può essere determinato semplicemente dal libero gioco della domanda e dell’offerta[4]: deve coprire i bisogni della famiglia che è a carico dal lavoratore e, allo stesso tempo, deve tener conto delle condizioni economiche dell’azienda e della società nazionale nel suo insieme. Queste affermazioni furono sottolineate da Pio XI nella Quadragesimo anno (QA).

A poco a poco, nel discorso dei Papi si faceva strada il diritto di partecipazione alla gestione come un requisito naturale del lavoro. Pio XI, raccogliendo la riflessione provocata in quarant’anni di esistenza del sistema capitalista e nella crisi del 1929, consigliava di introdurre nel contratto di lavoro alcuni elementi del contratto societario. Così i dipendenti venivano associati alla conduzione e all’amministrazione e partecipavano in una certa misura dei benefici. Giovanni XXIII ha proseguito questo discorso nella Mater et magistra (MM), e il Vaticano II lo ha ripreso nella Gaudium et spes (GS)[5].

La Laborem exercens (1981) di Giovanni Paolo II rappresenta il culmine della dottrina pontificia, in quanto considera il lavoro come la chiave più adeguata per comprendere e valorizzare eticamente tutti i problemi sociali. L’enciclica prende le mosse dalla constatazione del grande conflitto scatenato dalla Rivoluzione industriale tra il «mondo del capitale» e il «mondo del lavoro», perché i datori di lavoro cercano di fissare il salario più basso, togliendo sicurezza al lavoro e garanzie alla salute. Ricorda che il principio della Dottrina sociale della Chiesa è quello della priorità del lavoro sul capitale. Il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il capitale, cioè l’insieme dei mezzi di produzione, è solo uno strumento o la causa strumentale. Il capitale non può essere separato dal lavoro, né il lavoro può essere contrapposto al capitale, o il capitale al lavoro, né agli uomini specifici che stanno dietro a questi concetti. L’enciclica stabilisce che può essere intrinsecamente vero e allo stesso tempo moralmente legittimo quel sistema di lavoro che supera alla radice l’antinomia tra lavoro e capitale, cercando di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della priorità sostanziale ed effettiva del lavoro[6].

L’imprenditore nella Dottrina sociale della Chiesa


Certamente la Chiesa ha avuto cura di specificare il profilo dell’imprenditore che ritiene adatto per realizzare la sua proposta riguardante l’impresa, e non poteva essere altrimenti. Lo ha fatto in relazione alle varie circostanze prevalenti. Così Leone XIII, allo scoppio della Rivoluzione industriale, enunciò i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore in termini di padrone-operaio. Stabilì che i padroni non dovevano trattare gli operai come schiavi, ma rispettarne la dignità, senza imporre un lavoro eccessivamente gravoso, e remunerare il lavoro tempestivamente. Gli operai dovevano rispettare il contratto, non danneggiare il capitale, non offendere i padroni e non fomentare rivolte.

Questo era il discorso pertinente in quel momento. L’evoluzione degli eventi economici ha fatto sì che nell’analisi entrassero nuovi elementi. Per questo Giovanni XXIII, che continuava e sviluppava la visione di Pio XI sul diritto dei lavoratori a partecipare alla vita attiva dell’impresa, ha attribuito all’imprenditore la missione di garantire l’unità necessaria per una gestione efficiente[7].

In questo contesto, Pio XII ha manifestato il suo caloroso apprezzamento del lavoro degli imprenditori per il ruolo essenziale che essi ricoprono nello sviluppo dell’economia: «Sarebbe sbagliato credere che quest’attività coincida sempre con il proprio interesse […]. Si potrebbe paragonarla piuttosto all’invenzione scientifica, all’opera artistica che nasce da un’ispirazione disinteressata e che si rivolge molto di più all’intera comunità umana che arricchisce»[8]. Paolo VI ha confermato e ampliato questo ritratto dell’imprenditore: «Qualunque sia il giudizio che si voglia dare di voi, si dovrà riconoscere la vostra bravura, la vostra potenza, la vostra indispensabilità. La vostra funzione è necessaria per una società, che trae dal dominio della natura la sua vitalità, la sua grandezza, la sua ambizione. Avete molti meriti e molte responsabilità»[9].

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

Visione dell’imprenditore dopo il crollo del comunismo e la crisi del 2008


La Dottrina sociale della Chiesa è un intreccio di princìpi immutabili e applicazioni contingenti e mutevoli in risposta ai diversi problemi che si presentano. Questa dimensione storica, che le è così propria, ha fatto sì che essa reagisse a due eventi di grande importanza. Trentaquattro anni fa, nel 1991, scompariva l’Unione Sovietica. Nel 2008 abbiamo assistito a una nuova crisi finanziaria che ha scosso l’economia internazionale. Due encicliche hanno preso in considerazione gli insegnamenti di tali eventi: la Centesimus annus (CA) di Giovanni Paolo II e la Caritas in veritate (CV) di Benedetto XVI.

Secondo Giovanni Paolo II, il fattore decisivo che ha avviato il processo di caduta del comunismo è stato senza dubbio la violazione dei diritti dei lavoratori (cfr CA 23). A ciò si è aggiunta l’inefficienza del sistema economico a causa della violazione dei diritti umani all’iniziativa, alla proprietà e alla libertà nel settore economico. Ciò lo porta a riconoscere che il libero mercato è lo strumento più efficace per allocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni; e che sono evidenti e decisivi il ruolo del lavoro umano, disciplinato e creativo, e quello delle capacità di iniziativa e di spirito imprenditoriale come parte essenziale del lavoro stesso[10]. In precedenza Giovanni Paolo II, nella già citata Laborem exercens, aveva distinto due tipologie di datori di lavoro. Quella diretta comprende la persona o l’ente con cui il lavoratore stipula il contratto di lavoro a determinate condizioni; in quella indiretta, invece, rientrano tutti coloro che in un modo o nell’altro influenzano il contratto e le condizioni del lavoro (partiti politici, sindacati, associazioni di categoria, associazioni dei consumatori e lo Stato stesso).

Benedetto XVI, in reazione alla crisi economica del 2008 – la più grave dal secondo dopoguerra, causata dalla speculazione finanziaria basata sui mutui senza garanzie sufficienti concessi negli Stati Uniti –, ha affermato che la grande sfida è quella di dimostrare che non si possono lasciare da parte i princìpi tradizionali dell’etica sociale e che il principio di gratuità e la logica del dono come espressione di fraternità possono e devono trovare posto all’interno della normale attività economica come esigenza della sua logica intrinseca, della carità e della verità[11].

Tutto questo ha dato origine a un documento del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, pubblicato nel 2012 con un titolo un po’ sorprendente: La vocazione del leader d’impresa[12].

La vocazione imprenditoriale


Questo documento è una guida destinata agli imprenditori e ai docenti di economia, che mette in luce l’importanza della vocazione dell’imprenditore nel contesto dell’economia globalizzata, nonché l’apporto dei princìpi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa per l’organizzazione delle moderne attività di impresa[13]. Le sue formulazioni principali possono essere riassunte nei seguenti punti.

  1. Quando le aziende e i mercati, adeguatamente regolati dai governi, funzionano bene, contribuiscono in modo insostituibile al benessere materiale e spirituale della società. La recente esperienza della crisi finanziaria ha dimostrato fino a che punto, quando ciò non avviene, possano arrivare i danni provocati.
  2. Gli imprenditori cristiani possono sempre contribuire al raggiungimento del bene comune.
  3. Le difficoltà a contribuire con il lavoro personale e a servire il bene comune derivano dalle carenze dello stato di diritto, dalla corruzione, dall’avidità e dalla cattiva amministrazione delle risorse; ma, sul piano personale, la difficoltà più grande si manifesta quando si accetta di condurre una vita dissociata e di tributare una deplorevole devozione al successo mondano. Una leadership ispirata al servizio e fondata sulla fede aiuta a bilanciare le esigenze del business con i presupposti dell’etica sociale. Questo richiede di vedere, giudicare e agire.
  4. Vedere i segni dei tempi implica considerare quattro fattori, anch’essi ambigui e intrecciati: la globalizzazione; lo sviluppo delle comunicazioni; lo sviluppo dell’economia finanziaria; l’ascesa dell’individualismo.
  5. Le buone decisioni imprenditoriali sono quelle basate sul rispetto della dignità umana e sulla ricerca del bene comune. Ciò porta a produrre beni che soddisfino necessità umane autentiche in modo responsabile, con un’organizzazione che riconosca la dignità dei lavoratori. In base al principio di sussidiarietà, i lavoratori acquisiscono esperienza, si assumono le proprie responsabilità e possono prendere decisioni. Usando la loro libertà e intelligenza, diventano coimprenditori. In questo modo si ottiene una ricchezza sostenibile, che può essere distribuita equamente, cioè attraverso prezzi, salari, benefici e tasse equi.
  6. I leader aziendali seguono la loro vocazione quando praticano virtù e princìpi etici nel loro lavoro quotidiano. In questo modo, chi ha ricevuto molto restituisce molto alla comunità. I leader creano così un mondo migliore. La loro saggezza pratica consente di rispondere alle sfide, vedendole e giudicandole secondo princìpi illuminati dal Vangelo, e di agire come credenti che servono Dio.


Valutazione del documento


Questo documento approfondisce le potenzialità del mercato nella sua versione migliore e il comportamento corretto da mantenere al suo interno. I contributi fondamentali che offre riguardano, come attesta il titolo, l’attività imprenditoriale, intesa in termini di vocazione cristiana, e la stretta relazione che questa ha con il perseguimento del bene comune, e quindi con una visione positiva di tale attività in quanto generatrice di ricchezza.

La riflessione che vi si dipana è rivolta a coloro che, lavorando nelle aziende, hanno una profonda convinzione di essere stati chiamati da Dio a tale attività, e di essere quindi collaboratori della sua creazione. Si comincia da qui. Questa convinzione, d’altronde, viene subito rafforzata, affermando che la vocazione all’esercizio dell’impresa è un’autentica vocazione dal punto di vista sia umano sia cristiano. Bisogna tener conto del fatto che questo documento nasce in un seminario sulla citata enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, in cui è centrale la riflessione sullo sviluppo umano come vocazione[14].

L’importanza di tale formulazione è inestimabile. Come abbiamo detto, contrariamente all’opinione di chi tende a vedere i lavori rilevanti nel sistema di mercato come realtà difficilmente compatibili con una vita cristiana e con la pratica della spiritualità, si afferma che tale attività costituisce un’autentica vocazione cristiana, e per giunta di tale importanza da non avere nemmeno bisogno di essere ulteriormente fondata. Essa contribuisce al bene comune. Una buona gestione promuove la dignità dei dipendenti e lo sviluppo di virtù quali la solidarietà, la saggezza pratica, la disciplina e il sacrificio. I potenziali benefìci sono evidenti. Basta guardare alla storia recente per capire come l’innovazione nelle aziende abbia portato prosperità in innumerevoli modi, alcuni notevoli, come l’eliminazione di terribili malattie. Quando parliamo e riflettiamo sui benefìci che lo sviluppo economico ci ha apportato, spesso dimentichiamo di riconoscere coloro che vi hanno svolto un ruolo essenziale: gli imprenditori, creatori di ricchezza, che hanno reso le nostre società più prospere e più umane. A loro dobbiamo attribuire gran parte del merito del fatto che oggi viviamo, nelle aree sviluppate, molto meglio dei nostri genitori e nonni.

Qual è il limite fondamentale di questo documento? Forse il fatto di riflettere un contesto specifico: quello del mondo accademico e imprenditoriale cattolico negli Stati Uniti[15]. Il documento rispecchia i suoi risultati e convinzioni su come le aziende dovrebbero essere a tutti i livelli, ed esprime l’impresa ideale[16]. È consapevole che «costruire una impresa come una comunità di persone […] non è un compito facile. In particolare, le grandi multinazionali possono trovare difficile creare prassi e politiche atte a promuovere una comunità di uomini tra i propri associati»[17].

La realtà delle imprese tradizionali


Le organizzazioni imprenditoriali tradizionali sono caratterizzate dalla separazione dei lavoratori dai proprietari, dalla concentrazione del potere decisionale nella proprietà e dall’attribuzione a essa dei benefìci economici. Poiché mirano soprattutto a massimizzare la ricchezza degli azionisti, perseguono incessantemente la minimizzazione dei costi. Ciò significa che per loro i lavoratori sono un mero fattore di produzione, e pertanto, se c’è da alleviare una situazione economica o semplicemente da migliorare la redditività, esse ricorrono all’attuazione di politiche di licenziamento.

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

La perdita dell’impiego ha conseguenze disastrose per i lavoratori colpiti, per le loro famiglie e per la comunità. Essi subiscono il venir meno del sostegno economico, la comprensibile demoralizzazione, la perdita di autostima, di dignità e l’emarginazione sociale.

È noto che la globalizzazione produttiva comporta la perdita di posti di lavoro, che emigrano verso le economie meno sviluppate, dove i salari sono più bassi[18]. Le acquisizioni implicano che coloro che hanno costruito l’azienda vengano spesso licenziati. L’automazione comporta che i robot svolgano lavori che prima venivano assegnati agli esseri umani. «Ristrutturazione» è un eufemismo che in realtà significa «licenziamento». Inoltre, l’eliminazione dei dipendenti stabili crea un gruppo contingente di lavoratori a tempo limitato e con uno stipendio inferiore. Così si avvantaggia la proprietà.

Spesso vengono offerte spiegazioni inverosimili del licenziamento dei lavoratori, e questo è un attentato alla dignità umana e alla dignità del lavoro umano. Quanti manager si assumono la responsabilità personale, chiedendo scusa per gli errori che hanno contribuito a causare quei problemi che ora essi vogliono risolvere con i licenziamenti? Quanti accettano una riduzione del salario e dei benefìci per condividere l’onere della ristrutturazione? C’è chi guadagna prestigio anche come manager inesorabile, capace di sbarazzarsi delle persone. Per gente simile si tratta solo di forza lavoro.

Questa pratica crea un ambiente di paura e di abuso sul posto di lavoro. Coloro che rimangono occupati spesso si ritrovano sovraccarichi e vulnerabili. Il capo che agisce con metodi coercitivi arreca disagio, provoca dolore. Lavorare in un ambiente intimorito priva le persone della loro dignità: «La paura permea tutto il nostro essere, trasformando il coraggio in codardia, la nostra passione in dolore, la nostra verità in menzogna, e la nostra mente creativa e fertile in una terra desolata. Può distruggere le nostre anime e le nostre idee»[19].

Giovanni Paolo II ha scritto: «Nel lavoro […] l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità. È noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo […], che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro» (LE 21)[20]. Nello stesso tempo, Giovanni Paolo II ha condannato il pensiero economico che riduce il lavoro umano a una «merce» che il lavoratore «vende» all’imprenditore, proprietario del capitale, come mero fattore di produzione[21]. Secondo il Premio Nobel per l’economia Milton Friedmann, la responsabilità sociale delle imprese non va oltre l’aumentarne i profitti[22].

L’economicismo porta a escludere le persone


In un mondo sempre più competitivo e agguerrito, i diritti dei lavoratori ne risentono. L’irruzione della Cina nell’economia mondiale ha influito negativamente sui salari di molti lavoratori in Occidente, con conseguenze sociali e politiche[23]. Il fattore «lavoro», dopo la grande recessione del 2008, è stato caratterizzato da un’intensificazione della precarietà e della disuguaglianza, da una maggiore flessibilità e da cambiamenti strutturali derivati dalla polarizzazione dell’occupazione e del progresso tecnologico. Sebbene siano stati compiuti sforzi per mitigare gli effetti della crisi, i suoi impatti sono ancora visibili nelle condizioni lavorative e nelle disuguaglianze socioeconomiche a livello globale[24]. Il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione internazionale del lavoro hanno valutato la situazione in questi termini: «La disoccupazione colpisce con particolare durezza le economie avanzate e avrà ripercussioni sociali a lungo termine, per esempio sulla salute e sui figli dei lavoratori licenziati»[25]. Numerosi studi hanno evidenziato che la disoccupazione e la sottoccupazione sono cause di suicidio[26]. Non è forse proprio questo il contesto della denuncia di papa Francesco: «Oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”»[27]?

L’immagine che ricaviamo della moderna vita economico-imprenditoriale non è piacevole. Troppe volte chi viene considerato superfluo viene scartato, e chi è semplicemente utilizzato non viene rispettato. Con ciò si corre il rischio che troppi esseri umani non siano in grado di affrontare le sfide che si presentano e cadano nella depressione e nell’emarginazione[28].

Si tratta di mettere in pratica la vocazione che gli esseri umani hanno di essere costruttori di fraternità. La cultura dell’indifferenza e dello scarto va contrastata promuovendo la cultura della cura[29]. Ciò richiede che si affronti la questione centrale di come superare l’antinomia tra capitale e lavoro riconoscendo la priorità del lavoro (cfr LE 13).

Un nuovo modello d’impresa conforme alla dignità del lavoro


Il movimento cooperativo esiste da quasi 200 anni. È nato come reazione agli eccessi del capitalismo. I promotori si ispirarono alle idee dei socialisti utopisti, in particolare a quelle di Robert Owen.

Oggi, più di 720 milioni di persone nel mondo hanno qualche tipo di rapporto con una cooperativa. Il fatto che queste cooperative in nessun Paese rappresentino più del 10% del Pil dimostra che questa formula non è stata un’alternativa maggioritaria alle scelte aziendali tradizionali. Esiste però l’eccezione della Corporación Mondragón. Riferimento mondiale nel movimento cooperativista per sviluppo e coerenza, essa è il più grande gruppo imprenditoriale dei Paesi Baschi e il decimo in Spagna[30], un modello paradigmatico di creazione e mantenimento di posti di lavoro.

Queste imprese sono caratterizzate dal principio che tutte le persone hanno la stessa dignità e devono essere trattate di conseguenza, e che quindi è essenziale promuovere la partecipazione dei lavoratori alla gestione, ai benefìci e alla proprietà delle aziende. La solidarietà tra i componenti si manifesta in una ripartizione retributiva ragionevole. Ciò facilita la coesione sociale e un progetto condiviso. Lo scopo dell’organizzazione non è solo quello di ottenere benefìci, ma di produrre beni utili per le persone e la società, e l’azienda deve anche assumersi la responsabilità di collaborare alla risoluzione dei loro problemi. Queste aziende fanno parte di un gruppo in cui esiste intercooperazione, in modo che una cooperativa accetta le eccedenze di personale delle altre. Nessun socio viene eliminato, ma eventualmente viene trasferito. Padre José María Arizmendiarrieta, il suo ispiratore, aveva come obiettivo un progetto di trasformazione sociale a partire dalla trasformazione dell’impresa in base ai princìpi e ai valori dell’umanesimo cristiano. La sua visione, nelle sue stesse parole, è che «il socio nella cooperativa, oltre a essere un lavoratore, è anche un imprenditore»[31].

Verso un cambio di paradigma


Il nostro grande compito oggi è quello di cercare di evangelizzare l’economia, e questo implica concepire adeguatamente l’impresa, prima cellula economica sociale. Il compito è quello di realizzare un’economia sia etica sia efficace, che abbia a cuore anche la comunità.

Oggi si moltiplicano le alternative all’organizzazione tradizionale. Così nella Caritas in veritate si fa cenno all’Economia di Comunione. Questa, fondata da Chiara Lubich nel maggio 1991 a San Paolo, comprende imprenditori, lavoratori, manager, consumatori, risparmiatori, cittadini, ricercatori e operatori economici impegnati a diversi livelli nella promozione di una prassi e di una cultura economica caratterizzate dalla comunione, dalla gratuità e dalla reciprocità, proponendo e vivendo uno stile di vita alternativo a quello dominante nel sistema capitalista. Altre proposte imprenditoriali che vanno in questa linea sono i movimenti come l’autogestione, l’economia solidale, l’economia di cooperazione, l’economia civile di mercato, l’economia del bene comune e l’economia popolare e solidale.

Sappiamo che nella società i cambiamenti di paradigma non avvengono all’improvviso, né con la stessa celerità in tutte le sue componenti. Ma senza dubbio questo è stato uno degli sforzi di papa Francesco. A mo’ di conclusione, riportiamo qui due paragrafi della Dichiarazione finale di The Economy of Francesco: «Crediamo fermamente che attraverso il lavoro siamo in grado di partecipare alla creazione di Dio, rea­lizzando noi stessi all’interno delle nostre comunità. Chiediamo una nuova cultura del lavoro che dia priorità alla dignità delle persone, che riconosca il contributo di ogni lavoratore, che generi un valore economico condiviso, rompendo la povertà dei lavoratori. […] Crediamo nella gestione come l’arte di unire le persone per il bene comune attraverso la leadership comunitaria, non la supremazia»[32].

Senza credere negli ideali non si può vivere. Realizzarli permette di essere all’altezza della vocazione alla quale siamo stati chiamati (cfr Ef 4,1-13).

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1]. Cfr Giovanni Paolo II, s., Incontro con i lavoratori e gli imprenditori, Barcellona, 7 novembre 1982 (vatican.va/content/john-paul-i…).

[2]. Con quel documento il Papa avviò il rilancio della Dottrina sociale della Chiesa, dandole una importanza maggiore di quanta ne avesse avuto prima e accentuando aspetti che le elaborazioni del Vaticano II e dello stesso Paolo VI avevano lasciato più in ombra. Giovanni Paolo II era un Papa diverso, veniva dal freddo e aveva conosciuto il vero socialismo in prima persona, e ora si trovava a fronteggiare il liberalismo.

[3]. Questa denuncia conserva tuttora la sua ragion d’essere. Per esempio, ai raccoglitori nei campi della Florida e del Texas (Usa) la legislazione lavorativa non riconosce il diritto alle pause programmate per evitare colpi di calore (cfr aljazeera.com/program/fault-li…).

[4]. Viene in mente il famoso passo di John Steinbeck: «Metti che tu hai lavoro per un operaio, e che per avere quel posto si presenta solo uno. Ti tocca dargli la paga che vuole. Ma metti che si presentano in cento. […] Metti che quel posto lo vogliono in cento. Metti che quei cento hanno dei bambini, e che quei bambini sono affamati. Metti che dieci centesimi bastano per comprare un po’ di farina di mais a quei bambini. […] Tu offrigli cinque centesimi, e vedi se non s’ammazzano tra loro per avere i tuoi cinque centesimi» (J. Steinbeck, Furore, Milano, Bompiani, edizione Kindle Amazon, 2024, 359).

[5]. Cfr QA 65; MM 82-83; GS 65.

[6]. Cfr LE 13.

[7]. Cfr MM 83-91.

[8]. Pio XII, Discorso ai Partecipanti al Congresso dell’Associazione Internazionale degli economisti, Roma, 9 settembre 1956, in Acta Apostolicae Sedis XLVIII, 673.

[9] . Paolo VI, s., Discorso al XI Congresso nazionale dell’Unione cristiana imprenditori e dirigenti, 8 giugno 1964 (vatican.va/content/paul-vi/it/…).

[10]. Cfr CA 23; 24; 32.

[11]. Cfr CV 36.

[12]. Il documento La vocazione del leader d’impresa. Una riflessione trae origine da un seminario, svoltosi nel febbraio 2011, su «Caritas in veritate: la logica del dono e il significato dell’impresa», organizzato dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, assieme al John A. Ryan Institute for Catholic Social Thought presso l’Università St. Thomas a Minneapolis, Minnesota, e alla Fondazione Ecophilos. Il documento, preparato da una équipe di colleghi provenienti da tutto il mondo, è stato coordinato da Michael Naughton, direttore del John A. Ryan Institute, e da Helen Alford, attuale presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali (tinyurl.com/yckcd2uj).

[13]. In inglese ne è apparsa, nel 2018, una quarta edizione, in cui vengono inseriti gli insegnamenti più recenti di papa Francesco riguardo alla vocazione dell’imprenditore, all’ecologia integrale, al paradigma tecnocratico e all’importanza di una più equa distribuzione della ricchezza (tinyurl.com/fe32ymfp).

[14]. Cfr CV 11; 16-19.

[15]. Cfr H. Alford – M. Naughton, Managing as if Faith Mattered: Christian Social Principles in the Modern Organization, Notre Dame, IN, University of Notre Dame Press, 2001.

[16]. Cfr S. Del Bove – F. de la Iglesia, «Annotazioni a margine del decennale della pubblicazione del documento “La vocazione del leader d’impresa”», in Gregorianum, n. 103, 2022, 877-900.

[17]. La vocazione del leader d’impresa, cit., 59.

[18]. Cfr M. Camdessus, «Globalization, Subjective Dimensions of Work and the World Social Order», in Pontifical Council for Justice and Peace, Work as Key to the Social Question, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002, 291-300.

[19]. L. Wright – M. Smye, Corporate Abuse: How «Lean and Mean» Robs People and Profits, New York, MacMillan, 1996, 6.

[20]. Cfr H. Alford, «Job design in the perspective of “Laborem Exercens”, in Pontifical Council for Justice and Peace, Work as Key to the Social Question, cit., 215-233.

[21]. Cfr R. G. Lipsey – P. N. Courant – D. D. Purvis – P. O. Steiner, Economics: Tenth Edition, New York, Harper Collins College Publishers, 1992, 178; P. Drucker, Management: Tasks, Responsibilities, Practices, New York, Harper Colophon, 1985, 40.

[22]. Cfr M. Friedman, «A Friedman Doctrine – The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits», in The New York Times (nytimes.com/1970/09/13/archive…), 13 settembre 1970.

[23]. Cfr R. B. Freeman, «Are Your Wages Set in Beijing?», in The Journal of Economic Perspectives, vol. 9, n. 3, 1995, 15-32 (aeaweb.org/articles?id=10.1257…).

[24]. F. Hoffer, «La Gran Recesión. ¿Un momento decisivo para el trabajo?», in Crisis financieras, deflación y respuestas de los sindicatos. ¿Cuáles son las enseñanzas?, Ginevra, Oficina internacional del trabajo, 2010 (tinyurl.com/3wxzzmbr).

[25]. «Fuerte aumento del desempleo debido a la recesión mundial», in Boletín del FMI, 2 settembre 2010 (imf.org/external/spanish/pubs/…).

[26]. Cfr A. Skinner et Al., «Unemployment and underemployment are causes of suicide», in Science Advances, vol. 9, n. 28, 12 luglio 2023 (science.org/doi/10.1126/sciadv…).

[27]. Francesco, Evangelii gaudium (EG), n. 53.

[28]. Cfr F. Chica Arellano, «Globalización y desperdicio: grandes desequilibrios y desafíos socioeconómicos y ambientales para la búsqueda de la paz», in Ecclesia 38 (2024) 301-327.

[29]. «Francesco: dobbiamo opporci alla cultura dello scarto con la cultura della tenerezza», in Vatican News (vaticannews.va/it/papa/news/20…), 20 febbraio 2023.

[30]. La Corporación Mondragón impiega più di 70.000 persone; ha una presenza globale e opera nei settori della finanza, dell’industria, della distribuzione e della conoscenza. Conta su una banca, una compagnia di assicurazioni e una propria università. Cfr F. de la Iglesia Viguiristi, «Don José María Arizmendiarrieta, creatore della “esperienza cooperativa di Mondragón”», in Civ. Catt. 2024 IV 373-389.

[31]. J. M. Arizmendiarrieta, Pensamientos. Selección de Joxe Azurmendi, Otalora, 2023, n. 492.

[32]. The Economy of Francisco, Dichiarazione finale di Assisi 2022, nn. 7 e 9 (francescoeconomy.org/it/final-…).

The post La concezione cristiana dell’impresa first appeared on La Civiltà Cattolica.


Il Verbo incarnato tra divinità e umanità


Ultima Cena di Andrea del Castagno, particolare
Il ritratto di Gesù nel Vangelo di Giovanni differisce molto rispetto a quello dei Sinottici. Non solo la forma del Vangelo è diversa rispetto a Matteo, Marco e Luca, ma anche il Gesù che ne emerge presenta caratteristiche peculiari. A dispetto dell’onniscienza che egli rivela nel corso del racconto evangelico[1], nonostante appaia pienamente sovrano durante tutta la narrazione della passione, e sebbene la sua solida relazione con il Padre venga menzionata più volte, Gesù si mostra anche fragile e vulnerabile. Nel quarto Vangelo, egli è stanco e nel bisogno (Gv 4,6); chiede da mangiare (Gv 21,5) e da bere (Gv 19,28); è assetato (Gv 4,7); è costretto alla fuga (Gv 10,39; 11,54); dichiara di essere contento (Gv 11,15), ma anche appare in più occasioni turbato (Gv 11,33; 12,27; 13,21) e grato (Gv 11,41), fino al pianto (Gv 11,35).

Il Vangelo di Giovanni esordisce con un Prologo che rivela e sintetizza la convergenza-congiunzione di divino e umano in Gesù: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). La Parola divina si incarna e assume su di sé la precarietà della carne (sarx), facendo propri la debolezza e il limite della condizione umana, fino alla morte. Il turbamento e il pianto di Gesù, dunque, non vanno considerati come una finzione, ma sono parte dell’esperienza umana del Verbo incarnato. Pertanto, come interpretare il Gesù giovanneo alla luce delle manifestazioni delle sue emozioni e dei suoi bisogni?

Lo zelo appassionato di Gesù nel tempio


Nel secondo capitolo del quarto Vangelo, Gesù inaugura il suo ministero a Gerusalemme con un’azione irruente, a tratti violenta, scacciando dal tempio i venditori e gli animali, ribaltando i loro banchi, gettando via il denaro e ammonendo i mercanti con veemenza[2]. La drammatizzazione scenica risulta quindi impressionante e travolgente: «Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”»(Gv 2,15-17).

Le emozioni di Gesù si esprimono in maniera dirompente. I discepoli vedono questa azione profetica di Gesù e la interpretano secondo il Sal 69,9. Lo zelo-gelosia del salmista è ardore e fervore dello spirito, come una passione che consuma[3]. Questo zelo ora viene attribuito a Gesù che si scaglia contro la mercificazione del tempio. Nel testo del Vangelo è presente una variazione rispetto al Salmo; in Giovanni il verbo «divorare» è al futuro, è un’anticipazione, che rinvia alla glorificazione della croce: Gesù, Verbo incarnato, si consumerà fino all’estremo per la sua missione.

Gesù, onnisciente e vulnerabile


Nel racconto della risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11) convergono e coesistono tutti gli elementi finora menzionati: la sicurezza e l’onniscienza di Gesù, basata sul suo rapporto incrollabile con il Padre che sempre lo ascolta (cfr Gv 11,42), e la sua vulnerabilità davanti alla morte dell’amico Lazzaro e nel confronto con la sofferenza di chi gli sta intorno.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

Dalle parole di Marta e Maria apprendiamo che Gesù voleva bene a Lazzaro, il loro fratello che si era ammalato: «Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, colui a cui vuoi bene[4] è malato”» (Gv 11,3). Anche la voce narrante fa capire al lettore i sentimenti di Gesù, affermando che egli ama Marta, Maria e Lazzaro con un amore totale e incondizionato, espresso dal verbo agapaō: «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (Gv 11,5). Più avanti è lo stesso Gesù che definisce Lazzaro «il nostro amico (philos)» (Gv 11,11).

Nonostante tutte queste espressioni di affetto, Gesù si mostra distaccato. La notizia della malattia dell’amico non sembra turbarlo: «All’udire questo, Gesù disse: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”» (Gv 11,4). A queste parole, che esprimono fiducia, si accompagna il fatto che Gesù rimane dov’è, senza far nulla, per due giorni interi, fino a quando decide di andare in Giudea dall’amico Lazzaro. Le sue parole allora sono taglienti: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!» (Gv 11,14-15). Paradossalmente, Gesù esprime la propria contentezza – chairō – per non aver visitato prima Lazzaro, in modo che i discepoli possano credere. Egli appare sicuro di sé, fiducioso, nel pieno controllo della situazione e dei propri sentimenti. Non c’è alcuna reazione emotiva di dolore; Gesù sa che Lazzaro, ora addormentato, si risveglierà.

La situazione cambia quando Gesù arriva a Betania. L’incontro con Marta prima, e con Maria dopo, intacca in lui quell’aura di apparente distacco e imperturbabilità. Davanti alla protesta di Marta – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 21) –, Gesù la invita a credere che suo fratello risorgerà, perché lui è la risurrezione e la vita.

La conversazione con Maria, invece, assume immediatamente un tono diverso, più affettivo. Il rimprovero rivolto a Gesù è lo stesso – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 32) –, ma quello che accade dopo suscita stupore. Al lettore viene presentata la situazione di Gesù, che vede Maria e coloro che sono con lei piangere addolorati per il lutto (in greco, klaiō): «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, fremette nello spirito e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”» (Gv 11,33-34). Gesù ora perde quella compostezza che lo aveva caratterizzato sin dall’annuncio della malattia mortale dell’amico Lazzaro. La sua reazione viene descritta dal narratore con due verbi: «fremette nello spirito» (enebrimēsato tō pneumati) e «fu turbato» (etaraxen eauton).

La traduzione del primo verbo, embrimaomai, è complessa, perché esso indicherebbe lo sbuffare con indignazione, come un cavallo incollerito e arrabbiato[5]. Contro chi è infuriato Gesù? Contro la morte che lo ha privato dell’amico[6]? Contro Maria e i presenti che non credono? Oppure egli freme dentro di sé, con sé stesso – letteralmente, nel suo spirito – perché non si è mosso prima per salvare l’amico?

Il secondo verbo, tarassō, esprime l’agitazione interiore di Gesù, scosso come l’acqua quando è mossa (cfr Gv 5,4). Gesù è turbato e agitato, e sarà accompagnato da questo stato d’animo anche nelle fasi successive del racconto evangelico. Mentre è turbato, chiede dove sia il corpo di Lazzaro. Il Verbo incarnato non è indifferente davanti al pianto degli esseri umani. Egli sa che Lazzaro risorgerà, ma adesso il dolore di chi lo circonda è reale, ed egli ne viene scosso. «Gesù scoppiò in pianto (dakruō). Dissero allora i Giudei: “Guarda come gli voleva bene!”. Ma alcuni di loro dissero: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”» (Gv 11,35-37).

Gesù piange. Questo è il versetto più breve del Nuovo Testamento. Questa volta non viene usato il verbo klaiō («piangere»), ma il verbo dakruō, presente solo qui nel Nuovo Testamento[7]; questo verbo indica il versare lacrime e il piangere silenziosamente. Si tratta di una commozione profonda e personale, che viene interpretata in modo differente da coloro che sono presenti. Il pianto di Gesù può essere una dimostrazione di affetto, secondo l’opinione dei giudei, che usano il verbo phileō; oppure un segno di inazione o di impotenza. Anche in questo caso, l’equivoco e il fraintendimento accompagnano il Gesù giovanneo[8].

Gesù allora si reca al sepolcro, fremendo dentro di sé: «Allora Gesù, ancora una volta, fremendo in se stesso, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra» (Gv 11,38). Ancora una volta ricorre il verbo embrimaomai («fremere»), accompagnato dal pronome riflessivo en eautō («in sé stesso»). Persiste in Gesù uno stato di inquietudine interiore, mista a irritazione. Il comando di sollevare la pietra suscita perplessità in Marta, che è esitante; ma, di fronte all’insistenza di Gesù, la pietra viene tolta: «Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”» (Gv 11,41-42).

Gesù alza gli occhi, cioè si rivolge al Padre e lo interpella direttamente. Gli rende grazie, come aveva fatto già al momento della moltiplicazione dei pani e dei pesci (cfr Gv 6,11.23). La sua gratitudine giunge dopo lo sconvolgimento emotivo e il pianto, e prima che Lazzaro, l’amico morto, esca vivo dalla tomba. La relazione di Gesù con il Padre è salda, al di là delle vicissitudini e della turbolenza interiore. Poi egli grida verso Lazzaro, che esce dal sepolcro. Di fronte a questo segno, c’è chi crede in Gesù e c’è chi riferisce la notizia ai farisei, che fanno un complotto contro di lui.

Alle soglie della passione


Il turbamento di Gesù però continua anche nei capitoli successivi e si rivela come una disposizione emotiva che persiste e lo accompagna alle soglie della sua passione. Nel capitolo 12 di Giovanni, è Gesù stesso a esprimere il proprio stato d’animo ad Andrea e Filippo: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,27-28).

Tuttavia Gesù non si lascia condizionare dal proprio stato d’animo, perché confida nel Padre e nel suo proposito. Successivamente, all’inizio dell’Ultima Cena, il narratore rivela al lettore che Gesù è mosso da un amore totale e oblativo verso i propri discepoli, che si manifesta concretamente nel gesto della lavanda dei piedi[9]: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).

Dopo aver citato la Scrittura per annunciare il tradimento di un amico – «Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno [cfr Sal 41,10]» –, Gesù rimane profondamente turbato nel suo intimo: «Dette queste cose, Gesù fu turbato nello spirito e dichiarò: “In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà”» (Gv 13,21). Dopo l’uscita di Giuda dalla sala, mentre era notte fuori e dentro il traditore (cfr Gv 13,30), Gesù riprende a parlare e, in modo sorprendente, confessa il suo amore per i discepoli, esortandoli ad amare come ha fatto lui: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34); «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9); «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

I discepoli non sono i servitori, ma gli amici (philoi) di Gesù, a cui il Signore offre tutta la propria vita. C’è una condivisione intima e profonda di Gesù con i discepoli. Proprio con loro egli vuole condividere la gioia paradossale che alberga dentro di sé: «Nessuno ha un amore (agapē) più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici (philoi), se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,13-15). «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). «Perché abbiano in sé stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13). Inoltre, Gesù confessa di amare il Padre e di essere amato da lui (cfr Gv 15,9-10; 17,23-26), in una relazione reciproca: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco» (Gv 14,31).

Al tempo stesso, Gesù invita i suoi discepoli a non rimanere turbati, a superare la paura davanti all’«ora» che lo attende: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. […] Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,1.27).

Il lungo discorso di addio (cfr Gv 13–16) e la preghiera di Gesù al Padre (cfr Gv 17) costituiscono insieme quasi un testamento, la Magna Carta per i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo. Nell’ambito del quarto Vangelo, essi rappresentano una svolta, perché, quando sarà catturato, Gesù non mostrerà più agitazione e turbamento, ma apparirà sereno e pienamente consapevole di ciò che accade, in cammino verso quella glorificazione che si manifesterà attraverso la croce. È lui che nella passione conduce i giochi, e non appare per nulla in balìa degli eventi e di chi vuole eliminarlo. Il Gesù che va verso la croce è solenne e composto, come chi si avvia verso un’intronizzazione, e non come chi sta andando al patibolo: «Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: “Chi cercate?”. Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,4-6).

Il discepolo che Gesù amava


Nella seconda parte del Vangelo di Giovanni è presente la figura misteriosa del discepolo che Gesù amava, identificato dalla tradizione con l’evangelista (cfr Gv 21,24) e apostolo Giovanni. «Era adagiato nel grembo (kolpon) di Gesù uno dei suoi discepoli, quello che Gesù amava» (Gv 13,23). Questo personaggio esordisce nel racconto dell’Ultima Cena. È uno dei discepoli, che però occupa un posto speciale accanto a Gesù, proprio sul suo grembo. Questo rivela una grande intimità tra lui e il maestro e rimanda il lettore direttamente al Prologo del Vangelo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: Il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno (kolpon) del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18)[10].

La relazione tra il discepolo e Gesù corrisponde a quella tra Gesù e il Padre. Qui c’è senz’altro una dimensione affettiva, ma anche una teologica: l’intimità con il Verbo incarnato porta direttamente nel grembo della Trinità.

Dopo avercelo mostrato accanto a Gesù, la voce narrante annota che questo discepolo era quello che Gesù amava. Il verbo agapaō all’imperfetto sta a indicare un affetto duraturo, che persiste nel tempo e che caratterizza la relazione di Gesù con questo discepolo. Tale relazione privilegiata con il maestro è testimoniata anche da Pietro, che si rivolge proprio al discepolo amato per sapere di chi stia parlando Gesù quando afferma che qualcuno lo tradirà (cfr Gv 13,21): «Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?”» (Gv 13,24-25). Il gesto del discepolo è eloquente: egli si china sul petto di Gesù, mostrando una grande confidenza e familiarità. Il legame tra Gesù e questo discepolo emerge in maniera chiara e forte proprio in un momento di intenso turbamento emotivo per il maestro a causa del tradimento ormai prossimo da parte di uno dei suoi discepoli.

Il discepolo che Gesù amava è presente anche in un altro momento topico del quarto Vangelo: sul Golgota, quando gli viene affidata da Gesù sua madre. Il Signore crea un nuovo legame e una nuova relazione tra i due sotto la croce. È qui l’origine della Chiesa, che nasce dall’«amore» (agapē) di Gesù «fino alla fine» (Gv 13,1): «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26-27).

A Pasqua, il discepolo amato è colui che corre al sepolcro vuoto, vede e crede (cfr Gv 20,8), a differenza di Pietro, ed è capace di riconoscere i segni della risurrezione nell’assenza del corpo di Gesù. «[Maria di Magdala] corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”» (Gv 20,2).

Anche nel terzo racconto della risurrezione compare nuovamente questo discepolo, che il narratore presenta ancora come «colui che Gesù amava». Egli è il primo a riconoscere Gesù: «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare» (Gv 21,7).

Mentre Gesù dialoga con Pietro – «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?» (Gv 21,15) –, il discepolo che Gesù amava è presente. Il narratore lo richiama attraverso un flashback che rimanda alla sua prima comparsa nel racconto giovanneo: «Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”» (Gv 21,20). In questo contesto, il discepolo che Gesù amava, sulla cui sorte Pietro rivolge una domanda a Gesù (cfr Gv 21,21-23), viene identificato come il testimone veritiero che ha scritto il Vangelo: «Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera» (Gv 21,24).

Solo l’amore permette di conoscere e penetrare il mistero del Dio fatto carne che viene nel mondo. Questa è la strada per ogni discepolo e per il lettore del Vangelo, che può identificarsi in questo testimone anonimo e raccontare l’amore ricevuto da Gesù.

* * *


Parlare delle emozioni e degli affetti di Gesù nel Vangelo di Giovanni non è facile, perché il racconto su Gesù viene letto attraverso le lenti della peculiare teologia giovannea. Il Verbo incarnato rimane Dio, ma, una volta fattosi carne, assume tutta la precarietà e fragilità dell’essere umano.

Il Gesù onnisciente e il Gesù turbato sono la stessa persona. Colui che confida nel Padre e colui che piange il dolore degli uomini sono la stessa persona. Gesù non è un essere scisso o schizofrenico, ma è lo stesso Gesù, uomo-Dio, che soffre e ama fino alla fine, totalmente. In lui c’è la rivelazione di un Dio che è appassionato per l’uomo. Non è il dio imperturbabile e impassibile dei filosofi[11], ma è il Dio vivo e vivace, agitato e irrequieto, pieno di compassione. Come testimonia anche il profeta Osea, dando voce all’amore viscerale e vibrante di Dio: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,8).

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1]. Cfr J. Tripp, «Jesus’s Special Knowledge in the Gospel of John», in Novum Testamentum 61 (2019/3) 269-288.

[2]. Nei Vangeli sinottici, invece, questa azione di Gesù è collocata prima della sua passione e morte (cfr Mt 21,8-19; Mc 11,7-19; Lc 19,45-48).

[3]. L’espressione ebraica el-kana (cfr Dt 4,24; 5,9; 6,15; e anche Es 20,5; 34,14) di solito viene tradotta con «Dio geloso»; più propriamente la si potrebbe tradurre con «Dio appassionato», indicando la dimensione affettiva ed emotiva di un Dio che coniuga insieme giustizia e misericordia. Per un’approfondita trattazione di questo argomento, cfr D. Markl, «Ein “leidenschaftlicher Gott”. Zu einem zentralen Motiv biblischer Theologie», in Zeitschrift für Katholische Theologie 137 (2015) 193–205.

[4]. Qui viene usato il verbo phileō. Riguardo ai termini philia, agapē ed eros, papa Benedetto XVI afferma: «Quanto all’amore di amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell’amore che si esprime attraverso la parola agapē, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell’amore. […] In opposizione all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca» (Benedetto XVI, Deus caritas est,nn. 3; 6).

[5]. Cfr Eschilo, I sette contro Tebe, 460–464. Nel Nuovo Testamento, il verbo embrimaomaiviene utilizzato in Mt 9,30: «Quindi Gesù li ammonì dicendo: “Badate che nessuno lo sappia!”»; in Mc 1,43: «E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito»; e in Mc 14,5: «Ed erano infuriati contro di lei». La connotazione del verbo è negativa.

[6]. Come intendono i Padri della Chiesa.

[7]. Invece, il sostantivo dakruon («lacrima») nel Nuovo Testamento si trova anche in Mc 9,24 (alcuni manoscritti); Lc 7,38.44; At 20,19.31; 2 Cor 2,4; 2 Tm 1,4; Eb 5,7; 12,17; Ap 7,17; 21,4.

[8]. Cfr Gv 2,19-21; 3,3-5; 4,10-15; 4,31-34; 6,32-35; 6,51-53; 7,33-36; 8,21-22; 8,31-35; 8,51-53; 8,56-58; 11,11-15; 11,23-25; 12,32-34; 13,36-38; 14,4-6; 14,7-9; 16,16-19.

[9]. Il Vangelo di Giovanni è il Vangelo dell’amore che si dona incondizionatamente, espresso attraverso il verbo agapaō, che compare 37 volte (il sostantivo agapē, invece, ha 7 occorrenze). In Mt il verbo agapaō ricorre 11 volte, in Mc 8, in Lc 15. Anche il verbo phileō («voler bene») in Gv compare 13 volte, con un’evidente sproporzione rispetto a Mt (5), Mc (1) e Lc (2).

[10]. Riguardo alla traduzione di kolpos come «grembo», cfr D. F. Stramara, Jr., «The Kolpos of The Father (Jn. 1:18) As The Womb of God in The Greek Tradition», in Magistra 22 (2016/2) 37-53.

[11]. Per i filosofi greci, l’atarassia è l’imperturbabilità, ossia lo stato di annientamento di tutti i desideri e impulsi naturali e la rimozione di tutte le paure che consente all’uomo di sperimentare la piena felicità. Al contrario, Gesù, uomo-Dio, non è indifferente, ma passionale, come conferma anche la presenza del verbo tarassō (cfr Gv 11,33; 12,27; 13,21), che letteralmente è l’opposto di a-tarassia («mancanza di turbamento»). Gesù è turbato per il suo amore per l’uomo.

The post Il Verbo incarnato tra divinità e umanità first appeared on La Civiltà Cattolica.


I 1700 anni del concilio di Nicea: contesto storico, convocazione e principali decisioni


Il primo concilio di Nicea, chiesa di Stavropoleos, Bucarest.
Nel mese di giugno dell’anno 325 ebbe inizio il primo Concilio ecumenico, quello di Nicea, voluto dall’imperatore Costantino. Tra i tanti temi trattati, che cercheremo di affrontare brevemente, due in particolare sono passati alla storia: il Credo che, con varie modifiche, divenne la professione di fede ufficiale di tutta la cristianità, e la decisione di unificare la data della celebrazione della Pasqua. Questa celebrazione dei 1700 anni del Concilio di Nicea è diventata un’occasione per sviluppare nuovi filoni di studio.

Secondo la storiografia tradizionale, intorno all’anno 320 il presbitero Ario, in un incontro del clero alessandrino con il suo vescovo Alessandro, avrebbe negato la divinità del Figlio di Dio, sostenendo che egli era stato creato dal nulla prima dei tempi e dell’eternità, come la prima e la più eccelsa creatura di Dio; perciò era anche mutevole e avrebbe potuto peccare; tuttavia non era arrivato a questo, perché Dio gli aveva dato la grazia di non peccare, conoscendo in anticipo la sua fermezza e pietà[1]. Sembra che il contesto della disputa fosse costituito da un problema che esisteva da tempo nella Chiesa alessandrina, cioè il contrasto tra i filo-monarchiani, preoccupati a tal punto di non separare il Figlio dal Padre da non riuscire a esprimere la fede nella personalità propria del Figlio, cadendo in un monoteismo estremo, e certi teologi, fedeli alla tradizione di Origene, i quali sottolineavano la diversità tra le Persone divine, rischiando di cadere nel triteismo.

Si discusse su questo argomento, e il vescovo Alessandro chiese ad Ario di presentare la sua fede per iscritto. Ario redasse il proprio Credo in forma di lettera, che fece arrivare al vescovo[2]. Costui, con il sinodo dei vescovi egiziani, dopo il dovuto esame, scomunicò Ario e un gruppo di suoi sostenitori, tra cui due vescovi. Successivamente Alessandro informò i vescovi delle altre province di tale condanna[3], e Ario a sua volta scrisse ai suoi amici, tra cui Eusebio di Cesarea ed Eusebio di Nicomedia. La disputa, che all’inizio era di interesse locale, si diffuse poi in tutto il mondo, diventando così un problema globale. Per questo l’imperatore Costantino intervenne con una lettera indirizzata ad Alessandro e ad Ario[4], chiedendo che i due si riconciliassero tra loro. La lettera venne portata dal vescovo Ossio di Cordova, il quale, dal momento che i due non volevano far pace, tornò a Nicomedia, alla corte di Costantino. L’imperatore allora convocò il Concilio ecumenico per risolvere tale importante questione.

L’invito al Concilio e la pace religiosa


La disputa poteva veramente assumere questa forma, sebbene sembri eccessivo considerarla l’unica causa della convocazione del grande Concilio. L’imperatore poté scrivere la suddetta lettera solo dopo aver concluso la guerra con Licinio, suo ex-collega Augusto e cognato, lo stesso con il quale firmò il cosiddetto «Editto di Milano» nel 313, prima che le loro strade si separassero. Le divergenze tra loro riguardavano anche la religione, perché, mentre Costantino mirava alla pace religiosa nell’impero appoggiandosi alla Chiesa, Licinio invece perseguitava i cristiani. La vittoria di Costantino avvenne il 18 settembre 324, nella battaglia presso Crisopoli, in Bitinia, vicino a Calcedonia. Licinio fu sconfitto e poco dopo ucciso. Costantino si trasferì nel palazzo imperiale a Nicomedia, potendo godere della pace e del potere pieno di unico imperatore e festeggiare la vittoria. Egli era stato proclamato Augusto dall’esercito il 25 luglio 306. Così, nello stesso giorno del 325 cominciava l’anno giubilare, le vicennalia del suo dominio. In preparazione a questo evento, l’imperatore scrisse varie lettere sul ristabilimento della pace nella Chiesa, sulla fine delle persecuzioni e sui provvedimenti in favore dei beni ecclesiastici che erano stati sequestrati in passato. Ma non tutto era roseo, e nella Chiesa persistevano fenomeni che offuscavano l’atmosfera di pace. Scriveva Eusebio: «Ma proprio mentre [Costantino] si rallegrava di questi fatti, gli fu riferita la notizia che la Chiesa era lacerata da un turbamento non da poco, e quando il suo orecchio fu colpito dalla notizia, egli si mise a pensare a una cura contro questo male» (VC II, 61,2); «Alcuni nella stessa Alessandria disputavano come bambini a proposito degli argomenti più eccelsi, altri in tutto l’Egitto e l’alta Tebaide dissentivano su un’annosa questione che già da tempo si era presentata, e così le Chiese si trovavano ovunque divise» (VC II, 62).

Un’altra questione, che lo stesso Costantino segnala nella lettera ad Alessandro e ad Ario, riguarda il donatismo, lo scisma dei «puri», katharoi, i quali, dopo le persecuzioni dell’inizio del IV secolo, fondarono una Chiesa parallela a quella cattolica. L’imperatore scriveva così: «Infatti, quando si diffuse per tutta l’Africa un’inaccettabile follia a causa di quanti avevano osato, con leggerezza sconsiderata, scindere in sètte diverse i culti religiosi dei popoli, io, volendo arginare questa malattia, non riuscivo a trovare altro rimedio adatto alla circostanza se non, una volta distrutto il nemico comune dell’impero che aveva opposto ai vostri santi sinodi la sua empia dottrina, inviare alcuni di voi in soccorso per ristabilire la concordia tra le opposte fazioni» (VC II, 66).

Il donatismo esisteva già da tempo, e l’imperatore aveva convocato sinodi a Roma (313) e ad Arles (314) per cercare la riconciliazione, ma senza successo. Anche allora, cioè dopo la vittoria sul nemico, Costantino mandò i delegati per cercare una soluzione[5].

Per quanto riguarda la parte orientale dell’Impero, si manifestavano due problemi: il primo, considerato da Costantino poco serio – «da bambini», come egli scriveva –, era legato alle dispute inutili che si svolgevano ad Alessandria; il secondo, più serio, che interessava tutto l’Egitto e la Tebaide e che si protraeva già da anni, riguardava lo scisma meleziano. Il vescovo Melezio, in Egitto, all’inizio del IV secolo aveva fondato una Chiesa parallela a quella cattolica: una Chiesa di «puri», intransigente verso i «peccatori», specialmente verso coloro che durante le persecuzioni si erano mostrati deboli; una Chiesa simile a quella dei donatisti in Africa. Essa si era talmente diffusa durante il IV secolo da arrivare a costituire la metà delle Chiese egiziane[6]. Questo tema era così importante che il Concilio se ne dovette necessariamente occupare, dedicando a esso e agli altri «puri» (katharoi) il canone ottavo.

Agli occhi di Costantino, invece, la disputa alessandrina valeva al massimo un ammonimento, in quanto disturbo alla pace. Basta leggere alcune frasi della lettera, per rendersi conto di quanta poca importanza avesse per lui tale contesa: «Riflettiamo dunque su quanto è stato detto con maggior attenzione e con più acuta comprensione: se cioè sia opportuno che una contesa verbale banale e di poca importanza spinga i fratelli a opporsi ai fratelli e che a causa di un’empia discordia si divida la preziosa unità del sinodo, per colpa nostra, che litighiamo tra noi su questioni trascurabili e niente affatto necessarie. Un tale atteggiamento, oltretutto, risulta volgare e si addice a menti infantili piuttosto che essere adeguato all’intelligenza di sacerdoti e di uomini saggi» (VC II, 71,3). E ancora: «La causa che ha provocato tra voi questa disputa meschina, dal momento che non riguarda l’autorità della legge nel suo complesso, non susciti tra voi alcuna divisione o ribellione» (VC II, 71,5).

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

Costantino considerava la controversia così poco seria, perché probabilmente era stato informato su di essa da Eusebio di Nicomedia, il quale difendeva Ario, sostenendo che la sentenza di condanna inflittagli da Alessandro era troppo severa e che per una questione di così poca importanza Ario non avrebbe dovuto essere espulso dalla Chiesa. Costantino credette facilmente a questa relazione, perché ai suoi occhi l’unità della religione non doveva basarsi sull’unità del pensiero, ma su quella del culto e della prassi religiosa. Le dispute teologiche non avevano grande rilevanza per lui: per una questione di così poca importanza sarebbe dovuto bastare un ammonimento e un’esortazione alla concordia.

Poteva l’imperatore sospettare la disobbedienza da parte di sudditi dei quali si sentiva capo in quanto legittimo pontifex maximus, e quindi responsabile della pacifica coesistenza fra tutte le religioni dell’impero? Difficile crederlo. Ma anche se questo fosse stato vero, non avrebbe preoccupato troppo Costantino, visto lo scarso valore che la controversia aveva ai suoi occhi e la gravità degli scismi presenti in Africa e in Egitto, che egli considerava ben più seri. Ossio di Cordova, una volta conosciuta l’intransigenza di Alessandro, non avrebbe potuto informare la corte sull’accaduto, perché allora non c’era nessuna nave che potesse ricondurlo a Nicomedia, dal momento che durante la stagione invernale i porti restavano chiusi[7]. Atanasio, allora diacono ad Alessandria, scriverà più tardi che Ossio aveva partecipato a un sinodo ad Alessandria, svoltosi tra il 324 e il 325, dedicato allo scisma meleziano[8]. Per questo gli sarebbe rimasto tanto meno tempo per un suo trasferimento.

Poiché, come abbiamo detto, per Costantino l’idea della pace religiosa doveva fondarsi sull’unità di culto più che sull’uguaglianza delle credenze teologiche, possiamo affermare che il tema più importante per lui era la data della Pasqua, che fino a quel momento non era stata unificata nella Chiesa. Eusebio dedica l’intero capitolo quinto del libro III della Vita Constantini a questo problema. Costantino stesso, nella lettera destinata a tutti i vescovi dopo il Concilio[9], presenta la decisione sulla data della Pasqua come il frutto più importante del Concilio. Ricordiamo inoltre che l’imperatore già in precedenza aveva chiesto ai vescovi di Arles di fissare tale data[10], ma non aveva ottenuto in risposta altro che il desiderio di stabilirla.

Così, alla fine del 324, Costantino sperava di risolvere questi problemi tramite i delegati e le lettere. Si avvicinava però il giubileo, che doveva essere celebrato solennemente. A Roma, nel 315, si era solennizzata la ricorrenza dei decennali con la costruzione dell’Arco di Costantino. Il giubileo sarebbe stata una buona occasione per proclamare la vittoria di Costantino, la riconciliazione di tutti i dissidenti o scismatici e definire il calendario per i cristiani, come indicano alcune fonti.

La lettera di Costantino – conservata in siriaco – con l’invito al Concilio ha un paragrafo introduttivo in cui si legge che l’imperatore aveva invitato i vescovi per il 19 giugno, per celebrare il ventesimo anno del suo dominio (vicennalia)[11]. Eusebio lodò l’imperatore, che «fu il solo e l’unico imperatore di tutti i tempi che, intrecciata per Cristo una corona con i vincoli della pace, la offriva al suo Salvatore come un dono di ringraziamento davvero degno di Dio, realizzando nella nostra epoca un’immagine analoga a quella del consesso apostolico» (VC III, 7,2). Si può pensare, allora, che Costantino giudicasse opportuno invitare i vescovi e con loro dichiarare solennemente la pace universale dopo le sue vittorie, la riconciliazione di tutte le parti in contrasto, una sola fede e l’unica data della Pasqua per tutta la Chiesa. Questo sembra essere un motivo sufficiente per convocare tanti illustri ospiti, senza badare a spese. Infatti, per celebrare l’inizio del giubileo, fu imbandito, al termine del Concilio, un grande banchetto, al quale furono invitati tutti i partecipanti[12].

Ma se i lavori finirono il 25 luglio, con quale anticipo l’imperatore avrebbe dovuto invitare i vescovi al Concilio? Secondo lo storico Socrate[13], il Concilio sarebbe cominciato il 20 maggio; invece, la lettera di Costantino sopra menzionata parla del 19 giugno[14]. La prima data sembra da escludere, perché sarebbe soltanto un mese dopo la Pasqua (18 aprile), e quindi, per l’arrivo di tutti gli invitati, il tempo sarebbe stato troppo breve. Se l’invito fosse stato fatto nella primavera, il loro arrivo sarebbe avvenuto troppo tardi. Quindi, la lettera di invito sarà stata scritta, probabilmente, nello stesso periodo in cui l’imperatore inviava la sua lettera ad Alessandria, ossia a ottobre-novembre del 324. Così, quando, un secolo più tardi, Teodosio II inviterà al Concilio di Efeso per il 7 giugno 431, manderà le lettere il 19 novembre 430, e il vescovo di Cartagine scriverà di averla ricevuta soltanto nei giorni di Pasqua, e che quindi per lui non c’era più tempo per scegliere i delegati da mandare[15]. D’altra parte, i vescovi di Antiochia non riuscirono ad arrivare in tempo, e non vi riuscirono neppure i legati del vescovo di Roma. Ciò sembra dimostrare che Costantino non poteva aspettare l’esito della missione di Ossio, ma che aveva dovuto agire molto prima.

L’apertura del Concilio


Per avere un’idea dell’importanza dell’assemblea conciliare, leggiamo ciò che scrive Eusebio: «Vi si riunì insieme il fiore dei ministri di Dio di tutte le Chiese che si trovavano nell’Europa intera, in Libia e in Asia. Un unico luogo di preghiera, come ampliatosi per opera divina, accoglieva al suo interno e in una medesima sede i Siri e i Cilici, i Fenici, gli Arabi e i Palestinesi e, oltre a costoro, anche gli Egiziani e i Tebani, i Libici e quanti si erano messi in viaggio dalla Mesopotamia. Partecipava al sinodo un vescovo persiano, né mancava all’appello quello della Scizia; anche il Ponto e la Galazia, la Cappadocia e l’Asia, la Frigia e la Panfilia inviarono i loro uomini più illustri. Si presentarono anche i Traci e i Macedoni, i Greci e gli Epiroti, e tra questi pure coloro che abitavano più lontano» (VC III, 7,1).

Con tanta varietà geografica, culturale e di tradizioni, ci si può giustamente domandare in che modo e in che misura l’imperatore sia riuscito a realizzare il suo scopo. Sullo svolgimento dei lavori purtroppo abbiamo una documentazione molto scarsa e parziale. Sappiamo che, all’apertura del sinodo, uno dei vescovi salutò ufficialmente l’imperatore. Secondo Sozomeno, questo vescovo sarebbe stato Eusebio di Cesarea[16]; secondo Teodoreto di Ciro, invece, Eustazio di Antiochia[17], ma la questione rimane incerta.

Dopo le parole del vescovo, l’imperatore espresse la sua gratitudine a Dio ed esortò i vescovi a sospendere tutte le controversie[18]. Costantino chiamava i vescovi «sacerdoti di Cristo» e parlava in latino, che veniva tradotto simultaneamente in greco, perché quelli che comprendevano il latino erano in netta minoranza. Questo fatto sembra strano, perché, come afferma Eusebio, durante le discussioni «Costantino si esprimeva in greco, perché non ignorava affatto questa lingua» (VC III, 13,2). Si potrebbe ipotizzare che il suo discorso fosse da comprendere come un intervento ufficiale, in qualità di pontifex maximus, rivolto al collegio sacerdotale. Ogni culto aveva il proprio collegio sacerdotale, ma il cristianesimo ufficialmente non lo aveva ancora, così come non aveva ancora un calendario liturgico stabilito. Il pontifex maximus avrebbe parlato nella lingua ufficiale, istituendo i vescovi come «collegio sacerdotale» del cristianesimo, con l’intenzione di proclamare il calendario e la formula di fede. In precedenza, i vescovi e i presbiteri raramente venivano designati come sacerdoti. Questo avveniva quando un omileta interpretava i testi anticotestamentari sul sacerdozio e cercava di attualizzarli, come per esempio faceva Origene quando spiegava il libro del Levitico[19]. Il cristianesimo era stato già riconosciuto ufficialmente come religio licita nel 313; adesso i vescovi venivano equiparati ai collegi sacerdotali delle religioni, quindi potevano aspettarsi di ricevere gli stessi privilegi.

La formulazione del «Credo» e la decisione sulla data della Pasqua


Sembra che Costantino avesse previsto che i vescovi volessero trattare varie questioni importanti per loro, e forse per questo li aveva invitati con un mese di anticipo rispetto all’inizio del giubileo. In effetti fu così, ma risulta che essi hanno esagerato nel proporre le questioni: le petizioni, infatti, furono così numerose che alla fine l’imperatore ordinò di raccoglierle e di bruciarle tutte[20]. Eusebio di Cesarea si dimostra più contenuto e, anche se ricorda il gran numero di petizioni e le contese avvenute tra i vescovi, sottolinea la calma e l’attenzione prestata da Costantino a tutti[21]. Poi passa a parlare dell’accordo raggiunto circa il Credo e il calendario. Ci informa anche delle (almeno) due fazioni o schieramenti che si stabilirono tra i vescovi[22].

La scarsità delle fonti potrebbe indurci in errore circa l’andamento del Concilio. Abbiamo già accennato alla lettera di Costantino inviata a tutti i vescovi e distribuita ai partecipanti alla fine dell’assemblea, dalla quale risulta che si era certamente discusso sull’unità della fede, ma che il tema principale era la data della Pasqua. A questo tema, infatti, l’imperatore dedicò gran parte del suo scritto. Conserviamo anche la lettera che Eusebio di Cesarea inviò alla sua Chiesa dopo il Concilio, per giustificare il suo operato all’interno dell’assemblea, cioè il suo consenso al nuovo Credo lì elaborato[23]. Egli scrive solo di questo argomento, per cui potremmo pensare che il tema principale del Concilio fosse la composizione del Credo, mentre l’imperatore nella sua lettera sembra liquidare questo tema con poche frasi: «Ogni aspetto del culto è stato sottoposto a un’indagine adeguata, finché non è stata portata alla luce la conclusione gradita al Dio che tutto presiede, nella direzione di un accordo unitario, a tal punto che non è rimasto più alcun margine per le divergenze di opinione e le dispute sulla fede» (VC III, 17,2).

Secondo la lettera di Eusebio, fu lui a presentare la bozza del Credo, che fu accettata dall’imperatore, ma criticata dagli altri. Si giunse a una formula concordata con le precisazioni fornite dallo stesso Costantino, il quale avrebbe suggerito il termine homoousios, «consostanziale», attribuito al Figlio nei riguardi del Padre. Può essere stato così, perché l’imperatore non era a conoscenza del passato «eretico» di tale termine, che non era stato ancora usato da nessuno dei Padri da noi conosciuti. Infatti, ci vollero vari anni perché, grazie alle spiegazioni date negli anni 350-380 soprattutto da Atanasio, Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa, il termine potesse essere accolto. Forse l’imperatore fu così conciso perché era convinto che, con la sua lettera, tutti i vescovi avrebbero portato a casa anche il testo del Credo e i canoni, che dovevano bastare per chiarire la questione. Sulla data della Pasqua, invece, li avrebbe voluti informare personalmente, perché per lui essa era molto più importante.

Sembra che il Credo universale servisse più all’imperatore che ai vescovi. In quel tempo, in ogni Chiesa veniva proclamato un proprio Credo trinitario, usato nel catecumenato e nell’amministrazione del battesimo, e nessun vescovo sentiva il bisogno di uniformarlo. La data della Pasqua interessava le Chiese, ma, dopo le discussioni del II secolo, e dopo tanti sinodi in cui era stato trattato l’argomento[24], sembrava che tutti si fossero adeguati alla situazione, accettando la soluzione data da Ireneo, che cioè la tradizione degli apostoli permetteva di servirsi ugualmente del calendario giudaico come degli altri calendari. Questo problema riguardava piuttosto l’imperatore, il quale, in quanto pontifex maximus, si sentiva obbligato a unificare il calendario e la formula di fede.

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

Non sappiamo nulla sulle discussioni in proposito. Solo Costantino ci informa, nella lettera postsinodale, che «quando fu affrontata la questione inerente alla data della santissima Pasqua, con decisione unanime, sembrò opportuno che tutti in ogni luogo la celebrassero nello stesso giorno» (VC II, 18,1), perché non c’era più nessuna consuetudine in comune con i giudei e perché era più ragionevole e conveniente seguire «la regola che è rispettata con unica e concorde disposizione d’animo» (VC II, 19,1) nella maggior parte delle Chiese.

I canoni conciliari


Il Concilio formulò 20 canoni di indubbia genuinità, nessuno dei quali menziona né la Pasqua né il Credo [25]. Senza dubbio essi rispecchiano l’andamento del dibattito, perché i canoni non venivano formulati mai senza qualche discussione previa. Essi possono indicarci il contesto ecclesiale, cioè i problemi che la Chiesa viveva e che l’imperatore voleva risolvere, meglio che le lettere monotematiche. Abbiamo già notato come tante proposte o richieste presentate dai vescovi fossero state accantonate e persino bruciate. Possiamo quindi supporre che quelle rimaste fossero le più importanti per vaste aree della Chiesa, e come tali considerate dall’imperatore.

Daremo ora un breve sguardo ai canoni approvati. Nei primi si stabilisce che quelli che si evirano non devono essere ammessi tra il clero (canone 1); lo stesso vale per i neofiti (canone 2), e si proibisce ai chierici di «avere con sé una donna, a meno che non si tratti della propria madre, di una sorella, di una zia, o di una persona che sia al di sopra di ogni sospetto» (canone 3). Dato che qui si tratta di tutti i membri del clero, anche di quello inferiore, che poteva sposarsi – cioè, ostiari, lettori e accoliti –, sembra che abitare con la moglie non fosse vietato. I cristiani potevano essere ordinati diaconi e presbiteri anche da sposati, ma non potevano risposarsi. Vari decenni più tardi il sinodo di Cartagine del 390 stabilirà, nel canone 2, l’obbligo di continenza per loro.

Il canone 4 parla della consacrazione del vescovo da parte di almeno tre vescovi della provincia. Non sappiamo come la Chiesa si fosse organizzata in precedenza su questo punto: probabilmente si procedeva all’elezione, e il neoeletto assumeva i doveri in forza di tale elezione ecclesiale, anche senza l’imposizione delle mani da parte di altri vescovi.

Nel canone 5 si parla degli scomunicati e si vieta di riconciliarli al di fuori della Chiesa che li ha condannati. Dobbiamo notare che questo canone in seguito verrà ripreso più volte[26]. Ciò sta a significare che le situazioni nelle quali gli scomunicati, sentendosi forse ingiustamente perseguitati, cercavano la riconciliazione fuori della propria Chiesa, si verificavano spesso. Per evitare ingiustizie, il canone raccomanda che i sinodi provinciali si svolgano due volte l’anno, per discutere insieme i problemi. Potrebbe darsi che l’occasione immediata della formulazione di questo canone sia stato il caso di Ario. Di fatto, non si parla di lui in nessun documento coevo; anche Atanasio di Alessandria, nel De decretis Nicaenae synodi, si limita a presentare l’interpretazione antiariana del Credo, senza menzionare Ario. Potrebbe darsi che qualcuno – per esempio, Eusebio di Nicomedia, o qualcun altro a nome suo – abbia chiesto all’assemblea la riconciliazione con Ario. Il canone lo proibisce, e lo stesso Costantino dopo il Concilio chiese ad Alessandro – e più tardi ad Atanasio – di riconciliare Ario, perché egli era l’unico in grado di farlo, in quanto vescovo di Alessandria[27]. Non si parla neppure della condanna di Ario a Nicea, perché sarebbe stato controproducente scomunicare uno che era stato già di fatto scomunicato.

Il canone 6 stabilisce la precedenza delle sedi vescovili: la prima rimane quella romana, seguita dall’alessandrina e dall’antiochena. Questo canone si rivelerà una pietra d’inciampo per la Chiesa costantinopolitana, che, nei decenni seguenti, vorrà assumere il primo posto in Oriente, con grande irritazione delle altre due sedi orientali sopra citate. Si riconosce anche il posto privilegiato di Gerusalemme (canone 7), ma senza attribuirle la giurisdizione metropolitana.

Il canone 8 tocca un tema scottante per la Chiesa, cioè la riconciliazione dei càtari, divisi in vari raggruppamenti. Non c’è nessun argomento convincente per limitarla ai soli novaziani, come è stato ripetuto per secoli[28]. I chierici càtari – siano essi novaziani, donatisti, montanisti, meleziani o altri ancora – possono rimanere nel clero, perché le loro ordinazioni sono valide, ma devono impegnarsi per iscritto a osservare la prassi della Chiesa rispetto ai peccatori pentiti, siano essi i lapsi delle persecuzioni, o i digamoi, sposati due volte: dopo la debita penitenza, essi hanno diritto alla comunione della Chiesa, e chi glielo nega, viene scomunicato dalla Chiesa. Non viene precisato se si tratta di vedovi/e risposati/e o di divorziati/e, ma, poiché la legge statale permetteva i divorzi, anch’essi dovevano essere presi in considerazione nella prassi penitenziale[29].

Il canone 9 tratta il tema dei chierici promossi troppo presto al sacerdozio. Il canone 10 si riferisce a chi è stato ordinato nonostante abbia rinnegato la fede e abbia mantenuto nascosto questo fatto. Il canone 11 parla dei fedeli che hanno rinnegato la fede e sono finiti tra i laici, e delle penitenze da imporre ad essi. Si può notare come dopo la persecuzione avvenuta ai tempi di Licinio fossero rimaste nel corpo della Chiesa varie ferite: bisognava ristabilire una serie di regole perché esse potessero cicatrizzarsi.

Anche il canone 12 si riferisce a quel periodo, e parla di «chi ha rinunciato al mondo e poi vi è ritornato». Coloro che all’inizio si erano mostrati coraggiosi e avevano abbandonato il servizio militare (durante il quale era richiesta la partecipazione ai sacrifici agli dèi), ma successivamente, per fare carriera, erano tornati indietro e avevano cercato di essere reintegrati nel servizio lasciato, dovevano fare penitenza; il canone raccomanda di trattarli con discernimento, ma seriamente.

Il canone 13 si riferisce a «quelli che in punto di morte chiedono la comunione». Anche in questo caso, si tratta della penitenza dei lapsi dai tempi di Licinio. Ricordiamo che Cipriano non permetteva di privare della comunione colui al quale era stata data una volta, durante la malattia[30]. Ora, invece, per lo stesso caso, si prescrive che il penitente guarito debba continuare la penitenza, sebbene mitigata: «Se poi egli non muore dopo essere stato perdonato e ammesso alla comunione, sia accolto tra coloro che partecipano alla sola preghiera (fino a che non sia trascorso il tempo stabilito da questo grande concilio ecumenico)».

Ciò starebbe forse a significare che si erano verificati abusi, più frequenti che non 70 anni prima in Africa? Potrebbe darsi, ma in questo caso dovremmo supporre che anche il grado della trasgressione fosse maggiore, che la Chiesa unificata da Costantino dopo gli anni delle guerre civili presentasse un profilo morale assai basso e che il numero dei lapsi fosse perfino maggiore di quello del 250. Anche il canone 14 tocca questo tema, concentrandosi sui catecumeni che avevano rinnegato la fede.

I quattro canoni successivi trattano del clero. I canoni 15 e 16 parlano di coloro che, abbandonata la propria Chiesa per la quale erano stati ordinati, si trasferiscono di propria iniziativa da una città all’altra. Il fatto che questo tema ritorni in tanti sinodi ci fa capire che si tratta di un problema ricorrente. Infatti, se lo stesso Eusebio di Nicomedia, vescovo della capitale, sede dell’imperatore, si comportava così e, dopo essere stato ordinato a Beritto (Beirut), si era trasferito a Nicomedia, e qualche anno dopo a Costantinopoli[31], cosa si poteva pretendere dal clero inferiore? Possiamo pensare che per l’imperatore – il quale evidentemente approvava i trasferimenti di Eusebio, e anche di altri – questa fosse una questione di poca importanza. Ai suoi occhi, il trasferimento di un funzionario da una sede all’altra, poteva essere segno di prestigio e di promozione, se la nuova sede era più grande e più ricca della precedente. Diveniva, invece, segno di decadenza e punizione in caso contrario. Forse proprio la mancanza del sostegno imperiale aveva provocato l’insuccesso di questo canone e la necessità che dovesse essere ripreso più volte[32].

Il canone 17 minaccia la riduzione allo stato laicale di chierici usurai.

Il canone 18 ricorda che i diaconi devono essere subordinati ai presbiteri anche nel ricevere la Comunione: i diaconi la possono ricevere dai sacerdoti, ma non darla ad essi, perché non hanno il potere di consacrare. Oggi questa prescrizione potrebbe sembrare banale, ma rispecchia la disciplina di allora, dal momento che il ruolo dei diaconi era diverso nelle varie Chiese. A Roma essi erano soltanto sette e avevano posti di comando presso il vescovo. In Oriente, come testimoniano le Costituzioni apostoliche, erano considerati al secondo posto dopo il vescovo, e stavano accanto a lui come Cristo sta presso il Padre, mentre i presbiteri erano considerati i successori degli apostoli. Di conseguenza, i diaconi potevano, in certi casi e in certi luoghi, sentirsi più importanti dei sacerdoti.

Il canone 19 stabilisce come ricevere nella Chiesa gli eretici seguaci di Paolo di Samosata. Nel canone 8 si prescriveva che i chierici scismatici potevano essere accettati con la sola benedizione; qui invece si prescrive di battezzarli e, se un chierico è ritenuto degno del suo posto, occorre ordinarlo di nuovo. In questo contesto, troviamo l’unica menzione delle diaconesse: esse rimangano tra i laici, perché non hanno avuto l’imposizione delle mani.

La differenza nel trattamento degli scismatici è importante e merita di essere menzionata; il trascurarla, infatti, provocò, dopo il Concilio, molti problemi nella Chiesa. Atanasio, divenuto vescovo di Alessandria nel 328, cominciò a trattare gli scismatici meleziani come se fossero eretici e non riconosceva la validità della loro ordinazione, pretendendo che dovessero ricevere l’ordinazione da lui. Ciò suscitò lo sdegno di Costantino, che lo condannò all’esilio.

Alla chiusura del Concilio, forse nessuno di coloro che avevano partecipato poteva immaginare quale significato esso avrebbe avuto in futuro. Nei 20 anni seguenti, quasi non se ne parlò, ma quando le discussioni tra varie fazioni teologiche continuarono a crescere, pian piano il Credo niceno andò acquistando sempre più sostenitori e la «consostanzialità» del Padre e del Figlio, proclamata dal Concilio, si rivelò la formula più adeguata per esprimere la fede della Chiesa. Con le precisazioni fornite dai Padri cappadoci e con l’appoggio degli imperatori, la professione di fede di Nicea divenne comprensibile ai più, e infine divenne canone dell’ortodossia. Per quanto riguarda la celebrazione comune della Pasqua da parte di tutti i cristiani, essa rimane ancora auspicabile, e possiamo sperare che le celebrazioni dell’anniversario del Concilio nel 2025 aiutino a superare tutti gli ostacoli.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] Cfr Ario, Thalia, in Atanasio di Alessandria, s., Apologia contra Arianos, I, 6; Epistula encyclica ad episcopos Aegypti et Libyae, II, 12.

[2] Lettera citata da Atanasio di Alessandria, s., De Synodis,16; Epifanio di Salamina, Panarion, 69, 7.

[3] Alessandro di Alessandria, s., Lettera a tutti i vescovi; Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 6.

[4] Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, II, 64-72; nel testo, questa opera verrà citata con la sigla VC. Cfr H. G. Opitz, Athanasius Werke, III, 1, Berlin – Leipzig, Walter de Gruyter and Co, 1934, 32 ss.; H. Pietras, Concilio di Nicea (325) nel suo contesto, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2021, 85-110.

[5] Cfr S. G. Hall, «Some Constantinian Documents in the Vita Constantini», in S. N. C. Lieu – D. Montserrat (edd.), Constantine. History, Historiography and Legend, London – New York, Routledge, 1998, 86-103.

[6] Cfr A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au IVe siècle (328-373), Roma, École française de Rome, 1996, 303-312.

[7] Cfr Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, La navigazione mediterranea nell’Alto Medioevo, Spoleto, Fondazione Cisam, 1978; R. Chevallier, Voyages et déplacements dans l’Empire romain, Paris, Armand Colin, 1988.

[8] Atanasio di Alessandria, s., Apologia contra arianos, 76; H. Pietras, Concilio di Nicea…, cit., 58 s.

[9] Costantino, Lettera a tutte le Chiese, in VC III, 17-20.

[10] Il sinodo di Arles si tenne nel 314. Cfr A. Di Berardino (ed.), I canoni dei concili della Chiesa antica, Roma, Institutum Patristicum Augustinianum, 2010, 38; Id., «L’imperatore Costantino e la celebrazione della Pasqua», in G. Bonamente – F. Fusco, Costantino il Grande dall’Antichità all’Umanesimo, t. I, Macerata, Università degli Studi di Macerata, 1992, 363-384.

[11] Cfr F. Nau, «Littérature canonique syriaque inédite», in Revue de l’Orient chrétien 4 (1909) 5 s.

[12] Cfr VC III, 15-16.

[13] Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 13,13. Lo seguono M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma, Istituto Patristico Augustinianum, 1975, 38; G. Alberigo (ed.), Storia dei concili ecumenici, Brescia, Queriniana, 1990, 26.

[14] Cfr F. Nau, «Littérature canonique syriaque inédite», cit., 6. Si dicono d’accordo con lui N. P. Tanner, Decrees of the Ecumenical Councils, vol. I, London – Washington, Sheed & Ward – Georgetown University Press, 1990 e i commentatori di Socrate in Sources Chrétiennes, n. 477.

[15] Cfr G. Caprèolo, «Epistula“ad concilium Ephesinum”», in Acta Conciliorum Oecumenicorum I-II, 64 s; Patrologia Latina Supplementum,3, 259 s.

[16] Cfr Sozomeno, Historia Ecclesiastica, I, 19, 2.

[17] Sulle discussioni intorno all’oratore che avrebbe avuto questo onore, cfr la nota 2 in Teodoreto di Ciro, Histoire Ecclésiastique, Paris, Cerf, 204 s.

[18] Per l’intervento di Costantino, cfr VC III, 12. Per il seguito, cfr H. Pietras, Concilio di Nicea…, cit., 133 s.

[19] Cfr H. Pietras, «Od prezbiteratu do kapłaństwa: ewolucja pojęć i urzędu», in Studia Bobolanum 3 (2002) 5-17.

[20] Cfr Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 8, 19; Rufino di Aquileia, Historia Ecclesiastica, X, 2. La scena è illustrata da un affresco nel battistero lateranense.

[21] Cfr VC III, 13.

[22] Cfr VC III, 13, 1.

[23] Cfr Eusebio di Cesarea, Lettera alla Chiesa di Cesarea, in Atanasio di Alessandria, Il credo di Nicea, appendice; Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 8.

[24] Per esempio, Roma (154 e 193), Mesopotamia (196), Osroene (196), Pont (197), Lyon (197), Cesarea di Palestina (198).

[25] Su di essi, cfr H. Pietras, Concilio di Nicea…, cit., cap. 5.

[26] Cfr, per esempio, Antiochia (341), c. 6; Serdica (343), c. 53; Carthago (390), c. 7 ecc.

[27] Atanasio di Alessandria, s., Apologia contra Arianos, 59. Cfr H. Pietras, «Fonti sulla condanna di Ario a Nicea nel 325», in Gregorianum 104/3, 2023, 491-493.

[28] Per l’esame della questione, cfr H. Pietras, «Fonti sulla condanna di Ario a Nicea nel 325», cit., 493-496; Id., Concilio di Nicea…, cit., 144-149.

[29] Cfr G. Cereti, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Roma, Aracne, 2013.

[30] Cfr Cipriano di Cartagine, s., Epistula, 64, 1.

[31] Cfr Socrate, Historia Ecclesiastica, II, 7.

[32] Tra i Concili e i Sinodi più importanti che ne hanno trattato, ricordiamo: Ancyra (314), c. 18; Arles (314) I, 2; II, cc. 2; 21; 27; Antiochia (341), cc. 3; 16; 21; Cartagine (ca. 348), cc. 5; 7; Roma (376-377), 9 (Tomus Damasi); Calcedonia (451), cc. 5; 10; 20; Quinisexta (692), cc. 17-18; Nicea (787), cc. 10; 15.

The post I 1700 anni del concilio di Nicea: contesto storico, convocazione e principali decisioni first appeared on La Civiltà Cattolica.


Il ricordo di un testimone della fede: Mons. Eduard Profittlich S.I.


Eduard Profittlich S.I.
La prossima beatificazione del vescovo gesuita Eduard Profittlich è un evento di straordinaria importanza per la Chiesa estone. La sua beatificazione non solo commemora la sua persona, ma anche la storia della persecuzione e dell’oppressione della Chiesa durante il dominio comunista nel Paese.

Dopo il suo arresto, avvenuto il 27 giugno 1941, per mezzo secolo non se ne seppe più nulla. Nonostante i comunisti avessero «messo a tacere» la sua morte, il suo ricordo è sempre rimasto vivo tra i fedeli in Estonia, oltre che nella sua famiglia e nella sua parrocchia natale di Santo Stefano, a Leimersdorf.

Tutti gli sforzi della Chiesa per scoprire qualcosa sulle sue sorti dopo l’arresto sono stati vani. Il 24 febbraio 1942 l’ex ministro degli Esteri dell’Estonia comunicò alla Segreteria di Stato che il nome di Profittlich era tra quelli riportati in una lista di 57.000 persone deportate, ma non fu in grado di fornire ulteriori informazioni a riguardo. Una prima notizia ambigua sulla morte di Profittlich giunse alla Segreteria di Stato tramite una lettera del Segretario generale della Croce Rossa estone, datata 12 agosto 1948, nella quale però non si indicava una data di morte, ma c’era solo la comunicazione che era «morto in esilio». Nel 1957 ci fu un ulteriore tentativo, da parte del parente Alois Profittlich, di ottenere informazioni dalla Croce Rossa sulla sorte del vescovo, ma anche in questo caso non si ebbero notizie[1]. Solo nel 1990, dopo il crollo dell’impero sovietico, i governanti russi concessero l’accesso ai documenti riguardanti la sua deportazione.

Ma come sono andate concretamente le cose? In occasione dei 100 anni dalla sua nascita, il 30 marzo 1990 il parroco di Leimersdorf si rivolse alla Santa Sede chiedendo se, alla luce dei cambiamenti intervenuti nei rapporti con la Russia, non fosse possibile scoprire la data della sua morte[2]. Questa richiesta fu inoltrata il 14 maggio 1990 dalla parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Tallinn al Consiglio per gli affari religiosi dell’Unione Sovietica, il quale, otto giorni dopo, rispose che i documenti personali riguardanti Profittlich erano stati consegnati alla Corte suprema della Repubblica sovietica estone il 19 febbraio 1990: la Corte lo aveva completamente riabilitato, cosa che fu poi comunicata alla parrocchia dei Santi Pietro e Paolo il 12 giugno 1990[3].

Questa comunicazione scritta rese noto per la prima volta anche il giorno della sua morte, avvenuta il 22 febbraio 1942 nel carcere di Kirov, preceduta dalla condanna a morte per fucilazione emessa il 16 gennaio. Grazie alle copie consegnate alla Chiesa cattolica estone, relative al periodo che va dalla sua cattura alla sua morte, il martirio subìto dal vescovo Profittlich ha potuto essere finalmente chiarito e reso pubblico, tanto che la sua morte è stata immediatamente riconosciuta dai fedeli come quella di un martire.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

La vita


Eduard Profittlich nacque l’11 settembre 1890 a Birresdorf, vicino Ahrweiler, che dal 1974 fa parte del comune di Grafschaft, nel Land tedesco della Renania-Palatinato. Era l’ottavo dei 10 figli dei coniugi Profittlich Markus e Dorothea, nata Seiwert. Fu battezzato il giorno stesso della sua nascita nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano a Leimersdorf, dove ricevette anche la Prima Comunione nel 1903 e il sacramento della Cresima l’anno successivo. Dopo aver terminato la scuola elementare a Leimersdorf, frequentò la scuola secondaria di primo grado ad Ahrweiler dal 1905 al 1909 e successivamente il liceo a Linz am Rhein, dove si diplomò nel 1912[4].

Eduard voleva entrare subito nella Compagnia di Gesù, ma, poiché i genitori non erano d’accordo, trascorse inizialmente due semestri nel seminario di Treviri. Probabilmente influenzato dal fratello maggiore Peter, gesuita (1878-1915), un anno dopo decise di entrare in Compagnia, e così l’11 aprile 1913 iniziò il noviziato a ’s-Heerenberg, nei Paesi Bassi. Gli studi di filosofia presso lo studentato Vaan de Genl Valkenburg furono interrotti nel 1916-1917, per prestare servizio sanitario nell’ospedale da campo tedesco di Verviers (Belgio). Dopo la fine della guerra, Eduard poté riprendere gli studi a Valkenburg, dove il 26 marzo 1922 ricevette l’ordinazione diaconale e il 27 agosto quella sacerdotale.

Avendo espresso il desiderio di andare in missione in Russia, p. Profittlich fu mandato a Cracovia per continuare i suoi studi di teologia per due anni. Dopo il Terz’anno[5], che fece nel 1924-1925 a Dziedzice, in Polonia, lavorò per tre anni (dal 1928 al 1930) come missionario popolare a Opole, e fu parroco della parrocchia polacca di Sant’Angar ad Amburgo, dove il 2 febbraio 1930 emise la professione solenne.

Il 10 dicembre 1930 p. Profittlich partì per la «Missione dell’Est» in Estonia e divenne parroco della chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Tallinn. Sei mesi dopo, l’11 maggio 1931, papa Pio XI lo nominò Amministratore apostolico dell’Estonia[6]. P. Profittlich imparò la lingua estone e contribuì a far conoscere la Chiesa cattolica alla popolazione estone. Per migliorare l’assistenza spirituale dei fedeli di diverse nazionalità e lingue sparsi in tutto il Paese, fondò nuove parrocchie e nel 1933 iniziò a pubblicare il settimanale Kiriku Elu («Vita della Chiesa»), invitando anche alcuni sacerdoti e suore provenienti dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia a recarsi in Estonia per fornire il loro aiuto. Aveva a cuore soprattutto l’educazione religiosa dei giovani, e riuscì a far introdurre l’insegnamento della religione nelle scuole, anche in diverse lingue.

Poiché si identificava completamente con la sua missione pastorale e si sentiva profondamente legato alla popolazione locale, chiese la cittadinanza estone, che gli fu concessa il 10 aprile 1935. Il 27 novembre 1936 fu nominato arcivescovo titolare di Adrianopoli, e il 27 dicembre fu consacrato vescovo nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Tallinn, diventando così il primo vescovo cattolico attivo in Estonia dal XVII secolo.

Con il patto Molotov-Ribbentrop, nell’agosto del 1939, Hitler e Stalin non solo conclusero un accordo di non aggressione, ma si spartirono anche i Paesi e concordarono il trasferimento delle minoranze tedesche, ucraine e bielorusse nella loro sfera di influenza. Non fu solo l’invasione dell’Estonia da parte dell’esercito sovietico, iniziata il 17 giugno 1940, a seguire la logica di questo accordo, ma lo stesso accadde per la successiva richiesta a tutti i tedeschi di lasciare il Paese. Tale disposizione provocò un conflitto interiore nel vescovo Profittlich, come dimostrano le sue lettere alla Segreteria di Stato della Santa Sede dell’ottobre 1940[7]. La questione era se doveva tornare in Germania, come gli era stato ordinato, o rinunciare alla cittadinanza tedesca e accettare quella sovietica per poter rimanere in Estonia con la sua comunità.

«Restare qui è la volontà di Dio»


Come si risolse tale questione per il vescovo Profittlich dopo la presa del potere sovietico in Estonia, e che cosa fu per lui determinante, lo possiamo comprendere dalla lettera che egli scrisse ai suoi fratelli l’8 febbraio 1941. Egli ne spiega innanzitutto il motivo: «Vorrei scrivere a tutti, ancora una volta, ciò che ora riempie il mio cuore. Sarà una lettera d’addio, una lettera d’addio forse solo per mesi, o forse per anni, o forse per sempre»[8]. Poi parla della sua decisione: «Avrete sicuramente sentito e letto sui giornali che è in corso un nuovo trasferimento di tedeschi dagli Stati baltici di Lituania, Lettonia ed Estonia; è iniziato da poco e dovrebbe concludersi presto. Mi è stato vivamente consigliato di trasferirmi, in quanto tedesco, e non nego che diversi motivi mi abbiano spinto a pensare a questa soluzione, ma non posso raccontarveli qui nei dettagli. In ogni caso, tali motivi erano così forti che ho preso seriamente in considerazione l’idea del trasferimento e stavo già per contattare la Commissione. Ma poi diverse circostanze della mia vita si sono collegate in modo così strano che ho capito che era la volontà di Dio che rimanessi qui. Il fattore decisivo è stato poi un telegramma che ho ricevuto da Roma, dal quale ho capito che questa decisione corrispondeva anche al desiderio del Santo Padre»[9].

Poi il vescovo parla delle conseguenze della sua decisione. La prima è la fine della corrispondenza epistolare, perché, dopo la partenza della delegazione tedesca, una corrispondenza con la Germania lo avrebbe reso in qualche modo sospetto, e quindi sarebbe stato considerato e trattato dai bolscevichi come una spia tedesca. «Per questo – egli scrive – la lettera di oggi sarà la mia ultima. Non potrò più scrivervi finché le circostanze qui non saranno cambiate. E vi chiederei di fare anche voi lo stesso, per il momento». L’importanza di questa richiesta viene poi sottolineata da questa nota a margine, aggiunta alla seconda pagina: «Vi prego di non far arrivare questa lettera nelle mani di altri e, soprattutto, nulla di tutto questo deve finire sui giornali. I bolscevichi potrebbero considerare i dettagli della lettera come un tradimento, e questo potrebbe danneggiare non solo me, ma anche la Chiesa qui».

Questa scelta non solo lo portò a rinunciare alla protezione di cui godeva in quanto cittadino tedesco, ma lo fece anche diventare un cittadino sovietico a tutti gli effetti, sottomettendosi completamente al potere dello Stato sovietico. Il vescovo scriveva: «Conoscendo la posizione fondamentalmente ostile dello Stato sovietico nei confronti della religione, e in particolare la sua visione negativa della Chiesa cattolica, comprenderete come questa decisione possa avere conseguenze di vasta portata». Conseguenze che vengono descritte con alcuni esempi[10]: la nazionalizzazione di quasi tutti gli edifici ecclesiastici, ma anche di alcune chiese e cappelle; il timore che in futuro si sarebbero dovuti pagare affitti ingiustamente alti per l’uso delle chiese, come già avveniva per gli appartamenti dei sacerdoti («Per il clero verrà fissato un canone di affitto più alto»).

Tuttavia, poiché la gente stava facendo molti sacrifici, Profittlich non era ancora preoccupato del fatto che potessero mancare ad essa i beni di prima necessità. «L’unico pericolo che potrebbe minacciarmi è che si inizino a mandare via o arrestare i sacerdoti. […] È improbabile che ci sia un pericolo diretto per la vita, a meno che non si manifesti una malattia dovuta a uno sforzo maggiore, perché, come sapete, la mia salute non è proprio delle migliori e il mio corpo non è più così forte». Questo ci fa capire che in quel momento egli prevedeva che la sua vita sarebbe stata direttamente in pericolo solo in caso di guerra.

Dopo aver descritto la sua situazione fisica, come si sentiva interiormente e le conseguenze della sua decisione, Profittlich continua esprimendo la sua profonda gioia e gratitudine a Dio, che lo ha reso capace di prendere questa decisione: la decisione di intraprendere un cammino di martirio. Egli afferma: «Nonostante il futuro non sarà dei più rosei, umanamente parlando, ho comunque deciso di rimanere qui. È giusto che il pastore rimanga con la sua comunità, per condividere sia le gioie sia i dolori. Devo dire che la decisione mi è costata alcune settimane di riflessione, ma non l’ho presa in preda alla paura e all’ansia; anzi, mi sentivo pervaso dalla gioia. E quando finalmente mi è apparso chiaro che sarei rimasto, la mia felicità è stata così grande che ho recitato un Te Deum di gioia e di ringraziamento. In generale, ho sentito così forte l’azione della grazia di Dio sulla mia anima che raramente nella vita mi sono sentito così felice come giovedì sera, dopo aver preso la decisione, e non ho mai celebrato la Santa Messa con tanta devozione come l’ho celebrata il giorno dopo. Avrei voluto dire a tutti quanto Dio è buono con noi se ci affidiamo completamente a Lui; quanto si possa essere felici se si è disposti a dare tutto a Cristo, anche la libertà e la vita. Sono sicuro che in questo periodo molte persone hanno pregato per me, affinché Dio mi indicasse la via giusta e mi concedesse molte grazie. Non sono mai stato così riconoscente a Dio per la grazia del sacerdozio come in questi ultimi giorni».

La decisione di rimanere con la sua comunità e di condividere con essa gioie e dolori è stata il frutto di un processo di discernimento spirituale, e la gioia e la gratitudine provate sono state per Profittlich una conferma della sua giustezza. In questo ha sperimentato l’azione della grazia di Dio, e ha anche ringraziato Dio per le preghiere che molte persone avevano fatto per lui. Ciò che inizialmente lo opprimeva, alla fine lo porta a sperimentare un profondo senso di gratitudine. «E non solo perché Dio è stato così buono con me, ma anche perché ho trovato tanto amore e tanta gratitudine nelle persone quando hanno saputo che sarei rimasto qui». Questo ha cambiato anche il suo modo di vedere la realtà: «Certamente all’esterno negli ultimi anni è stato distrutto molto di tutto ciò che ho cercato di costruire con tanta fatica e preoccupazione. Ma molto di quello che ho potuto fare per tanti, invece, è rimasto. E proprio alcuni dei convertiti che ho accolto nella Chiesa negli ultimi anni mostrano adesso un amore e una gratitudine commoventi per tutto ciò che hanno ricevuto da Dio attraverso di me. Pertanto, nonostante tutto, non sarò mai abbastanza grato al buon Dio per tutto ciò che mi ha permesso di fare qui».

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

Profittlich non guarda più tanto alle sue azioni e al suo operato, ma piuttosto a ciò che Dio gli ha permesso di fare e a ciò che ha compiuto attraverso di lui. In questo modo acquisisce una grande fiducia in Dio, con la quale è in grado di affrontare un futuro incerto senza paura, perché «Dio sarà sempre con lui».

Poi afferma: «Per quanto riguarda il futuro, ovviamente non so che cosa accadrà. Nessuno può prevedere con certezza l’evoluzione delle cose, ma di una cosa sono sicuro: è volontà di Dio che io rimanga qui, e questo non solo mi rende felice, ma mi dà anche la forza di affrontare il futuro con grande fiducia, perché so che qualunque cosa accada, Dio sarà con me. E allora tutto andrà bene. Così la mia vita e, se sarà, la mia morte saranno una vita e una morte per Cristo. E non c’è niente di più bello».

Alla fine della lettera, Profittlich ringrazia ancora una volta tutti per il loro amore e per le donazioni fatte alla missione in Estonia, e chiede anche di pregare per lui. È consapevole della sua debolezza in quanto essere umano, ma anche del dono della sua chiamata a offrire la vita per Cristo e a rimanere fedele a tale vocazione, ed è proprio questa richiesta che lo commuove profondamente: «Vi chiedo, dal profondo del cuore, di pregare per me. Se volete fare qualcosa di buono per me, allora fate celebrare una Messa. Forse il parroco di Leimersdorf può chiedere ai miei concittadini di pregare per me, affinché Dio non mi neghi la sua grazia neppure in futuro, affinché in tutto ciò che mi accadrà io possa rimanere fedele alla mia alta e santa vocazione e al mio compito, rendendomi sempre disponibile a spendere tutte le mie forze per Cristo e per il suo regno e, se sarà la sua volontà, anche la mia vita. Perché non potrei pensare a una fine più bella».

Con questo desiderio di offrire la propria vita Profittlich si congeda dai suoi fratelli e sorelle, chiedendo a Dio di mantenerli tutti «fedeli al suo santo servizio e alla sua santa fede» e di benedirli tutti. Con la benedizione episcopale «da lontano», li saluta un’ultima volta come «il loro Eduard».

Conforto e incoraggiamento per una Chiesa perseguitata


Profittlich era consapevole della sua grande responsabilità e del significato della sua decisione. Nel novembre 1939, di fronte a tutto il clero dell’Estonia e alla presenza del nunzio apostolico, ebbe l’opportunità di esortare con parole commoventi tutti i presenti a sopportare coraggiosamente la persecuzione e, eventualmente, anche il martirio, se ciò si fosse reso necessario per il bene delle anime e della Chiesa[11]. Era anche perfettamente consapevole del fatto che, se avesse seguito la richiesta di tornare in Germania, avrebbe dato indirettamente un cattivo esempio non solo ai cattolici, ma anche ai non cattolici dell’Estonia, perché, a causa delle sue origini tedesche, sarebbe stato visto da molti come un «servo pagato», e non come un «buon pastore».

Profittlich sperimentò gli effetti positivi della sua decisione non soltanto in prima persona, provando un senso di gioia interiore e profonda gratitudine, ma anche attraverso l’esperienza di «amore e gratitudine delle persone quando hanno saputo che sarebbe rimasto». La sua decisione fu un conforto per loro, in quanto le fece sentire apprezzate, ma allo stesso tempo egli diede loro nuovo coraggio e speranza in una situazione difficile, perché non si sentissero abbandonate, ma sapessero che egli avrebbe percorso il cammino insieme a loro.

La disponibilità a rimanere con le persone a lui affidate non significò soltanto conforto e incoraggiamento in quel momento, ma il ricordo del vescovo Profittlich fu anche fonte di consolazione per i credenti dell’Estonia durante i 50 anni di oppressione comunista e un importante esempio per la loro vita di fede. Sebbene non sapessero dove fosse, o se fosse ancora vivo, egli rimase vivo nella loro memoria come il «buon pastore» che non abbandona la sua comunità e continua a prendersene cura, come una persona pronta a condividere con loro la propria vita nella persecuzione e anche a dare la propria vita per loro. L’avvio del processo per la sua beatificazione è stato una rivisitazione di questa «memoria», con l’obiettivo di rafforzare la fede di altre persone e incoraggiarle nelle loro difficoltà con il ricordo del suo martirio.

Il processo di beatificazione e il suo significato


Nella sua lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, Giovanni Paolo II parla della persecuzione dei credenti, affermando che alla fine del secondo millennio la Chiesa è «diventata la Chiesa dei martiri». Esorta le Chiese locali a fare tutto il possibile per «non perdere la memoria di coloro che hanno subìto il martirio»[12] .

In seguito a questo invito, dopo il ripristino delle strutture ecclesiastiche in Russia, il 31 maggio 2003 a San Pietroburgo è stato aperto il processo di beatificazione di 16 martiri, il primo dei quali era il vescovo Profittlich. Per vari motivi, nel corso degli anni alcuni «servi di Dio» erano stati staccati da questo gruppo, e per loro sono stati avviati processi distinti, come nel caso di Profittlich, nel 2014, su richiesta dell’amministratore apostolico dell’Estonia, mons. Philippe Jourdan. Il processo diocesano a Tallinn, iniziato nel 2017 con la nomina della postulatrice diocesana, la dottoressa Marge-Maria Paas, si è concluso due anni dopo, il 5 marzo 2019.

Sebbene la raccolta di tutte le informazioni e i documenti possibili riguardanti il «servo di Dio» Profittlich, nel processo diocesano sia servita innanzitutto a creare una base solida per la dichiarazione di santità o di martirio, ha contribuito anche a far conoscere sempre più a fondo la sua persona. I documenti raccolti per il processo di beatificazione di mons. Profittlich ci mostrano chiaramente che sia tutto ciò che egli ha dovuto affrontare fino alla sua morte in carcere a Kirov sia la sua morte stessa sono stati veramente quelli di un martire. Ma ci mostrano anche come egli stesso abbia dovuto lottare nella fede e come solo con l’aiuto di Dio abbia potuto prendere quella decisione che lo ha condotto sulla via del martirio. Per grazia di Dio, la sua vita e la sua morte sono diventate un esempio luminoso di sequela di Cristo e una testimonianza del suo grande amore per le persone che gli erano state affidate in Estonia.

La prossima beatificazione sarà la solenne proclamazione del significato dell’offerta della propria vita, che lo ha reso un «buon pastore», che non abbandona la sua comunità nemmeno nelle più grandi avversità e necessità. Sarà una celebrazione di ringraziamento per l’esempio di sequela del Signore crocifisso che Profittlich ha dato con la sua decisione di rimanere in Estonia anche sotto il dominio comunista e durante la persecuzione religiosa. Ma soprattutto sarà per noi un invito a guardare a lui e a ricordare la sua testimonianza di fede per trarre conforto e incoraggiamento dalla sua vita e dalle sue azioni per il nostro cammino di fede, sia nelle situazioni di persecuzione religiosa sia nelle difficoltà quotidiane.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] La fonte sono le lettere contenute nella Positio, conservate nell’Archivio Storico della Segreteria di Stato – Sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali (Affari Ecclesiastici Straordinari), Paesi Baltici.

[2] Ivi.

[3] Questi documenti, come pure i verbali degli interrogatori a Kirov e gli atti di condanna, si trovano nell’Archivio Storico Estone di Tartu, Fondo 130, 11503.

[4] Cfr Ch. Wrembek, «Estland: Deutscher Märtyrer auf dem Weg zur Seligsprechung», in wrembek.net/estland-deutscher-…

[5] Il Terz’anno è l’ultima tappa della formazione dei gesuiti, prima della professione solenne.

[6] Il decreto di nomina è conservato presso l’Archivio Apostolico Vaticano, Santa Sede, 1018 XI [7].

[7] Cfr le lettere del 25 e del 31 ottobre 1940, in Archivio Storico della Segreteria di Stato – Sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali Affari Ecclesiastici Straordinari, Paesi Baltici, fasc. 120, 10136/40 e 10138/40.

[8] L’originale della lettera si trova a Bad Breisig, nell’archivio della famiglia Profittlich.

[9] Il primo telegramma fu inviato a Profittlich il 23 novembre 1940; il secondo, in risposta alle sue considerazioni sui pro e contra, il 1° febbraio 1941, cioè una settimana prima della sua lettera ai fratelli.

[10] Profittlich descrisse in modo molto simile la situazione della Chiesa nella lettera inviata il 14 gennaio 1941 al cardinale Segretario di Stato, Luigi Maglione.

[11] Cfr il rapporto del nunzio del 30 gennaio 1941, conservato nell’Archivio Storico della Segreteria di Stato – Sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni InternazionaliAffari Ecclesiastici Straordinari, fasc. 120, 792/41.

[12] Cfr Giovanni Paolo II, s., Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, n. 37.

The post Il ricordo di un testimone della fede: Mons. Eduard Profittlich S.I. first appeared on La Civiltà Cattolica.


Grace Paley: un esercizio di ascolto


Grace Paley

Vita e opere


«Grace Paley, per me, è una specie di santa laica. Chi è il santo? Un individuo particolarmente attento alle cose come sono e straordinariamente in grado di accettarle»[1]. Così scriveva George Saunders nel decennale della morte di Paley. Chi è la scrittrice che meritò un simile tributo? Grace Paley nasce a New York, Bronx, nel 1922. Figlia di due ebrei socialisti di origine ucraina, arrivati negli Stati Uniti nei primi anni del Novecento in seguito alle persecuzioni antisemite nell’Europa dell’Est da parte delle autorità zariste[2], Paley cresce nella Grande Mela e lì vive per quasi tutta la sua vita, fino ai primi anni Novanta, quando decide di trasferirsi con il secondo marito nel Vermont, dove muore nel 2007.

L’importanza della figura della scrittrice è inversamente proporzionale all’ampiezza della sua produzione letteraria. Paley, infatti, scrisse appena tre antologie di racconti, vari saggi brevi, discorsi e testi di circostanza – quasi tutti riuniti in un unico volume –, varie raccolte di poesia. Poco rispetto alla lunghezza della vita, e ancor meno rispetto alla potente bellezza dei suoi racconti, grazie ai quali ha acquistato già in vita lo statuto di classico della letteratura nordamericana e internazionale.

Le tre raccolte si distribuiscono nell’arco di circa un quarto di secolo: Piccoli contrattempi del vivere (1959), Enormi cambiamenti all’ultimo minuto (1974), Quello stesso giorno (1985). Undici racconti il primo testo, diciassette il secondo e altrettanti il terzo, per un totale di 45 storie, tutti ambientati a New York. Come altri scrittori – ad esempio, Alice Munro –, Paley ha trovato nel racconto breve la propria misura espressiva. Invitata a tentare le vie del romanzo, per la diffusa convinzione editoriale che solo questo costituisce la fonte della fama e dell’indispensabile riscontro economico, dopo un tentativo durato un paio di anni, abbandonò il progetto e coltivò unicamente la forma del racconto breve.

Cinque ragioni per amare Paley


Sono molteplici le ragioni che rendono la lettura di Paley un passaggio importante e necessario. Possiamo indicarne, in modo sintetico, cinque.

La prima è l’universalità dell’esperienza umana che la scrittrice rivela al lettore nella tenace fedeltà a un territorio ben delimitato. I suoi racconti hanno una fortissima connotazione geografica. Tutti hanno luogo a New York, e quasi tutti negli stessi quartieri. La fedeltà alla propria realtà locale, l’incarnazione in un luogo e nelle sue lingue, lungi dal soffocare la creatività della scrittrice, l’ha valorizzata e fatta espandere in termini universali. I personaggi dei racconti di Paley sono uomini e donne ordinari. Il contesto è urbano, e le vicende nelle quali li vediamo coinvolti sono il quotidiano di lavoro, fatica, piccoli impegni, grandi sacrifici e gioie semplici, amicizie e frustrazioni, tradimenti e illusioni. Storie di vita quotidiana sullo sfondo della Storia più ampia, che fa capolino di tanto in tanto nei commenti e nei ricordi dei personaggi. Paley stessa scrisse: «Quanto alla fortuna grande[3]: quella ha a che fare con i movimenti politici, con la Storia che ti capita mentre stai facendo i piatti, con le guerre che gli uomini progettano per i loro figli, i nostri figli»[4]. La straordinarietà dei racconti di Paley, infatti, è la loro densità. In poche pagine l’autrice riesce a sovrapporre in modo armonico pluralità di temi e questioni. La sua lingua vitale coglie la complessità della realtà e della vita, che si dà tutta insieme e non a pezzi e scomparti, così che non si può dire che la scrittrice parli solo della condizione femminile, o solo della politica, o delle relazioni familiari, o di quelle tra uomo e donna, o della condizione degli ebrei sopravvissuti all’Olocausto[5], ma di tutto insieme, come avviene nella vita.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

La seconda ragione è l’autenticità del rispetto che Paley dimostra nei confronti della vita, che lei ascolta con attenzione e lascia libera di essere, valorizzandone la bellezza, accogliendone le contraddizioni, esplorandola come un mistero[6] da conoscere e sapendo di non poterlo esaurire, alimentando la speranza, e quindi accettando che nelle situazioni più difficili ci possa essere una possibilità non vista che si affaccerà nella vita dei suoi personaggi[7], guardando con la tenerezza dell’ironia[8], che è una forma più elevata di empatia. «Tutta l’opera di Grace Paley è contraddistinta da calore umano, precisione e attenzione per gli altri, e trabocca di vita reale e caotica, e delle sensazioni che la vita reale, vissuta davvero, ci dà: quelle di essere impotenti, circondati di amici, a corto di tempo, pieni di rimpianti, insopportabilmente felici o talmente innamorati da diventare scemi»[9].

La terza ragione per apprezzare la scrittrice newyorchese è la postura etica che imprime alla sua scrittura: Paley è responsabile delle vite che mostra, e avverte profondamente la responsabilità di impegnarsi per migliorare il mondo. Lo ha testimoniato con una vita di impegno politico a favore di iniziative di pace[10]; lo ha perseguito anche con la scrittura, che per lei è uno strumento per migliorare il mondo, recuperando dalla tradizione ebraica l’idea del Tikkun ‘Olan, che significa «riparare e aggiustare» il mondo[11].

La quarta ragione è la potenza della sua lingua, che non descrive un mondo pre-pensato e sistemato, ma lo mostra, lasciando che emerga dalla pagina attraverso la voce delle parole. Il mondo descritto e raccontato da Paley è il mondo del Bronx di New York e di pochi altri quartieri della grande città. È un mondo di voci e di suoni che si intrecciano, e ciò che colpisce è la capacità della scrittrice di evocarlo, portandolo davanti al lettore. Un linguaggio fatto di modi di dire, di intonazioni, un mondo che va ascoltato. E l’ascolto rappresenta una delle attitudini principali di Paley e ciò che lei chiede al lettore. Questa peculiare caratteristica permane persino nei racconti tradotti. I racconti di Paley sono racconti sonori, almeno in due modi: il primo, quando raccolgono le voci delle persone che abitano a New York; il secondo, quando lei li scrive. C’è chi ha sostenuto che i racconti di Paley dovrebbero essere letti ad alta voce. Di sé stessa la scrittrice afferma: «Nel ’54 o ’55 decisi di scrivere un racconto. Avevo scritto qualche bel paragrafo con dentro alcune frasi di prima qualità, ma non ero riuscita a far entrare le donne e gli uomini in carne e ossa nella lingua, né a trovare la storia in quei passaggi di prosa. […] Scrivere i racconti gli aveva permesso [qui Paley fa riferimento al proprio orecchio] – all’improvviso – di fare il suo lavoro, di ricordare la lingua della strada e la lingua di casa con i suoi accenti russi e yiddish, una lingua che i miei primi personaggi conoscono bene, l’unica che io parlassi. Due orecchi, uno per la letteratura e uno per la casa, a una scrittrice servono»[12].

La quinta ragione del valore dei racconti di Paley è il modo in cui lei dà spazio alla voce delle donne, madri e mogli[13]. Fulminante è l’incipit del racconto Faith sull’albero: «Proprio quando più avevo bisogno di conversazioni importanti, di un refolo del vasto mondo mascolino, insomma, di almeno un compagno dotato di cervello che potesse tradurre la mia lingua di amica nel suo idioma d’imperituro amore carnale, mi ritrovai costretta a oziare nel parchetto del quartiere, circondata da bambini»[14].

Paley trascende la scrittura di genere, perché rappresenta la condizione femminile con una trasparenza particolare, usando una serie di personaggi ricorrenti, tra i quali in primis vi è Faith Darwin, suo alter ego letterario, personaggio sempre più ricorrente, e le sue amiche Ruth, Susan e Kitty. Nella prima raccolta, il personaggio di Faith compare due volte; nella seconda antologia, sei volte; e nell’ultima, nove volte. Il personaggio è una sorta di alter ego di Paley, che gli regala una serie di elementi tratti dalla propria biografia: il suo essere ebrea di origine ucraina e il contesto urbano newyorchese nel quale è cresciuta. Al tempo stesso Faith è un personaggio letterario autonomo, che la scrittrice varia e modifica in alcuni tratti: a volte lei ha due figli, a volte tre; a volte è casalinga, altre volte lavora, altre volte ancora è scrittrice[15].

Un racconto: «Il pomeriggio di Faith»


Il racconto che prendiamo in considerazione per mostrare in concreto le caratteristiche della scrittura di Paley è intitolato «Il pomeriggio di Faith», presente nella seconda raccolta Enormi cambiamenti all’ultimo minuto (1974).

In questo racconto di 19 pagine, Paley racconta la visita di Faith ai due genitori, che hanno deciso di ritirarsi in una casa di riposo dal significativo nome «Figli di Gerusalemme». È l’occasione per aggiornarsi reciprocamente sulla vita fuori e dentro il ricovero. Con Paley, il racconto diventa una meditazione sulla precarietà delle relazioni affettive e dell’esistenza, con note relative alla Storia – con la «S» maiu­scola – come parte ordinaria della quotidianità. Con qualche nota di passaggio, Paley colloca saldamente Faith nell’alveo della religione e della cultura ebraica, con un tono di benevola ironia, che serve a stemperare memorie ben altrimenti faticose. L’incipit ricorda il tono solenne di Whitman ed è al tempo stesso un calco ironico di alcuni atteggiamenti new age di recupero del passato ancestrale: «Quanto a te, compagno libero pensatore del blocco occidentale, se hai qualcosa di sensato da dire, non aspettare. Gridalo forte in questo istante. Tra vent’anni, primavera più primavera meno, i tuoi nipotini si ritroveranno stesi nei parchi giochi di tutto il mondo, orecchio a terra, a cercar di captare segnali del lontano passato»[16].

A lei spetta un passato est-europeo: «A mezzanotte di quasi tutti i giorni feriali Faith tiene la testa sotto il cuscino, madida di sogni, e ha il mal di mare per il rombo dell’oceano, il vento che stride incastrato nella coda rampante dell’alta marea. Questo perché suo nonno, solcando mari salati, pattinava per chilometri lungo le spiagge ghiacciate del Baltico, con un’aringa congelata in tasca. E lei, tutta orecchi, è nata a Coney Island»[17].

In realtà, gli antenati sono appena due, mamma e papà, e il suo ambiente è costituito da un fratello e una sorella dal nome significativo «Hope», «speranza». La scelta dei genitori di ritirarsi appena sessantenni in una casa di riposo di ebrei che parlano yiddish desta lo sconcerto dei figli; la figlia Hope rimprovera la madre di andare in mezzo a persone che non parlano inglese, e la madre risponde: «In vita mia d’inglese ne ho parlato anche troppo»[18]; il figlio rimprovera ai genitori il fatto che non decidano di trasferirsi in Israele, argomentando: «“La gente lo capirebbe di più”. “Lasciandovi tutti qui?”, aveva detto lei, con gli occhi lucidi al pensiero dei figli tutti soli, a sfasciarsi la vita sulle secche di ogni giorno, in assenza del suo sguardo lacrimoso»[19].

La mamma di Faith, la signora Darwin, ha risolto la questione identitaria in un modo ferreo, determinato, e Paley lo descrive con l’acutezza di un’immagine che dice la concretezza delle parole, il loro gusto e il carattere della donna: «Sua madre al contrario se n’è fregata alla grande e, una volta al sicuro tra i propri simili a Coney Island, ha imparato lo yiddish come si deve, ha aiutato il marito che per le lingue non era troppo portato, e non appena raccolti sotto il palato tutti i verbi e i sostantivi necessari, ha fatto voto di lagnarsi in yiddish e dolersi in yiddish, e vi ha mantenuto fede fino a oggi»[20]. Le parole sono raccolte sotto il palato, perché vanno assaporate e gustate.

Faith «è andata a trovare i genitori una volta soltanto, da quando ha iniziato a capire che a causa di Ricardo per un certo periodo le sarebbe toccato essere infelice. Faith è americana per davvero, e come tutti è stata allevata con la felicità come presupposto tangibile. Dubbi non ce ne sono, da qualunque parte la si guardi ora è infelicissima. E davanti ai suoi se ne vergogna»[21]. L’infelicità è come un’influenza o una sorte che bisogna sopportare, e il suo essere americana non consente che viva altrimenti che felice. I genitori sono intellettuali impegnati; perciò sono coinvolti nei dibattiti di quegli anni: «Per la testa hanno una serie di fatti. Gerusalemme divisa; la seconda guerra mondiale che seguita a occupare le loro discussioni; l’uso pacifico dell’energia atomica (è davvero necessaria?): le nuove ondate di antisemitismo che lambiscono le spiagge placide delle loro conquiste»[22].

Di fronte a questi orizzonti di impegno e di sviluppo, per i genitori l’infelicità è questione troppo personale e banale per meritare attenzione; sembra di avvertire sospesa nell’aria una domanda: come si può essere infelici in America? Paley lo sottolinea in modo magistrale: «Faith e la sua ridicola posizione nel bel mezzo di tempi prosperi non possono che disgustarli. La sua cocciuta infelicità li fa vergognare»[23]. Che finezza Paley dimostra nel tratteggiare la difficoltà degli anziani genitori ad avere a che fare con l’infelicità della figlia e la loro umanissima proiezione su altri dei propri tratti caratteriali, per cui è l’infelicità di Faith a essere cocciuta, non la loro posizione intransigente!

Segue la presentazione del primo marito di Faith, Ricardo, che la scrittrice dipinge in questo modo: «Quel Ricardo, il primo marito di Faith, era un uomo raffinato. Era orgoglioso e felice perché gli altri uomini lo ammiravano. E infatti, diceva, io sono un maschio vero. E come tutti i maschi veri, correva dietro alle donne. […] A ognuna dava un nomignolo, che di norma era collegato a un difetto fisico»[24]. E così ci sono Pelatina, Ciccetta, Pidocchietta. In tre righe Paley presenta l’uomo con il carico dei limiti e dei difetti, dicendo che è «raffinato»: in realtà, è vanesio, superficiale e preoccupato solo di quel che pensano altri uomini. Con questo cammeo, inoltre, Paley descrive il tono delle relazioni uomo-donna di un certo periodo storico, e così, senza troppo darlo a vedere, evoca il contesto sociale nel quale l’uomo che denigra la donna pensa di essere spiritoso.

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

La comunicazione fatta da Faith alla madre, che il matrimonio con Ricardo è in crisi, è una vera pennellata. Faith dice alla madre: «Io e Ricardo non staremo più tanto insieme come prima»[25]. È il tentativo di dire e non dire, simulando, velando, mistificando, per attenuare l’impatto della dura realtà: non stare più tanto insieme come prima… La risposta della madre è stupefacente: «“Faithy!”, le aveva detto la madre. “Tu hai un caratteraccio. No, senti, ascolta. È già successo a tante nella vita. Un paio di giorni e vedrai che torna. Alla fin fine, i figli… digli che ti dispiace e basta. È una bazzecola. Una sciocchezza. M’era parso molto migliorato, quand’è stato qui un paio di mesi fa. Non ci pensare. Pulisci casa, metti su una bistecca. Di’ ai bambini di stare un po’ tranquilli, mandali dalla vicina a vedere la televisione. Prima che te ne renda conto, tornerà. Non farci caso. Vai a farti una messa in piega, papà sarebbe più contento di darti qualcosina da spendere. […] Non preoccuparti. Domani torna. Anzi, adesso vai a casa e lo trovi che accende il giradischi”. “Mamma, Ricardo è stonato”. “Oy, Faithy, tu devi vivere un po’ meglio di così”»[26].

La risposta della signora Darwin alla figlia è un quadro di vita intera che comunica una molteplicità di sentimenti e di idee: nella brevità delle frasi si avverte il panico della madre. L’affanno nel respiro per negare e ridurre, per trovare le colpe e le responsabilità (che sono della figlia) e i mezzi per recuperare la situazione, in un misto di ingiunzioni – «Non ci pensare», «non farci caso» –, e l’invito piuttosto a sistemare casa e sé stessa, per rendere nuovamente gradevole l’ambiente, per favorire il ritorno del marito. Tutto nasce dalla convinzione che la donna debba sopportare, che la donna senza un uomo non possa vivere, che la figlia debba vivere meglio di così, ossia senza un marito accanto. È un capolavoro di negazione della realtà e, al tempo stesso, di silenziosa comprensione intergenerazionale femminile.

In quel momento entra nella stanza, su una sedia a rotelle, una vicina molto più anziana (e più disillusa), la signora Gittel Hegel-Shtein, che si meraviglia di trovare la figlia dell’amica in visita. «Aspetta, non dirmi niente, questa qui è Faith. Ma tu pensa Faith? Hope la conosco, ma questa è proprio Faith. Ma allora ce l’hai un momentino per venire a trovare la tua mamma… Che fortuna per lei, che tu non sia impegnata in eterno»[27]. La madre prende subito le difese della figlia: «“Dai, Gittel, ti prego, fa’ la brava”, disse mortificata la madre di Faith. “Davvero, ti prego. Faith viene quando può. È una mamma. Ha due bambini piccoli. Lavora. Te lo sei scordato, Gittel, com’era a quei tempi, quando sono ancora piccolini? Chi viene prima? I bambini… i bambini piccoli, vengono prima loro”»[28]. La madre chiede comprensione per la figlia, evocando la comune condizione femminile che anche Gittel ha vissuto e non può aver dimenticato.

E qui la pennellata ulteriore di Paley, che restituisce alla signora in carrozzella la parola: «Ma certo, certo, prima, so tutto sul venire prima. Archie non è forse venuto prima? Che grande onore. Mi hanno mandato una cartolina dalla Florida, il signore e la signora Prima»[29]. Ecco la sorgente dell’astio e del rimprovero: la solitudine che prova la donna. Nelle assenze di Faith quel Gittel ritrova il senso di abbandono che lei stessa prova perché il figlio lontano e la cognata non la vengono a trovare e le mandano appena una cartolina dalla Florida. A questo punto, la signora Hegel-Shtein tira fuori matasse di lana da riavvolgere in gomitoli, e le tre donne in questo gesto così quotidiano e ordinario ritrovano uno spazio di concordia e d’intesa: «“Altra lana, altra lana”, disse la signora Darwin infilando un gomitolo finito in una busta della spesa. Erano industriose come api in un muliebre mormorio di vita e di vite. Lavoravano. Si scambiavano informazioni essenziali e parevano il ritratto di un Kibbutz»[30].

In questo spazio di armonia recuperata, la figlia chiede: «Bè, mamma, che si dice nel quartiere?” […]. Forse potevano trascorrere qualche istante di allegria prima che l’ombra incombente di Ricardo le cacciasse un dito in un occhio»[31]. Faith ha il cuore pieno di tristezza, e la memoria dell’uomo che ha sposato incombe come il pianto a fior di palpebra, un dito nell’occhio romperebbe le dighe delle lacrime.

Dietro insistenza di Gittel, la madre di Faith è spinta a parlare di alcune amiche della figlia, superando la ritrosia che vorrebbe tener segreto quel che sa di varie situazioni familiari. L’amica Tess Slovinsky, alla quale anni prima era nato un bambino «che era un mostro. Un vero mostro. Non lo vide nessuno. Lo misero in un istituto. Bene. Poi il secondo. Sono ripartiti subito e ci hanno riprovato e ne hanno avuto un secondo. Quest’altro è nato pieno di allergie. Il succo di arancia gli dava l’eritema. Si strozzava con il latte. Lo portavano in campagna e gli si gonfiavano gli occhi. Bene. Poi a suo marito, Arnold Lever, davvero un caro ragazzo, gli è venuto un cancro. […] Gli hanno tagliato un dito. È peggiorato. Gli hanno amputato la mano. Non è servito. Fine di quel caro giovanotto adorabile»[32]. In quel «bene» che scandisce l’elenco delle disgrazie, quanta forza di accettazione, o forse è solo la contabilità della rassegnazione!

Poi c’è la storia di June Braun, che insieme al marito ha subìto un tracollo finanziario. Per lei Faith non prova simpatia. Hanno voluto vivere come «gentili», dimenticando le loro radici ebree; non suscitano simpatia. Poi c’è la vicenda di Anita Franklin, sposata a un ebreo sefardita, professore universitario. L’amica d’infanzia è stata abbandonata dal marito, che ha messo incinta un’alunna. Paley a questo punto trova un’immagine straordinaria per esprimere il coinvolgimento di Faith, che sino a quel momento ha accolto le notizie con contegno, ma che nella vicenda dell’amica ritrova la propria condizione di moglie abbandonata: «Proprio in quell’attimo l’ombra incombente di Ricardo le ficcò nell’occhio il dito sinistro, svelando al mondo la superficialità della sua faglia idrica. In quel preciso momento sulle terrazze della sua carne si sarebbe potuto piantare del riso, che forte e bellissimo sarebbe germogliato nelle fiumane che la travolsero da quell’istante e per il resto del pomeriggio. Per sé e per Anita Franklin, Faith chinò il capo e pianse»[33]. L’immagine delle terrazze colme d’acqua per coltivare il riso sta a significare la quantità di lacrime che Faith versa; esse inondano il corpo, che vediamo scosso e grosso, perché fornisce addirittura terrazze d’acqua. E poi silenzio.

Il racconto prosegue con il dialogo con il padre, che è entrato nella stanza e al quale Faith nasconde di aver pianto. Riaccompagnando la figlia alla metro per tornare a casa, il padre attraversa le sale della residenza, dove «erano in corso tremendi alterchi politici sugli ebrei in Russia oggi»[34], e il cancello di ferro «sopra il quale, in uno sconcertante corsivo metallico, un saldatore aveva scritto Figli di Gerusalemme»[35]. Con appena un tratto Paley continua a evocare la temperie del dibattito di quegli anni, e persino l’ombra del recente passato dei campi di concentramento tedeschi. A un certo punto, durante la chiacchierata, il padre, vecchio socialista che ha trascorso una vita nei sindacati, commenta: «Be’… sai com’è, potrei anche lasciar perdere tutta questa storia della politica, se davvero ti piace. Sono un po’ spaesato, negli ultimi tempi. È una transizione. Non ridere, Faithy. Un giorno dovrai sopravvivere anche tu a eventi come questi. Impara dalla vita, la mia. Io volevo sindacalizzare il personale di servizio. I custodi, i lift, hai presente? Quasi sempre gente di colore. Avrai notato che ora si stanno facendo strada. E malgrado tutte le speranze, non avrei mai creduto che succedesse mentre ero ancora vivo. È stata la guerra, mi sa. Tu che ne pensi, Faith? La guerra ha reso gli ebrei americani e i negri ebrei»[36]. In questo passaggio Paley riesce a comunicare le inquietudini e le profonde trasformazioni sociali che attraversano la società statunitense a partire dagli anni Cinquanta (la questione razziale in primis) e il senso della scalata sociale che alcune delle sue componenti vissero. È quello che si diceva nella prima parte dell’articolo: ci troviamo di fronte a una piccola storia – la visita a una coppia di genitori anziani –, che intercetta la grande Storia e la fa trasparire nelle parole dei suoi personaggi.

E poi c’è il finale aperto, ambiguo. Torna l’ombra della condizione familiare: «“Lo so com’è quando sono piccoli, Faith, si è sempre legati. Noi non ci siamo potuti muovere per anni. Io andavo solo alle riunioni, nient’altro. Non mi piaceva andare al cinema a divertirmi senza tua madre. E a quei tempi non c’erano le baby-sitter. Splendida invenzione le baby-sitter. Grazie a loro, due coniugi potrebbero rimanere amanti per sempre. Oh, scusa!”, ansimò, “tesoro mio…”. Faith rimase sorpresa dalla sua esclamazione, perché le erano venute le lacrime agli occhi prima ancora di sentire il dolore»[37]. Di nuovo troviamo espressi insieme il ricordo di una vita di impegno sociale, la difficoltà a crescere i bambini e a ritagliarsi uno spazio come coppia, la pennellata delle lacrime che arrivano prima del dolore. Sul limitare della scala che conduce alla metro, il padre chiede alla figlia di tornare presto a trovarli: «“Faith”, la chiamò lui, “puoi tornare presto?”. “Oh, papà”, disse lei alzando lo sguardo da quattro gradini sotto di lui, “non posso tornare finché non sono un pochino felice”»[38]. E il dialogo prosegue brevemente tra l’insistenza del vecchio genitore e la resistenza della figlia, finché lei accetta di portare i bambini dal nonno.

A questo punto – siamo alle ultime righe –, Paley «inventa», nel senso che «trova», un gesto paterno che rende il saluto tra i due indimenticabile: «Il signor Darwin allungò una mano da dietro la ringhiera per prenderle le dita. Gliele strinse e gliele portò alle guance umide. Poi disse: “Aaah…”, un’esplosione di nausea, di assoluto disgusto digestivo. E prima che lei potesse distogliere lo sguardo dalla vecchiezza del suo viso offeso e correre a casa giù per le scale della metro, lui le aveva lasciato scivolare via la mano sudata dalla propria e si era girato dall’altra parte»[39].

Il gesto e l’esplosione del padre segnano una radicale ambiguità: è il gesto dell’anziano che è consapevole che non rivedrà la figlia per molto tempo? È il gesto di dolore nei confronti della vita? È il giudizio di disgusto di sé che lo ha colto di fronte a quel momento di emotività? È la vergogna che lo colpisce, quella che Faith denuncia all’inizio del racconto? È un finale ambiguo, certo non di pacificazione riconciliante, come l’happy ending di molti film hollywoodiani, ma è l’umanissimo riconoscimento che la vita è anche questo. Al tempo stesso, il carattere aperto del racconto garantisce una possibilità di speranza: Faith tornerà a essere felice, tornerà a visitare i genitori senza dover nascondere le lacrime; i due anziani vivranno e vedranno i nipoti crescere.

Conclusione


Paley costruisce una «superficie verbale scintillante»[40], che non vuole restituire la linearità del mondo (che non esiste), ma evoca il suo scintillio, come di caleidoscopio che rifrange la luce in immagini e cristalli di colore sempre nuovi, usando il materiale povero che qualsiasi cassetto potrebbe contenere. Con la sua incredibile capacità di ascolto empatico, la scrittrice compie un gesto ben più profondo: ci ricorda che il mondo «ha bisogno piuttosto di essere amato di più. O forse, siamo noi che abbiamo bisogno di qualcuno che ci ricordi di amarlo e ci faccia vedere come: perché a volte, occupati come siamo a sopravvivere, l’amore per il mondo ci sfugge di mente»[41].

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] G. Saunders, «La santa patrona del vedere», in G. Paley, Tutti i racconti, Roma, SUR, 2018, 7.

[2] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare. Parole e scrittura in Grace Paley, Roma, Donzelli, 2012, XVII.

[3] Per Paley, la fortuna «piccola» fu di incontrare a metà degli anni Cinquanta Ken McCormick, l’editore che la spinse a scrivere altri racconti, oltre ai tre che aveva letto su invito della moglie, amica di Paley.

[4] G. Paley, Tutti i racconti, cit., 25.

[5] Su questo punto, cfr G. Paley, «Come tutte le altre nazioni», in Id., L’importanza di non capire tutto, Torino, Einaudi, 2007, 43-51.

[6] Cfr ivi, 170-175.

[7] Cfr il racconto «Una conversazione con mio padre», in G. Paley, Tutti i racconti, cit., 320-327.

[8] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare…, cit., 99-101.

[9] G. Saunders, «La santa patrona del vedere», cit., 15.

[10] Paley fu più volte arrestata, nella sua vita, per aver partecipato a sit-in e manifestazioni di protesta contro la guerra in Vietnam. Nel crogiuolo degli anni Sessanta matura anche la prima sensibilità ecologista e di tutela della natura, oltre alla grande rivoluzione dei costumi, che porta a ripensare profondamente la figura e il ruolo della donna nella società. Qui va ricordato che la storica sentenza della Corte Suprema, che dichiarava incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole, è solo del 1954. Paley scrive, partecipa a dibattiti e si impegna per portare avanti le posizioni pacifiste, antinucleari, antimilitariste e di tutela democratica; viaggia molto e in tutto il mondo: in Cina, in Vietnam del Nord, in Russia, in vari Paesi del Centroamerica.

[11] Cfr G. Paley, Tutti i racconti, cit., 129 s.

[12] Ivi, 23 s.

[13] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare…, cit., 66-88. Sul tema della maternità come ruolo e responsabilità sociale condivisa, cfr G. Paley, «Altre madri», in Id., L’importanza di non capire tutto, cit., 30-35. Cfr anche il racconto «Parchi giochi nordest»,inId., Tutti i racconti, cit., 308-311. Si veda anche il finale del racconto «Il momento costoso», nel quale Faith Darwin e una donna in visita dalla Cina si confrontano su come educare i figli e scoprono nell’esperienza della maternità una condizione, trasversale a ogni frontiera e ideologia politica, che le accomuna (cfr Id., Tutti i racconti, cit., 504).

[14] Id., Tutti i racconti, cit., 247.

[15] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare…, cit., 6-8.

[16] G. Paley, Tutti i racconti, cit., 211.

[17] Ivi.

[18] Ivi, 212.

[19] Ivi.

[20] Ivi, 213.

[21] Ivi.

[22] Ivi, 213 s.

[23] Ivi.

[24] Ivi, 214.

[25] Ivi, 216.

[26] Ivi.

[27] Ivi, 217.

[28] Ivi.

[29] Ivi.

[30] Ivi, 218.

[31] Ivi, 219.

[32] Ivi, 221.

[33] Ivi, 225.

[34] Ivi, 226.

[35] Ivi.

[36] Ivi, 227.

[37] Ivi, 228.

[38] Ivi.

[39] Ivi, 229.

[40] G. Saunders, «La santa patrona del vedere», cit., 8.

[41] Ivi.

The post Grace Paley: un esercizio di ascolto first appeared on La Civiltà Cattolica.


«Camminare insieme». I gesuiti ricordano Papa Francesco


Papa Francesco con il Superiore Generale Arturo Sosa e Orlando Torres. © Jesuit.Media 2025
«Pur nello sconcerto causato dalla sua dipartita, sgorga spontaneamente dai nostri cuori un profondo sentimento di gratitudine a Dio Padre, ricco di misericordia, per il tanto bene ricevuto attraverso il servizio di tutta una vita e per il modo in cui Papa Francesco ha saputo guidare la Chiesa durante il suo pontificato, in comunione e in continuità con i suoi predecessori nello sforzo di mettere in pratica lo spirito e gli orientamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II». Così, in una lettera il Superiore Generale della Compagnia di Gesù ricorda Papa Francesco. «Siamo addolorati per la scomparsa di colui che è stato posto al servizio della Chiesa Universale nell’esercizio del ministero petrino per più di 12 anni. Allo stesso tempo, proviamo dolore per la dipartita del nostro amato confratello in questa minima Compagnia di Gesù, Jose Mario Bergoglio. In essa abbiamo condiviso il medesimo carisma spirituale e il medesimo stile di sequela di Nostro Signore Gesù Cristo».

Alle ore 11 di oggi, giovedì 24 aprile, p. Sosa interviene in una conferenza stampa per riflettere sulla vita, il ministero petrino e l’eredità di Papa Francesco. La conferenza stampa è organizzata nell’Aula della Curia Generale della Compagnia di Gesù, in via Borgo Santo Spirito, 4 a Roma e verrà trasmessa online sul canale YouTube della Compagnia di Gesù.
youtube.com/embed/lYAm1kRXf7M?…

Per Sosa, Papa Francesco «ha mantenuto uno sguardo attento a quanto accadeva nel mondo per offrire una parola di speranza a tutti. Le sue straordinarie Encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti non solo rivelano una lucida analisi della situazione dell’umanità, ma, alla luce del Vangelo, offrono anche valide vie per il superamento delle cause delle tante ingiustizie presenti nel mondo e per la promozione della riconciliazione». Per Papa Francesco, ricorda ancora p. Sosa, «il dialogo tra le persone, tra rivali politici o fra religioni e culture, è la strada da seguire, proponendo la pace e la stabilità sociale, al fine di creare ambienti di mutua comprensione, di cura dell’altro e di sostegno solidale».

Già dalle prime parole pronunciate il 13 marzo 2013 in Piazza San Pietro, aggiunge p. Sosa, è possibile trovare due dimensioni chiave del suo ministero: «l’importanza del camminare insieme, Vescovo e popolo, in un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia, di speranza; e la centralità della preghiera, soprattutto di quella di intercessione. Il ‘camminare insieme’ si è concretizzato in maniera particolare nella rilevanza data allo sviluppo del Sinodo dei Vescovi e nell’attenzione data alla sinodalità come dimensione costitutiva dell’essere Chiesa, che non sminuisce in nessun modo il Primato di Pietro o la responsabilità episcopale; ma, al contrario, consente di esercitarli in una maniera maggiormente partecipativa da parte di tutti i battezzati, da parte del popolo di Dio in cammino, riconoscendo la presenza e l’azione del Signore nella comunità ecclesiale attraverso lo Spirito Santo».

Durante tutto il suo pontificato, ricorda ancora p. Sosa, concludeva ogni suo intervento, compreso l’Angelus domenicale, con lo stesso invito: “Per favore, non dimenticate di pregare per me”. «Non si è mai stancato di ricordarci che la preghiera nasce dalla fiducia e dalla familiarità con Dio e che in essa possiamo scoprire il segreto della vita dei Santi (cf. Udienza Generale, 28 settembre 2022). Anche nel rivolgersi a noi, suoi confratelli gesuiti, ha sempre insistito sulla priorità di riservare nella nostra vita-missione lo spazio adeguato per la preghiera e per la cura dell’esperienza spirituale».

Papa Francesco, sottolinea p. Sosa, «ci ha indicato quello che possiamo considerare come un elemento essenziale della nostra identità. Quasi come se rispondesse a una domanda implicita su chi è un gesuita, Papa Francesco si è rivolto ai Congregati affermando che “il gesuita è un servitore della gioia del Vangelo”, qualsiasi sia la missione nella quale è impegnato. Da questa gioia scaturisce la nostra obbedienza alla volontà di Dio, l’invio al servizio della missione della Chiesa ed anche i nostri apostolati, insieme alla nostra disponibilità al servizio dei poveri. È questa gioia a dover caratterizzare il nostro modo di procedere, affinché sia “ecclesiale, inculturato, povero, servizievole, libero da ogni ambizione mondana”. L’appello alla gioia che proviene dal Crocifisso-Risorto e dal suo Vangelo, attraverso il quale viene annunciata questa consolante notizia, è stato una costante del pontificato di Papa Francesco. Non a caso molti dei Suoi documenti magisteriali, a cominciare dall’Esortazione Apostolica programmatica del suo pontificato, l’Evangelii Gaudium, contengono già nel titolo stesso questo riferimento alla gioia profonda, per lui imprescindibile».

Il Superiore Generale della Compagnia di Gesù, infine, ricorda «la discreta e costante attenzione di Papa Francesco alla Compagnia di Gesù, alla nostra vita e al nostro apostolato – scrive p. Sosa -. Molti di voi hanno potuto incontrarsi con lui in vari Paesi del mondo, perché sempre riservava un tempo per una condivisione franca e fraterna con i gesuiti che vivevano e lavoravano nei luoghi che egli visitava. Accompagniamo con il nostro cuore e con la nostra preghiera Papa Francesco al suo incontro definitivo con Dio, amore incondizionato e misericordia infinita, il cui volto ci ha mostrato con la sua vita ed il suo magistero».

The post «Camminare insieme». I gesuiti ricordano Papa Francesco first appeared on La Civiltà Cattolica.


Papa Francesco, 6 November 2024. (Foto: Picciarella/Alamy)

Papa Francesco ci ha lasciato il 21 aprile 2025, all’età di 88 anni, dopo averci dato la benedizione e consegnato un ultimo messaggio Urbi et Orbi, il giorno prima, Domenica di Pasqua. Non è nemmeno mancato un ultimo giro in papamobile in Piazza San Pietro, salutando i pellegrini. Il 13 marzo scorso, aveva compiuto 12 anni di pontificato. A ragione, la Chiesa si sente orfana e ciò vuol dire che la Chiesa è famiglia, comunità, appartenenza, sentimenti. La Chiesa si sente orfana e allo stesso tempo grata. Perciò, La Civiltà Cattolica, insieme a tutta la Chiesa, vuol esprimere, in questo momento, riconoscenza e gratitudine.

Vogliamo esprimere gratitudine per i tanti gesti e parole che non ci hanno lasciato indifferenti, che ci hanno spronato e incoraggiato a essere cristiani coerenti. Papa Francesco ha annunciato il Vangelo con la sua parola, accompagnata dalla forza dei suoi gesti. Pensando a questi gesti, non dimentichiamo la sua vicinanza ai rifugiati e ai migranti, di cui sono stati esempio il viaggio a Lampedusa, il primo del pontificato, e quello all’isola di Lesbo. Non dimentichiamo la sua vicinanza ai malati o le sue visite in carcere. Non dimentichiamo la preghiera del 27 marzo 2020, nei giorni bui della pandemia, in una Piazza S. Pietro vuota e con il suono delle sirene delle ambulanze in sottofondo. Non dimentichiamo l’impegno per la pace, la fratellanza e lo sviluppo umano integrale, oppure la cura per la casa comune, coinvolgendo le altre chiese e confessioni cristiane, le altre religioni e i leader mondiali credenti e non credenti. Non dimentichiamo i molti viaggi apostolici, privilegiando le periferie e appellando alla riconciliazione. Non dimentichiamo i gesti di accoglienza alla vita nascente, benedicendo le madri in attesa. Non dimentichiamo nemmeno il tempo dedicato ad ascoltare le vittime degli abusi sessuali e tutto quanto ha fatto per debellare questa piaga dalla vita della Chiesa.

Francesco, inoltre, ha arricchito il vocabolario ecclesiale con delle espressioni che rimangono nella nostra memoria grata: pensiamo alla Chiesa ospedale da campo, alla Chiesa in uscita e nelle frontiere, ai pastori con odore di pecore, al Dio che non si stanca mai di perdonare. Queste e altre espressioni provenivano dalla sua profonda convinzione che la Chiesa non può che essere missionaria, annunciando e rendendo concreta la misericordia di Dio. Siamo anche grati a papa Francesco per aver diffuso la pratica del discernimento e della sinodalità nel governo e nella vita della Chiesa. Per tanti motivi, potremmo dire che egli ha usato un linguaggio concreto e visivo e ha praticato una visibilità che ha parlato ai cuori e alle menti. Il Popolo di Dio lo ha amato perché lo ha compreso.

Papa Francesco ha seguito molto da vicino La Civiltà Cattolica, alla quale ha concesso la sua prima grande intervista, e si è sempre mostrato consapevole dell’importanza dell’attività editoriale. Anche la rivista ha seguito da vicino il suo pontificato: accogliendo i suoi orientamenti e priorità; diffondendo e commentando i suoi documenti; accompagnandolo nei viaggi apostolici; seguendo il suo quotidiano. Ne sono esempio i tanti articoli dedicati a papa Francesco pubblicati nelle nostre pagine. Abbiamo selezionato e segnalato nel nostro sito web alcuni di questi testi.

Francesco amava iniziare dei processi perché voleva una Chiesa viva che accettasse correre dei rischi. La sua scomparsa apre ora un processo decisivo per la vita dei cristiani. È un tempo da vivere nella preghiera, nell’unità e nella fiducia. Sappiamo che il Signore Gesù, il Risorto, è presente nella barca della Chiesa, la spinge in mare aperto e la guida attraverso l’azione del suo Spirito. È un tempo per essere davvero Chiesa, davvero comunità, davvero famiglia.

R.I.P.

La Civiltà Cattolica

The post Papa Francesco ci ha lasciato first appeared on La Civiltà Cattolica.


Pasqua: riconoscere segni di speranza in una Primavera velata di grigio


Marc Chagall, Exodus, Museum Dusseldorf. (Foto:Alamy)

La Pasqua del 2025, benché celebrata in piena Primavera, si presenta velata di grigio. Purtroppo, lo scenario è di giustificata e crescente preoccupazione: le guerre proseguono senza tregua, spargendo distruzione e sangue, mentre i semi di pace faticano a germogliare; la situazione economica internazionale è caratterizzata dalla perplessità e dalla sfiducia; e nei rapporti interpersonali, la limpidezza degli sguardi faccia a faccia è sostituita dalla mediazione della tecnologia e degli schermi, così propizi all’anonimato e alla dipendenza. Nella ricerca di cammini di pace, ci si aspetterebbe un ruolo più decisivo delle organizzazioni internazionali che, invece, si dimostrano impreparate e impotenti.

Anche se tutti siamo convolti, sono i più poveri e deboli a pagare più pesantemente le conseguenze dello smarrimento globale, dello sfruttamento strutturale e della corruzione, per cui si moltiplica il numero dei profughi, degli sfollati e dei migranti forzati che fanno fatica a trovare accoglienza e percorsi di integrazione.

E comunque, la Pasqua c’è, quest’anno provvidenzialmente celebrata in una sola data che accomuna le varie tradizioni cristiane. Il Bambino nato nell’umiltà e nell’esclusione di Betlemme, cresciuto «in sapienza, età egrazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2, 52), si identifica con la missione affidatagli dal Padre, proclama il Regno di Dio e lo testimonia fino alla esclusione estrema, quella della croce, in cui sigilla col proprio sangue la redenzione, la filiazione e la fratellanza offerte a tutti. Una tale testimonianza non poteva rimanere rinchiusa per sempre in una tomba. È la Resurrezione a confermarcelo e a dirci che la vita piena e senza fine di Gesù è un dono di cui tutti possiamo essere partecipi.

Celebrare la Pasqua è, quindi, allenare lo sguardo per riconoscere segni di vita e di speranza, anche in una Primavera velata di grigio. Ma non basta allenare lo sguardo! Occorre essere protagonisti di questi segni di vita e di speranza, accogliendo l’azione vivificatrice dello Spirito del Risorto e condividendo attivamente i doni da lui ricevuti come garanzia di una vita piena.

Nella «quarta settimana» degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, la «settimana» dedicata alla contemplazione della Risurrezione, l’esercitante deve chiedere la grazia di «gioire intensamente per la grande gloria e gioia di Cristo nostro Signore» [n. 221]. Nella stessa contemplazione, Sant’Ignazio suggerisce di considerare «la funzione di consolatore che Cristo nostro Signore esercita, paragonandola al modo solito di consolarsi fra amici» [n. 224]. Anche noi, in questa Pasqua, chiediamo di «gioire intensamente» con Cristo Risorto e di poter prolungare attorno a noi, specialmente con chi ne ha più bisogno, la sua azione trasformatrice e consolatrice.

Felice Pasqua!

The post Pasqua: riconoscere segni di speranza in una Primavera velata di grigio first appeared on La Civiltà Cattolica.


Migranti. Centro Astalli: «Sempre più vulnerabili»


Foto: Foto Mirko D'Accurzio, Centro Astalli
Oltre 122,6 milioni di persone al mondo sono costrette alla migrazione forzata a causa di guerre, violazioni dei diritti, persecuzioni, disuguaglianze e crisi climatiche. Tutto questo mentre «la dislocazione del diritto di asilo, la colpevolizzazione dei processi migratori e l’esternalizzazione delle politiche di contrasto al fenomeno, affidata a Stati terzi – tra i quali figurano Paesi non sicuri e in cui vengono violati i diritti umani – rendono le rotte verso l’Europa sempre più pericolose e potenzialmente letali; viaggi disperati in balìa di aguzzini che ingrossano le fila delle reti del traffico e dello sfruttamento di esseri umani, alimentate da accordi scellerati, che hanno come conseguenza quella di rendere le persone sempre più vulnerabili».

A fare il punto sulle condizioni di vita di migranti, rifugiati e richiedenti asilo e su come stanno cambiando le politiche migratorie è il nuovo Rapporto annuale del Centro Astalli, presentato nei giorni scorsi a Roma. La ventiquattresima edizione dello studio presenta le attività realizzate nel 2024 – grazie a oltre 800 volontari – a favore dei richiedenti asilo e dei rifugiati che si sono rivolti alle sedi di Roma, Bologna, Catania, Grumo Nevano, Vicenza, Padova, Palermo e Trento del Centro Astalli. «Si tratta di un numero importante di persone, circa 11mila a Roma e altre 13mila se consideriamo tutto il territorio nazionale, per un totale di circa 24mila persone», ha affermato p. Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli durante la presentazione dei dati.

Il 2024, un anno «impazzito» e attraversato da «policrisi»

L’anno di riferimento del rapporto, scrive Ripamonti nell’introduzione, è stato «particolarmente difficile, attraversato da policrisi, “impazzito”, se prendiamo in prestito una definizione – certo non geopolitica – usata da qualche leader e commentatore». Sono andati al voto 76 Paesi – tra cui Russia, India e Stati Uniti – ovvero il 51% della popolazione mondiale, mentre sono proseguite le escalation dei conflitti che ancora oggi infiammano il pianeta. Un quadro che fa da «sfondo al fenomeno della mobilità umana forzata che, secondo i dati dell’Unhcr, a giugno riguardava oltre 122 milioni di persone, con un aumento di circa il 10% rispetto all’anno precedente (un numero in continua crescita da 12 anni a questa parte), in particolare a causa delle crisi in Sud Sudan e Ucraina», aggiunge p. Ripamonti nell’introduzione del rapporto.

In Italia, l’accesso alla protezione sempre più ristretto

Secondo quanto riportato dal Centro Astalli nel Rapporto, il diritto di asilo in Italia ha subito ulteriori restrizioni, segnando un anno particolarmente complesso. «Le politiche migratorie e gli atteggiamenti prevalenti verso i migranti, sia in Italia che in Europa, hanno determinato una progressiva esclusione dei richiedenti asilo e dei rifugiati dall’esercizio di diritti fondamentali – spiega il Centro Astalli -. Le politiche messe in atto, tra azioni dirette e omissioni, hanno contribuito a privarli di diritti e protezione, relegandoli a una condizione di subalternità e, in molti casi, di vera e propria inferiorità sociale. Omissioni silenziose e quotidiane, che ledono i loro diritti, causando nei casi più gravi la caduta delle persone nell’irregolarità».

L’abrogazione della protezione speciale legata ai requisiti di integrazione lavorativa e di vita privata e familiare, si legge nel rapporto, «ha lasciato migliaia di persone senza tutele e senza la possibilità di proseguire e consolidare un percorso dignitoso di inclusione. Il servizio di orientamento legale del Centro Astalli si è trovato a supportare 517 persone, tra le quali molte con permessi in scadenza e senza possibilità di rinnovo. A Catania sono state 965 le persone accompagnate nell’iter burocratico della procedura di asilo, 525 a Trento».

Nonostante nel corso del 2024 si sia registrata una riduzione degli arrivi di migranti via mare, coloro che si sono rivolti al Centro Astalli avevano spesso necessità immediate di sopravvivenza, legate a bisogni primari come cibo e salute, diretta conseguenza delle difficoltà di accesso da parte di molti al circuito dell’accoglienza istituzionale. «La percentuale di richiedenti asilo è, infatti, aumentata in quasi tutti i servizi, in particolare all’accettazione e alla mensa – spiega il Centro Astalli -, dove ha sfiorato la metà dell’utenza complessiva. L’alto numero di pasti distribuiti alla mensa di Via degli Astalli (65.581) conferma il persistere di uno stato di precarietà e fragilità che, a differenza del 2023, ha colpito maggiormente anche le fasce d’età tra i 30 e i 60 anni, a indicare una crescente difficoltà nel consolidare percorsi di autonomia anche per chi è in Italia da più tempo». Aumenta sensibilmente anche la presenza femminile tra quanti si sono rivolti al SaMiFo, Struttura Sanitaria a valenza regionale nata dalla collaborazione tra la ASL Roma 1 e il Centro Astalli, «così come c’è stato un importante aumento delle visite psichiatriche da 875 a 1.283 a fronte di soli 33 utenti in più. Più persone e più fragili».

Rapporto 2025 Centro Astalli

Detenzione arbitrarie e «deportabilità», ostacoli alla speranza di una vita migliore

Il 2024 è stato l’anno del Patto sulla migrazione e l’asilo, adottato dal Consiglio Europeo lo scorso maggio. «Come in più occasioni sottolineato dalla società civile e con documenti congiunti dall’Ufficio europeo del Jrs – ha spiegato p. Ripamonti, durante la presentazione del rapporto -, l’implementazione di questo Patto può portare, tra le altre cose, a un arretramento del diritto d’asilo, per l’aumento previsto delle procedure accelerate alla frontiera e un conseguente possibile aumento del numero delle persone detenute in modo arbitrario».

Per l’Italia, poi, il 2024 è stato l’anno del braccio di ferro sui centri in Albania, ha aggiunto p. Ripamonti. «Al di là delle polemiche, quello che ci preoccupa è la creazione di un artificio legale, quello di centri in terra albanese sotto la giurisdizione italiana – ha chiarito il presidente del Centro Astalli -. Per fare questo si è sostenuto il principio di deportabilità delle persone, rispetto alle quali si è persa di vista la centralità della loro dignità, trattandole come carichi residuali non desiderati. Non convince neppure la recente decisione di convertire queste strutture in Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Negli anni queste strutture di detenzione amministrativa hanno evidenziato tutti i loro limiti sul territorio italiano e la poca funzionalità della detenzione in vista del rimpatrio. Non crediamo che l’utilizzo a tale scopo delle strutture in Albania possa migliorarne la funzionalità in vista del rimpatrio delle persone detenute e garantire nel contempo il rispetto dei diritti dei migranti trattenuti».

A preoccupare è anche la mancanza di una riflessione sui percorsi di accoglienza. «In oltre 40 anni di attività il Centro Astalli ha sperimentato varie tipologie di accoglienza, trovando preferibile declinare il termine al plurale: accoglienze – ha aggiunto p. Ripamonti -. Attualmente, pur nella riduzione dei numeri generali degli arrivi, non si sta portando avanti una riflessione vera sul modo migliore per accogliere e accompagnare i beneficiari di protezione internazionale. Il sistema sembra cristallizzato».
Rapporto 2025 Centro Astalli

Costruire comunità in cui giovani e migranti siano insieme protagonisti

In questo scenario, il Centro Astalli ha intensificato le sue attività di sensibilizzazione e di advocacy per denunciare le violazioni dei diritti e promuovere politiche più umane e inclusive. La collaborazione con gli uffici internazionali ed europei del Jesuit Refugee Service (JRS) è diventata ancora più preziosa in questo ambito. Il Centro Astalli, infine, ha continuato a lavorare con le scuole superiori. Nei progetti di sensibilizzazione sul diritto di asilo e sul dialogo interreligioso, realizzati in più di 250 istituti scolastici di 18 città italiane, sono stati coinvolti 38.700 studenti e studentesse. «Un numero – spiega il Centro Astalli – che incoraggia e motiva nella costruzione di comunità in cui giovani italiani e migranti siano insieme protagonisti».
facebook.com/plugins/video.php…

Scarica il Rapporto 2025 del Centro Astalli

The post Migranti. Centro Astalli: «Sempre più vulnerabili» first appeared on La Civiltà Cattolica.


Being Jewish after the Destruction of Gaza: A Reckoning



Dal 7 ottobre 2023, Israele-Palestina e i Paesi limitrofi sono stati inghiottiti da una nuova ondata di violenza e sofferenza. In questo cupo panorama, appare una luce: quella del dissenso presente nella società ebraica, sia pure ai suoi margini, che si oppone alla guerra e alla distruzione di Gaza. Sin dalla fondazione dello Stato di Israele e dalla genesi della catastrofe palestinese (Nakbah)nel 1948, alcune voci ebraiche chiaroveggenti hanno messo in guardia dal pericolo che il nazionalismo ebraico (sionismo) diventasse suprematista e disumano. Questo libro di Peter Beinart è un manifesto coraggioso, stimolante e profetico.

In un’intervista, l’A. ha spiegato: «L’ho scritto per la mia comunità […]. Vivo in un mondo ebraico piuttosto tradizionale. E ho la sensazione che in molti spazi ebraici esista una sorta di patologia, diffusa tra persone che sotto altri aspetti della loro vita sono umane e premurose. Eppure, quando si tratta della questione di Gaza e, più in generale, della questione dei palestinesi e del loro diritto alla libertà, cala un paraocchi collettivo» (www.theguardian.com/world/ng-interactive/2025/jan/27/israel-gaza-us-jews-peter-beinart). Beinart ha già scritto in passato su argomenti come il sionismo e Israele, in particolare in The Crisis of Zionism, del 2012. Tuttavia, da allora la sua posizione si è evoluta, conducendolo dal sostegno al sionismo liberale a un approccio più critico.

Il libro inizia con una lettera toccante dell’A. a un «ex amico». A infrangere la loro amicizia non sono stati il massacro e il rapimento di centinaia di israeliani del 7 ottobre 2023: le brutalità commesse quel giorno hanno sconvolto entrambi. A dividerli, piuttosto, è stato ciò che ha preceduto il 7 ottobre e ciò che è avvenuto immediatamente dopo. A differenza del suo «ex amico», Beinart è consapevole che quell’aggressione era stata preceduta da decenni di occupazione israeliana e di discriminazione contro i palestinesi, così come si rende conto che la campagna militare israeliana contro la Striscia di Gaza in futuro porterà solo a maggiore violenza.

L’A. ritiene che la sua identità di ebreo sia sempre più compromessa dal trattamento che il governo israeliano riserva ai palestinesi. Si tratta di una presa di coscienza dolorosa, perché nel corso del XX secolo, e soprattutto dopo la Shoah, gli ebrei sono stati incoraggiati a riporre la loro fede nel sionismo e in Israele, che promettevano loro sicurezza in uno Stato ebraico. «Dalla distruzione del Secondo Tempio all’espulsione dalla Spagna e all’Olocausto – afferma l’A. –, gli ebrei hanno raccontato nuove storie per replicare agli orrori che abbiamo sopportato. Ora dobbiamo raccontare una nuova storia per rispondere all’orrore che ha perpetrato un Paese ebraico, con il sostegno di molti ebrei in tutto il mondo» (p. 10). La nuova narrazione è molto diversa da quelle antiche: «Abbiamo bisogno di una nuova storia, basata sull’uguaglianza piuttosto che sulla supremazia, perché quella attuale non mette in pericolo solo i palestinesi. Mette in pericolo noi» (ivi).

Questo libro si inserisce nella vasta biblioteca del pensiero ebraico contemporaneo. Per i lettori cattolici può rappresentare un affascinante incontro con tale pensiero in un momento di crisi del dialogo ebraico-cattolico, sessant’anni dopo la Nostra aetate. L’A., nonostante tutto, si permette la speranza: «Immaginate se questa storia di Palestina e Israele, che ora è una storia di orrore incredibile, di genocidio, di apartheid, fosse invece una storia di liberazione collettiva. In cuor mio, credo davvero che ebrei israeliani e palestinesi potrebbero vivere insieme in piena uguaglianza, con un genuino processo di riconciliazione e un pieno ritorno dei rifugiati, e che una tale giustizia storica scatenerebbe qualcosa di miracoloso per le persone in tutto il mondo. Riuscirò a vederlo realizzato? Non ne ho idea. Ma il sogno è questo» (ivi).

Beinart, come papa Francesco, attinge speranza dalla tradizione dell’Anno giubilare: «Essa non parla solo di Dio che ci libera dall’essere schiavi. Parla di Dio che ci libera dall’essere padroni. Quando descrive l’anno giubilare […], il libro del Levitico dichiara: “Proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti” (Lv 25,10)».

The post Being Jewish after the Destruction of Gaza: A Reckoning first appeared on La Civiltà Cattolica.


Nuova evangelizzazione del sociale



Questo libro offre al lettore un excursus sintetico sui principali documenti pontifici, successivi al magistero di san Giovanni Paolo II, con l’obiettivo di segnalare alcuni elementi utili all’aggiornamento del Direttorio Evangelizzare il sociale. Orientamenti e direttive per la pastorale sociale e del lavoro, elaborato dalla Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro nel 1992, per stimolare la pastorale sociale nelle comunità ecclesiali alla luce del Vangelo e della Dottrina sociale della Chiesa (DSC). Oggi, il Direttorio andrebbe ripensato e integrato, prendendo in considerazione gli spunti offerti dai documenti Caritas in veritate, Evangelii gaudium (EG), Laudato si’ e Fratelli tutti, nonché dall’esortazione apostolica Laudate Deum.

Attraverso questo saggio, suddiviso in 10 capitoli, mons. Mario Toso, vescovo di Faenza-Modigliana, permette al lettore di trovare nei documenti sociali della Chiesa uno sprone per ripensare l’impegno politico dei cattolici e «abbondanti stimoli nel considerare come i pontefici abbiano di fatto approfondito quel grembo spirituale, teologico, pastorale e culturale che è necessario per la rinascita della democrazia contemporanea» (p. 7).

Di fronte alla complessità delle sfide globali attuali, dal libro emerge l’urgente necessità di una nuova evangelizzazione del sociale, orientata alla realizzazione del bene comune, che possa aiutare il mondo a elaborare un nuovo pensiero e una nuova politica. Elemento essenziale di questa evangelizzazione è la DSC, che può stimolare i credenti a operare nella vita sociale, in modo che sia rispettata e promossa la dignità di ogni persona, a partire dai più deboli.

In modo chiaro e scorrevole, l’A. esemplifica poi il nesso tra evangelizzazione e DSC, senza la quale «è difficile cambiare profondamente il mondo, trasmettere i valori evangelici e incarnarli nelle istituzioni sociali e politiche, lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra» (p. 9). L’opera di evangelizzazione della Chiesa, infatti, trova uno strumento nella DSC, che sollecita una fede vissuta come servizio alla persona e alla società nei vari ambiti e a tutti i livelli (comunità ecclesiale, famiglia, scuola, imprese, amministrazione pubblica, politica). La fede è il frutto dell’incontro con Cristo, è partecipare alla sua opera di salvezza, perché in lui, redentore di tutti gli uomini senza distinzione alcuna, si realizza la misura perfetta dell’umanità fraterna, relazionale, sociale e solidale.

Partendo dalla Caritas in veritate, che si può considerare il manifesto della nuova evangelizzazione del sociale, l’A. si sofferma sulla consapevolezza di Benedetto XVI circa l’urgenza di un nuovo umanesimo per orientare l’attuale processo di globalizzazione verso il bene di tutti gli uomini. Prosegue analizzando l’apporto di papa Francesco, che pone a fondamento dell’evangelizzazione del sociale il fatto che il contenuto del Vangelo è sociale e ci insegna che nel fratello troviamo il prolungamento dell’Incarnazione per ciascuno di noi. Pertanto, la Chiesa «è missionaria per natura; così sgorga inevitabilmente da tale natura la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove» (EG 179).

La parte conclusiva del libro è dedicata alle difficoltà incontrate dal mondo cattolico nel concepire una partecipazione democratica più attiva, più «samaritana», che non escluda nessuno e sostenga i più deboli, perché «la democrazia rinascerà eticamente, culturalmente, se si incentrerà sempre più su un umanesimo trascendente e comunitario, bypassando un umanesimo transumano; se saprà valorizzare i più poveri» (p. 144). Questo impegno dei fedeli «si attua come risposta ad una vocazione umana e cristiana alla politica, per servire il bene comune, per dare risposte coerenti e durature alle attese dei cittadini, vivendo, giorno dopo giorno, quell’amore pieno di verità, “caritas in veritate”, che Cristo dona ad ogni credente tramite il suo spirito» (pp. 148 s).

The post Nuova evangelizzazione del sociale first appeared on La Civiltà Cattolica.


La Chiesa nelle case



Come vivevano le prime comunità cristiane? E la ricerca più recente sul cristianesimo dei primi tre secoli che cosa può dire ai credenti dei nostri giorni? A queste domande ha cercato di rispondere in questo libro Marie-Françoise Baslez, docente di Storia delle religioni antiche a Parigi, recentemente scomparsa. Una ricerca che attinge dagli studi patristici, dalle Scritture e da altre fonti testuali, nonché dall’archeologia.

L’A. propone un modo di leggere e di elaborare la documentazione disponibile che non tiene conto solo dei contenuti, ma anche delle tecniche e delle modalità di scrittura, in quanto «rivelatori di una pastorale in cui prevaleva la preoccupazione della comunicazione» (p. 9). In questo senso il libro ci propone una Chiesa delle origini vista a partire dalle modalità dell’evangelizzazione piuttosto che dalla sua struttura istituzionale e dottrinale.

La parola chiave che ci fa entrare in questo mondo antico è oîkos, il termine usato da Paolo, e da Luca negli Atti, per definire la «casa», il nucleo familiare che vive sotto lo stresso tetto e che è la prima identità della Chiesa. La Chiesa domestica costituisce il cuore del cristianesimo del I secolo, a cui può corrispondere una comunità che si identifica con un gruppo familiare plurigenerazionale (schiavi compresi), o l’edificio principale in cui i battezzati avevano modo di riunirsi, come nel caso di Filemone (cfr Fm 1,2), di Aquila e Prisca (cfr 1 Cor 16,19), o di Ninfa (cfr Col 4,15), a riprova che l’apostolato di Paolo non «mirava alle conversioni di massa, ma piuttosto alla fondazione di comunità stabili, anche se poco numerose» (p. 22).

La casa era il luogo dove si celebrava fraternamente la frazione del pane e si ascoltava la Parola. La realtà delle Chiese domestiche, inoltre, ridimensiona l’idea di una «Chiesa sotterranea» e consente all’A. di rileggere la dinamica presenza cristiana all’interno dell’Impero romano, nonostante le ostilità (circonstanziate e locali) e le persecuzioni (a partire dal 250).

Anche l’archeologia ha sfatato il mito delle catacombe come luoghi di raduno e di celebrazioni, come pure di nascondigli, mentre la necessità di dare degna sepoltura a tutti i battezzati, anche ai più poveri, ci rivela una Chiesa che dalla metà del II secolo è riconosciuta moralmente e giuridicamente, rappresentata dai suoi vescovi, in grado di «ricevere donazioni e di gestire beni collettivi come i terreni dei cosiddetti cimiteri» (p. 52).

Nel terzo capitolo, dedicato al ruolo della donna nella Chiesa dei primi tre secoli, l’A. ricorda la partecipazione di importanti figure femminili all’evangelizzazione dell’Oriente romano. Donne indipendenti anche economicamente, come Lidia e Febe: la prima, fondatrice di una Chiesa a dimensione familiare; la seconda, latrice della lettera ai Romani.

Un ruolo rilevante è quello delle donne del I secolo, che però gradatamente si è ridotto proprio con la progressiva scomparsa delle Chiese a dimensione familiare: «Nel terzo secolo, le cristiane uscirono di casa per recarsi alla casa comune, poi alla chiesa in un altro contesto di predicazione e di celebrazione che richiedeva la scorta del loro kyrios» (p. 76).

Il libro offre approfondimenti originali sulla questione della schiavitù, mettendo in evidenza la forza del Vangelo vissuto nel gruppo familiare cristiano per abbattere le discriminazioni, e sulla capacità delle Chiese antiche di «fare rete» sia per comunicare tra loro sia per esprimere solidarietà verso le comunità in difficoltà.

La parte finale del libro è dedicata al momento della svolta costantiniana, con la fine delle persecuzioni e il passaggio a una Chiesa «a misura di città», e non più «a dimensione familiare». Un passaggio tuttavia graduale, tenuto conto che da molte Chiese a dimensione familiare provenivano dinastie di vescovi, secondo «il principio di ereditarietà, che era la regola anche sotto l’Impero per le magistrature municipali» (p. 192). In questo senso, ancora nel IV secolo i vescovi perpetuavano la figura del padre di famiglia e capo del nucleo familiare. In seguito, un rischio di secolarizzazione «portò a promuovere il celibato dei vescovi, almeno per i vedovi» (p. 193).

The post La Chiesa nelle case first appeared on La Civiltà Cattolica.


Chiara Lubich e Chiara d’Assisi



Grande la forza di donne che da sempre simboleggiano l’incontro, l’ascolto, il mettersi in cammino, in risposta al Signore! I secoli trascorsi sembrerebbero additare un femminile non subalterno, che si pone in evidenza nelle vicende più significative della storia del cristianesimo, e la «bella, immortale, benefica fede», celebrata anche poeticamente nei suoi trionfi, emerge nella loro coraggiosa scelta di vita, nella libertà più gioiosa.

L’intento che anima le pagine di questo libro di Sabina Caligiani è di celebrare questi due personaggi femminili: esse sono «chiare» come il nome che portano, limpide e trasparenti come l’acqua, e luminose, in quella scia di luce che emanano e che percorre i secoli, fino a noi.

La povertà, male di ogni tempo, così tristemente attuale, è protagonista in queste pagine. È l’«altissima povertà» che fu voluta dalla santa d’Assisi come via di perfezione, vissuta e accolta nella carità verso gli ultimi e condivisa da Chiara Lubich, anche nella promozione di un’«economia di comunione» a favore del bene comune, in difesa dei diritti e della dignità delle persone più svantaggiate.

L’unità nella diversità, oggi invocata e auspicata in una fraternità che si allarghi fino a comprendere l’intera umanità e l’intera creazione, costituisce il punto di forza del libro, che collega in un fil rouge le due Chiare nel tempo e nello spazio. Esse riprendono lo spirito di san Francesco, che lo portava a vedere in ogni creatura dei fratelli e delle sorelle, doni, tutti, usciti dalle mani di Dio, Creatore buono.

Nel libro non si parla solo di donne, ma anche di uomini. Come santa Chiara è legata a san Francesco, anche Chiara Lubich si appoggia a Igino Giordani e accetta nel suo Movimento laici e sacerdoti. È questo un femminismo ben inteso: uomini e donne, nella reciprocità e nello scambio, possono costituire insieme una comunità umana intraprendente.

E un altro Francesco aleggia in queste pagine: è papa Francesco, che rende attuale il carisma del Santo umbro nell’attenzione costante alle povertà del nostro tempo e nel continuo richiamo alla pace. È interessante collegare il viaggio di Francesco d’Assisi presso il sultano musulmano con i dialoghi di papa Francesco con gli esponenti di tutte le religioni, per porre in luce la presenza dell’elemento comune a tutte le forme di spiritualità: l’apertura del divino che, pur declinato in modi diversi, può avviare un dialogo che consenta la pace fra i popoli.

E le due Chiare sono sorelle di pace; e di pace parla in questo libro in modo particolare Margaret Karram, cattolica, presidente dei Focolari. Palestinese, nata ad Haifa nello Stato di Israele, teatro di un conflitto che si perpetua nel tempo, la sua presenza nel Movimento può essere letta come una profezia, dove ciò che è distante può avvicinarsi, come lei stessa afferma, comprendendo molto bene quanto siano essenziali il dialogo e la pace. Gli esseri umani progrediscono nella convivenza senza conflitti e violenze.

In uno scenario di guerra, con il suo carico di distruzioni e di sofferenze inaudite, è fiorita la storia di Chiara Lubich; anche Chiara d’Assisi visse lotte fratricide che avvenivano nella nelle regioni dell’Italia centrale del suo tempo e ne subì i disagi insieme alla sua nobile famiglia.

Donna di pace e di speranza, Maria di Nazaret, animata dalla gioia del suo fiat, apre le prime pagine del libro e lo chiude con il suo Stabat Mater. La Madre, in piedi sotto la croce, accanto al Figlio «povero e abbandonato», diviene fondamentale punto di riferimento e di forza delle due Chiare nel vivere la fede con un’autentica speranza cristiana. Chiara Lubich scriveva: «Nel suo Stabat il mio stare, nel suo Stabat il mio andare…».

The post Chiara Lubich e Chiara d’Assisi first appeared on La Civiltà Cattolica.


Le relazioni non sono mai semplici (Gen 13,1-18)



Il libro costituisce la terza tappa del percorso di Abramo, dopo La bussola di Abramo (2021) e Abramo nella tempesta (2022). Gli aspetti molteplici della storia del patriarca vengono ripresi in chiave di esercizi spirituali, per guardare in sé stessi e rileggere la propria vicenda esistenziale.

Il tema di questa tappa concerne le relazioni di Abramo, la sua vita familiare, con le tensioni e difficoltà che la caratterizzano: in particolare con il padre Terach, la moglie Sara, il nipote Lot. Ognuno di loro ha aspettative differenti su questioni decisive della vita: la scelta di chi dovrà guidare il gruppo; l’incertezza nei confronti del futuro, senza una terra e, nel caso di Abramo, senza una discendenza propria; il conflitto a motivo dell’improvviso arricchimento, che rischia di avvelenare le relazioni; la difficile decisione di prendere le distanze dal clan familiare; le soluzioni a buon mercato per risolvere difficoltà che con il tempo si fanno sempre più pressanti…

Filo conduttore di queste molteplici situazioni è la relazione di Abramo con Dio e con le sue promesse. A differenza di Lot, il patriarca non si focalizza su certezze immediate, ma si apre alle promesse di Dio: egli avrà una discendenza più numerosa delle stelle del cielo e una terra che si estenderà ben oltre la valle del Giordano. Una promessa allettante, ma non facile da accogliere. La prospettiva della fede non elimina la precarietà, non offre garanzie a buon mercato, piuttosto «favorisce la prossimità col Signore, cioè la relazione personale con cui sempre più sta familiarizzando quel rapporto incarnato in un luogo fatto di terra, di strade, di polvere, di altari. Quel luogo preserva dall’egoismo e da sguardi avidi e permette di spingere lo sguardo lontano» (p. 186). Abramo comprende infatti che la promessa di Dio si compirà ben oltre la sua vita, perché ha in sé il futuro; non è frutto della propria iniziativa, ma richiede la propria collaborazione, fatta soprattutto di attesa e docilità per accogliere il dono.

Per questo la sua è una vicenda capace di parlare alle generazioni successive: la loro rilettura si concretizza nella stesura del testo, raccogliendo le varie tradizioni orali che finora ne avevano scandito la memoria. Dietro il racconto c’è sempre una comunità, che nell’esperienza della redazione si confronta con i problemi e le difficoltà del proprio tempo. Anch’essa infatti avverte il peso di una promessa che rischia sempre di smarrirsi nelle problematiche puntuali del momento, perché si distende al di là del presente. Inoltre, rileggendo le vicende di Abramo, la comunità scopre la propria identità, fatta di fragilità e ricchezza, sofferenza e desiderio, trovando luce per comprendere meglio il presente: «Com’è possibile che le difficoltà più insidiose spesso siano quelle ad intra? Come leggere gli squilibri interni alla comunità e i conflitti? Quali sono i criteri del discernimento? Che cosa rappresenta Lot? Come si attualizza nel cammino personale e comunitario?» (p. 215).

È un punto di arrivo del cammino di Abramo e del fedele delle generazioni successive, che nella preghiera è invitato a ripercorrere la propria vicenda di vita, la propria rete di relazioni con le sue problematiche, sviluppi e aperture resi possibili dalle promesse del Signore.

Ognuna delle tappe di questa ricca vicenda è oggetto di uno specifico esercizio, facendo il punto della situazione, senza avere fretta di passare oltre. Si inizia con una preghiera preliminare (nella quale si offrono al Signore le proprie intenzioni e azioni, perché siano conformi al suo servizio e alla sua lode); vengono poi la configurazione del tema (Primo passaggio introduttivo), la richiesta (Secondo passaggio introduttivo), la presentazione del tema (in tre punti, con domande di attualizzazione) e un colloquio finale con il Signore. La struttura del percorso prevede che si svolga un esercizio al giorno, non di più, perché lo scopo è interiorizzare e gustare la parola del Signore. L’esercizio poi è pensato in modo da poter essere svolto anche da chi si trova immerso nelle attività ordinarie.

La vicenda di Abramo, riletta e pregata nel silenzio, consente così di fare luce sulla propria vita, riconoscendovi le sfide e l’invito sempre attuale, rivolto dal Signore, ad alzare lo sguardo e allargare l’orizzonte.

The post Le relazioni non sono mai semplici (Gen 13,1-18) first appeared on La Civiltà Cattolica.


Ricordare il futuro



Vissuto fra il 1931 e il 2023, il greco John D. Zizioulas, metropolita di Pergamo, è stato un teologo di fama internazionale. Docente in varie università, ha rappresentato la Chiesa ortodossa in diversi consessi, in particolare in quelli finalizzati al dialogo ecumenico. Autore prolifico, ha lasciato numerosi scritti, tra i quali spicca per importanza questo ampio volume pubblicato postumo. Esso si apre con una Prefazione di papa Francesco, che fu amico personale del metropolita, del quale scrive: «Zizioulas evitava il pericolo di fissare lo sguardo su un passato che è capace di renderci prigionieri, prigionieri soprattutto dei vecchi errori, dei tentativi falliti, accumulando inutili cose negative, favorendo il radicamento della diffidenza» (pp. 7 s).

In effetti, come testimonia con chiarezza quest’opera, la mente e il cuore dell’A. erano rivolti verso il futuro e, di conseguenza, si comprende bene perché l’escatologia occupi un posto centrale e privilegiato nella sua profonda riflessione teologica. A questo proposito, afferma Maxim Vasiljević nella Presentazione: «Per gli ultimi dieci anni, durante le mie visite con i confratelli al metropolita John ad Atene, […] egli avrebbe sottolineato che il suo libro era scritto per quelli che hanno accettato il fatto della risurrezione di Cristo e sono interessati alle conseguenze “logiche” derivanti dall’accettazione di questo fatto: credo ut intelligam» (p. 10). È in tale contesto che si situa l’espressione molto cara a Zizioulas, secondo cui «il futuro precede il passato». Essa fa comprendere il motivo per cui, a suo giudizio, tutta la teologia cristiana si presenta come una grande ermeneutica della risurrezione.

Il libro, composto di cinque capitoli, preceduti da un’ampia Introduzione, contiene anche una ricca bibliografia, un indice scritturistico e un indice dei nomi. Zizioulas reinterpreta l’intera dottrina cristiana alla luce dell’ontologia escatologica, soffermandosi in particolare sulla creazione, sulla caduta e sul problema del male, sul giudizio finale e sul tempo liturgico. Tutte le verità del cristianesimo vengono guardate attraverso la lente dell’eschaton, e anche l’etica evangelica è orientata da e verso la dimensione escatologica. Ed è proprio nell’ambito morale che risalta appieno la novità del pensiero di Zizioulas, il quale sostiene che «l’essenza morale dell’escatologia è l’amore, perché l’escatologia riguarda la risurrezione, l’abolizione della morte» (p. 74). Egli cita le parole del filosofo francese Gabriel Marcel, secondo cui amare l’altro significa dirgli: «Tu non morirai».

La fede in Cristo chiede al credente di interpretare la vita alla luce del mistero pasquale, ossia di comprenderla tenendo presenti le conseguenze che l’escatologia produce nel presente. A questo proposito, afferma ancora papa Francesco: «L’eschaton bussa alla porta della nostra vita quotidiana, cerca la nostra collaborazione, scioglie le catene, libera la transizione verso una vita buona. Ed è al cuore del canone eucaristico che, per Zizioulas, la chiesa “fa memoria del futuro”, compiendo, come fa lui nei capitoli di questo libro, una dossologia a “Colui che viene”, una teologia che egli ha scritto in ginocchio, nell’attesa» (p. 8).

The post Ricordare il futuro first appeared on La Civiltà Cattolica.


La Civiltà Cattolica compie 175 anni



«La felice ricorrenza dei 175 anni di vita de “La Civiltà Cattolica” mi offre l’opportunità di rivolgere il beneaugurante saluto al collegio degli scrittori e alla comunità religiosa che collabora nelle diverse fasi della pubblicazione. Ringrazio con voi il Signore per questi anni durante i quali la rivista ha accompagnato tante generazioni, come una presenza amica, offrendo utili indicazioni per interpretare gli avvenimenti del mondo alla luce della fede». Inizia con le parole di papa Francesco la cerimonia di commemorazione del 175° anniversario de La Civiltà Cattolica svoltosi a Villa Malta il 1° aprile 2025, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Messaggio di Papa Francesco a La Civiltà Cattolica per il 175° anniversario della rivista

Nel suo messaggio inviato al direttore della rivista, p. Nuno da Silva Gonçalves S.I. – scritto dal Policlinico Gemelli il 17 marzo scorso –, il Papa ha voluto esprimere «vivo apprezzamento per il servizio intelligente che rendete alla Santa Sede e alla Chiesa, nello svolgimento di un’attività giornalistica che favorisce il rispetto rigoroso delle verità, dando spazio al confronto e al dialogo. Vi incoraggio a proseguire nel vostro lavoro con gioia, mediante il buon giornalismo, che non aderisce ad altro schieramento se non a quello del Vangelo, ascoltando tutte le voci e incarnando quella docile mitezza che fa bene al cuore».

Una «ricorrenza importante», ha sottolineato il direttore de La Civiltà Cattolica, per una rivista che ha attraversato epoche cruciali, dal Risorgimento ad oggi. «Papa Francesco per diverse volte ci ha comunicato il proprio pensiero sulla rivista. Incontrando il Collegio degli scrittori nel 2017 – ricorda Gonçalves – egli affermava: “Una rivista è davvero ‘cattolica’ solo se possiede lo sguardo di Cristo sul mondo, e se lo trasmette e lo testimonia”». Di pubblicazione che «aiuta a percepire e comprendere meglio i segni dei tempi» ha parlato p. Arturo Sosa S.I., Preposito generale della Compagnia di Gesù. Per P. Sosa, La Civiltà Cattolica «permette di entrare in dialogo con la società che vive un intenso e complesso cambiamento d’epoca, contribuendo, con molte altre persone e istituzioni, alla necessaria riconciliazione tra gli esseri umani di ogni classe e condizione, con l’ambiente per convertirlo in una casa comune ben curata e con il Signore che consegnò la sua vita perché tutti l’abbiamo in abbondanza».

youtube.com/embed/76hzqlEufFk?…

Nel suo intervento, il Segretario di Stato di Sua Santità, il cardinale Pietro Parolin, ha voluto ricordare come negli anni La Civiltà Cattolica abbia «accompagnato e accompagna da vicino l’insegnamento pontificio nelle sue varie forme, lo diffonde, lo interpreta e lo rende accessibile. E anche i Papi, in diversi modi, più o meno direttamente, hanno accompagnato la vita della rivista con delle richieste, con degli orientamenti e con dei suggerimenti». Un lungo percorso che ha attraversato anche passaggi storici nella vita della Chiesa, come il Concilio Vaticano II. «Per commemorare il quaderno 3000 della rivista San Paolo VI, che la conosceva bene, ha ricevuto in udienza il Collegio degli Scrittori il 14 giugno 1975 – ha ricordato Parolin -. Nel discorso pronunciato, egli sottolinea come La Civiltà Cattolica avesse partecipato da vicino al travaglio del secolo, interpretandone le correnti, indicandone i traviamenti, sceverandone gli elementi positivi nel rispetto degli uomini, sì, ma nel più grande e necessario rispetto della verità». Parolin cita anche San Giovanni Paolo II che, ricevendo gli scrittori de La Civiltà Cattolica il 5 aprile 1982, «ribadisce che, pur in una situazione di pluralismo ideologico e di dialogo, l’impegno della rivista deve rimanere anche quello di distinguere accuratamente tra verità ed errore, in modo da essere sempre formatrice di coscienze rette».
Foto: Christian Gennari - La Civiltà Cattolica Foto: Christian Gennari - La Civiltà Cattolica Foto: Christian Gennari - La Civiltà Cattolica Foto: Christian Gennari - La Civiltà Cattolica

Per il cardinale Parolin, «la Santa Sede non può che apprezzare e ringraziare la Compagnia di Gesù per questo impegno competente e generoso. La Civiltà Cattolica ha raccontato la vita ecclesiale e sociale, politica e culturale italiana e internazionale durante i 175 anni che oggi evochiamo. Le sue posizioni sono state di riferimento per molte generazioni di cattolici, ma anche i non cattolici l’hanno seguita e la seguono per essere aiutati a capire le priorità, le posizioni e le motivazioni della Chiesa. Abbiate sempre a cuore questo compito così importante di avvicinare dei mondi che tendono ad allontanarsi spesso perché non si conoscono o si conoscono male. La conoscenza reciproca è la base per la collaborazione in ciò che ci può accomunare, in particolare il rispetto per la dignità umana in tutte le circostanze e la promozione della giustizia e della pace». Infine, Parolin ha ricordato l’impegno chiesto dallo stesso papa Francesco alla rivista in più occasioni. «Continuate presenti nelle frontiere e nei crocevia, osate aprire nuove strade – ha concluso Parolin -. Non temete di navigare in mare aperto e cercate di scoprire e far conoscere segni di speranza in un mondo che ne ha tanto di bisogno».

Ad interrogarsi sul «segreto» della longevità de La Civiltà Cattolica è il prof. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Con un viaggio tra gli articoli e le figure storiche della rivista, nel suo intervento ha permesso di comprendere i cambiamenti che hanno accompagnato la pubblicazione dal 1850 ai nostri giorni. «Ma qual è il segreto della continuità e dell’attualità? Molto è stato detto, ma io direi che il primo punto di questo segreto, il primo aspetto, è nel soggetto: il Collegio degli scrittori, generazioni che cambiano, sensibilità diverse, tutti gesuiti, corresponsabili di quanto viene pubblicato, tanto che fino al ‘33 gli articoli non erano firmati. Il Collegio, eretto in Istituto pontificio da Pio IX, non è solo una redazione, ma è una comunità dedicata ad un’impresa».

Per Riccardi, il segreto è pure nella «geografia dei dichiarati riferimenti: Fede cattolica, Chiesa e Papa. L’autonomia di un gruppo pensante ne garantisce la vitalità. La vicinanza al papato lo radica nelle preoccupazioni e nelle visioni dei papi e lo rende un osservatorio che tra il XIX e il XXI secolo allarga il suo sguardo dall’Italia all’Europa, al mondo. Cambiano le forme di contatto tra le riviste i Papi ma questo resta riferimento primario».

La rivista, sottolinea Riccardi, «non è elitaria, anche se pensata e fondata sullo studio. La rivista è militante». E uno dei temi su cui è intervenuta molto è quello della pace. Secondo Riccardi, La Civiltà Cattolica «è voce del Papa sulla pace e la guerra. Con Benedetto XV nella Prima guerra mondiale, con Pio XII nella Seconda guerra mondiale, con articoli molto importanti, ma anche nella guerra in Iraq, quando le parole di Giovanni Paolo II contro quella guerra sembrarono edulcorate dai media cattolici italiani. La Civiltà Cattolica ha sempre riflesso l’assolutezza della visione di pace del Papa». Per il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, «La Civiltà Cattolica esprime un cristianesimo nella storia a confronto con i temi emergenti, ragionando senza paura, diceva un lettore de La Civiltà Cattolica, Antonio Gramsi, “in questo mondo grande terribile e complicato”. Un contributo che riscopriamo sempre più decisivo perché diceva Paolo VI, e vale ancora di più per il presente, il mondo soffre per mancanza di pensiero. Grazie allora ai padri de La Civiltà Cattolica che ci hanno aiutato a capire meglio questo mondo, ci hanno stimolato a pensare e a vivere una fede pensata».

Leggi i testi integrali degli interventi:

Messaggio di Papa Francesco a La Civiltà Cattolica

Introduzione del Direttore de La Civiltà Cattolica, p. Nuno da Silva Gonçalves S.I.

Intervento di P. Arturo Sosa S.I., Preposito Generale della Compagnia di Gesù

Intervento del Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità

The post La Civiltà Cattolica compie 175 anni first appeared on La Civiltà Cattolica.


Il mondo continua a riscaldarsi pericolosamente


(Foto di Kelly Sikkema su Unsplash)
Il 10 gennaio 2025 l’Organizzazione meteorologica mondiale ha pubblicato i dati ufficiali sulla temperatura per il 2024. Essi mostrano che l’anno scorso è stato quello più caldo mai registrato, superando il livello preindustriale di quasi 1,55°C[1]. Il 2024 ha suggellato peraltro la conclusione di un decennio di caldo senza precedenti, alimentato dalle attività umane, che ha portato a un aumento degli eventi meteorologici estremi, dando così la riprova di quanto le temperature attuali mettano sempre più a rischio la vita. Le inondazioni a Valencia (Spagna), in Emilia Romagna, nel Sahara, le devastanti tempeste in Florida (Stati Uniti), i tifoni nelle Filippine e la siccità in Amazzonia sono solo sei delle catastrofi avvenute nell’ultimo anno, che, secondo l’opinione della maggioranza ma non dell’unanimità degli studiosi, sono state aggravate dal cambiamento climatico, anch’esso un fenomeno non universalmente riconosciuto.

Il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che non è per nulla propenso al negazionismo e aveva già dichiarato che il 2024 avrebbe costituito una vera e propria lectio magistralis sulla distruzione climatica[2], di fronte a questi dati, ha sottolineato che, anche se in futuro probabilmente supereremo in alcuni anni il limite di 1,5°C fissato quasi un decennio fa dalla comunità internazionale nell’Accordo di Parigi, questo non significa che l’obiettivo a lungo termine non potrà essere raggiunto, ma piuttosto che, per tornare sulla buona strada, dovremo combattere una battaglia ancora più radicale. Le alte temperature del 2024 richiederanno azioni straordinarie sul clima nel 2025[3].

La crisi climatica ha evidenti implicazioni economiche: sta già provocando significative riduzioni del Pil delle economie in via di sviluppo. Il problema delle emissioni di gas serra dev’essere affrontato, in quanto è l’unica via per salvare l’economia globale, a breve e a lungo termine[4].

Dato che i livelli di gas serra continuano a toccare nuovi picchi massimi[5], in futuro ci attende un caldo ancora più torrido. Ogni anno del resto della nostra vita sarà il più caldo? Il 2024 finirà per essere stato uno degli anni più freddi di questo secolo, di cui non potremo più godere[6]? Stiamo andando verso un mondo sempre più inospitale, o possiamo invertire questa tendenza?

L’analisi che proponiamo qui trae spunto dalle diagnosi dei climatologi, da quelle degli economisti e dalla reazione della comunità politica internazionale. Alla fine presenteremo una riflessione ispirata dalla Dottrina sociale della Chiesa.

Esiste un verdetto scientifico sulla crisi climatica?


La frequenza e l’intensità con cui ai nostri giorni si verificano catastrofi naturali impongono l’evidenza di una oggettiva emergenza climatica. E si pone la questione di come siamo giunti a questo punto. A partire dalla Rivoluzione industriale di 250 anni fa, si è verificata un’emissione esorbitante di inquinamento e nella nostra atmosfera sono stati introdotti 2.400 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Inutile dire che proprio l’anidride carbonica contribuisce a mantenere caldo il nostro Pianeta, isolandoci dal freddo insopportabile dello spazio. Il problema è che quando se ne accumula una quantità eccessiva, la temperatura globale della Terra si innalza.

Quello che è davvero triste è che non possiamo appellarci all’ignoranza, poiché eravamo stati avvertiti[7]. Già nel 1856 Eunice Foote pubblicò uno studio sulla straordinaria capacità dell’anidride carbonica di assorbire calore; in esso giungeva alla conclusione che se fosse stata immessa nell’aria una quantità maggiore di CO2, si sarebbe verificato un aumento della temperatura. Questa fu la prima previsione del riscaldamento globale.

Alla fine del XIX secolo, Svante Arrhenius annunciò la sua scoperta secondo la quale ogni volta che il livello di anidride carbonica raddoppia, la temperatura aumenta di 4°C. Introdusse questa relazione essenziale: la sensibilità climatica. Nel 1956, lo scienziato Roger Revelle ideò l’espressione «riscaldamento globale» nel corso di una testimonianza al Congresso degli Stati Uniti, in cui affermò che l’aumento delle emissioni di carbonio avrebbe portato all’innalzamento dei livelli del mare e alla desertificazione.

Negli anni Settanta e Ottanta, si andò formando una comunità scientifica sul clima. Nel 1988 lo scienziato James Hansen fece una presentazione conclusiva alla Commissione per l’energia e le risorse naturali del Senato degli Stati Uniti: avvertì che il riscaldamento globale era già un dato di fatto e che senza dubbio era dovuto all’aumento delle emissioni di gas serra. Fu un momento cruciale: Hansen, che all’epoca lavorava alla Nasa, aveva portato la questione all’attenzione dell’opinione pubblica.

Il contributo dell’Onu


Immediata fu la reazione al massimo livello possibile, quello delle Nazioni Unite. In quello stesso anno l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente istituirono il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), con l’obiettivo di fornire ai responsabili politici valutazioni scientifiche periodiche sui cambiamenti climatici, sulle loro implicazioni e sui possibili rischi futuri, nonché di proporre opzioni di adattamento e mitigazione. Successivamente ratificato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Ipcc è l’organismo dell’Onu responsabile della valutazione scientifica relativa ai cambiamenti climatici. Fin dall’inizio della sua attività, nel 1988, ha redatto rapporti di valutazione che contribuiscono al lavoro della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che è il principale accordo internazionale su questa materia. Tali rapporti godono di una venerazione quasi biblica, tanto che nel 2007 l’Ipcc e l’ex vicepresidente degli Stati Uniti, Albert Arnold «Al» Gore Jr., hanno ricevuto il premio Nobel per la pace per il loro impegno sui cambiamenti climatici.

Il primo rapporto di valutazione Ipcc fu pubblicato nel 1990. I suoi autori prevedevano un aumento sensibile della temperatura globale e del livello del mare, se il mondo avesse continuato a comportarsi come stava facendo. Il tono delle relazioni successive si è fatto sempre più severo, richiedendo una risposta più urgente. Il rapporto più recente, il sesto, diffuso nel 2021, è considerato il più forte monito finora lanciato su quanto il cambiamento climatico sia importante, inevitabile e irreversibile[8].

Tuttavia, le sentenze dell’arbitro della climatologia per lo più rimangono inascoltate. Negli oltre trent’anni trascorsi tra il primo e l’ultimo rapporto, le emissioni totali di gas serra sono aumentate del 43%: da quasi 35 miliardi di tonnellate sono passate a più di 50. Il quinto rapporto di valutazione dell’Ipcc è stato pubblicato nel 2014, con l’intento di fornire dati sulla situazione climatica ai negoziati della Cop21, e ha rappresentato un contributo scientifico decisivo per il raggiungimento dell’Accordo di Parigi, con il quale 146 Paesi si sono impegnati a presentare piani di azione per ridurre le emissioni in modo che la temperatura non superi di oltre 1,5°C i livelli precedenti alla Rivoluzione industriale.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

Se i leader mondiali avessero dato retta a ciò che veniva indicato sin dal primo rapporto Ipcc, oggi vivremmo in un mondo liberato dai combustibili fossili, vale a dire in un Pianeta dotato di energie rinnovabili, in grado di controllare ed eliminare le emissioni di gas serra. Ma non è andata così. Non è stata intrapresa nessuna azione decisiva per affrontare quella che ormai è senza dubbio una situazione di emergenza. Come avverte il professor Joeri Rogelj dell’Imperial College di Londra, ogni frazione di grado (1,4°C; 1,5°C; 1,6°C) provoca danni sempre maggiori alle persone e agli ecosistemi, e questo sottolinea la continua necessità di consistenti tagli alle emissioni[9]. Un bambino nato nel 2020 sperimenterà, rispetto a uno nato nel 1960, un numero sette volte maggiore di ondate di calore, il doppio di siccità e il triplo di inondazioni e di mancati raccolti[10]. È forse necessario ricordare che la scienza salva le vite?

Un verdetto inappellabile?


A questo punto, una domanda diventa cruciale: si può sostenere che il cambiamento climatico contribuisca in modo decisivo all’intensità dei disastri che mietono vittime e distruggono opere e ambienti umani in tutto il mondo? In altri termini, in che misura questi fenomeni sono dovuti al riscaldamento globale, e in che misura sono il risultato di eventi meteorologici estremi che si sono sempre verificati?

Le tecniche scientifiche utilizzate per affrontare la questione, ormai ben consolidate, confluiscono sotto il nome complessivo di «scienza dell’attribuzione climatica». Infatti, un rapporto della World Weather Attribution[11] ha rilevato che il cambiamento climatico ha intensificato 26 dei 29 eventi meteorologici estremi presi in considerazione nel 2024, che hanno causato almeno 3.700 morti e milioni di persone sfollate[12]. I 744 studi di attribuzione raccolti dall’iniziativa del sito web Carbon Brief[13] puntano nella stessa direzione: i tre quarti delle analisi degli eventi meteorologici estremi hanno concluso che il riscaldamento globale li ha resi più gravi o più probabili[14]. Come esempio, citiamo una testimonianza recente: interpellata sui disastri causati dagli uragani Milton ed Helen in Florida alla fine del 2024, Deanne Criswell, direttrice della Federal Emergency Management Agency, ha dichiarato alla CBS che in passato i danni provocati dagli uragani erano causati principalmente dal vento, ma ora stiamo assistendo a molti più danni causati dall’acqua, e ciò è dovuto al riscaldamento delle acque del Golfo, che è una conseguenza del cambiamento climatico[15].

I risultati mostrano come la combustione di combustibili fossili abbia modificato il clima in modo così radicale che le ondate di calore colpiscono le comunità con una gravità e una frequenza mai viste durante l’intero sviluppo della civiltà umana negli ultimi 5.000 anni. È un mondo nuovo, un mondo che diventa sempre più pericoloso.

La scienza del clima è spesso ignorata e perfino negata


Non pochi cittadini ritengono che i climatologi non dovrebbero dipingere un quadro così fosco che li rende sgradevoli profeti di sventura. Ostentano l’indifferenza di chi, non direttamente colpito da una catastrofe, non si sente coinvolto dai pronunciamenti degli esperti. E c’è anche il rifiuto di chi mette in dubbio la loro competenza.

Secondo un recente sondaggio del Pew Research Center, solo un terzo degli statunitensi ritiene che gli scienziati del clima siano in grado di dimostrare in modo inconfutabile che il cambiamento climatico è già in atto e quali sono e saranno i suoi effetti[16]. Lisa J. Graumlich, paleoclimatologa e attuale presidente dell’American Geophysical Union, ha dichiarato che i risultati di queste indagini sono preoccupanti[17]. D’altra parte, il negazionismo ha i suoi seguaci nella classe politica[18].

Donald Trump, durante il suo precedente mandato, aveva ritirato il suo Paese dall’Accordo di Parigi. Nel giorno stesso del suo secondo insediamento, il 20 gennaio scorso, ha firmato un ordine esecutivo che intende sgravare gli Stati Uniti dal «peso indebito e iniquo che rappresenta l’Accordo di Parigi sul clima»[19]. Non si può non ricordare che gli Stati Uniti sono il secondo maggiore emettitore al mondo dell’inquinamento che sta riscaldando il Pianeta.

Economisti e cambiamenti climatici


Negli anni Novanta, gli economisti Martin Weitzman e William Nordhaus iniziarono a considerare i possibili effetti economici del cambiamento climatico. Secondo i loro calcoli, ogni grado di aumento della temperatura globale avrebbe ridotto il Pil mondiale dall’1 al 3%. Nordhaus, rievocando la celebre affermazione di Einstein secondo la quale Dio non gioca a dadi con l’universo, scrisse nel 1993: «L’umanità sta giocando a dadi con l’ambiente naturale attraverso una molteplicità di interventi: iniettando nell’atmosfera gas come i gas serra, o prodotti chimici che danneggiano lo strato di ozono; inducendo massicci cambiamenti nell’uso del suolo come la deforestazione; annientando moltitudini di specie nei loro habitat naturali; e accumulando abbastanza armi nucleari da distruggere sé stessa»[20].

Nordhaus, considerato il padre dell’economia del cambiamento climatico, si è impegnato continuamente per convincere i governi ad affrontare questo fatto fondamentale. La via preferenziale da lui individuata era quella dell’imposizione di una tassa sulle emissioni di carbonio. Nel 2015 egli ha pubblicato un articolo in cui si esprimeva a favore della creazione di un «club del clima» (Climate Club)[21]. La sua proposta, con cui si ipotizzava una coalizione di Paesi disposti ad adottare politiche più severe di mitigazione climatica, è stata ampiamente dibattuta dentro e fuori l’ambito degli economisti. Il «club del clima» introdurrebbe un prezzo minimo della tassa sul carbonio tra gli Stati membri e applicherebbe un dazio sulle importazioni di beni provenienti da Paesi che non fanno parte del club e che non hanno adottato un prezzo del carbonio simile. C’è chi sostiene che il meccanismo dell’Ue di aggiustamento del carbonio alle frontiere potrebbe trasformarsi in un «club del clima».

Quando, nel 2008, gli è stato conferito il premio Nobel per l’economia, si è pensato che il suo lavoro rigoroso avesse da tempo convinto la maggior parte degli esponenti della sua stessa professione[22]. Tuttavia, alcuni climatologi e commentatori sono rimasti delusi dalle sue argomentazioni favorevoli a tasse molto contenute sulle emissioni di carbonio[23]. Sebbene Nordhaus abbia sempre riconosciuto che il riscaldamento globale è una minaccia e abbia sostenuto l’imposizione di una Carbon Tax, questa sua idea è buona solo se il prezzo fissato è adeguato, ossia se la tassa sul carbonio è tale da incoraggiare le persone e le industrie a ridurre le emissioni senza dover ricorrere a una farraginosa burocrazia.

La difformità fra le stime dei climatologi e quelle degli economisti è sorprendente. I primi hanno lanciato l’allarme sulle conseguenze disastrose che potrebbero derivare dall’aumento delle temperature globali (essi si aspettano che il cambiamento climatico influenzi profondamente le nostre vite e i mezzi di sussistenza), mentre la narrazione dei macroeconomisti è meno allarmante, in quanto prevede che la crescita del riscaldamento globale provocherà modesti cali della produttività e della produzione.

È essenziale quantificare i danni economici del cambiamento climatico nel modo più accurato possibile. Infatti, se i danni climatici sono bassi, l’analisi costi-benefici standard arriverà alla conclusione che non vale la pena attuare politiche di decarbonizzazione costose. Invece, se i danni climatici sono elevati, questa analisi consiglierà maggiori sforzi per ridurre le emissioni di carbonio[24].

In realtà, Nordhaus ha rivisto e aggiornato le sue previsioni. Il suo lavoro più recente prevede una tassa ottimale sul carbonio di 31 dollari a tonnellata, tre volte superiore alla stima del 1992[25]. Egli ammette che, anche con una simile tassa sul carbonio, il Pianeta si dirigerebbe verso un riscaldamento di 3 gradi centigradi, ma non sembra riconoscere che un incremento di tale portata renderebbe gran parte del mondo irriconoscibile e vulnerabile alla fame di massa.

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

Di recente, i due economisti Adrien Bilal e Diego Känzig, perplessi di fronte a questa discordanza delle previsioni degli economisti rispetto a quelle dei climatologi, hanno riconsiderato l’approccio tradizionale alle proiezioni sui cambiamenti climatici, giungendo a una stima più preoccupante delle prospettive precedenti: a loro giudizio, i danni economici provocati dal cambiamento climatico sarebbero sei volte peggiori di quanto è stato stimato finora. Essi giungono alla conclusione che ogni ulteriore aumento di 1°C comporta un impatto del 12% sul Pil globale[26].

Un’ampia corrente di economisti individua la soluzione nel mercato. Per questo motivo, essi integrano la tassazione del carbonio con la possibilità di negoziare le quote di emissione assegnate, i crediti di carbonio (ma così, non si ritarda forse la soluzione?). E soprattutto sostengono che, poiché quasi ovunque l’energia pulita è ormai più economica di quella fossile, non c’è motivo di cedere al catastrofismo. Si ritiene pertanto che, se in origine il processo delle Cop era necessario per avviare la rivoluzione delle tecnologie pulite, oggi quella missione è stata realizzata con successo. La decarbonizzazione è irreversibile. Entro dicembre di quest’anno la Cina raggiungerà i 1.200 gigawatt (GW) di energia eolica e solare. Se manterrà lo stesso ritmo incalzante, triplicherà la sua capacità entro il 2030: una quota energetica più che sufficiente per rifornire l’intera economia cinese. Nel 2024 l’Ue ha prodotto più elettricità dall’energia solare che dal carbone[27].

L’inquinamento favorisce il cambiamento climatico


L’inquinamento è una delle variabili più importanti della sostenibilità ambientale, perché ha conseguenze negative in tutti i settori. Contribuisce al cambiamento climatico, altera gli ecosistemi, minaccia la biodiversità, peggiora la qualità delle risorse alimentari e influisce sulla salute delle persone. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stima che nel 2019 l’inquinamento atmosferico abbia causato 4,2 milioni di morti premature in tutto il mondo[28]. Anche nei singoli Paesi, l’onere economico dell’inquinamento associato alla mortalità prematura è notevole e, secondo la Banca Mondiale, può andare dal 5% al 14% del Pil nazionale[29].

L’inquinamento rallenta la crescita economica, aggrava la povertà e la disuguaglianza sia nelle aree urbane sia in quelle rurali, e contribuisce in modo significativo al cambiamento climatico. In fin dei conti, sono i poveri, che non possono permettersi di proteggersi dagli effetti negativi dell’inquinamento, a soffrirne di più. Essi non dispongono di sistemi igienico-sanitari e di acqua potabile. Il superamento di tali livelli di inquinamento è stato uno dei più importanti risultati dello sviluppo economico[30].

C’è una responsabilità differenziata rispetto al cambiamento climatico


Sommando i costi dei disastri ambientali e gli effetti inaccettabili sulla salute e sul capitale umano, nonché le perdite in termini di Pil che risultano associate all’inquinamento, non si può non riconoscere che si devono affrontare costi devastanti e che, d’altra parte, l’attribuzione delle responsabilità non va addossata a tutti indiscriminatamente. È innegabile che i Paesi industrializzati, fonte della maggior parte delle emissioni di gas serra passate e presenti, abbiano una responsabilità decisiva nella riduzione delle emissioni. Pertanto, queste nazioni hanno concordato, nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, di fornire un sostegno finanziario all’adozione di misure relative ai cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo[31]. Nella terza conferenza delle parti (nazioni) firmatarie di questa convenzione, la Cop3, il cosiddetto «Protocollo di Kyoto» (2005) ha imposto un onere più gravoso ai Paesi sviluppati, in base al principio di responsabilità comune ma differenziata e delle diverse capacità acclarate[32].

Il vertice di Baku, Cop29


In Azerbaigian, il gas sgorga dal sottosuolo e brucia naturalmente da così tanto tempo che il simbolo della nazione è una fiamma, ed essa è soprannominata «Terra del Fuoco». La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si è tenuta nella sua capitale, Baku, dall’11 al 22 novembre 2024[33].

Concentrandosi principalmente sui finanziamenti per il clima, la Cop29 ha raggiunto un accordo innovativo, che prevede di triplicare i finanziamenti per i Paesi in via di sviluppo, passando dal precedente obiettivo di 100 miliardi di dollari annui a 300 miliardi entro il 2035, e di garantire che tutti gli attori si impegnino a collaborare per aumentare i finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo, da fonti pubbliche e private, fino a raggiungere un importo di 1.300 miliardi di dollari annui entro il 2035[34].

Al termine della Conferenza, Simon Stiell, Segretario esecutivo delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici, ha espresso la sua soddisfazione perché si era raggiunto un accordo, paragonandolo a una polizza assicurativa per l’umanità. Ha sottolineato che, come ogni polizza assicurativa ha corso effettivo solo se i premi vengono pagati per intero e puntualmente, così le promesse sancite dall’accordo devono essere mantenute per proteggere miliardi di vite. Ha affermato inoltre che l’Accordo di Parigi delle Nazioni Unite sta dando buoni risultati, ma i governi devono accelerare ulteriormente il passo. Ha ricordato che senza questa cooperazione globale voluta dall’Onu ci dirigeremmo verso un riscaldamento globale di 5 gradi. L’Accordo di Parigi delle Nazioni Unite è il «salvavita» dell’umanità[35].

Non tutti i presenti, però, erano altrettanto ottimisti. I rappresentanti del blocco negoziale dei Paesi meno sviluppati hanno espresso un giudizio contrario: «Siamo indignati e profondamente rattristati dall’esito della Cop29. Ancora una volta, i Paesi maggiormente responsabili della crisi climatica ci hanno deluso. Questo non è solo un fallimento, ma è un tradimento. Di questo totale promesso, solo 300 miliardi di dollari proverranno direttamente dai bilanci dei Paesi sviluppati e da istituzioni finanziarie pubbliche come la Banca Mondiale. La stragrande maggioranza di questo denaro dovrebbe arrivare sotto forma di sovvenzioni e prestiti a basso tasso d’interesse, ma la formulazione poco rigorosa implica che anche questo impegno sia soggetto a restrizioni. Questo basso livello di finanziamenti significa morte e miseria per i nostri Paesi»[36].

Conclusioni


Nell’enciclica Laudato si’ (LS), di cui celebriamo quest’anno il 10° anniversario, papa Francesco ci offre una lettura teologica di tutta questa problematica. Egli osserva che i racconti della creazione contenuti nel libro della Genesi presentano insegnamenti profondi, mostrando che l’esistenza umana si fonda su tre relazioni fondamentali, strettamente connesse tra loro: quella con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra (cfr LS 66); e che tutto è correlato, e la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà verso gli altri (cfr LS 70). Una considerazione storica aiuta a comprendere questa affermazione fondamentale: si può forse negare che con la Rivoluzione industriale si sono innescati una dinamica di sfruttamento da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore e un comportamento predatorio e nocivo verso le risorse naturali?

Il Papa ricorda poi che Dio comandò a Israele di celebrare ogni settimo giorno come giorno di riposo, uno Shabbat (cfr Gen 2,2-3; Es 16,23; 20,10), e stabilì un anno sabbatico per Israele e la sua terra ogni sette anni (cfr Lv 25,1-4). In quell’anno la terra godeva di completo riposo: non si seminava, e si raccoglieva solo quanto era indispensabile per la sopravvivenza e l’ospitalità (cfr Lv 25,4-6). Infine, dopo sette settimane di anni, ossia 49 anni, si celebrava il Giubileo, anno di perdono universale e di «liberazione […] per tutti i suoi abitanti» (Lv 25,10). «Lo sviluppo di questa legislazione ha cercato di assicurare l’equilibrio e l’equità nelle relazioni dell’essere umano con gli altri e con la terra dove viveva e lavorava. Ma, allo stesso tempo, era un riconoscimento del fatto che il dono della terra con i suoi frutti appartiene a tutto il popolo» (LS 71).

Sono testi impossibili da applicare? Testi soltanto di vaga ispirazione, che non indicano la strada verso una riforma necessaria? In effetti, «la legge di Dio continua a proporre qualcosa che è sopra l’ordinaria amministrazione, sopra la gestione politica, la logica, le mere leggi dell’economia e lo stesso buon senso»[37].

Nella bolla d’indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025, il Papa invita le nazioni più ricche a condonare alle nazioni in via di sviluppo debiti che esse non saranno mai in grado di ripagare e che le stanno soffocando, e a prendere in considerazione che esiste un vero e proprio «debito ecologico» tra Nord e Sud, causato dall’uso sproporzionato delle risorse naturali storicamente effettuato da alcuni Paesi[38]. Il Segretario di Stato della Santa Sede, card. Pietro Parolin, ha presentato questa proposta alla Cop29[39]. Ma finora essa rimane inascoltata. Allo stesso tempo, gli aiuti finanziari sono ancora insufficienti e con l’avvento della nuova amministrazione a Washington il mondo perde un importante finanziatore. Questo secondo ritiro degli Stati Uniti comprometterà l’Accordo di Parigi sul clima? Lo scopriremo presto.

Il nostro mondo è malato. Ma quale migliore opportunità potrebbe esserci per creare un’economia più equa? Dobbiamo cominciare a far sì che i Paesi che si sono arricchiti sfruttando il Pianeta offrano ai Paesi poveri, principali vittime del cambiamento climatico, l’opportunità di emanciparsi dalla propria miseria attraverso uno sviluppo sostenibile. Occorre promuovere un’economia più equa e più ecologica, orientata al bene comune. Ciò richiede una radicale conversione ecologica dell’economia e della società. Senza un salto di qualità nella coscienza collettiva e una reale consapevolezza del limite, divoreremo le risorse della Terra, innescando crescenti e devastanti disuguaglianze sociali e molti conflitti (anche armati).

Concludiamo l’articolo citando una strofa del Salmo 68, in cui si loda la sapienza che viene dall’alto: «Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero, o Dio» (Sal 68,10-11).

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] Cfr UN, «WMO: il 2024 sarà l’anno più caldo mai registrato», in tinyurl.com/2s45ru48/, 10 gennaio 2025.

[2] Cfr Id., «In Solidarity for a Green World», in news.un.org/en/story/2024/
11/1156831, 12 novembre 2024; F. Harvey – D. Carrington – A. Niranjan – D. Noor, «This year has been masterclass in human destruction, UN chief tells Cop29», in The Guardian (tinyurl.com/5n89wyeb), 12 novembre 2024.

[3] Cfr UN, «Secretary-General’s Statement on Official Confirmation of 2024 as the Hottest Year», in tinyurl.com/Kpu9fzxb/, 10 gennaio 2025.

[4] Cfr Id., «“Worsening Climate Impacts Will Put Inflation on Steroids Unless Every Country Can Take Bolder Climate Action”: Simon Stiell Tells World Leaders», in tinyurl.com/yjaywh26/, 12 novembre 2024.

[5] Cfr «Fossil fuel CO2 emissions increase again in 2024», in Global Carbon Project (globalcarbonbudget.org/fossil-fuel-co2-emissions-increase-again-in-2024), 13 novembre 2024.

[6] Così ritiene il professor Andrew Dessler, climatologo della Texas A&M University negli Stati Uniti: cfr tinyurl.com/syfcrd4z

[7] Cfr B. McGuire, Hothouse Earth: an Inhabitant’s Guide, London, Icon Books, 2022, 1-16.

[8] Cfr IPCC, Sixth Assessment Report, 2021/23, in https://www.ipcc.ch/assessment-
report/ar6

[9] Cfr L. Butler, «“The next 10 years are critical” – Dr Rogelj, IPCC 1.5°C Special Report author», in Imperial (imperial.ac.uk/news/187755/the…), 28 agosto 2018.

[10] Cfr B. McGuire, Hothouse Earth…, cit., XV-XVI.

[11] La World Weather Attribution (WWA; sito: worldweatherattribution.org/fe…) è una rete accademica collaborativa che fornisce stime riguardanti l’impatto del cambiamento climatico sugli eventi meteorologici estremi. È stata fondata nel 2014. Vi collaborano l’Imperial College di Londra, il Royal Netherlands Meteorological Institute, il Laboratoire des sciences du climat et de l’environnement, la Princeton University, l’US National Center for Atmospheric Research, l’ETH di Zurigo, l’IIT di Delhi e gli specialisti dell’impatto climatico del Red Cross/Red Crescent Climate Centre (Centro climatico della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa).

[12] Cfr WWA, «When Risks Become Reality: Extreme Weather In 2024», in tinyurl.com/wxue2wwn/, 27 dicembre 2024.

[13] Carbon Brief è un sito web, con sede nel Regno Unito, che tratta gli ultimi sviluppi in materia di climatologia, politica climatica ed energetica; è finanziato dall’European Climate Foundation.

[14] Cfr R. Mc Sweeney – A. Tandon, «Mapped: How climate change affects extreme weather around the world», in interactive.carbonbrief.org/attribution-studies/index.html/, 13 novembre 2024.

[15] Cfr «Transcript: FEMA administrator Deanne Criswell on “Face the Nation with Margaret Brennan”, Sept. 29, 2024», in CBS News (tinyurl.com/ymsx79ae), 29 settembre 2024.

[16] Cfr A. Tyson – B. Kennedy, «Public Trust in Scientists and Views on Their Role in Policymaking», in Pew Research Center (tinyurl.com/38h4ysnf), 14 novembre 2024.

[17] Cfr AGU24, «A Message From AGU President Lisa Graumlich», in tinyurl.com/2ssnrcts/, 9 dicembre 2024.

[18] Cfr O. Milman, «Anxious scientists brace for Trump’s climate denialism: “We have a target on our backs”», in The Guardian (theguardian.com/us-news/2024/d…), 15 dicembre 2024.

[19] Cfr «Putting America First in International Environmental Agreements: Executive Order», in tinyurl.com/5n7nz7b7/, 20 gennaio 2025.

[20] W. Nordhaus, «Reflections on the Economics of Climate Change», in Journal of Economic Perspectives 7 (1993/4) 11; 15.

[21] Cfr Id., «Climate Clubs: Overcoming Free-Riding in International Climate Policy», in American Economic Review 105 (2015/4) 1339-1370.

[22] Cfr B. Appelbaum, «2018 Nobel in Economics Is Awarded to William Nordhaus and Paul Romer», in The New York Times (nytimes.com/2018/10/08/busines…), 8 dicembre 2018.

[23] Cfr E. Linden, «The economics Nobel went to a guy who enabled climate change denial and delay», in Los Angeles Times (tinyurl.com/h733zty8), 25 ottobre 2018.

[24] Cfr E. O’Donnell, «Climate Change’s Crippling Costs», in Harvard Magazine (harvardmagazine.com/2024/09/ha…), settembre-ottobre 2024.

[25] Cfr W. Nordhaus, «Revisiting the social cost of carbon», in PNAS 114 (2017/7) 1518-1523 (pnas.org/doi/10.1073/pnas.1609…).

[26] Cfr A. Bial – D. R. Känzig, «The Macroeconomic Impact Of Climate Change: Global Vs. Local Temperature», in National Bureau Of Economic Research Working Paper 32450 (nber.org/papers/w32450), maggio 2024.

[27] Cfr C. Rosslowe – B. Petrovich, «European Electricity Review 2025», in ember-energy.org/latest-insights/european-electricity-review-2025/, 23 gennaio 2025.

[28] Cfr WHO, «Ambient (outdoor) air pollution», in tinyurl.com/3p945xcy/, 24 ottobre 2024.

[29] Cfr WWG, «Pollution», in worldbank.org/en/topic/polluti…

[30] Cfr W. Beckerman, «Economic growth and the environment: Whose growth? Whose environment?», in World Development 20 (1992/4) 481-496.

[31] Cfr UN, «What is the United Nations Framework Convention on Climate Change?», in tinyurl.com/3395ddx8

[32] Cfr Id., «What is the Kyoto Protocol?», in unfccc.int/es/kyoto_protocol

[33] Cfr Id., «UN Climate Change Conference Baku – November 2024», in unfccc.int/cop29

[34] Cfr Id., «COP29 UN Climate Conference Agrees to Triple Finance to Developing Countries, Protecting Lives and Livelihoods», in tinyurl.com/3eedz87u

[35] Cfr Id., «“This New Finance Goal is an Insurance Policy for Humanity”: Simon Stiell at Close of COP29», in tinyurl.com/59hrvya3, 24 novembre 2024.

[36] F. Harvey, «Backroom deals and betrayal: how Cop29’s late $300bn deal left nobody happy», in The Guardian (theguardian.com/profile/fiona-…), 26 novembre 2024.

[37] G. Ravasi, Il significato del Giubileo. L’anno santo dalla Bibbia ai nostri giorni, Bologna, EDB, 2015, Edizione digitale Kindle Amazon, 20.

[38] Cfr Francesco, Bolla Spes non confundit, n. 16.

[39] Cfr S. Cernuzio, «Cop29, il Papa: basta ritardi e indifferenza. Cancellare il debito dei Paesi poveri», in Vatican News (tinyurl.com/3zesbxeb), 13 novembre 2024.

The post Il mondo continua a riscaldarsi pericolosamente first appeared on La Civiltà Cattolica.


Social network e salute mentale



Immaginate che un genitore decida di consegnare le chiavi di una Ferrari al proprio bambino. A parte il costo, è difficile pensare che a un adulto ragionevole venga solamente il pensiero di una scelta così irresponsabile. Eppure i pericoli ai quali un bambino è esposto quando gli viene dato uno smartphone non sono meno gravi, anche se meno eclatanti.

Lo sanno molto bene coloro che li hanno progettati e realizzati: i creatori di social network, degli iPhone e smartphone e i dirigenti delle piattaforme della Silicon Valley (eBay, Google, Apple, Yahoo, Facebook, Hewlett-Packard ecc.) sono tutti concordi nell’imporre precisi limiti ai propri figli, anche se questo può complicare la loro vita o renderli impopolari. Le loro scelte mandano un messaggio pressoché identico: i social non sono fatti per i bambini.

Jaron Lanier, che ha progettato startup acquisite in seguito da Google, Adobe e Oracle, riprende le riflessioni pionieristiche di Nicholas Carr e presenta 10 motivi per fare a meno dei social media (non di internet o dello smartphone), perché manipolano l’attenzione e il comportamento e sono tossici per gli utenti, impedendo loro di condurre una vita più serena e appagante[1].

Steve Jobs ha vietato l’uso di iPhone e iPad alle proprie figlie; lo stesso ha fatto il suo successore alla guida di Apple, Tim Cook, nei confronti dei propri nipoti. Bill Gates, oltre a fissare per i figli un’età minima (14 anni), ha stabilito che potevano usare il cellulare (non i social) per una precisa quantità di tempo al giorno (30 minuti). Chris Anderson, ex direttore di Wired e ora amministratore delegato di 3D Robotics, ha imposto il limite inderogabile di 16 anni, senza possibilità di trattative in merito, anche a costo di passare per «fascista». Lo stesso ha fatto Sundar Pichai, amministratore delegato di Alphabet e Google. Satya Nadella, amministratore delegato di Microsoft, controlla scrupolosamente i dispositivi elettronici dei propri figli; Susan Wojcicki, ex CEO di YouTube, ne ha concesso l’uso ai figli solo quando fossero stati in grado di condurre autonomamente una vita sociale. Il cofondatore di Twitter, Blogger e Medium, Evan Williams, ha scelto di regalare ai figli libri invece dei cellulari.

La maggior parte di loro inoltre consente di usare il computer per motivi strettamente scolastici: nessuno schermo è ammesso in camera da letto, e a tavola tutto è rigorosamente spento, per fare conversazione. Le scuole frequentate dai loro figli non prevedono l’utilizzo del digitale, ma i più classici carta, penna, lavagna e gesso. E, ovviamente, niente tablet o ebook, ma il classico libro cartaceo, che, tra l’altro, negli Stati Uniti è sempre più richiesto dagli studenti universitari che tengono alla media e alla qualità dell’apprendimento[2].

È impressionante notare questa convergenza di vedute e scelte da parte di persone così diverse tra loro per un uso salutare dei gadget elettronici. Quelli che hanno creato il web, evidentemente ne conoscono bene anche le insidie. Specie per i più piccoli. E le ricerche condotte in merito danno loro ampiamente ragione.

L’insidia dei social in termini di salute psichica è stata mostrata chiaramente dal film-documentario The Social Dilemma, presentato il 26 gennaio 2020 al Sundance Film Festival. La qualità del prodotto risiede soprattutto nelle numerose interviste a coloro che, a vario titolo, hanno lavorato nelle multinazionali della Silicon Valley e in seguito se ne sono allontanati (Frederik Bolayons, Mia Kalifa, Alfred Nzani, Snoop Dog, Shoshana Zuboff, Travis Scott, Jaron Lanier, Anna Lembke e Sophia Hammons). Anche in questo caso, pur nella diversità degli incarichi e delle piattaforme di provenienza, emerge una comune preoccupazione: si sta affermando una vera e propria oligarchia invisibile, capace di condizionare in maniera subdola il consenso, unita alla mancanza di una regolamentazione giuridica da parte delle istituzioni[3].

Chi si è occupato a fondo di questa problematica ha evidenziato un ulteriore aspetto inquietante, che si diffonde sempre più tra i giovanissimi: il legame tra frequentazione dei social network e fragilità mentale. Lo psicologo Jonathan Haidt ha intitolato significativamente la sua indagine – con la quale ha vinto il Goodreads Choice Award 2024, nella categoria NonfictionLa generazione ansiosa, riferendosi in particolare alla cosiddetta «generazione Z», cioè ai nati tra il 1995 e il 2005, che hanno avuto accesso fin dalla più tenera età ai social.

Quello che fino ad alcuni anni fa poteva sembrare il solito allarmismo degli «apocalittici» nei confronti degli «integrati» (per riprendere il celebre binomio coniato da Umberto Eco), ovvero di coloro che passano per detrattori delle novità, è ora diventato niente più che una triste constatazione: l’utilizzo dei social network comporta un notevole peggioramento della salute psichica, specie tra i bambini e gli adolescenti.

Le conseguenze più rilevanti


Si è già avuto modo di notare quanto internet abbia favorito la diffusione della pornografia online, con conseguenze negative per la concezione della sessualità, e in particolare della donna[4]. La ricerca di Haidt si concentra piuttosto su un fenomeno apparentemente più innocuo, come appunto sono i social network. Essi, nella loro varietà, sono accomunati da alcune caratteristiche principali. Anzitutto, la possibilità di creare un profilo personale (inserendo testi, immagini, musica, filmati), visibile ad altri, che può essere modificato a piacere. Lo scambio e l’interattività con altri utenti, non necessariamente scelti dall’autore del profilo, e la tendenza a postare commenti, valutazioni e reazioni possono prendere un tempo potenzialmente infinito e assumere modalità ambigue (identità false, studiate a tavolino, tendenza all’inganno e all’autoinganno ecc.).

Haidt rileva in particolare quattro gravi danni legati a questa frequentazione continua.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

1) Deprivazione sociale. Il sano sviluppo dei bambini richiede che essi giochino all’aria aperta insieme ad altri coetanei. I dati circa le attività ricreative fuori casa mostrano un improvviso calo dopo il 2013 (senza differenze significative rispetto al periodo di lockdown per il Covid-19), e si manifestano nello stesso tempo difficoltà relazionali e di maturazione così rilevanti da ipotizzare un evidente collegamento tra disagio psichico e frequentazione dei social: «I ragazzi iGen [= la generazione sviluppatasi con l’iphone] crescono con più lentezza rispetto alle generazioni precedenti: i diciottenni di oggi si comportano come i quindicenni di un tempo, i tredicenni come bambini di dieci. Fisicamente i teenager dei giorni nostri non sono mai stati meglio, ma sul versante della salute mentale sono molto più vulnerabili»[5].

Anche quando i ragazzi escono di casa, la loro attenzione e capacità di interazione è costantemente rubata dalle notifiche o dai feed che si continuano a visionare e impediscono un reale cambio di registro. Essi in tal modo sono isolati anche quando si trovano insieme: «Abbiamo amicizie superficiali – confida uno studente canadese – e relazioni superficiali inutili. Spesso arrivo presto a lezione per ritrovarmi in una stanza piena di trenta e più studenti che stanno in assoluto silenzio, assorbiti dal loro smartphone […]. Questo porta a un isolamento ancora maggiore e a un indebolimento della propria identità e dell’autostima. Lo so, perché l’ho vissuto in prima persona»[6].

2) Privazione del sonno. Contrariamente a quanto è stato notato da Jean Twenge nel brano sopra riportato, vi sono conseguenze nocive anche per la salute fisica. La luminosità dello schermo, divenuto più ampio con gli ultimi modelli, può causare problemi anche gravi all’umore e alla vista, specialmente se lo si usa di notte. In tal modo infatti si alterano i ritmi circadiani (la luce dello schermo manda al cervello il messaggio che si è nel periodo di veglia), rendendo più difficili il sonno e la concentrazione (con ricadute sul rendimento scolastico) e favorendo l’insorgere precoce della cataratta e della maculopatia. Per i bambini il rischio è particolarmente grave, perché il loro occhio assorbe maggiormente la luce rispetto a quello dell’adulto. La privazione del sonno incide sulla salute mentale e comporta gravi conseguenze psicologiche, come il deficit di attenzione e di concentrazione, bassa stima di sé, ansia, irritabilità, depressione, tendenze suicidarie. Come riscontro, si è constatato che, quando si prova a spegnere ogni apparecchiatura elettronica dopo le nove di sera, il sonno ne guadagna e si ottiene una migliore prestazione intellettuale. È quanto emerge da una serie di 36 studi sul legame tra l’uso dei social e la malattia mentale[7].

3) Frammentazione dell’attenzione. L’abitudine al multitasking rende più fragile e discontinua la capacità di concentrarsi, soprattutto quando si devono eseguire compiti impegnativi e non immediatamente gratificanti. È come se il pacchetto di attenzione a propria disposizione venisse suddiviso in parti sempre più numerose e sottili, dando una continua sensazione di essere altrove: lo si capisce con facilità quando, ad esempio, si parla al telefono con qualcuno che sta facendo altro. Cimentarsi in molte attività contemporaneamente non rende più efficienti, ma porta a fare male sempre più cose.

I multitaskers stranamente presentano maggiori difficoltà a passare da un’attività all’altra, mentre questa dovrebbe essere la loro specialità e senza che ciò vada a vantaggio di altre capacità, soprattutto la memorizzazione, che richiede raccoglimento, concentrazione, lentezza e assenza di distrazioni: «I bambini che hanno trascorso più di due ore al giorno a guardare uno schermo hanno ottenuto punteggi inferiori nei test di intelligenza emotiva e intellettuale. La cosa più inquietante è che, durante i vari studi, si è scoperto che il cervello dei bambini che trascorrono molto tempo sugli schermi è diverso. In alcuni si è manifestato un assottigliamento prematuro della corteccia cerebrale. Un altro studio ha trovato un’associazione tra il tempo passato davanti allo schermo e la depressione»[8]. Da qui anche il preoccupante aumento della sindrome di disturbo dell’attenzione (Adhd), che nell’ultimo decennio è diventata una vera e propria epidemia nel mondo anglosassone[9].

Ciononostante, la tendenza al multitasking appare sempre più diffusa a tutte le età, con gravi ricadute nell’ambito scolastico e lavorativo. In una lettera aperta alla Apple del 6 gennaio 2018, la JANA Partners LLC (una ditta specializzata negli investimenti su eventi) e il California State Teachers’ Retirement System (l’ente governativo che offre assistenza pensionistica agli insegnanti della California), detentori di circa due miliardi di dollari in azioni Apple, riportavano i dati di un’indagine compiuta dal Center on Media and Child Health e dall’Alberta University su 2.300 insegnanti di scuole medie e superiori. Si notava in particolare come, nel corso di 3-5 anni dall’utilizzo in classe delle tecnologie digitali, la maggior parte degli insegnanti (67%) fosse preoccupata della crescente incapacità degli studenti (75%) a svolgere con profitto un compito assegnato. Inoltre, il 90% degli insegnanti riscontrava negli studenti l’aumento crescente (86%) di problematiche legate alla gestione delle emozioni a causa dell’uso delle molteplici finestre offerte dai social network. La lettera faceva pure riferimento al saggio di Twenge sull’incremento di depressioni e rischi suicidari (35%) da parte di chi trascorreva una media di tre ore al giorno su dispositivi elettronici rispetto a chi vi trascorreva un’ora. Quando la media era di cinque ore, la percentuale saliva al 71%. A ciò si aggiungevano gravi conseguenze per la salute, come insonnia, obesità, scoliosi e diabete[10].

4) La dipendenza. A partire dal 2009 Facebook ha introdotto la possibilità di inserire commenti (like), ben presto imitato dagli altri network. Questa innovazione si rifà alle ricerche di René Girard sulla tendenza imitativa presente negli esseri umani, che di solito si manifesta in una modalità triangolare: il soggetto che desidera, l’oggetto desiderato e il mediatore, il modello attraverso il quale lo si vede rappresentato, come in uno specchio, che suscita il desiderio di imitarlo o di contrapporsi a esso. Secondo Girard, l’azione umana trova quasi sempre la sua radice nel desiderio mimetico, un desiderio appunto indotto da altri. Lo si è visto in maniera evidente proprio dall’introduzione dei like, che ha favorito il cosiddetto «effetto gregge», la tendenza a postare commenti, positivi o negativi, perché altri lo hanno fatto. In questo senso Girard è stato chiamato «il padrino dei like», e le sue teorie sono state riprese e applicate al mondo dei social da un suo studente, Peter Thiel, il quale ha previsto che piattaforme come Facebook avrebbero avuto in breve tempo un grande successo proprio grazie al desiderio imitativo di visionare qualcosa semplicemente perché altri lo fanno[11].

Ma il meccanismo imitativo genera anche aggressività e invidia nei confronti dell’altro, incrementando le derive distruttive, che trovano una maggiore facilità di attuazione grazie all’anonimato, all’invisibilità e alla mancanza dei freni inibitori che caratterizzano i social e li differenziano dalle relazioni faccia a faccia, proprie della vita offline.

Quanto la spinta imitativa possa portare a conseguenze distruttive lo dimostra la catena di suicidi legati al sito Ask.fm – abbreviazione di Ask for me, creato in Lituania nel 2010, sul modello del sito statunitense Formspring –, basato sulla libera associazione di domande e risposte espresse in maniera del tutto anonima[12].

Ask.fm è solo un esempio, uno tra le migliaia di siti che pullulano nella rete e sono frequentati con troppa facilità da bambini e adolescenti, i quali entrano senza aiuto e protezione in un mondo troppo grande e complesso per essere gestito da loro con responsabilità, dal momento che si trovano in una fascia di età in cui si tende ad agire prima di pensare, spinti dall’emozione o dalla pressione del momento. Nell’età dello sviluppo, l’essere umano è guidato dalle emozioni in maniera molto più intensa dell’adulto, e questo, in mancanza di adeguati limiti e capacità di autocontrollo – funzioni proprie della neocorteccia frontale matura –, lo rende molto vulnerabile nei confronti della mole di messaggi e commenti che giungono in maniera massiccia sullo schermo del cellulare.

Una vita consacrata allo schermo


Ormai quasi tutte le app inseriscono espedienti di vario tipo per catturare l’attenzione e la curiosità dell’utente, in modo da prolungare il più possibile il tempo dedicato alla navigazione e guadagnare sul trattamento dei dati e sulla pubblicità. È facile immaginare l’effetto che tutto ciò possa avere su chi ha minore forza di volontà, come i bambini (gran parte di loro fa uso dello smartphone già a 5-6 anni di età). D’altronde, gli stessi ragazzi non di rado lamentano la difficoltà di staccare lo sguardo dallo schermo, perché incentivati a trascorrervi sempre più tempo, come se esso fosse per loro una sorta di calamita.

Un bambino tra gli 8 e i 12 anni trascorre sullo schermo (smartphone, tablet, console di gioco, Tv e computer) circa 4/6 ore al giorno; un adolescente (13-18 anni) fino a 9 ore, cioè più della durata di un lavoro a tempo pieno. Inoltre va notato che la frequentazione è maggiore nella popolazione a basso reddito: una proporzione analoga a quanto si riscontra nel rapporto con il cibo. L’effetto finale è simile a quello di guidare su un’autostrada piena di invitanti deviazioni, con offerte di ogni tipo che stimolano la curiosità e la voglia di non perdere «l’occasione»[13].

Nir Eyal, che ha lavorato per anni nella pubblicità e nella progettazione di videogiochi, ha chiamato questa tecnica «l’effetto gancio» (Hooked) per adescare clienti, una serie di possibili distrazioni più o meno gratificanti: può trattarsi di una notifica, una news, un commento su ciò che si è postato, tutti «ganci» particolarmente appetibili per un ragazzo. Così la maggior parte del tempo di veglia (e del sonno) viene dedicata alla navigazione. Anche se non tutti cadono in una vera e propria dipendenza, si tratta di una grave forma di manipolazione della volontà e del consenso di un minore[14].

La whistleblower Frances Haugen, che ha lavorato nel Civic Integrity Department di Facebook, nel 2021 ha pubblicato migliaia di documenti che mostrano l’uso delle tecniche Hooked da parte di Facebook per indurre ragazzi e adolescenti a scegliere Instagram (acquistato nel 2012 da Facebook per un miliardo di dollari). Inoltre, dopo un’inchiesta del Wall Street Journal, Facebook ha deciso di sospendere il progetto chiamato «Instagram Kids», rivolto ai bambini dai 4 ai 12 anni[15].

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

La dipendenza da smartphone non è meno devastante di altri tipi di dipendenze; anch’essa infatti mostra i sintomi propri dell’astinenza (ansia, irritabilità, insonnia, tristezza). Anna Lembke, ricercatrice alla Stanford University, nel suo studio sulle nuove dipendenze tra gli adolescenti fa notare che «lo smartphone è il moderno ago ipodermico, che inietta dopamina digitale ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette per una generazione connessa»[16].

Siamo quindi di fronte a un reato? Chi produce e spaccia droga viene incarcerato e processato; i creatori di social network, al contrario, pur avendo consapevolmente creato app che generano dipendenza al solo scopo di ottenere profitto, continuano indisturbati la loro attività, senza che le autorità pubbliche esercitino alcun controllo su di loro. Soltanto quando alcune notizie diventano di dominio pubblico, ci si decide a intervenire, come è accaduto nel 2018 a proposito dello scandalo di Cambridge Analytica.

Il problema, come si può capire, oltre che educativo, è anche politico. Spesso purtroppo il grande assente in questo immenso scenario è proprio l’istituzione pubblica. Lo si è visto in occasione dell’inchiesta su Cambridge Analytica: la cosa più grave di quella vicenda non è che Facebook abbia consentito di attingere ai dati dei propri utenti per influenzare le elezioni, ma che le autorità politiche non abbiano avuto la più pallida idea di come normalmente operano le aziende dei social.

La crescita della malattia mentale tra gli «iGen»


Il problema più urgente è quello di arrestare la crescita del disagio psicologico tra i più giovani. È un fatto accertato negli Usa che il tasso di malattia mentale della «generazione Z» ha registrato una preoccupante e improvvisa impennata a partire dagli anni Dieci del 2000. Dal 2012 al 2021 la percentuale di teenager (12-17 anni) che hanno ricevuto cure per ansia e depressione è aumentata del 161% per i ragazzi, e del 145% per le ragazze, rispetto a quanto era stato registrato fino al 2010; il tasso di autolesionismo, come i tagli o i tentati suicidi, è aumentato del 200%. Tendenze molto simili si registrano in altri Paesi del mondo. La cosa curiosa – o inquietante – è che tale incremento non riguarda le generazioni precedenti[17].

Di solito si ritiene che l’utilizzo dei social favorisca la possibilità di intraprendere relazioni a distanza, ma questi benefìci sono riscontrabili nei confronti di coloro che frequentano tali persone anche nella vita offline. Inoltre, le ricerche non rilevano mai benefici degli utenti giovanissimi per la salute mentale in rapporto all’uso dei social. E, questo, proprio a partire dall’anno 2012, quando hanno cominciato a diffondersi Instagram, Snapchat e Tik Tok.

Le conseguenze dell’introversione e del ritiro sociale sono pesanti non soltanto sul versante psichiatrico: si assiste alla crescente difficoltà a entrare nella fase adulta della vita, accentuando le caratteristiche dell’«uomo di sabbia» notate dalla sociologa Catherine Ternynck, con ricadute evidenti sulla possibilità di intraprendere relazioni stabili, di compiere scelte definitive nella vita e di diventare responsabili della vita di altri[18]. Si tratta di una problematica inquietante, che ipoteca il futuro di intere generazioni e sulla quale non è più possibile chiudere gli occhi.

I possibili rimedi


Le conclusioni delle ricerche vengono per lo più da oltreoceano[19], ma proprio per questo possono essere utili per indicare un possibile trend e un margine di intervento prima che anche da noi un numero sempre più elevato di ragazzi/e debba ricorrere in maniera massiccia alle cure psichiatriche. Anche in questo caso, non si tratta di fare il processo a un’invenzione, ma di andare oltre la superficialità e gli stereotipi: «La tecnologia è per definizione un prodotto umano e come tutti i prodotti umani può e deve essere discussa»[20]. Riconoscere la gravità e la complessità del problema, insieme alla necessità di pensare a interventi tempestivi per ridurre i danni presenti e prevenire quelli futuri, costituisce una premessa indispensabile per individuare possibilità di intervento.

Sarebbe anzitutto da valutare a quale età sia opportuno consentire a un ragazzo/a di utilizzare lo smartphone. Certo, da parte dei genitori ciò comporta l’affrontare difficoltà sfibranti di fronte alle insistenti richieste dei (sempre più piccoli) figli e alle classiche motivazioni da loro solitamente addotte («Ce l’hanno tutti, sono l’unico a non averlo, sarò escluso, preso in giro…»). Ma in questi casi proprio internet può essere un aiuto importante, dando la possibilità di creare mail list di genitori accomunati dalla medesima finalità educativa – tutelare la salute mentale dei propri figli –, facendosi anche aiutare da chi si è occupato della problematica in maniera competente[21].

Il messaggio che giunge da parte di chi lavora nel campo del digitale, come si è visto, è unanime: c’è bisogno di proteggere l’infanzia, per questo è indispensabile stabilire un limite minimo di età, e di tempo giornaliero, per l’accesso ai social (cioè, per avere la possibilità di sottoscrivere un contratto per aprire un account e mettere online video, foto o registrazioni), allo scopo di tutelare la salute mentale degli utenti. Anche se è difficile stabilire un limite uguale per tutti, sembra che l’età più esposta a possibili danni giunga fino a 11-13 anni per le ragazze e a 14-15 per i ragazzi[22]. Sulla base di queste indicazioni, nel 2024 l’Australia ha vietato l’uso dei social ai ragazzi sotto i 16 anni. Una decisione che ha trovato sorprendentemente riscontri favorevoli anche in Italia da parte di giovani e giovanissimi: il 29% nella fascia 10-15 anni e il 49% in quella 19-24 anni[23]. È un segno eloquente di come gli stessi ragazzi vivano con disagio la frequentazione social.

Un altro aiuto può venire dalla scuola. Già nel 2023 l’Unesco aveva chiesto di non consentire l’uso degli smartphone negli istituti scolastici, per contrastare la distrazione e il cyberbullismo. Un avvertimento preso sul serio da diverse scuole, che hanno proibito l’uso del cellulare durante le ore di lezione (ad esempio, riponendoli in scatole o armadietti), promuovendo specifici corsi volti al corretto utilizzo dei social, evidenziando i rischi per la salute mentale. Come per la pornografia, discutere sul loro fascino è un obiettivo educativo fondamentale per l’esercizio del pensiero critico.

Risulta altrettanto importante incrementare le attività all’aria aperta, come le competizioni sportive, ma soprattutto il gioco libero e la frequentazione di associazioni di volontariato. Come è stato notato, la depressione è una malattia peculiare della civiltà. Praticare sport all’aperto, curare le relazioni fisiche, guardarsi dalla rimuginazione, dormire almeno otto ore la notte e seguire una dieta ricca di acidi omega-3 aiutano in maniera rilevante ad affrontare o prevenire l’ansia[24]. Così, il tempo sottratto ai social può essere impiegato in modo più salutare, aumentando quello della ricreazione e favorendo le relazioni con i propri compagni. Questo consente di contrastare l’isolamento sociale e l’individualismo, che sono il terreno fertile per il prosperare dei disturbi dell’umore. Più volte si è avuto modo di ricordare come i riti di passaggio siano fondamentali per aiutare il ragazzo/a ad affrontare le sfide della realtà in maniera responsabile, confidando nelle proprie capacità[25].

In tutto questo non può certamente mancare il contributo della politica: è indispensabile attuare interventi volti a tutelare la privacy dei cittadini e a contrastare le lobby dei social e di chi ha interesse a finanziarle a spese della salute dei consumatori. Si è ricordato l’esempio dell’Australia. Anche la Gran Bretagna si è mossa da tempo in questa direzione. In seguito all’approvazione del «Codice di progettazione adatto all’età» (Age appropriate design code) del 2020[26], diverse piattaforme digitali, come Tik Tok, per evitare la chiusura, sono state costrette a mettere opportuni filtri a garanzia della privacy, in modo che i minori non vengano contattati da persone sconosciute. Facebook, a sua volta, ha dovuto ridiscutere la politica pubblicitaria rivolta ai minori, e la piattaforma Instagram nel 2023 ha dato la possibilità di nascondere il numero di like ai contenuti postati dagli utenti per ovviare alle ripercussioni emotive dell’«effetto gregge».

Il periodo di lockdown ha confermato come la vita online non possa considerarsi alternativa a quella fisica. È giunto il tempo di prenderne atto e invertire la tendenza.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] Cfr J. Lanier, Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Milano, il Saggiatore, 2018; N. Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Milano, Raffaello Cortina, 2010.

[2] Cfr N. Bilton, «Steve Jobs Was a Low-Tech Parent», in New York Times, 10 settembre 2014; M. Richtel, «A Silicon Valley School That Doesn’t Compute», in New York Times, 22 ottobre 2011; P. Benanti, Il crollo di Babele. Che fare dopo la fine del sogno di Internet?, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2024, 132 s.; G. Cucci, Internet e cultura. Nuove opportunità e nuove insidie, Milano, Àncora – La Civiltà Cattolica, 2016, 99 s.

[3] Come rileva uno degli intervistati, Tristan Harris, già responsabile etico presso Google e cofondatore del Center for Humane Technology: «Mai prima nella storia le decisioni di una manciata di designer, per lo più uomini, bianchi, residenti a San Francisco, di età compresa tra 25 e 35 anni, che lavoravano in 3 aziende, Google, Apple e Facebook, hanno avuto un impatto così grande sul modo in cui milioni di persone in tutto il mondo dedicano la loro attenzione» (ripreso da B. Bosker, «The Binge Breaker», in The Atlantic, novembre 2016). Cfr S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Roma, Luiss, 2023.

[4] Cfr G. Cucci, Relazioni. Tra Covid e digitale, Milano, Àncora, 2023, 137-179.

[5] J. M. Twenge, Iperconnessi. Perché i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti, Torino, Einaudi, 2018, 6. Cfr V. Kannan – P. Veazie, «US trends in social isolation, social engagement, and companionship – nationally and by age, sex, race/ethnicity, family income, and work hours, 2003-2020», in SSM Population Health 21 (2023) 101331.

[6] Citato in J. Haidt, La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli, Milano, Rizzoli, 2024, 150.

[7] Cfr S. Garbarino et Al., «Role of sleep deprivation in immune-related disease risk and outcomes», in Communications Biology 18 (2021) 1304; R. Alonzo et Al., «Interplay between social media use, sleep quality, and mental health in youth: A systematic review», in Sleep Medicine Reviews, aprile 2021.

[8] A. Carciofi, Vivere il metaverso. Vita, lavoro e relazioni: come trovare benessere ed equilibrio nel futuro di Internet, Macerata, Roi, 2022, 152.

[9] Cfr J. Hari, L’attenzione rubata. Perché facciamo fatica a concentrarci, Milano, La nave di Teseo, 2023, 357-396.

[10] Cfr J. Twenge, Iperconnessi…, cit., 132-169; A. Sheeman (ed.), «Letter from JANA Partners & CalstrS to Apple Inc.»,in California State Teachers’ Retiremert System (thinkdifferentlyaboutkids.com/…), 19 gennaio 2018,

[11] Cfr P. Benanti, Il crollo di Babele…,cit.,165-170; R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita,Milano, Bompiani, 2009; P. Thiel – B. Masters, Da zero a uno. I segreti delle startup, ovvero come si costruisce il futuro, Milano, Rizzoli, 2015.

[12] Cfr G. Cucci, Internet e cultura…, cit., 88-91.

[13] Cfr «Screen Time and Children», in aacap.org/AACAP/Families_and_Y… «The Common Sense Census: Media Use by Kids Age Zero to Eight», in commonsensemedia.org/sites/def… «Screen time report 2022», in uswitch.com/mobiles/screentime… Cfr J. Haidt La generazione ansiosa…, cit., 145 s.

[14] Eyal stesso, nel suo libro Creare prodotti e servizi per catturare i clienti (Hooked), ha dedicato un paragrafo alla possibile deriva manipolativa della strategia Hooked. In un libro successivo (Come diventare indistraibili) ha riconosciuto di essere caduto lui stesso nelle trappole della distrazione, e ha avanzato proposte per riconoscerne le cause e contrastare l’erosione dell’attenzione.

[15] Cfr G. Wells – J. Horwitz – D. Seetharaman, «Facebook Knows Instagram Is Toxic for Teen Girls, Company Documents Show», in The Wall Street Journal, 14 settembre 2021; F. Haugen, Il dovere di scegliere. La mia battaglia per la verità contro Facebook, Milano, Garzanti, 2023.

[16] A. Lembke, L’era della dopamina. Come mantenere l’equilibrio nella società del «tutto e subito», Macerata, Roi, 2022, 1.

[17] Cfr M. Askari et Al., «Structure and trends of externalizing and internalizing psychiatric symptoms and gender differences among adolescents in the US from 1991 to 2018», in Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology 57 (2022/4) 737-748; J. Twenge et Al., «Worldwide increases in adolescent loneliness», in Journal of Adolescence 93 (2021) 257-269. Le ricerche in proposito sono comunque molteplici, cfr J. Haidt, La generazione ansiosa…,cit., 32-56.

[18] «Da qualche decennio, vediamo i giovani che arrancano ai margini della vita adulta senza giungere a intraprenderla. Sembrano in preda a un’angoscia della soglia che non riescono a oltrepassare» (C. Ternynck, L’uomo di sabbia. Individualismo e perdita di sé, Milano, Vita e Pensiero, 2011, 127).

[19] Per quanto riguarda l’Italia, i dati, anche se meno eclatanti, rivelano la medesima tendenza: il 27% dei giovani (10-24 anni) ha solo relazioni virtuali; il 49,3% riconosce che i social hanno una forte influenza su di loro, con grande differenza delle ragazze (65%) rispetto ai ragazzi (31%). Il 34,2% avverte tristezza o insoddisfazione dopo la navigazione; il 90% della fascia 19-24 anni nota una crescente incapacità a comunicare nella vita offline per il troppo tempo trascorso sui social (cfr Il Sole 24 Ore Scuola, 29 novembre 2024).

[20] J. C. De Martin, Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica, Torino, Add, 2023, 179.

[21] Molto istruttivo in proposito è il libro di S. Garassini, Smartphone. 10 ragioni per non regalarlo alla prima Comunione (e magari neanche alla Cresima), Milano, Ares, 2019.

[22] Cfr A. Orben et Al., «Windows of developmental sensitivity to social media», in Nature Communication, 28 marzo 2022; J. Haidt, La generazione ansiosa…,cit., 282 s.

[23] Cfr «L’Australia vieta i social agli under 16, in Italia la metà dei giovani sarebbe d’accordo, ecco perché», in Il Sole 24 Ore Scuola, 29 novembre 2024.

[24] Cfr J. Twenge, Iperconnessi…, cit., 352 s.; S. Sassaroli – R. Lorenzini – G. Ruggiero (edd.), Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento, Milano, Raffaello Cortina, 2006.

[25] Cfr G. Cucci, «Il suicidio giovanile. Una drammatica realtà del nostro tempo», in Civ. Catt. 2011 II 121-134.

[26] «Il Codice specifica che quando utilizzati da un bambino, i servizi online devono utilizzare le impostazioni di privacy più elevate per impostazione predefinita, a meno che non vi sia una ragione impellente per farlo, tenendo conto del miglior interesse del bambino. Ciò include il non consentire l’accesso ai dati da parte di altri utenti, il tracciamento della posizione o la profilazione comportamentale (come la cura algoritmica e la pubblicità mirata, o l’utilizzo dei dati “in un modo che incentivi i bambini a rimanere coinvolti”)» («ICO’s ‘Children’s Code’ applies from today – what you need to know», in Eversheds Sutherland. Retrieved,2 settembre 2021).

The post Social network e salute mentale first appeared on La Civiltà Cattolica.


Indulgenze. Un invito ad attingere dal tesoro della Chiesa


Basilica di San Pietro (Foto: Mustard Assets/Adobe Stock).
La storia del concedere le indulgenze non è priva di ombre e situazioni poco edificanti. La Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, continua, nonostante le critiche del passato, a precisarne la dottrina, a purificarne la pratica e a invitare i fedeli ad accostarsi a questa realtà della «multiforme grazia di Dio» (1 Pt 4,10). Molti cattolici, infatti, rispondono a questo appello, soprattutto nei primi giorni del mese di novembre, visitando i cimiteri e pregando per i defunti. Ci sono poi periodi particolari per ottenere l’indulgenza, come ad esempio gli anni giubilari, che la Chiesa istituisce e annuncia regolarmente dal 1300. Nella bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025, Spes non confundit (SNC), papa Francesco esorta: «Si dia lettura di alcuni brani del presente Documento e si annunci al popolo l’Indulgenza Giubilare, che potrà essere ottenuta secondo le prescrizioni contenute nel medesimo Rituale per la celebrazione del Giubileo nelle Chiese particolari» (n. 6). Non mancano i diversi testi che spiegano dettagliatamente la storia e la disciplina inerente all’indulgenza. Nella nostra riflessione, vogliamo mettere in rilievo l’aspetto esistenziale delle indulgenze, in modo da incoraggiarne una pratica pia e intelligente.

L’essenza dell’indulgenza


Il Codice di diritto canonico (CIC), seguendo la Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina (1967) di san Paolo VI, definisce l’indulgenza in questo modo: «L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista [per sé o per i defunti] per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, dispensa ed applica autoritativamente il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei Santi» (can. 992). Questa affermazione potrebbe allarmare qualcuno. Si parla, infatti, di una pena temporale che penderebbe sopra le nostre teste, sebbene siano stati già rimessi tutti i peccati. Le parole rivolte da Gesù ai discepoli: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,22-23), danno luogo a un’evidente questione: se rimane una pena temporale da «pagare», dobbiamo dire che la remissione non è completa? Nel sacramento della penitenza – o, meglio, della riconciliazione –, Dio non cancellerebbe i peccati veramente fino in fondo? No! Dio perdona i nostri peccati in modo sacramentale e non sacramentale, senza un «però». Pertanto, se, nonostante ciò, continua a esserci un «però» o una qualsiasi obiezione, questo non viene certo da Dio, ma dalla realtà del peccato.

La «pena temporale» non significa che Dio ci perdona parzialmente e vuole prolungare il tempo della punizione per il male che abbiamo commesso, ma vuol dire che il peccato, anche quello rimesso quanto alla colpa, lascia nella nostra vita delle conseguenze, più o meno pesanti. Nella bolla Spes non confundit papa Francesco spiega chiaramente la complessità dello status del peccatore perdonato: «Il peccato “lascia il segno”, porta con sé delle conseguenze: non solo esteriori, in quanto conseguenze del male commesso, ma anche interiori, in quanto “ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione”. […] Dunque permangono, nella nostra umanità debole e attratta dal male, dei “residui del peccato”» (n. 23).

La stessa questione è stata illustrata da Francesco nella bolla Misericordiae Vultus (MV) del 2015: «Nel sacramento della Riconciliazione Dio perdona i peccati, che sono davvero cancellati; eppure, l’impronta negativa che i peccati hanno lasciato nei nostri comportamenti e nei nostri pensieri rimane. La misericordia di Dio però è più forte anche di questo. Essa diventa indulgenza del Padre» (MV 22). In altre parole, Dio misericordioso ci salva, ma la sua azione non è un automatismo, non opera con una bacchetta magica, perché noi non siamo dei robot o delle bambole Barbie, ma persone, esseri dalle personalità irripetibili, che hanno bisogno di tempo per guarire e riparare le relazioni ferite e offese. Questa visione non è prettamente giuridica, ma profondamente esistenziale. La colpa può essere rimessa, ma le diverse conseguenze del peccato si affrontano e risolvono solo in itinere, nella vita. Il processo di guarigione spesso è doloroso; perciò parliamo di «pena temporale». In ogni caso, essa non è imposta da Dio, ma deriva dalla natura del peccato, che «lascia i segni».

Possiamo illustrare la pena temporale attraverso alcuni semplici esempi. Immaginiamo un uomo che tradisce la moglie, e che lei venga a conoscenza di questo fatto. L’uomo si pente sinceramente, chiede il perdono della moglie, si confessa. Pur ricevendo la remissione del peccato nella confessione e il perdono della moglie, permangono le conseguenze del tradimento. I due coniugi hanno bisogno di tempo per ricostruire la fiducia e la tenerezza del matrimonio nella vita coniugale. In altre parole, viene perdonata la colpa, ma rimangono le ferite causate dal peccato, che necessitano del tempo della cura. Queste ferite costituiscono la pena temporale. L’indulgenza, allora, è la grazia che aiuta a curare le conseguenze dei peccati, già rimessi quanto alla colpa. Si parla di «pena temporale», perché esiste anche la «pena eterna», cioè la condanna eterna dovuta al «no» definitivo detto dall’uomo a Dio. Sia la pena temporale sia quella eterna non sono la conseguenza di un atto vendicativo da parte di Dio, ma rappresentano le conseguenze dell’agire consapevole e libero dell’uomo. In questo contesto, la parola «pena» potrebbe essere fuorviante e indicare un’immagine distorta di Dio; ciononostante, continuiamo a usarla, perché ereditata dalla Bibbia e dalla Tradizione, ma con la consapevolezza che Dio, da parte sua, cerca sempre di redimere e sanare l’uomo.

L’indulgenza parziale e plenaria nel contesto storico


La dottrina dell’indulgenza distingue l’indulgenza parziale da quella plenaria, «secondo che libera in parte o in tutto dalla pena temporale dovuta per i peccati» (CIC, can. 993). Questa distinzione esprime il fatto che la grazia divina agisce nell’uomo gradualmente, e la gradualità dell’opera non allude affatto all’agire di Dio, nel senso che egli non vuole sanare il peccatore subito e pienamente, ma investe l’intimo dell’uomo, la cui finitezza limita l’abbondanza della grazia e richiede del tempo per progredire nel bene.

D’altra parte, va detto che la dottrina dell’indulgenza parziale e plenaria è esposta a un certo «mercantilismo» religioso, come mostrano, nella storia, i tanti esempi di abusi nella gestione delle indulgenze che hanno dato adito a considerare tale pratica una merce di scambio, una ritualità «commerciale» e nonl’espressione ecclesiale della grazia di Dio. Si è purtroppo diffusa una mentalità «pagana», secondo la quale si possono ricevere molti perdoni – e addirittura ottenere la vita eterna – «calcolati»in base alle elemosine date ecc., dimenticando del tutto la finalità della chiamata alla conversione personale.

All’inizio dell’XI secolo, le indulgenze erano gestite da pontefici e vescovi in modo ancora moderato, ma presto la pratica cominciò a corrompersi, venendo usata, ad esempio, per mobilitare uomini e indurli a partecipare alle crociate, o come fonte di denaro per sostenerle. Lo Stato della Chiesa, le Chiese locali, gli ordini religiosi e le diverse fraternità avvertirono la pressione di un’esigenza – che corrispondeva a una vera domanda sociale – di qualcosa che avesse le sembianze dell’indulgenza, percependo, nello stesso tempo, come l’elargizione di tali perdoni costituisse una lauta e reale fonte di guadagno. Non solo, ma queste pratiche di indulgenza si accordavano con la religiosità «di paura» che si era diffusa nella prima metà del secondo millennio. Si moltiplicarono pertanto diverse pratiche, preghiere, Messe, elemosine e pellegrinaggi, a cui venivano legate le indulgenze. La pietà cosiddetta «mercantile» venne rafforzata da concezioni, tanto pittoresche quanto ingenue, del mondo dell’aldilà e, in particolare, del purgatorio. Secondo la visione immaginaria del tempo, coloro che soggiornano nel purgatorio hanno un periodo finito – misurato temporalmente, secondo giorni o anni – da scontare, prima di poter andare in paradiso. Per questa credenza, si attribuiva alle diverse indulgenze un numero preciso di giorni o di anni, per quantificare il tempo della pena temporale, che potrà essere rimessa, mentre si è in purgatorio, grazie a una indulgenza.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

La pratica dell’indulgenza non è stata quindi adeguatamente accompagnata da una riflessione teologica, che si è sviluppata solo a partire dal XIII secolo, quando i teologi cominciarono a dedicarvi uno studio più accurato. A tale riguardo, san Tommaso d’Aquino propose una teoria positiva, che cioè riconosceva l’indulgenza in generale, ma essa non fu sufficiente per purificare la corruzione di pratiche ormai sempre più diffuse. Anzi, l’abitudine di misurare l’indulgenza scivolò in una vera e propria inflazione, passando da un periodo di giorni e anni a quello di centinaia e, addirittura, migliaia di anni. La «contabilità» dell’indulgenza ha dato un decisivo impulso al proliferare di millantatori e imbroglioni, che raccoglievano soldi in cambio di false promesse circa le indulgenze parziali e plenarie.

Uno dei motivi che ha scatenato la reazione di Lutero e ha portato alla Riforma protestante è stato proprio la «contabilità» dell’indulgenza: in particolare, quella legata alla raccolta dei contributi per costruire la basilica di San Pietro. Tra le 95 tesi di Lutero, molte riguardano lo «scandalo»dell’indulgenza[1]. Nella tesi 34, egli afferma che le «grazie indulgenziali si riferiscono soltanto alle pene della soddisfazione sacramentale, stabilite dall’uomo». La predicazione delle indulgenze viene perciò definita «scandalosa» (cfr tesi 81). Troviamo poi una domanda ironica: «Perché il papa non svuota il purgatorio a motivo della santissima carità e della grande sofferenza delle anime, che è la ragione più giusta di tutte, invece di liberare un numero infinito di anime a motivo del funestissimo denaro per la costruzione della basilica, che è una delle più deboli ragioni?» (tesi 82).

La Chiesa ha risposto a tali critiche cercando di eliminare gli abusi indulgenziali e riproponendo una dottrina approfondita e ordinata. Il Concilio di Trento, nel Decreto sulle indulgenze (1563), afferma: «Il potere di conferire le indulgenze è stato accordato dal Cristo alla chiesa che, fin dai tempi antichi, ha usato di questa facoltà a lei divinamente concessa [cfr Mt 16,19; 18,18]. Per questo il santo sinodo insegna e comanda di mantenere nella chiesa quest’uso, molto salutare per il popolo cristiano […]. Tuttavia, desidera che nel concedere queste indulgenze si usi moderazione […]. Desiderando poi emendare e correggere gli abusi che vi si annidano»[2]. Si è dunque cercata una soluzione di equilibrio, per non «buttare via il bambino con l’acqua sporca», cioè per eliminare le pratiche sbagliate e nocive, senza perdere il nucleo salutare dell’indulgenza.

Un passo importante in questo processo è stato fatto da san Paolo VI con la già menzionata Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina. Alla fine di essa troviamo un elenco di 20 norme, di cui la n. 4 stabilisce che «l’indulgenza parziale d’ora in poi sarà indicata con le sole parole “indulgenza parziale”, senza alcuna determinazione di giorni o di anni». Inoltre, nella norma 6 leggiamo: «L’indulgenza plenaria può essere acquistata una sola volta al giorno […]. L’indulgenza parziale invece può essere acquistata più volte al giorno, salvo esplicita indicazione in contrario». La norma 7 ci aiuta a cogliere l’importante differenza tra indulgenza parziale e plenaria: «Per acquistare l’indulgenza plenaria è necessario eseguire l’opera indulgenziata e adempiere tre condizioni: confessione sacramentale, comunione eucaristica e preghiera secondo le intenzioni del sommo pontefice. Si richiede inoltre che sia escluso qualsiasi affetto al peccato anche veniale. Se manca la piena disposizione o non sono poste le predette tre condizioni, l’indulgenza è solamente parziale»[3].

La condizione più difficile da compiere per un’indulgenza plenaria è l’esclusione di «qualsiasi affetto al peccato anche veniale». L’uomo è capace di collaborare con la grazia divina per raggiungere tale libertà, ma poiché questo è, di fatto, un atteggiamento piuttosto raro, potremmo affermare che l’indulgenza plenaria non avviene spesso, sebbene si possa dire che qui si tratta dell’intimità della relazione tra Dio e l’uomo, che sfugge a tutte le opinioni o i tentativi di oggettivazione. La stessa intimità riguarda l’indulgenza parziale. Non abbiamo alcun mezzo capace di misurare la grazia ricevuta ed effettivamente accolta. Possiamo, invece, sperare che essa, nonostante la nostra debolezza, operi in noi, anche attraverso l’indulgenza, in modo progressivo, conducendoci alla piena rigenerazione. Mons. Krzysztof Nykiel, reggente della Penitenzieria Apostolica, fa notare: «In questo senso, tra l’indulgenza plenaria e quella parziale vi è una differenza come tra il frutto e il fiore: scaturiscono entrambe dalla carità di Cristo, ma l’una è in qualche modo l’anticipo, e l’altra è il compimento»[4]. In ogni caso, è estremamente difficile – come abbiamo già sottolineato – parlare di quantità in riferimento alle cose spirituali, che peraltro non sono neanche «cose», ma relazioni, vita nello Spirito della persona con Dio.

Per i vivi e per i defunti nel purgatorio


Il Codice di diritto canonico afferma: «Ogni fedele può lucrare per sé stesso o applicare ai defunti a modo di suffragio indulgenze sia parziali sia plenarie» (can. 994). Non è dunque possibile ottenere un’indulgenza per un’altra persona vivente. Come spiegare ciò? Perché è possibile l’indulgenza per i defunti, cioè per coloro che dopo la morte sono nel purgatorio, e non per altri che sono ancora in vita? Le anime nel purgatorio non possono più agire per sé stesse, se non sottoponendosi alle grazie della purificazione, ossia alla preparazione per il cielo. I vivi, invece, sono ancora nella condizione di poter scegliere il cammino della conversione, della penitenza e delle opere buone. Possono anche lucrare l’indulgenza per sé stessi, mentre non avrebbe alcun senso l’intenzione di chi cerca di ottenere l’indulgenza per qualcuno che non vuole aprirsi personalmente alla grazia divina. Non si possono dunque soddisfare le condizioni dell’indulgenza per una persona viva che potrebbe fare autonomamente tale percorso. Siamo chiamati a pregare per gli altri, ma non possiamo sostituirci a loro nella decisione di rivolgersi a Dio e ricevere le sue grazie. Infatti, l’indulgenza per i viventi dipende da un atto di volontà personale, oltre che dall’adempimento delle opere prescritte[5].

Per quanto riguarda le persone nel purgatorio, esse hanno già scelto la vita eterna con Dio, ma non possono agire compiendo opere pie e, da questo punto di vista, vivono in uno stato passivo, aperto all’opera purificatrice di Dio. Il card. Mauro Piacenza dà questa spiegazione: «Chi è in Purgatorio [homo purgans] ha la certezza della salvezza eterna, ma non ha più il dono della libertà, per cui non può più meritare»[6]. I fedeli (homo viator), invece, possono attivamente unirsi all’opera di Dio e contribuire, proprio attraverso l’indulgenza, alla purificazione che avviene nell’aldilà.

Dobbiamo notare che le anime nel purgatorio possono pregare per noi. In questo modo si realizza, in parte, quella che chiamiamo la «comunione dei santi». Nessuno è un’isola solitaria, nessuno si salva da solo. Dio, che è l’unico salvatore, vuole inserire gli uomini nella sua opera di salvezza. L’indulgenza rivolta a sé stessi rientra nel processo esistenziale della propria purificazione dalle conseguenze del peccato (pena temporale), già rimesso quanto alla colpa. Occorre dunque sottolineare di nuovo che, come disse san Giovanni Paolo II, «le indulgenze, lungi dall’essere una sorta di “sconto” all’impegno di conversione, sono piuttosto un aiuto per un impegno più pronto, generoso e radicale. […] Sbaglierebbe allora chi pensasse di poter ricevere questo dono con la semplice attuazione di alcuni adempimenti esteriori»[7]. Le opere prescritte sono piuttosto espressione di conversione. Analogamente, l’indulgenza per i defunti che sono in purgatorio si inserisce nel processo di purificazione previsto dal Dio misericordioso per preparare l’uomo alla grazia della vita eterna celeste. In questo agire divino, non dobbiamo pensare a un riscatto diretto, ossia l’indulgenza per i morti non agisce «meccanicamente», non produce un’efficacia automatica e infallibile, ma è un atto, a mo’ di suffragio, che dipende sempre dal beneplacito di Dio.

Per comprendere più in profondità il tema della purificazione alla quale possono essere sottoposti i defunti, ci soffermiamo ora sul senso esistenziale della dottrina del purgatorio. Coloro che sono in cielo non hanno bisogno delle nostre preghiere, anzi, sono essi stessi che intercedono per noi. Per chi invece ha rifiutato Dio scegliendo quello che chiamiamo «inferno» la preghiera non sarà più di aiuto. D’altronde, i dannati, che stanno sprofondando nel loro orgoglio, non aspettano più alcun sostegno o soccorso da parte nostra, mentre c’è chi è ancora in pellegrinaggio verso il paradiso, avendo già varcato la soglia della morte.

Il purgatorio è una verità di fede. Da un lato, non rifiutiamo Dio e vogliamo essere nel suo Regno, ma, dall’altro, ci riconosciamo peccatori, deboli, impreparati al passaggio attraverso le porte del cielo per gioire pienamente nello Spirito Santo. In questa situazione precaria, Dio stesso, per gratuita iniziativa, ci purifica e ci rende capaci di accogliere la vita celeste. Non dobbiamo considerare il purgatorio un luogo di tortura, pensato per pagare i debiti causati dai peccati commessi, né dobbiamo credere che Dio non possa introdurci direttamente nella sua dimora divina, o che desideri punirci, tenendoci per un tempo lì.

Il purgatorio non è necessario a Dio, ma a noi. Siamo macchiati, frammentati, persi; Dio stesso, allora, ci lava, ci riveste con belle vesti e ci mostra la via per entrare nell’eterno banchetto di nozze. Nel purgatorio, l’uomo sa già che andrà in paradiso, ma comprende che, sebbene lo desideri, non è ancora del tutto pronto per la beatitudine eterna. Il purgatorio potrebbe essere paragonato alla situazione di un bambino che, dopo aver fatto una marachella, sa che sua madre lo perdonerà e lo abbraccerà, ma, nonostante questa consapevolezza, si vergogna e scappa dagli occhi di sua madre. Si nasconde, perché non riesce subito ad accoccolarsi tra le braccia della madre e a rimanervi tranquillo e contento. Allo stesso modo, nel purgatorio, la persona si sente amata da Gesù, ma non è ancora del tutto pronta a posare la testa sul suo petto. La nostra solidarietà con le anime del purgatorio, le nostre preghiere e le indulgenze aiutano i nostri cari a superare ciò che ancora impedisce loro l’accoglienza totale dell’amore di Dio.

Sebbene nella Bibbia non si possa trovare un insegnamento esplicito sul purgatorio, abbiamo tuttavia diversi indizi al riguardo. Nel Secondo libro dei Maccabei (12,39-45) c’è una preghiera per i soldati caduti, che hanno commesso un peccato portando sotto le vesti amuleti pagani. Si tratta quindi di purificarsi, dopo la morte, dal peccato e dalle sue conseguenze. In questo consiste il purgatorio. Nella Prima lettera ai Corinzi troviamo un testo misterioso, che ci fa pensare a una purificazione dopo la morte: «Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco» (1 Cor 3,14-15).

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

Già nella Chiesa antica si pregava per i defunti, come testimonia un frammento delle Confessioni di sant’Agostino, che pregava per la madre defunta. Tuttavia, fino al XII secolo, il termine «purgatorio» non fu usato nei testi del magistero della Chiesa. Entrò, infatti, nell’insegnamento ufficiale della Chiesa nel II Concilio di Lione, nel 1274. Fu poi il Concilio di Firenze che formulò la dottrina del purgatorio, nella bolla Laetentur caeli (1439), che è stata ripresa e confermata dal Concilio di Trento nel Decreto sul purgatorio (1563).

La più famosa descrizione letteraria del purgatorio si trova nella Divina Commedia di Dante. Il Poeta lo descrive come una montagna, con il piede immerso nell’oceano, e con la cima che raggiunge il cielo. Il purgatorio si compone di nove parti. Nel vestibolo, ci sono le anime pigre nel fare penitenza. Seguono sette livelli, in cui le anime vengono purificate dai peccati capitali: orgoglio, invidia, rabbia, avidità, intemperanza, impurità. In cima alla montagna, ossia al nono livello, le anime bevono da due fonti: dimenticare i propri errori e ricordare i propri meriti. La parte superiore è circondata da etere puro, attraverso il quale l’anima vola verso il cielo. Dal punto di vista teologico, il purgatorio non è costituito da livelli successivi di prove, ma è l’incontro con Gesù Cristo, il cui amore ci purifica da tutto ciò che è contrario all’amare. Gesù invita i fedeli a partecipare all’incontro, ossia ad attingere dal tesoro della Divina Misericordia e della comunione dei santi.

La fiducia nella Divina Misericordia: la testimonianza di suor Faustina


Papa Francesco indica in più modi il legame che c’è tra l’indulgenza e la Divina Misericordia. Nella bolla Spes non confundit, leggiamo: «L’indulgenza, infatti, permette di scoprire quanto sia illimitata la misericordia di Dio. Non è un caso che nell’antichità il termine “misericordia” fosse interscambiabile con quello di “indulgenza”, proprio perché esso intende esprimere la pienezza del perdono di Dio che non conosce confini» (SNC 23). La misericordia è del tutto lontana dall’idea di una «contabilità» spirituale, che a volte offusca il messaggio evangelico predicato dalla Chiesa. Essa è invece pienamente gratuita, anche se la gratuità non esclude che si debbano fare proprie alcune condizioni per essere capaci di accoglierla. La condizione fondamentale è l’atteggiamento di fiducia, che permette di aprirsi efficacemente al bene misericordiosamente offerto. Questo concetto è chiaro nel Diario di suor Maria Faustina Kowalska, l’apostola della Misericordia[8]. In un’apparizione, Dio stesso le spiega che «le grazie della Mia Misericordia si attingono con un solo recipiente e questo è la fiducia»[9]. Le diverse pratiche devozionali di cui leggiamo nel Diario sono finalizzate a suscitare, rafforzare e approfondire la fiducia del credente in Dio. Non si parla di una fiducia riposta in formule pie e in opere prescritte, ma della relazione personale con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. In altre parole, il sentirsi al riparo, il rifugio spirituale di cui ci parlano i testi di Faustina non si «acquista»recitando le preghiere, ma si radica nella fiducia in Dio. Lo stesso possiamo dire dell’indulgenza, gestita dalla Chiesa secondo certe modalità e con diverse regole, ma il cui nucleo consiste nel suscitare la fiducia nella Divina Misericordia.

Questo atto di fiducia va accompagnato dalla misericordia verso il prossimo. In una delle visioni, Gesù dice a Faustina: «Tu devi essere la prima a distinguerti per la fiducia nella Mia Misericordia. […] Devi mostrare Misericordia sempre e ovunque verso il prossimo […]. Ti sottopongo tre modi per dimostrare Misericordia verso il prossimo: il primo è l’azione, il secondo è la parola, il terzo la preghiera»[10]. La fiducia quindi non si identifica con un atteggiamento passivo di chi aspetta una grazia dall’alto. «Se un’anima non pratica la Misericordia in qualunque modo, non otterrà la Mia Misericordia nel giorno del giudizio»[11], ci avverte Gesù.

Per suor Kowalska, la prospettiva più importante del praticare la misericordia è quella della vita eterna. La fiducia cristiana nella Divina Misericordia non riguarda, infatti, solo il semplice desiderio che tutto «andrà bene» nella nostra vita terrena, ma ci apre gli orizzonti infiniti ed eterni dell’amore misericordioso di Dio. Con questo spirito, Faustina praticava le indulgenze con l’intima convinzione che Gesù stesso la invitasse a farlo e ascoltando le parole che il Signore, riferendosi alle anime nel purgatorio, le rivolgeva: «È in tuo potere recar loro sollievo. Prendi dal tesoro della Mia Chiesa tutte le indulgenze ed offrile per loro»[12].

Così siamo giunti a quello che consideriamo il concetto più importante per la dottrina dell’indulgenza, cioè il «tesoro della Chiesa», legato alla dottrina della comunione dei santi. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) presenta la questione dell’indulgenza nella prospettiva della «comunione dei santi». Con questa espressione si intendono due cose: la comunione alle cose sante (sancta) e la comunione tra le persone sante (sancti) (cfr CCC, n. 948). La parola sancti non indica soltanto coloro che già godono della gloria del cielo, ma si riferisce anche ai fedeli ancora pellegrini sulla terra e a coloro che sono in purgatorio. Si tratta delle tre dimensioni (militante, purgante, trionfante) che formano la comunione della Chiesa. Tutti – insegna il Concilio Vaticano II –, «sebbene in grado e modo diverso, comunichiamo nella stessa carità verso Dio e verso il prossimo. […] L’unione […] è consolidata dallo scambio dei beni spirituali»[13]. In altre parole, i fedeli che in cielo, in purgatorio e sulla terra sono uniti, in diversi modi, a Cristo, si relazionano e condividono le grazie ricevute da Dio.

Il Catechismo poi aggiunge: «Questi beni spirituali della comunione dei santi sono anche chiamati il tesoro della Chiesa» (n. 1476). San Paolo VI, nella Indulgentiarum doctrina, sottolinea che tale tesoro consiste, prima di tutto, nell’«infinito ed inesauribile valore che le espiazioni e i meriti di Cristo hanno presso il Padre». Ma ai meriti di Cristo si uniscono «le preghiere e le buone opere della beata vergine Maria e di tutti i santi» (n. 5). Gesù Cristo, l’unico salvatore, ci invita a partecipare della sua opera redentrice, e noi possiamo farlo, tra l’altro, attraverso le indulgenze. Così attingiamo dal tesoro della Chiesa, che è un aspetto della comunione dei santi e può essere chiamato il «tesoro della Misericordia di Dio», dalla quale scaturiscono e alla quale si aggiungono le nostre opere di misericordia, compresa l’indulgenza.

Tutto ciò non ha nulla a che fare con una falsa religiosità «mercantile», legalista e caratterizzata da paura. Si tratta infatti della verità che, in Cristo, la nostra vita viene collegata con le vite degli altri cristiani che ci hanno preceduto, in modo da poterci aiutare a vicenda, anche se rimane ancora tra noi una distanza, che è quella tra la terra e il purgatorio.

L’indulgenza sempre attuale


A causa degli abusi che sono stati compiuti «utilizzando» l’indulgenza e con i quali la Chiesa non è riuscita per molto tempo a confrontarsi adeguatamente, la dottrina delle indulgenze è stata motivo di divisione della Chiesa cattolica dalle altre confessioni cristiane, soprattutto dalle comunità protestanti. Non sono mancate opinioni che hanno considerato la fine dell’indulgenza solo una questione di tempo, affermando, arbitrariamente, che essa sarebbe diventata solo una pratica del passato.

Attraverso uno sguardo esistenziale e cristocentrico, possiamo invece riscoprire l’attualità imperitura della pratica delle indulgenze. Per questo la Chiesa non smette di riproporla ai fedeli, certa del suo radicamento nel mistero della Misericordia e nella verità della comunione dei santi. Il card. Piacenza afferma che «il tesoro delle Indulgenze […] non può essere trascurato, poiché non essendo guadagnato dagli uomini, ma gratuitamente donato ad essi da Cristo e dai Suoi infiniti meriti presso il Padre, esso non potrà mai essere perduto»[14]. Il Giubileo ordinario dell’anno 2025 costituisce un invito, rivolto ai fedeli, a rinnovare la conoscenza del senso delle indulgenze e a praticarle con fiducia, aprendo alla speranza. Spe salvi facti sumus.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] Cfr le95 tesi di Lutero, in chiesaluterana.it/teologia/le-…

[2] H. Denzinger – P. Hünermann, Henchiridion Symbolorum, Bologna, EDB, 1995, n. 1835.

[3] Paolo VI, s., Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina, in vatican.va/content/paul-vi/it/…

[4] K. Nykiel, Il Sacramento della Misericordia. Accogliere con l’amore di Dio, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2019, 269 s.

[5] Ivi.

[6] M. Piacenza, «Il grande tesoro delle indulgenze», Lectio Magistralis, 9 marzo 2015, in penitenzieria.va/content/dam/p…
cenza20-%20Lectio%20magistralis%20Indulgenze%202015.pdf

[7] Giovanni Paolo II, s., «Il dono dell’Indulgenza», Udienza generale, 29 settembre 1999.

[8] Cfr D. Kowalczyk, Il perché della Trinità. Dodici questioni scelte di teologia trinitaria, Venezia, Marcianum, 2024, 279-281.

[9] F. Kowalska, Diario. La Misericordia Divina nella mia anima, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, n. 1578.

[10] Ivi, n. 742.

[11] Ivi, n. 1317.

[12] Ivi, n. 1226.

[13] Concilio Ecumenico Vaticano II, Lumen gentium, n. 49.

[14] M. Piacenza, «Il grande tesoro delle indulgenze», cit.

The post Indulgenze. Un invito ad attingere dal tesoro della Chiesa first appeared on La Civiltà Cattolica.


La pastorale sportiva


(Foto di Ben White su Unsplash)

«Ogni atleta è disciplinato in tutto;
essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce,
noi invece una che dura per sempre» (1 Cor 9,25).

Presenza dello sport nella storia della Chiesa


Molti lettori di questo articolo potrebbero credere che l’espressione «pastorale sportiva» (sports ministry) sia recente, ma non è così: il legame tra la fede e l’ambito sportivo risale quasi agli inizi della storia cristiana. San Paolo, quando si mise ad annunciare la Buona Notizia ai gentili, utilizzò molti esempi legati allo sport. I riferimenti in proposito nella Prima lettera ai Corinzi colpiscono per la loro quantità. La spiegazione più semplice è che a quel tempo, come ai nostri giorni, lo sport era una componente importante della società, e farne uno strumento pastorale aiutava molti a prestare attenzione al messaggio.

Ma san Paolo non è stato il solo. Altri protagonisti della tradizione storica della Chiesa hanno utilizzato lo sport come strumento nella loro attività pastorale. San Giovanni Crisostomo si è avvalso di immagini sportive in molte omelie[1]. Ha messo soprattutto in risalto una virtù che è presente sia nello sport sia nella fede: la lotta spirituale.

D’altra parte, sant’Ignazio d’Antiochia, nella lettera a Policarpo di Smirne, parla della perseveranza nella vita di preghiera di fronte alle tentazioni e paragona questa lotta alle competizioni sportive, invitando Policarpo a essere «sobrio come un atleta di Dio»[2].

San Tommaso d’Aquino non parla direttamente dello sport, ma fa riferimento alla virtù dell’«eutrapelia»[3] come a una via di mezzo tra il tempo libero e il lavoro, evidenziando così la necessità e l’opportunità di dedicare tempo sia allo studio sia al gioco. In seguito gli umanisti applicheranno questo concetto ai piani di formazione accademica dei loro alunni, come farà la Compagnia di Gesù nella Ratio Studiorum.

Ma anche i Papi hanno parlato dell’importanza della pastorale attraverso lo sport. La Chiesa ha voluto evidenziare, attraverso i successori di Pietro, una visione dello sport fondata sulla centralità della persona, sul rispetto della sua dignità, sulla sua crescita integrale e sulla relazione con gli altri. Lo sport, piattaforma universale, è strumento per promuovere valori come la fraternità, la solidarietà e la pace.

A mo’ di curiosità, riportiamo i soprannomi sportivi che hanno distinto alcuni Papi: Leone XIII, «il Papa del nuoto»; Pio X, «il Papa dello sport»; Pio XI, «il Papa dell’alpinismo»; Giovanni Paolo I, «il Papa del ciclismo»; Giovanni Paolo II, «il Papa della polisportiva»; e Francesco, «il Papa tifoso»[4].

Se fra tutti i Papi dovessimo segnalarne uno come promotore dello sport, questo sarebbe senza dubbio papa Francesco, a motivo delle sue udienze private e dei discorsi pronunciati sull’argomento. Egli afferma che esiste una relazione intrinseca tra sport e santità: «Dare il meglio di sé nello sport è anche una chiamata ad aspirare alla santità. Durante il recente incontro con i giovani in preparazione al Sinodo dei vescovi, ho manifestato la convinzione che tutti i giovani lì presenti fisicamente o mediante le reti sociali avevano il desiderio e la speranza di dare il meglio di sé. Ho utilizzato la stessa espressione nella recente Esortazione apostolica ricordando che il Signore ha un modo unico e specifico di chiamare alla santità per ognuno di noi: “Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui” (Gaudete et exsultate, n. 11)»[5]. Come nessuno nasce campione, così nessuno nasce santo: è un percorso di allenamento disciplinato per tutta la vita a permetterci di raggiungere questa meta.

Nella società contemporanea, lo sport costituisce un’attività universale, che trascende culture e generazioni e promuove i valori dell’impegno, della disciplina e del lavoro di squadra. Uno degli esempi più evidenti ci viene dai Giochi olimpici e paralimpici tenutisi nel 2024 a Parigi. L’ideale del barone Pierre de Coubertin è ancora oggi presente nel desiderio che tutti gli atleti, provenienti da tutti i continenti, si riuniscano, con l’obiettivo di dare il meglio di sé, di eccellere in ciascuna delle loro discipline e di convivere, nello spirito del fair play, per essere di esempio e di riferimento alle generazioni future: «Lo sport è un luogo di incontro dove persone di ogni livello e condizione sociale si uniscono per raggiungere un obiettivo comune»[6].

Tuttavia ai cattolici lo sport offre molto più che benefìci fisici e sociali: è una via privilegiata per la crescita spirituale. L’abbiamo constatato, con grande gioia e sorpresa, nelle tante manifestazioni di fede degli atleti negli ultimi Giochi olimpici.

Questo articolo esplora la profonda connessione esistente tra lo sport e la spiritualità cristiana, tramite la quale ai cattolici viene offerta la straordinaria opportunità di fare della propria fede una parte integrante della pratica sportiva quotidiana.

Come abbiamo già detto, san Paolo utilizza metafore sportive per illustrare la vita spirituale, quando paragona la vita di fede a una corsa nella quale i credenti devono perseverare per ottenere il premio eterno (cfr 1 Cor 9,24-27). Questa analogia, se da una parte sottolinea l’importanza della disciplina e della perseveranza nella vita cristiana, dall’altra evidenzia anche il ruolo dello sforzo personale e della cooperazione comunitaria nel perseguimento della crescita spirituale. Anche oggi la Chiesa riconosce e incoraggia questo modo di fare sport.

Nel settembre 2019 è nata in Vaticano una società sportiva, denominata «Athletica Vaticana». È composta da dipendenti della Santa Sede e da cittadini del Vaticano. È sorta come un club di atletica, ma poi si è allargata al ciclismo e al padel e si propone di mostrare il proprio servizio di fraternità sulla scena sportiva internazionale. Nell’udienza del 13 gennaio 2024, a cinque anni dalla sua creazione, papa Francesco ha incoraggiato i suoi componenti a proseguire nella loro testimonianza cristiana sulle strade, nelle piste e nei campi da gioco. Il Papa ha sottolineato il ruolo dello sport come la più diffusa espressione culturale e ha auspicato che «nel momento storico particolarmente buio che stiamo vivendo, lo sport possa gettare ponti, abbattere barriere, favorire relazioni di pace»[7].

La spiritualità cristiana offre un quadro di riferimento che trascende la mera competizione. In un mondo in cui vincere rischia di diventare l’unica misura del successo, il cristianesimo ci ricorda che il vero trionfo risiede nella crescita personale e nella capacità di riflettere l’amore di Dio in tutte le nostre azioni. La preghiera, la meditazione e la riflessione prima e dopo gli allenamenti, l’aiuto del cappellano sportivo e l’accompagnamento pastorale non solo contribuiscono a concentrare la mente e lo spirito, ma suscitano anche un atteggiamento di gratitudine. Lo sport, quindi, si trasforma in un’ottima circostanza per incontrare Dio, un’occasione per vivere la fede in modo concreto, perché è «uno strumento di incontro, di formazione, di missione e santificazione»[8] e un mezzo per promuovere lo sviluppo integrale della persona.

Virtù degli sport di squadra


Per gli atleti cattolici, la pratica dello sport non è solo un’opportunità per sviluppare capacità fisiche e per entrare in competizione, ma anche un modo per crescere spiritualmente nelle virtù cristiane.

L’onestà è alla base della fiducia e della correttezza. Per gli atleti, essere onesti significa rispettare le regole, ammettere gli errori ed essere sinceri nelle vittorie e nelle sconfitte. Questo valore promuove un ambiente di rispetto e di giustizia in cui ogni partecipante si sente apprezzato e sicuro. Onestà significa anche essere autentici e agire in coerenza con i princìpi personali, e ciò rafforza il carattere e la credibilità sia nello sport sia nella vita di tutti i giorni.

L’umiltà è fondamentale per la crescita personale e per il vero successo. Nello sport essa si manifesta nella capacità di riconoscere i propri limiti, di imparare dagli errori e di valorizzare gli sforzi degli altri. Un atleta umile non cerca la gloria personale, ma apprezza il lavoro di squadra e il sostegno di chi lo circonda. L’umiltà fa accettare le critiche costruttive e consente di continuare a migliorarsi, mantenendo un atteggiamento servizievole e collaborativo.

La giustizia comporta il trattare tutti con equità e rispetto. Per gli atleti, essere giusti significa competere lealmente, rispettare le decisioni degli arbitri e trattare gli avversari con lealtà. La giustizia si rispecchia anche nelle pari opportunità all’interno della squadra e nel riconoscimento dell’impegno e del merito di ciascun membro. Un atleta giusto promuove un ambiente inclusivo e motivante, in cui tutti si sentono apprezzati e rispettati.

Il rispetto è essenziale per la convivenza e il successo in qualsiasi squadra e competizione. Gli atleti devono rispettare i propri compagni di squadra, gli allenatori, gli avversari e sé stessi. Ciò implica ascoltare, valorizzare le differenze e agire avendo riguardo per gli altri. Il rispetto promuove l’armonia e riduce i conflitti, migliorando la cooperazione e il rendimento collettivo.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

La perseveranza è la capacità di andare avanti nonostante gli ostacoli e le avversità. Per gli atleti, essa si traduce in uno sforzo costante per migliorare, nella resilienza di fronte alle sconfitte e nella motivazione a raggiungere obiettivi a lungo termine. La perseveranza non solo migliora il rendimento sportivo, ma prepara gli atleti ad affrontare le sfide della vita con animo forte e determinato. Questo valore insegna che il vero successo non risiede solo nella vittoria, ma nell’impegno e nella dedizione costante.

Infine, la gratitudine consiste nel riconoscere e apprezzare le opportunità, i talenti e l’aiuto ricevuto. Per gli atleti, essere grati significa valorizzare ogni sessione di allenamento, ringraziare i compagni di squadra e i rivali per il loro impegno e riconoscere il sostegno della famiglia, degli allenatori e della comunità. Un atleta grato ha una visione positiva e uno spirito generoso, che ispira e contagia chi gli sta intorno.

La forza della comunità


Nello sport, la comunità e il lavoro di squadra sono tra gli elementi più importanti. Essi sono essenziali non solo per avere successo sul campo da gioco, ma anche per la crescita degli atleti. Qui vogliamo evidenziare gli aspetti comunitari nel rapporto tra sport e spiritualità.

Il primo è il sostegno reciproco. In una comunità sportiva, i membri si incoraggiano e si aiutano a vicenda, soprattutto nei momenti di difficoltà e di sfida. Questo comportamento rafforza l’unità e cementa lo spirito di squadra. Nella vita spirituale, il sostegno reciproco si manifesta nella preghiera comunitaria e nella condivisione della fede.

In secondo luogo, l’impegno e la responsabilità. Ogni membro dev’essere impegnato nel raggiungimento degli obiettivi della squadra ed è responsabile del proprio rendimento e del proprio comportamento. Questo impegno si traduce in una dedizione costante e nella volontà di anteporre il bene della squadra all’interesse personale.

Altri aspetti che arricchiscono l’esperienza della squadra sono la diversità e l’unità. In una squadra sportiva, ogni membro apporta competenze e prospettive uniche, con cui contribuisce alla forza e alla creatività del gruppo. L’unità si raggiunge quando tutti operano insieme verso un obiettivo comune, rispettando e valorizzando le differenze individuali.

Uno dei richiami più importanti è quello alla solidarietà e al servizio che, in quanto pilastri dei valori cristiani, si ritrovano concretamente anche nello sport. La solidarietà implica l’impegno per il benessere di tutti i membri della squadra, e il servizio si manifesta in gesti di disponibilità e di generosità verso gli altri.

La capacità di risolvere i conflitti è un altro pregio essenziale sia nello sport sia nella vita spirituale. Disaccordi e tensioni sono inevitabili in qualsiasi gruppo, ma a determinare la salute e la coesione della squadra è il modo in cui tali conflitti vengono gestiti. Nello sport e nella vita spirituale, imparare a risolvere i conflitti in modo equo e costruttivo rafforza le relazioni e migliora il rendimento, così come la riconciliazione e il perdono sono essenziali per mantenere l’unità e la pace.

Infine, la leadership condivisa è un valore che distribuisce la responsabilità della leadership tra i vari membri della squadra, incoraggiando la partecipazione di tutti. Nello sport, questo tipo di leadership consente a ogni membro della squadra di assumere un ruolo attivo nel processo decisionale e nell’esecuzione delle strategie.

Vediamo ora più in dettaglio alcune caratteristiche di questa leadership, che nel XXI secolo è più che mai necessaria.

Princìpi di «leadership» nella formazione sportiva e spirituale


Se concentriamo l’attenzione sugli allenatori, possiamo notare che essi, in quanto hanno un ruolo guida, possono influenzare profondamente la vita dei loro atleti non solo in termini di prestazioni sportive, ma anche per quanto concerne il loro sviluppo personale e spirituale. Pur sapendo che non tutti i contesti sono ideali e che in molti centri o club la secolarizzazione è forte, vogliamo ricordare che la leadership cristiana può offrire l’opportunità di mettere in risalto princìpi fondamentali, come il servizio, l’umiltà e la cura pastorale.

1) Il primo tipo di leadership è quello del servizio. Si basa sull’idea che il leader ha il compito di servire la sua squadra, non di essere servito.

Strategia pratica: gli allenatori possono dimostrare una leadership di servizio assicurandosi che le esigenze dei loro atleti vengano messe sempre al primo posto. Ciò comporta la disponibilità a fare colloqui individuali, fornendo sostegno emotivo e pratico e mostrando un vero interesse per il benessere di ogni atleta. Inoltre, il loro coinvolgimento attivo nelle incombenze quotidiane, dalla preparazione dell’attrezzatura all’organizzazione degli eventi, fa capire agli atleti che il loro allenatore non ha paura di «sporcarsi le mani» per il bene della squadra.

2) In secondo luogo, per una leadership efficace e cristiana è essenziale il valore dell’umiltà. Un allenatore umile riconosce i propri limiti, è disposto a imparare e valorizza il contributo di ciascun membro della squadra.

Strategia pratica:è fondamentale promuovere un ambiente in cui le idee e le opinioni di tutti gli atleti siano ascoltate e valorizzate. Gli allenatori possono creare spazi per una verifica regolare non solo del rendimento sportivo, ma anche dell’ambiente di squadra e delle strategie di allenamento. Anche il riconoscimento degli errori e la disponibilità a cambiare il proprio approccio in base al feedback ricevuto rivelano umiltà e rispetto per la squadra.

Un buon leader promuove il senso di comunità attraverso il lavoro di squadra con tutto lo staff e il cappellano sportivo, riflettendo il principio che siamo tutti membra dello stesso corpo.

Strategia pratica: le attività che rafforzano la coesione della squadra, come le dinamiche di gruppo, le riunioni sulla risoluzione dei conflitti e i progetti di servizio comunitario, favoriscono un senso di unità e uno scopo condiviso. Così pure la prassi di festeggiare collettivamente i risultati ottenuti e al tempo stesso di riconoscere i contributi individuali.

3) L’esempio personale è forse lo strumento più forte di un leader. Gli atleti osservano e imparano dalle azioni e dagli atteggiamenti del loro allenatore.

Strategia pratica:gli allenatori dovrebbero sforzarsi di vivere secondo gli autentici valori nella loro vita quotidiana, mostrando integrità, onestà e compassione in tutte le loro azioni. Se il capo è un modello di comportamento etico e morale, invoglia gli atleti a seguire il suo esempio.

4) La comunicazione è fondamentale nella leadership. Un allenatore dev’essere in grado di comunicare aspettative e feedback in modo chiaro e benevolo.

Strategia pratica:l’ascolto attivo e la risposta empatica alle preoccupazioni degli atleti creano un ambiente di fiducia e di rispetto. Inoltre, se si utilizza un linguaggio positivo e costruttivo, concentrandosi sullo sviluppo e sulla crescita piuttosto che sulla sola prestazione, si aiuta gli atleti a sentirsi apprezzati e sostenuti.

Risorse per la pastorale sportiva


La pratica dello sport, nella sua essenza, è una costante ricerca di miglioramento, disciplina ed eccellenza. Tuttavia, per i credenti essa si estende alla dimensione spirituale. La preghiera, in tutte le sue varianti, permette agli atleti e agli allenatori cattolici di collegare la loro pratica sportiva alla loro vita spirituale. Uno dei modi migliori per vedere l’azione di Dio nell’atleta è registrare il frutto di tali preghiere in un quaderno. Il «quaderno dell’atleta», di cui ora parleremo, è un luogo privilegiato in cui egli registra il suo processo fisico e spirituale, i progressi e le difficoltà negli allenamenti e nelle gare, ma anche le mozioni ricevute da Dio e le battaglie spirituali.

1) Il quaderno dell’atleta è uno strumento semplice che permette all’atleta di registrare il processo che si svolge durante la sua vita sportiva. È uno spazio privato e confidenziale in cui si possono annotare le mozioni, le speranze, le frustrazioni e le gioie. È un luogo in cui dialogare, attraverso la scrittura, con sé stessi e con Dio.

Importante non è solo il contenuto, ma anche il contesto. Quando gli atleti ricevono il quaderno, devono essere incoraggiati a dedicargli momenti di qualità, cercando spazi tranquilli dove trascorrere del tempo, senza fretta né ansie. Non è un’imposizione, ma uno strumento di libertà e di crescita personale.

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

Il quaderno è uno spazio aperto all’atleta, che vi annota le sue esperienze durante i momenti di allenamento e di gara. Oltre a registrare i dati sportivi, vi scriverà le emozioni che accompagnano i momenti prima e dopo le gare e gli allenamenti.

Gli atleti devono riflettere sui propri obiettivi e sulle motivazioni personali dopo lo sforzo fisico. L’«esame ignaziano»[9], parte rilevante del quaderno, è composto da cinque punti importanti che aiutano a percepire il passaggio di Dio nella propria vita sportiva: chiedere luce; ringraziare; fare un bilancio dell’allenamento o della gara; chiedere perdono; e concentrare le energie sul giorno successivo.

Suggerimento pratico: l’allenatore può fare in modo che negli ultimi minuti di allenamento, dopo lo stretching e le istruzioni finali, ogni atleta possa prendere il proprio quaderno per annotare ciò che è successo quel giorno.

2) La lettura di testi spirituali fornisce ispirazione e guida per la crescita personale e motivazionale. Gli allenatori dovrebbero trovare il tempo per suggerire letture che aiutino gli atleti a progredire nella loro crescita integrale come persone. La lettura delle vite di atleti che sono stati esemplari nel corso della storia, come pure la lettura delle vite dei santi adattata al contesto attuale, possono essere una fonte di ispirazione, per i valori e la forza d’animo che quelle persone hanno dimostrato nella loro vita.

Suggerimento pratico: può essere molto utile creare un’abitudine alla lettura spirituale settimanale. L’allenatore può condividere con la squadra alcune riflessioni o insegnamenti rilevanti per gli atleti (così come gli atleti possono farlo tra loro). Queste conversazioni aiutano a stabilire legami di fiducia e motivazionali, che sono importanti nel processo di formazione dell’atleta.

3) L’accompagnamento del cappellano sportivo. La cura pastorale comporta che gli atleti vengano guidati e aiutati nel loro sviluppo integrale, che ci si preoccupi delle loro necessità fisiche, emotive e spirituali. Ciò è particolarmente importante per la formazione dei giovani atleti, che si trovano in fasi cruciali del loro sviluppo personale. Tutti abbiamo bisogno di uno spazio di piena fiducia per parlare, condividere e lasciarci contestare; quindi, l’accompagnamento da parte di un cappellano rafforza la vita spirituale.

Per l’atleta il cappellano sportivo è un «rifugio» a cui può rivolgersi con totale confidenza e riservatezza. Non è un allenatore, né un compagno di squadra, né un familiare, ma è una persona che, nella più totale libertà e rispetto, accompagna l’atleta nei suoi successi e nelle sue sconfitte, nelle sue conquiste e nelle sue difficoltà, e gli insegna a vivere tutto con gli occhi della fede.

Suggerimento pratico: integrare momenti di preghiera prima dell’allenamento e della competizione può aiutare gli atleti credenti a collegare la loro vita sportiva con la loro fede. Il cappellano può organizzare ritiri spirituali e sessioni di meditazione adattati alle realtà della stagione. Gli allenatori, dal canto loro, dovrebbero prestare attenzione ai segnali di stress, esaurimento e problemi personali degli atleti e offrire loro aiuto o indirizzarli, se necessario, a professionisti.

Conviene favorire la presenza settimanale del cappellano agli allenamenti e alle partite ufficiali. Egli è un membro dello staff e dev’essere coinvolto nelle attività della squadra. Oltre a celebrare i sacramenti, deve accompagnare tutti i membri della squadra.

Raccomandazioni pratiche per gli allenatori


Se si rende la spiritualità una componente dell’ambito sportivo, si offre un’opportunità unica per arricchire sia lo sviluppo personale sia il rendimento degli atleti. Coltivare certi aspetti della spiritualità può essere una fonte di forza, motivazione e impegno nello sport, promuovendo un ambiente in cui importanti valori guidano il comportamento e la crescita di tutti i membri della squadra.

Il primo aspetto di qualsiasi spiritualità è la preghiera o meditazione da parte della squadra. Come abbiamo già detto, gli allenatori dovrebbero introdurre momenti di preghiera e di riflessione prima e dopo ogni sessione di allenamento, perché questo può aiutare gli atleti a concentrarsi e a rafforzare la loro connessione spirituale. Rituali come una breve preghiera di squadra – per esempio, un «Padre nostro» – o un momento di meditazione aiutano a creare un ambiente tranquillo e concentrato, allineando la mentalità del gruppo con il desiderio personale, facendo crescere in valori, come la perseveranza e la gratitudine. Non si tratta di dedicarvi molto tempo, ma piuttosto un tempo breve e di qualità.

In secondo luogo, gli allenatori devono sfruttare le situazioni quotidiane dello sport per insegnare e rafforzare virtù come quelle sopra menzionate – per esempio, onestà, giustizia e rispetto –, così come devono riconoscere e premiare il gioco corretto e affrontare i conflitti in maniera etica. Ciò può aiutare gli atleti a fare propri questi valori nel loro comportamento, dentro e fuori dal campo.

In terzo luogo, poiché la forza della narrazione è molto potente, risultano motivanti le storie degli atleti che hanno integrato con successo la propria fede alla propria carriera. Gli atleti che hanno espresso la loro fede durante i Giochi di Parigi possono essere di grande stimolo: per esempio, la ginnasta Rebeca Andrade e l’atleta Nicola Olyslagers. Gli allenatori possono presentare questi esempi durante le riunioni di squadra o in sessioni formative, mostrando come la forza della spiritualità possa essere fonte di ispirazione e di orientamento nella vita sportiva.

In quarto luogo, è importante incoraggiare una sana competizione. È fondamentale istruire gli atleti sull’importanza di gareggiare con lealtà e rispetto. Gli allenatori possono parlarne, sottolineando che l’obiettivo è quello di migliorare e di fare del proprio meglio, non semplicemente quello di battere gli altri. Mettere in gioco tutti i propri talenti è un obbligo, non un capriccio, ma sempre rispettando e accettando ciò che può dare l’altro.

In quinto luogo, dobbiamo sottolineare la «disponibilità 24/7»: gli allenatori devono interpretare il loro ruolo di guide con umiltà e con un atteggiamento di servizio. Ciò significa rendersi disponibili a sostenere gli atleti, ascoltare le loro preoccupazioni e agire con correttezza. La leadership richiede tempo e abnegazione; il fatto che il leader si metta al servizio della squadra con dedizione può ispirare un comportamento simile nella squadra.

In sesto luogo, anche gli allenatori devono prendersi cura della propria dimensione spirituale. Questa dedizione personale rafforza la loro capacità di guidare gli altri e fornisce una solida base.

Queste sei raccomandazioni possono aiutare gli allenatori a creare un contesto in cui l’allenamento dell’atleta non sia focalizzato solo su aspetti esterni, come la vittoria in una competizione, ma gli dia modo di imparare a concentrare il suo tempo di allenamento nei campi sportivi su aspetti che sono importanti per il corpo, la mente e lo spirito. Sappiamo bene che nel mondo di oggi le priorità si misurano a partire dal risultato e che la parte spirituale non è considerata un valore «pratico» per raggiungere obiettivi. Ma non lasciamo che gli alberi ci impediscano di vedere il bosco! L’essere umano è una totalità, un’entità olistica che ha bisogno di corpo, mente e spirito. Se ci si prende cura di tutti e tre gli aspetti della persona, questa si svilupperà in modo più completo ed efficace.

Conclusione


Come abbiamo visto, quando parliamo di pastorale sportiva, ci riferiamo all’interrelazione tra sport e spiritualità, ed è qui che troviamo un terreno fertile per la crescita personale, lo sviluppo del carattere e la manifestazione di valori che vanno al di là delle vittorie e delle sconfitte sul campo di gioco. La relazione tra questi due mondi non è solo una questione di reciproca ispirazione, ma di una profonda connessione, che rivela come la pratica dello sport possa arricchire la vita spirituale e come la fede possa illuminare il cammino verso l’eccellenza sportiva.

Lo sport, con la sua attenzione allo sforzo, alla disciplina e alla perseveranza, offre un contesto ideale per vivere i princìpi cristiani. Gli atleti che integrano questi aspetti nella loro vita quotidiana cercano non solo di migliorare le proprie prestazioni fisiche, ma anche di coltivare una mente e un cuore aperti a valori come l’umiltà, la gratitudine e il rispetto. Questi princìpi, quando si radicano nell’animo, aiutano gli atleti a mantenere la prospettiva e a trovare un significato in ogni sfida, sia che si tratti di una vittoria che di una sconfitta; del resto, proprio dalla spiritualità cristiana apprendiamo che il vero successo va oltre i risultati visibili e materiali. Nello sport, questo si traduce nello sviluppo del carattere e nella ricerca dell’eccellenza con integrità.

Quando parliamo di pastorale sportiva, ci riferiamo all’impatto positivo della fede nello sport. Gli atleti di alto livello che manifestano la loro fede dimostrano non solo di aver raggiunto il successo nelle rispettive discipline, ma anche di averla utilizzata per affrontare le sfide, superare le avversità e mantenere l’umiltà. La loro vita e la loro carriera attestano che la spiritualità non solo infonde forza nei momenti di difficoltà, ma ispira anche una condotta etica e un impegno genuino verso gli altri.

In definitiva, lo sport e la spiritualità sono intrinsecamente connessi, perché sono alla ricerca della verità, dell’integrità e dell’eccellenza. Per gli allenatori, per gli atleti e per tutti coloro che sono coinvolti nel mondo dello sport l’integrazione della fede nella pratica sportiva offre un modo per allineare lo sforzo fisico con lo scopo spirituale, creando un equilibrio che arricchisce sia la vita professionale sia quella personale.

L’integrazione di questi due mondi non è semplicemente una questione di coincidenza, ma un invito a vivere in modo più pieno e significativo; ed è qui che la pastorale sportiva ha più senso che mai. Gli atleti che si comportano così non cercano solo di raggiungere obiettivi personali e professionali, ma anche di riflettere i valori del Vangelo in ogni azione, in ogni decisione e in ogni interazione. Così lo sport diventa manifestazione vivente della spiritualità cattolica, dimostrando che la vera vittoria sta nell’unione di corpo, mente e spirito, nella ricerca di una corona che non appassisce (cfr 1 Cor 9,25).

Al tempo stesso, dobbiamo riconoscere che si tratta di un’integrazione difficile, a causa della secolarizzazione che prevale in Occidente. La fede non è sempre presente nelle scuole cattoliche tra insegnanti, allenatori e studenti, e quindi il compito non è facile. Trovare un linguaggio che possa trasmettere la Buona Notizia del Vangelo ai giovani di oggi è sempre una sfida, ma nello sport troviamo un alleato. Istituzioni come l’«Athletica Vaticana» aiutano a essere testimoni del Vangelo e testimoni della fede senza parole, ma solo con i fatti. «Rientra in pieno nella vostra missione – ha detto papa Francesco – la vicinanza – parola-chiave – concreta ai più fragili: penso alle iniziative con i giovani con disabilità fisica o intellettiva, con le detenute e i detenuti, con i migranti, con le famiglie più povere. Ed è bello che a questi incontri partecipino tutti con la stessa dignità, compresi campioni olimpici e paralimpici, diplomatici e membri della Curia»[10]. Notiamo come papa Francesco riconosca le potenzialità dello sport come elemento integrante e protettivo della dignità della persona.

Gli allenatori hanno un ruolo fondamentale da svolgere affinché gli atleti possano vivere il loro tempo di «gioco» come un dono gratuito e come una missione. I Giochi olimpici, come abbiamo già detto, sono stati una piattaforma perfetta per la libera espressione degli atleti. Un lavoro che è rimasto nascosto per molto tempo e che ora sembra cominciare a emergere. La pastorale sportiva è più viva che mai.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] Cfr Giovanni Crisostomo, s., Omelie sul Vangelo di Matteo, 33,6.

[2] Ignazio di Antiochia, s., Lettera a Policarpo, 2,3.

[3] Tommaso d’Aquino, s., Summa Theologiae, II-II, q. 168, a. 2.

[4] Cfr J. M. Cardoso, «Papi e sport», in Ecclesia, n. 4133, luglio 2024, 22 s.

[5] Francesco, Messaggio che introduce il documento Dare il meglio di sé del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, presentato il 1° giugno 2018.

[6] Ivi.

[7] Id., Udienza all’Associazione sportiva «Athletica Vaticana», 13 gennaio 2024.

[8] Id., Messaggio, cit.

[9] Cfr Ignazio di Loyola, s., Gli scritti, Roma, AdP, 2007, 204.

[10] Francesco, Udienza all’Associazione sportiva «Athletica Vaticana», cit.

The post La pastorale sportiva first appeared on La Civiltà Cattolica.


I cattolici militanti contro il governo Mussolini


Mussolini e papa Pio XI si incontrano per la prima volta (Foto: Smith Archive/Alamy Foto Stock)

Don Sturzo e l’Aventino


Sul dibattito che si era aperto, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti[1], circa il modo di procedere dei cattolici militanti nei confronti del governo Mussolini – accusato da molti di aver organizzato o permesso il delitto –, intervenne il 6 settembre 1924 anche don Luigi Sturzo, con un articolo su Il Popolo, ormai divenuto il portavoce dei cosiddetti «popolari collaborazionisti», perché, per un certo periodo, avevano sostenuto il governo Mussolini. L’ex segretario politico del Partito popolare italiano (Ppi), pur non essendo favorevole alla scelta dell’Aventino[2] (secondo lui, infatti, le opposizioni avrebbero dovuto combattere il fascismo non soltanto sul piano morale, ma anche e soprattutto su quello politico, e l’unica sede adatta per fare questo era il Parlamento), giudicava però un fatto positivo il progetto di una collaborazione attiva tra le forze aventiniane per sbloccare la situazione politica e ridare nuova vita alle istituzioni democratiche. Inoltre, considerava che un accordo politico tra cattolici e socialisti moderati era ormai possibile, avendo questi ultimi imboccato la via della democrazia, lasciandosi alle spalle quella rivoluzionaria ed essendosi liberati dei vecchi pregiudizi anticlericali. «Oggi – scriveva don Sturzo –, meno i comunisti, gli altri socialisti si sono posti sul terreno della costituzionalità, della libertà e della legalità. Alcuni di loro dicono che questa è solo una posizione tattica, un momento della dialettica della loro azione, la quale rimane perfettamente rivoluzionaria; ma essi stessi forse non credono a quello che dicono o certo si illudono assai»[3].

Tre giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, il 9 settembre 1924, il Papa intervenne direttamente sulla questione politica dibattuta tra i cattolici: lo fece in un’udienza agli studenti universitari della Fuci, reduci dal loro congresso di Palermo. Pio XI, dopo un breve preambolo, nel quale ribadì il principio che l’Azione cattolica italiana (Aci) non era chiamata a svolgere un’azione politica, ma religiosa e culturale, affrontò direttamente, come era suo solito, la questione della collaborazione politica tra cattolici e socialisti: «Ora tra noi circolano purtroppo idee rivelatrici di pericolosa impreparazione. Si dice, per esempio, che per cooperare ad un male basta una qualunque ragione di pubblico bene; ma ciò è falso: una tale cooperazione (che, ben s’intende, non può essere che materiale) non può essere giustificata che dalla necessità ineluttabile per il fine di evitare un male peggiore. Si cita altresì la collaborazione dei cattolici con i socialisti in altri Paesi; ma si confondono, per la scarsa abitudine di distinguere, fattispecie alquanto diverse. A parte la differenza degli ambienti e delle loro condizioni storiche, politiche e religiose, altro è trovarsi di fronte ad un partito già arrivato al potere e altro è a questo partito aprire la strada e dare la possibilità dell’avvento; la cosa è essenzialmente diversa»[4].

A proposito di questo intervento del Papa, lo storico Renato Moro fa notare che la linea scelta dalla gerarchia fu quella di procedere a una precisazione dei compiti dell’Aci, che sottintendeva come questa associazione non venisse più vista accanto al partito cattolico per svolgere una funzione distinta e parallela, ma venisse sovrapposta al partito. L’attività religiosa non era più chiaramente distinta da quella politica, «ma si attuava una sorta di “confessionalizzazione” di quest’ultima, fino ad adombrare una sorta di “politica cattolica”»[5].

Il Popolo dell’11 settembre 1924, commentando il discorso del Papa ai «fucini», cercò di aggirare l’ostacolo, sostenendo che esso rappresentava un richiamo per tutti i cattolici italiani «ad un più vigile esame delle proprie responsabilità […], per orientare la propria azione pratica là dove la coscienza» indicava essere in quel momento il supremo bene della nazione. Il giornale dei popolari cercò in tutti i modi di dare alle parole del Papa – che in verità erano state abbastanza chiare ed esplicite – l’interpretazione più ampia e generica possibile, per evitare di trarre da esse le ineludibili conseguenze pratiche auspicate dal Pontefice.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

Questo modo strumentale di commentare il messaggio papale irritò molto gli ambienti vaticani. Il Sostituto alla Segreteria di Stato, mons. Giuseppe Pizzardo, il giorno stesso della pubblicazione dell’articolo ne inviava una copia al Papa, e con un biglietto lo informava sommariamente sul suo contenuto: «Beatissimo Padre – scriveva il prelato –, mi permetto di inviare a Vostra Santità il commento de Il Popolo al discorso della Santità Vostra. In sostanza, Il Popolo non prende il discorso come una norma concreta da seguire, ma come un invito a esaminare la propria responsabilità e ad orientare la propria azione là dove la coscienza indica. Se non erro, questa è applicazione della asserita aconfessionalità. Cioè il Partito popolare si ispira agli ideali cristiani, ma quando questi ideali sono in concreto spiegati dall’Autorità Ecclesiastica, allora interviene la coscienza a stabilire il valore pratico»[6].

Pio XI volle che «ufficiosamente» si ribadissero ancora una volta i princìpi da lui espressi nell’udienza con gli universitari cattolici. In un articolo de L’Osservatore Romano del 14 settembre si disse esplicitamente che il Papa, nel discorso ai «fucini», non si era limitato «a un richiamo generico di ciascuno ad un più vigile esame della propria responsabilità, lasciando alla coscienza individuale la libertà della propria “orientazione”, ma a qualcosa di più specifico». Il giornale vaticano poi affermava: «Il voler rimettere ad un giudizio positivo una questione, che è già chiaramente decisa da una direttiva categorica, potrebbe essere inteso quasi un pretesto di disobbedienza». La polemica tra le due testate continuò ancora per qualche giorno, ma con toni più pacati[7].

Intanto i dirigenti del Ppi andavano man mano prendendo coscienza che la strada della collaborazione con i socialisti – e quindi l’accordo politico aventiniano nel suo complesso – non avrebbe condotto da nessuna parte, soprattutto fino a quando il re e i militari avessero continuato ad appoggiare Mussolini, e che, anzi, essa alla fine avrebbe isolato sempre di più il partito dal proprio elettorato moderato e cattolico, il cui voto era quasi interamente controllato dai parroci, molti dei quali, nei piccoli centri, erano ancora attivisti del partito.

Il delitto Casalini e la svolta di Mussolini


L’atteggiamento negativo assunto dalla Santa Sede nei confronti di un possibile accordo politico tra popolari e socialisti in funzione antifascista finì con l’avvantaggiare Mussolini e il suo governo: veniva infatti scongiurata una crisi istituzionale che probabilmente avrebbe travolto, oltre che la compagine ministeriale, anche l’intero sistema mussoliniano[8]. Così, almeno dal fronte delle opposizioni, Mussolini per il momento non aveva nulla da temere. L’Aventino, pur non essendo stato ancora sconfitto – rimaneva infatti ancora forte il suo compito di protesta morale, che trovava largo consenso nel Paese –, anche a motivo del «veto vaticano» era stato reso inattivo, inoffensivo sul piano politico e pratico. In questo modo la Santa Sede contribuì a puntellare il potere fascista e ad aiutare il regime mussoliniano a uscire dal pantano nel quale le vicende del delitto Matteotti lo avevano cacciato[9]. Essa era consapevole che un cambiamento di governo in quel momento avrebbe significato o l’avvento al potere dei socialisti o la sostituzione di Mussolini con i cosiddetti «integralisti» alla Farinacci, pronti a portare agli estremi la rivoluzione fascista. Sia l’una sia l’altra soluzione erano considerate dall’autorità ecclesiastica dannose per la Chiesa e per il Paese. Per il momento, dunque, era meglio appoggiare il governo Mussolini e tentare di indirizzarne l’azione verso una politica di normalizzazione nazionale[10].

Mussolini, dal canto suo, una volta messosi al sicuro dagli attacchi provenienti dal fronte delle opposizioni – che egli contrastò anche con leggi liberticide, che gli alienarono la fiducia di molti liberali, primo fra tutti Giolitti –, indirizzò la sua azione verso il fronte interno. Questo, da un lato, era costituito dai fiancheggiatori del regime, i quali, dopo il delitto Matteotti, tentarono in tutti i modi di prendere le distanze dal fascismo, tenendosi un po’ alla larga dal dibattito politico di quei mesi e attendendo, prima di prendere una posizione decisa in materia, che la situazione politica si normalizzasse; dall’altro lato, era formato dal fascismo intransigente, che aveva i suoi punti forti nei ras locali, che criticavano Mussolini per la sua politica troppo morbida e conciliatrice nei confronti dei partiti «democratici».

La tattica che Mussolini utilizzò a quel tempo fu quella della mediazione tra le due fazioni del partito: con gli «intransigenti» egli fece la voce grossa nel condannare gli oppositori del regime, ricorrendo alla retorica rivoluzionaria del «fascismo di provincia»; invece, con i «costituzionali» e i fiancheggiatori – del cui appoggio in quel momento aveva estremo bisogno per riguadagnare o conservare la fiducia del re, degli industriali e della Chiesa – usò il linguaggio rassicurante di chi intendeva lavorare per la pacificazione del Paese e per la tanto richiesta normalizzazione sociale e politica. Le scelte politiche che Mussolini fece in quel periodo oscillarono quindi tra la moderazione e l’intransigenza.

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

Ai primi di agosto del 1924 sembrava che Mussolini avesse ripreso in mano la situazione sia fuori sia dentro il suo partito, e che dovesse trionfare l’indirizzo moderato dei fiancheggiatori, al quale egli sembrava dare credito. In realtà le cose andarono in modo diverso dal previsto. Un primo colpo alla «strategia di contenimento» elaborata da Mussolini lo diede, il 16 agosto 1924, il ritrovamento del cadavere di Matteotti. Questo evento fu sfruttato dalle opposizioni per rinnovare i loro attacchi al governo e al fascismo, e ciò provocò, per reazione, una serie di violenze da parte fascista: a Napoli, per esempio, una manifestazione antigovernativa finì con tre morti e diversi feriti, mentre a Torino Piero Gobetti, noto intellettuale liberale, fu picchiato a sangue. Un altro colpo ai tentativi mussoliniani di normalizzare la situazione politica del Paese fu dato dall’uccisione del noto esponente delle Corporazioni sindacali fasciste, l’on. Armando Casalini, assassinato a Roma il 12 settembre, a colpi di rivoltella, da un esaltato. Questa fu l’occasione che mise in moto una serie di reazioni a catena che in pratica avrebbe condotto al 3 gennaio 1925, data di nascita della dittatura fascista[11].

La reazione contro questo assassinio fu molto violenta nel mondo fascista. Le opposizioni aventiniane e la stampa da esse controllata furono indicate come i mandanti morali del delitto, che veniva così ad assumere i connotati di un vero e proprio assassinio politico; ormai il fascismo aveva il suo eroe, il suo martire da opporre, nella propaganda di piazza, a Matteotti. La stampa fascista non si limitò soltanto a condannare l’omicidio, ma utilizzò questo fatto per minacciare le opposizioni e i suoi capi più in vista. Tanto più che ormai buona parte del mondo politico italiano aveva perso la fiducia in un’effettiva opera di normalizzazione da parte del governo. Questo iniziò quindi a pensare a uno sbocco della situazione politica che non fosse più imperniato su Mussolini, e così il fronte dei fiancheggiatori cominciò a prendere le distanze dal regime.

I moderati, in particolare le forze liberali, avrebbero desiderato che il re prendesse in mano la situazione e licenziasse il capo del governo, affidando l’incarico a un uomo d’ordine, capace di traghettare il Paese verso nuove elezioni, e quindi verso un nuovo assetto politico-istituzionale. Ma il re non fece nulla in questa direzione. Sconfessare Mussolini, aprendo una crisi di governo, significava infatti per lui affermare davanti al Paese che la scelta fatta in occasione della Marcia su Roma dell’ottobre 1922 era stata una scelta sbagliata e che contare su Mussolini e sui fascisti per rafforzare l’autorità del governo e dello Stato era equivalso ad acconsentire a un mezzo colpo di Stato. Inoltre, il re non avrebbe preso nessuna iniziativa di questo genere senza che gli venisse prospettata dalle forze politiche un’alternativa credibile e praticabile sul piano politico al governo esistente. E certamente le divisioni che esistevano su questo punto all’interno del fronte aventiniano e, più in generale, tra gli oppositori al fascismo non lo incoraggiavano in questa direzione.

La relazione dell’avv. Luigi Colombo


Anche in Vaticano, nei mesi di settembre-ottobre 1924, si pensava che il governo Mussolini fosse ormai arrivato alla fine, anzi si riteneva che nel giro di poco tempo si sarebbero probabilmente indette nuove elezioni politiche[12]. Si iniziò così a studiare una strategia elettorale che, senza esporre troppo la Santa Sede sul versante della lotta politica, potesse indirizzare il voto cattolico in senso antisovversivo, cioè antisocialista e anticomunista. Secondo l’autorità ecclesiastica, era necessario agire per tempo, prima cioè che iniziasse la campagna elettorale vera e propria, per impedire che le sinistre arrivassero democraticamente al potere e che i cattolici popolari ne facilitassero o permettessero l’ascesa. Un promemoria redatto probabilmente dal segretario generale dell’Azione cattolica, avv. Luigi Colombo, o da un prelato a lui vicino, ci informa sul modo in cui i cattolici militanti intendevano prepararsi alla battaglia elettorale: «Per le prossime elezioni politiche – scriveva l’autore –, che si presumono in novembre, i partiti di opposizione al governo attuale – giolittiani, democratici sociali, socialisti unitari, popolari – hanno stretto, almeno ufficiosamente, un’alleanza»[13], secondo la quale in ogni collegio elettorale si sarebbe presentato un solo candidato di opposizione e il numero dei candidati di ciascun partito sarebbe stato proporzionale alla propria forza elettorale.

È probabile che il redattore del promemoria ritenesse possibile una riforma del sistema elettorale in senso uninominale. Mussolini, infatti, proprio in quei mesi andava meditando una riforma in tal senso della legge elettorale approvata prima delle ultime elezioni e intendeva chiedere al re una delega in bianco sullo scioglimento della Camera. Infatti, secondo il suo progetto, soltanto a lui sarebbe spettato indicare le persone da includere nelle liste elettorali, decidendo autonomamente chi candidare alla nuova Camera e chi invece depennare[14].

Continuava la relazione: «La nuova Camera dovrà vivere solo pochi mesi, quanto occorre per liquidare il fascismo, far ritornare il Paese alla libertà e all’ordine e votare la proporzionale. Per tal periodo transitorio, nei riguardi della politica ecclesiastica i socialisti s’impegneranno a mantenere lo status quo. I dirigenti del Partito Popolare ed anche i soci più influenti e più temperati non recederanno dal loro atteggiamento e dalla collaborazione coi socialisti che considerano come obbligo di coscienza. Si tratta, essi dicono, di abbattere un governo, il quale, sopprimendo le libertà civili, erigendo a sistema la violenza, identificandosi col regime fascista, è contro la Costituzione e minaccia la stessa vita della nazione: ritornare alla libertà e togliere la nazione dall’incubo che la opprime sono beni tali, dinanzi ai quali i partiti scompaiono: è un dovere che riguarda tutti i cittadini indistintamente, al di sopra dei partiti. Anzi, i popolari credono di rendere un servizio alla Chiesa: è fatale, essi dicono, che i socialisti vadano al potere: gli errori e i delitti dei fascisti ve li portano certamente: i popolari non fanno che rendere meno gravi e terribili le conseguenze dell’avvento al potere dei socialisti»[15].

La relazione poi dichiarava che questo lavoro di preparazione e di chiarificazione doveva essere svolto non solo dagli organismi dell’Azione cattolica, ma anche dagli organi della stampa cattolica. In tal modo, le associazioni cattoliche, riaffermando i princìpi della morale cristiana in materia sociale e politica, avrebbero reso un grande servizio alla Chiesa, impedendo che l’autorità ecclesiastica venisse direttamente coinvolta in dispute di natura politica, che non erano di sua pertinenza e che ne avrebbero sminuito il prestigio morale.

Non tutti però, nel Partito popolare, la pensavano come l’avv. Colombo; altri, come l’on. Giorgio Montini, padre del futuro papa Paolo VI, prospettavano posizioni differenti, più moderate e realistiche. «Da colloqui avuti col dott. Lodovico Montini, figlio dell’on. Giorgio Montini di Brescia – si legge in una relazione inviata in Segreteria di Stato –, risulta che in seno allo stesso gruppo parlamentare vi sono parecchi deputati, primo fra essi l’on. Montini, che sono contrari tanto all’Aventino, quanto, a maggior ragione, ad una eventuale alleanza coi socialisti: tendono invece ad unire i cattolici dell’una e dell’altra tendenza,per formare una massa compatta di cittadini, che anche nell’attività politicavogliono seguire fedelmente le indicazioni della Santa Sede e dell’Azione Cattolica. A questo fine l’on. Montini conserva sempre relazioni di amicizia col sen. Giovanni Grosoli; e si preoccupa perché una tendenza eccessivamente democratica non prevalga a Brescia, col pericolo di scindere maggiormente i cattolici fra democratici e conservatori. Il dott. Montini ritiene che la Settimana Sociale di Napoli abbia giovato a chiarire posizioni e crede che, eliminando alcuni elementi, né cattolicamente formati, né retti nei loro intenti, si potrebbe far recedere il Partito Popolare dall’attuale suo atteggiamento; ciò sarebbe desiderabilissimo,poiché la stragrande maggioranza dei cattolici, anche organizzati, compreso il clero, rimane sempre, se non iscritto, certo simpatizzante e favorevole al Partito Popolare»[16].

La Santa Sede, pur considerando la ragionevolezza della prospettiva dei cattolici militanti, scelse di non contribuire a far cadere il governo, che finora si era mostrato aperto nei confronti della gerarchia, evitando così ogni pericoloso salto nel buio.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] Cfr G. Sale, «Matteotti a un secolo dal delitto», in Civ. Catt. 2024 II 417-430.

[2] La secessione dell’Aventino fu un atto di protesta morale e politica della Camera dei deputati. Esso fu voluto da alcuni partiti – tra cui i socialisti e il Ppi – e attuato, a partire dal 27 giugno 1924, nei confronti del governo Mussolini in seguito all’uccisione di Matteotti.

[3] L. Sturzo, «L’unità morale degli italiani», in Il Popolo,6 settembre 1924.

[4] G. Sale, Fascismo e Vaticano prima della Conciliazione, Milano, Jaca Book, 2007, 183.

[5] R. Moro, «Azione cattolica, clero e laicato di fronte al fascismo», in F. Malgeri, Storia del movimento cattolico in Italia, vol. IV, Milano, Il Poligono, 1981, 128. Sui rapporti tra Azione cattolica e Santa Sede nel periodo fascista, cfr M. Bendiscioli, La politica della Santa Sede,Firenze, La Nuova Italia, 1939; S. Rogari, Santa Sede e fascismo. Dall’Aventino ai Patti lateranensi,Bologna, Forni, 1977; G. Grasso, I cattolici e l’Aventino,Roma, Studium, 1994, 107-120; M. Casella, L’Azione Cattolica nell’Italia contemporanea (1919-1969), Roma, Ave, 1992.

[6] Archivio Storico della Segreteria di Stato – Sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali (ASRS, AA.EE.SS.), Italia, 581, 24.

[7] Su questo argomento, cfr G. De Rosa, Il Partito popolare italiano,Bari – Roma, Laterza, 1988, 292-302.

[8] Cfr S. Rogari, Santa Sede e fascismo dall’Aventino ai Patti lateranensi, cit., 33.

[9] Cfr F. L. Ferrari, «L’Azione Cattolica sotto il pontificato di Pio XI», in G. Giuntella (ed.), Scritti dall’esilio, vol. I,Roma – Modena, Edizioni di Storia e Letteratura – Sias, 1971, 445 s.

[10] Cfr S. Rogari, Santa Sede e fascismo dall’Aventino ai Patti lateranensi, cit., 34 s.

[11] Cfr R. De Felice, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere (1921-1925),Torino, Einaudi, 2019, 676.

[12] Le elezioni politiche del 1924 per la Camera dei deputati si svolsero il 6 aprile 1924. Furono le ultime multi-politiche a sovranità popolare svoltesi in Italia prima dell’avvento della dittatura fascista. Cfr G. Sale, «Le elezioni fasciste del 1924», in Civ. Catt. 2024 III 223-235.

[13] ASRS, AA.EE.SS., Italia, 581, 25.

[14] Cfr R. De Felice, Mussolini il fascista…,cit., 698 s.

[15] ASRS, AA.EE.SS., Italia, 581, 25.

[16] ASRS, AA.EE.SS., Italia, 573, 22.

The post I cattolici militanti contro il governo Mussolini first appeared on La Civiltà Cattolica.


«Dio aiuta i forti»: la fortezza teresiana


Santa Teresa d’ Ávila di Benito Mercadé (Museo del Prado)

Introduzione


La virtù della «fortezza» non è stata una delle più studiate nei lavori sugli scritti di Teresa d’Ávila[1]. Sia le analisi storiche sia quelle sviluppate nel campo della spiritualità finora hanno prestato scarsa attenzione a tale virtù. Tuttavia, la fortezza è un elemento chiave per comprendere l’idea che la Santa ha di Dio e del soggetto: un’idea che lei manifesta man mano che descrive il proprio cammino di fede e istruisce altri nella vita spirituale. Per Teresa, Dio è «Re così grande e onnipotente che tutto può e tutto sottomette»[2]. E il fine ultimo del credente, fiducioso che «non si deve avere paura di nulla, sempre inteso […] che si cammini innanzi a Lui con verità e coscienza pura»[3], è «contentare il Signore»[4] e «non offenderlo»[5].

Nei suoi testi, la Santa non intende elaborare un trattato teologico o un manuale di antropologia, anche se finisce per sviluppare una sorta di compendio di teologia mistica e pratica spirituale. Realizzando quello che lei definisce un atto di obbedienza ai suoi confessori[6] e alle sue sorelle del monastero di San Giuseppe[7], scrive una serie di testi di carattere spirituale, basati sulla propria esperienza. Teresa parla così della fortezza umana e della fortezza divina a partire dalla propria esperienza di vita e di fede. L’esperienza, infatti, è il luogo su cui lei fonda la legittimità della sua conoscenza di Dio. Come sottolinea la studiosa Elena Carrera, per la Santa «la conoscenza esperienziale […] è superiore alla conoscenza dei saggi»[8]. In questo senso, quando Teresa si riferisce alla fortezza, in effetti sta descrivendo il proprio «processo progressivo di incarnazione personale dell’evento cristiano»[9].

In tutte le sue opere, Teresa insiste ripetutamente sull’enorme valore della fortezza per la vita dei credenti. Si riferisce a questa virtù in tutti i suoi scritti principali e la esalta al punto da affermare che, almeno nei tempi in cui le era toccato di vivere, «sono necessari forti amici di Dio»[10]. Fortezza e rapporto con Dio – quest’ultimo come risposta radicale all’amore divino – per Teresa sembrano essere strettamente collegati.

Perché allora questa virtù è così fondamentale per la Santa castigliana del XVI secolo? Che cosa lei intende per «fortezza»? Quale ruolo gioca e quale significato essa ha nella vita e nell’opera della riformatrice del Carmelo? Che cosa ci dice sul suo modo di intendere l’essere umano e sulla sua conoscenza esperienziale di Dio? Sono queste le domande fondamentali che orienteranno la nostra riflessione nelle pagine seguenti, in cui cercheremo di mostrare come la fortezza costituisca una virtù centrale nell’antropologia implicita e nella teologia spirituale di Teresa d’Ávila.

I significati della fortezza nell’opera di Teresa d’Ávila


Il termine «fortezza» compare 63 volte nei principali scritti teresiani, escluse le lettere. Il testo in cui è più presente è il libro della Vita (29 volte), seguito dal Castello interiore (9 volte), dal Cammino di perfezione (7 volte), dalle Fondazioni e dai Pensieri sull’amore di Dio (6 volte in ciascuno di essi) e, infine, dalle Relazioni spirituali e dalle Esclamazioni dell’anima a Dio (3 volte in ciascuno di esse). Allo stesso modo, i suoi equivalenti «forza» o «forze», che funzionano quasi come sinonimi, ricorrono 307 volte in tutti i suoi scritti. La frequenza relativa di occorrenze in ciascuno di essi segue uno schema simile a quello del concetto di fortezza. Così li troviamo 87 volte nella Vita, 38 nel Castello interiore, 31 nel Cammino di perfezione e nelle Fondazioni, 17 nelle Relazioni spirituali, 6 volte nelle Esclamazioni dell’anima a Dio e 50 volte nelle lettere di Teresa.

D’altra parte, l’aggettivo «forte» è presente 96 volte in tutti gli scritti teresiani (di cui 26 nella Vita e 17 nel Cammino di perfezione). Ma ci sono anche molti altri termini e verbi dello stesso campo semantico: costanza, determinazione, disposizione, esercitarsi, sforzo, stabilità, fermezza, pazienza, perseveranza, energia o resistere. Tutti sono molto legati alla categoria della fortezza, sia per la vicinanza spaziale nel testo sia per la correlazione semantica.

Allo stesso tempo, c’è un altro interessante numero di concetti che si contrappongono alla categoria di fortezza e ai termini precedentemente indicati nei documenti teresiani. Ciò costituisce un nuovo elemento per riflettere sull’importanza dell’idea di fortezza nel pensiero della Santa. Alcuni dei più significativi sono i seguenti: debole, debolezza, indebolire, fiacco, fiacchezza, pigrizia, fragile, fragilità, impedimento, mediocrità, paura, miseria, pusillanimità, timore, tiepidezza o tiepido.

Ebbene, delle 63 volte in cui troviamo il termine «fortezza», in quattro esso è utilizzato in un’accezione diversa da quella che qui trattiamo, perché si riferisce a un «recinto fortificato»[11]. In concreto, nel libro delle Fondazioni si fa riferimento una volta a un «appartamento del castello» fisico di Malagón[12]; le altre tre volte la fortezza costituisce una metafora della parte più elevata dell’anima umana[13]. Nelle restanti 59 volte in cui compare questo termine, Teresa non lo definisce, ma lo usa in tre accezioni principali. In primo luogo, come sinonimo generico di virtù, nel senso di costanza, fermezza, vigore o coraggio; inoltre, e in modo complementare, quando lei parla di virtù, di solito si riferisce implicitamente alla fortezza o alla forza, il che ci fa capire l’importanza di tale concetto. In secondo luogo, e in stretta correlazione con il precedente, lo usa in riferimento alla specifica virtù cardinale della fortezza. In terzo luogo, lo usa come aggettivazione di altre virtù o potenze dell’anima, cioè o nella loro individuazione, o nel senso della loro crescita progressiva.

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

Di particolare interesse è il primo senso in cui Teresa usa il termine «fortezza», quasi intercambiabile con quello di virtù. All’inizio del XVII secolo, il lessicografo Sebastián de Covarrubias, nel suo Tesoro de la Lengua Castellana o Española, definì la «fortezza» come «coraggio, valore, costanza, fermezza, tolleranza e vigore»[14]. E 100 anni dopo, il Diccionario de autoridades della Real Academia Española definì la «virtù» in modo molto simile, ossia come «forza, vigore, coraggio, potere di agire; disposizione dell’animo o onesto abito operativo delle azioni secondo la retta ragione, per cui chi le esegue diventa lodevole; abito e disposizione d’animo per le azioni conformi alla Legge cristiana e ordinate alla Beatitudine»[15]. Entrambe le definizioni ci danno un’idea del significato corrente dei termini «fortezza» e «virtù» ai tempi di Teresa. Inoltre, va notato che il significato di virtù come abito è chiaramente radicato in concezioni aristotelico-tomiste, che sono allo stesso tempo coerenti con l’idea di virtù che Teresa delinea nei suoi scritti, come vedremo in seguito.

Il secondo significato, molto vicino al precedente, che la categoria di fortezza acquista nell’opera teresiana implica la nozione classica di questa specifica virtù cardinale. In linea con la sua felice strategia retorica di «autorappresentazione paradossale»[16] – che è in fondo il «paradosso centrale del cristianesimo: il fatto che Dio esalta gli umili»[17]–, la Santa si descrive più volte come «debole, vile e di nessuna importanza […]; poi sono donna, miserabile e vile»[18]. In altre parole, si considera «misera e senza alcuna energia [fortaleza[19], priva cioè di questa virtù cardinale di cui si avvale con una funzione totalizzante della propria descrizione personale.

Così, insieme alla prudenza, alla giustizia e alla temperanza – che compaiono in un modo o nell’altro nei diversi momenti dei testi teresiani –, la fortezza costituisce una categoria che implica altre virtù personali proposte da Teresa: in particolare la pazienza, la perseveranza, la magnanimità – che, secondo Tommaso d’Aquino, sono virtù subordinate o parti potenziali della fortezza –, o l’umiltà, virtù subordinata o parte potenziale della temperanza.

Un altro motivo a favore della comprensione della fortezza come virtù cardinale nell’opera teresiana, cioè come «principio e radice delle altre virtù», ci viene offerto dalla definizione che il Diccionario de autoridades dà della «virtù cardinale»: quella che «dispone l’animo alle cose terribili e ad amare, e ad atti eroici, facendo sì che non sia codardo nel temerli né incauto nell’affrontarli, senza per questo evitare di fare ciò che riconosce essere giusto, per quanto difficile, arduo e terribile possa essere»[20]. In altre parole, possiamo parlare della fortezza come di una virtù «quando il cuore è così forte e coraggioso che non viene meno nelle tentazioni, né si stanca di compiere le opere buone»[21]. In questo senso, Teresa insiste molto sulla necessità di superare la codardia, le tentazioni, l’incostanza e le paure con cui lo spirito cattivo cerca di ingannare coloro che si dispongono a servire Dio. La Santa dunque apprezza molto la determinazione nell’affrontare i «travagli» che sono implicati nel cammino spirituale come risposta a Dio e reso possibile dalla grazia divina.

Infine Teresa, come si è detto, usa il termine «fortezza» come aggettivo per altre virtù o potenze dell’anima. Attribuisce grande valore al rafforzamento delle virtù, cioè alla crescita in esse. Così, esortando le monache del monastero di San Giuseppe a esaminarsi sulla propria umiltà e a considerare le tentazioni contro tale virtù come una via di crescita nella vita spirituale, scrive: «È impossibile che l’umile, quando è tentato, non progredisca in maggior umiltà e vi si fortifichi»[22]. E nei Pensieri sull’amore di Dio afferma che ci sono momenti in cui, nell’amicizia dell’anima con Dio, questa «non vede il buon Maestro che così l’istruisce, ma comprende che sta con lei. E si ritrova così bene istruita, con effetti così grandi e con tanta energia per il bene da non riconoscersi più, sino a non voler dire né fare altra cosa che lodare il Signore»[23]. Oppure, nella stessa opera, esorta: «Non preoccupiamoci quindi delle nostre paure, né perdiamoci di coraggio per la nostra debolezza. Piuttosto cerchiamo di fortificarci nell’umiltà»[24].

La Santa descrive la fortezza come qualità delle potenze dell’anima anche nel Cammino di perfezione. In particolare, fa appello a un forte «sano criterio», descrivendolo come quello che è capace di orientarsi al bene: «Una persona di [sano] criterio appena comincia ad affezionarsi al bene, vedendone l’utilità, gli si attacca fortemente»[25]. Si riferisce anche alla «forza» che a volte è data all’intelletto attraverso «una sola parola di quelle che sono solita udire, una visione, un po’ di raccoglimento che duri un’Ave Maria o solo l’accostarmi alla Comunione»[26]. E, parlando dell’orazione di quiete, scrive della fortezza posseduta dalla volontà nel richiamare senza sforzo l’intelletto quando esso si distrae con le cose del mondo; ma, a proposito dell’intelletto, dice che, se l’orante «lo vorrà raccogliere a viva forza, perderà l’ascendente [fortaleza] che ha su di lui»[27].

Il primato dell’«onore divino»


L’idea di fortezza nel corpus teresiano può essere interpretata correttamente solo nel contesto della sua comprensione del fine ultimo dell’essere umano: l’onore di Dio. Infatti «non l’onore, non la vita, non la gloria, né qualunque altro bene di anima e corpo: non voglio, né desidero più nulla, altro che la gloria di Dio»[28]. Questa prospettiva si manifesta chiaramente anche in un’importante Testimonianza spirituale indirizzata ad Alonso Velázquez, vescovo di Osma. Il gesuita André Brouillette definisce questo testo «l’ultimo testamento di Teresa», perché «testimonia la fase finale del percorso teologico ed esistenziale di Teresa, nell’anno precedente la sua morte»[29]. L’importanza di questo scritto, inoltre, sta nel fatto che in esso la Santa «apre la sua anima [ad Alonso Velázquez] in tutta amicizia» e «descrive bene l’atmosfera spirituale in cui si trova»[30]. Teresa ci mostra la sua condizione personale, quando esclama: «Oh, potessi farle conoscere la pace e la tranquillità in cui è ora l’anima mia…»[31]. E sottolinea con forza ed enfasi che lei «fa ogni cosa per l’onore di Dio, per meglio compiere il suo volere e per la sua maggior gloria»[32].

Tuttavia questa determinazione non sempre è semplice né si dà automaticamente. Teresa più volte, sulla base della propria esperienza, mette in guardia dall’attrazione provocata dall’onore del mondo – il «negro punto di onore»[33], come lo chiama –, che «costituiva l’anima stessa del comportamento sociale in Castiglia nella seconda metà del XVI secolo»[34]. E, per contrastarlo, esorta anche instancabilmente all’umiltà, che è la via verso la glorificazione e l’onore di Dio. Questa tensione si riflette già nei primi capitoli del libro della Vita, dove Teresa esclama: «Ma quanto meglio sarebbe stato se avessi avuto tanta forza per non violare l’onore di Dio quanta ne avevo per non perdere quello che credevo formasse l’onore del mondo!»[35]. Più avanti sottolineerà che, pur «protestandomi disposta a far di tutto per non offendere Iddio», «questa grande titubanza […] dipendeva dalla mia mancanza di energia [fortaleza[36]. Ma soprattutto metterà in evidenza i «mezzi con i quali il Signore cominciò a scuoterla, a fortificarla e a illuminarla nelle sue tenebre onde non più tornasse ad offenderlo»[37].

Uno degli obiettivi che appaiono più rilevanti nel corpus teresiano è quello di fornire ai soggetti, nelle diverse fasi del loro cammino di fede, strumenti che li rafforzino per farli entrare in un’unione sempre più profonda e totale con Gesù Cristo[38]. Pertanto, nell’opera di Teresa, l’«onore divino» ha due espressioni ben precise, intrinsecamente legate: da un lato, piacere a Dio, cioè camminare «al suo cospetto con semplicità e con l’intenzione di contentare, non gli uomini, ma Dio»[39]; dall’altro lato, non offendere Dio. Scrive la Santa: «Supplichiamo incessantemente il Signore di non permettere che la tentazione sia così forte da indurci a offenderlo, ma di proporzionarla alla forza che ci darà per vincerla»[40]. Il desiderio di Teresa è quello di vivere in modo sempre più perfetto, il che implica una concezione di gradualità nella perfezione, di cui parleremo più avanti. In definitiva, secondo il carmelitano Antonio González López, «per lei un criterio fondamentale per progredire nel cammino spirituale è la volontà di non offendere Dio e di cercare la sua volontà»[41].

Pertanto, come si è detto, per Teresa il fine ultimo dell’esistenza umana è costituito dall’onore e dalla gloria di Dio. In altre parole, la Santa concepisce una chiara direzionalità nel rapporto tra Dio e l’essere umano. Per lei, il punto di partenza indiscutibile è la glorificazione gratuita di Dio da parte del soggetto, cioè il servizio che l’essere umano presta a Dio. Nella Vita Teresa si mostra fiduciosa sul fatto che «colui che sa tutto aveva visto che […] la sua sovrana munificenza guardava non ai miei peccati, ma ai desideri che avevo di servirlo e al dispiacere di non aver la forza di farlo»[42]. Inoltre, per lei la preghiera è senza dubbio un modo concreto di glorificare Dio e una via di amore in cui si sottolinea anche il primato divino[43]: «Battere il cammino dell’orazione» significa «essere servi dell’amore»[44], scrive poco più avanti nella stessa opera. La Santa ci dice anche che i segni dell’amore sono «essere fermamente risolute a contentarlo in ogni cosa, nel fare ogni sforzo per non offenderlo, nel pregare per l’accrescimento dell’onore e della gloria di suo Figlio e per l’esaltazione della Chiesa cattolica»[45]. Pertanto, secondo Teresa, le due idee – la glorificazione divina e l’amore per gli esseri umani – sono strettamente legate.

Quanto abbiamo fin qui evidenziato implica, in un’interessante vicinanza al pensiero di Ignazio di Loyola, che la glorificazione divina è il primo momento della relazione tra l’uomo e Dio, mentre il secondo momento è che l’essere umano, cercando la gloria di Dio, troverà il senso ultimo della sua vita terrena e la gioia definitiva nella vita eterna futura. La stessa Teresa, in un passo del libro delle Fondazioni appena citato e che costituisce un argomento contro la viltà, fa notare come per lei il cammino spirituale abbia una finalità che è gerarchica: «Meglio contentare il nostro Sposo e incontrarci più presto con Lui»[46]. Ossia, la prima cosa è piacere a Dio, mentre la felicità dell’essere umano viene dopo. La Santa lo afferma poi molto chiaramente: «Scopo di ogni sua fatica dev’essere, non già la sua soddisfazione, ma quella del Padrone»[47]. Pertanto, al primo posto non c’è la ricerca della propria gloria, né l’autorealizzazione, né lo sviluppo personale del credente, né il suo eroismo personale, e nemmeno la sua crescita spirituale: la prima cosa, nella concezione teresiana, dev’essere lo sforzo del soggetto di conformare la propria volontà a ciò che conduce all’onore divino. E di farlo per il semplice fatto che Dio sia glorificato[48].

Nella prospettiva teresiana, nel rapporto tra l’essere umano e Dio c’è un movimento eminentemente ascendente, che parte dallo sforzo dell’essere umano di compiacere e di non offendere il suo Creatore, cioè di onorarlo. Non sembra quindi che si possa sostenere acriticamente un’idea teresiana del rapporto tra Dio e l’essere umano che dimentichi il primato della glorificazione divina o che lo renda semplicemente equiparabile alla felicità e alla realizzazione dell’essere umano. In questa linea, la fortezza teresiana acquista il suo significato come risposta radicale di amore dell’essere umano a Dio.

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

«Le più gravi angosce e le miserie più dure di questa vita»


Teresa ha una concezione dell’esistenza caratterizzata dalla presenza intrinseca della difficoltà e della sofferenza. «[Le anime] che Dio favorisce di tali cose di cielo […] è mio parere che, in un modo o in un altro, debbano andare soggette alle sofferenze della terra»[49], afferma in una fase avanzata della vita spirituale, come sono le VI Mansioni. È in questa cornice, quindi, che la fortezza acquista un’importanza capitale, ed è a partire da qui che dovremo comprenderla. Teresa stessa racconta molte delle difficoltà che ha sperimentato e ha dovuto affrontare nel corso della sua vita. Questi «travagli», come lei stessa li chiama, sono di vario genere. Da un lato, quelli derivanti dalla malattia e dal dolore fisico, che hanno accompagnato la sua vita per tanti anni. Dall’altro, quelli derivanti dall’incomprensione delle persone: particolarmente significativa è la sofferenza che lei descrive nel rapporto con alcuni dei suoi confessori, teologi, superiori religiosi, monache dei suoi monasteri riformati, e persino con alcuni benefattori[50].

«Le persecuzioni e i patimenti»[51] che accompagnarono Teresa durante tutta la sua vita furono senza dubbio presenti anche fin dall’inizio della sua opera riformatrice, come racconta lei stessa nella fondazione del monastero di San Giuseppe ad Ávila[52]. La Santa era consapevole che le sue monache avrebbero potuto sperimentare i pericoli che l’istituzione di un gruppo di donne oranti nella Spagna del XVI secolo comportava. Per questo, nel Cammino di perfezione, le incoraggia continuamente a superare paure e ostacoli, come pure a crescere nella libertà (con «distacco»[53]). Teresa difende con forza il diritto delle donne a partecipare al tipo di preghiera che lei propone. Pertanto, per raggiungere la perfezione ricercata dalla sua riforma, sottolineerà che «si deve prendere una risoluzione ferma e decisa di non mai fermarsi fino a che non si abbia raggiunta quella fonte»[54].

Ma per Teresa sembra che i «travagli» più drammatici e dolorosi siano quelli che si incontrano nella vita spirituale. Scrive nel libro delle Fondazioni: «Una delle più gravi angosce e delle miserie più dure di questa vita è quando ella [l’anima] non ha tanta energia da sottrarsi al suo impero. Penoso, senza dubbio, è aver malattie e soffrire gravi dolori, ma se l’anima è libera, è un nulla […]. Ben terribile invece è sentirsi impotenti»[55].

E parlando del cammino di crescita spirituale, la Santa esclama, con un misto di dolore e di ammirazione, in quella tensione escatologica dell’anima che è già presente nelle VI Mansioni[56]: «Oh, mio Dio!…Quali pene interiori ed esteriori deve mai ella soffrire prima di entrare nella settima mansione!»[57].

Sappiamo anche che Teresa ha vissuto momenti di grandi tentazioni e oscurità. Particolarmente nota e intensa è la notte oscura che lei racconta nelle VI Mansioni del Castello interiore e che introduce con la seguente esclamazione: «Oh, Signore… In quali angustie stringete mai chi vi ama!»[58]. Tuttavia, a differenza di Giovanni della Croce, Teresa non usa l’immagine della notte, ma della ferita d’amore: «l’anima, già ferita dall’amore dello Sposo»[59], scrive. Nella sua descrizione sembra indicare che questa esperienza fa parte della vita spirituale matura, perché la presenta nel contesto di una «pena deliziosa»[60]. E poiché per lei la vita spirituale è strettamente legata all’amore, nella vita adulta l’amore e la mancanza di amore (la gioia e il dolore, il paradiso e l’inferno) vanno insieme, perché l’uno rimanda all’altra.

Oltre a questa esperienza di oscurità mistica, sono molto frequenti i racconti di periodi di intensa paura e trepidazione, nonché le allusioni al valore attribuito alle devozioni ecclesiali (come l’acqua santa[61]) per scongiurarle. La paura è presente in molti momenti dell’esistenza di Teresa e in relazione a diverse cause. Tra le più significative, la Santa racconta il suo «timore dell’onore»[62] e la sua paura di «ingannare la gente»[63] (soprattutto le monache con le quali vive nel monastero). Tuttavia, la paura svolge un ruolo particolarmente importante nel suo itinerario di preghiera. Dall’inizio del libro della Vita Teresa esprime il suo «temere Dio»[64]: lei teme cioè di non servirlo, di «disgustare il Signore»[65] e di «aver offeso il Signore»[66]. Questo sembra essere il suo timore più grande, tanto da indurla ad affermare che non è conveniente «camminare nello scoraggiamento e lasciarsi vincere da un altro timore che non sia quello di offendere Dio»[67].

C’è anche il timore ricorrente dell’inganno spirituale, cioè di non discernere correttamente l’origine delle proprie esperienze spirituali. Questa preoccupazione per l’autoinganno è comune sia nella Vita sia nelle Fondazioni e ha a che fare con il timore che «le sue esperienze e visioni non provengano da Dio, ma dal diavolo»[68]. Il sospetto, quindi, caratterizza la preghiera di Teresa, anche se resta aperta la questione se quella sua enorme paura non sia principalmente una strategia retorica[69]. In ogni caso, lei racconta di temere di ingannare sé stessa, che le sue esperienze provengano dallo spirito cattivo (il demonio) o che siano frutto della propria interiorità e che sia lei stessa a produrle. Ma anche non poche delle persone con cui parlò della sua vita spirituale condividevano questo sospetto. Perciò Teresa per molto tempo ha pregato «perché il Signore mi conducesse per una via più sicura, giacché, secondo quello che mi dicevano, la mia era troppo sospetta»[70].

Nelle Esclamazioni dell’anima a Dio, che esprimono un’esperienza spirituale di grande intensità emotiva e intellettuale, anche l’ardente desiderio di Dio implica momenti di intensa sofferenza, tormento e dubbi. Questi sembrano provenire dallo stupore prodotto dalla sproporzione estrema tra la grandezza, potenza, forza e misericordia di Dio e la piccolezza, miseria, debolezza e ingratitudine dell’essere umano, di cui Teresa stessa è partecipe. La Santa descrive il suo rapporto con Dio in termini di felicità, gioia, piacere e, soprattutto, riposo dall’inquietudine, che si calma solo nell’unione dell’anima nella conoscenza, nell’amore, nella gioia e nella volontà di Dio[71]. Ma, insieme a questa gioia, l’anima teme anche di non poter piacere a Dio in tutto[72] e soffre perché gli esseri umani non riconoscono la grandezza divina[73]. Così i dubbi sulla propria vicinanza a Dio, come pure il dolore per il tempo perso lontano da lui e per non averlo servito con tutte le forze in passato, sono ancora una volta molto presenti in questa opera.

Allo stesso tempo, Teresa è consapevole dell’origine delle sue paure e di come a volte «mi pare che a dispormi […] agisse di più il timore servile che l’amore»[74]. Forse è per questo che, dopo la sua seconda conversione[75] e dopo aver sperimentato l’umanità di Gesù Cristo, la paura e il sospetto sembrano cominciare gradualmente a scomparire. Questo «cambiamento» avviene nello stesso momento in cui aumenta la sua fiducia nella potenza di Dio e in cui lei riconosce che le sue esperienze mistiche, nonostante quello che gli altri possano aver pensato, provengono dallo spirito buono. La sua anima allora si riempie di forza, pace e sicurezza. E sebbene la paura continui a tormentarla in alcune occasioni, non avrà più su di lei un effetto così negativo, ma piuttosto un certo valore positivo, in quanto le permetterà di evitare l’onore e di camminare nell’umiltà.

Inoltre, Teresa è capace di compiere un passo spirituale di grande importanza; in mezzo ai travagli, alle miserie, agli sforzi e alle prove, riconosce la mano provvidenziale di Dio: «Il Signore le concede di uscirne vittoriosa, a gloria e a lode del suo nome»[76], ci dice. Anche in essi Dio opera e si manifesta. La Santa afferma addirittura che Dio le dà la forza «onde sopportare certe prove a cui ha voluto sottopormi»[77]. In questo atteggiamento spirituale vediamo come in Teresa si congiungano l’«ascetismo e la piena fiducia nella provvidenza di Dio»[78]. Questo equilibrio si riproduce anche nelle dimensioni pratiche della vita delle sue fondazioni, come, ad esempio, l’ambito economico. In questo senso la storica Jodi Bilinkoff scrive: «Teresa insisteva sul fatto che lei e le sue monache dipendessero interamente dal frutto del proprio lavoro e dalla certezza che Dio avrebbe spinto le persone a donare elemosine per il loro sostentamento»[79]. Fatto sta che Teresa ripone una fiducia assoluta nella provvidenza di Dio. Questa tensione, che in qualche modo è anche escatologica, è presente in tutto il libro delle Fondazioni. Così, mentre lei una notte è in preghiera con grande afflizione, Dio le dice: «Aspetta un poco, o figlia, e vedrai grandi cose»[80]. Man mano che si procede nella lettura di questa opera, diventa chiaro come tale promessa di Dio si realizzi in mezzo a tutte le fatiche provate e a tutte le miserie narrate. L’ascesi e la fiducia sono in qualche modo il fondamento della fortezza teresiana.

Accanto all’elemento provvidenziale, è possibile affermare che la concezione della fortezza come virtù nei principali scritti teresiani sembra essere influenzata anche dalla tradizione stoica dell’apatheia. L’esercizio ascetico nell’uso delle emozioni che questa idea implica costituisce un tipo di fortezza finalizzata – ancora una volta – all’onore di Dio. Ciò è coerente con l’ideale di perfezione delineato da Teresa: diventare un credente profondamente umile, perseverante, paziente, costante e determinato. La Santa scrive di questa fortezza di tipo stoico nella sua celebre massima, associandola alla fiducia nella provvidenza di Dio: «Niente ti turbi / niente t’attristi, / tutto dilegua / Dio non si muta»[81].

Conclusione


Teresa non diffida della fortezza; anzi, la chiede nella preghiera, esorta a essa nei suoi scritti e la riceve come una grazia di Dio necessaria per il servizio dell’onore divino. In altre parole, sebbene la Santa faccia riferimento in numerose occasioni alla sua meschinità, alla sua miseria e alla sua debolezza, nella mentalità che traspare in tutti i suoi scritti la fortezza è ben lontana dall’essere intesa con sospetto o prevenzione. Al contrario, Teresa usa un linguaggio caratterizzato da una fortezza che nel suo contesto culturale, religioso e linguistico sembrerebbe riservato principalmente agli uomini[82].

La fortezza teresiana è concepita come una virtù umana e spirituale necessaria per rispondere con amore alla chiamata amorosa di Dio. In questo senso, essa costituisce un elemento chiave sia della sua antropologia implicita sia della sua teologia e spiritualità. La fortezza intesa alla maniera di Teresa può servire ai credenti di oggi come elemento prezioso per una comprensione solida e umile della loro identità e dell’esistenza umana.

Teresa intende il credente come un soggetto forte. Ma a partire da una fortezza che non è superbia, bensì umiltà. Cioè, a partire da una fortezza che si ricollega alle intuizioni paoline sulla forza in tutta la dimensione paradossale in cui esse convivono: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze» (2 Cor 12,9); «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,10); «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13).

La fortezza, così intesa, costituisce la condizione di possibilità per ogni vita di fede. E in questo stesso senso Teresa incoraggia a far «regnare questa santa presunzione, la quale […] introduce nelle grazie di quel Dio che aiuta i generosi [fuertes[83]. I battezzati devono augurarsi di essere abbastanza forti e abbastanza umili perché la loro vita renda pieno onore a Dio. E di poter sviluppare una fortezza religiosa che li porti a servire sempre più e meglio Cristo Signore.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] Le citazioni dalle opere teresiane riportate in questo articolo sono tratte da S. Teresa di Gesù, Opere, Roma, Postulazione generale O.C.D., 1969. In seguito, questo volume verrà indicato nelle note con op. cit.

[2] Teresa d’Ávila, s., Vita, 26,1 (op. cit., 251).

[3] Ivi.

[4] Ivi, 23,5 (op. cit., 224).

[5] Ivi, 9,1 (op. cit., 100).

[6] Cfr ivi, 1 (op. cit., 39); Castello interiore, 1,1 (op. cit., 760); Fondazioni, prologo, 1-2 (op. cit., 1071 s.).

[7] Cfr Teresa d’Ávila, s., Cammino di perfezione, prologo, 1 (op. cit., 539).

[8] E. Carrera, Teresa of Avila’s Autobiography: Authority, Power and the Self in Mid-Sixteenth-Century Spain, Londra, Modern Humanities Research Association and Routledge, 2005, 42.

[9] M. Maury Buendía, «Puntos clave en la interpretación teológica de la experiencia teresiana de la gracia», in Monte Carmelo 95 (1987) 284.

[10] Teresa d’Ávila, s., Vita, 15,5 (op. cit., 150).

[11] «Recinto fortificado»,in Real Academia Española, Diccionario de autoridades, Madrid, Gredos, 1969.

[12] Cfr Teresa d’Ávila, s., Fondazioni, 9,4 (op. cit., 1137).

[13] Cfr Id., Esclamazioni dell’anima a Dio, 16,3 (op. cit., 1059); Id., Castello interiore», III Mansioni, 1,2 (op. cit., 787); Vita, 18,4; 20,22 (op. cit., 172; 198).

[14] S. de Covarrubias y Orozco, Tesoro de la Lengua Castellana o Española según la impresión de 1611, con las adiciones de Benito Remigio Noydens publicadas en la de 1674, Barcellona, S. A. Horta, 1943.

[15] Real Academia Española, Diccionario de autoridades, cit.

[16] Cfr B. Mújica, Teresa de Ávila, Lettered Woman, Nashville, Vanderbilt University Press, 2009, 64.

[17] G. T. W. Ahlgren, Teresa of Avila and the Politics of Sanctity, Ithaca – London, Cornell University Press, 1996, 83.

[18] Teresa d’Ávila, s., Vita, 18,4 (op. cit., 172).

[19] Ivi, 11,14 (op. cit., 119).

[20] Real Academia Española, Diccionario de autoridades, cit.

[21] Ivi.

[22] Teresa d’Ávila, s., Cammino di perfezione, 12,6 (op. cit., 593).

[23] Id., Pensieri sull’amore di Dio, 4,3 (op. cit., 1009).

[24] Ivi, 3,12 (op. cit., 1006).

[25] Id., Cammino di perfezione, 14,2 (op. cit., 600).

[26] Id., Relazioni spirituali, 1,12 (op. cit., 448).

[27] Id., Cammino di perfezione, 31,10 (op. cit., 687).

[28] Id., Relazioni spirituali, 1,13 (op. cit., 449).

[29] A. Brouillette, Teresa of Avila, the Holy Spirit, and the Place of Salvation, Mahwah, Paulist Press, 2021, 195.

[30] Ivi, 196.

[31] Teresa d’Ávila, s., Relazioni spirituali, 6,1 (op. cit., 479).

[32] Ivi (op. cit., 479 s.).

[33] Id., Vita, 31,23 (op. cit., 315).

[34] T. Egido, «The Historical Setting of St Teresa’s Life», in Carmelite Studies 1 (1980) 150.

[35] Teresa d’Ávila, s., Vita, 2,3 (op. cit., 47).

[36] Ivi 23,4 (op. cit., 224).

[37] Ivi, 9,1 (op. cit., 100).

[38] Cfr Id., Fondazioni, 4,4 (op. cit., 1100 s.),

[39] Id., Vita, 10,4 (op. cit., 108 s.).

[40] Id., Cammino di perfezione, 41,1 (op. cit., 738).

[41] A. González López, Discernimiento espiritual en las «Meditaciones sobre los Cantares» de Santa Teresa de Jesús, Madrid, Universidad Pontificia Comillas, 2020, 17.

[42] Teresa d’Ávila, s., Vita, 7,18 (op. cit., 89).

[43] «Quando il Signore vuole, in un attimo si capisce tutto», ci racconta nel libro della Vita, 12,6 (op. cit., 126).

[44] Teresa d’Ávila, s., Vita, 11,1 (op. cit., 112).

[45] Id., Castello interiore, IV Mansioni, 1,7 (op. cit., 805).

[46] Id., Fondazioni, 4,4 (op. cit., 1101).

[47] Id., Vita, 11,10 (op. cit., 117).

[48] Questa posizione è coerente con il dogma cattolico, come risulta, ad esempio, dalla Costituzione dogmatica Dei Filius (1870) del Concilio Vaticano I sulla fede cattolica.

[49] Id., Castello interiore, VI Mansioni, 1,2 (op. cit., 856).

[50] Cfr M. J. Carravilla Parra, «Santa Teresa de Jesús: episodios singulares de una mujer universal», in F. Trullén Galve – J. A. Calvo Gómez – S. Gallardo González (edd.), In Virtute Fortitudo. Protagonismo femenino en la época de Isabel la Católica, Madrid, Dykinson, 2022, 86.

[51] Teresa d’Ávila, s., Vita, 33,4 (op. cit., 331).

[52] Cfr Id., Fondazioni, 18,4 (op. cit., 1204); Vita, 33 (op. cit., 329 s.).

[53] Cfr Id., Cammino di perfezione, 8,1; 9,4; 15,7; 16,2 (op. cit., 578; 582; 605; 607).

[54] Ivi, 21,2 (op. cit., 635).

[55] Id., Fondazioni, 29,3 (op. cit., 1322).

[56] Cfr E. Newman, «Outside the castle walls: the public politics of Teresa’s vision», in W. J. Collinge (ed.), Faith in Public Life, Maryknoll, NY, Orbis, 2008, 69.

[57] Teresa d’Ávila, s., Castello interiore, VI Mansioni, 1,1 (op. cit., 856).

[58] Ivi, VI Mansioni, 11,6 (op. cit., 930).

[59] Ivi, VI Mansioni, 1,1 (op. cit., 855).

[60] Ivi, VI Mansioni, 2,6 (op. cit., 866 s.).

[61] Id., Vita, 31,4 (op. cit., 303).

[62] Ivi, 2,5 (op. cit., 48).

[63] Ivi, 7,1 (op. cit., 79).

[64] Ivi, 2,5 (op. cit., 48).

[65] Ivi, 2,7 (op. cit., 49).

[66] Ivi, 5,10 (op. cit., 70).

[67] Ivi, 26,1 (op. cit., 251).

[68] J. Bilinkoff, The Avila of Saint Teresa: Religious Reform in a Sixteenth-Century City, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1989, 118.

[69] Cfr C. Slade, St. Teresa of Avila: Author of a Heroic Life, Berkeley, University of California Press, 1995, 74.

[70] Teresa d’Ávila, s., Vita, 27,1 (op. cit., 256).

[71] Cfr Id., Esclamazioni dell’anima a Dio, 17,6 (op. cit., 1062).

[72] Cfr ivi, 1,3 (op. cit., 1038).

[73] Cfr ivi, 8-12 (op. cit., 1046 s.).

[74] Id., Vita, 3,6 (op. cit., 53).

[75] Cfr ivi, 23,1-2 (op. cit., 222 s.).

[76] Id., Vita, 36 (op. cit., 362).

[77] Ivi, 14,11 (op. cit., 119).

[78] J. Bilinkoff, The Avila of Saint Teresa: Religious Reform in a Sixteenth-Century City, cit., 123.

[79] Ivi, 123.

[80] Teresa d’Ávila, s., Fondazioni, 1,8 (op. cit., 1079).

[81] Id., Poesie, 9 (Massime) (op. cit., 1511).

[82] Cfr Id., Pensieri sull’amore di Dio, 3,5 (op. cit., 1002 s.); O. M. Espín, Women, Sainthood, and Power: A Feminist Psychology of Cultural Constructions, Lanham, Lexington Books, 2020, XXII.

[83] Teresa d’Ávila, s., Cammino di perfezione, 16,12 (op. cit., 611).

The post «Dio aiuta i forti»: la fortezza teresiana first appeared on La Civiltà Cattolica.


Tillie Olsen e «le vite dei più»


Tillie Olsen (Foto:Wikimedia)
La recente ripubblicazione in Italia di Fammi un indovinello[1], con i suoi quattro racconti, ha attirato di nuovo l’attenzione su Tillie Olsen, scrittrice statunitense di origine ebraica, famosa tra gli appassionati per l’intensità dei suoi racconti, che, pur nell’esiguità del numero, la collocano nel panorama del Novecento nordamericano come una delle autrici di riferimento di questo genere letterario.

Tillie Lerner Olsen nacque a Wahoo, in Nebraska, nel 1912. I genitori erano ebrei russi, emigrati negli Usa dopo il fallimento della cosiddetta «Prima rivoluzione russa» del 1905. Entrambi socialisti e rivoluzionari, giunsero nel Nuovo Mondo all’interno di quell’ampio movimento migratorio che nei primi anni del Novecento vi portò migliaia di ebrei, russi e ucraini, in fuga dalle pesanti limitazioni legali e civili, nonché dai violenti pogrom popolari, favoriti e tollerati dalle autorità imperiali zariste. Dato comune e ricorrente di quell’ondata migratoria è che gli ebrei russi erano spesso impegnati politicamente, appartenenti ai nascenti movimenti di stampo socialista e rivoluzionario; erano per lo più non credenti. A questo profilo sociale e culturale appartengono, ad esempio, anche i genitori di un’altra scrittrice statunitense coeva di Olsen: Grace Paley, nata Gutseit (anglicizzato in Goodside) nel 1922, a New York.

Confronto tra Tillie Olsen e Grace Paley: alcuni dati biografici


Le due scrittrici hanno vari elementi in comune: l’origine familiare nella Russia europea zarista; l’appartenenza alla cultura ebraica, vissuta in termini di spirito laico e non religioso; la formazione socialista e rivoluzionaria; l’arrivo negli Stati Uniti in seguito al medesimo evento storico: il fallimento della «Prima rivoluzione russa». A questi fattori familiari e genealogici possiamo aggiungerne altri. Entrambe scelsero la forma breve del racconto per esprimersi. Nei loro scritti si trova testimonianza di analoghe tensioni sociali e culturali, condividendo gli ideali e le battaglie di quegli anni: l’antimilitarismo, in tempi di «guerra fredda»; il pacifismo, nel frangente storico della guerra in Vietnam; la lotta per i diritti civili della popolazione di origine afroamericana e le battaglie contro il razzismo; il femminismo, inteso come movimento di affermazione e ripensamento del ruolo delle donne nella società sorta dalle ceneri della «Grande depressione» del 1929 e del dopoguerra del Secondo conflitto mondiale; i primi moti della nascente sensibilità ecologista. Un altro elemento che le accomuna è l’esiguità della loro produzione letteraria: entrambe scrissero poco, a fronte di esistenze molto lunghe. Nate a distanza di un decennio – nel 1912 Olsen, e nel 1922 Paley –, morirono nello stesso anno, a pochi mesi di distanza l’una dall’altra: il 1° gennaio del 2007 Olsen, a quasi 95 anni; il 22 agosto Paley, a 84 anni. Le differenzia e le connota il contesto vitale, sebbene vi sia, anche in questo caso, una curiosa coincidenza biografica. Paley si radicò esistenzialmente e letterariamente nei quartieri di New York, dove visse fino al 1997, e solo allora si recò con il secondo marito nel Vermont. Olsen, invece, si trasferì giovanissima a San Francisco e lì visse fino al 1997, quando si stabilì a Oakland, in California, dove abitò fino alla morte. Anche Olsen ebbe due mariti.

Un elemento formale e linguistico importante che accomuna le due scrittrici è che entrambe furono particolarmente attente e capaci di portare nei loro racconti la lingua gergale e il «parlato» degli ambienti di vita che frequentavano. Paley lo fece dando voce alla lingua e ai modi di dire del macrocosmo di New York, che costituisce l’orizzonte costante delle sue storie, lo sfondo nel quale prendono vita i desideri e le lotte dei suoi personaggi, in modo particolare dando spazio alle zone della città dove veniva parlato lo yiddish. Olsen, da parte sua, realizzò i suoi pastiche linguistici raccogliendo i modi di dire e la lingua degli ambienti operai e popolari della California, dei lavoratori portuali di San Francisco, delle chiese battiste delle comunità afroamericane, degli ambienti dei nativi Yurok. «Olsen era una scrittrice che ascoltava il modo di parlare delle persone: annotava colloquialismi, frasi e locuzioni idiomatiche su qualunque cosa avesse a portata di mano, accumulando negli anni centinaia di fogli scarabocchiati con espressioni gergali»[2].

Confronto tra Olsen e Paley: alcuni dati letterari


Se entrambe le scrittrici costituiscono un esempio del fronte impegnato della letteratura statunitense della seconda parte del Novecento – in modo particolare tra gli anni Sessanta e Ottanta –, va rilevato che il tono della loro scrittura si differenzia in un tratto fondamentale. Le opere di Olsen hanno un carattere di denuncia sociale e di impegno politico spiccato, una tensione ideale esplicita. Tra gli scritti che abbiamo ricordato vi sono infatti non soltanto racconti – in particolare i quattro che costituiscono la raccolta Fammi un indovinello –, ma anche reportage giornalistici e saggi brevi, poesie impegnate[3]. «Olsen era fermamente convinta della necessità di costruire un mondo in cui fosse possibile realizzare la “piena umanità”, un mondo in cui la dignità umana e il pieno sviluppo delle capacità di ognuno venissero custoditi e coltivati»[4].

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

Paley, che non fu meno impegnata in politica (l’agenda dei suoi viaggi nelle zone calde del mondo di quegli anni non lascia dubbi sulla serietà del suo coinvolgimento[5]), ha un tono di scrittura più universale ed empatico. Se Olsen denuncia e sta dalla parte dei più deboli, Paley ascolta la realtà con una maggiore ampiezza e riesce a mostrare il mondo sociale, facendolo emergere con una ricchezza di sfumature e di dettagli più articolata. Riprendendo l’immagine usata da George Saunders nel saggio da lui scritto in occasione del decennale della morte di Paley, la scrittrice di New York ama il mondo che le sta intorno e ci ricorda di amarlo, perché, impegnati come siamo a sopravvivere, l’amore per il mondo ci sfugge di mente[6]. Olsen, invece, negli anni ha dimostrato una capacità di innovazione del linguaggio più vigorosa rispetto alla collega della costa dell’Est: basti confrontare Non è per te che piango[7] del 1931 con le pagine di Requa[8] del 1970. Ci troviamo di fronte a un arco di scrittura che è ricco di «forme sperimentali, che vanno dal flusso di coscienza e il punto di vista variabile all’intervento diretto della voce narrante in cui si alternano citazioni di canzoni, poesie, discorsi politici»[9].

Perché vale la pena leggere le pagine di queste due scrittrici, ebree laiche, socialiste e femministe? Ci sembra che i motivi siano almeno tre. Il primo è la capacità di ascoltare il mondo popolare e quotidiano dei piccoli e dei deboli, con grande rispetto, mettendone in luce i desideri, le lotte, le frustrazioni, e anche i limiti e gli sbagli. Le due scrittrici danno voce a chi spesso voce non ha, danno visibilità a chi rappresentazione culturale e letteraria di frequente può non avere. «Olsen viene spesso ricordata per aver introdotto nel discorso letterario una popolazione – quella dei lavoratori – che ne era rimasta esclusa. […] Olsen portò alla ribalta un tipo di narrativa rivolta a quelle che lei amava definire “le vite dei più”»[10]. Papa Francesco, nella recente lettera ai poeti, ha scritto: «La poesia non parla della realtà a partire da principi astratti, ma mettendosi in ascolto della realtà stessa: il lavoro, l’amore, la morte, e tutte le piccole grandi cose che riempiono la vita. Il vostro è – per citare Paul Claudel – un “occhio che ascolta”»[11].

Il secondo motivo è l’atteggiamento di impegno che innerva la loro scrittura: Paley e Olsen scrivono per portare un miglioramento, entrambe convinte di poter cambiare il mondo con le loro parole. «Questa assoluta fiducia nella possibilità del cambiamento, che è al centro della sua [di Olsen] opera, scaturiva dai movimenti sociali radicali di inizio Novecento e da ciò che essi avevano ottenuto, soprattutto negli anni Trenta, e fu alimentata nei decenni successivi dalla dimostrazione che le persone potevano e sapevano lavorare insieme per il cambiamento»[12]. In un tempo di «disimpegno», nel quale si corre il rischio della superficialità delle immagini virtuali, il calore della cittadinanza attiva e consapevole che le pagine e le vite delle due scrittrici testimoniano ci sembra un monito di vita civile che risuona in sintonia con le parole del Papa, quando afferma: «Voi [poeti] siete anche la voce delle inquietudini umane. […] E non mi riferisco solamente alla critica sociale […]. Parlo delle tensioni dell’anima, della complessità delle decisioni, della contraddittorietà dell’esistenza»[13]. Il riferimento ai poeti non è improprio. Infatti, «Olsen utilizza la pagina, la riga, la parola attraverso modalità più conformi alla poesia che alla prosa, modalità che “costituiscono quasi una nuova forma di narrativa”»[14].

Il terzo motivo è l’autenticità delle voci femminili presenti nei loro racconti: è la forza delle protagoniste, che spesso vivono la contraddizione e la lacerazione tra le aspirazioni personali, da un lato, e le esigenze familiari, dall’altro. Esse rivelano l’occhio di chi cura, lo sguardo di chi tutela la vita, nonostante tutto. Oltre il livello importante della morale, vi è un grado di vita più profondo, che viene ascoltato, rivelato, accolto e al quale viene restituita la dignità d’essere, che solo la letteratura più vera può concedere. «Questa opera permette allo Spirito di agire, di creare armonia dentro le tensioni e le contraddizioni della vita umana, di tenere acceso il fuoco delle passioni buone e di contribuire alla crescita della bellezza in tutte le sue forme, quella bellezza che si esprime proprio attraverso la ricchezza delle arti»[15].

Gli scritti di Olsen e «Fammi un indovinello»


Olsen scrisse poco nell’arco della sua lunga vita. L’impegno politico e familiare assorbì tempo ed energie. La sua produzione discontinua si coagula in alcuni periodi, con decenni di silenzio tra una pubblicazione e l’altra. Infatti, gli scritti di cui disponiamo appartengono sostanzialmente a quattro periodi. Il primo si concentra nei primi anni Trenta, dal 1931 al 1934. Il secondo nell’arco degli anni Cinquanta, tra il 1953 e il 1960, e culmina con la pubblicazione dei quattro racconti della raccolta Fammi un indovinello nel 1961. Il terzo periodo coincide con la pubblicazione di un racconto, ideato come primo capitolo di un romanzo che non vide mai la luce, Requa, nel 1970. Infine, un ultimo scritto biografico, dal titolo Sogno-visione, dedicato alla madre di Olsen, è del 1984; in esso la scrittrice riporta il racconto di un sogno-visione che la madre Ida fece in vecchiaia, nel quale i re Magi, trasfigurati in donne umili e semplici, la vanno a trovare. Possiamo dire che la scrittura di Olsen negli anni si è fatta sempre più sperimentale; le sue pagine sfidano i lettori, «che sono chiamati a partecipare attivamente alla creazione del significato del testo»[16].

Fammi un indovinello è il titolo sia del singolo racconto sia della raccolta che fu pubblicata nel 1961. Per gli amanti del genere del racconto breve esso costituisce senza dubbio una perla del Novecento. Alla sua pubblicazione nel 1961, Dorothy Parker, altra grande scrittrice di racconti brevi statunitense, affermò che Olsen «utilizzava solo parole esatte». La cura ossessiva della parola corretta rende le pagine dell’autrice intense come le poesie di Emily Dickinson e potenti come quelle di Honoré de Balzac[17].

Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»


Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

Scopri di più

Tranne il primo, gli altri tre racconti sono blandamente legati tra loro dalla presenza di alcuni personaggi ricorrenti, membri di una famiglia ebrea, che vengono colti in fasi storiche successive. Tramite loro, Olsen riesce a dare voce alla progressiva disillusione che la scrittrice e le protagoniste femminili dei suoi racconti vivono dopo gli anni dell’impegno politico e civile, delle manifestazioni e delle lotte sindacali per la tutela dei lavoratori, che furono molto ampie e partecipate nei primi anni Trenta, quando la crisi economica indotta dal crollo della Borsa del 1929 aveva portato alla perdita del lavoro e alla povertà milioni di americani.

L’ambiente che costituisce lo sfondo sul quale avvengono le vicende presentate nei racconti, per lo più di vita quotidiana, è quello di una famiglia di «sinistra», che si ispira a valori di uguaglianza e giustizia sociale, contro lo sfruttamento dei lavoratori, contro il razzismo e la segregazione razziale. Le vicende personali sono colte da occhi femminili, attraverso i quali la scrittrice restituisce anche la condizione femminile, che spesso è segnata dai sacrifici, dal lavoro avvilente e ripetitivo, dalla frustrazione per non poter dare spazio alla creatività e alla valorizzazione personale, soffocate dalla necessità di sopravvivere o da forme striscianti di conformismo sociale.

Ehi marinaio, che nave? (1957) è il racconto del vecchio Whitey, un marinaio con problemi di alcolismo in sosta a San Francisco, che va a trovare una coppia di amici (Lennie e Helen) con i quali ha condiviso lotte, sacrifici e ideali di gioventù. Gli anni sono passati e le ferite, anche fisiche, di una vita difficile, ai margini della società, tra bettole e disperati, spesso in prigione per rissa, hanno lasciato il loro segno. Per le tre figlie (Jennie, Carol e Allie), che ha visto crescere, è uno «zio» sempre più strano; la più grande è insofferente nei suoi confronti, perché si vergogna di lui davanti alle amiche adolescenti e non vuole che frequenti più la casa.

Il legame affettivo con la coppia è forte, ma non basta più. Il vecchio marinaio, che ha vissuto in mare, senza risparmiarsi sul fronte delle battaglie sindacali, appartiene a un’altra epoca: si è consumato ed è amaramente sorpreso dal dubbio che le lotte portate avanti siano state inutili, che la memoria degli sforzi per ottenere una serie di conquiste sia stata persa, e che si dia per scontato ciò che invece è stato il risultato di grandi sacrifici. A Whitey rimane solo l’identità della nave sulla quale lavora. Degna di nota è la scrittura del racconto, composto da flussi di coscienza, dialoghi in presa diretta, ricordi del passato e passaggi in terza persona. Questo stile frammentato, a tratti ondivago, restituisce la percezione sfuocata dei sensi del marinaio, la sua coscienza obnubilata, la memoria dolente e «a pezzi».

O sì (1957)è un racconto che ritrae un altro fronte dell’impegno civile di Olsen: quello della battaglia per i diritti civili della popolazione afroamericana, dell’integrazione sociale e dell’istruzione scolastica. È anche il testo che maggiormente evoca atmosfere religiose, perché in esso la scrittrice si lascia interrogare dallo spazio che Dio ha nella vita di coloro che sono i «deboli e miseri» della società.

Il racconto si divide in tre parti. Inizia nell’imminenza di un battesimo che una ragazza di colore di 12 anni (Parry) deve ricevere nella chiesa della sua congregazione. Alla celebrazione partecipano come invitate anche Helen e Carol, sua compagna di scuola. L’intensità dei canti, la virulenza delle emozioni, l’entusiasmo, quasi un sentimento di possessione e invasamento, la luce, il calore sono troppo per la giovane Carol, che perde i sensi e viene portata fuori della chiesa. La madre di Parry le spiega la ragione di tanta intensità: la chiesa è il luogo dove uomini e donne, che vivono esistenze e vite molto difficili, possono trovare uno spazio di sfogo e di libertà. La scena cambia. Nella seconda parte del racconto, Helen è tornata a casa e racconta al marito quello che è accaduto. Helen in quel momento prende consapevolezza che le due ragazze (la figlia e l’amica di colore) sono destinate a separarsi, perché appartengono a etnie e a gruppi sociali diversi. Jennie, la figlia più grande, è presente al dialogo dei genitori ed è spietata nell’esporre la portata inesorabile delle forze sociali che premono sulle ragazze e alle quali esse non riusciranno a resistere. La madre rilegge alcuni episodi di silente conformismo del passato scolastico della figlia Carol, segnali anticipatori della separazione tra razze che il sistema vuole indurre e di cui lei solo ora comprende il significato. Infine, nella terza parte, è trascorso del tempo, le ragazze sono cresciute, e ciò che la sorella maggiore aveva previsto sembra realizzarsi. Tuttavia Carol, oltre a prendere atto della distanza che si è creata con l’amica, deve fare i conti con l’intensa esperienza religiosa che ha vissuto. La voce dei canti continua a risuonare dentro di lei dopo tanto tempo; per lei quell’esperienza di fede comunitaria è stata un’esperienza vera di immersione dello spirito, un battesimo di umanità, di cui parla la madre, sperando che la figlia vada oltre la divisione voluta dalla società.

Dal punto di vista linguistico, la prima parte è uno straordinario mosaico di luci, canzoni, suoni e sinestesie, che avvolgono il lettore, ponendolo al centro di un turbine di sensazioni. Vi è un uso attento di parole e spazi bianchi, interruzioni e riprese, che quasi costruiscono fisicamente la pagina poetica. La seconda parte è più tradizionale, ma colpiscono l’acume e la penetrazione dei giudizi che vengono portati avanti dalla sorella più grande nel descrivere la condizione sociale e la meraviglia, lo stupore e il dolore di una madre che inizia a comprendere e non trova le parole per spiegare alla figlia quello che sta vivendo per confortarla, forse perché lei stessa non lo capisce.

Fammi un indovinello (1960) è l’ultimo racconto di questa terna letteraria ed è il più lungo; infatti, con le sue 60 pagine, ha le misure di una novella. Protagonisti sono Eva e David, anziani genitori di Lennie. Il titolo riprende una frase che i nipoti più piccoli dicono a Eva come una cantilena: «Fammi un indovinello… fammi un indovinello… fammi un indovinello», quando lei li va a trovare. Questa frase rende presente il senso di assedio delle richieste familiari e delle aspettative sociali a cui la protagonista ha dovuto rispondere per tutta una vita. La donna è anziana e ha a che fare con un marito vanesio, che vuole convincerla a vendere la casa per ritirarsi in un centro per anziani, che viene descritto in termini ideali (è chiamato appunto «Heaven»). Ma la donna, dopo una vita di lavoro, di sacrifici, di richieste, di aspettative altrui, vuole vivere la sua tranquilla anzianità senza dover rendere conto ad altri. Quando le viene diagnosticato un tumore, il marito si sente smarrito e spaventato. Le nasconde la verità e fa di tutto per assisterla e per alleviarne i dolori. Organizza un giro di visite alle figlie e ai figli, e al rumore distratto della realtà familiare esterna si contrappone la voce dei pensieri della donna, che vuole pace. Ci sono le pressioni e le attese di figli e nipoti, ma lei è stanca, è stufa e vuole andarsene, vuole ritirarsi, nascondersi, fuggire, tornare a casa. Le condizioni peggiorano, e il racconto giunge fino alle ultime ore disperate di vita della donna, che lotta nell’agonia.

La accompagna nelle ultime settimane della sua vita la nipote Jeannie, la figlia più grande di Helen e Lennie, che compariva nei due racconti precedenti come una giovane cinica e distaccata; in questo racconto, invece, è figura di cura e di tenerezza. Questo racconto è scritto in una forma più tradizionale, ma ci sono sezioni in cui Olsen dà spazio al flusso di coscienza della donna. La resa delle ore finali è intensa, nello scambio di parole che appartengono ormai a due livelli di coscienza diversa, tra la donna che delira e il marito disperato che le sta accanto e comprende, con immensa sorpresa, che gli ideali che loro avevano nutrito da giovani sono ancora presenti nella donna, che ad essi lei è rimasta fedele e li ha custoditi nel silenzio, mentre è lui ad averli dimenticati, svenduti, messi da parte.

L’ultimo racconto che presentiamo è Sono qui che stiro (1957). È il primo nella raccolta. Ne parliamo solo in chiusura dopo aver presentato gli altri tre racconti. Questo testo «è un’analisi feroce e complessa della maternità»[18] e rappresenta «una delle prime testimonianze letterarie della voce di una madre che scandaglia con onestà e rigore il rapporto con la figlia»[19]. Il racconto è il monologo di una donna che in casa sta stirando e trova il tempo (quello necessario per stirare qualche panno) per pensare alla figlia più grande, per la quale è stata convocata a scuola. Ricordare la vita della figlia Emily è per la donna l’occasione per fare il punto sulla propria vita e su come ha svolto il compito di madre, ciò che ha realizzato e ciò che ha trascurato. «Era figlia di un amore ansioso, non orgoglioso»[20], Emily, che maggiormente ha portato il peso della «distrazione» della madre, impegnata nella costante lotta per la sopravvivenza economica; Emily, che non ha ricevuto le cure e le attenzioni degli altri figli, nati da un secondo compagno: anche nel contesto delle relazioni familiari, la ragazza ha conosciuto la durezza della competizione degli affetti. La madre constata le proprie mancanze, la distanza che si è creata con la figlia e desidera per lei un futuro diverso da quello che lei stessa ha vissuto. Rivolgendo il pensiero al dirigente scolastico che non incontrerà, la madre pensa: «La aiuti solo a capire – ad avere motivo di capire – che è più di questo vestito sull’asse da stiro, indifeso davanti al ferro»[21]. È un finale intenso e struggente.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] Cfr T. Olsen, Fammi un indovinello, Bologna, Marietti1820, 2024.

[2] R. Edwards, «Introduzione», in T. Olsen, Fammi un indovinello, cit., 11.

[3] Molto attuale è ancora oggi la poesia Donne del nord voglio farvi sapere, del 1934, con la quale Olsen denuncia lo sfruttamento del lavoro delle donne chicane in Messico, che per pochi centesimi cuciono vestiti per bambini, poi comprati dalle donne ricche delle città del nord degli Sati Uniti. Per la prima volta le condizioni inique del lavoro femminile vengono equiparate a quelle maschili di altri settori produttivi.

[4] R. Edwards, «Introduzione», cit., 10.

[5] Molto utile è la lettura di G. Paley, L’importanza di non capire tutto, Torino, Einaudi, 2007, che raccoglie pagine autobiografiche, ricordi di viaggio, discorsi e testi scritti da Paley in varie occasioni di impegno civile.

[6] Cfr G. Saunders, «La santa patrona del vedere», in G. Paley, Tutti i racconti, Roma, SUR, 2018, 8,

[7] Cfr T. Olsen, Non è per te che piango, in Id., Gola di ferro e altri scritti, Urbino, QuattroVenti, 2008, 11-29.

[8] Cfr Id., Requa, in Id., Gola di ferro e altri scritti, cit., 69-101.

[9] R. Edwards, «Introduzione», cit., 10.

[10] Ivi, 10; 12.

[11] Aa.Vv., Versi a Dio, Milano, Crocetti, 2024, 7.

[12] R. Edwards, «Introduzione», cit., 10.

[13] Aa.Vv., Versi a Dio, cit., 8.

[14] R. Edwards, «Introduzione», cit., 10 s.

[15] Aa.Vv., Versi a Dio, cit., 8.

[16] R. Edwards, «Introduzione», cit., 11.

[17] Cfr ivi.

[18] R. Edwards, «Introduzione», cit., 14.

[19] C. Biagiotti, «“Una ragione per credere”: gli scritti sparsi di Tillie Olsen», in T. Olsen, Fammi un indovinello, cit., 123.

[20] T. Olsen, Fammi un indovinello, cit., 34.

[21] Ivi.

The post Tillie Olsen e «le vite dei più» first appeared on La Civiltà Cattolica.


Diretta | La Civiltà Cattolica compie 175 anni



La Civiltà Cattolica compie 175 anni. Segui la diretta dell’evento, a partire dalle ore 18.00 di oggi, 1 aprile, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. La celebrazione dell’anniversario è introdotta dal Direttore della rivista, P. Nuno da Silva Gonçalves S.I., e vede gli interventi di P. Arturo Sosa S.I., Preposito Generale della Compagnia di Gesù, del Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità, e del Prof. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio.
raiplay.it/iframe/dirette/dire…

Nata il 6 aprile 1850, per volontà del beato Pio IX, La Civiltà Cattolica è la più antica rivista culturale italiana ancora in pubblicazione. Fin dalle sue origini, ha letto e interpretato la storia, la politica, la cultura, la scienza e l’arte alla luce della fede cristiana, in sintonia con le posizioni del Romano Pontefice e della Santa Sede. Nel corso di questi 175 anni, essa ha attraversato epoche cruciali: dal Risorgimento alle guerre mondiali, fino alle crisi più recenti; passando dal Concilio Vaticano II ai pontificati contemporanei. Ha solcato decenni nei quali il significato stesso della comunicazione è mutato. Quello che non è cambiato, invece, è ciò che La Civiltà Cattolica offre ai suoi lettori: la condivisione di un’esperienza intellettuale illuminata dalla fede cristiana e profondamente innestata nella vita culturale, sociale, economica e politica dei nostri giorni.

Papa Francesco l’ha definita una rivista «unica nel suo genere», sottolineando in più occasioni il suo valore di «rivista ponte, di frontiera e di discernimento», in un’epoca di rapidi mutamenti e tensioni globali. Questo anniversario, infatti, non è solo un’occasione per celebrare la lunga storia della rivista, ma è anche un momento di riflessione per guardare al futuro con responsabilità e apertura, come lo stesso papa Francesco esortava in occasione della pubblicazione del fascicolo 4000: «Restate in mare aperto!».

Oggi La Civiltà Cattolica è chiamata ad essere «quella del buon samaritano», ha scritto papa Francesco nel chirografo inviato a La Civiltà Cattolica in occasione del suo 170° anniversario nel 2020, esortando la rivista a fare «discernimento sui linguaggi, combattete l’odio, la meschinità e il pregiudizio». Una voce che sappia interpretare i segni dei tempi e offrire uno sguardo profondo e attento sulle sfide contemporanee. Una rivista, chiedeva papa Francesco a La Civiltà Cattolica nel 2017, che «prenda consapevolezza delle ferite di questo mondo, e individui terapie. Sia una scrittura che tende a comprendere il male, ma anche a versare olio sulle ferite aperte, a guarire».

The post Diretta | La Civiltà Cattolica compie 175 anni first appeared on La Civiltà Cattolica.


Memoria del 16 ottobre 1943, deportazione degli ebrei di Roma: sabato 8 ottobre ore 18,45 marcia da Piazza Santa Maria in Trastevere al Portico d'Ottavia


Immagine/foto Ci avviamo a ricordare il 16 ottobre 1943. Una delle date più buie della storia della città di Roma. Una memoria che la Comunità di Sant'Egidio e la Comunità ebraica di Roma hanno custodito in (...)>


santegidio.org/index.php?stati…


Identità Alterità Riconoscimento


2651725
In questo libro Marcello Paradiso, docente di teologia sistematica presso l’Istituto teologico abruzzese-molisano di Chieti, affronta tematiche classiche del pensiero occidentale, trattate non soltanto da pensatori cristiani, ma anche da autori comunemente presentati come critici verso l’eredità del pensiero giudaico-cristiano. Le correnti del personalismo, esistenzialismo, dialogismo, e categorie filosofiche come identità, alterità, riconoscimento, relazione, incontro sono il terreno fertile sul quale si fonda la società europea, pur nelle sue diverse declinazioni e versioni, a volte aspre e conflittuali.

La tesi proposta nel libro è che nella cultura europea continua a scorrere un fiume carsico di linfa cristiana, nonostante emergano posizioni estremamente dialettiche. Un pensiero onestamente critico non può non riconoscerlo. Non è illusorio ottimismo nutrire la speranza che tale eredità continui a essere indispensabile per il futuro della nostra civiltà. L’autore non nasconde la pretesa di affrontare problematiche attuali e interrogativi presenti nell’agorà della cultura contemporanea, non tanto per offrire risposte preconfezionate, quanto per contribuire al confronto e al dialogo tra diverse prospettive.

Il libro si articola in quattro capitoli, preceduti da una premessa e un preludio (che precisa i concetti presi in esame) e seguiti da un’appendice. Il primo capitolo è uno sguardo filosofico che va da Hegel fino a Ricœur, passando per alcune figure singolari come Kierkegaard, Heidegger, Sartre, Lévinas, e indaga i registri con i quali il percorso filosofico della modernità e contemporaneità si è cimentato riguardo alle questioni fondamentali dell’identità, alterità, riconoscimento, differenza e relazioni.

Il secondo capitolo è uno sguardo biblico, quasi una modalità di approccio al contenuto della rivelazione dal punto di vista dell’incontro tra Dio e l’uomo.

Il terzo capitolo – che vuol essere il cuore della proposta dell’autore – tratteggia il mistero delle relazioni tra le Persone divine.

Il quarto capitolo è uno sguardo sulla realtà della Chiesa nell’attuale contesto, insistendo sul tema dei suoi rapporti con il mondo, oltre che al suo interno. Il testo si conclude, nell’appendice, con una riflessione sulla preghiera come luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo.

MARCELLO PARADISO
Identità Alterità Riconoscimento. Sulle relazioni umane e divine
Assisi (Pg), Cittadella, 2021, 232, € 17,90.

The post Identità Alterità Riconoscimento first appeared on La Civiltà Cattolica.