Il Jesuit Refugee Service del Regno Unito contro la deportazione dei rifugiati in Rwanda
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Il Jesuit Refugee Service del Regno Unito (JRS UK), l’organizzazione dei gesuiti che assiste migranti e rifugiati, ha espresso le sue gravi preoccupazioni sull’imminente attuazione dei piani del governo britannico per arrestare i richiedenti asilo al fine di deportarli in Rwanda, come annunciato il 22 aprile scorso dal primo ministro Rishi Sunak.
La responsabile del JRS per le questioni politiche, Sophie Cartwright, ha definito questo progetto uno «sconsiderato attacco ai diritti umani» e ha esortato «chiunque sia sconvolto da ciò che sta accadendo ad alzare la voce», assicurando che come JRS «attraverso i nostri servizi e la nostra attività di advocacy, nei centri di detenzione, continueremo a stare al fianco delle persone che cercano sicurezza nel Regno Unito».
L’organizzazione aveva criticato già passato le misure proposte dal cosiddetto Illegal Migration Act, che renderà inammissibili la maggior parte delle richieste di asilo. Nel novembre 2023, la Corte Suprema del Regno Unito ha dichiarato illegale il piano del governo di trasferire i richiedenti asilo in Rwanda, perché violerebbe i diritti fondamentali dei rifugiati.
La posizione del JRS è in linea con quanto sostenuto anche dai vescovi del Regno Unito, dopo l’annuncio del progetto. Il vescovo Paul McAleenan, responsabile per le questioni relative ai migranti e i rifugiati, ha esortato il Governo a ripensare la sua politica in materia di migrazione e asilo dopo che cinque persone, tra cui una bambina di sette anni, sono morte nel tentativo di attraversare la Manica. McAleenan ha anche sottolineato la necessità di percorsi sicuri e legali: «L’approvazione della legge sul Rwanda non affronta l’urgente necessità di garantire un maggior numero di percorsi sicuri e legali attraverso i quali i richiedenti asilo e i rifugiati possano raggiungere il Regno Unito».
La distanza geografica tra Regno Unito e Rwanda è un aspetto che rende ancora più grottesca, anche in termini economici, la proposta di respingere dei migranti a più di 6.000 Km dal luogo dove sono stati già accolti. Il gesuita David Stewart, corrispondente a Londra della rivista statunitense America, ha definito il piano «un progetto strano, costoso e crudele».
Come chiarisce anche la recente Dichiarazione sulla dignità umana del Dicastero della Dottrina della fede, Dignitas infinita, «i migranti sono tra le prime vittime delle molteplici forme di povertà» e «la loro accoglienza è un modo importante e significativo di difendere «l’inalienabile dignità di ogni persona umana al di là dell’origine, del colore o della religione».
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Elezioni europee: alcune questioni cruciali
Avviso contenuto: Una bandiera dell'Unione europea e una porta semiaperta al centro. Le elezioni europee del 2024 si svolgeranno da giovedì 6 a domenica 9 giugno, giorni in cui i cittadini degli Stati membri dell’Ue saranno chiamati a eleggere i propri rappresentanti al Pa
Le elezioni europee del 2024 si svolgeranno da giovedì 6 a domenica 9 giugno, giorni in cui i cittadini degli Stati membri dell’Ue saranno chiamati a eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo. In un anno caratterizzato da elezioni in molti Paesi chiave – Stati Uniti, Brasile, India, Indonesia, Pakistan, per citarne solo alcuni –, le elezioni europee rappresentano forse un’eccezione, non essendo a carattere nazionale, ma non sono certamente le meno importanti. Infatti, hanno diritto di voto quasi 400 milioni di cittadini europei. Ciò rende tali elezioni seconde a livello mondiale solo a quelle federali indiane, in termini di democrazia rappresentativa. Nella misura in cui influenzano le politiche dell’Ue, il loro impatto è globale: sebbene l’Unione europea non sia più la potenza economica di un tempo, essa appartiene ancora, insieme agli Stati Uniti e alla Cina, a un gruppo molto selezionato di attori che definiscono la politica mondiale.
Le elezioni europee sono anche un caso unico, in quanto coinvolgono Paesi diversi, con storia, tradizioni e lingue molto differenti. Mobilitano decine, se non centinaia, di partiti politici a livello nazionale, che offrono il loro punto di vista sulle questioni attuali. Riguardano un sistema sovranazionale che collega gli Stati-nazione in una rete di istituzioni e obblighi comuni, per comporre un assetto che è ancora pressoché unico nel suo genere.
Non si pretende qui di offrire una visione esaustiva di tutta la posta in gioco nelle elezioni europee del 2024. Ovviamente poche pagine non basterebbero. Lo scopo è piuttosto quello di presentare alcune delle sfide che tali elezioni si trovano ad affrontare, di evidenziarne le potenziali ripercussioni e di identificare alcune questioni essenziali per l’Europa di oggi, in una prospettiva cattolica.
Per che cosa votano gli europei, di preciso?
Innanzitutto, che cosa possono decidere gli elettori europei con il loro voto? È una domanda importante, dal momento che le conseguenze del voto dei cittadini variano molto a seconda del sistema democratico in cui lo si esprime. L’architettura europea è sostanzialmente basata su un sistema di tre attori. Il primo, il Consiglio europeo, riunisce i rappresentanti degli Stati membri (ministri o capi di governo, a seconda dei casi). È allo stesso tempo una istituzione che opera, in un certo senso, analogamente a un presidente dotato di poteri – fissa orientamenti, trova compromessi ecc. – e a una Camera alta, che condivide equamente il potere legislativo con il Parlamento. Questa è l’istituzione meno toccata dalle elezioni europee. La sua legittimità proviene dalle elezioni nazionali, non da quelle comunitarie, e il suo equilibrio politico può essere molto diverso da quello parlamentare. In effetti, il Partito popolare europeo – che attualmente è il gruppo più numeroso in Parlamento – non ha molto potere a livello nazionale, soprattutto nei grandi Paesi. Per il Consiglio, le elezioni europee sono, tutt’al più, un indicatore dello stato d’animo della popolazione, percepito attraverso una prospettiva nazionale.
Possiamo intendere la Commissione europea come l’organo amministrativo dell’Ue, sebbene sia dotata di competenze solitamente riservate a un governo in un contesto nazionale. La Commissione prepara proposte legislative, aiuta a negoziarne l’adozione da parte del Consiglio e del Parlamento, e poi le attua, anche emanando sotto delega la legislazione secondaria. Dovrebbe essere un attore indipendente e garante dei trattati. Questa neutralità non si ottiene facendola gestire interamente da figure apolitiche, ma piuttosto selezionando figure politiche diverse – in termini di origini nazionali e politiche –, che vengono messe a capo dei settori politici della Commissione, attraverso un processo che coinvolge gli Stati membri, il futuro capo della Commissione e il Consiglio.
La Commissione risente in misura limitata delle elezioni europee. Una volta selezionati, i potenziali commissari vengono esaminati dal Parlamento, che poi vota per accettare la Commissione che è stata composta. Ciò dà in pratica al Parlamento la possibilità di respingere i candidati, negandone l’approvazione. Si tratta di una scelta che è ben lungi dal costituire una selezione diretta dei commissari attraverso il voto popolare, ma in compenso garantisce un equilibrio tra la legittimità del Consiglio e quella del Parlamento riguardo alla costituzione della Commissione.
Quanto al presidente della Commissione, le cose vanno in maniera leggermente diversa. In vista delle elezioni del 2014, era invalsa l’idea di dare più peso democratico a tale carica, secondo il sistema dello spitzenkandidat. Di che si tratta? I partiti politici europei presentano un candidato a capo della loro campagna e, a suo tempo, il Consiglio individua come presidente della Commissione il candidato del partito che ha ottenuto più seggi. Così è accaduto ai tempi della Commissione Juncker, nel 2014. Tuttavia in seguito gli Stati membri, poco convinti del tenore democratico di quella modalità e ancor meno convinti circa Manfred Weber, allora candidato del Partito popolare europeo (Ppe), nel 2019 hanno accantonato questa pratica, per scegliere invece Ursula von der Leyen (connazionale e dello stesso partito di Weber).
In teoria, il sistema dello spitzenkandidat è stato ripreso per il 2024, ma in modo poco convinto. Nessuna formazione politica può realisticamente sperare di detronizzare il Ppe come primo partito in Parlamento. A sua volta, il Ppe, sapendo di non avere punti di riferimento nelle capitali nazionali, ha scelto di nuovo von der Leyen come candidata, con una votazione piuttosto deludente, non tanto perché ella incarni l’attuale linea del partito, ma piuttosto perché è ritenuta accettabile dagli Stati membri.
Il terzo e ultimo attore principale dell’Ue è il Parlamento. Esso ovviamente è il più legato alle elezioni, che ne determinano in modo diretto la composizione. Negli ultimi decenni, soprattutto dopo il Trattato di Lisbona, esso si è rivelato un vero e proprio contrappeso del Consiglio. Nell’ambito della procedura legislativa ordinaria, che oggi costituisce la forma più comune di adozione delle leggi europee, i testi vengono proposti dalla Commissione. Dopo un periodo di negoziati tra Commissione, Consiglio e Parlamento, noto come «trilogo», i progetti, previa approvazione, vengono adottati sia dal Parlamento sia dal Consiglio. Poiché per lo più i testi vengono ratificati anche da maggioranze qualificate in seno al Consiglio, il Parlamento ha più margine di manovra nei negoziati, non dovendo affrontare il compito, spesso impossibile, di accontentare ogni singolo Paese. Oltre al ruolo legislativo, esso ha voce in capitolo sul bilancio dell’Ue e controlla il lavoro della Commissione. Funge anche come luogo d’influenza, dove gli eurodeputati – i membri del Parlamento europeo –, attraverso mozioni e dichiarazioni, cercano di attirare l’attenzione sia del pubblico in generale sia dei responsabili politici su varie questioni.
Recenti sondaggi danno un’idea della direzione che prenderà il Parlamento nel 2024. I cristiano-democratici (Partito popolare europeo) dovrebbero più o meno mantenere i loro seggi e rimanere il primo gruppo del Parlamento. I socialisti (Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, S&D) potrebbero subire un lieve calo, che tuttavia non impedirà loro di mantenere la loro posizione come seconda forza. I centristi-liberali (Renew Europe) probabilmente andranno incontro a un calo più sensibile, passando dal terzo al quarto posto. Un destino analogo potrebbe toccare ai due gruppi più piccoli: gli ecologisti (Verdi – Alleanza libera europea) e la formazione della sinistra radicale (La Sinistra). Nel frattempo, i conservatori euroscettici (Conservatori e riformisti europei, Ecr) e gli euroscettici di estrema destra (Identità e democrazia, Id), sono destinati ad aumentare in modo rilevante, al punto da ottenere il terzo posto, sottraendolo a Renew.
Queste evoluzioni potrebbero comportare un significativo spostamento a destra del Parlamento. Finora la coalizione centrista (Ppe+S&D+Renew) è stata compatta riguardo a molte questioni fondamentali, come il bilancio, gli affari economici e monetari, quelli esteri o il mercato interno. A volte è stata superata da una coalizione di centrosinistra (Sinistra+Verdi+S&D+Renew), soprattutto per quanto concerne le libertà civili, le questioni sociali o l’ambiente. Esisteva anche una possibile coalizione di centrodestra (Renew+Ppe+Ecr+qualche Id), soprattutto su agricoltura, politica industriale e commercio. Ovviamente si tratta di un quadro molto semplificato, perché la disciplina di gruppo non è rigida come nelle assemblee nazionali e non tiene conto dei partiti non allineati[1].
Il grande cambiamento avverrà nel segno dell’impossibilità numerica di una coalizione di centrosinistra. Questo darà al Ppe un grande potere d’influenza sul passaggio a norme ambientali meno vincolanti o a politiche migratorie più rigide. Il Ppe avrà la possibilità di pretendere testi di suo gradimento nel quadro di una coalizione centrista, oppure di spingere tali questioni verso una coalizione di centrodestra. Quanto ai partiti populisti e di estrema destra, essi eserciteranno un’attrazione ben maggiore al momento di convincere il Ppe a formare una coalizione.
Concezioni divergenti del progetto europeo
Veniamo ora alle questioni chiave in gioco nelle elezioni del 2024. Una prima linea di frattura c’è tra i partiti che sostengono il perseguimento di una più stretta integrazione europea e quelli convinti che l’integrazione sia già andata troppo oltre e debba essere arginata, se non ridotta – o addirittura azzerata –, per preservare la sovranità degli Stati.
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La Commissione delle Conferenze episcopali della Comunità europea (Comece) ha reso noto il suo punto di vista su questo argomento. Riflettendo sulle origini del progetto dell’integrazione europea, i vescovi della Comece affermano, in termini inequivocabili, di credere «che per noi europei questo progetto iniziato più di settant’anni fa debba essere sostenuto e portato avanti»[2]. Essi invitano inoltre i cristiani a votare per «persone e partiti che chiaramente sostengano il progetto europeo e che riteniamo ragionevolmente vorranno promuovere i nostri valori e la nostra idea di Europa, come il rispetto e la promozione della dignità di ogni persona umana, la solidarietà, l’uguaglianza, la famiglia e la sacralità della vita, la democrazia, la libertà, la sussidiarietà, la salvaguardia della nostra “casa comune”».
La dichiarazione della Comece si basa sulla convinzione che il progetto di integrazione europea stia effettivamente portando pace, libertà e prosperità nel nostro continente e promuova ancora gli ideali della comunità e della dignità della persona umana che hanno ispirato i suoi padri fondatori, molti dei quali erano cristiani. Sebbene non sia perfetta, l’Ue riesce comunque a riunire attorno a un tavolo molti Paesi, che altrimenti potrebbero considerarsi concorrenti tra loro. Qualsiasi tentativo di indebolire i meccanismi che vincolano insieme gli Stati europei potrebbe spingerli verso una dinamica centrifuga. Una visione lucida della storia europea e della situazione attuale dimostra che la buona volontà, da sola, non è sufficiente.
Inoltre, si può sostenere che l’integrazione europea rientri a pieno titolo in una migliore comprensione del principio di sussidiarietà. Nell’insegnamento sociale cattolico, la sussidiarietà non è soltanto un principio legalistico riguardante l’attribuzione dei poteri, ma costituisce un’ingiunzione positiva, e valida a qualsiasi livello del potere politico, a responsabilizzare attivamente tutti gli attori a esso affidati: famiglie, organizzazioni della società civile, entità economiche e politiche o territori. Non si tratta di preservare il potere di qualcuno, ma piuttosto di condividerlo, al servizio del bene comune. Aprendo le sue frontiere, l’Ue ha anche dischiuso opportunità di cooperazione transfrontaliera e ha dato la possibilità a molti cittadini, organizzazioni e imprese di creare reti o di cogliere opportunità che fino ad allora il proprio ordinamento nazionale aveva tenuto fuori dalla loro portata.
Neanche la sovranità dello Stato è un idolo. Pur riconoscendo l’importanza di preservare il patrimonio culturale e spirituale delle nazioni e sottolineando la necessità di uno Stato ben ordinato che sappia tutelare il benessere dei suoi cittadini, l’insegnamento sociale cattolico non esita a trasferire i poteri a entità sovranazionali, quando se ne presenta la necessità, soprattutto quando i Paesi vi si sono liberamente vincolati. L’esortazione apostolica Laudate Deum offre un esempio recente di questa visione, perché chiede esplicitamente la creazione di meccanismi applicativi, comprese le sanzioni, per salvaguardare l’efficacia degli impegni internazionali sul clima. E ciò vale ancora di più quando il livello sovranazionale si dota di proprie strutture democratiche.
Rapporto con i valori cristiani
Anche l’atteggiamento che i partiti presentano rispetto al retaggio cristiano dell’Europa è una questione impegnativa, che invita gli elettori alla prudenza di giudizio. Da un lato, alcuni partiti hanno elevato l’identità cristiana a vessillo di battaglia. Bisogna valutare, tramite un esame attento, se tali riferimenti vengano esibiti con sincerità e con rette intenzioni. È opportuno verificare, in particolare, se i valori cristiani vengano promossi prestando attenzione alla più ampia cornice della dottrina sociale cattolica, compresi i valori della compassione e dell’attenzione ai più vulnerabili, o se vengano sostenuti in modo selettivo, solo nella misura in cui contribuiscono a propugnare un sistema nazionale identitario, a creare divisione tra gruppi o a far sì che elementi sensibili sotto il profilo culturale vengano sfruttati per ottenere vantaggi politici. Se così fosse, ci si potrebbe chiedere se il partito che fa tali riferimenti stia effettivamente cercando il bene comune o se non stia semplicemente strumentalizzando il cristianesimo per i suoi interessi particolari.
Per questo motivo un comunicato redatto dalla Comece, insieme con le istituzioni rappresentative europee protestanti e ortodosse[3], ha osservato che «la paura motiva alcuni [elettori] a cercare soluzioni e sostegno spirituale in una versione oggettificata e strumentalizzata della tradizione, a volte mascherata da un appello ai “valori tradizionali”. In questi casi, i concetti di “patria” e “religione” vengono usati come armi». Di conseguenza, la dichiarazione invita a «lottare contro la strumentalizzazione dei valori cristiani per interessi politici e nella prospettiva delle narrazioni etno-razziali».
Allo stesso tempo, «l’Unione europea non è perfetta e […] molte delle sue proposte politiche e legislative non sono in linea con i valori cristiani e con le aspettative di molti dei suoi cittadini», riconosce il comunicato Comece. Nella dichiarazione congiunta delle Chiese si sottolinea inoltre che «gran parte dei cittadini che guardano con fiducia al futuro europeo attraverso il prisma dei valori cristiani […] si sentono ora emarginati, in quanto non hanno la possibilità di esprimere le proprie posizioni e opinioni in modo autonomo e distinto. Notiamo inoltre l’esclusione di qualsiasi riferimento adeguato ai valori cristiani in testi rilevanti dell’Ue». In effetti, molti partiti e uomini politici sono cauti riguardo all’essere associati a istituzioni religiose. Anche negli ambienti europei si è spesso visti con sospetto, quando si ha a che fare con istituzioni basate sulla fede, soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione delle norme sociali nel campo della sessualità, dell’etica e dell’uguaglianza di genere.
A questo punto, però, la soluzione non può venire dall’ingaggiare una guerra culturale. Probabilmente questo sarebbe uno sforzo inutile e distruttivo. I rappresentanti delle maggiori confessioni cristiane in Europa auspicano il dialogo, non la guerra. Ciò richiede che i politici europei riconoscano l’importanza della loro eredità cristiana. Occorre anche trasformare il modo in cui viene condotto il dialogo tra Chiese, istituzioni e partiti politici, in modo che le prospettive cristiane possano essere ascoltate e considerate equamente, come previsto dall’articolo 17 del Trattato Ue. I politici di cui l’Europa ha più urgente bisogno non sono quelli che si proclamano strenui difensori della tradizione: sono piuttosto quelli disposti a entrare in buona fede e con buona volontà nel dialogo con le Chiese e con la società civile, alla ricerca di soluzioni politiche che siano nella linea del maggior bene comune.
Ecologia e cambiamento climatico
La tutela dell’ambiente e la mitigazione del cambiamento climatico sono probabilmente due delle questioni più controverse di questa campagna elettorale. Negli ultimi mesi si è assistito a uno sgretolamento, o addirittura a un’inversione, delle politiche del Green Deal (che mira a preparare l’Europa alla transizione climatica) e della Farm to Fork Strategy (indirizzata a introdurre l’agricoltura in una prospettiva più sostenibile). Progetti di legge che un tempo sembravano avere discrete possibilità di essere approvati sono stati pesantemente ridimensionati, quando non furtivamente accantonati. Nei discorsi politici si sono fatte strada narrazioni tossiche, in primo luogo quella che i partiti populisti sfruttano in tutta Europa, ossia l’ondata di reazioni popolari contro le politiche «verdi» e la contrarietà delle popolazioni a tutto ciò che comporta costi aggiuntivi, tenta di imporre comportamenti particolari o semplicemente sembra «punitivo».
Un’altra narrazione si oppone alla tutela dell’ambiente e alla capacità di finanziare la transizione verso le energie verdi. Secondo questa visione, l’eccessiva regolamentazione in materia ambientale sovraccarica l’economia, rendendo le imprese europee incapaci di competere con quelle americane e cinesi. E se l’economia è debole, le risorse fiscali saranno insufficienti per finanziare il passaggio alle energie verdi. Una narrazione simile dice che gli agricoltori europei sono sovraccarichi di obblighi ecologici e quindi impossibilitati a coprire i costi e a competere sul mercato mondiale. Un’altra ancora è che l’iperprotezione ambientale contrasta con la necessità di estrarre più minerali per alimentare la transizione verso le zero emissioni di carbonio.
Sebbene al centro di ciascuna di queste narrazioni ci siano questioni reali, il modo in cui esse vengono inquadrate tende a condurre alle stesse conclusioni errate: gli obiettivi o gli impegni ecologici devono essere ridimensionati, in quanto indesiderati e controproducenti. Invece, il buon comportamento dovrebbe essere incoraggiato con incentivi finanziari, iniziative private e innovazione tecnologica. In effetti, il monito di papa Francesco nella Laudate Deum suona più che mai attuale: «Corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare col filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto-valanga»[4].
Alla luce dell’ecologia integrale promossa dal Magistero recente e in linea con i moniti scientifici, gli elettori dovrebbero considerare quanto seriamente i diversi partiti politici si prendano cura della nostra casa comune. Considerata l’urgenza di contrastare il degrado del nostro Pianeta, non è sufficiente che come soluzione per uscire dalla crisi si dia priorità alla crescita economica. Come minimo, i partiti politici devono presentare alternative credibili alle leggi e alle politiche che denunciano.
In contrapposizione alle narrazioni sopra ricordate, andrebbero poste le seguenti domande: se le politiche volte a cambiare lo stile di vita insostenibile della maggior parte degli europei sono impopolari, in che modo è possibile concepirle meglio e ripartirne meglio i costi? La transizione verso l’energia verde è un cambiamento esclusivamente tecnico della nostra produzione di energia, o piuttosto ci dà l’opportunità di mettere in discussione quanto produciamo e consumiamo? L’agricoltura europea potrà effettivamente essere salvata eliminando alcuni vincoli ambientali, o è necessario un ripensamento più globale, affinché essa possa resistere ai cambiamenti climatici futuri?
Traiettoria economica e coesione sociale
Secondo un sondaggio Ipsos svolto per Euronews[5], quattro priorità su cinque indicate dai cittadini europei sono di natura economica: reperimento di soluzioni adeguate contro l’aumento dei prezzi; riduzione delle disuguaglianze sociali; sostegno alla crescita economica; contrasto della disoccupazione. La quinta è la lotta all’immigrazione clandestina.
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Negli ambienti europei si è diffuso un sentimento di autogratificazione per come l’Ue ha affrontato la ripresa dalla pandemia e per la rapidità con cui ha domato la crisi energetica seguita all’invasione dell’Ucraina. In effetti sono state adottate soluzioni precedentemente inimmaginabili, incluso il fondo NextGenerationEu, che ha visto la Commissione prendere a prestito direttamente dai mercati quanto serviva per finanziare progetti di ripresa dalla pandemia negli Stati membri dell’Ue. Sebbene la maniera in cui l’Unione finanzierà in pratica quel debito resti ancora una questione aperta, quella solidarietà nel debito, che fino allora era un tabù, è stata riconosciuta come un simbolo di unità europea. Questa visione positiva dell’azione dell’Ue si è riflessa fortemente nel discorso sullo stato dell’Unione tenuto dalla presidente von der Leyen nel settembre 2023, che ha evidenziato i risultati della Commissione senza riconoscere la persistente crisi del costo della vita.
Gli ultimi mesi hanno visto l’umore guastarsi, perché i politici hanno messo in rilievo la discrepanza che c’è tra quel discorso e i sentimenti popolari. Sono cresciuti gli appunti sul ritardo dell’Ue rispetto agli Stati Uniti in termini di innovazione, sull’incapacità di competere e sulla concorrenza sleale che minaccia la prosperità dell’Europa. È emersa la consapevolezza che l’Europa potrebbe non trarre alcun vantaggio dalla transizione pulita, visto che il mercato dei pannelli solari e delle auto elettriche è minacciato dalla produzione cinese. L’eccessiva regolamentazione, la mancanza di flessibilità e i vincoli ecologici sono stati regolarmente indicati come le cause che ostacolano la crescita e la competitività.
Il mandato dell’Unione europea è quello di promuovere la prosperità tra i suoi membri. Pertanto, non solo è legittimo, ma è anche necessario che il prossimo Parlamento affronti le questioni economiche. Tuttavia, è altrettanto necessario che venga garantito un giusto equilibrio tra sviluppo, sostenibilità e diritti sociali e umani. Il destino della direttiva Ue relativa alla due diligence di sostenibilità delle imprese è un esempio di ciò che è a rischio. Il testo mirava a incoraggiare la responsabilità aziendale, obbligando le aziende a identificare e ad affrontare le minacce ai diritti umani e all’ambiente presenti nella loro catena di fornitura. Il 15 marzo, in nome della competitività, il Consiglio ha deciso di fare marcia indietro rispetto a quanto concordato in precedenza con il Parlamento e di restringere fortemente la portata della legge: essa si applicherà solo alle imprese più grandi, e gli aspetti chiave di una filiera – per esempio, il riciclaggio – sono scomparsi dal testo.
Gli elettori dovranno valutare attentamente quale partito offra il giusto equilibrio nel loro contesto nazionale. Sebbene il mandato diretto dell’Europa sulle questioni sociali sia limitato rispetto alle leve ancora in mano alle singole nazioni, restano ancora questioni su cui il prossimo Parlamento potrà agire, come individuato da Caritas Europa nel suo Memorandum elettorale[6]: «Un reddito minimo adeguato, assistenza a lungo termine e incentrata sulla persona, sostegno all’infanzia e alla famiglia, migliore accesso ai diritti dei lavoratori, accesso ad alloggi adeguati e convenienti, condizioni di lavoro dignitose, anche per gli operatori sanitari, e non discriminazione», in linea con i 20 princìpi del Pilastro europeo dei diritti sociali.
Migrazione
In un discorso pronunciato a Marsiglia nel 2023,papa Francesco ha lanciato all’Europa un appello urgente: «I migranti vanno accolti, protetti o accompagnati, promossi e integrati. Se non si arriva fino alla fine, il migrante finisce nell’orbita della società. Accolto, accompagnato, promosso e integrato: questo è lo stile. È vero che non è facile avere questo stile o integrare persone non attese, però il criterio principale non può essere il mantenimento del proprio benessere, bensì la salvaguardia della dignità umana»[7]. Purtroppo, il tono attuale della campagna elettorale non va in quella direzione. I migranti sono spesso presentati come qualcosa da cui bisogna proteggersi, invece di essere visti come persone degne di protezione.
Nello scorso dicembre, le istituzioni europee hanno raggiunto l’accordo su un nuovo patto sulle migrazioni, che tende a un forte inasprimento delle politiche sulle frontiere (compresa la normalizzazione della detenzione) e sul trasferimento delle responsabilità di protezione a Paesi terzi in cambio di limitati miglioramenti nella solidarietà tra gli Stati europei. Questo patto migratorio è stato giudicato con severità da molti osservatori, tra cui molte Ong cristiane. In una dichiarazione congiunta di più di 50 organizzazioni, tra cui la Caritas e il Jesuit Refugee Service, si è affermato che il patto sull’immigrazione «normalizzerà l’uso arbitrario della detenzione per immigrati, anche per bambini e famiglie, aumenterà la profilazione razziale, utilizzerà procedure di “crisi” per consentire i respingimenti e riportare le persone nei cosiddetti “Paesi terzi sicuri”, dove sono a rischio di violenza, tortura e detenzione arbitraria»[8].Ciò nonostante, le posizioni si stanno spostando ulteriormente verso politiche più repressive. Ne troviamo un esempio lampante nel manifesto del Ppe, in cui si suggerisce l’adozione di un sistema di Paesi terzi sicuri simile alla «soluzione ruandese» promossa dai conservatori nel Regno Unito.
Considerando che l’Ue ha ampie competenze nel campo della migrazione e dell’asilo, il ruolo del Parlamento nel perfezionare e, auspicabilmente, umanizzare le politiche europee sarà decisivo. Occorre quindi prestare attenzione al modo in cui i partiti valutano la migrazione. Le legittime preoccupazioni per la situazione economica non possono essere utilizzate come giustificazione per ledere la dignità di una persona. La migrazione comporta certamente molti problemi e può esercitare una pressione sociale ed economica sulle benestanti società di destinazione che non può essere ignorata. Tuttavia, i migranti, in quanto persone, non possono essere strumentalizzati come capri espiatori.
L’attenzione dovrebbe essere rivolta anche alle cause profonde della migrazione. Le proposte fatte dai partiti politici su come rendere più equo il sistema commerciale internazionale, su come perseguire meglio gli aiuti allo sviluppo, su come mediare i conflitti o affrontare il cambiamento climatico, non possono essere scisse dalla realtà dei migranti che arrivano alle porte dell’Europa. Questa non può né sperare né ambire a isolarsi dal suo ambiente e dalle sue responsabilità internazionali.
Guerra in Ucraina e pace in Europa
È impossibile parlare delle elezioni europee senza toccare la guerra in Ucraina. Per l’Europa essa è un momento decisivo. A più di due anni dall’inizio dell’aggressione contro l’Ucraina, la valutazione fatta, in occasione del primo anniversario della guerra, dall’allora presidente della Comece, cardinale Jean-Claude Hollerich, fornisce tuttora un quadro di analisi rilevante, perché ha evidenziato «gli sforzi instancabili dei decisori europei nel fornire all’Ucraina adeguato e proporzionato sostegno umanitario, finanziario, politico, nonché militare. Il suo popolo ha il diritto di difendersi dalla brutale e ingiustificabile aggressione militare per vivere una vita animata da dignità, sicurezza e libertà nel proprio Paese indipendente e sovrano. Incoraggiamo fortemente i leader europei a mantenere la loro unità nella solidarietà con l’Ucraina durante e anche dopo la guerra, senza cedere alla stanchezza o all’indifferenza»[9].
Se il perseguimento della pace dev’essere l’obiettivo finale di tutte le politiche relative all’Ucraina, tale pace dev’essere duratura. Inoltre, per una questione di principio, solo la società ucraina dovrebbe determinare il proprio futuro, in modo che vengano rispettati tutti i suoi membri nelle loro particolarità, senza essere soggetta ad assimilazione forzata da parte del vicino. Non esiste quindi alcuna opposizione tra la politica che consente all’Ucraina di resistere all’aggressione e il desiderio di pace.
Non sembra per il momento che il monito espresso dal cardinale Hollerich, cioè che il sostegno militare sia proporzionato, corra alcun pericolo concreto di essere disatteso. Semmai, a questo punto la preoccupazione dovrebbe essere piuttosto quella se il sostegno dato all’Ucraina sia davvero adeguato, dato che la stanchezza si sta effettivamente facendo sentire. I leader europei si sono impegnati promettendo di sostenere l’Ucraina per tutto il tempo e nella misura che saranno necessari.
Ciò non vuol dire che non vi siano preoccupazioni da prendere in considerazione. Lo spostamento dell’Europa verso il riarmo, con maggiori spese militari e crescenti sforzi per coordinare meglio questi intenti a livello dell’Ue, può essere giustificato, purché sia effettivamente orientato all’autodifesa e all’autonomia strategica, nonché adeguatamente calibrato rispetto alle minacce che l’Europa si trova ad affrontare. Allo stesso tempo, esso non dovrebbe trasformarsi in una corsa agli armamenti, per non suscitare profezie di conflitto autoavveranti. Anche i personaggi pubblici dovrebbero prestare attenzione a non cedere a pose teatrali che esacerbano tensioni e paure.
Più in generale, il modo in cui i partiti politici si posizionano nei confronti dell’Ucraina rivela una concezione più ampia del progetto europeo. Si può accettare l’invasione di quel Paese come un dato di fatto, in un sistema internazionale dominato dal potere, sia esso economico o militare. In questa prospettiva, l’Unione non è quindi altro che un tentativo di tutelare gli interessi dei «membri del club» e, anche in questo caso, vanno innanzitutto preservati a tutti i costi gli interessi nazionali.
Dalla prospettiva opposta, sottolineando la necessità di sostenere l’Ucraina, l’Unione europea può essere vista come un’area di prosperità, democrazia e rispetto dei diritti umani in lenta espansione. Questo è un obiettivo meritevole ed è certamente il modo in cui l’Ue vuole presentarsi. È anche una meta difficile, che ci prospetta molti dibattiti, errori e controversie. Quali Paesi dovrebbero essere accolti nell’Ue? Che impatto avranno i futuri allargamenti sulla posizione politica e sul benessere economico degli attuali Stati membri? Quanto tempo si può ragionevolmente far aspettare un Paese prima dell’adesione? Come possiamo preservare la coesione politica, sociale ed economica dell’Ue, se ammettiamo Paesi più poveri? Nessuna di queste domande ha risposte facili, soprattutto quando si tratta di Paesi vasti come l’Ucraina. Probabilmente, alcune di tali questioni restano ancora da risolvere, a seguito dell’allargamento dell’Ue ai Paesi dell’Europa centrale e orientale.
In ciascun Paese, gli elettori dovranno valutare attentamente di chi si fidano per rappresentarli nell’affrontare tali questioni. Anche se il Parlamento europeo non avrà un ruolo guida in molte di queste tematiche (la difesa e l’allargamento rientrano nelle competenze del Consiglio), di sicuro l’umore catturato dalle elezioni influenzerà fortemente il modo in cui i politici nazionali e quelli dell’Ue affronteranno le decisioni future.
Conclusione
Non esiste un partito o un candidato perfetto per cui votare. La realtà della politica nella maggior parte dei Paesi europei, così come la situazione della Chiesa nella maggior parte delle società europee, fa sì che quasi ogni opzione dovrà essere un compromesso. Ma bisogna fare delle scelte. I cristiani non possono abdicare al loro giusto posto nel processo democratico. Spetta a ciascuno valutare in coscienza, dopo un’adeguata informazione e riflessione, dove il suo voto possa promuovere al meglio il bene comune e i valori cristiani a livello europeo.
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[1]. Un’analisi approfondita della questione si può trovare in https://ecfr.eu/publication/a-sharp-right-turn-a-forecast-for-the-2024-european-parliament-elections/
[2]. Comece, Dichiarazione in vista delle elezioni europee, 13 marzo 2024 (www.chiesacattolica.it/comece-dichiarazione-in-vista-delle-elezioni-europee).
[3]. Cfr Churches affirm their role in shaping Europe’s future ahead of EU elections, 20 marzo 2024, in www.comece.eu/churches-affirm-their-role-in-shaping-europes-future-ahead-of-eu-elections/; www.agensir.it/quotidiano/2024/3/20/ele-
zioni-europee-chiese-valori-cristiani-siano-il-fondamento-principale-del-progetto-europeo
[4]. Francesco, Esortazione apostolica Laudate Deum, n. 57.
[5]. Cfr Rising prices and social inequality could decide the European elections: Exclusive poll, 23 marzo 2024 (www.euronews.com/business/2024/03/23/rising-prices-and-social-inequality-could-decide-the-european-elections-exclusive-poll).
[6]. Caritas Europa, A social Europe championing solidarity and global justice, 20 aprile 2023 (www.caritas.eu/european-elections-2024).
[7]. Francesco, Discorso alla sessione conclusiva dei «Rencontres Méditerranéennes», 23 settembre 2023.
[8]. An open letter to negotiators in the European Commission, the Spanish Presidency of the Council of the European Union, and the European Parliament ahead of the final negotiations on the EU Pact on Migration, 19 dicembre 2023 (www.caritas.eu/open-letter-for-better-migration-policies).
[9]. One year of war in Ukraine | EU Bishops: «Stop this madness of war»!, 23 febbraio 2023 (www.comece.eu/one-year-of-war-in-ukraine-eu-bishops-stop-this-madness-of-war).
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Gaza: la guerra e la crisi umanitaria
Avviso contenuto: Un bambino a Gaza tra le macerie di un edificio con una coperta in mano. La strategia israeliana della «terra bruciata» Alcuni mesi fa, la speranza che molti nutrivano, soprattutto in Occidente, era che con l’inizio del Ramadan sarebbe entrato in vigore i
La strategia israeliana della «terra bruciata»
Alcuni mesi fa, la speranza che molti nutrivano, soprattutto in Occidente, era che con l’inizio del Ramadan sarebbe entrato in vigore il cessare il fuoco temporaneo tra Israele e Hamas, come i negoziatori riuniti prima a Parigi e poi a Doha auspicavano, in modo da dare sollievo a una popolazione, quella della Striscia di Gaza, provata da più di sei mesi di combattimenti, con oltre 34.000 morti (la maggior parte civili) e lo spettro della fame ormai diventato realtà[1]. Dopo la scadenza prevista, il governo di Tel Aviv, come aveva minacciato in precedenza, si sentiva autorizzato a invadere l’ultimo fazzoletto di terra non ancora occupato, cioè a entrare con il suo esercito nella cittadina di Rafah, dove sono accampati più di un milione di palestinesi, fuggiti dalle zone devastate dalla guerra. L’obiettivo era quello di sbaragliare gli ultimi quattro battaglioni di Hamas ancora attivi e di prendere vivo o morto Yanya Sinwar, l’ideatore del terribile attacco contro gli israeliani del 7 ottobre 2023, e i suoi collaboratori.
In ogni caso, le trattative tra Doha, il Cairo ed Amman – sotto la supervisione degli Usa – sono continuate ancora freneticamente, anche in assenza di un tavolo ufficiale: la proposta era quella di una tregua di sei settimane e della liberazione di un certo numero di prigionieri palestinesi, in cambio della liberazione di 40 ostaggi israeliani. Le richieste delle due parti erano, però, inconciliabili. Hamas chiedeva un cessate il fuoco definitivo e il ritiro dell’esercito dalla Striscia, risparmiando così la propria dirigenza, in cambio della liberazione degli ostaggi (che sarebbero ormai un centinaio). Il governo israeliano, da parte sua, si opponeva a una tregua prolungata, per la paura che i miliziani si riorganizzassero.
La strategia militare di fare «terra bruciata» – anche se finalizzata a eliminare soltanto Hamas –, portata avanti in questi ultimi tempi da Netanyahu, che ha provocato la morte di un numero eccessivamente alto di civili, appare alla maggior parte dei governi occidentali e a molti osservatori internazionali ingiustificata, sproporzionata, dannosa e anche inutile. Il presidente degli Usa, Joe Biden, che all’inizio aveva sostenuto l’azione del governo israeliano contro Hamas, il 10 marzo ha dichiarato alla tv Msnbc che «Netanyahu sta facendo più male che bene a Israele». Ha poi detto che «l’invasione di Rafah è una linea rossa che non va superata»[2], facendo riferimento ai progetti di Netanyahu di prendere la città di confine con l’Egitto. Il leader israeliano si è difeso dicendo di portare avanti una guerra nell’interesse del suo Paese. Ha poi affermato che gran parte della popolazione sostiene «le azioni che stiamo intraprendendo contro i rimanenti battaglioni di Hamas»[3].
Il vero problema per l’amministrazione statunitense è che Netanyahu non ha un vero progetto per il futuro di Gaza, cioè su come amministrare la Striscia. Per il leader israeliano, l’importante è, per il momento, raggiungere il risultato di guerra che si era proposto, ossia sradicare Hamas, e in questo modo conquistarsi un posto nella storia e possibilmente far dimenticare i suoi guai giudiziari. Il recente attacco dell’Iran al territorio israeliano ha in qualche modo riabilitato, sotto il profilo internazionale, la figura di Netanyahu, restituendole, in extremis, una certa credibilità politica, seppure per qualche ora. Ma tutto è ancora in divenire. In ogni caso, difendere Israele da un attacco più consistente e serio dell’Iran è una delle priorità della politica estera americana, e questo a prescindere da Gaza.
Gaza e l’emergenza umanitaria
Il problema che in questo periodo è sotto i riflettori della stampa internazionale è quello dell’emergenza umanitaria, cioè degli aiuti alimentari e medici, a una popolazione da mesi stremata dalla fame. Di fatto le concessioni dell’esercito sugli ingressi per i convogli di cibo, acqua e medicinali arrivavano dopo settimane – se non mesi – di pressioni della comunità internazionale. A tale riguardo, il 13 marzo il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha ripetuto che «Israele deve fare degli aiuti e della protezione dei civili la priorità più importante»[4]. Il caos è tale che anche le consegne più tempestive rischiano di non poter essere fatte. La Gran Bretagna ha interrotto i lanci di aiuti dagli aerei, come da giorni facevano gli statunitensi, per il timore di colpire gli abitanti, cosa che qualche volta di fatto è accaduta.
A causa delle pressioni continue degli Usa nei confronti del governo israeliano in materia di aiuti alimentari da assicurare a tutti i costi, il 14 marzo un portavoce militare aveva dichiarato che a breve termine Israele avrebbe inondato la Striscia di Gaza di aiuti umanitari, cioè di cibo, medicinali e tutti i generi di prima necessità, cosa mai avvenuta[5]. Restava aperto il problema della distribuzione, anche perché non si voleva che tali beni venissero incamerati dai funzionari di Hamas o destinati al mercato nero. Per sostenere questo difficile compito, funzionari israeliani hanno contattato, oltre che le agenzie umanitarie presenti sul territorio, i capifamiglia, in modo da assicurare una distribuzione più equa. Pare che alcuni di questi capifamiglia che si erano dimostrati disponibili siano stati uccisi da Hamas, con l’accusa di collaborare con il nemico.
Nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il 7 marzo, Biden, scosso dalla situazione umanitaria a Gaza – ma anche per ingraziarsi l’elettorato musulmano che vive negli Stati Uniti –, ha annunciato che le forze armate statunitensi avrebbero costruito un molo sulla costa mediterranea di Gaza[6]. Gli aiuti, è stato precisato, sarebbero stati caricati sulle navi a Cipro, dove i funzionari israeliani li avrebbero controllati, per evitare che merci proibite arrivassero a destinazione. La rotta marittima potrebbe portare ogni giorno a Gaza migliaia di tonnellate di aiuti, l’equivalente di circa 200 camion. All’iniziativa hanno poi partecipato sia i Paesi dell’Ue sia gli Stati del Golfo. Ma essa potrà entrare pienamente in funzione soltanto in estate[7].
I funzionari ciprioti avevano promosso per mesi l’idea di un corridoio umanitario di questo tipo. Adesso il progetto ha preso forma, anche se ci vorrà del tempo per costruire il molo galleggiante. Secondo l’Onu, centinaia di migliaia di persone sono a rischio carestia, soprattutto nella zona Nord, dove la popolazione è quasi completamente tagliata fuori dagli aiuti. Il World Food Programme afferma che Gaza ha bisogno ogni giorno di più di 300 camion di generi di prima necessità. Le spedizioni attraverso i due valichi di frontiera terrestri – quello di Rafah e quello di Karem Shalon – sono molto inferiori. Da qui la necessità di portare cibo e medicinali per mezzo di navi capienti. Secondo gli analisti, il problema però non è solo quello di recare gli aiuti alimentari a Gaza, ma di distribuirli nel territorio[8]. Inoltre, alcune scorte alimentari sono state distrutte dalle bombe, proprio per affamare la popolazione.
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Intanto, mentre si attendono aiuti, molti bambini sono morti per disidratazione e per malnutrizione, e la maggior parte delle persone si alimenta con orzo, mais e varie erbe del luogo[9]. Un report presentato il 19 marzo da 15 organizzazioni umanitarie internazionali, coordinate dall’Onu, ha affermato che a Gaza è in atto una crisi umanitaria senza precedenti. La carestia sta avanzando a una velocità mai vista: a dicembre i palestinesi denutriti erano 300.000, ora sono più che raddoppiati, mentre quelli che faticano a nutrirsi sono circa un milione. «Le restrizioni israeliane sull’ingresso di aiuti a Gaza – afferma l’ufficio dell’Onu per i diritti umani – potrebbero configurarsi come crimini di guerra»[10].
Una settimana prima, un incidente aveva scosso la comunità internazionale: più di 100 persone erano state uccise mentre cercavano di assaltare dei camion carichi di cibo, che stavano risalendo dal valico di Kerem Shalom. Sull’accaduto le testimonianze erano abbastanza discordi. Secondo i militari israeliani, le morti sarebbero state causate dal parapiglia: alcune persone sarebbero state travolte dai camion, altre dalla gente che cercava di salire sui tir o di fuggire dalla calca. Secondo Hamas, sarebbero state le truppe israeliane ad aver sparato sui civili e ad averli bombardati con l’artiglieria[11].
Intanto, su pressione statunitense, Netanyahu ha iniziato a cedere sul tema degli aiuti umanitari: il 7 aprile è stato aperto il valico di Erez a nord della Striscia, e alcune centinaia di camion carichi di cibo hanno iniziato a entrare quotidianamente. Questo, però, non rivolve il problema della carestia.
Biden in disaccordo con Netanyahu su Rafah
Dal punto di vista politico, il recente disaccordo tra il governo di Netanyahu e quello statunitense concerne due questioni molti importanti: l’occupazione militare di Rafah e la messa a punto di un progetto, per il dopoguerra, per l’amministrazione di Gaza e in generale per la risoluzione dell’annoso problema palestinese.
Per quanto riguarda la prima questione, il progetto strategico del leader israeliano, come si è detto, è quello di portare avanti «l’operazione su Rafah», per sconfiggere definitivamente Hamas e prendere i suoi capi. E ciò a prescindere da una possibile tregua nei combattimenti, in vista di uno scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, e dalla protezione di un milione di profughi accampati nella città di confine. Chi critica l’invasione di Rafah, dice Netanyahu, in realtà è contro la sconfitta dei terroristi e non vuole la sicurezza di Israele. L’amministrazione Biden si è detta ormai stanca di questi falsi argomenti: si può volere la sconfitta di Hamas e allo stesso tempo essere contro l’invasione militare di Rafah. L’operazione bellica, ha affermato Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza di Biden, in una conferenza stampa, il 18 marzo, sarebbe un errore, porterebbe a ulteriori morti tra i civili palestinesi, aggraverebbe la crisi umanitaria, aumenterebbe il livello di anarchia dentro la Striscia e accrescerebbe l’isolamento internazionale di Israele. «Gli stessi obiettivi possono essere raggiunti con altri mezzi»[12].
Intanto, il 25 marzo il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato – con 14 sì e con l’astensione degli Stati Uniti – una risoluzione che metteva in causa Israele. Un fatto di tale portata non era mai avvenuto prima: gli Usa, infatti, si sono sempre opposti, anche recentemente, a tutti i provvedimenti di censura nei confronti dello Stato di Israele. Il testo, a lungo dibattuto e corretto, chiedeva «un cessate il fuoco immediato per il mese di Ramadan che conducesse poi ad uno durevole e sostenibile», e «il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi»[13]. Riguardo alla crisi umanitaria presente a Gaza, sottolineava «l’urgente necessità di espandere il flusso di assistenza umanitaria e rafforzare la protezione dei civili sull’intera Striscia»[14]. Il testo non presentava né censure né ultimatum nei confronti dello Stato israeliano, ma ne intaccava il prestigio e il buon nome nella comunità internazionale. Nel mondo musulmano la risoluzione è stata salutata come una vittoria. Netanyahu ha criticato il mancato veto degli Usa, che ha considerato un dietrofront rispetto alle posizioni precedenti di Washington. Biden, ormai impegnato nella campagna presidenziale, deve fare i conti anche con l’opinione pubblica interna e conquistarsi il voto dei musulmani che, in alcuni «Stati in bilico», sono importanti.
Circa l’amministrazione di Gaza e la risoluzione del problema palestinese, la questione è più difficile e complicata. Negli ultimi mesi, Biden in diverse circostanze ha affermato che, «quando questa crisi sarà finita, dovrà esserci una visione di ciò che verrà dopo, e a nostro avviso deve essere una soluzione a due Stati»[15], uno israeliano e l’altro palestinese. Di questa opinione sono anche i maggiori leader occidentali. Ma il governo israeliano attuale non sembra essere di questo parere. Netanyahu vorrebbe conservare anche in seguito il controllo su Gaza, per motivi di sicurezza nazionale, e continuare a estendere gli insediamenti dei coloni nella Cisgiordania. L’estrema destra, presente nell’attuale governo, spera che una vittoria definitiva su Hamas possa offrire la possibilità di occupare Gaza e ricostruire gli insediamenti ebraici smantellati nel 2005.
Biden spera, invece, che la fine della guerra offra la possibilità di rilanciare il comatoso processo di pace israelo-palestinese, interrotto nel 2014. Per ora questo è solo un sogno lontano, tanto più che i generali israeliani si aspettano mesi di combattimenti prima di iniziare un qualsiasi processo di pacificazione. I maggiori Paesi occidentali – Stati Uniti in primis – sperano alla fine di affidare il controllo su Gaza all’Autorità palestinese che governa la Cisgiordania, probabilmente con l’aiuto di una «forza di mantenimento» – sotto il controllo dell’Onu –, incaricata di favorire la transizione. Naturalmente si parla di un’Autorità palestinese riformata e al momento giusto legittimata da un voto popolare. A marzo, il presidente palestinese Abu Mazen ha scelto il nuovo primo ministro nella persona di Mohammad Mustafa, un economista che ha lavorato alla Banca mondiale. Sembra che tale nomina, peraltro inaspettata, sia un tentativo di riforma e di ammodernamento dell’Autorità nazionale palestinese, al fine di ridarle una nuova legittimità.
Sul fronte di guerra, il 7 aprile le truppe della 98a divisione – circa 15.000 soldati – hanno lasciato l’area che si trova a sud di Gaza, acquartierandosi poco lontano dal confine. Il che vuol dire che in questo momento in tutta la Striscia sono rimaste soltanto unità combattenti della brigata Nahal, concentrate a nord di Gaza City. La decisione è arrivata dopo settimane di pressione degli Usa e di fronte a una crescente minaccia di rappresaglia da parte dell’Iran, dopo l’uccisione di sette militari iraniani che si trovavano in una sede consolare di Damasco – tra cui il generale Mohammad Reza Zahedi, comandante della Forza Quds –, operata da droni israeliani[16].
La spiegazione ufficiale del ritiro, così come l’ha presentata il comandante in capo dell’esercito, spegne la speranza di vedere a breve termine la fine di un’occupazione che ha stremato la popolazione[17]. Non è, però, da escludersi la possibilità che l’esercito, dopo una breve pausa, entri, come minacciato, a Rafah, unico luogo della Striscia non ancora calpestato dagli stivali israeliani. Biden ha fatto capire di non essere d’accordo con tale soluzione, ma il governo di Tel Aviv non intende recedere su questo punto[18]. Il problema è come proteggere i civili presenti nel territorio, molti dei quali si sono spostati nella cittadina di Khan Yunis. Insomma, la guerra continua, e al momento, nonostante la diplomazia stia lavorando, non si vede una via di uscita. La situazione si è ulteriormente complicata con il minaccioso attacco sferrato il 13 aprile dall’Iran nei confronti dello Stato israeliano.
L’Iran attacca Israele
Nella notte del 13 aprile, più di 300 tra droni e missili iraniani sono stati lanciati contro Israele. Dopo decenni di lotta contro Israele condotta per procura, questa è la prima volta che l’Iran ha attaccato il nemico dal suo stesso territorio. Un attacco che è stato ideato per fallire, soprattutto per la modalità con cui è stato condotto. Circa il 99% dei droni (o missili) lanciati contro Israele sono stati intercettati e distrutti. Molti di essi sono stati colpiti, durante il tragitto nei Paesi arabi, dai sistemi di difesa attivati dagli Usa, dall’Inghilterra e della Francia. Quelli atterrati hanno causato solo danni molto lievi. Secondo Biden, in questa occasione Israele ha dimostrato una notevole capacità di difendersi e di scoraggiare anche attacchi senza precedenti. Queste parole, in realtà, volevano convincere Tel Aviv a non rispondere all’attacco, evitando una escalation, che potrebbe incendiare l’intera regione. Gli Usa, infatti, non intendono in nessun modo intraprendere una guerra contro l’Iran, o sostenere Israele in una guerra contro gli ayatollah e i loro alleati.
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Secondo molti interpreti, questo attacco è stato per Teheran un grave errore strategico, che non lo avvantaggia per nulla nella sua contrapposizione a Israele[19]. Finora, infatti, l’Iran è stato uno dei maggiori beneficiari indiretti della guerra a Gaza. Le sue milizie per procura – Hezbollah, Houthi e altri – hanno dato un’incredibile dimostrazione di forza in tutta la regione. Allo stesso tempo, l’Iran, nonostante il blocco navale sul Mar Rosso, era riuscito a mantenere buoni rapporti con la maggior parte dei Paesi arabi sunniti desiderosi di evitare nuovi conflitti. Nel frattempo Israele si andava sempre di più impantanando nel sud della Striscia, e gli Usa, pur in disaccordo su molti aspetti con il governo di Tel Aviv, sentivano il bisogno di difendersi, anche in patria, dall’accusa di armare Netanyahu. L’attacco iraniano del 13 aprile potrebbe aver vanificato questi guadagni e, sul piano internazionale, fatto passare l’idea dell’Iran come Paese aggressore, a tutto vantaggio di Israele.
Gli esperti sottolineano due punti critici di tale strategia. In primo luogo, questo attacco ha riunito gli Stati occidentali e quelli arabi sunniti in una sorta di «coalizione ibrida» a sostegno di Israele. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno messo da parte per qualche giorno le critiche nei confronti del governo Netanyahu per il modo con cui veniva condotta la guerra e sono venuti in soccorso del vecchio alleato. Anzi, hanno utilizzato i loro aerei da combattimento e i loro sistemi di difesa per abbattere i droni iraniani prima ancora che raggiungessero Israele.
In secondo luogo, questa azione bellica contro lo Stato di Israele ha avuto come conseguenza quella di far retrocedere, nell’agenda politica globale, la guerra di Gaza – per la quale l’Iran aveva agito –, portando in primo piano la crisi provocata dall’attacco iraniano, per scongiurare una temuta estensione del conflitto, e quindi una rovinosa guerra in Medio Oriente. Una settimana prima, gran parte dei Paesi occidentali e arabi erano uniti nella comune indignazione per lo spaventoso numero di vittime civili e l’aggravarsi della situazione umanitaria a Gaza. Alcuni Paesi addirittura pensavano di imporre restrizioni nella vendita di armi a Israele. Ma, da questo momento, la difficile situazione di Gaza diventa secondaria rispetto alla prospettiva di una guerra regionale più ampia.
Gli attacchi iraniani con droni e missili hanno causato pochi danni materiali, innescando però una rinnovata simpatia, sul piano internazionale, per Israele. «Eppure non è affatto chiaro se il Governo disfunzionale di Israele possa trarre vantaggio dall’errore dell’Iran mostrando moderazione, mantenendo gli alleati a bordo ed evitando una guerra totale che avrebbe conseguenze disastrose per l’economia mondiale e per decine di milioni di persone»[20].
Sei giorni dopo, Israele ha lanciato un attacco soft con droni contro l’Iran, come rappresaglia per quando accaduto il 13 aprile. Questa azione, peraltro, non è stata rivendicata ufficialmente. È stata colpita la zona di Isfahan, che ospita una grande base militare e alcuni siti nucleari[21]. L’attacco non distruttivo rispetta le sollecitazioni di Usa e alleati a non aumentare la tensione nella regione. Esso non ha prodotto danni rilevanti, e le autorità iraniane si sono adoperate per minimizzare l’accaduto, affermando che i droni lanciati da Israele sono stati colpiti e che la situazione ad Isfahan è tornata alla normalità[22]. Lo spazio aereo iraniano è stato immediatamente riaperto. Inoltre, sono stati colpiti anche alcuni siti in Siria e in Iraq, da dove erano partiti attacchi contro Israele. Questo è un segnale esplicito lanciato da Israele agli alleati di Teheran.
Con tale azione, ampiamente prevista, Israele ha voluto salvare il principio del diritto a rispondere a eventuali attacchi sul suo territorio, sebbene lo abbia fatto con un atto puramente dimostrativo. In realtà, come ha dichiarato una fonte israeliana, questo voleva essere un segnale, lanciato all’Iran, che Israele ha la capacità di colpire all’interno del Paese e di poterlo fare in ogni momento. Preavvisando gli Usa dell’imminente attacco in territorio iraniano, Tel Aviv aveva assicurato Washington che non avrebbe colpito i siti nucleari, e così di fatto è stato. Alcuni segnali lanciati dalle autorità iraniane, con lo scopo di tranquillizzare la popolazione, fanno presumere che Teheran non intenda rispondere all’attacco. Ma in questo momento nulla è sicuro.
In molti ritengono che attualmente non sia nell’interesse di Israele combattere contemporaneamente su due fronti, tanto più che Hezbollah ha ripreso a bombardare con più forza la Galilea. Il che porterebbe in secondo piano la lotta contro Hamas, che oggi rappresenta il vero pericolo per Israele.
Piani per il dopoguerra
Secondo le potenze occidentali e molti Paesi arabi, qualsiasi piano per il dopo Gaza deve considerare la possibilità di una soluzione a due Stati. Lo Stato palestinese, di cui si parla, includerebbe sia la Striscia di Gaza sia la Cisgiordania, nei confini previsti dalle risoluzioni dell’Onu. Sui territori controversi, si dovrebbe procedere in questo modo: «Israele scambierebbe parti del suo territorio con porzioni della Cisgiordania dove ha costruito grandi e popolosi insediamenti. Gerusalemme Est sarebbe divisa, con una sorta di controllo congiunto sulla città vecchia»[23]. Inoltre, un certo numero di rifugiati palestinesi potrebbe tornare in Israele, mentre il resto si stabilirebbe in Palestina o altrove. Ovviamente, Israele si aspetterebbe che uno Stato palestinese nascesse smilitarizzato.
Il problema più serio per dare concretezza a tale piano è di natura politica. Di fatto, per il momento non ci sarà alcun processo di pace con la coalizione di politici di estrema destra, guidata da Netanyahu. Ma è improbabile che questa coalizione sopravviva a lungo dopo la guerra. Va sottolineato che, secondo recenti sondaggi, il 70% degli israeliani vorrebbe, dopo la conclusione del conflitto, nuove elezioni politiche, che ordinariamente dovrebbero tenersi nel 2026.
Ci sono tre modi in cui un governo israeliano può essere sostituito prima della scadenza naturale della legislazione[24]. Innanzitutto, per le dimissioni del primo ministro. Netanyahu, nonostante abbia portato Israele a uno dei periodi più tristi della sua storia e sia quasi quotidianamente contestato per la sua politica sugli ostaggi ancora in mano ad Hamas, non ha alcuna intenzione di dimettersi, anche perché in questo caso dovrebbe rispondere alla giustizia del suo Paese. In secondo luogo, la Knesset può sostituire il primo ministro attraverso una mozione cosiddetta «costruttiva», a cui seguirebbe una procedura abbastanza complessa. L’opzione più facile e praticabile è invece la terza, che si ha quando un certo numero di deputati abbandona la coalizione, unendosi all’opposizione per votare lo scioglimento del Parlamento e indire nuove elezioni anticipate. In questo caso, però, Netanyahu rimarrebbe primo ministro per altri tre mesi, che è la scadenza minima consentita dalla legge per una campagna elettorale. Ora se egli fosse in grado di licenziare dal governo i suoi rivali centristi – tra cui Binyamin Gantz – prima di un voto alla Knesset, il risultato sarebbe l’esistenza di un governo interamente dominato da Netanyahu e sostenuto dall’estrema destra, il che sarebbe disastroso per il Paese e per la guerra in corso. Questa opzione non sarà in ogni caso praticata, perché, come ha detto un deputato del centro, «questo è il Governo più terribile che Israele abbia mai avuto, ma sarebbe ancora peggio se lo perdessimo adesso»[25].
Tuttavia, per Israele questo è un momento molto difficile. In ottobre il governo aveva lanciato un’operazione di autodifesa contro Hamas, i cui terroristi avevano commesso atrocità inenarrabili e messo in discussione l’idea di Israele come terra dove gli ebrei avrebbero dovuto essere al sicuro. Sebbene l’esercito israeliano abbia distrutto più della metà delle forze dei miliziani, per molti aspetti la sua missione è fallita. In primo luogo a Gaza, dove la riluttanza a fornire e distribuire aiuti ha provocato una crisi umanitaria che poteva essere evitata. Il recente attacco iraniano allo Stato israeliano, come si è detto, ha garantito a Tel Aviv, dopo mesi di contrasti, l’appoggio politico ed economico dei suoi maggiori alleati, che non permetteranno che gli ayatollah vincano questa lotta. Tanto più che la risposta israeliana all’attacco del 13 aprile è stata puramente dimostrativa, secondo le raccomandazioni statunitensi. Va però ricordato che Israele in questa guerra ha perso parte della credibilità che aveva guadagnato presso l’opinione pubblica occidentale. Ciò, purtroppo, in alcuni Paesi ha fomentato l’antisemitismo.
In questi anni, la soluzione dei due Stati è andata progressivamente perdendo consenso in entrambe le parti. Un sondaggio condotto nel settembre 2022 dall’Israel Democracy Institute ha rilevato che solo il 22% degli ebrei israeliani sarebbe favorevole a questa soluzione, rispetto al 47% di cinque anni prima[26]. Il sostegno a tale soluzione politica è crollato anche tra i palestinesi. Un altro sondaggio del giugno 2023, condotto da specialisti palestinesi, ha accertato che soltanto il 28% degli intervistati era d’accordo con la teoria dei due Stati (10 anni fa essa era sostenuta da più del 50% della popolazione palestinese). Questa scelta si spiega con il principio che le persone di solito non sostengono qualcosa che ritengono impossibile. La vera sfida per il futuro è guadagnare la maggior parte dei palestinesi – e soprattutto la loro classe politica – alla convinzione che con un negoziato serio e con la mediazione della comunità internazionale, nonostante i fallimenti del passato, si possa costruire una vera entità statale nazionale per i palestinesi, che hanno il diritto di vivere in pace nel loro Stato.
La guerra in atto tra Israele e Hamas, sebbene in ambito internazionale abbia ridato forza, dopo anni di scetticismo e di diffidenza, alla soluzione dei due Stati, in realtà, a livello dell’opinione pubblica, ha scavato ancora di più un abisso che separa le due popolazioni. «Questo abisso – ha scritto l’intellettuale marocchino Tahar Ben Jelloun – è riempito di odio. Prima era riempito di paura; oggi l’odio, un odio secco, senza parole, senza colore, senza pietà regna tra Israele e Palestina». Eppure, continua lo studioso, «è questo il momento per proporre agli israeliani l’arresto della colonizzazione e la creazione di due Stati»[27]. Tanto più che la causa palestinese, accantonata per anni sia dai Paesi arabi sia dai partiti di sinistra in Occidente, è tornata al centro della scena internazionale, e centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo sono scese in piazza per protestare contro la carneficina che l’esercito israeliano sta conducendo a Gaza. Questo a condizione che il recente conflitto tra l’Iran e Israele non si estenda ulteriormente, incendiando l’intera regione mediorientale. Il che nuocerebbe molto alla causa della pace e in primis a quella palestinese.
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[1]. Cfr M. Moench, «How experts believe starvation is being utilized in Gaza», in Time,6 gennaio 2024.
[2]. F. Caferri, «Inizia il Ramadan di guerra, pressing finale per la tregua. Si teme un mese sacro di sangue», in la Repubblica,11 marzo 2024.
[3]. Ivi.
[4]. D. Frattini, «Pioggia di missili dal Libano. Israele insiste invaderemo Rafah», in Corriere della Sera,14 marzo 2024.
[5]. Cfr F. Caferri, «Israele: “Inonderemo la Striscia di aiuti”. Ma conferma il piano per invadere Rafah», in la Repubblica, 15 marzo 2024.
[6]. Cfr «Will Joe Biden’s new plan bring relief at Gaza?», in The Economist,8 marzo 2024.
[7]. Cfr V. Bergengruen, «Biden Will Order Us Military to Build Gaza Port for Aid Delivery», in Time,8 marzo 2024.
[8]. Cfr «Will Joe Biden’s new plan bring relief at Gaza?», cit.
[9]. Cfr A. Hass, «La disperazione non è propaganda», in Internazionale, 8 marzo 2024; N. Del Gatto, «Incubo carestia. Le voci dei palestinesi all’inferno: “Mangiare è la sfida più grande”», in La Stampa,20 marzo 2024.
[10]. A. Nicastro, «L’Onu sulla crisi a Gaza: “Una carestia mai vista”. Sinwar tratta per Hamas», in Corriere della Sera, 20 marzo 2024.
[11]. Cfr M. Srivastava – N. Zilben – H. Saleh, «A Gaza la fame diventa un’arma», in Internazionale,8 marzo 2024, 16.
[12]. D. Raineri, «Trattativa tra Biden e Netanyahu sull’operazione militare a Rafah», in la Repubblica,19 marzo 2024.
[13]. A. Nicastro, «Onu, sì al cessate il fuoco con l’astensione Usa. L’ira di Netanyahu», in Corriere della Sera,26 marzo 2024.
[14]. Ivi.
[15]. «Is a two-state solution possible after the Gaza war?», in The Economist,1° novembre 2023.
[16]. Cfr «With its latest assassination, Israel is testing Iran», in The Economist, 2 aprile 2024; R. Gramer, «Israele fa salire la tensione con l’Iran», in Internazionale, 5 aprile 2024, 18.
[17]. F. Tonacci, «Gaza, Israele ritira le truppe dal Sud: “Ora caccia mirata ai capi di Hamas”», in la Repubblica,8 aprile 2024.
[18]. Biden, in un’intervista, ha detto che «Natanyhau sta sbagliando» a Gaza e che non sta facendo molto per proteggere i civili e per l’arrivo degli aiuti umanitari. Ma ha anche dichiarato «l’impegno ferreo degli Usa per la sicurezza di Israele contro la minaccia di Teheran e alleati» (D. Frattini, «Gli Usa: imminente attacco dell’Iran. Gaza uccisi i figli e i nipoti di Haniyed», in Corriere della Sera,11 aprile 2024).
[19]. Cfr «Iran and Israel’s shadow war explodes into the open», in The Economist,14 arile 2024.
[20]. Ivi.
[21]. Cfr P. Brera, «Israele, attacco soft all’Iran. Si sgonfia la crisi più grave», in la Repubblica,20 aprile 2014.
[22]. Teheran ha derubricato l’attacco, affermando che si è trattato di pochi droni lanciati dal territorio iraniano, con l’aiuto di infiltrati. Niente di più che un attentato, insomma. Cfr ivi.
[23]. «Is a two-state solution possible after the Gaza war?», cit.
[24]. «Deposing the King of Israel», in The Economist,17 marzo 2024.
[25]. Ivi.
[26]. Gli arabi israeliani, che costituiscono un quinto della popolazione, sostengono ancora la soluzione dei due Stati (71%).
[27]. T. B. Jelloun, «Lo Stato di Palestina urgenza ineludibile», in la Repubblica, 15 novembre 2023.
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A cosa serve il «World Economic Forum» oggi?
Avviso contenuto: Uno degli eventi del “World Economic Forum” di Davos 2024. Nella settimana dal 15 al 19 gennaio 2024 si è svolto a Davos, in Svizzera, l’incontro 2024 del World Economic Forum (Wef), un evento annuale che si rinnova ogni inverno e in cui importanti dirige
Nella settimana dal 15 al 19 gennaio 2024 si è svolto a Davos, in Svizzera, l’incontro 2024 del World Economic Forum (Wef), un evento annuale che si rinnova ogni inverno e in cui importanti dirigenti aziendali, politici e accademici di tutto il mondo si incontrano per affrontare le sfide globali più urgenti e promuovere la collaborazione internazionale.
Più di 400 diverse sessioni e seminari hanno permesso ai quasi 3.000 partecipanti di assistere alle presentazioni e ai dibattiti organizzati nella località alpina in questo anno caratterizzato da crescente frammentazione e polarizzazione. Le sessioni plenarie hanno offerto l’opportunità di ascoltare dal vivo capi di Stato, di governo e ministri (rispettivamente più di 50 e 300 presenti), capi di organizzazioni multilaterali e altri leader politici, nonché premi Nobel, artisti famosi, scienziati e imprenditori innovativi.
Gli incontri annuali nelle Alpi svizzere – questo era il 54° – sono stati talvolta un’occasione per raggiungere accordi di portata storica. Nel 1989 Davos ospitò i colloqui sulla riunificazione tedesca tra il cancelliere federale Helmut Kohl e i capi della Germania dell’Est. Nel 1992, Frederik de Klerk e Nelson Mandela condivisero il palco nella loro prima apparizione insieme fuori del Sudafrica. Inoltre, nel 1995, l’accordo su Gaza e Gerico tra Shimon Peres e Yasser Arafat, firmato sotto gli occhi dei partecipanti e siglato con un abbraccio, suscitò un fragoroso applauso da parte dell’assemblea. Tuttavia, negli ultimi anni, Davos si è fatta notare soprattutto come il luogo in cui il conflitto si rende evidente. Nel 2009 il premier turco Recep Tayyip Erdoğan ha lasciato il palco dopo una violenta discussione su Gaza con il presidente israeliano Shimon Peres.
Che cosa ci si può attendere da questi incontri annuali?
Gli incontri di Davos, non avendo carattere istituzionale, potrebbero passare più o meno inosservati. Al termine delle deliberazioni non vengono emessi documenti vincolanti, anche se talvolta possono nascere convergenze come quelle menzionate; a ogni modo, i resoconti pubblici di ciascuna sessione vengono trascritti scrupolosamente e messi a disposizione sul sito ufficiale[1].
Il Wef di Davos è finanziato da circa 1.000 tra le più grandi aziende del mondo, che versano quote di iscrizione elevate. Coloro che sono stati invitati a partecipare alla conferenza annuale accorrono pagando una cifra notevole. Nel 2011, il New York Times ha stimato il prezzo della presenza alla conferenza annuale del Wef in 71.000 dollari, escluse le spese di soggiorno e di viaggio[2]. Ricevere un invito è segno di riconosciuta rilevanza.
Il politologo Samuel Huntington ha coniato l’appellativo Davos Man per indicare il chiaro denominatore comune che associa i membri di questa élite[3]. In quella definizione si compendia il cittadino globale, una stirpe poco devota alla realtà nazionale, un gruppo che accoglie con favore la scomparsa delle frontiere e considera i governi nazionali come vestigia del passato. E non c’è dubbio che la corporazione transnazionale è senza patria, soprattutto nell’attuale era, caratterizzata dalla globalizzazione, che questo gruppo ben selezionato riflette e promuove.
Davos è molto più di una conferenza di quattro giorni in una località sciistica svizzera: per i partecipanti si tratta soprattutto di un’occasione unica per allacciare una rete di contatti, un vero festival del networking.
In questo articolo vorremmo mettere in risalto lo scopo del Wef, la sua ragion d’essere, e fare una sintesi degli eventi più significativi accaduti a Davos 2024.
Qual è lo scopo ultimo del Wef?
Il Wef è stato fondato nel 1971 dall’economista svizzero Klaus M. Schwab. Esso si batte per un mondo globalizzato e, oltre alle assemblee a cui convoca e accoglie i vertici mondiali, produce una serie di rapporti di ricerca fortemente incentrati sul futuro e su come affrontare le sfide e le opportunità incombenti. Con i suoi gruppi di lavoro, le conferenze regionali e le varie iniziative, tende in definitiva a essere un attore globale in grado di contribuire a risolvere le complesse sfide che il nostro mondo oggi deve affrontare.
Fin dall’enunciazione della sua Mission[4], e più in dettaglio in una serie di documenti di riferimento, il Wef sostiene un mondo globalizzato in base a un nuovo sistema di governance globale. In esso, alle grandi aziende dovrebbe essere attribuito lo stesso rango degli Stati-nazione, e inoltre vi verrebbero cooptati alcuni rappresentanti selezionati della società civile. Nel suo rapporto Global Redesign[5] viene suggerita la creazione di Nazioni Unite pubblico-private, nel cui ambito vengano affidate a organizzazioni selezionate l’operatività e la direzione delle agende globali, all’interno di sistemi di governance condivisi. Si afferma che il modo migliore per gestire un mondo globalizzato è quello di istituire una coalizione di società multinazionali, governi e organizzazioni della società civile. Questo nuovo modello di governance globale – un sistema multi-stakeholder – attingerebbe all’esperienza propria del Forum per armonizzare e bilanciare il meglio di molti tipi di organizzazioni pubbliche e private, organismi internazionali e istituzioni accademiche.
Questo progetto ha preso corpo con l’accordo che il Wef ha firmato con l’Onu a New York nel giugno 2019[6]. Si tratta di una Strategic Partnership Framework, un partenariato strategico che descrive aree di cooperazione in cui approfondire l’impegno istituzionale e accelerare congiuntamente l’attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile[7]. In base all’accordo, le due istituzioni si impegnano ad adottare livelli senza precedenti di cooperazione e coordinamento per il finanziamento dell’Agenda 2030, del cambiamento climatico, della salute, dell’emancipazione delle donne, dell’istruzione e della cooperazione digitale.
A prima vista, questo accordo appare vantaggioso, perché contribuisce ad affrontare le sfide fondamentali dei nostri giorni. Tuttavia il memorandum non riguarda solo la cooperazione, ma stabilisce anche che le grandi multinazionali abbiano una sede istituzionale presso le Nazioni Unite. Si tratta di qualcosa di unico, perché all’interno del sistema Onu non è previsto alcuno spazio analogo per la società civile, per il mondo accademico, per le religioni o per le organizzazioni giovanili.
Le reazioni non si sono fatte attendere. Nel settembre 2019, più di 400 organizzazioni della società civile e 40 reti internazionali hanno criticato duramente l’accordo Onu-Wef e in una lettera aperta hanno chiesto al Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, di revocarlo[8]. I firmatari sostenevano che una simile alleanza finirà per delegittimare le Nazioni Unite e fornirà alle multinazionali un accesso preferenziale al sistema Onu. Infatti, i leader aziendali diventeranno consulenti dei capi dei dipartimenti Onu, e tale posizione consentirà loro di sostenere soluzioni ai problemi globali basate sul profitto e sul mercato, con il forte rischio che vengano posposti l’interesse pubblico e le procedure democratiche trasparenti.
La lettera denunciava l’obiettivo di indebolire il ruolo degli Stati nel processo decisionale globale e di rafforzare un nuovo insieme di «azionisti» (stakeholder), trasformando il nostro sistema multilaterale in un sistema multistakeholder, in cui le imprese fanno parte dei meccanismi di governo. In questo contesto, passerebbero in secondo piano preoccupazioni critiche, come quelle riguardanti i conflitti di interessi, la responsabilità e la democrazia.
Le reazioni più dure hanno evidenziato il fatto che il Wef soffre di una crisi reputazionale. Molte voci infatti accusano i suoi partner miliardari di essere la causa di quelle crisi globali che ambiscono risolvere, e quindi temono che il raggiungimento di questo accordo equivalga ad aver ottenuto la legittimità pubblica a cui aspirano[9].
Ordine del giorno del Forum 2024
La convocazione del 54° incontro annuale del Wef dello scorso gennaio è stata fatta in un clima di tensione, in un panorama globale che diveniva sempre più complicato. Questa premessa, del tutto evidente, è parte integrante del Global Risks Report 2024, redatto dagli analisti strategici del Forum[10]. In esso si dice che, in un sondaggio effettuato in tempi recenti, la maggior parte degli interpellati prevedeva una prospettiva per lo più negativa per il mondo nei prossimi due anni e temeva peggioramenti nel prossimo decennio.
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Il rapporto si concentra su quattro punti chiave: il cambiamento climatico; la variazione strutturale della popolazione nel mondo; lo sviluppo delle tecnologie di frontiera; i cambiamenti geopolitici.
Le condizioni meteorologiche estreme vengono identificate come la principale minaccia, perché suscettibili di provocare una crisi globale che lascerebbe alcuni Paesi in situazioni molto precarie. Va notato che nei prossimi due anni quasi tre miliardi di persone si recheranno alle urne[11], e che l’utilizzo diffuso della disinformazione e delle fake news può determinare i risultati elettorali, incidendo sulla loro legittimità. Si prevede una recessione economica che metterà in difficoltà le persone e i Paesi con basso reddito. Pertanto, il rapporto Wef mette in guardia dalla crescente polarizzazione sociale e teme che i Paesi e le comunità vulnerabili rimarranno ancora più indietro, isolati digitalmente dai progressi accelerati dell’intelligenza artificiale (IA), che avranno ripercussioni sulla produttività economica e sulla creazione di posti di lavoro.
In sostanza, questo rapporto ha determinato l’ordine del giorno dell’Assemblea del Forum di quest’anno[12]. Agli invitati, nel panorama della montagna incantata di Thomas Mann e ben protetti dal freddo esterno, non si sarebbe potuta proporre un’agenda diversa: le tensioni geopolitiche, la grande trasformazione indotta dall’intelligenza artificiale, la polarizzazione delle democrazie, la transizione climatica e quella digitale. Il titolo scelto in questa situazione d’incertezza è stato Ricostruire la fiducia.
Il conflitto tra le potenze mondiali è evidente
All’incontro di Davos hanno partecipato alti rappresentanti di Washington (il segretario di Stato, Antony Blinken), di Bruxelles (la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen) e di Pechino (il primo ministro cinese, Li Qiang). Essi non potevano rinunciare a essere presenti in una platea così privilegiata e di tale rilievo, in cui sono convenuti leader mondiali dell’economia, dell’opinione e della tecnologia come Sam Altman di OpenAI, Satya Nadella di Microsoft, Arvind Krishna di Ibm e Pat Gelsinger di Intel.
La giornata di apertura del Wef ha rispecchiato in tutta la loro crudezza i rischi globali comportati dalle attuali guerre in Ucraina e Gaza e la grande lotta tra le potenze che permea quasi tutto, dalla produzione di microchip al commercio internazionale, dalla fornitura delle materie prime alla corsa all’intelligenza artificiale e all’informatica quantistica.
Il punto di vista della Repubblica popolare cinese (Rpc)
L’intervento di esordio, nella giornata di apertura del Forum, è spettato al primo ministro cinese Li Qiang[13], che lo ha articolato sulla base del tema proposto per l’incontro: Ricostruire la fiducia. A suo avviso, «ricostruire» implica riconoscere che la fiducia prima prevaleva, e che grazie a essa si sono verificati gli enormi progressi che hanno reso possibile la globalizzazione economica negli ultimi decenni; che la base della fiducia poi è stata erosa, perché si sono aggravati i rischi per la crescita globale e lo sviluppo pacifico; e infine che ricostruire la fiducia è molto importante per superare le difficoltà attuali e creare un futuro migliore. Egli ha affermato che è essenziale eliminare i pregiudizi, superare le differenze e lavorare insieme per affrontare la carenza di fiducia. A tal fine, ha auspicato il rafforzamento della cooperazione internazionale su aspetti quali la politica macroeconomica, la specializzazione industriale, la scienza, lo sviluppo verde e i collegamenti Nord-Sud e Sud-Sud.
L’economia cinese, a detta di Li Qiang, progredisce costantemente e continuerà a dare un forte impulso a quella mondiale. A partire da qui, pur senza nominare gli Stati Uniti, ha biasimato le restrittive misure commerciali promosse da Washington e la sua riluttanza a fare spazio a una riforma dell’ordine mondiale che stabilisca regole condivise e accettate, in un mondo dagli equilibri ormai molto diversi rispetto a quello che era emerso nel secondo dopoguerra. Rispondendo a una domanda nella sessione plenaria, ha anche affermato che dobbiamo puntare sul multilateralismo, unica direzione adeguata, ma che occorre mettersi d’accordo sulle regole commerciali e su chi deve stabilirle. Se le regole saranno definite solo da alcuni Paesi, secondo Li, bisognerà mettere tra virgolette la parola «multilateralismo». Infatti esso deve basarsi su norme riconosciute dall’intera comunità.
Con la sua triplice proposta di abbandonare il protezionismo, mantenere fluide le catene della distribuzione e avere fiducia nella specializzazione produttiva, il primo ministro cinese ha espresso il desiderio di ritornare alla situazione antecedente l’aggravarsi delle tensioni con gli Stati Uniti, ossia alla globalizzazione in cui il gigante asiatico si è ritrovato e in cui ha trovato l’opportunità di crescere in modo spettacolare, unico nella storia dell’economia.
La posizione degli Stati Uniti
Antony Blinken, presente al Forum, non ha pronunciato discorsi. Ha approfittato dell’occasione per tenere incontri bilaterali. È comunque significativo che sia stato il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, a esprimere la posizione dell’amministrazione Biden nella sua dichiarazione[14], già illustrata in precedenza nel discorso che aveva tenuto alla Brookings Institution[15].
È partito dalla consapevolezza che gli Stati Uniti sono in competizione con la Cina sotto molteplici aspetti, ma non cercano lo scontro o il conflitto e anzi hanno intensificato gli sforzi diplomatici per evitare di commettere errori di calcolo. Ha sottolineato che gli Usa hanno rivitalizzato la propria base industriale e la forza dell’innovazione con una revisione legislativa di grande portata, cercando allo stesso tempo di affrontare le pratiche economiche sleali di Pechino. Ha chiarito che «i nostri concorrenti strategici non dovrebbero essere in grado di sfruttare le tecnologie americane per minare la nostra sicurezza nazionale o quella dei nostri alleati e partner»; lasciare che questo accada equivarrebbe a un suicidio.
Le misure così adottate non costituiscono un blocco tecnologico. Non cercano, né limitano, scambi e investimenti più ampi. Il loro obiettivo è garantire che la prossima generazione delle tecnologie operi a favore della sicurezza e della democrazia statunitensi, e non contro di esse. Ecco come stanno le cose, l’aria che tira a Washington, sia tra i democratici sia tra i repubblicani: non ci si può fidare della Cina.
L’intervento della presidente della Commissione europea
Ursula von der Leyen ha esordito facendo riferimento al Global Risks Report 2024. Lo ha definito sorprendente e istruttivo[16]. A suo avviso, è una triste realtà il fatto che tra i Paesi è in corso una forte competizione, e ciò rende il tema dell’incontro di Davos del 2024 estremamente attuale. Per questo non è il momento del conflitto o della polarizzazione, ma di creare fiducia.
Von der Leyen ha accennato alla Russia, considerandone il fallimento economico: le sanzioni hanno sganciato la sua economia dalla tecnologia moderna e dall’innovazione, e ora essa dipende dalla Cina. Inoltre, ha sottolineato che, due anni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’Europa ha ripreso in mano il proprio destino energetico, e che l’anno scorso, per la prima volta, ha prodotto più elettricità dal sole e dal vento che dal gas. Non ha esitato ad affermare che la nostra futura competitività dipende dall’adozione dell’IA e che l’Europa deve indicare la strada verso un suo utilizzo responsabile, ossia un modello che valorizzi le capacità umane, migliori la produttività e sia al servizio della società.
Von der Leyen ha ricordato che proprio a Davos aveva coniato il concetto di «riduzione del rischio», opposto a quello di «sganciamento», e che è molto importante non sganciarsi dalla Cina. Essa è senza dubbio uno dei nostri partner commerciali più importanti, ma dobbiamo ridurre i rischi in alcune aree, tra le quali va menzionata l’eccessiva dipendenza dalle catene di approvvigionamento. In particolare, non generano fiducia gli attuali controlli di Pechino sulle esportazioni di germanio, gallio e grafite. Von der Leyen ha concluso constatando che negli ultimi 10-15 anni la Cina ha sistematicamente ridotto la sua eccessiva dipendenza dal mondo, ma in compenso si è accresciuta quella dell’Europa nei suoi confronti.
Questi tre interventi, davvero chiari e senza mezzi termini, hanno fatto da preludio all’intervento del Segretario generale dell’Onu.
Il discorso di António Guterres
Guterres, nel suo intervento, ha messo in guardia fin dall’inizio dalle minacce esistenziali rappresentate dal caos climatico inarrestabile e dallo sviluppo scriteriato dell’intelligenza artificiale, senza barriere di sicurezza[17]. Questa tecnologia ha un enorme potenziale per lo sviluppo sostenibile, ma grandi aziende tecnologiche stanno perseguendo profitti con uno sconsiderato disprezzo per i diritti umani, la privacy personale e l’impatto sociale.
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Guterres ha definito l’eliminazione dei combustibili fossili essenziale e inevitabile e ha affermato che è l’ora di agire per garantire una transizione giusta ed equa verso le energie rinnovabili. Ricostruire la fiducia, a suo giudizio, richiede profonde riforme della governance globale, che possano gestire le tensioni geopolitiche invalse in una nuova era di multipolarità. Nel contesto di una crescente complessità, occorre optare per un multilateralismo riformato e inclusivo. Guterres ritiene che ci venga proposto il grande compito di costruire un nuovo ordine globale multipolare, in cui si aprono inedite opportunità di leadership, di equilibrio e di giustizia nelle relazioni internazionali. Quando le norme globali crollano, crolla anche la fiducia.
Il segretario dell’Onu ha biasimato il fatto che nei conflitti in corso – dall’invasione russa dell’Ucraina al Sudan e, più recentemente, a Gaza – le parti combattenti stiano ignorando il diritto internazionale, poiché calpestano le Convenzioni di Ginevra e violano persino la Carta delle Nazioni Unite. Le divisioni geopolitiche rappresentano un importante fattore di rischio che incide sulla nostra vacillante economia globale. L’instabilità politica si aggiunge all’insicurezza economica; nel frattempo, la disuguaglianza e l’ingiustizia stanno raggiungendo livelli osceni e sono un serio ostacolo allo sviluppo sostenibile.
Guterres ha ricordato il recente monito del Fondo monetario internazionale, secondo cui è molto probabile che le disuguaglianze peggiorino. Inoltre, a detta della Banca mondiale, ci stiamo dirigendo verso i peggiori cinque anni di crescita degli ultimi tre decenni.
In sintesi, per il segretario dell’Onu, il Rebuilding Trust è un compito prioritario. Profonde riforme della governance globale saranno necessarie per gestire le tensioni geopolitiche in una nuova era di multipolarità. Riconquistare la fiducia reciproca è essenziale per costruire un mondo più sicuro, più stabile e più prospero.
L’IA nell’agenda di Davos 2024
Nell’incontro di Davos l’IA è stata al centro dell’interesse dall’inizio alla fine. Nel programma ufficiale questo era il tema onnipresente. Nel mondo si è scatenata una forza trasformativa di impatto colossale, che comporta rischi impossibili da misurare. Tutto sembra indicare che questo rappresenti uno dei passi più rivoluzionari compiuti dall’umanità.
Oltre alla promessa di favorire considerevoli incrementi di produttività, si prevede che l’IA causerà uno sconvolgimento nel mercato del lavoro. Molti impieghi saranno obsoleti, e quelli nuovi che verranno creati non appariranno necessariamente nello stesso momento, né riguarderanno le stesse persone. Il Fondo monetario internazionale, in un rapporto reso pubblico poco prima dell’inizio del Forum, indicava che nelle economie più sviluppate il 60 per cento dei posti di lavoro ne sarà toccato, per la metà in senso negativo[18].
Non sappiamo dove ci porterà questa incipiente rivoluzione. Lo ha riconosciuto lo stesso Sam Altman, amministratore delegato di OpenAI, ideatore di ChatGPT, in una sessione pubblica[19], nel corso della quale ha affermato che ci troviamo di fronte a una tecnologia molto potente e che non possiamo dire con certezza che cosa potrà accadere. È così per tutte le grandi rivoluzioni tecnologiche, ma con questa in particolare è facile immaginare le enormi conseguenze che avrà sul mondo. Sì, c’è il rischio che le cose vadano male. Altman ha asserito che la sua azienda sta procedendo in una direzione tecnologica che ritiene sicura, ma che prova empatia verso le preoccupazioni che sono nate.
Nei discorsi, nei panel, nei corridoi e negli incontri, i partecipanti al Forum, oltre a valutare la dimensione economica, hanno considerato anche la dimensione normativa (decidere se privilegiare la protezione o l’innovazione), geopolitica (sarà fondamentale per ottenere potere economico e militare) e scientifica (apre all’umanità frontiere impensabili).
Un tema inevitabile: la transizione verde
Ogni anno il Wef inserisce nell’ordine del giorno la transizione ecologica e le dedica un programma notevole. Il Rapporto sui rischi globali 2024 del Forum ha posto l’accento sulla gravità della situazione del nostro ambiente e sui rischi che comporta: eventi climatici estremi, cambiamenti ambientali critici, perdita di biodiversità e soprattutto il collasso degli ecosistemi.
Questa sfida centrale del nostro tempo è un groviglio di problematiche. La questione chiave – fermare il cambiamento climatico – comporta aspetti di enorme importanza, come la lotta per ottenere le tecnologie del futuro, e questo si riflette sulle misure protezionistiche. Inoltre, sappiamo che la promessa di zero emissioni nette nei settori dell’energia, dei trasporti, dell’agricoltura, dell’edilizia abitativa e delle infrastrutture non sarà mantenuta se non si tiene conto dell’impatto sociale che avrà sull’occupazione, sull’accesso e sull’accessibilità economica. Una preoccupazione condivisa al Forum è stata quella che la vita verde non sia alla portata di tutti e che il processo di transizione possa accrescere le disuguaglianze. La mancata realizzazione di una transizione giusta può innescare tensioni sociali, e le necessarie politiche pubbliche devono fare in modo che nessuno venga lasciato indietro. John Kerry, inviato speciale del presidente degli Stati Uniti per il clima, si è unito ai relatori nella discussione sulle strategie che i leader possono attuare per rendere la transizione rapida e responsabile[20].
Gli interventi di Milei, di Macron e di Lindner
Il nuovo presidente argentino Javier Milei era forse l’ospite più atteso a Davos. Giunto da un Paese stremato da un’inflazione dilagante, è intervenuto illustrando la sua opzione per un ritorno radicale al mercato, l’unica ricetta in grado di risolvere tale malattia[21]. Secondo lui, non farlo porterebbe al socialismo e di conseguenza alla povertà. Egli ha affermato a chiare lettere la sua rivoluzione libertaria.
Come si vede, in questo contesto di cambiamento e incertezza, la discussione politica si è concentrata ancora una volta sul chiarire quale peso vada attribuito al settore pubblico. Il liberale Emmanuel Macron ha sostenuto l’opportunità di un ampio programma di investimenti europei nelle tecnologie digitale, verde e difensiva. Ha suggerito una nuova emissione di debito pubblico europeo e una maggiore integrazione nell’Ue.
Il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, più liberale del presidente francese, ha dichiarato che il debito accumulato è già notevole e che la chiave è stimolare la competitività dei mercati.
Considerazioni finali
Gli incontri di Davos non mancano di detrattori. Da una parte, questi evidenziano aspetti come il suo costo elevatissimo, l’accessibilità altamente sorvegliata e i suoi livelli di rappresentatività, trasparenza ed efficacia. Ma la principale accusa contro l’assemblea del Wef è che si tratti di un incontro in cui le potenze del mondo de facto si godono il consenso già acquisito, e che Davos generi un pensiero di gruppo. Ciò non dovrebbe sorprendere, dato che il Wef incoraggia la globalizzazione e che questo fenomeno ha oppositori e comporta difficoltà ammesse in maggiore o minore misura dai suoi stessi sostenitori. Quello su cui sono tutti d’accordo è che la globalizzazione, anche se attualmente non sta vivendo i suoi momenti migliori, ha trasformato il Pianeta, ha fatto uscire milioni di persone dalla povertà e può certamente essere migliorata, ma genera un sistema di scambi che finora non ha trovato un sostituto migliore. Al centro della missione del Wef c’è la fede nel potere dell’ingegno, dell’imprenditorialità, dell’innovazione e della cooperazione umana. Nel 2008 Bill Gates tenne a Davos un discorso programmatico sul «capitalismo creativo», ossia su quel tipo di capitalismo che opera per generare profitti e risolvere le ingiustizie del mondo, utilizzando le forze del mercato per rispondere meglio ai bisogni dei poveri[22].
Non tutti coloro che partecipano agli incontri annuali del Forum prestano volentieri ascolto a chi, dopo aver conosciuto e sofferto gli eccessi della globalizzazione, esprime i propri timori e le speranze di riuscire a governarla[23]. L’impresa di migliorare la situazione del Pianeta è complessa e sfaccettata, e certo va oltre le possibilità di una fondazione privata. D’altra parte, senza dubbio Davos costituisce una grande fabbrica di idee: questa è la sua unicità e il suo valore.
La visione comune condivisa è stata riecheggiata da un partecipante di alto profilo, Larry Summers[24]. Al termine dell’incontro, egli ha dichiarato: «La grande lezione della storia è che non esiste motore di progresso paragonabile alla combinazione di scienza, tecnologia e mercati. Anche se devono essere gestiti correttamente»[25]. In queste ultime parole è contenuta la chiave dell’incontro.
Papa Francesco, nel Messaggio indirizzato al Wef 2024, ha affermato che una corretta gestione deve ricercare innanzitutto il bene comune universale. Citiamo in conclusione: «Il processo di globalizzazione, che ormai ha dimostrato con chiarezza l’interdipendenza delle nazioni e dei popoli del mondo, ha pertanto una dimensione fondamentalmente morale, che deve farsi sentire nei dibattiti economici, culturali, politici e religiosi volti a modellare il futuro della comunità internazionale. In un mondo sempre più minacciato dalla violenza, dall’aggressione e dalla frammentazione, è essenziale che Stati e imprese si uniscano nel promuovere modelli di globalizzazione lungimiranti ed eticamente sani, che per loro stessa natura devono comportare la subordinazione della ricerca di potere e di guadagno individuale, sia esso politico o economico, al bene comune della nostra famiglia umana, dando priorità ai poveri, ai bisognosi e a quanti si trovano in situazioni di maggiore vulnerabilità»[26].
L’auspicio è che le parole di papa Francesco siano ascoltate dai capi delle nazioni, dalle organizzazioni multilaterali e dalle imprese internazionali. Come sempre, il Pontefice, nella linea della dottrina sociale della Chiesa, non scende nei dettagli tecnici, ma sottolinea la solidarietà internazionale, il bene comune e l’attenzione ai più poveri e vulnerabili.
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[1]. Cfr www.weforum.org
[2]. Cfr A. Ross Sorkin, «A Hefty Price for Entry to Davos», in The New York Times (archive.nytimes.com/dealbook.nytimes.com/2011/01/24/a-hefty-price-for-entry-to-davos/), 24 gennaio 2011.
[3]. Cfr S. P. Huntington, «Dead Souls: The Denationalization of the American Elite», in The National Interest, n. 75, 2004, 5-18 (www.jstor.org/stable/42897520).
[4]. Cfr Wef, Our Mission (es.weforum.org/about/world-economic-forum).
[5]. Cfr Id., Report of the Global Redesign Initiative, 2010 (www3.weforum.org/docs/WEF_GRI_EverybodysBusiness_Report_2010.pdf).
[6]. Cfr World Economic Forum and UN Sign Strategic Partnership Framework, 13 giugno 2019 (www.weforum.org/press/2019/06/world-economic-forum-and-un-sign-strategic-partnership).
[7]. Cfr The United Nations – World Economic Forum. Strategic Partnership Framework for the 2030 Agenda (weforum.ent.box.com/s/rdlgipawkjxi2vdaidw8npbtyach2qbt).
[8]. Cfr www.cognitoforms.com
[9] . Cfr H. Gleckman, «Las Naciones Unidas firman un acuerdo con el Foro Económico Mundial que amenaza los principios democráticos», Transnational Institute, 30 ottobre 2019 (www.tni.org/es/artículo/las-naciones-unidas-firman-un-acuerdo-con-el-foro-economico-mundial-que-amenaza-los).
[10]. Cfr Global Risks Report 2024 (www.weforum.org/publications/global-risks-report-2024/digest).
[11]. In Bangladesh, India, Indonesia, Messico, Pakistan, Regno Unito, Stati Uniti e anche nell’Unione europea.
[12]. Cfr Over 50 heads of state and government attended Davos 2024. Here’s what they had to say, 14 gennaio 2024 (www.weforum.org/agenda/2024/01/heads-of-state-davos-2024-wef-politics).
[13]. Cfr Davos 2024: Special Address by H.E. Li Qiang, Premier of the State Council of the People’s Republic of China (www.weforum.org/agenda/2024/01/li-qiang-china-special-address-davos-2024).
[14]. Cfr Remarks and Q&A by National Security Advisor Jake Sullivan at the 2024 World Economic Forum. Davos, Switzerland (www.whitehouse.gov/briefing-room/speeches-remarks/2024/01/16/remarks-and-qa-by-national-security-advisor-jake-sullivan-at-the-2024-world-economic-forum-davos-switzerland).
[15]. Cfr The White House, Remarks by National Security Advisor Jake Sullivan on Renewing American Economic Leadership at the Brookings Institution, 27 aprile 2023 (www.whitehouse.gov/briefing-room/speeches-remarks/2023/04/27/remarks-by-national-security-advisor-jake-sullivan-on-renewing-american-economic-leadership-at-the-brookings-institution).
[16]. Cfr Ursula von der Leyen’s speech to Davos in full (www.weforum.org/agenda/2024/01/ursula-von-der-leyen-full-speech-davos).
[17]. Cfr Davos 2024: Special Address by António Guterres, Secretary-General of the United Nations (www.weforum.org/agenda/2024/01/davos-2024-special-address-by-antonio-guterres-secretary-general-of-the-united-nations).
[18]. Cfr K. Georgieva, «AI Will Transform the Global Economy. Let’s Make Sure It Benefits Humanity», in Imf Blog (www.imf.org/en/Blogs/Articles/2024/01/14/ai-will-transform-the-global-economy-lets-make-sure-it-benefits-humanity), 14 gennaio 2024.
[19]. Cfr Davos 2024: Sam Altman on the future of AI (www.weforum.org/agenda/2024/01/davos-2024-sam-altman-on-the-future-of-ai).
[20]. Cfr Climate, nature and energy at Davos 2024: What to know (www.weforum.org/agenda/2024/01/everything-you-need-to-know-about-climate-and-nature-at-davos-2024).
[21]. Cfr Davos AM24. Special address by Javier Milei, President of Argentina (www.weforum.org/events/world-economic-forum-annual-meeting-2024/sessions/special-address-by-javier-milei-president-of-argentina).
[22]. Cfr 2008 World Economic Forum. Prepared remarks by Bill Gates (www.gatesfoundation.org/ideas/speeches/2008/01/bill-gates-2008-world-economic-forum).
[23]. Cfr M. Magnani, Il grande scollamento. Timori e speranze dopo gli eccessi della globalizzazione, Milano, Bocconi University Press, 2024.
[24]. Economista americano, nipote di Paul Samuelson e Kenneth Arrow, entrambi premi Nobel per l’economia. Segretario al Tesoro degli Stati Uniti dal 1999 al 2001, rettore dell’Università Harvard dal 2001 al 2006. Nel novembre 2023, Summers è entrato a far parte del Consiglio di amministrazione di OpenAI, azienda e laboratorio di ricerca sull’intelligenza artificiale generale.
[25]. M. Nolte, «¿Davos, redivivo?», in Prensa Deusto (blogs.deusto.es/viviendodeusto/2023/01/23/manfred-nolte-davos-redivivo), 23 gennaio 2023.
[26]. Francesco, Messaggio al World Economic Forum 2024, 15-19 gennaio 2024.
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Verso la seconda sessione del Sinodo 2021-2024
Avviso contenuto: Persone che camminano insieme in montagna. Prosegue spedito il processo del Sinodo 2021-2024, «Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione». Anche se di poco, abbiamo già superato la metà dell’intervallo che separa la prima Sessione della
Prosegue spedito il processo del Sinodo 2021-2024, «Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione». Anche se di poco, abbiamo già superato la metà dell’intervallo che separa la prima Sessione della XVI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi (4-29 ottobre 2023) dalla seconda, che si svolgerà a Roma dal 2 al 27 ottobre 2024. I «lavori in corso» sono comprensibilmente molti, e il loro ritmo è spesso soggetto a brusche accelerazioni. Di conseguenza, rischiano di apparire frammentari. Per evitare che ciò accada, può essere utile una presentazione sintetica delle diverse direttrici, componendole con uno sguardo d’insieme, che le colloca all’interno di un quadro di riferimento e ne restituisce l’articolazione. A questo scopo sono dedicate le pagine che seguono.
Il punto di partenza non può che essere il senso dell’intero processo sinodale, che punta a rendere la Chiesa più capace di «camminare insieme» per compiere la propria missione di annunciare il Vangelo in modo significativo e convincente per gli uomini e le donne del nostro tempo. Al cuore del Sinodo c’è il dinamismo della missione, senza il quale esso si ridurrebbe a un esercizio con cui la Chiesa si guarda allo specchio e sistema le procedure di funzionamento dei propri apparati. Non è così. Tutte le attività in corso sono pervase da questo impulso missionario, senza considerare il quale non risulterebbero pienamente comprensibili. Al tempo stesso, occorre tener conto della natura specifica dell’istituto sinodale, con le sue peculiarità e la sua normativa di riferimento.
La natura del Sinodo
Il riferimento obbligato a questo riguardo è la Costituzione apostolica Episcopalis communio (EC) sul Sinodo dei vescovi, promulgata da papa Francesco il 15 settembre 2018, in sostituzione del «motu proprio» Apostolica sollicitudo, con cui, il 15 settembre 1965, Paolo VI aveva istituito il Sinodo dei vescovi. Come sottolinea l’Episcopalis communio, «benché nella sua composizione si configuri come un organismo essenzialmente episcopale, il Sinodo non vive pertanto separato dal resto dei fedeli. Esso, al contrario, è uno strumento adatto a dare voce all’intero Popolo di Dio proprio per mezzo dei Vescovi» (EC 6). In altre parole, la nuova Costituzione apostolica mette in evidenza il carattere di processo ecclesiale dell’istituzione sinodale, che non può ridursi a un evento puntuale, cioè a un’Assemblea di vescovi riuniti a Roma per trattare un determinato tema. L’Assemblea, che resta composta in larga maggioranza da vescovi, mantenendo così il proprio carattere episcopale, riveste un ruolo cruciale all’interno del processo sinodale, ma non ne rappresenta lo scopo ultimo, né il punto di arrivo.
Logo del Sinodo 2021-2024.
In particolare, EC identifica tre fasi di un processo sinodale, e su questa base è strutturato anche il Sinodo 2021-24[1]. La prima fase è quella della consultazione e dell’ascolto del popolo di Dio, che ha visto l’intera Chiesa impegnata dall’apertura del Sinodo (ottobre 2021) fino alla chiusura della tappa continentale (marzo 2023). In un dinamismo di dialogo a diversi livelli (locale, nazionale, continentale e universale), le Chiese hanno riletto la propria esperienza per comprendere meglio che cosa significa «camminare insieme» come credenti in Cristo inviati ad annunciare al mondo il suo Vangelo.
La seconda fase è quella del discernimento, in cui, a partire dalle consapevolezze e dagli interrogativi emersi nella fase precedente, si cerca di individuare quali passi la Chiesa si sente chiamata a compiere per crescere nella propria dimensione sinodale. Di questa fase è protagonista l’Assemblea sinodale, nelle due Sessioni in cui è articolata. La prima ha lavorato sugli spunti che l’Instrumentum laboris raccoglieva dalla fase precedente, identificando una serie di convergenze e divergenze, di questioni da approfondire e di passi da compiere che la Relazione di Sintesi (RdS) rilancia alla Chiesa intera. La seconda Sessione completerà il discernimento e ne offrirà il frutto al Santo Padre.
La terza fase, infine, è quella dell’attuazione: a partire dal lavoro dell’Assemblea sinodale, spetterà al Papa indicare in che direzione muoversi, affidando alle Chiese locali il compito di «incarnare» queste indicazioni nelle peculiarità dei diversi contesti locali, o prevedendo percorsi di ulteriore approfondimento delle questioni che lo richiedano.
Da questa scansione appare evidente un punto su cui Apostolica sollicitudo ed EC concordano con grande chiarezza e che è importante non perdere di vista: la natura consultiva dell’istituzione sinodale, che è concepita fin dalla sua origine come uno strumento di collaborazione all’esercizio del ministero del Papa. Afferma a tale riguardo EC: «Il Sinodo, nuovo nella sua istituzione ma antichissimo nella sua ispirazione, presta un’efficace collaborazione al Romano Pontefice, secondo i modi da lui stesso stabiliti, nelle questioni di maggiore importanza, quelle cioè che richiedono speciale scienza e prudenza per il bene di tutta la Chiesa. In tal modo il Sinodo dei Vescovi, “rappresentando tutto l’Episcopato cattolico, manifesta che tutti i Vescovi sono partecipi in gerarchica comunione della sollecitudine della Chiesa universale”» (EC 1). La rilevanza che nel processo sinodale ricopre il momento assembleare ne facilita l’accostamento con le assise parlamentari, che è però fuorviante. Nei sistemi democratici, infatti, il Parlamento è titolare di un potere originario e sovrano – quello legislativo – e, nel dinamismo di pesi e contrappesi, entra in un rapporto dialettico con gli organi che svolgono le funzioni esecutiva e giudiziaria. Non è così per l’Assemblea sinodale, né il ruolo del Pontefice può essere concepito in analogia con quello di un Esecutivo. Ce ne rendiamo conto immediatamente quando ricordiamo che il Papa è per statuto presidente del Sinodo, lo convoca, ne stabilisce il tema e ne riceve i risultati. L’architettura istituzionale della Chiesa non è riconducibile a quella dei sistemi democratici.
«Relazione di Sintesi», snodo del percorso di ascolto e discernimento
È all’interno di questo quadro di senso che vanno collocate e comprese le linee concrete lungo le quali continua ad avanzare il processo sinodale. Tutte trovano un riferimento imprescindibile nella RdS. Essa non è un documento finale, ma una raccolta ragionata dei temi emersi durante il dibattito assembleare, dei punti di convergenza e divergenza registrati, delle questioni che l’Assemblea ritiene necessario continuare ad approfondire e delle proposte di passi da intraprendere.
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Con una Lettera inviata al card. Mario Grech, Segretario generale del Sinodo, il 22 febbraio 2024, papa Francesco, primo destinatario della RdS, indica alla Chiesa universale una serie di modalità per dare seguito ai suoi contenuti, in modo appropriato alla loro varietà, proseguendo nella scia del documento Verso ottobre 2024, da lui approvato e pubblicato l’11 dicembre 2023. Così egli svolge il proprio compito di presidente del Sinodo, mettendosi in ascolto dei risultati della prima Sessione (ottobre 2023), raccolti nella RdS, come pure dei frutti della fase della consultazione e dell’ascolto a partire dai quali l’Assemblea ha lavorato.
Il primo obiettivo, come afferma la Lettera, è permettere «all’Assemblea, nella sua seconda Sessione, di concentrare più agevolmente l’attenzione sul tema generale che a suo tempo le ho assegnato, e che è possibile ora riassumere nell’interrogativo: “Come essere Chiesa sinodale in missione?”». Al tempo stesso, la Lettera del 22 febbraio sottolinea che la RdS contiene stimoli più ampi, tra cui «molteplici e importanti questioni teologiche, tutte in varia misura connesse al rinnovamento sinodale della Chiesa e non prive di ripercussioni giuridiche e pastorali [che…], per loro natura, esigono di essere affrontate con uno studio approfondito».
Per affrontarle, viene previsto un percorso ad hoc, su cui ritorneremo, mentre alla Segreteria generale del Sinodo viene affidato il compito fondamentale di assicurare che i lavori procedano in modo coordinato e in ascolto dei risultati via via raggiunti lungo i diversi assi, offrendo alla Sessione assembleare di ottobre 2024 gli opportuni aggiornamenti.
Focalizzare la seconda Sessione sul tema della sinodalità
Una prima direzione di lavoro è dunque quella a servizio della preparazione della seconda Sessione. La sua domanda guida – «Come essere Chiesa sinodale in missione?» – è stata lanciata alle Chiese locali di tutto il mondo in coerenza con lo stile del Sinodo 2021-24. Come spiega il documento Verso ottobre 2024, l’obiettivo di questa ulteriore consultazione è «identificare le vie da percorrere e gli strumenti da adottare nei diversi contesti e nelle diverse circostanze, così da valorizzare l’originalità di ogni battezzato e di ogni Chiesa nell’unica missione di annunciare il Signore risorto e il suo Vangelo al mondo di oggi. Non si tratta dunque di limitarsi al piano dei miglioramenti tecnici o procedurali che rendano più efficienti le strutture della Chiesa, ma di lavorare sulle forme concrete dell’impegno missionario a cui siamo chiamati, nel dinamismo tra unità e diversità proprio di una Chiesa sinodale».
È in questa linea di concretezza della missione che vanno molti stimoli della RdS, che non a caso dedica un capitolo alla nuova frontiera della presenza della Chiesa nella cultura digitale, o al modo in cui favorire la partecipazione dei poveri alla vita della Chiesa, cosicché la possano evangelizzare, come chiede l’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Ispirandosi all’incipit della Costituzione dogmatica Lumen gentium, l’Assemblea riflette così sulla missione della Chiesa: «In un mondo segnato da violenza e frammentazione, appare sempre più urgente una testimonianza dell’unità dell’umanità, della sua comune origine e del suo comune destino, in una solidarietà coordinata e fraterna verso la giustizia sociale, la pace, la riconciliazione e la cura della casa comune, superando quindi il potenziale divisivo di alcuni modi errati di intendere il riferimento a un luogo, ai suoi abitanti e alla sua cultura» (RdS 5 f).
Le riflessioni delle Chiese locali in risposta alla domanda guida rappresenteranno la base per la redazione dell’Instrumentum laboris della seconda Sessione, che in questo modo sarà radicato nell’esperienza vissuta del popolo di Dio di tutto il mondo. A questi contributi se ne aggiungeranno altri, a partire dai risultati dell’Incontro internazionale «I parroci per il Sinodo» (Sacrofano [Roma], 28 aprile – 2 maggio 2024), con lo scopo di dare ascolto ai presbiteri impegnati nel ministero pastorale e coinvolgerli meglio nel processo sinodale. Si tratta di un’esigenza emersa a più riprese e fatta propria anche dalla prima Sessione.
Infine, confluiranno nella redazione dell’Instrumentum laboris i frutti di cinque Gruppi di lavoro costituiti dalla Segreteria generale del Sinodo, che comprenderanno esperti di diversa provenienza geografica, genere e condizione ecclesiale, chiamati a lavorare con metodo sinodale. La costituzione di questi cinque Gruppi risponde all’esigenza, più volte espressa dalla RdS, di promuovere un approfondimento teologico e canonistico della nozione di sinodalità e delle sue implicazioni per la vita della Chiesa, ai diversi livelli. A tracciare il piano di lavoro di questi Gruppi è dedicato il documento Come essere Chiesa sinodale in missione? Cinque prospettive da approfondire teologicamente in vista della Seconda Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, diffuso dalla Segreteria generale del Sinodo il 14 marzo 2023, a cui si rinvia per informazioni più dettagliate.
Le tematiche oggetto di approfondimento ci consentono di cogliere la rilevanza delle questioni che saranno affrontate durante la seconda Sessione, e anche le diverse prospettive a partire dalle quali si svolgeranno i lavori. In particolare, sarà necessario declinare la domanda guida sui diversi livelli della vita della Chiesa, puntando a svelare il volto sinodale missionario della Chiesa locale, dei raggruppamenti di Chiese e della Chiesa universale. Sul primo livello, si affronteranno, ad esempio, il senso e le forme del ministero del vescovo diocesano, il modo per prevedere forme regolari di verifica di quanti svolgono un ministero (ordinato o non ordinato), o le modalità di funzionamento degli organismi di partecipazione. Sul livello dei raggruppamenti di Chiese, si lavorerà, ad esempio, sullo statuto e le funzioni delle Conferenze episcopali e sul modo per vivere la comunione ecclesiale e la collegialità episcopale a scala continentale. Infine, sul piano della Chiesa universale, si rifletterà, da un lato, sull’identità dell’istituzione sinodale, in particolare sull’articolazione tra il ruolo dei vescovi e la partecipazione del popolo di Dio a tutte le fasi del processo e, dall’altro, sul rapporto tra sinodalità ecclesiale, collegialità episcopale e primato del Vescovo di Roma, sulle modalità di esercizio di quest’ultimo e sul ruolo della Curia romana.
Nell’affrontare questi tre livelli sarà importante anche tenere presenti due prospettive fondamentali che li attraversano e li orientano. La prima riguarda il metodo sinodale ed è collegata alla richiesta avanzata da diverse Chiese che la dinamica della «conversazione nello Spirito» permei tutti i livelli della vita della Chiesa e orienti il funzionamento degli organismi di partecipazione e le modalità di svolgimento dei processi decisionali. Ciò va incontro anche al desiderio di rendere sempre più evidenti i fondamenti spirituali e liturgici del modo di procedere di una Chiesa sinodale missionaria. La seconda prospettiva richiede di considerare l’articolazione tra il carattere locale di ogni comunità cristiana, chiamata a incarnare la fede in un contesto culturale e sociale portatore di specifiche peculiarità, e il respiro globale, sempre più grande, della cattolicità. In un tempo in cui la concezione dello spazio e il rapporto con il luogo si stanno rapidamente modificando, da una parte, cresce l’esperienza della varietà delle culture, in seguito anche alle diverse forme della mobilità umana, grandi migrazioni incluse; e, dall’altra, la pervasività del digitale riconfigura spazi e territori e chiede di ricomprendere le connessioni dei diversi livelli.
Accogliere da subito alcune proposte dell’Assemblea
Come abbiamo già visto, secondo papa Francesco la RdS contiene una ricchezza di spunti che va al di là del focus tematico della seconda Sessione, che abbiamo appena illustrato. In ragione della loro rilevanza, il Pontefice assume fin da subito l’indicazione dell’Assemblea sulla necessità di approfondirli, senza aspettare la conclusione della seconda Sessione, con il rischio di lasciarli cadere. Attraverso una consultazione internazionale, identifica 10 tematiche emergenti dalla RdS, che la Lettera del 22 febbraio elenca e per ciascuna delle quali dispone l’istituzione di un Gruppo di studio, che lavori sulla base di una traccia predisposta dalla Segreteria generale del Sinodo e contenuta nel documento Gruppi di studio su questioni emerse nella Prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi da approfondire in collaborazione con i Dicasteri della Curia romana. Traccia di lavoro, pure diffuso il 14 marzo 2024. Queste tracce sostanzialmente riprendono le riflessioni e gli interrogativi emersi nel dibattito assembleare e li rilanciano ai Gruppi di studio, che dovranno completare l’approfondimento possibilmente entro giugno 2025, ma forniranno alla seconda Sessione una relazione sullo stato di avanzamento dei lavori.
Così si comincia sin da subito a dare attuazione ad alcune delle richieste e delle proposte dell’Assemblea, peraltro nella forma indicata da EC: «Insieme al Dicastero della Curia Romana competente, nonché, secondo il tema e le circostanze, agli altri Dicasteri in vario modo interessati, la Segreteria Generale del Sinodo promuove per la propria parte l’attuazione degli orientamenti sinodali approvati dal Romano Pontefice» (EC 20, c. 1). In altre parole, la prima Sessione ha già svolto il proprio compito consultivo e di collaborazione, permettendo a papa Francesco di identificare alcuni filoni al cui approfondimento dare concretamente seguito, senza necessità di un ulteriore lavoro assembleare.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ISRAELE E PALESTINA, LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Le radici di quello che rappresenta uno dei più complessi conflitti del mondo intero, affondano già nella prima metà del Novecento. Ascolta il podcast.
Se la già citata Traccia di lavoro consente di mettere meglio a fuoco il profilo e gli obiettivi dell’approfondimento, il semplice elenco delle 10 tematiche, per quanto sommario, ne evidenzia la rilevanza per la vita della Chiesa:
- Alcuni aspetti delle relazioni tra Chiese orientali cattoliche e Chiesa latina (RdS 6).
- L’ascolto del grido dei poveri (RdS 4 e 16).
- La missione nell’ambiente digitale (RdS 17).
- La revisione della Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis in prospettiva sinodale missionaria (RdS 11).
- La partecipazione di tutti i battezzati alla missione della Chiesa e le diverse forme di ministerialità ecclesiale: alcune questioni teologiche e canoniche (RdS 8 e 9).
- La revisione, in prospettiva sinodale e missionaria, dei documenti che disciplinano le relazioni fra vescovi, religiosi, aggregazioni ecclesiali (RdS 10).
- Alcuni aspetti della figura e del ministero del vescovo (in particolare: criteri di selezione dei candidati all’episcopato; funzione giudiziale del vescovo; natura e svolgimento delle visite ad limina apostolorum) in prospettiva sinodale missionaria (RdS 12 e 13).
- Il ruolo dei rappresentanti pontifici in prospettiva sinodale missionaria (RdS 13).
- Criteri teologici e metodologie sinodali per un discernimento condiviso di questioni dottrinali, pastorali ed etiche controverse (RdS 15).
- La recezione dei frutti del cammino ecumenico nel popolo di Dio (RdS 7).
Oltre al radicamento delle 10 tematiche nella RdS, evidenziato anche nell’elenco, è importante sottolineare come il lavoro di questi Gruppi si inserisca appieno nel dinamismo sinodale. Innanzitutto, essi saranno formati da pastori ed esperti di tutti i continenti e, come precisa la Lettera, prenderanno in considerazione «non solo gli studi già esistenti, ma anche le esperienze più rilevanti in atto nel Popolo di Dio radunato nelle Chiese locali». In secondo luogo, lavoreranno «secondo un metodo autenticamente sinodale», che la Segreteria generale del Sinodo ha il compito di garantire. In questo modo costituiranno laboratori di sinodalità, grazie a cui crescere nella capacità di «camminare insieme», in ascolto dello Spirito Santo, non solo durante lo svolgimento dell’Assemblea, ma anche nell’attuazione dei suoi orientamenti.
In questa linea, risulta ugualmente significativo che il coordinamento dei Gruppi di studio sia affidato ai Dicasteri della Curia romana competenti per i diversi temi, d’intesa con la Segreteria generale del Sinodo, nello spirito del Chirografo firmato da papa Francesco il 16 febbraio 2024 e della Costituzione apostolica Praedicate evangelium, che all’articolo 33 stabilisce: «Le Istituzioni curiali collaborano, secondo le rispettive specifiche competenze, all’attività della Segreteria generale del Sinodo, atteso quanto stabilito nella normativa propria del Sinodo stesso, il quale presta un’efficace collaborazione al Romano Pontefice, secondo i modi dallo stesso stabiliti o da stabilirsi, nelle questioni di maggiore importanza, per il bene di tutta la Chiesa». Il rinnovamento sinodale della Chiesa interpella anche la Curia romana e si realizza anche attraverso la sperimentazione concreta di nuove modalità di lavoro.
Ampliare il dinamismo sinodale
Non possiamo terminare senza menzionare la terza direttrice di impegno indicata nel documento Verso ottobre 2024: l’importanza che ogni Chiesa locale mantenga vivo il dinamismo sinodale nella propria vita ordinaria, offrendo a un maggior numero di persone l’opportunità di farne esperienza diretta, con particolare attenzione ai poveri e a coloro che restano ai margini della vita della comunità. La sinodalità interpella ogni comunità cristiana a mettersi in ascolto dello Spirito per rinnovare il modo di portare avanti l’unica missione che il Signore ha affidato a tutti i suoi discepoli.
La RdS costituisce il riferimento privilegiato anche per questa direttrice. Innanzitutto, a livello concreto, i suoi contenuti costituiscono l’occasione per offrire al popolo di Dio nuove esperienze di sinodalità. Ogni Chiesa locale, infatti, è stata invitata a identificare le sollecitazioni della RdS che risultano più significative nel suo contesto e promuovere le iniziative opportune per il loro approfondimento (attività formative, studi teologici, celebrazioni in stile sinodale, consultazioni della base, ascolto di popolazioni minoritarie e gruppi che vivono in condizioni di povertà e marginalità sociale, spazi in cui affrontare le questioni controverse ecc.), facendo nuovamente ricorso ai metodi già sperimentati con successo durante la prima fase, in particolare la conversazione nello Spirito. Le informazioni su questi percorsi che le Chiese locali vorranno condividere, nelle forme indicate nel documento Verso ottobre 2024, saranno rese disponibili alla seconda Sessione.
A un altro livello, si dà così seguito a un desiderio dell’Assemblea sinodale che la RdS esprime con chiarezza: «Qui a Roma eravamo solo alcuni, ma il senso del percorso sinodale indetto dal Santo Padre è quello di coinvolgere tutti i battezzati. Desideriamo ardentemente che questo avvenga e vogliamo impegnarci per renderlo possibile». In radice, c’è la consapevolezza che la sinodalità è tutt’altro che un espediente organizzativo: è un cammino attraverso il quale il popolo di Dio incontra il suo Signore, che lo ricolma dei suoi doni e lo invita a proseguire. «L’Assemblea ha frequentemente parlato di speranza, guarigione, riconciliazione e ripristino della fiducia tra i molti doni che lo Spirito ha riversato sulla Chiesa durante questo processo sinodale» (RdS 1 e). La grazia, che ammette i battezzati alla partecipazione alla comunione trinitaria, precede e accompagna il loro invio in missione e nutre la Chiesa impegnata a testimoniare il Signore risorto, camminando insieme alle donne e agli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.
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Riproduzione riservata
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[1]. Maggiori informazioni sulle diverse fasi del Sinodo 2021-24, nonché i relativi documenti ufficiali e sussidi, sono disponibili nel sito www.synod.va
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«Gestis verbisque»: le parole e le azioni dei sacramenti
Avviso contenuto: battesimo. Che cos’è il battesimo? Così spiegava sant’Agostino ai fedeli in un’omelia: «Lavacro di acqua accompagnato dalla parola. Togli l’acqua, non c’è battesimo. Togli la parola, non c’è battesimo»[1]. Queste parole si ritrovano pari pari in codici ri
Che cos’è il battesimo? Così spiegava sant’Agostino ai fedeli in un’omelia: «Lavacro di acqua accompagnato dalla parola. Togli l’acqua, non c’è battesimo. Togli la parola, non c’è battesimo»[1]. Queste parole si ritrovano pari pari in codici risalenti all’epoca di Carlo Magno, dedicati all’istruzione del clero[2]. In sostanza, nei primi secoli le istruzioni sul modo di battezzare lasciavano pochi dubbi.
Il rito del battesimo stupisce tanto per la sua semplicità quanto per il suo potere. Richiede solo il più basilare degli elementi terreni – l’acqua – e una frase che riecheggia le parole di Gesù (cfr Mt 28,19). Eppure questo semplice rito significa morte e insieme rinascita: battezzati in obbedienza al comando di Gesù, i cristiani partecipano al suo mistero pasquale e alla vita eterna che esso dischiude (cfr Rm 6,3-5; Gv 3,5). Il battesimo promette qualcosa che va ben oltre ciò che può procurare il potere umano.
Sebbene la fede cristiana nel battesimo esistesse già prima che il Nuovo Testamento assumesse la forma scritta, da allora la teologia è diventata notevolmente più complessa. Se Gestis verbisque (GV), la Nota diffusa dal Dicastero per la dottrina della fede (Ddf) il 2 febbraio 2024, si addentra nelle complessità della teologia sacramentale, lo fa per affermare qualcosa di primordiale. La Nota è insolitamente energica e diretta, perché la posta in gioco è fondamentale: la natura dei sacramenti e il loro ruolo nella salvezza. Per apprezzare appieno il significato di questa Nota dobbiamo innanzitutto esaminare gli eventi che l’hanno provocata e il loro contesto teologico.
Il contesto: un’ondata di battesimi invalidi
Lo scopo esplicito di Gestis verbisque è aiutare i vescovi a garantire la validità della celebrazione dei sacramenti[3]. Nella Presentazione del cardinale Víctor Fernández, prefetto del Ddf, si spiega che la preoccupazione del Dicastero nasce da una serie di casi portati alla sua attenzione negli ultimi anni, in cui i ministri avevano alterato il rito del battesimo a tal punto da renderlo «invalido».
Il termine può sembrare tecnico, ma il suo significato è semplice. Il battesimo ha alcune caratteristiche fondamentali che lo distinguono da altre attività umane e anche da altri riti religiosi. Recitare una preghiera bruciando incenso è una legittima espressione religiosa, ma non è un battesimo. Un battesimo valido è quello che soddisfa la definizione fondamentale di ciò che è un battesimo.
Nel 2020 all’attenzione dell’allora Congregazione per la dottrina della fede (Cdf) era stato portato un caso problematico. Un prete cattolico dell’Arizona aveva affermato di battezzare con l’acqua, ma aveva cambiato le parole usate per farlo[4]. Casi analoghi erano stati segnalati a Detroit e a Oklahoma City. Il cambiamento della formulazione era così rilevante da suscitare dubbi in alcuni di coloro che avevano assistito alla cerimonia o che poi, anni dopo, avevano notato l’accaduto in video di famiglia. Alla fine il caso arrivò a Roma, che stabilì che i riti eseguiti non avevano le caratteristiche che definiscono il battesimo: non erano validi.
È importante comprendere i confini del quesito a cui alla Cdf è stato chiesto di rispondere. La Congregazione non giudicava se coloro che avevano preso parte alla cerimonia fossero persone buone o cattive, se fossero colpevoli di quanto accaduto, o se alla fine avrebbero raggiunto la salvezza[5]. La Cdf ha espresso solo una diagnosi fattuale, pronunciandosi in merito alla domanda se in quella circostanza fosse avvenuto o meno un battesimo. Inoltre, il caso del 2020 non è stata la prima sentenza di questo tipo che la Cdf si è vista costretta a emettere negli ultimi decenni. Nel 2008 la Congregazione aveva dichiarato che i battesimi avvenuti utilizzando formule alternative come «Io ti battezzo nel nome del Creatore e del Redentore e del Santificatore», oppure «Nel nome del Creatore, e del Liberatore e del Sostenitore», non erano validi. Il caso dell’Arizona, tuttavia, comportava una modifica ancora più sottile. Invece di dire: «Io ti battezzo», il sacerdote aveva cercato di evidenziare il ruolo della comunità, dicendo: «Noi ti battezziamo». Questa nuova formula veniva talvolta preceduta da un preambolo: «Nel nome del padre e della madre, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, nel nome della comunità, noi battezziamo…»[6].
A uno studente laico di «studi religiosi» il cambiamento delle parole usate in un sacramento non pone alcun problema, perché egli le intende come semplici espressioni sociali. Perché non adattarle per adeguarsi meglio agli impulsi del momento? Gestis verbisque, dal canto suo, parte da una prospettiva diversa e quindi si preoccupa di sottolineare che i sacramenti fanno parte della rivelazione di Dio, sicché qualsiasi improvvisazione è presuntuosa[7]. Nel 2020 la Cdf ha pubblicato una breve spiegazione della sua sentenza, in cui sottolineava l’antica convinzione secondo cui è Cristo ad agire attraverso i sacramenti. Facendo eco al Concilio Vaticano II e a sant’Agostino, ha ribadito che la formula battesimale della Chiesa esprime la fede che «quando uno battezza, è Cristo stesso che battezza»[8]. La differenza tra «io» e «noi» è significativa, perché il battesimo viene eseguito da uno.
Ma quella spiegazione della Cdf nel 2020, pur rimarcando un problema, era laconica. Le reazioni che provocò rivelarono ulteriori malintesi sui sacramenti, anche fra i teologi. Alcuni osservatori furono comprensibilmente turbati dalle conseguenze di tanti battesimi non validi: migliaia di persone erano state danneggiate dalle azioni di pochi ministri. Parte di questa rabbia era rivolta contro la stessa Cdf, sebbene ciò fosse come prendersela con il medico perché ha diagnosticato una malattia.
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Alcuni s’interrogavano su come mitigare i danni causati dai battesimi non validi. Il Papa non avrebbe potuto usare la sua autorità per risolvere il problema? Altri cercavano soluzioni nelle sottigliezze del diritto canonico: si poteva invocare il principio ecclesia supplet? Secondo tale principio, nelle questioni di giurisdizione ecclesiastica poco chiare la Chiesa «supplisce» la «potestà di governo esecutiva» necessaria per il bene dei fedeli[9]. Il principio riguarda le «facoltà» necessarie per celebrare alcuni sacramenti – per esempio, l’autorizzazione a ricevere le confessioni in una determinata diocesi –, ma non molto altro. Se manca il vino necessario per celebrare la Messa, la Chiesa non può «supplire» a esso. Nemmeno il Papa, se in una celebrazione è disponibile soltanto della Coca-Cola, può dichiararla vino. E di fatto il tentativo di cercare soluzioni ai problemi sacramentali tra le pieghe della giurisprudenza è di per sé la riprova di un malinteso più profondo. L’autorità della Chiesa ha lo scopo di salvaguardare la rivelazione divina, non di aggirarla. Il Papa è il vicario di Cristo, non il suo successore. Come afferma Gestis verbisque, «la Chiesa è “ministra” dei Sacramenti, non ne è padrona» (GV 11).
Il fatto che, a quanto pare, ci siano stati ripetuti casi di battesimi non validi rivela la portata di questi malintesi, e le problematiche affrontate da Gestis verbisque vanno oltre quei casi estremi di battesimi non validi. La Nota evidenzia il dovere dei ministri di aderire fedelmente ai riti liturgici della Chiesa in ogni circostanza (cfr GV 2). Non si tratta di una questione di rigorismo liturgico, insiste la Nota, esprimendo la sua preoccupazione nei termini del «diritto dei fedeli» a ricevere i sacramenti della Chiesa. Quando un sacerdote modifica di propria iniziativa la liturgia, si frappone tra i fedeli e ciò che la Chiesa offre loro. Chi cambia la liturgia per adattarla alle proprie preferenze teologiche compie un abuso di potere, un atto di clericalismo.
Il Concilio Vaticano II considera la fedeltà ai riti liturgici ufficiali come un principio fondamentale: nemmeno un sacerdote può di sua iniziativa «aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica» (Sacrosanctum Concilium, [SC], n. 22). Come sottolinea Gestis verbisque, fedeltà non significa celebrazione meccanica: gli stessi libri liturgici indicano dove e come adattarsi alle circostanze della comunità locale. Purtroppo, però, abbondano esempi di preti e comunità che vanno ben oltre la flessibilità offerta dai riti. Abbiamo assistito a casi di parrocchie che eliminavano le letture della Messa domenicale o sostituivano il salmo responsoriale con canzoni di Simon e Garfunkel. Entrambi gli esempi vanificano l’esplicito obiettivo del Concilio che si garantisca ai fedeli un più largo accesso alla Sacra Scrittura. Altri esempi approdano al sacrilegio: un prete che celebra la Messa in acqua, su un materassino, in una spiaggia italiana; comunità che si mettono in costume o cambiano le parole del Credo. Grazie a Internet, lo scandalo causato da simili abusi diventa ben presto globale. Gestis verbisque ha ragione a considerare gli abusi liturgici come una minaccia per l’unità della Chiesa, tema ricorrente nel documento.
La Nota, tuttavia, non si chiude con un monito, ma con un appello urgente a maturare «l’arte del celebrare» e con un riferimento a Romano Guardini, uno dei più grandi teologi liturgisti del Novecento, stimato sia da papa Benedetto sia da papa Francesco (cfr GV 27). Per apprezzare come i moniti del documento s’inseriscano nella sua più positiva visione dei sacramenti, dobbiamo fare un passo indietro, che ci porterà a dare uno sguardo allo sviluppo della moderna teologia liturgica.
Il Movimento liturgico oltre il minimalismo sacramentale
A partire dalla fine del XIX secolo, i teologi, soprattutto quelli che si riferivano all’abbazia benedettina di Santa Maria Laach in Germania, iniziarono a percepire una crisi strisciante che minacciava la fecondità della liturgia cattolica. Correnti culturali che affondavano le loro radici nella Riforma protestante – l’enfasi sulla parola a scapito del sacramento, del soggettivo a scapito dell’oggettivo, dell’individuo a scapito della comunità – rendevano la liturgia sempre più estranea alla sensibilità occidentale. Se nei secoli precedenti – e praticamente in tutte le culture – l’importanza dei riti religiosi era stata evidente, nel XIX secolo la predisposizione istintiva al culto non poteva più essere data per scontata[10]. Immanuel Kant, pur essendo in sintonia con l’etica cristiana, sminuiva i riti sacramentali; secondo lui, lo scopo del battesimo, se ne aveva uno, era solo quello di insegnare l’etica[11].
Nemmeno la teologia cattolica era immune da simili influssi. A proposito dei sacramenti, la teologia scolastica, con la sua insistenza sulle distinzioni precise e i casi limite, si era concentrata sul minimo necessario per definire valida una celebrazione. In effetti, i concetti utilizzati dalla Cdf per determinare quando un battesimo non è valido sono il risultato di secoli di controversie scolastiche. L’inquadramento scolastico utilizza le categorie di «materia», «forma» e «intenzione» per definire le caratteristiche essenziali di un sacramento. La materia necessaria per il battesimo è l’acqua; la forma, le parole della formula sacramentale; e l’intenzione – a sua volta definita in poche parole – è la volontà di fare ciò che fa la Chiesa con il battesimo. La maggior parte della discussione intorno alla sentenza della Cdf del 2020 si è concentrata sulla formula usata per celebrare il battesimo, ovvero le parole «Io ti battezzo…». Gestis verbisque, invece, pone l’accento sull’intenzione del ministro: un cambiamento che probabilmente è il più significativo sotto il profilo teologico nel documento, e sul quale torneremo.
Innanzitutto, però, è importante riconoscere sia l’utilità del metodo scolastico, sia i suoi limiti. I teologi che nel primo Novecento sostenevano la necessità di un rinnovamento della sensibilità liturgica – quello che divenne noto come «Movimento liturgico» – intuirono che certi atteggiamenti neoscolastici avevano un effetto mortificante sullo spirito con cui veniva celebrata la liturgia. Fare il minimo necessario per la validità non è certo una guida sufficiente su come celebrare i sacramenti, né per il discepolato in generale. Non c’è niente di minimale nel comandamento del Signore di amare Dio con tutto il cuore, l’anima, la mente e le forze (cfr Mc 12,30), né c’è alcunché di minimale nell’amore che Gesù ha dimostrato negli eventi pasquali che la liturgia rende presenti. Dal Concilio di Trento a questa parte, le rubriche liturgiche esigono la fedeltà ai riti sotto pena di peccato mortale, ma non spiegano perché tale fedeltà sia intrinseca alla natura della liturgia. Il caos liturgico per cui sono divenuti famigerati gli anni Settanta derivava, almeno in parte, dall’aver attraversato una fase in cui le punizioni erano state rimosse, ma ancora restavano da assorbire le ragioni più profonde dell’obbedienza.
I padri del Movimento liturgico sapevano che la liturgia è, per sua stessa natura, formale. Uno dei suoi effetti è per l’appunto formare coloro che vi prendono parte, sia come individui sia come Chiesa. In una certa misura, quindi, il rito è sempre stilizzato. La critica del Movimento liturgico, tuttavia, sosteneva che tale stilizzazione fosse stata spinta troppo in là. Ridotti al minimo, gli atti della liturgia non incarnavano più ciò che dovevano rappresentare. Una «Messa vigiliare» celebrata alle sette del mattino non è propriamente vigiliare. Una lettura della Scrittura che nessuno capisce è una formalità, non un annuncio. La frase «Il Signore sia con voi», se borbottata leggendola da un libro, non è certo un saluto. Formalità non significa artificiosità. Al riguardo, possiamo considerare un altro problema circa le formule battesimali invalide discusse sopra: le parole «Noi battezziamo» sono letteralmente false. Genitori, amici e familiari non hanno versato acqua sulla testa del bambino. Quelle parole non corrispondevano all’atto.
I grandi teologi liturgisti del primo Novecento, come Guardini e il benedettino Odo Casel, cercarono di fornire una base di comprensione più solida, rispetto a quella offerta dalla scolastica, del perché celebriamo la liturgia. Incontrarono ben presto la resistenza dei teologi neoscolastici, i quali insistevano sul fatto che la liturgia è un mero contenitore di verità dogmatiche, una sorta di aiuto visivo per amplificare le proposizioni del Credo[12]. Per ironia, tale posizione è dogmaticamente dubbia: quando i sacramenti vengono ridotti a sussidi visivi di princìpi dogmatici – o etici –, si perde il senso della loro efficacia. I sacramenti, insiste il cattolicesimo, sono efficaci, operano ciò che significano. La concezione neoscolastica si avvicinava alla visione kantiana dei sacramenti come strumenti didattici.
Al contrario, il fondamentale libro di Guardini Lo spirito della liturgia parla della «liturgia come gioco». Lo studioso ammette che uno degli effetti della liturgia è pedagogico, ma insiste sul fatto che il culto non può essere ridotto a questo fine: «La liturgia non ha “scopo”, o almeno non può essere ridotta soltanto sotto l’angolo visuale della sola finalità pratica. Essa non è un mezzo impiegato per raggiungere un determinato effetto, bensì – almeno in una certa misura – fine a sé»[13]. Odo Casel ha fondato la sua teologia liturgica sulla concezione che ne avevano i Padri della Chiesa. Il suo Il mistero del culto cristiano inizia con il riferimento all’omelia di san Leone Magno sull’Ascensione: «Ciò che era visibile nel nostro Salvatore è passato nei misteri», ha affermato Leone, usando il termine greco «mistero» per quello latino «sacramento»[14]. In altre parole, i sacramenti si radicano nell’Incarnazione.
Sebbene Gesù abbia insegnato sia la morale sia la dottrina, egli è più di tali insegnamenti. Nessuna persona può essere ridotta a un insieme di princìpi o di dati. Gli apporti dottrinali sono necessari per spiegare chi è Gesù, ma non sono sufficienti, così come leggere il curriculum vitae di qualcuno non sostituisce l’incontro con quella persona. A volte una stretta di mano è più eloquente di una biografia. Se pensiamo alle persone che conosciamo a fondo, spesso ciò che ci viene in mente è impossibile esprimerlo a parole: un modo di ridere, un gesto caratteristico. La nostra umanità è costituita da tali connotati ineffabili.
La convinzione fondamentale della Chiesa è che la redenzione del mondo si opera nell’umanità di un uomo, Gesù Cristo, e che la nostra salvezza dipende dall’entrare in un particolare tipo di rapporto – comunione – con lui. Benedetto XVI ha espresso questa convinzione all’inizio del suo pontificato: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona»[15]. Queste parole sono state ripetute spesso da papa Francesco e sono in profonda consonanza con il personalismo di Giovanni Paolo II. Rappresentano anche una convinzione profondamente liturgica. I sacramenti rendono presente l’umanità di Gesù nel nostro «qui e ora».
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Questa convinzione significa che nei sacramenti ci deve essere sempre qualcosa di irriducibile, così come c’è qualcosa di irriducibile in ognuno di noi. Siamo costituiti da caratteristiche specifiche che riflettono la particolarità della nostra esistenza – la nostra educazione, le nostre relazioni, il nostro genere, la nostra dieta – e sotto questo aspetto Gesù non era diverso. Se lo fosse stato, non sarebbe stato pienamente umano.
C’è qualcosa di paradossale in tale credenza, perché i sacramenti, sebbene non possano essere ridotti a princìpi generali, permettono altresì all’umanità di Gesù di rendersi presente attraverso il tempo e lo spazio. Gestis verbisque suggerisce come la liturgia sostenga questo paradosso. I ministri che modificano le parole dei riti, afferma, rivelano una mancata comprensione del «valore dell’agire simbolico» (GV 3). La liturgia è capace di «dire» ciò che va oltre le parole, anche ciò che è paradossale, perché parla il linguaggio dei simboli. Non simboli utilitaristici come i segnali stradali, ma il linguaggio ricco e dinamico della poesia e dell’arte, un linguaggio che va oltre le parole. Una grande poesia non trasmette un unico significato univoco: le parole nei suoi versi – sempre specifiche – schiudono significati quasi inesauribili. Altrettanto concreto e inesauribile è il linguaggio con cui celebriamo i sacramenti. Non arriviamo alla fine della Messa affermando: «Ho capito che cosa dice il rito. Non c’è bisogno di rifarlo».
Ciò non vuol dire che i simboli – quelli liturgici come gli altri – possano significare tutto quello che vogliamo. Le parole «Padre» e «Figlio» esprimono una relazione che è assente nelle parole «Creatore» e «Liberatore». Il significato dinamico non ammette autocontraddizioni, proprio allo stesso modo in cui John Henry Newman ha riconosciuto che lo sviluppo dottrinale è incompatibile con la contraddizione dei credo precedenti[16]. Il linguaggio simbolico della liturgia – azioni, colori, odori, materia, parole – è, come ogni altra lingua, qualcosa che dobbiamo assorbire per essere in grado di padroneggiarlo. Come sa chiunque si sia sforzato di imparare una lingua straniera, quando si ritiene di essere più esperti di quanto si sia realmente, si può finire per perdersi in balbettii incoerenti.
Il significato che il rito rivela si approfondisce man mano che cresciamo e ne veniamo formati, man mano che ne cogliamo le sfumature o lo sperimentiamo con nuove persone e in nuove circostanze. Inoltre la liturgia, poiché viene trasmessa attraverso la tradizione, porta con sé il significato che in essa hanno trovato anche le generazioni che ci hanno preceduto. Ma il rito non si limita a insegnarci questo significato: ci inserisce nel dinamismo di una relazione. Al suo centro c’è una Persona e le sue azioni.
Ciò che è in gioco, in definitiva, in Gestis verbisque è la comunione con questa Persona, l’unione alla sua azione. L’unione con Cristo è ciò che dà forma alla celebrazione e unità alla Chiesa: «Il Capo della Chiesa, e dunque il vero presidente della celebrazione, è solo Cristo. Egli è il “Capo del Corpo cioè della Chiesa” (Col 1,18)» (GV 24).
Partecipazione e intenzione: le chiavi del documento
È in questa immagine biblica – Cristo come capo del suo corpo, la Chiesa – che s’incontrano i diversi fili teologici di Gestis verbisque. Quando parliamo dei sacramenti che ci rendono membri della Chiesa, non dobbiamo immaginarli come biglietti d’ingresso. Nei sacramenti Cristo non è presente passivamente; agisce attraverso di essi. Noi diventiamo il suo corpo condividendo le sue azioni. Il concetto centrale che emerge dalla Costituzione del Vaticano II sulla liturgia Sacrosanctum Concilium è la partecipazione. Questo concetto significa molto di più che svolgere compiti durante la liturgia. Invece, illumina il legame tra i sacramenti e la salvezza in una maniera che va più in profondità della mera obbedienza. Celebrare i sacramenti significa partecipare all’atto di donazione di sé compiuto dalla Trinità, che Gesù Cristo rende presente sulla Terra. I sacramenti non sono semplici mezzi per la salvezza: sono partecipazione a ciò che è la salvezza.
La terminologia tecnica impiegata da Gestis verbisque – materia, forma, validità – è solo un’espressione di una fede ancora più fondamentale. Paolo dice che mediante il battesimo partecipiamo al mistero pasquale (cfr Rm 6,3-5) e, mediante l’Eucaristia, al Corpo e al Sangue di Gesù (cfr 1 Cor 10,16). Quando la Chiesa celebra i sacramenti, si unisce a un’azione che non trae origine dai suoi membri (cfr GV 11). Guardini, quindi, individuava nell’umiltà l’atteggiamento essenziale richiesto a ogni cattolico – ministro o laico che sia – per celebrare i misteri: «Quanto la liturgia richiede si può pertanto esprimere con una sola parola: umiltà»[17]. Lo studioso proseguiva chiarendo che c’è qualcosa che la celebrazione esige da tutti: «Dal temperamento individualistico [si esige] ch’esso accetti il sacrificio di stare con altri, così al temperamento socievole si chiede che si adatti al contenuto riserbo»[18].
Qui, in modo molto generale, Guardini coglie la posta in gioco in ciò che il linguaggio tecnico della teologia sacramentale chiama «intenzione». La forma e la materia dei sacramenti esprimono qualcosa di oggettivo. Se non ci fosse oggettività, invece che l’incontro con un’altra Persona, i sacramenti diventerebbero le nostre proiezioni. Allo stesso tempo, come sottolinea Gestis verbisque, i sacramenti non sono atti di macchine, ma di uomini: è necessaria una certa partecipazione della volontà umana, «rendendo l’azione sacramentale un atto veramente umano» (GV 18).
Tuttavia, definire la giusta intenzione è complicato. Tale intenzione non può richiedere troppo, altrimenti farla propria sarebbe impossibile per qualsiasi persona. I sacramenti sono espressioni del sacrificio che Cristo ha compiuto di sé, e nessuno può veramente sapere e intendere tutto ciò che questo significa nella prospettiva della soggettività. Avere la giusta intenzione non può significare né una conoscenza sovrumana né uno stato morale perfetto. Celebrare i sacramenti significa, invece, volere un’azione che va oltre le nostre conoscenze e capacità.
L’espressione usata da secoli dai teologi e dai Concili ecclesiali per definire l’intenzione necessaria per celebrare i sacramenti riflette questa apertura. Quando celebra un sacramento, un ministro deve avere l’intenzione di fare «ciò che fa la Chiesa» (GV 18). Nel caso del battesimo, questo significa che in una situazione di emergenza anche un non cristiano può battezzare, purché intenda fare quello che fa la Chiesa quando battezza. In una certa misura, quando partecipiamo ai sacramenti, tutti desideriamo qualcosa che possiamo comprendere solo in parte. Neanche il teologo più dotto può pretendere di capire appieno tutto ciò che s’intende per battesimo o Eucaristia. Lo stesso tipo di significato sconfinato presente nei simboli liturgici è all’opera anche nell’intenzione di un ministro.
Ma come nella materia e nella forma c’è una concretezza ineludibile, così occorre avere l’intenzione di fare ciò che intende fare la Chiesa. I battesimi celebrati da alcune comunità religiose, come i mormoni o i testimoni di Geova, sono considerati non validi, perché questi gruppi considerano Dio in un modo così differente dalla dottrina cattolica della Trinità che in un contesto mormone le parole «Padre, Figlio e Spirito Santo» significano qualcosa di diverso. Gestis verbisque sottolinea che tale esigenza non costituisce una mera regolamentazione ecclesiale, bensì è intrinsecamente necessaria affinché i sacramenti conservino il loro significato oggettivo (cfr GV 22).
Quando tratta dell’intenzione, la Nota offre la sua visione più significativa sui battesimi giudicati invalidi dalla Cdf nel 2020. L’intenzione della Chiesa, sottolinea, è incarnata nell’azione concreta del sacramento stesso. I libri liturgici della Chiesa che descrivono come celebrare il battesimo esprimono la sua intenzione. Quindi un modo sicuro per determinare se qualcuno intende fare ciò che intende la Chiesa è se fa ciò che i libri liturgici prescrivono di fare. Se un sacerdote o un altro ministro modifica deliberatamente i riti, allora non intende fare ciò che intende la Chiesa, ma ciò che fa lui. La sua intenzione può essere buona o cattiva, ma non è ciò che intende la Chiesa.
Nei casi portati all’attenzione della Cdf negli ultimi decenni non si tratta di errori di pronuncia involontari[19]. In questi casi, i ministri alteravano i riti della Chiesa perché credevano di poterli migliorare. In un caso, cambiando le parole «Padre» e «Figlio» con alternative neutre rispetto al genere, coloro che eseguivano i riti ritenevano che ciò che la Chiesa fa – e ha fatto per secoli – fosse così contaminato dal sessismo da richiedere un aggiornamento. Allo stesso modo, il sacerdote che battezzava con il «noi» pensava che la sua formulazione fosse teologicamente superiore – più inclusiva, accogliente e comunitaria – rispetto a quella trasmessa dalla tradizione cattolica. Non intendeva fare ciò che fa la Chiesa, ma ciò che lui pensava fosse meglio.
Gestis verbisque evidenzia senza mezzi termini la follia di tale presunzione. È profondamente ingiusto che un ministro dia qualcosa di diverso da ciò che la Chiesa offre a persone che, con umiltà, si sono affidate al ministero della Chiesa stessa. A volte Gestis verbisque assume un tono tagliente, ma è giusto che sia così. Il documento non tratta di cerimonialismi o formalità, bensì dell’accesso all’umanità di Gesù Cristo, alla partecipazione alla sua azione salvifica, al divenire membra del suo corpo. Nel Vangelo, Gesù s’indigna quando i suoi discepoli impediscono ai più piccoli di toccarlo: «Non glielo impedite», li rimprovera (Mc 10,14). Gestis verbisque contiene un analogo rimprovero, perché è consapevole che le parole e i gesti di Gesù – visibili quando camminava sulla Terra – non sono meno presenti nei suoi sacramenti.
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[1]. Agostino di Ippona, s., Omelie, 15,4.
[2]. Cfr S. A. Keef, Water and the Word: Baptism and the Education of the Clergy in the Carolingian Empire, Notre Dame, IN, University of Notre Dame Press, 2002.
[3]. Cfr Dicastero per la dottrina della fede, Gestis verbisque, n. 4.
[4]. Cfr R. Treisman, «An Arizona priest used one wrong word in baptisms for decades. They’re all invalid», in NPR (www.npr.org/2022/02/15/1080829813/priest-resigns-baptisms), 15 febbraio 2022.
[5]. In effetti, un caso sorprendentemente simile del XII secolo – in cui di un uomo creduto sacerdote si scoprì solo dopo la sua morte che non era stato battezzato – contribuì a stabilire la dottrina del battesimo di desiderio. Cfr A. Lusvardi, Baptism of Desire and Christian Salvation, Washington, DC, Catholic University of America Press, 2024, 158 s.
[6]. Le formule sacramentali usate nei riti orientali si discostano leggermente dalla formulazione del rito romano, ma tali variazioni non comportano i problemi che stiamo per osservare.
[7]. Vale la pena notare che, tra le fonti di GV, la Costituzione del Vaticano II Dei Verbum sulla divina rivelazione viene citata prima della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia (SC).
[8]. Congregazione per la dottrina della fede, «Nota dottrinale» sulla modifica della formula sacramentale del Battesimo, 24 giugno 2020; SC 7.
[9]. Cfr Codice di Diritto Canonico, can. 144, §1.
[10]. Cfr A. Grillo, Introduzione alla teologia liturgica. Approccio teorico alla liturgia e ai sacramenti cristiani, Padova, Messaggero, 2011.
[11]. Cfr I. Kant, Religion within the Boundaries of Mere Reason and Other Writings, Cambridge, Cambridge University Press, 2019, 222 (in it. La religione entro i limiti della sola ragione, Roma – Bari, Laterza, 1980, 223).
[12]. Per un esempio di tale pensiero, cfr J.-J. Navatel, «L’apostolat liturgique et la piété personnelle», in Études, n. 137, 1913, 455 s.
[13]. R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Brescia, Morcelliana, 2007, 75.
[14]. Cfr O. Casel, The Mystery of Christian Worship, New York, Herder & Herder, 2016, 7 (in it. Il mistero del culto cristiano, Roma, Borla, 1985, 59).
[15]. Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est (2005), n. 1.
[16]. Cfr J. H. Newman, «An Essay on the Development of Christian Doctrine», in Id., Conscience, Consensus, and the Development of Doctrine, New York, Image Books, 1992, 195.
[17]. R. Guardini, Lo spirito della liturgia, cit., 40.
[18]. Ivi, 45.
[19]. Tommaso d’Aquino affronta la questione in modo simile. Un lapsus verbale, un balbettamento o una pronuncia errata, dice, renderebbero la forma non valida solo se distruggessero il senso delle parole. Ma se qualcuno cambia le parole intenzionalmente, aggiunge Tommaso, non fa ciò che fa la Chiesa (cfr Summa Theologiae, III, q. 60, a. 7, ad 3).
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San Tommaso d’Aquino: un’eredità importante
Avviso contenuto: Beato Angelico, “San Tommaso d'Aquino con la Summa Theologiae Ricevere un’eredità Quando riceviamo un’eredità, possono accadere molte cose, e molto diverse: possiamo, al limite, anche ignorare di averla, e così altri la incamerano al posto nostro. Possiam
Ricevere un’eredità
Quando riceviamo un’eredità, possono accadere molte cose, e molto diverse: possiamo, al limite, anche ignorare di averla, e così altri la incamerano al posto nostro. Possiamo dividerla tra parenti e amici, e così ognuno ne prende un pezzettino; ma il valore era dato dalla totalità del lascito e, così lacerata, essa viene in qualche modo dispersa, perdendo la propria grandezza. Ancora, possiamo organizzare una grande festa con il capitale ricevuto, in memoria del facoltoso parente, o fare una bella crociera: in tal modo l’evento organizzato brucia le risorse ricevute, e tutto si spegne subito. Possiamo riceverla e, come il servo timoroso del Vangelo, seppellirla sotto terra: teniamo in banca quello che abbiamo ricevuto, ma così, non investito, esso non darà nemmeno frutto. Oppure possiamo riceverla, farla fruttare, ridistribuirla in nuovi acquisti, dilatandone l’efficacia a esperienze e dimensioni sconosciute allo stesso de cuius.
Così è anche per l’eredità di san Tommaso d’Aquino, in questo 800° anniversario della sua nascita[1]. Siamo di fronte a un gigante del pensiero, dal quale ci separano però secoli di storia, civile ed ecclesiale. La sua riflessione si è infatti spinta a ogni angolo dello scibile umano, perlomeno di quell’epoca, e innumerevoli sono gli autori che in ogni tempo e fino ai nostri giorni si sono riferiti a lui, mostrando la perenne vitalità del suo slancio intellettuale e prolungando la capacità espansiva delle sue intuizioni e del suo ragionamento. A volte il suo pensiero è stato rispettato e custodito, sviluppandolo rettamente, e altre volte invece è stato intorbidito, irrigidendolo in schemi piuttosto ideologici, con un tomismo come dottrina «ufficiale», dietro la quale però rimaneva poco dell’autentico pensiero tommasiano. La storia della recezione del pensiero di Tommaso, anche quando è stato distorto, è interessante tanto quanto la storia degli effetti del suo apporto autentico: si può davvero dire che egli rimane un autore assolutamente imprescindibile per chiunque voglia affrontare non soltanto il pensiero medievale, ma anche quello moderno e postmoderno, fornendo egli chiavi di lettura critica ancora oggi legittimamente proponibili.
Un modo di essere, prima che di pensare
Non possiamo mai fare paragoni tra personalità così eminenti, ma certamente la lettura di sant’Agostino è più entusiasmante di quella dell’Aquinate: nel vescovo d’Ippona vibra un’ansia, una sete, una ricerca, un percorso umano e spirituale che ha molto in comune con l’uomo moderno, e perciò alcune sue pagine sono, anche stilisticamente, intramontabili e appartengono, prima che alla teologia, alla letteratura mondiale. Tommaso è pacato, tranquillo, composto nei toni e nelle espressioni: si tratta infatti di lezioni universitarie, sia nella forma dell’esposizione di un testo, sacro o profano, sia di un commento, sia infine di una lezione vera e propria, o nella forma del dibattito e del confronto, quale è visibile nella Summa Theologiae, sicuramente la sua opera monumentale per eccellenza.
L’esposizione piana degli argomenti, a favore e contro, la soluzione delle difficoltà residuali, la determinatio magistralis, ossia la soluzione prospettata dal maestro, non fanno certo vibrare l’intimo dell’ascoltatore come il racconto dell’esperienza della Grazia che ha mosso Agostino, affascinante e commovente ancor oggi. Eppure sbaglieremmo se volessimo per questo relegare Tommaso nell’angolo triste e grigio di un’esperienza culturale sbrigativamente chiamata, appunto, «scolastica», quasi a sottolinearne una sorta di piccineria mentale eretta a sistema filosofico.
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Un esempio: «La verità non cambia a seconda della persona che la dice, per cui, se qualcuno afferma il vero, non potrà essere vinto da alcuno con cui disputi»[2]. Questa affermazione testimonia la libertà intellettuale di un uomo che non appartiene a nessuna scuola e a nessuna sudditanza psicologica o intellettuale, se non a quella, che dovrebbe accomunare tutti noi, della ricerca del vero, del giusto, del buono e, in ultima analisi, della ricerca di Dio, conosciuto nella fede e cercato e trovato nelle sue relazioni con ogni realtà creata[3]. Non è questa un’espressione retorica, o vibrante di emozione, ma essa racchiude, nel suo nucleo, uno sguardo limpido sulle cose, una così profonda pacificazione con gli altri e con il mondo che ci permette di cogliere qualcosa dell’animo del Santo, che pare aver vissuto così quel che l’apostolo Giacomo scrive a proposito della sapienza quale dovrebbe essere nella Chiesa, cioè tra uomini e donne che hanno incontrato Cristo, somma verità e principio di essa: «La sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera» (Gc 3,17)[4]. In fondo, è uno sguardo contemplativo sull’esistenza, simile più alla beatitudine che a un’emozione.
Questa è un’importante eredità che dovremmo saper riconoscere e accogliere. In tempi nei quali è così facile soggiacere a logiche contrappositive o esclusive, a toni sprezzanti e urlati, gli intellettuali cristiani possono imparare da Tommaso a non avere nemici, e a non esserlo tra di loro. Una testimonianza molto significativa può essere quella di Rudolf von Jhering, giurista protestante dell’Ottocento, il quale scriveva così a un recensore cattolico che gli segnalava l’esistenza della Summa Theologiae: «Continuo meravigliato a chiedermi come sia stato possibile che simili verità, dopo essere state apertamente proclamate, siano cadute in oblio così completamente nella nostra cultura scientifica di matrice protestante. Quanti errori essa avrebbe potuto risparmiarsi, se ne avesse tenuto il debito conto»[5].
La scuola del suo tempo
Può fare un po’ sorridere il breve Prologo della Summa,nel quale Tommaso afferma che si prefigge di trattare quel che riguarda la religione cristiana in modo adatto per l’istruzione di coloro che iniziano a studiare, per i «novizi», come li chiama: l’opera infatti è destinata non a intellettuali sperimentati o a dottori, ma a semplici studenti, e di quelli che stanno proprio all’inizio[6]. Essi infatti, a detta del Santo, possono essere ostacolati nello studio in molti modi: in parte dalla moltiplicazione delle domande inutili, degli articoli che le svolgono e delle molteplici argomentazioni; e poi, in parte, perché le cose necessarie per il sapere non sono presentate secondo quanto l’ordine della disciplina richiederebbe, ma così come capita, nell’esposizione dei libri oppure secondo l’occasione della disputa; e poi ancora perché la loro frequente ripetizione genera fastidio e confusione negli animi degli ascoltatori.
Chissà cosa san Tommaso direbbe oggi a noi, abitatori della selva oscura delle fake news, degli instant book che lasciano il tempo che trovano, di una cultura spesso abborracciata e asservita a tesi precostituite! Tutto questo viene compiuto, oggi come allora, oscurando alcune verità che pure si potrebbero affermare, ma non se ne ha il coraggio di farlo, e, al contrario, esagerandone altre, facendo così perdere di vista l’obiettività e l’equilibrio in quel quadro complessivo dell’informazione e della riflessione che chiamiamo «cultura». L’occupazione dei centri di produzione culturali è stata, ed è ancora, un dato di fatto imprescindibile: chi detiene il controllo delle case editrici, del teatro, della letteratura con i suoi premi, dell’informazione, dell’Università, di fatto detiene le chiavi del futuro di una comunità, determinandone il presente[7]. Il che vale – per estensione, e probabilmente molto di più – anche per la televisione e per i social.
In effetti, la cosa che può sembrare tramontata, e invece è proprio un’eredità da riacquistare, è il gusto delle domande: la Summa infatti è un libro di domande e non un insieme di risposte, come pure è stata presentata. Questa è una caratteristica precipua della scuola medievale, tipica invenzione della cristianità[8]. Tommaso è impensabile senza l’Università, e dunque la comprensione del metodo della Scuola di Parigi, da lui fatto proprio, è la chiave di volta della comprensione non solo del suo pensiero, che appartiene in quanto tale a lui e non a una scuola, ma anche del suo modo di procedere intellettuale[9], ed è anche un’eredità da ricevere.
Al centro, dunque, è la domanda, e non la risposta; il dibattito, e non l’autorità: la philosophia perennis non si riferisce infatti alla perennità delle risposte, ma delle domande. Uno dei luoghi comuni più ripetuto è appunto il fatto che nel Medioevo il principio di autorità fosse tutto e ricapitolasse ogni argomentazione. Ma lo stesso Tommaso afferma che l’autorità, nelle cose umane, non fa la verità di un’affermazione[10]. Sarebbe interessante invece riflettere sul volto cangiante dell’autorità che crea la verità, specie in un mondo dominato da una cultura massmediatica e condizionato da molte lobbies, le quali determinano anche il pensiero e la mentalità. Il bisogno di apparire di moda e il timore di sembrare arretrati, l’opportunismo e il peso della politica o dei «poteri forti», come vengono chiamati, esercitano di fatto un condizionamento significativo, molto più di quel che non si penserebbe; le logiche accademiche, o editoriali, e l’idolo dell’audience – non solo televisiva – fanno sì che uno impari qual è, per così dire, l’articolo che si vende. Di nuovo, la libertà intellettuale di Tommaso è un lascito anche per oggi, perlomeno se si concepisce il lavoro intellettuale come un vero servizio alla comunità, per aiutare le persone a liberarsi da riflessi condizionati o da una mentalità asservita a interessi altrui. Così un intellettuale onesto dovrebbe essere in grado di smascherare formule o analisi superficiali, che sopravvivono solo nel chiacchiericcio delle scuole o nella ripetizione di slogan tramandati.
Insomma, san Tommaso ci ricorda l’obbligo di pensare con la nostra testa e di non portare, come si suol dire, il cervello all’ammasso, neanche se ben pagati. Questo può essere paragonato al sapere aude («osa sapere») kantiano, anche se riflesso in chiave post-moderna: osa tirarti fuori, se necessario, da quello che vorrebbero farti pensare e cerca di pensare tu. E cerca di ben pensare, perché non basta pensare per pensare bene.
La quaestio riproduce una lezione, cioè un dibattito scolastico, medievale, e ne è un resoconto. Da qui possiamo estrapolare, per l’oggi, un metodo intellettuale rigoroso, che si specifica così: il richiamo alle autorità, alle opinioni autorevoli nelle quali tutti ci ritroviamo non può mai assumere il tono perentorio di un Roma locuta, causa finita, ma è l’inizio di uno svolgimento dialettico del problema, confrontando e analizzando i diversi punti di vista. Le differenze tra i vari autori vanno tematizzate, i loro percorsi logici esaminati con rigore, per giungere infine a una risposta. Questa non può mai essere una soluzione di compromesso, che è un assurdo logico: se sono affermate cose diverse, qualcuno avrà ragione, e un altro avrà torto; e tuttavia è necessario capire perché e in quale ambito si svolgono le diverse ragioni di ognuno. Questo è il senso della determinatio magistralis, dell’insegnamento del maestro, che «de-termina», pone fine alla domanda definendo appunto i termini, i confini, gli ambiti propri del valore delle diverse tesi contrapposte, degli argomenti addotti, per salvarle in quanto possibile, secondo quello sguardo pacifico proprio di un vero intellettuale cristiano. Impariamo a distinguere per salvare le ragioni dell’altro, anche se, proprio per salvarle, dobbiamo delimitarne l’applicazione a un ambito particolare.
Elaborare una cultura cristiana
Più importante di tutte queste eredità che Tommaso ci ha lasciate rimane tuttavia un altro aspetto della sua opera, la sfida che egli ha affrontato: l’elaborazione di una cultura cristiana, tanto necessaria anche per il nostro tempo. Naturalmente, egli qui si colloca sulla scia dei Padri della Chiesa e dei grandi dottori precedenti: in primis,di sant’Agostino, che tutti supera per il numero delle citazioni. E tuttavia la sua opera acquista un significato ben più peculiare della loro. I santi Padri infatti elaborarono una cultura cristiana sulle rovine del mondo antico, cioè pagano, e gettarono così le basi per quella cristianità, cioè l’Europa, che doveva nascere dal collasso del vecchio mondo, fondendo in unità l’eredità dei tre colli portanti del mondo antico: il Partenone, il Campidoglio e il Golgota. In questo senso la loro opera è stata autenticamente creatrice di cultura e determinante per l’identità stessa di noi europei di oggi.
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Tommaso invece scrive in un’epoca, il Duecento, nella quale, per la prima volta dopo secoli, vediamo irrompere nel continente una dottrina completa e sistematica, quella aristotelica, che fornisce una visione totale e perfetta del mondo, dell’uomo, della città, e che prescinde assolutamente da Dio, sufficiente a sé stessa[11]. Il pericolo di una completa laicizzazione del pensiero, come potremmo dire oggi, era reale. Non regnat Spiritus Christi ubi dominatur spiritus Aristotelis[12], affermava Assalonne di san Vittore, e in effetti nelle Università – questa creazione tardomedievale, così diversa dalla precedente scuola cattedrale e capitolare e dal sistema del trivio e del quadrivio, ereditato dalla scuola antica – si incominciava a respirare quello spirito così innovativo e pericoloso.
La Chiesa avrebbe potuto chiudersi, arroccandosi a difesa di un passato ormai irrecuperabile, lamentando, con Guglielmo di Sant’Amore, i pericoli di questi «ultimissimi tempi»[13]. San Tommaso raccolse questa sfida: egli non battezzò Aristotele, come si sente a volte affermare, e questo per noi significa che, in quanto intellettuali, non dobbiamo battezzare chi non vuole essere battezzato. Piuttosto, egli capì Aristotele per quel che diceva, ed espresse il proprio pensiero in termini aristotelici, non ripetendo quanto lo Stagirita asseriva, ma creando, attraverso l’interazione tra Vangelo e testi antichi, un pensiero nuovo. Così, ad esempio, egli oltrepassa la categoria della sostanza, criterio esplicativo del reale sufficiente per Aristotele, attraverso la mediazione del testo dell’Esodo: «Io sono Colui che sono» (Es 3,14), che diventerà la chiave per l’elaborazione della sua metafisica, l’actus essendi, l’«atto di essere» ulteriore e fondante le singole, episodiche esistenze create. San Tommaso elabora una nuova metafisica con la Bibbia: così, capovolge la metafisica aristotelica, passando attraverso di essa e infine superandola.
In questo senso, potremmo ricavare da lui un modo di procedere nell’elaborare una cultura cattolica: non un appiattirsi, mutuando concezioni altrui, né un irrigidirsi nella difesa di un sistema concepito come un cerchio chiuso, ma uno sviluppare la propria identità, tematizzando le differenze rispetto ad altre culture e riannodando la diversità cattolica al Vangelo stesso, che sempre oltrepassa ogni cultura e la apre a nuove possibilità di espansione. Per poter fare questo fruttuosamente, è necessario un duplice esercizio: nella cultura a noi contemporanea, in quello che essa è; e nel testo sacro, la sacra pagina, nella tradizione elaborata e vissuta dalla Chiesa. Così Tommaso, proprio perché possedeva una conoscenza di Aristotele non comune, che non avevano neppure i dotti del suo tempo, poté, con le sue categorie e il suo pensiero, esprimere la fede cristiana da lui vissuta e celebrata nel culto, caricando o arricchendo le parole antiche di significati nuovi, piegandone e trasformandone il significato e creando così cultura. In tal modo si possono mettere in evidenza al tempo stesso i germi del Vangelo – i semina Verbi –, presenti in ogni cultura, e l’autentica sete di Assoluto che essa esprime in chi tradizionalmente, e forse superficialmente, è visto come «lontano». Tuttavia si è anche in grado di capire perché costui non giunse, né poteva giungere, a esso.
Uno dei motivi dell’incredulità contemporanea è infatti la scarsa porosità, o reciproca comunicazione, dei vari ambiti della riflessione umana con la fede stessa e con il linguaggio della Chiesa, in un mondo che così è diventato ormai schermato gli uni agli altri[14]: per questo infatti a molti sembra che non si possa essere cristiani e uomini colti al tempo stesso, dovendo quasi scegliere tra essere abitatori del proprio tempo o nostalgici di una realtà che fu. Contribuire a ristabilire questa comunicazione, un vero dialogo tra culture, è invece fonte inesauribile di ricchezza per ogni comunità e sembra essere una priorità dei nostri tempi. Lo affermava già Paolo VI: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante l’incontro con la Buona Novella. Ma questo incontro non si produrrà se la Buona Novella non è proclamata»[15].
Nella continuità
Altra eredità importante del pensiero dell’Aquinate è la consapevolezza di essere figli di una ricerca che non è iniziata con noi: non siamo noi la vetta o la cima del pensiero, ma ci muoviamo all’interno di un percorso di molti, in uno sforzo comune che ci precede e ci accompagna, e che ci seguirà. Non esiste un «io penso» assoluto: esiste un «io penso insieme a te», in cui l’io e il tu si rinviano reciprocamente: la relazione fonda l’identità della persona, e dunque il pensiero.
Siamo portati da una tradizione – nel senso migliore del termine –, alla quale tutte le generazioni hanno dato un apporto. Così si esprime Tommaso: «Gli antichi filosofi lentamente, e quasi passo dopo passo, sono pervenuti alla conoscenza della verità»[16].
Al contrario, il mondo moderno trova la propria cifra in Cartesio, il quale, all’inizio del suo Discorso sul metodo, dopo aver narrato la confusione in cui si trovava dopo aver frequentato tante e così diverse scuole, un giorno prese la decisione di intraprendere una nuova strada[17]. Da qui inizierà un modo nuovo di rapportarsi all’esperienza, partendo dal soggetto. Il senso dell’unicità, dell’individualità e dell’irripetibilità della propria esperienza, già esaltato da Lutero con il libero esame delle Scritture e con la sottovalutazione della mediazione ecclesiale, trionferà successivamente, nella visione storicistica post-hegeliana, nella pretesa di ognuno di costituire in quel momento la vetta storica del pensiero, la manifestazione più matura dello spirito. Nel mito della storia come progresso si annida la presunzione che essa culmini nella propria interpretazione di essa o, nel linguaggio banale delle scuole, nello stato attuale della questione: la storia culmina nella propria storia.
Alla supponenza dell’«io penso» preferiamo la gratitudine per quanti hanno pensato prima di noi. Non per ripeterli, ma per capirli e rigenerare così le loro intuizioni in un mondo anche molto diverso dal loro. Un’eredità che continua senza fine.
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[1]. In realtà non conosciamo la data di nascita di Tommaso, che può essere collocata tra il 1224 e il 1226; egli invece morì certamente il 7 marzo del 1274, mentre si recava al II Concilio di Lione. Fu proclamato santo da papa Giovanni XXII nel 1323. Cfr J. A. Weisheipl, Tommaso d’Aquino. Vita, pensiero, opere, Milano, Jaca Book, 2016.
[2]. «Veritas ex diversitate personarum non variatur, unde, si aliquis veritatem loquitur, vinci non potest cum quocumque disputet» (Expositio in Iob, XIII, 19).
[3]. Nella Summa infatti tutto viene trattato a partire da Dio: o perché è Dio stesso, o perché dice ordine a lui come principio e fine.Cfr Summa Theologiae, q. 1, a. 7: «Omnia autem pertractantur in sacra doctrina sub ratione Dei vel quia sunt ipse Deus; vel quia habent ordinem ad Deum ut ad principium et finem». Ancora: «Omnia quae sunt a Deo ordinem habent ad invicem et ad ipsum Deum» (ivi, I, q. 47, a. 3). Com’è noto, Dante riprenderà in Paradiso, I, 103-105,questa affermazione, elevandola ad altissima poesia: «Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l’universo a Dio fa simigliante». Per questo sant’Ignazio di Loyola, che studiò Tommaso a Parigi, poté fare del «cercare e trovare Dio in tutte le cose» il senso stesso e il fine della propria spiritualità.
[4]. «Pura», cioè non mescolata ad altre considerazioni di parte (politiche, intellettuali, di convenienza accademica); «pacifica», perché operatrice di pace, strumento di dialogo, volta a cercare il vero e il giusto nel pensiero di ciascuno, anche se lontano dalle proprie posizioni, e poi perché non gridata, non brandita come una spada. Da qui tutte le altre sue caratteristiche.
[5]. M. Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, Milano, Jaca Book, 1986, 121. Qui si tratta in particolare del diritto inteso come scienza pratica, basata sul fine, e non teoretica, cioè costruita a partire da princìpi.
[6]. Tommaso qui addirittura si richiama a san Paolo, il quale, scrivendo ai Corinzi, afferma che «vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non ne eravate ancora capaci» (1 Cor 3,2). Cfr Prologus della Summa.
[7]. La tesi di Antonio Gramsci su questo punto è troppo nota per dover essere esplicitamente citata.
[8]. «Il vero fondatore dell’università di Parigi è Innocenzo III, e quelli che garantirono il suo ulteriore sviluppo, dirigendola e orientandola, sono i successori di Innocenzo III, prima di tutto Gregorio IX. L’università di Parigi si sarebbe costituita anche senza l’intervento dei papi, ma è impossibile capire ciò che le assicurò un posto tra tutte le università medievali, se non si tiene conto dell’intervento attivo e del disegno religioso chiaramente definito dal papato» (E. Gilson, La filosofia nel Medioevo, Firenze, la Nuova Italia, 1990, 473). L’autore prosegue: «È un elemento della Chiesa universale esattamente allo stesso titolo ed assolutamente con lo stesso significato del sacerdozio e dell’Impero» (ivi, 476).
[9]. «Non c’è una sola delle grandi opere di San Tommaso, ad eccezione forse della Summa contra gentiles, che non sia uscita direttamente dal suo insegnamento o che non sia stata concepita espressamente in vista dell’insegnamento» (E. Gilson, La filosofia nel Medioevo, cit., 481).
[10]. «Locus ab auctoritate infirmissimus» (Summa Theol., I, q. 1, a. 8, ad 2).
[11]. «Il sistema aristotelico mostra che è possibile proporre una visione complessiva e organica delle leggi fisiche e metafisiche del mondo prescindendo completamente dai contenuti della Rivelazione e dal tradizionale pensiero cristiano» (M. Fumagalli Beonio Brocchieri – M. Parodi, Storia della filosofia medievale. Da Boezio a Wyclif, Roma – Bari, Laterza, 1996, 262). E Chenu afferma: «Lo stesso universo aristotelico appariva inconciliabile con la concezione cristiana del mondo, dell’uomo, di Dio; niente creazione, un mondo eterno, abbandonato al determinismo, senza che un Dio provvido ne conosca le contingenze, un uomo legato alla materia, e come essa mortale, un uomo la cui perfezione morale rimane aliena dai valori religiosi. Filosofia volta verso la terra, poiché attraverso la negazione delle idee esemplari, essa ha tagliato ogni via verso Dio e rivolto su se stessa la luce della ragione» (M. D. Chenu, Introduzione allo studio di San Tommaso d’Aquino, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1953).
[12]. In PL 211, 34.
[13]. Come si intitola effettivamente il suo libretto, De periculis novissimorum temporum, nel quale egli stigmatizza la poca fede dei suoi tempi, nei quali si vedono queste nuove creature, francescani e domenicani, entrare nelle Università, come studenti e anche occupando cattedre, animati da un’insana curiositas intellettuale, vivendo un inusitato e scandaloso stile di vita religioso.
[14]. Cfr. Ch. Taylor, L’età secolare, Milano, Feltrinelli, 2009, 44. L’opera di questo autore cattolico è un esempio di attualizzazione del metodo e della prospettiva di san Tommaso, ed è ciò che generalmente si sente mancare nella contemporaneità. Ognuno tende a chiudersi nel suo ambito, nella propria università, nel proprio mondo, e questo determina un generale impoverimento del pensiero.
[15]. Paolo VI, s., Evangelii nuntiandi, n. 20.
[16]. Summa Theol., I, q. 44, a. 2: «Antiqui philosophi paulatim et quasi pedetentim intraverunt in cognitionem veritatis». In questo passo troviamo una vera e propria storia della filosofia: dai presocratici, fermi alla causa materiale, a Platone, che non considerava la materia, fino ad Aristotele, che individua la sostanza come categoria fondamentale. In un opuscolo di san Tommaso, il De substantiis separatis, sugli angeli, la sua storia della filosofia si arricchisce, considerandone gli sviluppi ulteriori, cioè la filosofia araba, mettendone in risalto le acquisizioni e le aporie. Tommaso si considera parte di una storia umana non limitata alla sola christianitas e tutta protesa alla ricerca della verità. In questa prospettiva, perfino gli errori sono parte benefica di uno sforzo generale.
[17]. Cfr S. Th. Bonino,«Être thomiste», in B.-D. de La Soujeole – S. Th. Bonino – H. Donneaud, Thomistes ou de l’actualité de Saint Thomas d’Aquin, Paris, Parole et Silence, 2003, 15.
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Caspar David Friedrich: un’arte per una nuova era
Avviso contenuto: Caspar D. Friedrich, “Viandante sul mare di nebbia”. Caspar David Friedrich (Greifswald, 1774 – Dresda, 1840) rappresenta come pochi altri pittori l’arte romantica. In occasione dei 250 anni dalla sua nascita, la Hamburger Kunsthalle ha presentato oltre 6
Caspar David Friedrich (Greifswald, 1774 – Dresda, 1840) rappresenta come pochi altri pittori l’arte romantica. In occasione dei 250 anni dalla sua nascita, la Hamburger Kunsthalle ha presentato oltre 60 dipinti, tra cui numerose opere chiave e circa 100 disegni. La mostra ha offerto così il panorama più completo della sua arte da molti anni a questa parte. Al centro della sua opera c’è il nuovo genere di rapporto tra uomo e natura.
All’inizio del XIX secolo Friedrich diede un impulso essenziale, rendendo il genere paesaggistico una Kunst für eine neue Zeit, un’«arte per una nuova era». Non da ultimo il visitatore viene a contatto con il fatidico legame tra uomo e natura espresso dalle sue opere, soprattutto perché, ai nostri giorni, il cambiamento climatico e la distruzione ambientale toccano l’esistenza di tutti noi.
Tra il 2023 e il 2025 sono state organizzate e sono previste in tutto sei grandi mostre, che restituiscono una pittura assolutamente nuova dal romanticismo a oggi:
- Il Kunstmuseum diWinterthur, come prima di una grande serie di mostre, ha esposto Die Vorboten der Romantik («I presagi del Romanticismo»), dal 26 agosto al 19 novembre 2023; per la prima volta in Svizzera la mostra era dedicata alle origini storiche della nuova pittura paesaggistica, con sensazionali invenzioni pittoriche di genere totalmente nuovo.
- La Hamburger Kunsthalle, come detto, ha presentato, dal 15 dicembre 2023 fino al 1° aprile 2024, Kunst für eine neue Zeit («Arte per una nuova era»).
- La Alte Nationalgalerie di Berlino offre, dal 19 aprile al 24 agosto 2024, in collaborazione con il Kupferstichkabinett, Die Wiederentdeckung («La riscoperta»), una grande mostra del principale pittore innovativo del Romanticismo.
- Il Pommersche Landesmuseum della nativa Greifswald espone Lebenslinien und Sehnsuchtsorte – Heimatstadt («Linee di vita e Luoghi della nostalgia»), dal 28 aprile 2024 al 5 gennaio 2025.
- Le Staatlichen Kunstsammlungen di Dresda espongono Wo alles begann («Dove tutto ebbe inizio»), dal 24 agosto 2024 al 5 gennaio 2025.
- Il Metropolitan Museum di New York sorprende, come primo museo statunitense, con la mostra Die Seele der Natur («L’anima della natura»), dal 7 febbraio all’11 maggio 2025. È un’ampia retrospettiva sul pittore romantico tedesco, che ha creato un incontro fra la pittura paesaggistica europea e un profondo legame spirituale ed emotivo con la natura americana che egli ammirava.
La vita e la formazione artistica
Caspar David Friedrich era uno dei figli di Adolf Gottlieb Friedrich – un fabbricante di sapone e di candele – e di sua moglie, Sophie Dorothea. Sesto di 10 figli, i suoi genitori lo vedevano già come loro successore nella bottega. Ma Friedrich aveva in mente altre cose. Nel suo ambiente, risultarono subito evidenti le sue straordinarie doti artistiche. Per questo egli voleva diventare un pittore. Amava la sua patria, i prati e i campi, il porto e il mare. Amava il disegno, i colori, la luce e le nuvole. Ma era anche un tipo singolare, silenzioso e riflessivo, aveva momenti di depressione, e la sua creatività artistica era venata di malinconia. La sua vita ebbe sempre drammatiche prove. Nel 1781, quando aveva sette anni, improvvisamente gli morì la madre. Anche diversi fratelli morirono in giovane età. Nel 1787, al fossato di Wallgraben, avvenne quella disgrazia che avrebbe segnato per sempre la vita e l’opera di questo talentuoso pittore: suo fratello Johann Christoffer, di un anno più giovane, annegò mentre cercava di salvare la vita di Caspar David, a cui si era rotta sotto i piedi una lastra di ghiaccio su cui stava pattinando[1]. A 16 anni, Friedrich iniziò a prendere lezioni dall’insegnante di disegno Johann Gottfried Quistorp, all’università di Greifswald. A 20 anni, proseguì i suoi studi e la sua formazione artistica presso le Accademie d’Arte di Copenaghen e di Dresda.
Al centro della sua ispirazione pittorica si trovava la natura libera. Soprattutto egli voleva plasmare il paesaggio a modo suo, con pensieri e associazioni. Per lui era importante muovere un’immagine avanti e indietro, e alla fine creare qualcosa di nuovo, ma sempre con l’intenzione di lasciarlo aperto a qualcosa di più. Lo accompagnava sempre una delle sue massime: «Un’immagine non deve essere creata, ma sentita. Il pittore non deve dipingere solo quello che vede davanti a sé, ma anche quello che vede dentro di sé. Ma se in sé non vede nulla, si astenga dal fare il dipinto».
Quando in seguito, a Dresda, Friedrich si dedica alla pittura a olio, non sceglie di ritrarre né paesaggi realistici né paesaggi ideali classici. Si caratterizza per un altro importante tema conduttore, il vedere: il vedere nel pensiero e il vedere contemplativo nella pittura. Non si occupa solo della natura, ma delle diverse variazioni del rapporto tra l’uomo e la natura che egli vuole rappresentare.
Ovviamente, nel confronto di Friedrich con un paesaggio rientrano anche cose, oggetti e architetture. Possono essere alberi, ma anche edifici. Lo impressionano in modo particolare le rovine, quando contraddistinguono un paesaggio. A tale riguardo, Friedrich ha sempre in mente le rovine del monastero di Oybin, vicino ai Monti di Zittau. L’architettura dello spazio dell’altare in rovina, ma aperto, prende vita. Sulla parete sinistra c’è una croce, a destra una statua della Madonna, e piante selvatiche che circondano le sculture. Più tardi è stato aggiunto anche un altare. Un tale complesso fa nascere una riflessione stupita sulle questioni della fede.
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In Friedrich, queste interpretazioni religiose si intuiscono meglio nei dipinti di paesaggi con croci. Non è raro che una croce si trovi al centro di un quadro, talvolta esattamente sull’asse centrale. Ad essa si uniscono di preferenza le abituali croci che si trovano sul ciglio delle strade o sulle vette dei monti. Sono simboli che vanno al di là della natura, e spingono a pensare al Creatore. Dio stesso appare allora nella figura di un crocifisso, un’immagine nell’immagine e nella natura.
Per tutta la vita Friedrich aderì alle convinzioni luterane fondamentali. Cristo era al centro della sua fede, caratterizzata dalla teologia della croce. Come la sua arte, anche la sua fede era incentrata sulla morte e sulla speranza della redenzione, che però i cristiani non potevano raggiungere sulla Terra. Per questo la croce era sempre presente nei simboli di fede di Friedrich; costituiva la pietra angolare del suo credo.
A un certo momento, intorno al 1800, Friedrich conobbe di persona – a Berlino o forse a Dresda – Friedrich Schleiermacher. L’artista e il teologo avevano molti punti in comune. Lo storico dell’arte berlinese Werner Busch ha poi sottolineato come questi due cristiani fossero entrambi convinti dell’importanza del concetto di umiltà. Solo una paziente e umile attesa della manifestazione della grazia di Dio rendeva possibile una salvezza come opera di Dio. Se si tiene conto di ciò, scrisse Busch, si può capire adeguatamente la forma particolarmente chiara delle rappresentazioni e delle recezioni della natura in Friedrich[2].
Questo tipo di affinità si constatava anche nei concetti di intuizione(Anschauung) e sentimento(Gefühl). Secondo Schleiermacher, questi due concetti erano in grado di aprire la strada non solo all’arte, ma anche alla religione. Riguardo ad essi, Werner Busch ha scritto: «Intuire non è un afferrare attivamente ciò che si vede, ma al contrario un lasciarsi afferrare passivamente. Colui che vede rimane nell’intuizione e attende l’effetto delle cose su di sé, ed è proprio questo che lo riempie di sentimento religioso. […] È proprio questa l’esperienza che ci offre la tecnica della Rückenfigur, ossia della figura ritratta di spalle, utilizzata da Friedrich. Per Schleiermacher, nelle questioni religiose non si tratta di metafisica e di morale, dove la prima si basa sul pensiero, la seconda sul volere. Egli constata piuttosto una “decisa contrapposizione” […] e conclude che l’essenza della religione non è né il pensiero né l’azione, ma piuttosto l’intuizione e il sentimento»[3].
Nel corso del tempo, Friedrich sviluppa una nuova forma di pittura che certamente è molto precisa nei dettagli, ma che con la sua composizione e con meno soggetti pittorici significativi invita alla riflessione. Nei suoi dipinti compaiono non solo uomini o donne a rappresentare un gruppo più grande, come contadini o pastori, ma egli caratterizza individualmente anche persone particolari, la cui identità però rimane poco chiara. Tuttavia, essi si rivolgono al paesaggio, concentrando su di esso lo sguardo.
Nasce così un motivo portante autonomo dell’opera successiva di Friedrich: la rappresentazione di persone che osservano, e che così invitano a una riflessione che vada al di là del semplice atto del vedere in sé. Negli anni intorno al 1810 nei suoi quadri si moltiplicano queste persone che riflettono, che cercano di scoprire non solo la natura oggettiva, ma anche le tensioni interiori tra la propria esperienza e la natura misteriosa e travolgente. Esse si trasformano spesso in figure ritratte di spalle, che di solito sono immerse in una contemplazione silenziosa. Rimane imprecisato da dove vengano e che cosa le abbia condotte a quella profonda contemplazione del paesaggio. Si evidenzia ancora più fortemente che cosa queste figure di spalle stanno facendo nel momento rappresentato: contemplano la natura, ma anche sé stesse.
Con le sue figure ritratte di spalle, Friedrich permette anche a noi di immergerci totalmente nella natura rappresentata. Per lui, non si tratta soltanto della natura, ma al centro c’è anche il rapporto tra uomo e natura. L’uomo è parte della natura, e tuttavia mantiene un atteggiamento di distanza da essa.
Intorno al 1830, in un testo intitolato «Commenti sull’osservazione di una collezione di dipinti di artisti in gran parte ancora viventi o morti di recente»[4], Friedrich utilizzò un termine che solo poco prima era stato coniato nella teoria dell’arte: il concetto di Stimmung («stato d’animo»). Un testo illustrativo della mostra di Amburgo afferma a questo proposito: «Il suo testo mostra che ha riflettuto su come le immagini possano suscitare stati d’animo, ma egli era anche consapevole del fatto che l’osservazione stessa dipende dagli stati d’animo. Con il concetto di stato d’animo si apre un ulteriore aspetto del rapporto tra uomo e natura. Infatti, gli stati d’animo non sono limitati solo al soggetto e neppure a una proprietà concreta di un oggetto».
Nelle sue opere, Friedrich aveva il dono particolare di suscitare gli stati d’animo. I suoi disegni, alcuni studi a olio e molti dei suoi dipinti mostrano in modo evidente la sua grande capacità di cogliere, in modo preciso e ricco di sfumature, fenomeni che possono suscitare stati d’animo: luci e ombre, giochi di colori nel cielo, nuvole, nebbia e altri fenomeni atmosferici. Sembra che l’artista abbia fatto un’ampia riflessione su come tali stati d’animo si lascino collegare a temi pittorici evocativi, vedute di città, come pure alberi, cespugli o dolmen. Nei suoi «Commenti», Friedrich ha affermato che «un grande merito, forse il maggiore, di un artista è quello di stimolare la mente e di risvegliare nell’osservatore pensieri, sentimenti e sensazioni, anche se non sono i suoi».
«La pala d’altare di Tetschen» o «La croce in montagna» (1808)
Era la fine dell’Avvento del 1808. Friedrich stava lavorando da tempo a un dipinto. Il tema era un insolito paesaggio boemo su un alto picco roccioso. Sulla sua vetta si ergeva, innalzata su un tronco gigantesco, un’alta croce, provvista di un corpo che dà le spalle all’osservatore. Inoltre la croce era circondata da 12 alti abeti e dall’atmosfera crepuscolare.
Il sole non era più visibile, era sprofondato dietro la roccia; ma tre suoi raggi si riflettevano ancora sulle nubi, creando strisce orizzontali di un rosso pallido, come potenti fari luminosi sotto le nuvole. Tra queste strisce di colore della sera si facevano strada tuttavia già delle ombre, che caratterizzavano sempre più il cielo. Una brillante atmosfera antagonistica.
Il dipinto fu dotato di una grossa cornice dorata. Da una predella d’altare si innalzavano due esili colonne a fascio, che in alto si curvavano a formare un arco dominante molto ampio, su cui si stagliavano cinque teste di angeli dorate. Esse guardavano in basso, verso il paesaggio del quadro e i simboli sulla predella. Sulla base dorata, al centro del blocco dell’altare, appariva poi l’occhio di Dio, all’interno di un triangolo, che veniva sostenuto e illuminato da un denso fascio di raggi e circondato devotamente sui due lati da segni eucaristici: spighe di grano e tralci di vite.
La vigilia di Natale del 1808, Friedrich allestì questo altare nel suo studio. Il grande quadro si trovava su un ampio tavolo con drappi neri pendenti, come su una mensa. Lì sembrava che fosse esposto come in una cappella, circondato da luci solenni. L’artista se ne andò, lasciando volutamente il dipinto a sé stesso, circondato da molti visitatori, che per lo più si mostravano scettici.
«Il viandante sul mare di nebbia» (1818)
Questo dipinto è il risultato di una lunga camminata in montagna nella Svizzera sassone, al mattino o sul far della sera. Ma una volta emerso dalla nebbia, il viandante sembra aver dimenticato tutta la fatica. Stanco, raggiunge la vetta. A questo fa seguito un riaccendersi ostentato di sensazioni: la gioia, l’orgoglio, lo stupore. Tali forti stati d’animo conducono psicologicamente il viandante a unirsi con sé stesso e con il fattore «solitudine». Egli si ferma in silenzio per essere afferrato dal panorama e per goderselo. Ed ecco: davanti ai suoi occhi si apre un paesaggio montano, ritmato dalle vette e accentuato dalla foschia che sta salendo. Anche qui, per Friedrich, il vedere diventa il tema vero e proprio del quadro.
«Le bianche scogliere di Rügen» (1818)
Il dipinto Le bianche scogliere di Rügen è uno dei capolavori di Friedrich. È stato scritto molto su questo quadro impressionante, ma solo poche cose si possono affermare con certezza. Tre persone sull’orlo della scogliera scoscesa rappresentano ciascuna una prospettiva diversa: a sinistra, una giovane donna seduta, con un abito marrone rossiccio; al centro, un uomo anziano, che si muove carponi sull’orlo del precipizio; e a destra, un giovane uomo in piedi. La donna si aggrappa con la mano sinistra al cespuglio sul ciglio del pendio e, con la destra sollevata delicatamente, guarda in basso verso il frastagliato abisso bianco che scende fino all’acqua. L’uomo anziano si avvicina con prudenza al ciglio dell’abisso e con inquietudine interiore percepisce le potenti rocce in basso. Il giovane sta in piedi, con atteggiamento sicuro, in un cespuglio e appoggia le spalle al tronco di un albero. Sta a braccia conserte, i suoi occhi spaziano lontano sul mare. Così vede il rosso tenue del sole che si riflette sull’acqua e medita, quasi immobile, su questa grandiosa visione della natura. Tre persone, tre sguardi, tre stupori: se ne può dare un’interpretazione?
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ISRAELE E PALESTINA, LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Le radici di quello che rappresenta uno dei più complessi conflitti del mondo intero, affondano già nella prima metà del Novecento. Ascolta il podcast.
Werner Busch cerca di chiarire l’enigma: «Molti elementi fanno pensare che la donna rappresentata alluda a Caroline (la moglie di Caspar David) e che il dipinto sia anche un ricordo del loro primo viaggio a Rügen e dell’esperienza di quelle bianche scogliere. Si può ipotizzare che Friedrich si sia raffigurato al centro e che l’uomo in piedi a destra rappresenti suo fratello minore. Secondo altri, invece, Friedrich avrebbe rappresentato sé stesso due volte, per dimostrare le diverse forme di appropriazione e di visione. Ma questo sarebbe un caso unico tra i dipinti dell’artista. Sembra allora più logico vedere l’origine del quadro in un ricordo personale del pittore, ma poi tener conto del suo procedimento abituale con cui mira a una trascendenza in prospettiva religiosa o politica». Si potrà quindi affermare che «le due figure a sinistra si preccupano delle cose terrene e nella terza figura si allude al superamento di tale preoccupazione. […] In questo dipinto, per mezzo della sua configurazione estetica, torna a nascere la speranza»[5].
«Due uomini che contemplano la luna» (1819)
In questo quadro si incontrano due artisti amici. Sono forse Johan Christian Claussen Dahl e Caspar David Friedrich? Essi stanno in piedi su un pendio, nella penombra. La luna, relativamente luminosa, è davanti alle nubi, ma è oscurata da un colore opaco. Il suo bordo si staglia più luminoso, e l’ambiente circostante ne irradia il bagliore. Questo enfatizza il suo effetto. Così viene caratterizzata l’origine della diffusione della luce del quadro. Friedrich aveva una grande capacità di orientare l’espressione generale dell’immagine con velature più o meno forti, come ha fatto in questo caso. Ecco perché il quadro nel complesso è così scuro. Ma spesso, nella vita e nella pittura di questo artista, molte immagini vengono offuscate dal suo stato d’animo per alcuni periodi e in misura sempre maggiore.
Nel suo animo, Friedrich spesso collega tra loro metafore religiose e politiche. Il suo percorso di vita conduce al dipinto passando per un albero spoglio a destra e uno sempreverde a sinistra. I teologi vi scorgono un simbolo della morte e della promessa della vita eterna. Per questo, la luna crescente al centro viene spesso interpretata come simbolo di Cristo. «È l’estetica che, nel senso di Schleiermacher, è la mediazione verso Dio, a cui però non si può accedere direttamente. Un’estetica religiosa invece di un’ortodossia religiosa. In altri termini, la religione naturale dell’Illuminismo viene sostituita da una religiosità estetica. E questo è l’elemento propriamente romantico dell’arte di Caspar David Friedrich»[6].
«Il monaco in riva al mare» (1810)
Nel 1810 Friedrich dipinge un quadro, forse il più ardito tra i suoi dipinti: Il monaco in riva al mare. Per mesi, questa opera fu per lui causa di tormento. Nelle descrizioni dei visitatori del suo studio, il quadro appare continuamente diverso. Prima è notte, poi giorno. Prima ci sono molte barche sul mare, poi Friedrich le cancella e le dipinge di nuovo. Il quadro di grande formato rimane per mesi sul cavalletto, e settimana dopo settimana sembra diventare sempre più radicale. Alla fine rimane solo il monaco, con 19 gabbiani che lo sovrastano e lo circondano. Un po’ di sabbia, molta acqua, e poi il cielo infinito, che sembra inghiottire tutto come una voragine.
Quando Goethe vede questo quadro[7], ne avverte l’«apertura», ma la percepisce solo come un pericolo, e non come l’espressione più ardita e moderna dello smarrimento nel tempo presente. Nel 1975, Robert Rosenblum riprenderà l’immagine del quadro come copertina del suo classico Modern Painting and the Northern Romantic Tradition, e darà al libro il sottotitolo Friedrich to Rothko. L’opera, nata nell’estate del 1810, era diventata l’inizio della pittura astratta.
Il monaco in riva al mare è un quadro che rappresenta un uomo disperato. Il cielo cupo pesa impietosamente sulle spalle del monaco solitario sulla riva dell’acqua scura: egli si trova sperduto su una piccola duna di sabbia ai margini della riva oscura. «Mai in precedenza il dubbio su Dio, la nullità dell’individuo e il suo smarrimento di fronte alle forze primordiali della natura erano stati rappresentati in un modo più intransigente»[8].
Ma come viene espressa, in questo dipinto, la vanità dello sforzo umano? Heinrich von Kleist, redattore del quotidiano Berliner Abendblätter, innanzitutto rielaborò radicalmente l’articolo sul quadro di Friedrich che gli era stato presentato da Clemens Brentano e Achim von Arnim, critici nei confronti dell’opera, e, nell’articolo del 13 ottobre 1810, coniò una metafora diventata famosa: «quando lo si guarda, è come se le palpebre fossero state tagliate via». Questa metafora è chiaramente una reazione al motivo insolito della mancanza di cornici laterali nel dipinto del monaco. Il quadro non costituisce quindi un cosmo chiuso in sé stesso, ma ne forza i limiti.
«Sia le affermazioni di Brentano sia il testo di von Kleist sono tra le riflessioni più impressionanti e profonde che siano mai state fatte sui dipinti di Friedrich e sulla sua concezione moderna del paesaggio. Mentre Brentano ha affrontato il tema della nostalgia come aspirazione perenne all’irraggiungibile e il rapporto dell’essere umano con l’infinito, von Kleist, da parte sua, ne ha articolato la visione apocalittica del mondo e il senso di solitudine»[9].
Brentano si avvicina molto di più alle dimensioni paesaggistiche del quadro, in quanto riconosce una certa discrepanza tra forma e contenuto. Von Kleist, rielaborando il testo di Brentano, afferma: «È magnifico gettare uno sguardo su una solitudine infinita sulla riva del mare, sotto un cielo nuvoloso, su uno sconfinato deserto di acqua. Di questo fa parte il fatto che si è andati là, che si deve tornare, che si può andare oltre, che non si può. Di questo fanno parte una pretesa che il cuore ha e una rottura, per esprimermi così, che la natura provoca in una persona. Ma questo è impossibile prima del quadro, e quello che avrei dovuto trovare nel quadro stesso l’ho trovato solo tra me e il quadro, ossia una pretesa che il mio cuore avanzava nei confronti del quadro, e una rottura che il quadro mi ha provocato; e così sono diventato io stesso il cappuccino; il quadro è diventato la duna, ma ciò a cui avrei dovuto guardare con nostalgia, il mare, mancava del tutto»[10].
Gli ultimi anni di Friedrich
Gli ultimi anni della vita di Friedrich furono segnati da un improvviso malore da cui egli fu colpito il 26 giugno 1835. Da quel momento in poi, l’artista fu costretto a rinunciare sempre più spesso alla pittura. In compenso, si dedicò maggiormente alle tecniche del disegno, con cui, per così dire, ritornò alle sue origini artistiche. Numerosi disegni a seppia di grande formato illustrano le sue ambizioni in questo campo.
Il tema della morte e della caducità delle cose attraversa continuamente, come filo conduttore, tutta la sua opera; così si manifesta, nella sua ultima fase creativa, con una concentrazione impressionante. Più volte Friedrich affronta il tema di una tomba aperta in un cimitero, attribuendogli una carica simbolica. Le rappresentazioni di montagne sono un altro tema fondamentale.
Anche la riva del mare rimase per lui un importante punto di riferimento. Così egli realizzò diversi disegni a seppia, in cui rinunciò a raffigurare persone e navi, a favore di vedute notturne suggestive, silenziose, sulla vastità del mare. Che Friedrich fosse in grado di affrontare singole opere di grande formato, lo testimonia il suo grande dipinto Meeresufer im Mondschein («Porto al chiaro di luna»), uno degli ultimi, se non addirittura l’ultimo, tra i suoi quadri.
Friedrich morì il 7 maggio 1840, in conseguenza di un altro ictus. È sepolto nel cimitero della Trinità di Dresda-Johannstadt. La sua opera però è sopravvissuta a lui: anche se dapprima dimenticata, poi, attraverso una lenta riscoperta all’inizio del XX secolo, e in seguito, attraverso una visione e una riflessione sempre più approfondita su di essa, è arrivata a essere una Kunst für eine neue Zeit («arte per una nuova era»), che si estenderà ben oltre le città di Winterthur, Amburgo, Berlino, Greifswald, Dresda e New York.
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[1]. Cfr W. Busch, Caspar David Friedrich, München, C. H. Beck, 2021, 11.
[2]. Cfr ivi, 63.
[3]. Ivi, 64 s.
[4]. Cfr G. Eimer (ed.), Kritische Edition der Schriften des Künstlers und seiner Zeitzeugen I, Frankfurt am M., Kunstgeschichtliches Institut der Johann Wolfgang Goethe – Universität, 1999.
[5]. W. Busch, Caspar David Friedrich, cit., 110 s.
[6]. H. Biklrkholz, Caspar David Friedrich. Katalog «Kunst für eine neue Zeit», Hamburger Kunsthalle, 2023, 202; W. Busch, Caspar David Friedrich, cit., 118 s.
[7]. Cfr J. W. Goethe, Tagebücher 1810-1832, München, Deutscher Taschenbuch Verlag Bd. 44, 1963, 10; 20.
[8]. F. Illies, Zauber der Stille. Caspar David Friedrichs Reise durch die Zeiten, Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag, 107 s.
[9]. B. Verwiebe, Katalog Hamburg 2023, 132.
[10]. W. Busch, Caspar David Friedrich, cit., 57 s. Cfr il catalogo Empfindungen vor Friedrichs Seelandschaft, betrachtet von Clemens Brentano, Achim v. Arnim und Heinrich v. Kleist, in Kleist – Museum, Frankfurt/Oder, 2004, 40 s.
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Terzo anno della guerra in Ucraina
Avviso contenuto: una bandiera ucraina. Sono passati più di due anni da quando, il 24 febbraio 2022, Putin ordinò l’invasione dell’Ucraina, da lui definita «operazione speciale». Il Cremlino, male informato dai suoi generali e dalle sue spie, pensava che impossessarsi di K
Sono passati più di due anni da quando, il 24 febbraio 2022, Putin ordinò l’invasione dell’Ucraina, da lui definita «operazione speciale». Il Cremlino, male informato dai suoi generali e dalle sue spie, pensava che impossessarsi di Kyïv e instaurarvi un governo amico sarebbe stata una passeggiata: in realtà non fu così. Il lungo serpentone di mezzi militari diretti alla capitale e malamente dispersi e attaccati nel loro percorso è diventato il simbolo dell’impreparazione dell’Armata Rossa e della sua inefficienza. La resistenza opposta dall’esercito ucraino, già da allora in parte armato dagli occidentali, fu realmente eroica e collettiva. Putin dovette ridimensionare i suoi obiettivi di guerra, concentrandosi, a fine marzo, soprattutto sul Donbass e sulle regioni meridionali.
Grazie agli aiuti militari e finanziari dei Paesi occidentali, principalmente degli Usa – nonostante l’iniziale resistenza di questi a dare armi potenti e a lunga gittata, per non colpire il territorio russo –, gli ucraini riuscirono a bloccare il colpo di mano di Mosca su Kyïv e a liberare poco alla volta parte del territorio occupato dall’aggressore. Le due grandi controffensive portate avanti vittoriosamente dall’esercito ucraino si sono avute nell’autunno di quell’anno: la prima nella regione di Kherson, la seconda a sud di Kharkiv, entrambe condotte dal settembre al novembre 2022[1]. In particolare, le vittorie nell’area di Kherson, verso sud – che hanno costretto l’esercito russo a retrocedere –, hanno fatto credere che l’avanzata fosse quasi irresistibile e che la liberazione dei territori occupati dai russi fosse possibile: una meta da raggiungere al più presto – si pensava –, anche grazie all’arrivo di nuove e più potenti armi concesse dall’Occidente. «I colpi dietro le linee messe a segno dai missili a media gittata come gli Himars, le incursioni delle forze speciali, i raidnei cieli di Mosca»[2] hanno accresciuto la fiducia degli ucraini, che lottavano per liberare il loro Paese, come pure quella dei sostenitori occidentali, ma allo stesso tempo hanno sottovalutato la forza e la determinazione degli avversari[3].
Questi, infatti, nei mesi successivi si sono impegnati a stabilizzare il fronte. Hanno creato una serie di linee di difesa – scavando trincee, posizionando barriere, utilizzando denti di drago e altro ancora – che successivamente si sono rivelate molto utili nel bloccare l’avanzata degli ucraini. Inoltre, essi hanno rinfoltito i ranghi dell’esercito decimato nei mesi precedenti e, con una nuova mobilitazione di 300.000 uomini raccolti nelle regioni più periferiche della Russia, hanno formato nuove e più aggiornate unità di combattimento, comandate da nuovi ufficiali.
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Da parte ucraina, la cosiddetta «controffensiva di primavera», sulla quale si puntava tanto, anche perché venivano utilizzati reparti militari addestrati dai Paesi della Nato e armamenti e tecnologie di ultima generazione fornite dall’Occidente, si è rivelata, invece, del tutto inefficace. Secondo gli esperti militari, l’esercito non aveva copertura aerea sufficiente (e neppure l’equipaggiamento anti-mine necessario in quella situazione) e, soprattutto, sono stati commessi alcuni errori tattici, come, ad esempio, ostinarsi nella difesa a oltranza della città di Bakhmut, infelicemente definita «città-tritacarne» per l’alto numero di soldati uccisi, che poi fu presa dai russi[4].
Dopo l’estate, la spinta degli ucraini si è arrestata, lasciando ai russi – bene armati di artiglieria, proiettili e uomini – l’iniziativa sul campo. A metà febbraio 2024, dopo due anni di dura battaglia e la perdita di diverse decine di migliaia di soldati, i russi sono riusciti a prendere la cittadina di Avdiivka, estendendo di poco la parte del Donbass militarmente occupata. La ritirata delle truppe ucraine, in questo caso, è stata disastrosa, anche perché non programmata: molti giovani soldati sono stati uccisi durante la ritirata, altri fatti prigionieri[5]. Il primo effetto della caduta di questa cittadina del Donbass è stato soprattutto psicologico, e potrebbe incidere sulla tenuta del morale dell’esercito ucraino, già provato da mesi e mesi di guerra di attrito. Inoltre, la successiva rimozione del popolare generale Zaluzhny, da mesi probabilmente in contrasto con la linea dettata dal presidente Zelensky, ha aperto una crepa tra militari e governo, che è stata certamente «allargata» dopo la disfatta dei soldati ucraini sul campo. Le scelte del nuovo comandante in capo, il generale Syrsky, sembrano aver confermato «la sua fama di ufficiale più attento alle indicazioni politiche che alle condizioni dei reparti»[6]. Secondo gli esperti, la ritirata doveva essere ordinata due settimane prima, quando la situazione sul fronte era già apparsa insostenibile.
Già all’inizio di febbraio, Zaluzhny riteneva inutile la resistenza; il volume di fuoco dell’artiglieria e dei cacciabombardieri russi stava radendo al suolo tutto, mentre il blocco degli aiuti americani ed europei aveva lasciato l’artiglieria ucraina senza munizioni. Il Presidente gli avrebbe imposto di proseguire la lotta, con l’unico risultato di lasciare sul campo centinaia di morti e prigionieri. Successivamente Zaluzhny fu rimosso da Zelensky dal suo incarico di capo dell’esercito. In Ucraina egli è però considerato un eroe di guerra e, secondo i sondaggi, ha il 94 per cento del sostegno popolare (recentemente è stato nominato ambasciatore in Inghilterra), mentre Zelensky è calato di diversi punti percentuali.
La tensione tra i due è diventata di dominio pubblico dopo che il generale ha rilasciato, nel novembre del 2023, un’intervista al settimanale inglese The Economist[7]. In essa, egli elencava cosa sarebbe servito al suo esercito per vincere la guerra: un’aeronautica avanzata, equipaggiamenti più sofisticati e un sistema più efficiente per arruolare e addestrare i combattenti. In un altro articolo, pubblicato lo stesso giorno, il generale riconosceva che le aspettative sulla controffensiva ucraina si erano rivelate troppo ottimistiche. «Il generale Zaluzhny – fa notare l’articolo – ammette che la guerra è in una situazione di stallo»[8]. Egli riconosceva, inoltre, che la Russia era tutt’altro che sconfitta e lanciava un allarme: «Una guerra di posizione è una guerra prolungata che comporta rischi giganteschi per le forze armate ucraine»[9]. Queste parole mettevano a nudo una situazione che di fatto non si voleva riconoscere; inauguravano, però, una nuova e più corretta narrativa sulla guerra in corso[10].
L’Usa e l’Ue bloccano i fondi all’Ucraina
L’unico punto fermo della situazione finora è che, dopo due anni di guerra e alcune centinaia di migliaia di morti[11], Kyïv resiste ancora, con determinazione, all’aggressore russo, sebbene la Russia abbia un’economia 15 volte più grande dell’Ucraina e un numero di abitanti tre volte superiore. Inoltre, un fronte lungo 1.000 chilometri, dopo le due controffensive ucraine di cui si è detto, si è mosso ben poco, a parte alcune battaglie sanguinosissime (Bakhmut, Avdiivka) e sostanzialmente poco utili sul piano strategico, vinte da Mosca.
Ambedue le controparti sono impegnate da mesi in una guerra di posizione o di attrito (che ricorda la Prima guerra mondiale), in cui l’esercito russo ha perso più di 200.000 uomini e un quinto della sua flotta nel Mar Nero è stata affondata[12], mentre quello ucraino si trova a corto di munizioni (pare che il rapporto di proiettili sparati negli ultimi tempi sia di uno a 10 a vantaggio di Mosca) e di soldati[13]. A differenza del primo anno di guerra, il ministero della Difesa ucraino ha difficoltà a reclutare nuove leve, sia per la scarsità di giovani – molti giovani ucraini infatti vivono all’estero –, sia perché molti di loro non vogliono andare a combattere al fronte[14], sebbene, secondo un recente sondaggio, l’85 per cento degli ucraini abbia fiducia in un’eventuale vittoria del proprio esercito ed è favorevole a continuare la lotta di liberazione, anche se questa sarà lunga e dolorosa[15].
La situazione dell’Ucraina in questo momento appare fortemente compromessa per il ritardo degli aiuti economici e militari promessi dagli alleati occidentali. Sia gli Stati Uniti sia l’Unione europea hanno difficoltà a fornire aiuti[16]. Washington non riesce a sbloccare alla Camera i 61 miliardi di dollari promessi, a causa dell’opposizione dei repubblicani, che chiedono garanzie in materia di immigrazione. In realtà, è la «fazione» di Trump che per motivi elettorali si oppone alla liberazione dei fondi. Pare che anche alcuni deputati democratici inizino a criticare la politica ritenuta troppo liberale di Biden nei confronti dell’Ucraina. Inoltre, il milione di munizioni promesso dall’Ue nel 2023 è stato consegnato solo in parte (circa 480.000). L’Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri ha dichiarato che entro quest’anno verranno consegnate quelle già previste, e altre ancora[17]. La carenza di munizioni è un problema importante e migliorerà soltanto se l’Europa riuscirà a produrre nuove armi: questione molto dibattuta tra i Paesi dell’Ue e di non facile soluzione.
Ma Kyïv, nonostante l’ottimismo di Biden e la sua tenacia nel difendere la causa ucraina, teme che «l’iperpartitismo» americano e l’opposizione di Trump a continuare la guerra in Europa limiteranno costantemente il sostegno del Pentagono. Ciò, si ritiene giustamente, potrebbe lasciare l’Ucraina completamente dipendente dall’Europa, che sulla guerra ha punti di vista differenti[18]. Va anche notato che l’Europa ha già consegnato buona parte dei suoi armamenti e tutte le munizioni disponibili. Ciò significa che nel medio periodo l’Ue è disponibile a finanziare Kyïv, ma non è in grado di provvedere alle sue richieste in materia di armamenti e di munizionamento. Solo gli Stati Uniti sarebbero in grado di fare questo, come è avvenuto finora. Va però ricordato che gli europei hanno sostenuto massicciamente l’esercito di Kyïv, superando di 44 miliardi di euro l’aiuto militare americano. I Paesi che hanno dato di più sono stati la Germania (17 miliardi di euro) e i Paesi nordici. Il contributo della Francia e dell’Italia è stato invece minimo (0,5 miliardi di euro)[19]. Il 15 marzo i leader delle tre principali potenze europee alleate di Kyïv, cioè la Germania, la Francia e la Polonia, si sono riuniti a Berlino per «mostrare forza e unità di fronte alla guerra della Russia contro l’Ucraina»[20]. Sembra che sia stato deciso l’impegno comune a procurarsi le munizioni di vitale importanza sui mercati mondiali, e non solo in quelli europei, come voleva Macron. Si è inoltre parlato di inviare all’Ucraina anche missili a lunga gittata, sebbene la Germania di Scholz abbia fatto resistenza a dare i suoi Taurus, anche perché queste armi implicherebbero la presenza sul territorio di tecnici europei, con il rischio di estendere il conflitto. Anche gli Usa, naturalmente, parteciperebbero a questa campagna di riarmo, concedendo i loro Atacms (con un raggio di 300 km), sempre negati in passato[21].
Oltre alle forniture militari, per il momento quasi ferme, anche gli aiuti economici per gestire la macchina dello Stato preoccupano il governo ucraino. Serhiy Marchenko, il ministro delle Finanze, ritiene che i partner militari del suo Paese riusciranno a far fronte al budget non militare di 37 miliardi di dollari di quest’anno, ma è preoccupato per ciò che accadrà dopo: «Semplicemente – egli ha detto – non abbiamo avuto garanzie per il 2025»[22].
Alla luce di tutto questo, Putin certamente quest’anno passerà all’offensiva, cercherà di premere il più possibile sulla lunga linea di attrito per occupare qualche pezzetto di territorio, per poi farlo valere in patria come vittoria contro il nemico, giustificando così l’alto numero di soldati uccisi ed eventuali nuove mobilitazioni. Durante il periodo di stallo nei combattimenti, il 29 dicembre 2023, egli ha ordinato un bombardamento a tappeto del territorio nemico, utilizzando razzi e droni di ultima generazione, dimostrando così ai suoi avversari di possedere un arsenale con armi molto avanzate, che riescono a «bucare» lo scudo delle batterie fornite dall’Occidente. Ben 158 tra missili e droni sono stati scagliati contemporaneamente in tutte le città ucraine: quasi il doppio di quelli lanciati nell’offensiva del novembre 2022[23].
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Lo scopo dell’operazione era quello di terrorizzare la popolazione civile e logorare la volontà degli uomini di proseguire la guerra; anche se, come si è detto, la grande maggioranza della popolazione sostiene Zelensky e la sua determinazione a liberare integralmente il Paese. Fatto sta che, mentre l’Ucraina preparava la controffensiva di primavera, che non ha avuto il risultato atteso, la Russia era impegnata a riorganizzare l’esercito, sostituendo i generali e rafforzandolo con nuove leve. Inoltre, si riarmava massicciamente, costruendo nuovi tipi di armi e ammodernando quelle vecchie, e soprattutto riattivando la produzione di materiale bellico. La Russia inoltre ha acquistato un numero considerevole di droni dall’Iran e munizioni di vario tipo dalla Corea del Nord. Tutto ciò in questo momento le dà una certa superiorità militare come potenza di fuoco rispetto al suo avversario.
Ma in futuro, se l’Occidente, che possiede armi, missili e aerei da guerra tecnologicamente più avanzati, decidesse di armare l’Ucraina, le cose cambierebbero. In questo caso, però, molti Paesi europei – tra cui l’Italia – dovrebbero dar fondo al proprio arsenale militare, rinunciando ad assicurare la propria difesa. In realtà, in questo momento Putin intende mostrare i muscoli, in attesa del risultato delle elezioni americane di novembre. Egli spera, con l’aiuto di Trump, di estendere la sua influenza, in un modo o nell’altro, sull’Ucraina, limitando al massimo le presunte mire espansionistiche della Nato.
Va poi ricordato che la guerra tra Israele e Hamas ha segnato una sensibile battuta d’arresto nell’invio degli aiuti statunitensi all’Ucraina. A partire dal fatidico 7 ottobre 2023, l’amministrazione statunitense si è trovata a gestire contemporaneamente due situazioni di conflitto (Ucraina e Gaza), che richiedevano l’investimento di somme ingenti, come di fatto dimostra il pacchetto di aiuti di più di 100 miliardi fermo alla Camera. Negli ultimi mesi, secondo i sondaggi, gli americani ritengono di aver sufficientemente aiutato Kyïv, e vorrebbero bloccare ulteriori invii di denaro e di armi[24]. Per Gaza, in questo momento, anche considerata la situazione umanitaria, pare ci sia un interesse maggiore, anche perché la comunità ebraica degli Usa è molto attiva nel difendere gli interessi di Israele.
L’Ucraina tra stallo e mobilitazione inventiva
Occorre notare che negli ultimi mesi di guerra l’Ucraina, nonostante lo stallo sul fronte, ha conseguito vittorie significative in alcuni settori strategicamente importanti. In primo luogo, ha vinto la battaglia del grano, forzando il blocco russo: il commercio via mare ha raggiunto livelli prebellici. Nel 2023 l’Ucraina ha affondato il 30 per cento della flotta russa nel Mar Nero, con piccoli droni navali manovrati da personale tecnico[25]. Ciò è avvenuto in seguito a un aumento considerevole nella produzione domestica di droni da combattimento, economici ed efficaci. L’Ucraina vanta una dozzina di modelli a lunga gittata, in grado di colpire obiettivi a più di 600 chilometri di distanza. Nel mese di febbraio, ha lanciato una sfida al più importante degli asset militari russi: il controllo dei cieli. In questi ultimi tempi la Russia ha perso più di 15 aerei da combattimento[26]. Il che non è poca cosa, se si considera la superiorità che Mosca vanta in questo settore.
Oltre che al fronte, il governo di Kyïv in questo momento ha vari problemi di politica interna. È un luogo comune affermare che l’Ucraina è in guerra non solo per la propria sopravvivenza, ma anche per il futuro della democrazia in Europa e nel mondo. Il problema però è dato dal fatto che nel Paese la democrazia è al momento sospesa. Le elezioni politiche erano previste per marzo. «È meglio non votare ora – ha dichiarato un funzionario vicino al presidente –; le elezioni sono sempre motivo di divisione. E noi dobbiamo essere uniti»[27]. Inoltre, secondo gli analisti, considerato che in questo momento tra i quattro e i sei milioni di ucraini vivono sotto l’occupazione russa, almeno altri quattro si trovano nei Paesi dell’Ue, un altro milione vive in Russia e altri quattro milioni sono sfollati interni[28], che senso potrebbero avere oggi le elezioni? Ci sarebbero, poi, anche questioni di ordine pubblico da prendere in considerazione: le elezioni generano assembramenti, e questo potrebbe invogliare il nemico a bombardare, con qualsiasi pretesto.
La guerra e la legge marziale hanno ridotto di molto in Ucraina le prerogative del Parlamento, e quindi indebolito il dibattito democratico. Di fatto, il centro dell’attività legislativa non è più l’Assemblea popolare, eletta nel 2019, dove vengono votate soltanto alcune leggi importanti, ma l’ufficio di presidenza di Zelensky. Ciò ha provocato, soprattutto negli ultimi tempi, divisioni anche nella maggioranza che governa, nonché contrapposizioni tra politici e militari di carriera[29].
Guerra di logoramento e guerra offensiva
Sul fronte di guerra, molti strateghi ritengono che è improbabile che Kyïv riuscirà, anche nel lungo periodo, a recuperare tutto il territorio che le apparteneva nel 1991, al momento dell’indipendenza. Ritengono che il conflitto si congelerà lungo linee non molto diverse da quelle attuali[30]. L’Ucraina così verrebbe divisa «fra un’area occidentale – garantita per la sua sicurezza da accordi bilaterali e Nato – e un’area sud-orientale, che graviterà sulla Russia»[31]. In questo caso, si fa esplicito riferimento al cosiddetto «modello coreano», per cui si deporrebbero le armi, per così dire, ma senza arrivare a un vero trattato di pace. Questo tipo di esito non sarebbe una vittoria per Zelensky, che di fatto lo ha sempre respinto. Inoltre, sono sempre meno, sia tra gli alleati sia tra gli osservatori filo-ucraini, quelli che credono ancora in tale progetto, che sembrava realizzabile nella prima fase della guerra[32].
Va però ricordato che sia gli Usa sia alcuni alleati europei, come la Gran Bretagna, la Polonia, i Paesi Baltici, non spingono per una tregua, anche perché la guerra può indebolire la Russia militarmente ed economicamente. Alcuni esperti, infatti, sostengono che una guerra troppo lunga finirebbe col nuocere soprattutto alla Russia, con il rischio di un’implosione del fronte interno, stanco per le troppe morti e per le troppe rinunce[33]. Al momento, però, grazie all’azione della propaganda e della repressione, Putin è stato riconfermato per la quinta volta, come era prevedibile, nelle elezioni presidenziali del 17 marzo, con l’88 per cento dei voti. Le elezioni sono state segnate da alcune proteste ai seggi, con decine di arresti, nonché da code che si sono tenute a mezzogiorno per ricordare Navalny, il dissidente morto in carcere, e dalla presenza di soldati armati nelle cabine elettorali[34]. Il risultato elettorale è stato però anche favorito dal buon andamento dell’economia, nonostante la guerra – e questo è un segnale che le sanzioni occidentali non hanno funzionato come previsto –, e dalla diminuzione dell’inflazione, vero spauracchio dei russi, che è passata dal 7,5 per cento del novembre 2023 al 4 per cento del febbraio di quest’anno. Il collasso finanziario, previsto per la primavera del 2022, non si è verificato. L’economia allora è entrata in recessione, ma la situazione è stata meno grave del previsto e non è durata a lungo[35].
Negli ultimi tempi il Cremlino si muove su più fronti: da un lato, continua gli attacchi, con risultati piuttosto scarsi; dall’altro, ambiguamente, fa ventilare l’idea di una tregua, che gli permetta di presentarsi come vincitore dell’ultima «guerra patriottica». La sua propaganda ha già costruito fittiziamente una narrativa per vantarsi di aver sconfitto l’intera Nato schierata a fianco degli ucraini. Se il conflitto si concludesse ora, Putin potrebbe vantarsi di aver esteso la Russia fino al confine sacro tracciato dal fiume Dnipro[36]. E questa non sarebbe una buona notizia per molti Paesi confinanti e per le democrazie occidentali.
L’esercito ucraino, se vuole uscire da questa situazione di stallo, dovrà passare da una guerra di posizione, che lo sta logorando, a una guerra di attacco, veloce e creativa, come è stata quella della prima parte dell’offensiva. Ma, per far questo, avrà bisogno di più soldati e, soprattutto, di più munizioni e di più armi sofisticate per colpire, a lunga distanza, dietro le linee nemiche; insomma, del convinto sostegno dell’Occidente, della Nato, che in questo momento, come si è detto, per varie ragioni languisce. Ma, purtroppo, anche la prospettiva di un vero negoziato per raggiungere una tregua o un congelamento del conflitto – che coinvolga le parti interessate e altri attori internazionali di primo piano, come gli Usa – per il momento appare lontana.
In una recente intervista alla radiotelevisione svizzera di lingua italiana, papa Francesco è ritornato a parlare della necessità di un negoziato per arrivare, nelle situazioni di conflitto (in Ucraina come a Gaza), alla cessazione delle ostilità. Le sue parole, purtroppo, sono state da più parti fraintese.
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[1]. Cfr «Is Ukraine losing the war against Russia?», in The Economist, 21 febbraio 2024.
[2]. A. Marinelli – G. Olimpio, «Illusioni, sangue, paura. Kiev sta perdendo?», in Corriere della Sera,23 febbraio 2024.
[3]. Cfr I. Bremmer, «Why Ukraine’s stalemate will likely last another year», in Time,16 novembre 2023.
[4]. Gli americani volevano che gli ucraini si concentrassero nel sud del Paese, per spezzare le linee di rifornimento di Mosca tra la Crimea e la terraferma russa con una guerra lampo. I comandanti militari ucraini hanno invece ritenuto che le aspettative americane fossero irrealizzabili, soprattutto perché non avevano copertura aerea, con cui proteggere le unità di terra, e perché lasciavano scoperte altre due importanti direttrici. Gli Usa consideravano fondamentale in quel momento che l’esercito ucraino conseguisse una vittoria militare, sia per confermare gli alleati (che avevano inviato armi e molti dollari), sia per evitare una rovinosa guerra di attrito, come poi di fatto si è verificato: cfr F. Semprini, «Ucraina, a che punto è la guerra», in La Stampa,17 dicembre 2023.
[5]. Cfr G. Di Feo, «La caduta di Avdiivka fiacca Kiev. Mosca punta a spaccare l’Ucraina», in la Repubblica,18 febbraio 2024. Putin, dopo la vittoria, in un’intervista alla Tv russa, ha detto che «se non fosse stato per la posizione degli occidentali, la guerra sarebbe finita un anno e mezzo fa. Ma Kiev non lo ha voluto e non ho idea se lo voglia oggi», e ha affermato che egli sarebbe stato pronto a negoziare. Cfr L. Cremonesi, «Putin festeggia la presa di Avdiivka e bluffa ancora sul dialogo», in Corriere della Sera,19 febbraio 2024.
[6]. G. Di Feo, «La caduta di Avdiivka fiacca Kiev. Mosca punta e spaccare l’Ucraina», cit.
[7] . Cfr «The commander-in-chief of Ukraine’s armed forces on how to win», in The Economist,1° novembre 2023.
[8] . «Ukraine’s commander-in-chief on the breakthrough he needs to beat Russia», in The Economist, 1° novembre 2023.
[9] . Ivi.
[10]. Cfr V. Melkozerova, «I politici e i militari di Kiev in cerca di una strategia», in Internazionale, 15 dicembre 2023, 19.
[11]. Gli esperti Usa hanno stimato che fino ad agosto 2023 sono stati uccisi 75.000 ucraini (il governo di Kyïv riduce di metà questa cifra) e 200.000 russi. Cfr S. Jayanti, «How Ukraine is really doing», in Time,10 febbraio 2024.
[12]. Cfr «Is Ukraine losing the war against Russia?», cit.
[13]. Cfr A. Simoni, «Zelensky a corto di munizioni e uomini. L’allarme dell’intelligence americana», in La Stampa, 13 marzo 2024.
[14]. Pare che diverse pattuglie di militari «rastrellino» giovani uomini per le strade, nelle palestre o all’uscita delle discoteche, come previsto nei regolamenti militari di guerra. Cfr M. Gessen, «La democrazia muore in guerra», in Internazionale, 23 febbraio 2024, 45.
[15]. Cfr «Is Ukraine losing the war against Russia?», cit.; F. Scaglione, «La guerra di logoramento inizia a Kiev», in Limes, n.1, 2024, 132.
[16]. Cfr «Can Europe arm Ukraine – or even itself?», in The Economist, 14 gennaio 2024.
[17]. Va ricordato che, al culmine della controffensiva estiva dell’Ucraina, questa utilizzava circa 7.000 proiettili al giorno, molto più dei russi. «La situazione negli ultimi mesi si è invertita: mentre le forze ucraine sono state razionate a 2.000 proiettili al giorno, i russi ne hanno sparato 5 volte quel numero» (ivi).
[18]. A tale riguardo, il cancelliere tedesco ha detto di voler difendere l’Ucraina finché sarà necessario, e Macron si è detto disponibile a un possibile intervento armato per difendere Kyïv. Questa dichiarazione è stata immediatamente criticata dagli altri Paesi della Nato, in particolare dagli Usa. Il Segretario dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, a tale riguardo ha affermato: «La Nato non ha intenzione di mandare truppe in Ucraina. Essa non è parte del conflitto, né lo sono gli alleati della Nato». Il ministro degli Esteri polacco ha però detto che in Ucraina sono presenti «specialisti militari» dell’Alleanza, senza però indicare a quale Paese appartengano. Notizia che del resto era già nota all’intelligence russa. Cfr G. Agliastro, «Truppe Nato in Ucraina», in La Stampa,12 marzo 2024.
[19]. Cfr «Can Europe arm Ukraine – or even itself?», cit.
[20]. Cfr G. Di Feo, «L’ultima spiaggia: missili a lungo raggio per bloccare i rifornimenti russi», in la Repubblica, 17 marzo 2024.
[21]. Cfr ivi.
[22]. «After two years of war, Ukrainians are becoming pessimistic», in The Economist,22 febbraio 2024.
[23]. Cfr G. Di Feo, «La strategia dello zar: spingere Kiev alla tregua per andare alle elezioni da eroe vincitore», in la Repubblica, 30 dicembre 2023.
[24]. Circa gli aiuti occidentali all’Ucraina, un sondaggio Gallup dell’agosto 2023 ha rivelato che la maggioranza degli americani pensava che il proprio Paese avesse già fatto tanto per l’Ucraina e non riteneva opportuno continuare a inviare armi o dollari, sottraendoli ad altre priorità anche eventuali (come una eventuale guerra con la Cina). In Europa, gran parte della popolazione ritiene, invece, che si debba continuare ad armare Kyïv. Cfr S. Jayanti, «How Ukraine is really doing», cit.
[25]. Cfr L. Cremonesi, «Affondata nel Mar Nero un’altra nave russa. “A Mosca ne restano 5”», in Corriere della Sera, 13 febbraio 2024.
[26]. Cfr P. Brera, «La linea difensiva ucraina trema. Tenaglia russa da sud e da est», in la Repubblica,5 marzo 2024.
[27]. M. Gessen, «La democrazia muore in guerra», in Internazionale, 23 febbraio 2024, 43. La legge marziale, in vigore dall’inizio della guerra, consente al governo di decidere sulle questioni istituzionali più importanti, come le elezioni, o su chi può entrare o uscire dal Paese, e di regolamentare l’attività dei mezzi di informazione.
[28]. Cfr ivi, 44.
[29]. In ogni caso, il Presidente, durante la guerra, ha voluto affrontare anche la questione della corruzione pubblica – vera piaga nazionale, difficile da estirpare –, per combattere la quale sono stati creati organismi centrali di controllo e sono stati allontanati i funzionari pubblici e i politici corrotti.
[30]. Il giornalista statunitense Serge Schmemann ha scritto sul New York Times che gli ucraini dovrebbero cogliere questa opportunità: rinunciare temporaneamente ai territori occupati dai russi ed entrare nell’Ue, ottenendo una tutela di ferro per il futuro.
[31]. M. Dassù, «La posta in gioco a Kiev», in la Repubblica, 27 febbraio 2024.
[32]. Secondo il Time,nel gennaio 2023 solo il 29 per cento degli ucraini voleva negoziare la fine della guerra con la Russia; a novembre dello stesso anno la percentuale era salita al 42 per cento. Cfr S. Jayanti, «How Ukraine is really doing», cit.
[33]. Entro il 2025 la tensione di condurre una guerra potrebbe iniziare a farsi sentire anche per Putin. «I russi potrebbero risentire sempre di più delle mobilitazioni forzate, dell’inflazione e del dirottamento della spesa sociale verso l’esercito». Eppure sperare che il suo regime crolli non ha senso. Putin potrebbe rimanere al potere per anni e continuerà a minacciare la guerra, perché questa gli assicura il potere, e i russi, in questa situazione, non sarebbero disposti a cambiare leader. Cfr «Putin seems to be winning the war in Ukraine – for now», in The Economist, 30 novembre 2023.
[34]. Secondo la Casa Bianca, queste elezioni presidenziali non sono state «né libere, né oneste»: cfr F. Dragosei, «Putin, plebiscito e proteste», in Corriere della Sera, 18 marzo 2024.
[35]. Cfr «Russia’s economy once again defies the doomsayers», in The Economist,10 marzo 2023.
[36]. Cfr G. Di Feo, «La strategia dello zar spingere Kiev alla tregua per andare alle elezioni da eroe vincitore», cit.
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Amnon, Tamar e Assalonne: amore e odio tra i figli di Davide
Avviso contenuto: Giovanni Francesco Barbieri (detto Guercino) “Amnon e Tamar”. Amnon e Assalonne sono due fratelli, ambedue figli del re Davide, possibili avversari nella successione al trono d’Israele. Tamar è sorella di Assalonne e sorellastra di Amnon. Le figure di Amn
Amnon e Assalonne sono due fratelli, ambedue figli del re Davide, possibili avversari nella successione al trono d’Israele. Tamar è sorella di Assalonne e sorellastra di Amnon. Le figure di Amnon e Assalonne sono collocate nel secondo arco narrativo del ciclo di Davide, che comincia in 2 Samuele 7, quando Dio promette al re d’Israele che gli edificherà una casa, cioè una dinastia. Secondo il biblista Jean-Pierre Sonnet, «l’oracolo di Natan, esempio emblematico di oracolo di lunga portata, fa slittare il seguito del ciclo di Davide nella storia della sua “casa” – e quindi delle vicissitudini della sua paternità – ed offre la cornice per comprendere tutto ciò che seguirà»[1]. In particolare, le problematiche figure di Amnon e Assalonne sono presentate dopo il verdetto formulato dal profeta Natan contro Davide a causa dei crimini da lui commessi: «Tu hai colpito di spada Uria l’Hittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti. Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Uria l’Hittita» (2 Sam 12,9-10). In che modo, dunque, la spada, cioè la guerra, imperverserà sulla famiglia di Davide?
Amnon è un uomo malato e spietato, la cui affettività distorta avrà pesanti ricadute sulla casa di Davide, aprendo una lunga serie di conflitti, che si protrarranno durante molti anni. Assalonne, invece, è una figura meno impulsiva rispetto al fratello Amnon. Egli, infatti, coverà lungamente il proprio odio e desiderio di vendetta, fino a contrapporsi drammaticamente al fratello e al suo stesso padre. In tutto questo, Tamar, loro sorella, emergerà come l’unica figura positiva del racconto, che tenterà di mettere un argine alla violenza irrazionale che verrà scatenata.
L’introduzione di Amnon nel racconto
La narrazione comincia con un’esposizione, che introduce i personaggi, le relazioni tra loro e le dinamiche affettive che entrano in gioco: «Dopo queste cose accadde che, avendo Assalonne, figlio di Davide, una sorella molto bella, chiamata Tamar, Amnon figlio di Davide si innamorò di lei. Amnon era così afflitto da cadere malato a causa di Tamar, sua sorella, poiché ella era vergine e agli occhi di Amnon era impossibile farle qualcosa» (2 Sam 13,1-2)[2].
Il primo personaggio a essere nominato è Assalonne. Questi è il terzogenito di Davide, nato da Maacà, figlia del re di Ghesur (cfr 2 Sam 3,3). Assalonne ha una sorella molto bella, il cui nome è Tamar. Successivamente è introdotto nel racconto Amnon, primogenito del re Davide, che è innamorato di Tamar e ne è afflitto. Nella Scrittura, l’amore ha generalmente una connotazione positiva. Il racconto che segue segnerà una rottura e uno stravolgimento dell’uso consueto del verbo «amare». L’affettività di Amnon, infatti, sarà in negativo il motore della narrazione. Il primogenito di Davide appare talmente prostrato e afflitto da questo amore per la sorellastra che ne cade malato[3]. L’amore impossibile per Tamar tortura il primogenito di Davide fino a condurlo alla malattia, perché qualsiasi proposito sembra impossibile da attuare. Il personaggio di Amnon è introdotto nel racconto sotto una luce negativa; il suo amore lascia il lettore inquieto, perché tutti gli elementi forniti dal narratore concorrono a delineare una figura piena di tensioni e brame che potrebbero esplodere da un momento all’altro.
Dall’amore alla violenza su Tamar
Successivamente viene introdotto nel racconto un nuovo personaggio, Ionadàb, che ha la funzione di sbloccare la situazione di stallo interpellando Amnon e offrendogli un piano per avvicinarsi a Tamar: «Egli disse: “Perché tu, figlio del re, sei emaciato ogni giorno? Non me lo vuoi dire?”. Amnon gli rispose: “Tamar, sorella di Assalonne mio fratello, io amo”» (2 Sam 13,4).
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Nel dialogo con Ionadàb, Amnon comunica, nel discorso diretto, la propria interiorità. Infine confessa di amare Tamar, ma la presenta come sorella di Assalonne, non sua. Ionadàb allora propone un dettagliato e articolato piano d’azione che conduca Amnon a incontrare Tamar: «Ionadàb gli disse: “Mettiti a letto e fingiti malato; quando tuo padre verrà a vederti, gli dirai: ‘Permetti che mia sorella Tamar venga a darmi da mangiare e a preparare la vivanda sotto i miei occhi, così che io veda; allora prenderò il cibo dalla sua mano’”» (2 Sam 13,5).
Il suggerimento dato da Ionadàb è che Amnon veda la giovane e che mangi dalla sua mano, in modo da favorire una prossimità fisica che attenui il dolore del primogenito di Davide. Però si può anche sospettare che Ionadàb non sia tanto ingenuo e che abbia in mente un piano machiavellico affinché Amnon ottenga Tamar a ogni costo. Purtroppo, il consiglio di Ionadàb aprirà ad Amnon uno spiraglio per fare qualcosa a Tamar (cfr 2 Sam 13,2). Con la prossimità fisica, agire su di lei non sarà più impossibile. Sarà proprio in virtù del legame familiare che Amnon potrà condurla accanto a sé senza alcun disturbo e senza suscitare sospetti nel re Davide.
Amnon si mette a letto e si finge ammalato (cfr 2 Sam 13,6). Così Davide si reca a visitare il figlio malato, che chiede al padre quanto Ionadàb gli aveva suggerito, cioè che sia proprio Tamar a preparargli due frittelle sotto i suoi occhi. Il re Davide ascolta l’istanza del figlio e si rivolge a Tamar, comandandole di recarsi a casa del fratello per preparargli qualcosa da mangiare (cfr 2 Sam 13,7). Fino a questo punto tutto procede secondo quanto Ionadàb aveva previsto. La scena successiva si svolge nella casa di Amnon. Appena arrivata, Tamar trova il fratello che è coricato nel letto. L’incontro tra i due è carico di tensione. Gli eventi di 2 Sam 13,8 si svolgono su due registri. Da un lato, ci troviamo dinanzi a una scena domestica di vita quotidiana: Tamar prende la farina, la impasta, ne fa frittelle, le fa cuocere; dall’altro lato, tutto avviene sotto gli occhi di Amnon carichi di bramosia. C’è un forte contrasto tra l’ordinarietà delle azioni compiute da un’inconsapevole Tamar e lo sguardo concupiscente di Amnon, che intende fare qualcosa alla giovane.
Quando Tamar porge al fratello ciò che gli ha preparato, Amnon rifiuta di mangiare e con sorpresa ordina di far allontanare tutti dalla sua presenza (cfr 2 Sam 13,9). Rimangono in scena solo Tamar e Amnon, mentre il lettore ha un accesso privilegiato a ciò che avviene tra i due[4]. Rimasto solo, Amnon dà a Tamar un ordine: «“Portami la vivanda in camera e prenderò il cibo dalla tua mano”. Tamar prese le frittelle che aveva fatte e le portò in camera ad Amnon suo fratello» (2 Sam 13,10).
Sono queste le prime parole che Amnon rivolge alla giovane. Egli si esprime attraverso un rude comando. Questo modo di parlare offre una luce ulteriore sulla natura dell’amore di Amnon per Tamar, che non ha nulla di romantico o sentimentale. Egli ordina perentoriamente alla donna di portargli il cibo in camera, affinché lui possa mangiare. In questo modo ottiene quella prossimità fisica, così come era stata suggerita dal progetto di Ionadàb (cfr 2 Sam 13,5). Tamar si ritrova sola alla presenza del fratello. Un’azione improvvisa e brusca di Amnon alza il livello della tensione: «Ma mentre gliele dava da mangiare, egli l’afferrò e le disse: “Vieni, coricati con me, sorella mia”» (2 Sam 13,11).
Da questo momento in poi gli eventi andranno oltre il piano suggerito da Ionadàb: Amnon afferra Tamar, usando la forza. L’azione violenta del primogenito di Davide precede il comando: «Vieni, coricati con me, sorella mia». La passione che Amnon cova dentro di sé, a lungo repressa, ora emerge in tutta la sua forza anche violenta. Amnon chiama Tamar «sorella mia», mentre le chiede di unirsi a lui; il fatto che Tamar sia sua parente stretta non è un ostacolo o un impedimento alla sua bramosia. La risposta di Tamar è drammatica: «Ella gli disse: “No, fratello mio, non farmi violenza; perché non si fa così in Israele; non fare questa viltà/sacrilegio! E io dove andrei con il mio disonore? E tu diverresti uno dei vili/abietti in Israele. Ora parlane al re perché non mi rifiuterà a te”» (2 Sam 13,12-13).
Tamar risponde con un «no!» concitato e angosciato. Così ribadisce la sua opposizione alla richiesta di Amnon e manifesta la sua intenzione di non obbedire a quanto il fratello le comanda. Tamar, inoltre, invita Amnon alla ragione. Egli, infatti, agendo in modo deplorevole, rischia di fare un danno non solo a lei, ma anche a sé stesso. Innanzitutto, Tamar si appella ai legami familiari con un linguaggio fortemente affettivo. Le ultime parole di Amnon erano state: «sorella mia»; adesso Tamar risponde: «fratello mio», affinché Amnon pensi ai legami familiari da proteggere piuttosto che alla propria voglia da soddisfare. Tamar è esplicita: «Non farmi violenza!». Ella ben comprende che Amnon la vuole con brutalità. In effetti, la violenza è già in atto attraverso l’azione del fratello, che la afferra con forza mentre le ordina di giacere con lui (cfr 2 Sam 13,11).
Tamar pone in campo le sue ragioni per fermare Amnon, invitandolo a passare dall’affettività distorta alla sfera della razionalità. Le parole di Tamar sono attraversate dall’angoscia, ma al tempo stesso si rivelano sagge e intelligenti[5]. Ella spiega ad Amnon la natura vile e sacrilega dell’azione che sta per compire, un’azione che non trova cittadinanza in Israele[6]. L’atto che Amnon vuole realizzare si configurerebbe come un vero e proprio sacrilegio, perché romperebbe quei sacri tabù che mantengono e proteggono la struttura della società. Con acume Tamar non presenta al fratello solamente le conseguenze per la propria onorabilità, ma anche gli effetti deleteri che una tale azione potrebbe avere su lui stesso. Non solo Tamar porterebbe il disonore su di sé a causa della violenza, ma anche Amnon metterebbe a repentaglio sé stesso davanti a tutto il popolo, compromettendo il suo futuro di erede al trono. Infine, Tamar presenta l’ultima ragione per cui l’azione di Amnon non avrebbe senso. Infatti, se soltanto il fratello ne parlasse con Davide, il re acconsentirebbe a dargli Tamar. Dunque, non è necessario attuare alcuna violenza per ottenere ciò che Amnon desidera.
In realtà, la legge proibisce relazioni sessuali tra fratello e sorella (cfr Lv 18,9; 20,17; Dt 27,22), ma non sappiamo se tale legislazione fosse applicata al tempo di Davide[7]. Probabilmente Tamar vuole offrire una via di uscita al fratello, un’ultima possibilità, forse irrealistica, perché si eviti la tragedia e Amnon ritorni sui suoi passi. Ella prova disperatamente a guadagnare tempo, includendo un terzo nel confronto, il re Davide. Tamar si esprime in maniera articolata ed elaborata, cercando di persuadere il fratello. Ma alla complessità delle sue parole e dei suoi ragionamenti risponde la violenza bruta e senza parole di Amnon. In un versetto viene presentata tutta la bestialità e la prepotenza di Amnon: «Ma egli non volle ascoltarla: fu più forte di lei e la violentò e si unì a lei» (2 Sam 13,14).
Le parole di Tamar cadono nel vuoto, non hanno effetto, così come erano rimaste inascoltate le parole che Dio aveva rivolto a Caino prima del fratricidio (cfr Gen 4,6-7). Amnon è più forte della giovane donna e la violenta. La sottolineatura dei rapporti di forza tra i due indica come Tamar continui a opporsi con vigore alla violenza, lottando fino a soccombere. Amnon, invece, è ritratto attraverso uno scivolamento progressivo verso il male; il suo amore si mostra sempre più malato. I suoi progetti e i suoi intenti vanno nella direzione del male. Al termine della scena, egli non articola più la parola, non ascolta l’angoscia di Tamar, ma è capace solamente di adoperare la forza bruta e selvaggia contro di lei.
Dall’odio di Amnon all’odio di Assalonne
Con il racconto della violenza la narrazione sembra aver raggiunto il suo acme, ma un’inattesa svolta suscita una nuova complicazione, che rimette in moto la storia facendole prendere una piega, se possibile, ancor più negativa: «Amnon la odiò di un odio molto grande: l’odio con cui la odiò era più grande dell’amore con cui la amò. Le disse: “Alzati, vattene!”. Gli rispose: “O no! Perché questo male che mi fai cacciandomi è più grande dell’altro che mi hai fatto”. Ma egli non volle ascoltarla» (2 Sam 13,15-16).
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Le radici di quello che rappresenta uno dei più complessi conflitti del mondo intero, affondano già nella prima metà del Novecento. Ascolta il podcast.
Amnon adesso odia Tamar. Il narratore sottolinea come sia avvenuto un mutamento considerevole nelle disposizioni interiori di Amnon. Se l’amore di costui per Tamar ha portato a tanta bramosia e violenza, dove condurrà adesso questa smodata quantità di odio che è nel cuore del figlio di Davide? Come spiegare questa svolta emotiva e interiore? Probabilmente Amnon, dopo aver soddisfatto i propri appetiti sessuali, non solo perde interesse per la giovane, ma la odia a causa della resistenza che ella gli ha fatto e a causa della tenacia con cui non ha acconsentito alle sue voglie, rendendogli l’esperienza sessuale dura e meno piacevole di quanto lui immaginasse[8]. Un’altra spiegazione lega l’insorgere dell’odio alla presenza stessa di Tamar, che diventa per Amnon l’accusa vivente dell’infamia che egli ha commesso (cfr 2 Sam 13,12). L’odio di Amnon – da un punto di vista psicologico – può essere anche espressione di una profonda ambivalenza, presente sin dall’inizio in un personaggio come il primogenito di Davide, interiormente agitato e inquieto. Amnon amava la sorellastra, ma questo amore lo aveva portato ad affliggersi e ad ammalarsi, nutrendo non desideri romantici e sentimentali, ma l’intenzione di fare qualcosa alla ragazza. Adesso egli giunge a odiare in modo molto intenso, più forte di un amore già problematico e riprovevole. Dopo la violenza, il primogenito di Davide non nutre sensi di colpa per quanto ha compiuto, ma inizia a odiare Tamar. Questo ribaltamento degli affetti fa emergere ancor più un’interiorità non solo concupiscente, ma anche malata, fatta di potenti sbalzi emotivi e affettivi.
Da un punto di vista narrativo, il contrasto amore-odio è notevole e si esprime anche attraverso il discorso diretto. È la terza volta che Amnon si rivolge a Tamar, e lo fa ancora mediante degli imperativi, senza mediazioni. Mentre in precedenza le aveva detto: «Vieni, coricati con me», adesso le dice: «Alzati, vattene!». Colui che poco prima aveva invitato la giovane ad avvicinarsi, ora la manda via; colui che aveva ordinato a Tamar di coricarsi con lui, adesso le comanda di alzarsi. Gli imperativi di Amnon manifestano sadismo e crudeltà[9]. L’effetto è quello di sottolineare il contrasto amore-odio, che però si esprime all’interno di una stessa personalità violenta e disturbata sin dall’inizio del racconto.
Tamar risponde ad Amnon con un’esclamazione: «No!» (2 Sam 13,16), provando ancora una volta a condurre il fratello alla ragione. Infatti, se Amnon la caccia, per Tamar ne verrà un male persino più grande di quanto subìto attraverso l’abuso sessuale (cfr 2 Sam 13,16). Senza più status giuridico in Israele, infatti, ella rischia di diventare una reietta, non essendo più vergine, né sposata a un uomo, né sposabile. Sebbene il fratello non ascolti le ragioni di Tamar, ella non demorde e non obbedisce al comando di Amnon, il quale usa nuovamente la forza per interposta persona: «Chiamò il giovane che lo serviva e gli disse: “Ti prego, manda via questa e chiudile dietro la porta”. Essa indossava una tunica con le maniche, perché così vestivano le figlie del re ancora vergini. Il servo di Amnon la mise fuori e le sprangò il battente dietro di lei» (2 Sam 13,17-18).
Amnon interpella un giovane servitore e si rivolge a lui educatamente. Neanche verso la figlia del re Davide egli si era rivolto in modo così cortese. Questo contrasto sottolinea come Tamar valga per Amnon meno che un servo. Così si conferma come la ragazza agli occhi del primogenito di Davide non sia stata altro che un mero oggetto attraverso il quale soddisfare la propria brama sessuale. Nelle parole di Amnon, Tamar non è indicata attraverso il nome proprio. Colei che prima della violenza era chiamata «sorella mia» (2 Sam 13,11) ora è semplicemente «questa». Le parole di Amnon esprimono tutto il disprezzo e l’odio maturato e costituiscono per Tamar un’ulteriore umiliazione. In aggiunta, è un servo a cacciare via la figlia di Davide, sprangando le porte affinché ella non possa rientrare (cfr 2 Sam 13,18). Nel v. 18 spicca il contrasto tra la vergine figlia del re, come il narratore definisce Tamar, che indossa una tunica dalle lunghe maniche, segno del suo status, e la condizione di giovane servitore di colui che la caccia via[10]. Ancora una volta Tamar è oggetto di violenza crudele e umiliante. La trasformazione dell’amore in odio e il successivo atto di violenza rendono il personaggio di Amnon più cupo e malvagio, incapace di ascolto e di parole sensate. Ella esprime la sua sofferenza attraverso i segni del lutto, ponendo le ceneri sul suo capo, stracciandosi la tunica, mettendo la mano sulla testa e gridando (cfr 2 Sam 13,19).
A questo punto, fa nuovamente la sua comparsa nel racconto Assalonne, che rivolge la parola alla sorella affranta e disperata, cercando invano di consolarla: «Assalonne, suo fratello, le disse: “Forse Amnon tuo fratello è stato con te? Ora, sorella mia, taci; egli è tuo fratello; non mettere il tuo cuore in questa cosa”. Tamar desolata stette in casa di Assalonne, suo fratello» (2 Sam 13,20).
Assalonne mostra di aver compreso cosa è successo a sua sorella e si esprime non apertamente, ma attraverso parole scelte e misurate. Egli con Tamar non parla di violenza sessuale, ma usa un delicato eufemismo. Inoltre, ricorda alla sorella che Amnon è suo fratello, le chiede di tacere e di non mettere il suo cuore in questa cosa, come se volesse minimizzare la gravità di quanto accaduto[11]. Il linguaggio adoperato da Assalonne è molto affettivo; probabilmente in questo modo egli vuole tranquillizzare e calmare Tamar. Compare due volte la parola «tuo fratello» per parlare di Amnon, e una volta egli chiama la giovane «sorella mia». Se le parole di Assalonne vogliono essere di consolazione, non sortiscono grandi effetti sulla sorella. Infatti, Tamar si ferma a casa del fratello desolata per ciò che è accaduto, ma anche avvilita per un futuro che appare irrimediabilmente danneggiato.
Al momento, il lettore non sa ancora che cosa si nasconda dietro le parole apparentemente serene di Assalonne. Davvero per amore dell’unità familiare egli vuole soprassedere a questa umiliazione inflitta alla sorella? Forse dietro un discorso che può sembrare di facciata egli sta già meditando una vendetta da servire fredda? Gli sviluppi del racconto mostrano le reali disposizioni interiori del terzogenito di Davide: «E il re Davide ascoltò tutte queste cose e ne fu molto irritato[12] e Assalonne non parlò con Amnon né in bene né in male; poiché odiava Amnon perché aveva violato Tamar sua sorella» (2 Sam 13,21-22).
Al termine del racconto, subentra di nuovo il re Davide, che aveva inconsapevolmente favorito l’incontro tra Amnon e Tamar. Davide è venuto a conoscenza di quanto è accaduto: si arrabbia per questo, ma rimane in silenzio, e il narratore non parla di alcun rimprovero o di alcuna punizione del re contro il figlio. Davide si astiene dall’intervenire nella faccenda, e questa sua decisione avrà delle serie conseguenze nel prosieguo del racconto.
Assalonne non parla, non si rivolge ad Amnon, non gli dice nulla. Il silenzio di Assalonne è eloquente e può essere inteso come un’ostilità latente che attende il momento giusto per la vendetta. Il narratore non indica Amnon come fratello di Assalonne, per sottolineare una rottura insanabile, che passa attraverso la non comunicazione tra i due[13]. A questo punto viene rivelato al lettore ciò che Assalonne sente: egli odia Amnon. L’odio, nato poc’anzi nel cuore di Amnon, si è diffuso e ha contagiato Assalonne, portandolo a odiare il fratello. Il narratore rileva ed esplicita i motivi di tale odio: «poiché [Amnon] violentò Tamar sua sorella». In queste parole possiamo scorgere il pensiero assillante che ora invade la mente di Assalonne, il quale non si darà pace fino a quando sua sorella non sarà vendicata. Per il momento tutta l’affettività rimane compressa in Davide, come in Assalonne, fino al giorno in cui la tensione esploderà drammaticamente e irrimediabilmente. Sarà questo odio, lungamente covato dentro di sé, a muovere Assalonne nel seguito del racconto[14].
Dunque, le parole sagge e consolanti che Assalonne rivolge a Tamar sono un velo dietro il quale crescono l’odio e il desiderio di vendetta, che maturano sotto l’apparenza di un discorso che sembra comprensivo verso Amnon e consolatorio verso Tamar. Assalonne, pertanto, è un personaggio che si muove su due binari: uno manifesto e l’altro recondito. Se l’odio di Amnon aveva condotto a un’ulteriore violenza verso Tamar, dove porterà adesso l’odio di Assalonne? L’avversione del terzogenito di Davide per Amnon non sarà più menzionata, ma opererà sottotraccia come motore dell’azione. Assalonne, infatti, non agirà impulsivamente, ma attraverso una vendetta meditata e ben architettata nel tempo; non si darà pace finché non avrà ottenuto giustizia.
Due anni dopo questi eventi, la ritorsione di Assalonne si consuma in una rappresaglia preparata strategicamente con cura e pazienza e che si attuerà invitando l’odiato fratello a un banchetto (cfr 2 Sam 13,23-29). L’ordine che Assalonne dà ai suoi servitori mostra retoricamente la capacità persuasiva del principe: «Vedete, vi prego, quando sarà buono il cuore di Amnon per il vino e io vi dirò: “Colpite Amnon!”, voi allora uccidetelo e non abbiate paura. Non ve lo comando io? Siate forti e coraggiosi!» (2 Sam 13,28).
Assalonne avrebbe potuto chiedere ancora giustizia presso il padre, che precedentemente non aveva punito Amnon, ma decide di vendicarsi con le proprie mani. L’azione di Assalonne può essere intesa come vendetta per ristabilire la giustizia a favore della sorella disonorata, ma al tempo stesso è anche un atto che usurpa al re il ruolo di giudice. Questo omicidio causa la sua fuga (cfr 2 Sam 13,37) e il lungo esilio di tre anni a Ghesur, prima che Davide si plachi (cfr 2 Sam 13,38-39) e Assalonne ottenga di essere reintrodotto a Gerusalemme, per poi dare inizio a un’altra ribellione contro il re.
* * *
Al termine del racconto, può sorgere una domanda nel lettore: dov’è Dio in tutta questa storia? Certamente non è nell’amore malato di Amnon, né nella fredda vendetta di Assalonne. Si trova, invece, nella vittima, in Tamar, immagine dell’agnello innocente annichilito dal male, che porta su di sé il peso dell’irrazionalità dell’umana violenza. Eppure, questa dolorosa vicenda rivela la forza e il coraggio della giovane che risaltano attraverso il contrasto con la meschinità e la debolezza di Amnon.
Se, da un lato, è vero che la voce narrante non offre alcun giudizio sulla vicenda né tantomeno è pronunciata una netta condanna divina per mezzo di un profeta[15], dall’altro lato viene lasciato a chi legge uno spazio per elaborare una propria valutazione di tutto il dramma. Proprio per questo Dio si fa presente anche nella coscienza del lettore, che è chiamato a formulare il suo giudizio sulla storia che gli è stata raccontata, esercitando il suo discernimento per distinguere tra il giusto e l’ingiusto, l’innocente e il colpevole, il bene e il male, scegliendo il primo e rigettando il secondo, per imparare a vivere secondo quella giustizia insegnata dalla Torah.
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[1]. J.-P. Sonnet, L’alleanza della lettura. Questioni di poetica narrativa nella Bibbia ebraica, Roma, Gregorian & Biblical Press – San Paolo, 2011, 152.
[2]. La traduzione dei testi biblici è a cura dell’autore.
[3]. Nei canti d’amore egiziani appare il motivo di colui che è malato d’amore in assenza dell’amata. Nel Cantico dei Cantici, è la donna a definirsi come «malata d’amore» (Ct 5,8) davanti alle figlie di Gerusalemme (cfr T. W. Cartledge, 1 & 2 Samuel, Macon, Smyth & Helwys, 2001, 535). In 2 Sam 13 la malattia d’amore condurrà, però, a esiti funesti.
[4]. Cfr Ch. Conroy, Absalom Absalom!: Narrative and Language in 2 Sam 13-20, Roma, Pontificio Istituto Biblico, 2006, 22.
[5]. Cfr W. Brueggemann, I e II Samuele, Torino, Claudiana, 2005, 298. Il contrasto tra la saggezza di Tamar e la follia di Amnon si rivela un elemento importante per la caratterizzazione del primogenito di Davide, il quale si manifesta sempre più nella sua insensatezza e bestialità.
[6]. Probabilmente Tamar allude alla legge, quando parla dell’infamia della violenza (cfr Dt 22,28-29; 27,22).
[7]. Cfr R. Alter, The David Story. A Translation with Commentary of 1 and 2 Samuel, New York, W.W. Norton & Company, 1999, 268. Per una disamina della questione dell’incesto e dei matrimoni tra fratellastri, cfr P. K. McCarter, II Samuel, New York, Doubleday, 1984, 323 s.
[8]. È l’opinione di R. Alter, The David Story…, cit., 269.
[9]. Dopo aver fatto violenza alla sorellastra, Amnon continua ad affliggere la giovane con una crudeltà che sorpassa la sua lussuria originaria: cfr C. E. Morrison, Berit Olam: 2 Samuel, Collegeville,Liturgical Press, 2013, 173.
[10]. Tamar è umiliata sia da Amnon che dal servo; la principessa è trattata come una comune prostituta: cfr Sh. Bar-Efrat, Narrative Art in the Bible, London, A&C Black, 2004, 270.
[11]. Bar-Efrat ritiene che le parole di Assalonne vogliano camuffare le sue reali intenzioni: cfr ivi, 272.
[12]. La versione greca dei LXX aggiunge: «Ma non volle urtare il figlio Amnon, perché lo amava molto, perché era il suo primogenito».
[13]. Come nel caso del racconto di Caino e Abele (cfr Gen 4).
[14]. Assalonne, infatti, usurperà al padre il ruolo di giudice e vendicherà lui stesso l’onore di sua sorella, preannunciando così la sua futura ribellione (cfr C. E. Morrison, 2 Samuel, cit., 176).
[15]. Come avviene, ad esempio, nel caso del peccato di Davide (cfr 2 Sam 12,7-12).
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Michel Kichka: un fumettista ebreo per la pace in Israele
Avviso contenuto: La copertina di “L’autre Jéerusalem” di Michel Kichka (particolare). In un precedente articolo è stato presentato Naji al-Ali, un fumettista palestinese che nelle sue vignette, già 30 anni fa, chiedeva la fine della guerra[1]. Anche in Israele ci sono fum
In un precedente articolo è stato presentato Naji al-Ali, un fumettista palestinese che nelle sue vignette, già 30 anni fa, chiedeva la fine della guerra[1]. Anche in Israele ci sono fumettisti ebrei impegnati per la pace. Uno dei più importanti è Michel Kichka, nato a Liegi nel 1954 ed emigrato a 20 anni a Gerusalemme. È autore del recente romanzo grafico L’autre Jérusalem[2]. Il volume è l’ultimo di una trilogia in cui Kichka manifesta sia il proprio affetto sia la propria preoccupazione per l’Israele di oggi. Il primo, del 2012, La seconda generazione. Quello che non ho detto a mio padre[3], si presenta come un’autobiografia, ma è anche un drammatico interrogativo dei figli dei sopravvissuti alla Shoah. Il secondo volume, del 2018, Falafel sauce piquante, ha una prima parte in cui Kichka narra la propria vita a Gerusalemme e una seconda che racconta il suo lavoro di fumettista e l’impegno politico per la pace[4]. Infine, nel 2023, L’autre Jérusalem, ancora un testo autobiografico, tenta di rispondere alle domande fondamentali della sua vita: perché disegnare, perché l’umorismo, perché scrivere. L’epilogo è un’analisi inquietante su Israele.
«La seconda generazione»
L’idea de La seconda generazione nasce dal romanzo grafico di Art Spiegelman, Maus[5], che racconta la storia dell’autore sopravvissuto ai campi di concentramento. Kichka confessa di averlo comprato in una mostra e, dopo aver cominciato a leggerlo, non è riuscito a staccarsene prima della fine[6].Egli, tuttavia, sviluppa il racconto in modo diverso. Mentre Spiegelman mette al centro la storia del genitore, sia pure in un atteggiamento critico, Kichka parte dalla propria esperienza di bambino della seconda generazione, per mettere in discussione prima il silenzio del padre sul campo di concentramento e poi la sua trasformazione in testimone pubblico della Shoah. Il volume è in bianco e nero, in modo da riflettere l’atmosfera triste e drammatica del racconto.
Il padre di Kichka, reduce dai campi di concentramento, è l’unico superstite della famiglia. Tornato in Belgio, si sposa e ha quattro figli, ma non racconta nulla della sua storia, salvo qualche fuggevole cenno: «Questa minestra mi ricorda Auschwitz. Sapete perché?». «No, papà». «Perché là non ce l’avevamo!»[7]. Lascia di tanto in tanto trasparire dei segni della Shoah che non si possono nascondere: il numero impresso sul braccio, qualche frecciata ai nazisti («i crucchi»), l’interpretazione dei successi scolastici dei figli come una rivalsa su Hitler[8]. Il sottotitolo del libro, Quello che non ho detto a mio padre, indica la ferita aperta dal silenzio paterno che ha favorito un processo di introspezione culminato, per Michel Kichka, all’età di 55 anni, nella creazione di un romanzo grafico, dove narra la propria storia unita a quella del genitore.
Il padre sa disegnare e dipingere, e lo insegna a Michel: «Il mio amore per il disegno – scrive il figlio – è ereditario ed ereditato. Mi è stato trasmesso nella cucina di casa, […] il cuore della vita familiare»[9]. Durante gli anni di scuola, Michel viene ammirato dal suo professore per l’attitudine al disegno. Più tardi, questi scopre che la sua famiglia, durante la persecuzione, aveva nascosto nella mansarda di casa alcuni ebrei. Dunque, l’insegnante era figlio di uno dei «Giusti fra le nazioni» e aveva a cuore il piccolo ebreo, tanto che gli regalò uno schizzo con il campo di concentramento di Auschwitz e il suo autoritratto. Michel ricorda il Talmud: «Chi salva un uomo, salva il mondo intero»[10]. Alla morte del professore, la famiglia Kichka va al funerale e Michel scopre che il padre non era un ebreo praticante: non solo non frequentava la sinagoga e non sapeva leggere l’ebraico, ma non credeva nemmeno in Dio. Spesse volte aveva detto: «Nei campi non sopportavo i religiosi che imploravano Dio. Se Dio fosse esistito… non sarebbero mai esistiti i campi»[11].
Michel intanto decide di andare a vivere in Israele, dove si laurea in arti grafiche e spedisce al padre la foto del diploma: «È una bella rivincita sui nazisti»[12].
Un’altra vittima della «Shoah»: il suicidio del fratello Charly
A Gerusalemme Kichka conosce Olivia, la futura moglie, e si sposa. All’improvviso gli giunge la notizia del suicidio del fratello minore, Charly. Non l’avrebbe mai immaginato. Prima del funerale, un amico lo va a trovare e gli confida: «Un’altra vittima della Shoah»[13]. Michel non presta subito attenzione a quelle parole, ma poi vi ripensa: possibile che sia una conseguenza della Shoah? E io ne sono immune? Aveva «già sentito parlare della sindrome della “seconda generazione”»[14].
Anche il padre, ormai anziano, è sconvolto dal suicidio: rompe ogni indugio sul silenzio e diventa una narrazione vivente delle traversie nei campi di concentramento. Scrive perfino libri, tiene lezioni nelle scuole, accompagna scolaresche ad Auschwitz e ne diventa un pubblico testimone.
Per Michel è un dramma. L’eccessiva loquacità paterna fa nascere in lui una repulsione per la Shoah. Anche un altro problema lo tormenta, senza dargli pace: perché Charly ha scelto di morire in silenzio? Data la loro fraterna amicizia, perché non gli ha scritto nulla?
In Belgio, nei giorni della tragedia del fratello, c’era stato uno sciopero delle Poste: Charly gli aveva scritto, e la lettera viene recapitata un mese dopo. Finalmente Michel può capire qualcosa. Con il volto imbambolato e con la busta sul cuore esclama: «Charly mi ha scritto!»[15]. Nella lettera il fratello gli confida il proprio fallimento umano, il dramma di un giovane padre incapace di essere guida dei figli; poi conclude con una frase sibillina: «“Mamma e papà sono stati un esempio di vita, ma non è bastato”. Lui, che si era rifiutato di fare il servizio militare perché pacifista, aveva scelto la via più rapida per la sua “soluzione finale”»[16]. La scrittura e il disegno aiutano Michel ad affrontare il trauma: «Sentivo che una parte di me era morta con lui»[17].
Molto tempo dopo, un necrologio speditogli – scherzosamente – dal padre a Gerusalemme, annuncia la morte, avvenuta a Charleroi, di un certo «Michel Kichka», uno zio di cui non si era mai parlato in famiglia. Allora, commenta il figlio, non siamo soli al mondo; e gli nasce il desiderio di conoscere i propri antenati. Viene a sapere che alcuni di essi dalla Polonia si erano trasferiti in Belgio, altri a Londra, altri ancora in Israele. Una tavola ricorda da vicino Il Piccolo Principe di Saint-Exupéry: Michel su un asteroide chiede a suo padre di disegnargli una famiglia[18].
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Prima di morire, il padre vorrebbe che Michel lo accompagnasse una volta ad Auschwitz, o che almeno partecipasse a una delle visite. Ma il figlio non vuole andare lì, bensì a Buchenwald, il campo di concentramento in cui il genitore giunse dopo la marcia della morte, quello dove morì suo padre e dove alla fine egli stesso fu liberato, senza però tornarvi mai[19]. Il romanzo grafico termina con un epilogo in cui Michel finalmente inizia a scrivere di getto La seconda generazione: è la liberazione, è la vita che rinasce.
«Falafel, sauce piquante»
Il secondo volume di Kichka, a colori, con pagine luminose e movimentate, si apre con il suo arrivo in Israele. Il giovane vi era andato un paio di volte: la prima, per trovare la zia Paula che, nel 1932, vi si era trasferita dalla Polonia; la seconda, per lavorare in un kibbutz dove già viveva la sorella Hannah. Dopo un momento di sconvolgimento, l’artista scopre un mondo nuovo: è affascinato dalla terra dei suoi antenati, ammira i paesaggi, visita il Paese, riesce a salire sulla fortezza di Masada per vedere il sorgere del sole sul Mar Morto[20]. Insomma, prende coscienza del suo essere ebreo e del fatto che le sue radici non sono in Polonia o in Belgio, ma in Israele.
La nuova vita incomincia studiando intensamente l’ebraico, con la sorpresa della lingua biblica che dopo 2.000 anni rinasce viva[21]; compila una guida pratica e umoristica per i nuovi emigrati; fa il servizio militare, dove riesce a imporsi come disegnatore nell’esercito e apprende di essere «riservista»[22]; si iscrive alla Bezalel, l’Accademia delle belle Arti di Gerusalemme, una delle più prestigiose scuole d’arte nel mondo. Diventa fumettista, disegna per la stampa, vive da bohémien con la moglie Olivia.
La vita a Gerusalemme sembra inquadrata tra usanze millenarie e modernità. La zia Paula tenta di spiegargli: «In Israele, ciò che vedi non è sempre ciò che pensi»[23].
Qualcuno gli chiede da dove provenga. Dal Belgio, risponde, la mia famiglia era profuga dalla Polonia. Allora, riprende l’altro, sei un ashkenazita. Ma lui riflette, perplesso: «Incredibile! In Belgio ero un ebreo, in Israele sono diventato un ashkenazita!»[24].
Al mercato fa l’esperienza che la pietanza tipica, il falafel, con la salsa piccante regna dappertutto; impara cosa comporti mangiare kosher eche bisogna separare la carne dai latticini. Quando gli viene spiegato che tali prescrizioni vengono dalla Bibbia, Michel rimpiange la baguette col prosciutto rosolato al formaggio[25].
Nel racconto si inserisce la descrizione della società israeliana: vi appare un Paese diverso da quello riportato nei media, spesso ridotto al conflitto israelo-palestinese. Israele era una nazione di pionieri e di sopravvissuti, ma ora è divenuto «un Paese in guerra, che aspira alla pace»[26], in una situazione militarizzata in progressivo peggioramento. Estraneo alla politica, Michel prende coscienza del valore dell’impegno politico. Il battesimo di fuoco avviene nel 1982 con la guerra in Libano, nell’operazione «Pace in Galilea», tristemente famosa per lo sterminio dei rifugiati palestinesi a Sabra e Shatila da parte delle milizie cristiane, sotto gli occhi dell’esercito israeliano. La moglie invece manifesta per la pace contro la stessa guerra, «una guerra di troppo»[27]. Nel febbraio 1983, a Gerusalemme, un altro corteo pacifista: lei fa parte del servizio d’ordine, quando manifestanti di estrema destra assaltano il corteo. Michel, preoccupato, apprende degli scontri in televisione: c’è perfino un morto. Quale la sorte di Olivia? Finalmente lei rientra a casa tardissimo, viva, ma malconcia per le botte ricevute. Da quel giorno nasce una spaccatura, tuttora aperta, nella società israeliana.
Il 4 novembre 1995 viene assassinato Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano, per mano di un ebreo religioso di estrema destra; dopo gli accordi di Oslo del 1992, il dramma segna il non ritorno sulla via della pace: Israele non sarà più il Paese che era e forse non sarà mai quello che avrebbe potuto essere. Inoltre, il terrorismo provoca una virata politica di estrema destra. La paura si insinua anche nella famiglia di Kichka quando i figli fanno il servizio militare in Libano, o sul confine con la Siria, o sulle alture del Golan, scenari ad alto rischio: 12 anni di continue preoccupazioni.
«Dateci una matita e solleveremo il mondo»
Nonostante tutto, Michel non rinuncia ai suoi ideali e, dal 2006, conduce nuove battaglie insieme a Plantu, disegnatore di Le Monde, attraverso la rete «Cartooning for Peace», formata da grafici internazionali impegnati per la pace: si apre un nuovo spazio di dialogo tra i fumettisti di tutto il mondo[28]. Quando Plantu viene intervistato sull’ingenuità di quanti disegnano le colombe per la pace, risponde: «Affatto! Non sono come quelli che rimangono in poltrona senza far nulla. Sono dei disfattisti!»[29].
Gli autori di vignette satiriche sono perseguitati un po’ dovunque. Kichka ne ricorda, nelle vignette, una lunga serie[30]. Rayma, una venezuelana, ha dovuto lasciare il suo Paese natale, poiché ritenuta una prostituta; negli Usa, un veterano del Vietnam è sulla lista nera della Casa Bianca; in Giappone, Norio Yamanoi ha scritto un libro sul conflitto israelo-palestinese ed è malvisto; Kianoush è dovuto fuggire dall’Iran perché suo padre è stato torturato; non capisce coloro che vogliono limitare la libertà di parola[31]; Alì Farzat è fuggito dalla Siria perché uomini di Bashar al-Assad gli hanno pestato le dita a colpi di manganello per impedirgli di disegnare, ma egli non demorde.
Michel ha fatto amicizia con due disegnatori palestinesi, Baha e Khalil, e lavora con loro. A causa dell’Intifada, Baha non ottiene il lasciapassare per la Francia. Kichka deve intervenire personalmente presso il ministro della Cultura. Ora i due, insieme a Plantu, vanno in giro nel mondo per conferenze. I loro proclami: «Dateci una matita e una colomba e noi solleveremo il mondo»; «La libertà di parola fa scorrere l’inchiostro, ma non fa scorrere il sangue»; «La disperazione non giustifica mai il terrorismo»[32]. Baha è nato a Gerusalemme, ma ora vive a Ramallah. Per incontrarsi con loro, deve attraversare il checkpoint e a volte viene trattato come una «bestia»: è un’umiliazione penosa, ma l’accetta per la loro amicizia[33]. Una delle sue glorie è vedersi proibire a Gaza il giornale in cui pubblicava le vignette, e confessa: «Ho criticato la Lega araba, una banda di ipocriti, e anche Hamas, perché sono dei “gangsters”»[34].
Parlando con Khalil, Kichka rimane meravigliato del suo «perfetto» ebraico. «Ho avuto una buona scuola – risponde l’amico –, sono stato 17 mesi in una prigione israeliana per attività politiche considerate illegali». «Una domanda delicata: sei mai stato torturato in prigione?». «Mai, solo una forte pressione psicologica». «Quanto alla nostra pace, penso che la via dovrà passare per un riconoscimento reciproco delle proprie ragioni»[35].
In una conferenza a Marsiglia, con Khalil e Michel, Plantu aveva sostenuto che i fumettisti cercano di costruire ponti con le loro matite. In sala, in prima fila, alcuni indossavano la kefiah per solidarietà con Khalil. Al termine si erano alzati, sventolando una bandiera dei palestinesi. Una signora si era scusata, affermando che non avevano nulla contro gli ebrei o Israele, ma volevano solo sostenere la causa palestinese. Kichka subito aveva ribattuto: «Non è con me che si deve scusare. […] Chi cerca davvero la pace deve essere insieme pro-Palestina e pro-Israele»[36]. Questo era il suo ideale, di cui non aveva mai dubitato: «La fede nell’uomo, nella donna, nell’amore, nella vita e nella pace»[37].
Una lezione all’Accademia
Kichka diventa docente all’Accademia Bezalel nel 1982. Durante uno dei tanti conflitti tra israeliani e palestinesi, uno studente disegna un missile di Hamas che sta per colpire un bambino. Il docente spiega che il disegno è un linguaggio universale: tutti lo possono capire. Quindi, gli dice, tu vuoi rappresentare «vittime innocenti di tutte le guerre, al limite anche un bambino di Gaza sotto un bombardamento israeliano»[38]. Lo studente protesta: si tratta davvero di un missile di Hamas che stava per uccidere il fratello. Il docente si scusa, dicendo che era solo una provocazione: quando un disegno viene pubblicato non appartiene più solo a chi lo ha fatto, ma a tutti, e ognuno può dargli un’interpretazione. In Accademia si valuta la qualità dell’opera, non le idee personali o politiche: «Nella mia classe voi avete una libertà d’espressione assoluta. Io me ne faccio garante»[39]. «Ma allora, obietta uno studente, perché i fumettisti sono tutti di sinistra?». «Forse perché c’è più talento a sinistra?», riprende Michel. «La domanda è legittima, ma è posta male. Il disegno che viene pubblicato è una forma di contro-potere. Ogni artista può contestare l’ordine stabilito che il potere vuole mantenere. Una società senza artisti è una società senz’anima. Non dimenticate che uno dei primi provvedimenti di Hitler è stato quello di chiudere la scuola di arte e disegno Bauhaus»[40]. Il posto di un artista, in qualsiasi società, è quello di far sognare e, facendo sognare, traccia una via perché ogni persona trovi il proprio posto nella collettività.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ISRAELE E PALESTINA, LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Le radici di quello che rappresenta uno dei più complessi conflitti del mondo intero, affondano già nella prima metà del Novecento. Ascolta il podcast.
Il volume termina in modo quasi blasfemo. Kichka ha appena concluso una conferenza, una settimana dopo l’eccidio di Charlie Hebdo, dove un caro amico ha perso la vita. Per lui è un’occasione per farne memoria. Tornando a casa, un tassista gli fa presente che i disegnatori francesi avevano osato troppo. La risposta di Michel è fulminante: «Le farebbe piacere se io disegnassi il vostro Mosè che fa pipì sulle Tavole della Legge? Questo è brutto, certo, ma non autorizza nessuno a uccidermi con un kalashnikov»[41].
Kichka non è un eroe di Israele, eppure attraverso il suo Falafel sa ironizzare su un mondo purificato da molte ambiguità.
«L’autre Jérusalem»
«La mia prima lingua è stata il disegno»[42]. Così apre il terzo volume della trilogia, a colori e più movimentato del precedente.
Da piccolo, Michel è affascinato dai dipinti di Bruegel: lo aveva conosciuto grazie a un quadro riprodotto su una scatola di biscotti. Il pittore sapeva raccontare gli abitanti di paese e i bambini, la bellezza del grottesco e del quotidiano: non gli interessava dipingere i quadri di corte e di Chiesa e aveva laicizzato l’arte[43]. «Era un maestro e io mi riconoscevo in lui. […] Non capisco perché lo si è qualificato un “primitivo fiammingo”: i suoi bei paesaggi sono quelli della mia infanzia in Belgio, così diversi da quelli di Israele»[44].
Da bambino Michel ha avuto un incidente: è stato travolto da un’auto mentre rincorreva il pallone per strada. Con un braccio rotto e una gamba ingessata, ha dovuto passare quattro mesi fermo in casa: non poteva fare altro che disegnare. Allora ha capito che il suo futuro sarebbe stato il disegno: «Forse, alla fine, devo ringraziare chi mi ha investito!»[45].
Il primo lavoro importante è stato quello di disegnatore d’attualità in uno studio televisivo. Libero di esprimersi, ma anche prudente nel modo, perché il disegno è un rischio e occorrono equilibrismi. Cinque anni di lavoro in televisione sono stati terribili al tempo di Sharon e Arafat: attentati, l’Intifada, kamikaze nelle nostre città, sui bus, nei mercati; vittime da tutte le parti.
La copertina di “L’autre Jérusalem” di Michel Kichka.
Una volta ha disegnato Sharon che giocava con un tank e un elicottero, e Arafat che aveva in braccio una piccola nave mentre guardava storto l’avversario, ma ambedue ritratti come bambini in mutande[46]. In un altro fumetto, Arafat in poltrona, su uno sfondo di rovine, legge indifferente il giornale; Sharon, invece, in dimensioni lillipuziane, cammina imbarazzatissimo sotto lo sguardo dei giudici del tribunale de L’Aia, illustrati come giganti[47]. Michel confessa di non essere mai stato censurato, ma sempre sostenuto, anche quando avallava idee non condivise da tutti.
La pandemia
Disegnando, Michel era partito, senza saperlo, alla ricerca di sé stesso, appoggiato dalla moglie Olivia. Ora svolge un’analisi personale sul suo lavoro, sulle sue scelte, sulla famiglia, ma soprattutto sull’avvenire inquietante di Israele.
L’occasione del terzo volume è il dilagare del Covid in Israele, imponendo a tutti quasi due anni di reclusione. Allora, a Gerusalemme, non si potevano fare più di cento passi intorno alla propria casa; occorreva indossare dovunque la mascherina. Le strade erano deserte, non circolavano le auto, non volavano più gli aerei. Nulla può fermare il virus: «Non le campagne di sensibilizzazione, non i checkpoints nei territori occupati, e nemmeno il grande muro di separazione con i palestinesi»[48]. Anche il primo ministro Netanyahu «politicizza la crisi sanitaria per ottenere l’immunità parlamentare e sfuggire ai processi. […] “Dio ha donato la manna agli Ebrei, io ho dato il vaccino Pfizer al popolo di Israele… Io ho vinto il virus… I palestinesi sono terroristi antisemiti che vogliono buttarci a mare… La polizia e la giustizia cospirano contro di me. Vogliono la mia pelle”»[49]. Intanto il virus si propaga dappertutto, nonostante «Bibi» si ritenga una delle figure più importanti di Israele, «addirittura un personaggio biblico»[50].
Kichka, si è già detto, fa parte di «Cartooning for Peace», che riunisce una quarantina di fumettisti. Purtroppo, a loro non si è mai unito un solo palestinese e nemmeno un ebreo ortodosso. I palestinesi sarebbero «collaborazionisti» agli occhi dei connazionali. Eppure, se pubblicassero con loro, avrebbero una maggiore libertà: i vignettisti sono più aperti al dialogo rispetto ai loro governanti. Indovinatissima qui l’immagine di Handala, disegnato di spalle, con la matita in mano: il bambino palestinese grida «Basta alla guerra!» e attende l’indipendenza della Palestina[51]. Anche i rabbini radicali non autorizzano i disegnatori ebrei a unirsi al gruppo: pubblicano solo nei loro giornali e convincono le persone che sono già convinte.
Il laico Kichka
Alla fine, Kichka ci tiene ad affermare la propria laicità e rivela la tendenza dell’uomo moderno a considerare Dio come un rivale. Certo ve lo spingono gli ebrei ortodossi, che vedono Dio dappertutto e lo nominano a qualsiasi proposito. L’espressione «Con l’aiuto di Dio» ritorna in tutte le occasioni: belle e brutte, liete e tragiche, facendo di Dio «un banale militante di destra»[52].
Il fumettista si diverte ad accennare ad alcuni episodi degli ultraortodossi. Per celebrare i 3.000 anni del re Davide, la città di Firenze decise di offrire a Gerusalemme una copia del celebre Davide di Michelangelo. Alla notizia, i fanatici assediarono il consiglio comunale di Gerusalemme per respingere l’offerta. Il Davide di Michelangelo, nudo e per giunta nemmeno circonciso, non poteva essere esposto nella Città Santa. Meglio il David di Verrocchio, che però era vestito con una sorta di gonnellino. Di fronte alla statua, un ortodosso chiede all’amico: «Tu sei certo che sotto abbia le mutande?»[53].
«I nostalgici del passato biblico attendono la venuta del Messia, che giungerà il giorno in cui i laici, gli agnostici e gli atei avranno ritrovato la fede. Ma una cattiva sorpresa attende il Messia: la porta dorata, per la quale deve entrare a Gerusalemme, è stata murata dai musulmani nel XVI secolo»[54].
A Gerusalemme si trovano vicini, in poche centinaia di metri, il Santo Sepolcro e la spianata delle Moschee, che è anche il Monte santo dell’antico Tempio con il Muro occidentale. Sarcastico il commento di Kichka: «È il Triangolo delle Bermude dei monoteismi»[55]. Lì si incontrano, infatti, le tre grandi religioni abramitiche.
Ovviamente gli immigrati in Israele sono di destra e di sinistra, il che – a parere di Michel – non vuol dire molto: sarebbe meglio precisare che alcuni si sentono «più ebrei», altri «più israeliani». Le tradizionali 12 tribù sono ridotte a due. La moglie di Michel riassume così: «Dovunque si può essere “ebrei”, solo qui si può essere “israeliani”»[56].
Una vera febbre religiosa colpisce il Paese: il conflitto territoriale tra israeliani e palestinesi è divenuto una guerra di religione. Gli ultraortodossi, rifiutando la soluzione «due popoli, due Stati», finiscono per proporre uno Stato binazionale, a cui nemmeno loro credono, e dove i palestinesi sarebbero cittadini di seconda classe[57]. È la negazione della Dichiarazione d’indipendenza del 1948: questa «definisce Israele uno Stato ebraico e democratico. Ma i fanatici teocratici vogliono rinunciare alla “democrazia”: per loro religione e Stato non si possono separare, perché la religione è lo Stato. Le ossa di coloro che hanno firmato la Dichiarazione nel 1948 si rivoltano nelle tombe. Ma io lotto perché non sia lettera morta»[58].
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[1]. Cfr G. Pani, «Handala, il bambino palestinese che disse basta alla guerra», in Civ. Catt. 2024 I 327-338.
[2]. M. Kichka, L’autre Jérusalem, Paris – Barcelone – Bruxelles ecc., Dargaud, 2023.
[3]. Id., La seconda generazione. Quello che non ho detto a mio padre,Milano, Rizzoli Lizard, 2014 (or. Deuxième génération. Ce que je n’ai pas dit à mon père, Paris – Barcelone – Bruxelles ecc., Dargaud, 2012).
[4]. Cfr Id., Falafel sauce piquante, ivi, 2018.
[5]. A. Spiegelman, Maus, Roma, I Fumetti di Repubblica – L’Espresso, 2006 (or. New York, Pantheon, 1986). L’autore sceglie delle maschere per i suoi personaggi: quella dei topi per gli ebrei, dei gatti per i tedeschi ecc.
[6]. Cfr F. Louwagie,Témoignage et littérature d’après Auschwitz, Leiden – Boston, Brill – Rodopi, 2020, 314.
[7]. M. Kichka, La seconda generazione…, cit., 9 s.
[8]. Cfr ivi, 22. Nella vignetta c’è un grosso punto interrogativo sul fumetto di Michel.
[9] . Ivi, 39.
[10]. Ivi, 46.
[11]. Ivi, 50.
[12]. Ivi, 54.
[13]. Ivi, 57.
[14]. Ivi.
[15]. Ivi, 67. C’è perfino il cane, in basso a destra del divano, che gioisce con Michel e in un fumetto sogna un osso tutto suo.
[16]. Ivi, 69.
[17]. Ivi, 71.
[18]. Cfr ivi, 78.
[19]. Cfr ivi, 95.
[20]. Cfr M. Kichka, Falafel…, cit., 11. Masada è una fortezza erodiana vicina al Mar Morto, dove gli ebrei avevano resistito valorosamente ai romani fino al 73 d.C., quando, vedendo vicino la fine, si erano dati la morte a vicenda. Le giovani reclute militari fanno a Masada il giuramento di fedeltà, al grido «Mai più Masada cadrà!».
[21]. Cfr ivi, 25. Viene qui ripreso un quadro di Gustave Doré che rappresenta Mosè con le tavole della legge.
[22]. Cioè di essere richiamato in servizio in caso di emergenze e, di tanto in tanto, per gli addestramenti.
[23]. M. Kichka, Falafel…, cit., 4.
[24]. Ivi, 27. «Ashkenazita», cioè «germanico», è detto l’ebreo proveniente dai Paesi del Nord Europa, mentre «sefardita» è quello di origine spagnola (la Sefarad medievale è la Spagna).
[25]. Ivi, 31.
[26]. Ivi, 34. Kichka riprende alcuni quadri di Magritte, revisionati per la propria situazione di soldato nell’esercito.
[27]. Ivi, 52.
[28]. Cfr ivi, 75.
[29]. Ivi.
[30]. Ivi, 75-77.
[31]. Cfr ivi, 76.
[32]. Ivi, 78.
[33]. Cfr ivi, 79.
[34]. Ivi.
[35]. Ivi, 80.
[36]. Ivi, 81.
[37]. Ivi, 74.
[38]. Ivi, 82.
[39]. Ivi, 83.
[40]. Ivi, 82 s. La Bauhaus era una scuola d’arte fondata da Walter Gropius a Weimar, nel centro della Germania. Vi parteciparono anche Le Corbusier e Oscar Niemeyer. Fu trasferita a Berlino nel 1930 e tre anni dopo fu chiusa. La scuola si proponeva di servire «l’uomo nuovo» attraverso l’arte, il disegno, l’architettura. Era divenuto un rifugio per gli artisti di avanguardia.
[41]. M. Kichka, Falafel…, cit., 86.
[42]. Id., L’autre Jérusalem, cit., 15.
[43]. Cfr ivi, 13.
[44]. Ivi, 13.
[45]. Ivi, 19.
[46]. Cfr ivi, 29.
[47]. Ivi.
[48]. Ivi, 46.
[49]. Ivi, 54.
[50]. Ivi.
[51]. Cfr 63. Si veda G. Pani, «Handala, il bambino palestinese…», cit.
[52]. M. Kichka, L’autre Jérusalem, cit., 66.
[53]. Ivi, 64.
[54]. Ivi, 70.
[55]. Ivi.
[56]. Cfr ivi.
[57]. Cfr ivi, 71.
[58]. Ivi, 74.
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Marilynne Robinson, l’esplorazione di uno spazio teologico
Avviso contenuto: Marilynne Robinson. « Per me, almeno, la scrittura consiste soprattutto nell’esplorare l’intuizione»[1]. Marilynne Robinson, nata a Sandpoint nel nord dell’Idaho nel 1943, è una delle scrittrici statunitensi più importanti della scena letteraria contempor
«Per me, almeno, la scrittura consiste soprattutto nell’esplorare l’intuizione»[1]. Marilynne Robinson, nata a Sandpoint nel nord dell’Idaho nel 1943, è una delle scrittrici statunitensi più importanti della scena letteraria contemporanea, pur avendo pubblicato nell’arco di quarant’anni solo cinque romanzi e una serie di saggi brevi. A partire da Housekeeping[2] del 1980, in successione sono seguiti Gilead nel 2004, Home del 2008, Lila del 2014 e Jack nel 2020. Con Gilead Robinson ha vinto il Premio Pulitzer nel 2005.
Si tratta di una produzione misurata e concentrata a cogliere quanto si muove nel perimetro di alcune vite: al limite estremo, potremmo dire di una vita e di alcuni che con il loro sguardo ce la raccontano. A parte il romanzo di esordio, che fece vincere alla scrittrice il Pen/Hemingway nel 1982, i quattro successivi romanzi ruotano per lo più intorno alla figura di John Ames Boughton – Jack per amici e familiari – e si svolgono in tre dei quattro libri a Gilead, cittadina immaginaria dell’Iowa[3]. A rafforzare il senso della compattezza dell’opera di Robinson vi è la sostanziale coincidenza temporale tra le vicende descritte nel primo, Gilead, e nel secondo, Home (o Casa, nell’edizione italiana del 2011), narrate da due differenti punti di vista.
I quattro romanzi: il primo, «Gilead»
«Ieri sera ti ho detto che forse un giorno me ne andrò, e tu mi hai detto: – Dove? – E io: – A stare con il Buon Dio -. E tu: – Perché? – E io: – perché sono vecchio -. Hai infilato la tua mano nella mia e hai detto: – Non sei tanto vecchio, – quasi che questo sistemasse la questione»[4].
Così esordisce il romanzo Gilead, costruito come una struggente lettera, scritta da John Ames, reverendo congregazionalista settantasettenne, al figlio di sette anni Bobby. Come un Abramo dei nostri giorni, Ames lascia al figlio la storia della famiglia. Come Mosè sul monte Nebo, che vede dall’alto la Terra promessa[5], sa che del piccolo Bobby non vedrà mai la vita adulta; così nel diario gli trasmette gli insegnamenti maturati nel corso della sua lunga vita, trascorsa al servizio della comunità per la quale ha scritto e predicato ogni domenica. Attraverso le annotazioni dell’uomo emerge a contrario il calco della vita della cittadina di Gilead, con il suo ritmo lento, assonnato e provinciale.
Così, un po’ alla volta, il lettore viene informato delle vicende della famiglia Ames, vera stirpe di predicatori, a partire dal nonno, profeta infuocato che si schierò per l’abolizione dello schiavismo prima della Guerra di secessione, austero, intransigente come Giovanni Battista e poi deluso di fronte all’esito di quella guerra sanguinosa, che liberò solo formalmente le persone di colore. A lui si affiancano il padre, ferocemente antimilitarista (e per questo in conflitto con il nonno), e il fratello, geniale ragazzino che per la sua precocità venne mandato a studiare filosofia in Germania e ne tornò ateo. Alle memorie familiari si intrecciano le considerazioni e le riflessioni sul rapporto con la moglie Lila, donna molto più giovane di lui, figura enigmatica che compare all’improvviso nella sua vita regalandogli la paternità inattesa. Verso la metà del diario appare la figura di John Ames Boughton, figlio di Robert Ames Boughton, reverendo presbiteriano, amico fin dall’infanzia di John. Per una vita essi hanno preparato i sermoni per le rispettive comunità ritrovandosi settimanalmente nella casa di Ames. Il loro legame è stato suggellato dall’aver dato ciascuno il nome dell’altro al proprio figlio. La figura di Jack diventa sempre più frequente nelle riflessioni di Ames, il chiaroscuro e l’ambiguità di quest’uomo, ora quarantenne, figlio amatissimo e prediletto, ma al tempo stesso indegno, malato di solitudine. Talentuoso, intelligente, ma anche segnato da una tara di carattere che lo spinge a commettere già giovanissimo piccoli furti, scherzi a volte innocenti, a volte banali e crudeli nei confronti dello stesso Ames, che chiama «papà» con tono canzonatorio, sfidandolo a mantenere silenzi via via più imbarazzati, per non ferire l’amico Boughton con il racconto di ciò che Jack compie.
Un po’ alla volta si scoprono le ragioni che lo spinsero ad allontanarsi da Gilead 20 anni prima e quelle che ora lo hanno indotto a farvi ritorno. John Ames lotta con sé stesso, diviso tra il disagio nutrito verso Jack e l’affetto che nutre per Boughton padre. Jack, uomo indegno e squallido: come relazionarsi a una persona così? Al tempo stesso, come non perdonarlo, visto lo sforzo manifestato per recuperare la relazione con lui e gli insegnamenti del Vangelo predicati per una vita? È una lunga lotta interiore. Non riveliamo le ragioni che hanno spinto Jack a fare ritorno a Gilead, ma sono determinanti per lo scioglimento della tensione tra lui e Ames, al punto che alla fine vi è una scena di benedizione molto potente. La relazione tra questi due uomini – uno padre «putativo» e l’altro figlio «nominale» – ha una scintilla di autenticità, e la benedizione impartita e ricevuta scende su di loro, forse una vita intera vissuta per quel momento.
Tutto il romanzo presenta figure bibliche e si intesse di richiami, a volte impliciti a volte espliciti, di citazioni della Bibbia. Ruota intorno al rapporto tra padri e figli, alla riflessione del legato che gli uni possono lasciare agli altri: «Jack ha detto: – È una cosa invidiabile riuscire a ricevere l’identità dal proprio padre»[6]. Se John Ames è un novello Abramo, con un figlio avuto in vecchiaia[7], Jack è il figliol prodigo[8], è Giuseppe, il prediletto di Giacobbe, tra tanti figli e figlie[9].
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La forza di questo romanzo è la voce intensa, credibile nella sua fragilità e nella sua autenticità, di un uomo anziano che rilegge la propria vita e ciò che gli accade alla luce della parola di Dio, con un senso di gratitudine ed affidamento, che è la sostanza dell’animo religioso.
Il secondo, «Casa»
Il secondo romanzo, Casa, racconta il ritorno di Jack a Gilead dal punto di vista interno alla famiglia Boughton, in particolare di Glory, la più piccola degli otto figli, rientrata a casa a 38 anni dopo una delusione d’amore. Da qualche settimana accudisce il padre malato e anziano, quando Jack preannuncia il proprio arrivo dopo 20 anni di assenza, ed è lei ad accoglierlo in casa. Il ritorno di Jack è carico di attese, di tensioni, del desiderio paterno di riconciliarsi con il figlio, amato, prediletto, al di là di ogni merito e riscontro. Con Glory lo sguardo sull’uomo si fa più vicino e il lettore, che già conosce molto della sua storia: se ha letto Gilead, ha la possibilità di scoprirne poco alla volta le ferite, le fragilità, il desiderio di cambiamento, le paure.
Il romanzo ha una struttura quasi teatrale, per l’importanza dei dialoghi, che si svolgono spesso all’interno delle mura della casa, in particolare in cucina, oppure nel fienile, luogo simbolo dell’interiorità più profonda e oscura di Jack. L’ombra del passato incombe, e alcune domande poco alla volta catturano il lettore: Jack riuscirà a vincere il marchio d’infamia che lo segue? L’amore del padre potrà guarire il figlio? Il figlio potrà essere all’altezza del suo stesso desiderio di cambiamento? E il reverendo Boughton potrà tollerare un’ulteriore delusione? Il demone della solitudine interiore di Jack, che tanto ha segnato la vita del giovane, potrà dirsi vinto, superato? Il padre è consapevole dei limiti del figlio, lo ama, anche se conosce bene i suoi peccati e accusa sé stesso di non essere stato abbastanza paziente, uomo biblico al tempo stesso conformista e inconsapevolmente razzista. Jack sonda infatti il terreno delle opinioni paterne sulla questione razziale, visto che sono i giorni delle proteste legate alla figura di Rosa Parks a Montgomery, i cui echi arrivano a Gilead attraverso il primo televisore.
Mentre scorrono le settimane, Jack si prende cura del giardino della casa e di una vecchia automobile che giace inutilizzata all’interno del fienile. L’uomo scrive lettere alla donna che ama, da cui attende una risposta. La figura biblica di riferimento per Jack, in questo secondo romanzo, è anche Lazzaro[10], il fratello morto e riportato in vita. Jack, come Lazzaro, avvolto in un lenzuolo, lavato, accudito, rivestito. Jack, uomo dei dolori[11], la cui perdita sarebbe la fine di tutta la famiglia. Con un ultimo colloquio Jack vorrebbe rassicurare il padre sullo stato della propria anima, ma la demenza senile in cui l’uomo, sopraffatto dalla stanchezza e dal dolore, è scivolato impedisce l’inganno e diviene strumento di dolorosa verità.
«A casa per sempre, Glory! Sì! – esclamò il padre –, e lei si sentì stringere il cuore»[12]. Così inizia il romanzo. Glory, ovvero la Gloria di Dio, torna ad abitare casa Boughton, la sua presenza accoglie l’arrivo di Jack, figliol prodigo, e dopo il suo passaggio rimarrà nella casa di famiglia, senza cambiare nulla, per farsi custode della memoria. La casa diviene vero tabernacolo[13]. Glory è la costante presenza che accudisce Jack, lo ascolta, lo sostiene, piange per lui. Il gesto che caratterizza Jack è il coprirsi il volto con le mani, o gli occhi con i palmi delle mani; per Glory è piangere quando sente le parole e il dolore di Jack. È la sorella biblica che lava il corpo del fratello «defunto». È veramente una funzione teologica.
Il terzo, «Lila»
Lila, terzo romanzo della trilogia, racconta la storia della protagonista eponima, la seconda moglie di John Ames, il reverendo congregazionalista di Gilead, protagonista del primo romanzo. La vicenda si svolge tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento. Lila cresce nel periodo più buio dell’epoca, dopo la grande crisi finanziaria ed economica del 1929 e la grande carestia che colpì gli Stati Uniti negli anni Trenta[14].
Lila è una bambina «rubata» da una donna di cui si conoscerà solo il soprannome, Doll (in italiano: «bambola»), che la sottrae a un ambiente nel quale è trascurata e negletta, di fatto salvandone la vita. «La bambina se ne stava al buio sui gradini dell’uscio, le braccia strette intorno al corpo per difendersi dal freddo, senza più lacrime e quasi addormentata. Non aveva la forza di urlare ancora, ma tanto non la sentivano e, nel caso, sarebbe stato anche peggio»[15]. Questo l’incipit.
Le due si uniscono a un gruppo di lavoranti girovaghi che vivono del lavoro giornaliero. Al presente sicuro in casa di Ames, come moglie del reverendo (e noi lo sappiamo anche dai romanzi precedenti), si alternano i ricordi. La separazione dolorosa da Doll, il lavoro in un bordello come donna tuttofare, l’invaghimento per un uomo e il folle progetto di rubare un bambino per crescerlo come lei è stata cresciuta, infine la partenza improvvisa da St. Louis e l’arrivo casuale a Gilead, la conducono in un giorno di pioggia a entrare fortuitamente nella chiesa del reverendo Ames per ripararsi. L’ambiente che trova, la luce, le candele, le parole dell’uomo la spingono a fermarsi, la affascinano e la inducono a tornare. Qualcosa scatta da subito tra il reverendo e Lila e, nonostante la differenza di età e la disparità delle condizioni di vita e culturali, nasce un’intesa profonda, che spinge Lila a proporsi come moglie e Ames ad accettare la proposta. Il rapporto è delicato e fragile, perché le durissime condizioni di vita vissute sino a quel momento da Lila la rendono particolarmente suscettibile a tutto ciò che è cura, affetto, tenerezza. Ha vissuto una vita all’insegna delle privazioni e, seguendo l’insegnamento di Doll di non dipendere da nessuno, di non mettersi nelle condizioni di aver bisogno di qualcosa o di qualcuno.
Lila è consapevole della ferita che porta, di non fidarsi di nessuno, perché a sua volta ella non si sente affidabile, meritevole di fiducia. Eppure l’uomo anziano che l’ha accolta in chiesa, nella sua vita e nella sua casa ha parole importanti per lei, soprattutto ha una comprensione e una pazienza che le permettono di stargli accanto senza mentire. Anche il reverendo, d’altra parte, ha le sue ferite: la morte della prima moglie e della figlia durante il parto; una vita di solitudine, e all’improvviso, in vecchiaia inoltrata, l’arrivo di questa donna, che «conosce» e che con la sua schiettezza e profonda esperienza di vita gli restituisce un volto e uno spessore della parola di Dio per lui prima ignoto. Lei insegna a lui a usare parole autentiche. Lui insegna a lei innanzitutto alcune parole fondamentali (come la parola «esistenza»[16]), poi il riconoscimento di alcuni bisogni primari (la cura e la tenerezza), infine la comprensione di alcuni passaggi biblici[17] (anche se è lei a dare spessore esistenziale a essi[18]). Il filo rosso biblico prevalente nel romanzo è questo brano del profeta Ezechiele: «Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato il cordone ombelicale e non fosti lavata con l’acqua per purificarti; non ti fecero le frizioni di sale, né fosti avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse su di te per farti una sola di queste cose e non ebbe compassione nei tuoi confronti, ma come oggetto ripugnante, il giorno della tua nascita, fosti gettata via in piena campagna» (Ez 16,4-5)[19].
Lui ha la consapevolezza che per lei lo stile di vita di moglie di un reverendo è distantissimo dalla vita precedente, della quale sa poco e della quale vuole sapere anche poco, per discrezione e rispetto, non per paura o pretesa di possesso di Lila. Sa che Lila potrebbe decidere di andarsene da un momento all’altro. Poi però Lila rimane incinta e dopo un episodio assai banale (Lila incontra un giovane «disperato» nella capanna dove lei aveva vissuto qualche mese prima di sposarsi con Ames) i due decidono di andare avanti fino al parto. Il bambino nasce: è fragile, sembra che non possa superare le prime ore; in realtà, si scopre che ha una volontà di ferro e una vitalità tenace; così supera i primi giorni e viene battezzato. Con la cerimonia del battesimo il libro termina. È solo nelle ultime pagine, in relazione al battesimo, che vi sono un paio di citazioni indirette alla figura di Jack, che invece è al centro dei primi due romanzi.
In Lila la domanda importante, ricorrente è: «Perché le cose succedono come succedono?»[20]. E poi: c’è la salvezza per chi non conosce le Scritture, per chi non sa nulla di religione? «Cosa avrebbe detto il vecchio, di tutta quella gente nata con più coraggio di quanto avesse modo di usarne, così non le restava che impiegarlo per tirare avanti?»[21]. L’essere senza battesimo è di per sé ragione di condanna?[22]. «Non sarebbe stato giusto punire la gente perché cercava di tirare avanti, gente che in base al proprio metro di giudizio si considerava buona, e doveva dare fondo a tutto il coraggio che aveva per esserlo»[23].
Lila avverte il bisogno profondo, impellente di stare vicino a chi è escluso: a Doll, a Marcelle, a Doane, agli uomini e alle donne che hanno fatto parte della sua vita, a costo di perdersi. Tenera e struggente è la scena in cui lei pensa di potersi «sbattezzare» lavandosi nuovamente nel fiume, per essere vicina a Doll al tempo della risurrezione dei morti[24].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ISRAELE E PALESTINA, LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Le radici di quello che rappresenta uno dei più complessi conflitti del mondo intero, affondano già nella prima metà del Novecento. Ascolta il podcast.
La lettura di questo romanzo è più ardua rispetto ai due precedenti: crediamo per varie ragioni. La prima: le sezioni riflessive sono molto più ampie e il tono della meditazione sulla storia determina un ritmo più pausato e lento. La seconda: nel racconto della vita di Lila non ci sono sorprese o colpi di scena, perché tutto è detto all’inizio, ma lentamente emerge la complessa stratificazione delle motivazioni del suo agire. La terza: è l’esercizio di ascesi che implica (in questo aspetto la scrittura è molto efficace), perché il racconto descrive condizioni di vita estreme, misere, di deprivazione materiale e spirituale nette. È difficile leggere e non rimanere coinvolti nella desolante tristezza che il racconto suscita. Con la consapevolezza che tutto è grazia[25].
Il quarto, «Jack»
Jack è il quarto romanzo, e per ora l’ultimo della serie, se non vi saranno ulteriori puntate. Lo sguardo della scrittrice torna nuovamente sul giovane uomo, dopo la pausa di Lila. Il protagonista è ancora Jack, e per la prima volta il racconto è portato avanti con il suo punto di vista. Per chi ha seguito la vicenda dal primo libro, possiamo dire che Jack coglie il suo omonimo protagonista nello spaccato dei mesi fondamentali in cui la sua vita ha una svolta. Il giovane Boughton si è autoesiliato a St. Louis in Minneapolis e lì conosce Della Miles, giovane insegnante afroamericana di uno dei primi licei per studenti di colore. Complice un ombrello rubato a un barbone addormentato e un abito scuro che gli dà un’aura di rispettabilità, i due si conoscono, e tra loro si apre la possibilità di una relazione. Siamo negli anni Cinquanta del XX secolo: negli Stati Uniti vigono ancora le leggi di segregazione razziale, per le quali sposare o anche solo convivere insieme a un membro di una razza diversa dalla propria è illegale.
La prima parte, che copre circa un quarto dell’intero romanzo, è il racconto delle ore notturne trascorse insieme nel cimitero della popolazione bianca della città. Entrambi vi si trovano rinchiusi per ragioni diverse. È trascorso un anno dal loro primo incontro e da una serata che, per colpa di Jack, è terminata in modo penoso e per lui vergognoso, lasciandogli il segno di una cicatrice sotto l’occhio. Come Lazzaro, o come Amleto, di cui condivide l’animo tormentato, emerge fra le tombe, e la relazione tra lui e Della riprende, con l’acuta consapevolezza dei pericoli che corrono nel frequentarsi. È lei a correre il maggior rischio, perché è una giovane insegnante in un prestigioso liceo per studenti afroamericani e il suo lavoro non sopravvivrebbe allo scandalo della relazione con un uomo bianco. Lui è acutamente consapevole della propria indegnità e della debolezza congenita di cui si sente portatore. Teme, prevede che la ferirà, deludendola e mettendola nei guai. La ragazza, contro tutte le indicazioni perentorie della famiglia, ostacola i tentativi di lui di allontanarsi e ufficializzare il loro rapporto, essi pur non potendo decidono ugualmente di «sposarsi».
In questo quarto romanzo ci sembra che la Robinson non voglia tanto affrontare il tema della predestinazione calvinista, come nel primo e nel secondo romanzo della serie, quanto il punto della colpa, della responsabilità, della possibilità di cambiare. Jack è un uomo logorato dal senso della propria indegnità, corroso dalle abitudini autodistruttive, fortemente convinto di poter produrre solo danni nella vita delle persone, che ha scelto per sé stesso l’aspirazione «all’innocuità». Egli ambisce alla «innocuità» attraverso la via dell’irrilevanza: una scelta dal sapore cristologico[26]. Eppure Della si innamora di lui, della sua anima pura. È il tema dell’anima, che ricorre anche in altri romanzi.
Trilogia o quadrilogia?
La serie è una trilogia o una quadrilogia? Sono possibili varie interpretazioni. Se viene fatto valere il criterio prevalente del luogo della vicenda, ci troveremmo di fronte a una trilogia con un cappello conclusivo. Infatti, solo i primi tre romanzi sono ambientati a Gilead, la cittadina dove tutto ha inizio. Potremmo considerare la serie come una trilogia, escludendo Lila, anche in un altro modo, se prendessimo come criterio prevalente la figura di Jack, quando egli compare in modo significativo dentro la storia o addirittura è protagonista della vicenda. Infine, ed è la scelta che ci pare più rispettosa dello svolgimento dell’opera di Robinson, possiamo considerare l’insieme coma una quadrilogia, uno spazio di esplorazione teologica di alcune grandi questioni di fede cristiana. Ci piace infatti pensare ai quattro romanzi come a uno spazio teologico all’interno del quale ricorrono alcune domande fondamentali: la predestinazione[27], la possibilità dell’uomo di cambiare[28], l’esistenza dell’anima[29], il giudizio finale e la risurrezione[30], la misericordia di Dio e il perdono[31].
Quattro romanzi e quattro prove di abilità narrativa e di maestria stilistica. Ogni romanzo, infatti, si caratterizza anche per uno stile diverso. Con Gilead, la serie si apre nel segno del genere epistolare e diaristico. Segue Casa, che ha un taglio quasi teatrale, giacché centrale per quantità e qualità è il ruolo dei dialoghi, che inoltre si svolgono quasi tutti all’interno della casa, molti dei quali in cucina. Il terzo romanzo, Lila, è quello che più rispetta i canoni del romanzo oggettivo: in terza persona richiama le atmosfere del romanzo inglese dell’Ottocento. Infine, il quarto, con le ampie sezioni di disamina psicologica delle intenzioni e dei moti dell’animo di Jack, assume le cadenze lente dei romanzi psicologici, le sovrapposizioni temporali, la composizione a quadri distinti. Soprattutto per la prima lunghissima parte, che copre quasi un quarto del libro e raccoglie poche ore notturne trascorse da Jack e Della dentro un cimitero, dove si sono ritrovati casualmente dopo un anno di silenzio e un primo appuntamento disastroso per colpa di Jack, esso richiama le atmosfere di alcuni grandi romanzi russi dell’Ottocento.
Libri politici o teologici
Nel caso di Robinson, l’esplorazione narrativa non è solo esistenziale e dei caratteri, ma è anche e in primis teologica. I quattro romanzi della «serie di Gilead» costituiscono uno spazio teologico di investigazione di alcune grandi domande della tradizione cristiana, affrontate in particolare attraverso lo sfondo mentale di Giovanni Calvino, insieme a Lutero e Melantone grande protagonista della Riforma protestante. La scrittura di Robinson è «pesante», nel senso che è ricca di idee e riflessioni. Significativa ci sembra la seguente citazione, tratta da uno dei suoi saggi: «Ho la fortuna di lavorare con molti giovani scrittori di talento. Sono persone stimabili. […] Arrivano da me convinti che i lettori americani non tollerino la presenza di idee nella loro narrativa»[32].
Nel saggio intitolato «Immaginazione e comunità», Robinson tratta il tema della relazione tra immaginazione comunitaria, scrittura narrativa del singolo e relazione di arricchimento reciproco tra l’una e l’altra. Nel contesto più ampio della riflessione che sta conducendo, l’affermazione citata è solo di passaggio, ma ci sembra centrale per comprendere uno degli aspetti rilevanti della sua opera: la pregnanza della riflessione e lo spessore ideale che la narrativa deve avere e che nel ciclo di Gilead certamente sono presenti. Per certi versi la trama è un aspetto secondario, tanto che molti fatti ritornano, solo illuminati da punti di vista differenti. Molto più significativo è il tipo di vita e di pensiero che ciascun carattere reca con sé. «Quando scrivo narrativa, probabilmente tento di simulare il lavoro di integrazione di una mente che percepisce e riflette, attingendo alla cultura, ai ricordi, alla coscienza, alla fede o alle congetture, alle circostanze, alla paura o al desiderio, una mente che plasma l’attimo dell’esperienza e della reazione, e poi le riplasma entrambe sotto forma di narrazione, contrapponendo un pensiero all’altro per ottenere l’effetto di affinità o di contrasto, valutando e razionalizzando, provando compassione, prendendosela a male»[33].
Visto che lo svolgimento della trama nel corpus complessivo dei quattro romanzi coinvolge in modo non secondario la questione razziale, anzi possiamo dire che essa costituisce uno dei grandi motori della vicenda, potremmo chiederci se quelli di Robinson siano romanzi sociali o politici. Se con questi termini intendiamo l’attitudine alla condanna delle condizioni sociali o una presa di posizione «attivista», essi non lo sono, pur non mancando personaggi che dall’una o dall’altra parte della barricata razziale lottano e si impegnano per un cambiamento, in primis il nonno profeta del reverendo John Ames. Oppure, il padre e i fratelli di Della, lui vescovo metodista della Chiesa afroamericana di Memphis. Ad essi la scrittrice affida la parte di sé che ricorda gli anni di Martin Luther King con grande slancio e gratitudine. Sono gli anni di rinascita nel sentimento religioso statunitense, che fu anche tempo di grande impegno civile. A Robinson, lo abbiamo già detto, interessa esplorare teologicamente la vicenda di Jack.
Questo processo di ricerca e di interpretazione avviene anche attraverso un uso massiccio, consapevole e maturo dei riferimenti biblici, che sono abbondanti e importanti in tutti i romanzi. Questi agganci alle Sacre Scritture sono almeno di tre tipi. Ve ne sono molti, soprattutto in Gilead, che sono impliciti, calchi del parlato di un anziano predicatore alla soglia degli 80 anni, che ha meditato, scritto, riflettuto e parlato di Bibbia per tutta la sua vita. Poi vi sono riferimenti già espliciti, in citazioni indirette. Sono figure sia vetero sia neotestamentarie. In Gilead, si può facilmente leggere la figura di Abramo in John Ames: l’uomo che è rimasto solo e vedovo per tutta la vita ottiene inaspettatamente il dono di un figlio in vecchiaia. In Casa, invece, il riferimento più evidente è quello del figliol prodigo e del padre misericordioso, ma anche di Lazzaro[34]. Figura che dev’essere cara a Robinson, vista l’identificazione che la scrittrice opera tra il fratello di Marta e Maria e Jack.
Infine, vi sono citazioni dirette e testuali, soprattutto in Lila, all’interno del quale la citazione di Ezechiele diventa una chiave di lettura e interpretazione fondamentale, per la protagonista, della propria vita e, per il lettore, della storia narrata. Non è solo la presenza delle citazioni o dei personaggi biblici in filigrana a dare il clima religioso complessivo della narrativa della scrittrice. Innanzitutto, l’ambiente stesso della quadrilogia è un mondo di reverendi e pastori: lo sono il padre di Jack, Robert Boughton, le cui orme saranno seguite dal fratello più grande; lo è John Ames, ministro congregazionalista di Gilead, nonché suo padre e suo nonno, figura di profeta battagliero e infuocato, esigentissimo con sé stesso e con gli altri; il padre di Della, vescovo metodista a Memphis; il reverendo battista Hutchison a St Louis, interlocutore del giovane Jack nei passaggi di maggior tormento. Ad arricchire ulteriormente questo paesaggio vi sono i nomi delle sorelle di Jack: Hope, Faith, Grace e Glory, trasparente riferimento a distinte funzioni teologiche, come lo è Glory all’interno di Casa, il secondo romanzo della serie, di cui merita citare il finale. Senza entrare nel dettaglio, possiamo dire che, dal punto di vista dello sviluppo temporale, esso rappresenta il punto cronologico più avanzato della vicenda di Jack a cui come lettori possiamo arrivare. Sia Lila che Jack, che seguono Casa, parlano di periodi precedenti. In quel finale la possibilità di salvezza e di redenzione sembra essere consegnata alle generazioni successive, lasciando al lettore l’impressione (ma è un parere che può stare accanto ad altre chiavi di lettura) che per Jack la sorte di ramingo, inquieto portaguai non si concluda.
I saggi
Una parola sui saggi, che in Italia sono raccolti in due volumi: Quando ero piccola leggevo libri e Quel che ci è dato[35]. Anche solo scorrendo gli indici, si può constatare la poliedricità degli interessi della scrittrice. Complessivamente, questi testi possono essere raccolti in vari gruppi. Una prima serie di saggi riguarda i rapporti tra scienza e religione, in modo particolare tra l’approccio riduzionista delle discipline neurobiologiche, che appiattiscono il mistero della natura umana ad alcune funzioni biologiche e ormonali, e ciò che Robinson definisce l’eccezionalismo dell’essere umano, per il quale ella fa un uso interessante della categoria teologica di «Figlio di Dio» e saggi cristologici che analizzano l’espressione «Figlio dell’uomo» e altri che considerano l’incipit del noto Prologo del Vangelo di Giovanni. Vi è poi una serie di saggi che hanno a tema la giustizia sociale e valorizzano le norme mosaiche poste a tutela della proprietà e a difesa del capitale, contenute nel Deuteronomio. In più di un saggio Robinson le riprende per affermare il valore dell’Antico Testamento, contro la facile condanna, rivolta a questa parte della Bibbia, di essere un testo arretrato, quasi da eliminare. È il cosiddetto «criptomarcionismo», ossia la sotterranea svalutazione dell’Antico Testamento che da più parti ancora viene sollevata ed ebbe la sua massima espressione nell’eresia di Marcione, nel II secolo d. C.
Alla stessa tipologia di saggi appartengono i testi che presentano il valore della liberalità nel pensiero di Calvino. A questo proposito, Robinson afferma che, a suo parere, è possibile distinguere un calvinismo autentico, estrapolabile dagli scritti del teologo di Basilea, dal calvinismo volgarizzato nella nota teoria di Weber, che vede nel pensiero del riformatore svizzero le origini del moderno capitalismo e le ragioni per cui esso si sarebbe sviluppato innanzitutto nei Paesi dotati di quello specifico background religioso. Vi sono poi saggi storici, in particolare dedicati ai fenomeni della rinascita religiosa che si ebbe negli Stati Uniti in due periodi: negli anni Quaranta e Cinquanta del XIX secolo e poi negli anni Venti e Trenta del XX secolo. Secondo la lettura di Robinson, essi costituirono il motore propulsore di movimenti importanti di progresso sociale, avendo a cuore la questione razziale, l’ingiusto trattamento della popolazione afroamericana e la condizione femminile. Vi sono infine i saggi che la scrittrice dedica alla polemica politica, in particolare contro le forme di cristianesimo fondamentalista, che si è affermato negli Stati Uniti negli ultimi anni. Si tratta di un fenomeno che tradisce le radici autenticamente cristiane del Paese e l’equilibrio di dialogo e libertà tra Chiesa e Stato che fu la scelta dei padri fondatori, più volte citati, di svincolare la libertà religiosa dal controllo statale. L’approccio di questi movimenti, invece, interpreta il distacco dello Stato dai valori cristiani, necessario per preservare la libertà religiosa e i credo di tutte le confessioni, come laicismo. Secondo la scrittrice, è proprio l’atteggiamento aggressivo di queste frange fondamentaliste a costringere gli organi dello Stato ad assumere posizioni nette. Nella verve polemica dell’autrice alcuni scritti sembra che vadano contestualizzati al momento della loro stesura, forse anche al momento della lettura, perché alcuni di essi hanno l’andamento dello scritto di occasione. Si ha l’impressione che i dettagli di alcuni riferimenti sfuggano. Ciò non diminuisce l’interesse per le tesi maggiori di questi saggi, che restituiscono il volto impegnato e teoricamente riflessivo di Marilynne Robinson.
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[1]. M. Robinson, «Libertà di pensiero», in Id., Quando ero piccola leggevo libri, Roma, minimum fax, 2018, 20.
[2]. In italiano, con il titolo Padrona di casa, nell’edizione Serra e Riva del 1985; e con il titolo Le cure domestiche, nell’edizione Einaudi del 2016.
[3]. Cfr Id., Quando ero piccola leggevo libri, cit., 219.
[4]. Id., Gilead, Torino, Einaudi, 2017, 3.
[5]. Cfr Id., Lila, Torino, Einaudi, 2017, 268.
[6]. Id., Gilead, cit., 176.
[7]. Cfr ivi, 56.
[8]. Cfr ivi, 75 s.
[9]. Cfr ivi, 253.
[10]. Cfr Id., Casa, Torino, Einaudi, 2017, 188; 244; 249 s. Cfr anche Id., Jack, Torino, Einaudi, 2021, 173.
[11]. Cfr Id., Casa, cit., 323.
[12]. Ivi, 176.
[13]. Cfr ivi, 105; 291.
[14]. È il fenomeno del Dust Bowl, fenomeno di siccità e tempeste di polvere che colpì le aree centrali degli Usa e del Canada tra il 1930-31 e il 1939, dovuto a forme improprie di sfruttamento del terreno e di impoverimento dello stesso per erronee tecniche di coltivazione intensiva. L’ambientazione delle sezioni del racconto dell’infanzia di Lila ricorda il quadro che di quel periodo fece Steinbeck in Uomini e topi.
[15]. Id., Lila, cit., 3.
[16]. Cfr ivi, 77 s.
[17]. Cfr ivi, 130-138.
[18]. Cfr ivi, 235; 237.
[19]. Ivi, 37 s.
[20]. Cfr ivi, 30; 117; 130.
[21]. Ivi, 40.
[22]. Cfr ivi, 102-106.
[23]. Cfr ivi, 271.
[24]. Cfr ivi, 22.
[25]. Cfr ivi, 272; Id., Casa, cit., 276; Id., Gilead, cit., 161; 205 s.
[26]. Cfr Id., Jack, cit., 223 s. Cfr Id., Gilead, cit., 323.
[27]. Cfr Id., Gilead, cit., 155-160.
[28]. Cfr ivi, 159 s.
[29]. Cfr Id., Quel che ci è dato, Roma, minimum fax, 2021, 14 s; Id., Casa, cit., 106 s; 113: Id., Jack, cit., 214.
[30]. Cfr Id., Lila, cit., 270-273.
[31]. Cfr Id., Gilead, cit., 161-171.
[32]. Id., «Immaginazione e comunità», in Id., Quando ero piccola leggevo libri, cit., 49.
[33]. Id., «Libertà di pensiero», cit., 22.
[34]. Cfr Id., Casa, cit., 188; 244; 249 s. Cfr Id., Jack, cit., 173; 223.
[35]. Id., Quando ero piccola leggevo libri, cit.; Id., Quel che ci è dato, Roma, minimum fax, 2021.
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Le elezioni in Indonesia e il futuro della democrazia
Avviso contenuto: Un seggio elettorale durante le elezioni 2024 in Indonesia. Il 14 febbraio 2024, l’Indonesia, il Paese musulmano più popoloso del mondo e la più grande democrazia musulmana, ha avuto le sue quinte elezioni presidenziali e legislative da quando, alla fine
Il 14 febbraio 2024, l’Indonesia, il Paese musulmano più popoloso del mondo e la più grande democrazia musulmana, ha avuto le sue quinte elezioni presidenziali e legislative da quando, alla fine degli anni Novanta, ha abbandonato l’autoritarismo.
Le elezioni presidenziali hanno coinvolto tre coppie di candidati. La prima era composta da Anies Baswedan, ex governatore della capitale Giacarta, e Muhaimin Iskandar, leader del Partito islamico del Risveglio nazionale. La seconda vedeva affiancati Prabowo Subianto, ex generale dell’esercito, e Gibran Rakabuming Raka, sindaco di Solo e figlio del presidente in carica Joko Widodo. La terza era composta da Ganjar Pranowo, ex governatore di Giava Centrale, e Mahfud MD, ex ministro coordinatore per la Politica, gli Affari legali e la Sicurezza.
I risultati ufficiali annunciati il 20 marzo 2024 danno la vittoria a Prabowo Subianto con il 58,6 per cento dei voti. Anies è arrivato secondo con il 24,9 per cento, lasciando Ganjar al terzo posto con il 16,5 per cento.
Prabowo, come lo chiamano gli indonesiani, si era già candidato due volte alla presidenza, nelle elezioni del 2014 e del 2019. In entrambe le occasioni ha perso contro Joko Widodo (noto anche come Jokowi). Al terzo tentativo vincente si è proposto candidando insieme a sé, per la vicepresidenza, il figlio di Jokowi. È quindi destinato a diventare, nell’ottobre 2024, l’ottavo presidente del Paese.
I risultati delle elezioni legislative indicano il perdurare degli schemi tradizionali. Ne sono usciti vincitori i partiti nazionalisti, tra cui il Partito democratico indonesiano di lotta (Pdip), il Partito dei gruppi funzionali (Golkar) e il Partito del movimento della grande Indonesia (Gerindra). A questi in parlamento si aggiungono altri due partiti nazionalisti e tre partiti islamici. Nel complesso, tuttavia, i partiti di carattere nazionalista hanno prevalso su quelli islamici, dal momento che questi ultimi hanno ottenuto non più del 30 per cento dei voti.
Questi risultati suggeriscono che l’Indonesia sia destinata a continuare la sua storia interreligiosa, dove prevale il pluralismo religioso. D’altra parte, sussistono interrogativi concreti sul futuro della sua democrazia[1].
Sviluppo o valori democratici?
Gran parte del dibattito, durante la campagna elettorale, si è concentrato sull’impatto delle manovre del presidente Jokowi sul futuro democratico dell’Indonesia. Quando giunse per la prima volta sulla scena politica, egli fu acclamato come un volto nuovo. Titolare di una fabbrica di mobili, aveva iniziato la sua carriera politica come sindaco di Solo. Pur non provenendo da una delle famiglie politiche affermate nel Paese, si conquistò in breve tempo i cuori di molti con le sue visite improvvisate ai mercati e alle bancarelle alimentari. Nel 2012, il suo partito, Pdip, lo candidò alle elezioni governative di Giacarta. Ne uscì vincitore e affascinò gli abitanti della capitale con le sue capacità nel problem solving. La sua popolarità aumentò vertiginosamente. Quasi da un giorno all’altro, egli diventò il politico più popolare dell’Indonesia.
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Quando si è candidato alla presidenza nel 2014, Jokowi ha coltivato l’immagine del rappresentante della gente comune indonesiana. Invece che sul consueto apparato politico oligarchico, la sua campagna si è basata sulla mobilitazione della base tramite una vasta rete di volontari. In quanti consideravano le sue umili origini, la sua esperienza lavorativa con persone di diverse estrazioni religiose ed etniche e il suo impegno verso le piccole comunità si faceva strada la speranza che la sua vittoria avrebbe inaugurato una nuova era di crescita democratica.
In netto contrasto, Prabowo era visto come un candidato che rappresentava un ritorno all’era autoritaria. Era l’ex genero del defunto dittatore Suharto e un comandante delle Forze speciali, con una dubbia reputazione in materia di diritti umani. Sebbene Prabowo neghi costantemente le accuse, i militanti per i diritti umani hanno incolpato la sua unità di aver rapito attivisti favorevoli alla democrazia quando il Paese ha attraversato la sua turbolenta transizione verso la democrazia, alla fine degli anni Novanta.
Di conseguenza, la vittoria di Jokowi alle elezioni presidenziali del 2014 e del 2019 è stata vista e salutata come un trionfo per il futuro democratico dell’Indonesia. La sua reputazione è salita ulteriormente alle stelle grazie alle opere infrastrutturali su larga scala portate a compimento sotto la sua amministrazione, pure nelle isole esterne, che erano state a lungo trascurate. Anche l’economia è cresciuta in modo significativo. Non c’è da stupirsi che, durante i suoi due mandati, il suo indice di popolarità sia rimasto superiore all’80 per cento.
Molti osservatori e attivisti per i diritti umani, tuttavia, hanno ripetutamente denunciato il disinteresse di Jokowi per le questioni relative ai diritti umani e ai valori democratici. Durante il suo mandato sono rimasti irrisolti vari casi passati di violazioni dei diritti umani, sebbene le vittime e le loro famiglie avessero manifestato ripetutamente davanti al palazzo presidenziale, per più di 17 anni. Destava preoccupazione anche il numero crescente di ex militari cooptati nella sua amministrazione, come pure la criminalizzazione dei dissidenti.
All’indomani delle elezioni del 2019, Jokowi ha voluto Prabowo nel suo governo. Dopo un’accesa competizione elettorale, che ha polarizzato il Paese attorno alla divisione nazionalista-religiosa, egli ha nominato Prabowo suo ministro della Difesa. L’ex rivale si è subito trasformato in uno dei più stretti alleati politici.
In vista delle elezioni del 2024, il Pdip ha candidato Ganjar. Inizialmente il governatore di Giava Centrale sembrava pronto a rivendicare il ruolo di successore di Jokowi. Le sue prospettive presidenziali, tuttavia, sono state polverizzate dalla decisione del Pdip di bloccare la partecipazione di Israele alla Coppa del Mondo Under 20 di calcio, prevista per il maggio 2023 in diverse province indonesiane, tra cui Giava Centrale. In qualità di governatore, Ganjar ha proibito alla squadra giovanile di calcio israeliana di giocare nella sua provincia. Questa decisione alla fine ha indotto la Fifa a revocare all’Indonesia l’organizzazione del torneo. Da allora, Ganjar ha perso lo slancio nella corsa presidenziale e non si è più ripreso. Il suo compito è divenuto ancora più difficile quando Prabowo ha rivendicato, con successo, il ruolo di successore di Jokowi.
Non molto tempo dopo la débacle della Coppa del Mondo Under 20, Jokowi sembrava essersi avvicinato a Prabowo, mentre l’ex generale corteggiava suo figlio come compagno di corsa. La sua giovane età, tuttavia, impediva a Gibran di partecipare alla corsa elettorale, dato che sotto i quarant’anni non era consentito candidarsi alle elezioni presidenziali. Ma il 16 ottobre 2023 la Corte costituzionale – guidata dal cognato di Jokowi e zio di Gibran – ha emanato una sentenza che consentiva di candidarsi alle persone sotto i quarant’anni che avessero esperienza come funzionari pubblici eletti. Gibran è diventato un candidato idoneo in quanto ex sindaco di Solo. Meno di una settimana dopo, Prabowo lo ha annunciato come suo candidato alla vicepresidenza.
La decisione ha suscitato le proteste di accademici e attivisti. Si sono susseguiti dibattiti pubblici e cortei per denunciare quella che veniva percepita come una palese manifestazione di politica dinastica. Tuttavia, gli sforzi profusi per contrastare i piani politici del presidente e impedire l’uso delle risorse statali per sostenere la candidatura di Prabowo si sono rivelati vani. Anche se Jokowi non ha mai espresso apertamente il suo sostegno al candidato alla presidenza, la presenza di suo figlio nel ticket con Prabowo è stata sufficiente per convincere gli elettori che l’ex generale avrebbe portato avanti l’eredità di Jokowi. La coppia Prabowo-Gibran ha così ottenuto la presidenza, sebbene gli oppositori stiano ancora contestando i risultati delle elezioni.
La storia delle elezioni del 2024 mostra quindi che i successi democratici dell’Indonesia rimangono vulnerabili agli intrighi e alle manovre della sua classe politica.
La fragilità del successo democratico dell’Indonesia
Sotto molti aspetti, l’esperimento democratico indonesiano è andato oltre le aspettative. Nella circostante regione del Sud-est asiatico la democrazia è venuta meno in molti casi. La presa del potere da parte dei militari in Thailandia e Myanmar mostra quanto sia precario l’equilibrio degli esperimenti democratici quando vengono minacciati gli interessi dell’establishment. Altri Paesi della regione non hanno nemmeno avviato il processo di democratizzazione. Tanto più risalta la situazione dell’Indonesia, che invece ha una democrazia elettorale consolidata, che dura da oltre 25 anni, malgrado una diffusa corruzione continui a ostacolare il progresso del Paese.
Inoltre, come si è visto all’indomani della «Primavera araba», all’inizio promettente, i Paesi a maggioranza musulmana spesso non riescono a completare la transizione verso la democrazia a causa della forte presenza di pressioni religiose antidemocratiche. Tuttavia in Indonesia gli esponenti islamici sono spesso in prima linea nei movimenti favorevoli alla democrazia, e sono sempre pronti a difendere la libertà religiosa, compreso il diritto delle minoranze religiose a costruire luoghi di culto.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ISRAELE E PALESTINA, LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Le radici di quello che rappresenta uno dei più complessi conflitti del mondo intero, affondano già nella prima metà del Novecento. Ascolta il podcast.
Peraltro, anche la transizione dell’Indonesia verso la democrazia è stata segnata da molti problemi. Le prospettive democratiche erano incerte, dato che il Paese era stato sotto il governo di un singolo uomo forte, un militare, per più di tre decenni. Quando Suharto fu costretto a dimettersi, nel maggio 1998, il Paese era in subbuglio. L’economia era a pezzi a causa della crisi finanziaria asiatica del 1997. Studenti universitari e attivisti pro-democrazia venivano uccisi o fatti sparire. La violenza settaria travolse città e villaggi in tutto l’arcipelago.
Pur in questo contesto, la giovane democrazia indonesiana è sopravvissuta. Nel 1999 vennero indette elezioni libere ed eque, e insieme furono garantite le libertà di stampa e di istituire partiti politici. Da allora il Paese si è presentato regolarmente ad appuntamenti elettorali improntati a una reale competizione. Attualmente le elezioni si svolgono ogni cinque anni e se ne ricava l’impressione che l’Indonesia sia riuscita a rendere la democrazia l’unica scelta possibile.
Pertanto, oggi gli osservatori additano questo Paese come esempio di una transizione democratica riuscita nel contesto di un ambiente ostico. Alcuni addirittura lo definiscono il bastione della democrazia nel mondo musulmano. Tuttavia, molti analisti osservano che il consolidamento democratico dell’Indonesia resta irto di problemi, che si radicano nella maniera in cui questo Paese ha condotto, pur con successo, la propria transizione politica. Nell’immaginario popolare, il processo che ha condotto l’Indonesia alla democrazia è riuscito grazie alla massiccia mobilitazione della società civile. Gli studenti universitari, insieme ai sindacati e ad altri gruppi, hanno organizzato proteste e manifestazioni di massa, fronteggiando anche la repressione da parte delle forze di sicurezza. Questo impegno a favore della democrazia è stato, per molti, l’unica ragione del successo della transizione indonesiana.
Tuttavia il ruolo indiscutibile della società civile rappresenta solo una parte della vicenda. Alla fine, fu l’élite della politica ad abbandonare il vecchio dittatore e a optare per la democrazia, consapevole che, nel farlo, non avrebbe pagato un costo eccessivo. Quelle persone, in altre parole, sapevano che il processo democratico non avrebbe necessariamente comportato la loro rimozione dalla scena politica. Di fatto si può dire che l’esperimento democratico indonesiano ha prevalso, perché le élite politiche costituite intendevano prendervi parte, e ci sono riuscite.
Quindi, come accade anche altrove, la democrazia indonesiana rimane un gioco in cui i quadri dirigenti svolgono un ruolo fondamentale, mentre gli attivisti della società civile vengono spesso ignorati, oppure, anche quando talvolta prevalgono, quei vertici possono ignorarli, senza scontarne troppo le conseguenze in termini elettorali. Le elezioni del 2024 lo dimostrano.
Il ruolo della minoranza cattolica
All’interno di questo panorama politico, i cattolici indonesiani desiderano continuare a svolgere il loro ruolo di cittadini, storicamente attivo. Sebbene rappresentino solo il 3 per cento circa della popolazione nazionale, non sono privi di nobili aspirazioni politiche.
I semi della partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica furono piantati durante l’era coloniale olandese. All’inizio del XX secolo, quando il dominio coloniale degli europei si manifestava sull’arcipelago che sarebbe diventato l’Indonesia, le missioni cattoliche tra gli abitanti locali erano appena iniziate. Non c’erano in pratica cattolici indigeni, tranne che nella Nusa Tenggara Orientale, che fino alla metà del XIX secolo si era trovata sotto il dominio portoghese. Tuttavia, la tenacia dei missionari cattolici olandesi diede immediatamente i suoi frutti. Le missioni cattoliche prosperarono in diverse parti dell’Indonesia. Sebbene il loro numero rimanesse piccolo, questi cattolici indigeni divennero stretti alleati dei futuri leader del movimento nazionalista indonesiano, grazie a un’affinità che derivava dall’aver condiviso una comune moderna educazione occidentale. Pertanto, quando l’Indonesia ottenne l’indipendenza, i cattolici non furono estranei alla vita politica. In effetti, anche se il partito cattolico era ridotto rispetto alle principali compagini politiche nazionaliste e islamiche, i suoi membri godevano di rispetto grazie alla loro rilevanza intellettuale.
L’importanza dell’educazione cattolica nel plasmare le sorti della minoranza cattolica continuò nell’era post-indipendenza. La permanenza di molti missionari occidentali in diverse parti dell’arcipelago portò alla costruzione di un’ampia rete di scuole cattoliche. La loro presenza permise alla popolazione cattolica di continuare a crescere fino a raggiungere circa il 3 per cento della popolazione nazionale, consentendo inoltre a esponenti cattolici di raggiungere posizioni considerevoli nel settore pubblico e in quello privato. Nel corso dei periodi successivi, personaggi di fede cattolica sono stati assegnati a importanti posizioni ministeriali, tra cui quella di comandante delle forze armate. Nell’era democratica, i cattolici hanno militato attivamente anche in diversi partiti politici.
Al centro dell’aspirazione politica cattolica in Indonesia c’era una frase coniata dal primo vescovo nativo del Paese, monsignor Albertus Soegijapranata, gesuita, che esortava i cattolici indonesiani a essere «al cento per cento cattolici, al cento per cento indonesiani».
Le prospettive democratiche dell’Indonesia
All’indomani delle elezioni del 2024, permangono interrogativi sul futuro della democrazia indonesiana. Considerati i trascorsi di Prabowo, gli attivisti per i diritti umani temono che essa andrà incontro a una battuta d’arresto, se non a un vero e proprio crollo.
Tuttavia, come dimostrato dalla storia recente, Prabowo probabilmente costruirà una grande coalizione che coinvolgerà diversi partiti. Anche se avrà una consistente voce in capitolo quanto alla definizione della linea politica, dovrà comunque bilanciare gli interessi concorrenti dei partiti all’interno della sua coalizione. E, a loro volta, quei partiti vigileranno per garantire che Prabowo non si spinga troppo oltre nel tentativo di personalizzare il potere. Su queste basi sembra di poter dire che l’esperimento democratico dell’Indonesia andrà avanti, sebbene i suoi difetti intrinseci continuino a ostacolarne il consolidamento. In un tale ambiente, anche i cattolici potranno avere un loro posto nella vita politica del Paese, in un modo rappresentativo della loro proporzione nella popolazione nazionale. Tra loro, probabilmente, non si troveranno i leader più importanti del Paese, ma essi saranno presenti nei ruoli della vita pubblica.
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[1]. Per i risultati elettorali, si veda https://www.thejakartapost.com/election-2024
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Anglicani e cattolici in cammino verso il futuro: lezioni da Malines
Avviso contenuto: Vescovi della IARCCUM in processione nel chiostro della Cattedrale di Canterbury. Venerdì 15 dicembre 2023, nell’abbazia di Westminster, a Londra, si è celebrato il X anniversario del «Gruppo Conversazioni di Malines»[1]. Rivolgendosi ai presenti e commen
Venerdì 15 dicembre 2023, nell’abbazia di Westminster, a Londra, si è celebrato il X anniversario del «Gruppo Conversazioni di Malines»[1]. Rivolgendosi ai presenti e commentando il lavoro del gruppo nell’ultimo decennio, l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, ha affermato: «È un grande segnale di speranza, per entrambe le nostre comunioni, che un gruppo di teologi cattolici e anglicani possa incontrarsi nel segno dell’amicizia e lavorare insieme per affrontare i disaccordi ancora presenti. L’unità della Chiesa di Cristo è un dono prezioso che tutti noi abbiamo sciupato, e prego che il vostro gruppo continui a prosperare e che contribuisca ad avvicinarci tutti nella fede e nell’amicizia»[2].
Le «Conversazioni di Malines» (1921-26)
Il percorso che ha portato alle «Conversazioni di Malines»[3] degli anni Venti del secolo scorso era iniziato molti anni prima – nell’inverno del 1890 – nell’isola di Madeira, grazie a un incontro casuale tra l’aristocratico inglese Lord Halifax (? 1934) e il sacerdote vincenziano francese Étienne Fernand Portal (? 1926). Quando era uno studente anglicano a Oxford, Halifax era stato attratto dal tractarianismo[4] e poi dal Movimento di Oxford[5], mentre Portal, dopo aver riflettuto per anni sull’anglicanesimo, si era gradualmente convinto che «riunificazione» non poteva essere sinonimo di sottomissione a Roma o di «ecumenismo di ritorno», ma piuttosto di «unione per convergenza»[6]. L’amicizia tra i due uomini crebbe e, grazie al caloroso invito dell’arcivescovo di Malines-Bruxelles, card. Désiré-Joseph Mercier (? 1926), nel dicembre del 1921 presero il via le Conversazioni, ospitate dal cardinale nella sua residenza. Diversi altri teologi anglicani e cattolici furono invitati a unirsi al gruppo mentre programmavano di esplorare le differenze negli ordinamenti della Chiesa – nella dottrina e nella pratica liturgico-sacramentale –, in cerca di una convergenza e, infine, di una risoluzione.
Al centro delle Conversazioni c’erano la rivisitazione della lettera apostolica di papa Leone XIII (? 1903) Apostolicae curae (1896) e la sua dichiarazione di invalidità delle ordinazioni anglicane. Nel 1897, un anno dopo la sua pubblicazione, gli arcivescovi di Canterbury e York risposero con la diffusione di Saepius officio. Curiosamente, prima della promulgazione di quel testo, papa Leone aveva avuto un atteggiamento piuttosto ecumenico e si era mostrato pieno di speranza riguardo a un risanamento delle divisioni tra la Comunione anglicana e la Chiesa di Roma. A Malines, 25 anni dopo l’Apostolicae curae, il card. Mercier capì che era giunto il momento di riesaminare la decisione di Leone XIII contraria alle ordinazioni anglicane, per cui fu felice di ospitare le Conversazioni e ne divenne un convinto sostenitore.
Nella fase di pianificazione, volta a stabilire una metodologia e un modello di lavoro per le prime Conversazioni, Mercier chiese al suo amico benedettino Lambert Beauduin (? 1960), dell’abbazia di Mont César, di assumere un ruolo attivo. La magna carta delle loro discussioni fu il documento di lavoro di Beauduin L’Église anglicane unie, non absorbée. Beauduin aveva proposto il riconoscimento delle ordinazioni anglicane e il rispetto del patrimonio anglicano, nella speranza di un futuro ricongiungimento.
Durante la sua collaborazione con le «Conversazioni di Malines», nel 1925 egli fondò il Monastero di Amay (poi Chevetogne), con una chiara missione ecumenica di ricongiungimento sia con gli ortodossi sia con gli anglicani. Riuscì nell’impresa straordinaria di collegare la sua passione per la giustizia, la fede orientata al sociale e l’ecumenismo, regalando alle «Conversazioni di Malines» una dimensione molto più ampia rispetto all’insistenza esclusiva sulla questione delle ordinazioni anglicane. In questo modo portò alla luce preoccupazioni più profonde riguardo a sacramentalità, discepolato, missione comune e testimonianza.
È impossibile sottovalutare il ruolo giocato dall’amicizia in quelle Conversazioni, anzi, furono proprio i legami di affetto all’interno del gruppo a sostenere e stimolare le riflessioni, e la cerchia di amicizie era in continua espansione. Il legame tra il cardinale e Halifax è ben documentato in una recente lettera del conte di Halifax, suo pronipote, all’arcivescovo di Malines-Bruxelles appena insediato: «Lord Halifax è stato al capezzale del Cardinale e ha ricevuto il prezioso dono dell’anello episcopale di Sua Eminenza. Questo anello è ora incastonato in un calice molto amato a York Minster, dove è regolarmente usato per la celebrazione dell’Eucaristia»[7]. York Minster è una cattedrale anglicana, per cui il simbolismo ecclesiologico dell’anello episcopale di un cardinale incastonato in un calice anglicano, regolarmente usato per l’Eucaristia anglicana, è estremamente significativo e dice molto delle nostre relazioni ecumeniche nel XXI secolo.
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Nei cinque anni delle «Conversazioni di Malines», il card. Mercier tenne informato papa Benedetto XV (? 1922). In seguito, anche papa Pio XI (? 1939) continuò a essere informato dal cardinale riguardo alle deliberazioni che venivano prese[8]. Le «Conversazioni di Malines» degli anni Venti, in quell’epoca pre-ecumenica, erano chiaramente molto in anticipo sui tempi, e sono state spesso considerate antesignane della «Commissione internazionale di dialogo anglicana – cattolica romana» (Arcic), come ha osservato il card. Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la Promozione dell’unità dei cristiani, nella sua lettera al «Gruppo Conversazioni di Malines» in occasione del suo X anniversario: «Diversi decenni prima che il Concilio Vaticano II invitasse i teologi cattolici a impegnarsi nel dialogo ecumenico “con amore per la verità, con carità e con umiltà” (Unitatis redintegratio, n. 11), le “Conversazioni di Malines” riunirono teologi della Chiesa d’Inghilterra e della Chiesa cattolica precisamente a questo scopo. Fortunatamente, presto si assistette a un riavvicinamento più ufficiale tra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana, che culminò nel memorabile incontro tra papa Paolo VI e l’arcivescovo Michael Ramsey a Roma nel 1966»[9].
Alcuni mesi dopo quello storico incontro tra il Papa e l’arcivescovo, nell’ottobre del 1966 Paolo VI scrisse all’arcivescovo di Malines-Bruxelles, card. Léon-Joseph Suenens (? 1996), in occasione del XL anniversario delle Conversazioni, ricordandone il valore ecumenico: «Lo spirito di apertura e di fratellanza cristiana che le ha caratterizzate ha permesso di affrontare le delicate e a volte difficili questioni che separano le due Comunioni, in uno sforzo comune verso la fondazione di unità nel nome della verità e dell’amore»[10].
Le Commissioni internazionali anglicano-cattoliche
Durante il loro incontro nel marzo del 1966, papa Paolo VI e l’arcivescovo Michael Ramsey rilasciarono una «Dichiarazione comune», in cui ringraziavano per la «nuova atmosfera di comunione cristiana tra la Chiesa cattolica e le Chiese della Comunione anglicana»[11]. Il calore con cui fu accolta la delegazione di osservatori anglicani durante il Concilio Vaticano II la rese piuttosto evidente[12]. Quando papa Giovanni XXIII venne a sapere che gli anglicani e gli altri osservatori ecumenici sarebbero stati fatti sedere lontano dall’altare, insistette affinché venissero spostati nella parte anteriore della Basilica. Durante il Concilio, i delegati anglicani si incontrarono regolarmente per pregare insieme con gli altri rappresentanti ecumenici nella chiesa metodista di Ponte Sant’Angelo, vicino al Vaticano, spesso in compagnia di alcuni partecipanti cattolici. Il Segretariato – ora Dicastero – per la Promozione dell’unità dei cristiani ospitò sessioni settimanali per gli anglicani e gli altri osservatori ecumenici, al fine di interpretare e discutere le deliberazioni del Concilio[13].
Una prima riunione della Commissione internazionale anglicana – cattolica si tenne a Gazzada (Varese) nel gennaio del 1967, seguita da una seconda, a settembre, a Huntercombe (Regno Unito), e poi da una terza, alla fine dell’anno, a Malta, che stabiliva una visione e una metodologia per quella che sarebbe diventata la «Commissione internazionale anglicana – cattolica romana» (Arcic). L’Arcic I iniziò il suo lavoro due anni dopo, nel 1970, con nove membri anglicani e nove cattolici. Il gruppo svolse un importante lavoro su «Eucaristia, ministero pastorale e autorità» e pubblicò quattro dichiarazioni condivise e un rapporto finale, pubblicato a Windsor nel 1981[14]. La storica visita di Giovanni Paolo II a Canterbury nel 1982 portò all’istituzione dell’Arcic II che, nell’arco dei suoi oltre vent’anni di attività (dal 1983 al 2005), ha prodotto una serie di documenti importanti. L’Arcic III ha iniziato a operare nel 2011 e ha pubblicato nel 2018 la dichiarazione concordata Camminare insieme sulla strada. Imparare a essere la Chiesa – Locale, regionale, universale. È significativo che questo testo sia stato pubblicato con l’aiuto finanziario del «Gruppo Conversazioni di Malines». Il volume fa vedere chiaramente quanta strada abbia fatto il dialogo ufficiale anglicano-cattolico negli ultimi sessant’anni e colloca le relazioni ecumeniche su un solido cammino da percorrere insieme, guardando al futuro[15].
Nel maggio del 2000, l’arcivescovo di Canterbury, George Carey, e il card. Edward Cassidy (? 2021), allora presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani, invitarono un gruppo di vescovi anglicani e cattolici a riunirsi a Mississauga, in Canada, per confrontarsi su come rafforzare le relazioni anglicano-cattoliche a livello di episcopato. Durante l’incontro, si decise di formare un nuovo organismo ecumenico di vescovi per approfondire la visione articolata dall’Arcic e le sue dichiarazioni condivise, nella vita di tutti i giorni, così come in missione. Si sarebbe trattato di una commissione formata da coppie di vescovi: uno anglicano e uno cattolico della stessa provincia o regione. L’anno successivo fu istituita la «Commissione internazionale anglicana – cattolica romana per l’unità e la missione» (Iarccum), con una missione distinta rispetto a quella dell’Arcic: essa assegnava alle coppie di vescovi il compito di promuovere l’unità e la missione ecumenica all’interno delle rispettive Chiese locali.
L’attività della Iarccum offre un esempio molto concreto a livello episcopale di cosa significhi «camminare insieme» per anglicani e cattolici. Nella Dichiarazione condivisa del 2007 Crescere insieme nell’unità e nella missione: 40 anni di dialogo tra anglicani e cattolici, i vescovi anglicani e quelli cattolici proposero una serie di iniziative, tra cui: invitare anglicani e cattolici a «sviluppare strategie per promuovere l’espressione visibile della loro fede condivisa» (n. 99); invitare le parrocchie anglicane e cattoliche a fare regolarmente professione pubblica di fede insieme e promuovere la rinnovazione annuale delle promesse battesimali, anche utilizzando lo stesso certificato di battesimo (cfr n. 100); sostegno, da parte dei vescovi, di pellegrinaggi e processioni ecumeniche comuni (ad esempio, il Venerdì Santo) (cfr n. 101); menzione del vescovo locale da parte dell’altra Chiesa nella Preghiera universale durante l’Eucaristia domenicale (cfr n. 103)[16].
Un’ecclesiologia dei simboli
Come ha scritto il card. Koch nella sua recente lettera, quell’incontro del 1966 fu davvero «memorabile», soprattutto perché il Papa si tolse l’anello e lo mise al dito dell’arcivescovo di Canterbury. Quel significativo gesto ecumenico portò non solo agli inizi dell’Arcic, ma anche alla fondazione del Centro anglicano nel Palazzo Doria Pamphili di Roma, e aprì un nuovo capitolo nelle relazioni anglicano-cattoliche. Portò anche a una nuova comprensione di un’ecclesiologia dei simboli. Ancora oggi ogni arcivescovo di Canterbury indossa quell’anello quando si reca a Roma, in visita ufficiale al Papa.
Negli anni successivi, abbiamo assistito a un ulteriore arricchimento di tale ecclesiologia dei simboli. Quando papa Giovanni Paolo II visitò la Cattedrale di Canterbury nel 1982 – prima volta in assoluto per un Pontefice –, impartì la benedizione finale con l’arcivescovo di Canterbury, Robert Runcie (? 2000). Quattordici anni dopo, nel dicembre del 1996, quando l’arcivescovo di Canterbury, George Carey, si recò in visita ufficiale a Roma, il Papa gli consegnò una croce pettorale d’oro. Nel 2003, quando Rowan Williams fu insediato come 104° arcivescovo di Canterbury, Giovanni Paolo II inviò un’altra croce pettorale d’oro, che fu presentata all’arcivescovo dal card. Walter Kasper, allora presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Nel settembre del 2010, nell’abbazia di Westminster, dopo aver pregato insieme con l’arcivescovo Williams sulla tomba di sant’Edoardo il Confessore, papa Benedetto XVI (? 2022) partecipò alla celebrazione dei Vespri ecumenici, presieduta dall’arcivescovo. La funzione si concluse con una benedizione impartita dal Papa e dall’arcivescovo insieme. Nell’ottobre del 2016, in occasione dei Vespri ecumenici nella basilica di San Gregorio al Celio per i cinquant’anni del dialogo anglicano-cattolico, papa Francesco consegnò all’arcivescovo di Canterbury Welby un pastorale, copia di quello di san Gregorio Magno (? 604). Anche in questo caso, la funzione si concluse con una benedizione impartita insieme dal Papa e dall’arcivescovo.
Da un punto di vista ecclesiologico, questi doni e queste benedizioni hanno un grande valore simbolico e la loro importanza non va sottovalutata. Oggi, nel 2024, sembrerebbe che ci sia una certa distanza tra quanto è stato scritto nell’Apostolicae curae e la realtà effettiva del rapporto tra la Santa Sede e la Comunione anglicana, così come si manifesta in questi anni post-conciliari.
Il «Gruppo Conversazioni di Malines»
Nel 2012, un gruppo di amici – un giovane sacerdote anglicano del Regno Unito, un monaco benedettino di origine olandese, che viveva in Belgio, e un gesuita statunitense che viveva a Roma – si incontrarono e iniziarono a interrogarsi su cosa avrebbe potuto significare il riprendere le «Conversazioni di Malines» degli anni Venti alla luce del Concilio Vaticano II e di mezzo secolo di dialogo anglicano-cattolico. Il gruppo si incontrò dapprima con il card. Koch, e poi con l’arcivescovo di Canterbury Williams, chiedendo la loro benedizione per questa iniziativa. Sia il cardinale sia l’arcivescovo fecero notare che, pur trattandosi di un dialogo informale, la speranza era che lo studio e le discussioni del gruppo potessero offrire un aiuto al lavoro del dialogo ufficiale dell’Arcic.
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Il piccolo gruppo di tre persone procedette quindi a identificare potenziali membri anglicani e cattolici – un gruppo di vescovi e teologi –, e così fu fondato il «Gruppo Conversazione di Malines», che si riunì per la prima volta presso il monastero di Chevetogne, in Belgio, nel marzo del 2013. L’arcivescovo di Malines-Bruxelles, card. Godfried Danneels (? 2019), accettò di essere il copatrono cattolico (ora gli è succeduto in questo ruolo il card. Jozef De Kesel) e l’arcivescovo Williams il copatrono anglicano. Nel corso degli anni ne hanno fatto parte, tra gli altri, i comoderatori di Arcic e Iarccum. Ogni anno, il Dicastero per la Promozione dell’unità dei cristiani invia alla riunione un osservatore, per cui le deliberazioni del gruppo vengono regolarmente comunicate sia al Dicastero sia alle due Commissioni internazionali ufficiali anglicano-cattoliche.
Come le «Conversazioni di Malines» originali, anche il «Gruppo Conversazioni di Malines» si fondava sull’amicizia. Infatti, il cammino ecumenico non si compie leggendo articoli o scrivendo libri, ma trascorrendo del tempo insieme, viaggiando a Canterbury e a Cambridge, a Boston e a New York, a Rocca di Papa, a Madeira e a Malta, come il «Gruppo Conversazioni di Malines» ha fatto negli ultimi 10 anni: un pellegrinaggio di incontri, dove la ricerca dell’unità cristiana cresce e dove i membri si arricchiscono reciprocamente. Svolgendo un dialogo informale, questo gruppo offre uno spazio più ampio all’esplorazione di questioni e temi rispetto al dialogo ufficiale. Fin dall’inizio, il suo lavoro si è concentrato in gran parte sulla teologia liturgica e sacramentale. Ciò è dovuto anche al fatto che tra i membri del gruppo – otto anglicani e otto cattolici – ci sono stati numerosi teologi esperti di liturgia e dei sacramenti. Ma la presenza di vescovi e teologi morali, ecclesiologi e storici della Chiesa, tutti con forti interessi ecumenici, ha portato alle discussioni del gruppo quella ricchezza che deriva da una metodologia interdisciplinare[17]. Seguendo il modello dell’Arcic, ogni anno gli incontri si alternano tra sedi anglicane e cattoliche.
Nel 2013, anno del primo incontro, il «Gruppo Conversazioni di Malines» ha iniziato il suo lavoro esplorando gli sviluppi antropologici, storici, sociali ed ecclesiali dalle «Conversazioni di Malines», degli anni Venti fino a questo periodo post-conciliare, all’interno delle rispettive Comunioni. I dibattiti si sono concentrati poi sui temi della comunione e dell’accoglienza, della liturgia e dell’etica, della memoria, dell’identità e della differenza, e del cambiamento delle Chiese, in questo cammino condiviso verso il futuro. Nel corso degli anni il Gruppo è maturato, e questo è particolarmente evidente nel documento Sorores in spe, che il Gruppo ha pubblicato nel 2021[18]. Nel presentare il testo al Santo Padre, i copatroni – il card. De Kesel e il vescovo Williams – hanno spiegato il motivo dell’invio del documento: «Per sottoporre all’attenzione di Vostra Santità un primo risultato significativo del lavoro di questo gruppo di dialogo teologico. Il documento Sorores in spe, che viene presentato assieme a questa lettera a Vostra Santità, è un appello equilibrato e scrupolosamente argomentato, basato in gran parte sulla teologia del Concilio Vaticano II, affinché il giudizio negativo sugli ordini anglicani espresso nella Lettera Apostolica Apostolicae curae di papa Leone XIII possa essere rivisto, riconsiderato nel suo preciso contesto storico e teologico, e rivalutato alla luce del “camminare insieme” (Walking together) delle nostre Chiese sulla via della riconciliazione, della fratellanza e della comune testimonianza del Vangelo»[19].
Rispondendo ai due vescovi, papa Francesco ha scritto: «Vi ringrazio per avermi informato del lavoro del Gruppo, della sua ricerca sul giudizio espresso dal mio predecessore papa Leone XIII riguardo alla validità degli ordini anglicani, e del suo contributo al dialogo ecumenico a livello nazionale e internazionale. Spero che la ricerca e la discussione teologica in corso possano fornire ulteriori spunti costruttivi sulle questioni che ancora ostacolano la piena unità tra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana»[20].
Anglicani e cattolici camminano insieme verso il futuro
Nella sua enciclica sull’ecumenismo Ut unum sint del 1995, papa Giovanni Paolo II affermava che siamo legati «da una vera unione nello Spirito Santo, nonostante la nostra comunione imperfetta»[21]. In effetti, abbiamo molto da imparare gli uni dagli altri lungo il cammino. Le parole del Pontefice sottolineavano la convinzione che questo apprendimento reciproco operi a un livello molto più profondo di un semplice «scambio di idee»[22]. Per il Papa, l’immagine del dialogo ecumenico era piuttosto «uno scambio di doni». Applicare tale immagine alle relazioni anglicano-cattoliche di oggi ci fa capire che la Chiesa cattolica ha doni da ricevere dagli anglicani, così come la Comunione anglicana ha doni da ricevere dai cattolici[23]. Il programma di licenza recentemente istituito presso la Pontificia Università Gregoriana in «Teologia comparata delle Tradizioni cristiane e Studi ecumenici» offre solo un esempio di come tali doni ecumenici possano essere scambiati a livello universitario tramite un approccio comparativo, volto a imparare gli uni dagli altri.
Questo «scambio di doni» era certamente evidente nelle prime «Conversazioni di Malines» degli anni Venti, e negli anni successivi i progressi ecumenici sono stati significativi, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II. Mentre ci addentriamo insieme nel futuro e tentiamo di realizzare l’obiettivo di quei lavori iniziali, entrambe le nostre comunioni, come anche le nostre relazioni ecumeniche, si trovano ad affrontare nuove sfide; ma noi non demordiamo. Va detto infatti che oggi riusciamo a tenere la rotta in maniera molto più salda rispetto a sessant’anni fa. Ora più che mai siamo consapevoli che le cose che ci uniscono sono infinitamente più numerose di quelle che ci dividono. E, fortunatamente, è sempre più evidente che le nostre Chiese stanno trovando una voce comune nell’esprimersi contro l’ingiustizia e i mali sociali del nostro mondo nel XXI secolo. Papa Francesco e l’arcivescovo di Canterbury Welby in numerose occasioni ci hanno ricordato che il nostro compito ecumenico è quello di camminare insieme e di fare quante più cose possibile insieme, come discepoli su un sentiero comune.
L’immagine del pellegrinaggio è calzante. La persona con cui condividiamo lo stesso cibo e le stesse bevande, lo stesso alloggio, lo stesso tavolo, non è «l’anglicano» o «l’ortodosso» o «il vetero cattolico», ma piuttosto un fratello o una sorella, un amico o un collega con un nome e un volto. E vivere e pregare insieme, fianco a fianco, giorno dopo giorno, permette a queste amicizie, a questi legami di affetto di crescere. Come ha detto l’arcivescovo Welby: «Quando ci inginocchiamo in preghiera, così come nel corso di un pellegrinaggio, più che osservarci a vicenda, ci prendiamo cura l’uno dell’altro, ci preoccupiamo del bene dell’altro; la nostra attenzione è rivolta alla persona che ci guida, a Cristo stesso. […] Un pellegrinaggio che riguarda noi esclude Cristo. Un pellegrinaggio che ha come punto d’incontro evangelismo ed evangelizzazione ci porta necessariamente a cercare l’abbondanza della grazia di Dio e a scoprirci cambiati dall’incontro»[24].
Questa idea della cura reciproca, come tra compagni di pellegrinaggio, è importante nello sviluppo dei rapporti tra i vescovi anglicani e cattolici della Iarccum, che negli ultimi anni ne hanno dato una testimonianza molto eloquente. Nell’ottobre del 2016, 19 coppie di vescovi anglicani e cattolici, provenienti da tutto il mondo, hanno compiuto un pellegrinaggio insieme, partendo da Canterbury e giungendo a Roma. Al termine del pellegrinaggio, queste coppie di vescovi sono state invitate da papa Francesco e dall’arcivescovo Welby, durante i Vespri ecumenici a San Gregorio al Celio, a promuovere, una volta tornate a casa, gli sforzi ecumenici insieme nelle rispettive giurisdizioni ecclesiastiche. In quell’occasione il Papa e l’arcivescovo di Canterbury hanno firmato una dichiarazione congiunta, in cui hanno affermato: «Il mondo deve vederci agire insieme per testimoniare questa fede comune in Gesù. Come discepoli di Cristo riteniamo sacre le persone umane, e come apostoli di Cristo dobbiamo essere i loro difensori… Siamo impazienti di poter essere pienamente uniti nel proclamare, con le parole e con le opere, il Vangelo di Cristo, che tutti salva e guarisce»[25].
La visita pastorale congiunta del Papa, dell’arcivescovo di Canterbury e del Moderatore della Chiesa di Scozia in Sud Sudan nel febbraio 2023 è stata un’ulteriore testimonianza di quello che significa camminare insieme nel XXI secolo. Nel gennaio di quest’anno, 25 coppie di vescovi della Iarccum, in rappresentanza di 27 Paesi – tra cui il vescovo di Hong Kong, card. Stephen Chow Sau-yan, e il suo omologo anglicano, reverendo Matthias Der –, hanno compiuto un secondo pellegrinaggio insieme. L’incontro, intitolato «Crescere insieme», era guidato dai comoderatori della Iarccum: l’arcivescovo di Regina, mons. Donald J. Bolen, e il vescovo della diocesi anglicana in Europa, Sua Grazia David Hamid. Questa volta il pellegrinaggio è iniziato a Roma e si è concluso a Canterbury. Tra gli altri argomenti trattati a Roma, i 50 vescovi avevano discusso sulla sinodalità nel contesto ecumenico. Hanno inoltre assistito all’Evensong anglicano, celebrato nella basilica di San Pietro, all’Eucaristia anglicana, in occasione della festa della Conversione di San Paolo, nella basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, presieduta dall’arcivescovo di Canterbury Welby e, nel tardo pomeriggio, ai Vespri solenni nella basilica di San Paolo fuori le Mura, presieduti da papa Francesco, a conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
Da un po’ di tempo, i vescovi anglicani e cattolici in Inghilterra si incontrano ogni due anni per diversi giorni di preghiera, studio e scambio ecumenico. Il loro recente incontro a Norwich, lo scorso gennaio, ha incluso una relazione del vescovo di Chichester, Sua Grazia Martin Warner, che aveva partecipato al Sinodo sulla sinodalità lo scorso ottobre in qualità di delegato fraterno ecumenico. Inoltre, un recente sviluppo tra le Conferenze episcopali di lingua inglese, dove vescovi cattolici e anglicani lavorano fianco a fianco, è stato quello di invitare un vescovo anglicano a unirsi ai suoi omologhi cattolici durante la loro visita ad limina a Roma.
La missione e la testimonianza dei vescovi della Iarccum hanno portato frutti nel campo dell’ecumenismo pratico. Ispirandosi al pellegrinaggio della Iarccum del 2016, gli anglicani canadesi Kenneth e Fawn White hanno fondato la Walking Together Foundation anglicano-cattolica, con lo scopo di sostenere progetti ecumenici congiunti a sostegno dei poveri e degli indigenti in aree disagiate in cui anglicani e cattolici vivono insieme. La Fondazione è stata lanciata ufficialmente nel maggio 2018 a Blantyre, in Malawi. In quella occasione è stato istituito il Fondo di San Timoteo, per sostenere l’istruzione di bambini poveri in due scuole residenziali anglicane e in due cattoliche. Inoltre, i due rappresentanti di Roma e Canterbury hanno portato le lettere di saluto e di encomio del card. Koch e dell’arcivescovo Welby, che sono state lette pubblicamente durante la cerimonia. I copatroni della Fondazione sono l’arcivescovo di Newark, card. Joseph W. Tobin, e l’arcivescovo anglicano, Sir David Moxon, ex primate della Nuova Zelanda (2006-13) ed ex rappresentante dell’arcivescovo di Canterbury presso la Santa Sede (2013-17). Oltre al progetto del Malawi, la Fondazione ne sta ora realizzando un secondo in Nuova Zelanda – incentrato sulla tratta di esseri umani –, grazie alla leadership dell’arcivescovo Moxon.
Conclusione
Nel maggio del 2013 sono stato ricevuto dal patriarca ortodosso serbo, Sua Santità Irinej (? 2020), al patriarcato di Belgrado. In quell’incontro, mi ha detto una cosa che non ho mai dimenticato: «L’unità cristiana non è un’opzione tra le tante. È l’unica opzione, un imperativo evangelico: “che tutti siano una cosa sola”».
Dunque, anglicani e cattolici, camminiamo insieme verso il futuro nella fede, nella speranza e nella carità. Per dirla con le parole dell’arcivescovo Welby: «Sappiamo dove stiamo andando, ma non sappiamo come sarà il nostro viaggio, quali cose ci toccheranno e ci cambieranno sulla via. Questo ci riporta all’idea dell’unità nella preghiera, perché è lì che avviene la trasformazione»[26].
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Riproduzione riservata
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[1]. Nel corso della celebrazione, il gruppo ha presentato il volume di T. Pott – J. Hawkey – K. F. Pecklers (edd.), Malines: Continuing the Conversations,London, SPCK, 2023.
[2]. «Saluto del reverendissimo Justin Welby, arcivescovo di Canterbury, al “Gruppo Conversazioni di Malines”», Lambeth Palace, 5 dicembre 2023, in www.malinesconversations.org/wp-content/uploads/2024/01/05-Book-launch-Welby.pdf
[3]. Cfr B. Barlow – M. Browne, «Le conversazioni di Malines», in A. Melloni, L’unità dei cristiani. Storia di un desiderio XIX-XXI secolo,vol. I, Bologna, il Mulino, 2021, 737-758; R. Williams, The Malines Conversations: The Beginnings of the Anglican-Roman Catholic Dialogue, New York, Paulist Press, 2021.
[4]. Il tractarianismo è stato il precursore del Movimento di Oxford, e prende il nome dai Tracts for the Times, una serie di 90 pubblicazioni teologiche.
[5]. Cfr C. Dawson, The Spirit of the Oxford Movement,London, The Saint Austin Press, 2001.
[6]. J. A. Dick, The Malines Conversations Revisited, Leuven, Leuven University Press, 1989, 40 s.
[7]. «Lettera di Peter Halifax a mons. Luc Terlinden, arcivescovo di Malines-Brussels», 14 novembre 2023, in www.malinesconversations.org/wp-content/uploads/2024/03/09-Mons-Luc-Terlinden.pdf
[8]. Cfr R. Williams, The Malines Conversations…, cit., 10 s.
[9] . «Lettera del cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la Promozione dell’unità dei cristiani, a padre Thomas Pott, presidente del “Gruppo Conversazioni di Malines”», 6 dicembre 2023, in www.malinesconversations.org/wp-content/uploads/2024/01/06-Book-launch-Koch.pdf
[10]. «The Commemoration of the Malines Conversations», in Collectanea Mechliniensia 52, 14.
[11]. «The Common Declaration», in A. C. Clark – C. Davey (edd.), Anglican/Roman Catholic Dialogue: The Work of the Preparatory Commission, Oxford, Oxford University Press, 1975, 1 s.
[12]. L’arcivescovo di Canterbury nominò il reverendo John R. Moorman capo della delegazione.
[13]. Cfr F. M. Bliss, Anglicans in Rome: A History,Norwich, Canterbury Press, 2006, 61-64; B. C. Pawley (ed.), The Second Vatican Council: Studies by eight Anglican Observers,London, Oxford University Press, 1967.
[14]. Cfr M. Reath, Rome and Canterbury: The Elusive Search for Unity, Lanham, Rowman & Littlefield, 2007, 50 s.
[15]. Cfr Walking Together on the Way: Learning to Be the Church – Local, Regional, Universal: An Agreed Statement of the Anglican-Roman Catholic International Commission (ARCIC III), Erfurt 2017, London, SPCK, 2018. Per un commento al documento, cfr O. Rush – J. Hawkey, Walking Together on the Way,London, SPCK, 2018.
[16]. Cfr Growing Together in Unity and Mission: Building on 40 years of Anglican-Roman Catholic Dialogue, London, SPCK, 2007, 51 s.
[17]. Cfr T. Pott, «Introduction», in T. Pott – J. Hawkey – K. F. Pecklers (edd.), Malines: Continuing the Conversations, cit., 4.
[18]. Cfr «Sorores in Spe.“Sisters in the Hope of the Resurrection”: A Fresh Response to the Condemnation of Anglican Orders (1896)», ivi, 201-223. Per un commento al testo, cfr ivi, 187-199.
[19]. «Lettera del Cardinale Jozef De Kesel e del Vescovo Rowan Williams a Sua Santità papa Francesco», 30 novembre 2021, in www.malinesconversations.org/wp-content/uploads/2024/01/01-Sorores-in-Spe-De-KeselWilliams-to-Pope.pdf
[20]. «Lettera di Sua Santità Papa Francesco “To my Dear Brother Cardinal Jozef De Kesel Archbishop of Mechelen-Brussels», 20 gennaio 2022, in www.malinesconversations.org/wp-content/uploads/2024/01/02-Sorores-in-Spe-Pope-to-De-Kesel.pdf
[21]. Giovanni Paolo II, s., Enciclica Ut unum sint, n. 11.
[22]. Ivi, n. 28.
[23]. Cfr M. O’Gara, «Receiving Gifts in Ecumenical Dialogue», in P. D. Murray (ed.), Receptive Ecumenism and the Call to Catholic Learning,Oxford, Oxford University Press, 2008, 26-38.
[24]. J. Welby, «The Spiritual Renewal of the Church, Within or Beyond the Boundaries of Division and Diversity», in Malines Conversations Group II: Papers & Discussions, Monastero di Chevetogne, Belgio, 2015, 77; 79.
[25]. «Dichiarazione comune di Sua Santità Papa Francesco e Sua Grazia Justin Welby, Arcivescovo di Canterbury», 5 ottobre 2016, in https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bolletino/pubblico/2016/10/05/07/10/01590.html
[26]. J. Welby, «The Spiritual Renewal of the Church, Within or Beyond the Boundaries of Division and Diversity», cit., 78.
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Franco Basaglia, «l’uomo che diede la parola ai matti»
Avviso contenuto: Franco Basaglia. Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Franco Basaglia, psichiatra e attivista italiano, una figura chiave nella lotta per la riforma psichiatrica in Italia. Il suo percorso professionale e le idee che ha promosso hanno rivoluz
Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Franco Basaglia, psichiatra e attivista italiano, una figura chiave nella lotta per la riforma psichiatrica in Italia. Il suo percorso professionale e le idee che ha promosso hanno rivoluzionato il trattamento delle persone affette da disturbi mentali nel Paese e nel resto del mondo. Attraverso la sua visione progressista e umanitaria, Basaglia ha promosso il concetto di destituzionalizzazione e ha sostenuto un approccio basato sui diritti umani e sulla dignità delle persone affette da disturbi psichiatrici.
Il percorso professionale di Franco Basaglia
Nato nel 1924 a Venezia, Basaglia studia medicina all’Università di Padova, laureandosi nel 1949. Inizia la sua carriera come psichiatra, lavorando in vari ospedali italiani. Durante questo periodo egli sviluppa una profonda consapevolezza delle condizioni disumane e delle pratiche coercitive all’interno delle istituzioni psichiatriche. Alla pratica medica unisce una grande varietà di letture, la psicanalisi di Freud, che vede molto in linea con l’analisi della società borghese di Marx e Gramsci[1], ma soprattutto gli autori della corrente detta «dell’antipsichiatria» (Cooper, Laing, Goffman, Foucault, Szász). Essi interpretano la malattia mentale, e in generale la devianza, come una forma di emarginazione e di stigma sociale a opera del potere istituzionale (in questo caso medico, ma riguarda tutte le categorie autoritarie: insegnanti, giudici, politici, forze dell’ordine), e insieme una maniera di esprimere la protesta nei suoi confronti.
Va tuttavia precisato che Basaglia non condivise la prospettiva dell’antipsichiatria e neppure la negazione della malattia mentale[2]. Egli si ritrova piuttosto nella psichiatria fenomenologica di Eugène Minkowski: la malattia psichica è un disperato tentativo di sopravvivenza, di dare organizzazione a un mondo disorganizzato che rischia di sommergere la persona. Per questo i sintomi che la manifestano hanno un preciso significato per il paziente e possono essere compresi solo facendo riferimento alla sua vicenda di vita.
L’esperienza di Gorizia
Nel 1961 Basaglia diventa direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Quando vi entra per la prima volta, l’impressione è devastante: rivive l’esperienza trascorsa in carcere nel 1944, quando venne rinchiuso per attività partigiana, ritrova gli stessi odori di morte e putrefazione; il manicomio non gli appare diverso da un carcere. Il giudizio di Manacorda e Montella, due psichiatri italiani, è ancora più duro: «Gorizia era, come tutti i manicomi italiani, un autentico lager»[3]. Molti venivano chiusi in gabbie, o legati a letti bucati, in modo da poter espletare i propri bisogni senza doversi muovere, e trattenuti contro la loro volontà perché ritenuti un pericolo per la comunità. L’istituzione aveva tolto loro ogni dignità, peggiorando la situazione che li aveva portati a essere rinchiusi in quel luogo. Basaglia capisce che la strada da percorrere è di restituire al paziente la sua dignità di essere umano. Introduce così una serie di cambiamenti che possano ridare a quel luogo il volto dell’abitabilità: fa ridipingere le pareti, ammobiliare le camerate, assegna vestiti adatti, a tavola compaiono piatti e posate. In sede terapeutica abolisce la pratica dell’elettroshock e le camicie di forza, favorendo piuttosto il dialogo e la socializzazione tra pazienti e personale, e soprattutto tra pazienti e famiglie. In breve quel lugubre luogo perde l’aura di orrore che lo aveva caratterizzato. I primi ad accorgersene sono i malati stessi. Con le parole della figlia di Basaglia, Alberta: «Eccoli, i vecchi matti ripuliti a festa felici di esserci, signori senza denti e rivestiti come meglio si poteva. Ecco Carletto, finalmente con la cravatta al collo e la pipa in bocca girando tra le signore brutte e grasse ma fresche di parrucchiere […]. Mi baciano con quei baci bagnati da vecchie zie zitelle: “La fia del direttor!”. Mi baciano e mi toccano maldestramente disabituate e quindi assetate di vicinanza»[4].
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Sono modifiche che comunicano un messaggio di fiducia e un invito a riappropriarsi della propria autonomia, sia pure con gradualità. Un altro passo importante sarà la costituzione dell’assemblea, una rivoluzionaria esperienza di terapia comunitaria, dove tutti possono esprimere la propria opinione e avanzare proposte per migliorare la vita comune.
L’esperienza di Gorizia è alla base di uno dei libri più importanti per comprendere la rivoluzione psichiatrica italiana, L’istituzione negata, definita «la “Bibbia” del Sessantotto» (John Foot), che fu anche un successo editoriale (50.000 copie in pochi mesi e si aggiudicò il Premio Viareggio per la saggistica 1968), nonostante si trattasse di un libro di non facile lettura, scritto a più mani e di taglio estremamente variegato; il che testimonia come la problematica fosse fortemente avvertita nella società italiana.
Il libro si presenta come una riforma in atto; lo si nota dalla testimonianza talvolta stupita degli infermieri nel notare i progressi dei pazienti quando li si incoraggia a prendere iniziative; o dalla presenza degli stessi pazienti nelle pagine del libro, ai quali si dà la parola per descrivere la loro esperienza di ricoverati, le violenze subite (come la pratica di mettere sul viso un panno bagnato, la cosiddetta «maschera», provocando il soffocamento) e i benefìci del nuovo corso reso possibile dalla riforma. Non mancano critiche feroci alla psichiatria, già presenti in un’opera precedente – Che cos’è la psichiatria? –, considerata non un aiuto alla guarigione, ma uno strumento di controllo sociale utilizzato per marginalizzare ed escludere le persone che non si conformano alle norme. E si propone un cambiamento istituzionale: l’approccio terapeutico, per essere efficace e democratico, non deve infatti essere relegato a costosi studi accessibili solo alle élite, ma «in un ambiente che sia di per sé psicoterapico: i pazienti non dovrebbero neppure accorgersi che “si fa” della psicoterapia»[5].
Il libro, come recita il titolo, intende proprio affrontare il problema «istituzione» nel suo insieme (scuola, politica, fabbrica), non solo quindi il manicomio, considerato come radice del disagio perché incentrato «sulla netta divisione dei ruoli»: se si vuole dare una svolta al trattamento della malattia mentale, il manicomio deve essere distrutto per aprirlo alla realtà sociale[6]. Restituire la parola e la libertà al malato, inserirlo nel tessuto relazionale e familiare è infatti la maniera più autentica di cura. Si trattava naturalmente di avviare un processo graduale: Basaglia non negava possibili pericoli e difficoltà, in particolare a proposito della mancanza di autocontrollo del paziente; anzi, il compito del medico è proprio quello di valutare la situazione e avviare un processo di progressivo inserimento nella società.
L’istituzione negata porta a compimento il programma elaborato tre anni prima nel corso dell’esperimento di Gorizia, scandito da alcuni passi graduali: 1) utilizzo degli psicofarmaci (allora in fase ancora sperimentale); 2) formazione del personale; 3) potenziare i legami con l’esterno; 4) distruzione delle barriere a opera degli stessi malati; 5) incoraggiare l’igiene personale e mentale; 6) creazione di gruppi di lavoro, specialmente se consentono di uscire all’esterno; 7) avviare un iter di istruzione scolastica, riconosciuta a livello ufficiale; 8) delegare ai pazienti funzioni fino ad allora gestite da infermieri; 9) dare vita a una comunità assembleare che deliberi sulla vita della comunità[7].
I problemi
Come non di rado accade, la catastrofe fa la sua comparsa proprio nel momento del trionfo. Il 26 settembre 1968 un ricoverato, Giovanni Miklus, al suo terzo soggiorno in famiglia, fino allora vissuto senza problemi, in una crisi di follia uccise la moglie a martellate per poi fuggire nei boschi. Paradossalmente proprio il successo de L’istituzione negata contribuì a dare risonanza nazionale al caso. Basaglia, aprendo le porte del manicomio, aveva messo in conto questa tragica possibilità, sapeva che la libertà comporta dei rischi, per tutti, ma quel tragico fatto fu l’occasione, da parte di coloro che non avevano mai condiviso tali riforme, soprattutto in sede istituzionale, per fare marcia indietro. Ne seguì un processo che vide imputato lo stesso Basaglia; anche se egli alla fine venne prosciolto, e le modifiche introdotte mantenute (tranne nel reparto dove Miklus era stato ricoverato), il fatto segnò la fine dell’esperimento di Gorizia. Ma non dell’ideale che aveva animato il progetto di riforma elaborato in quegli anni.
Venne in aiuto a Basaglia la proposta di Sergio Zavoli di collaborare a un documentario sul manicomio di Gorizia. Il programma andò in onda il 3 gennaio 1969 con il titolo I giardini di Abele: «Si tratta, sul piano artistico, di un capolavoro curato sotto ogni aspetto, uno dei documenti umanamente più densi e intensi della storia della psichiatria e anche della televisione italiana: affascinanti le immagini poetiche; calde, indimenticabili le parole con le quali la voce fuori campo introduce a quel luogo, citando alla lettera brani dall’Istituzione negata e illustrando la dialettica ospedale chiuso/ospedale aperto»[8].
Zavoli in particolare mette di fronte al pubblico il legame tra povertà materiale e umana, e follia, osservando come «accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere alla fine anche sé stesso». Da qui l’invito rivolto agli ascoltatori a una collaborazione a vari livelli, per ridare speranza a chi sembrava averla perduta per sempre. Un paziente era ricaduto nella follia, ma altri 600 – tale era il numero dei ricoverati a Gorizia a quel tempo – mostravano un esito differente; perché privare loro di questa opportunità? A questo lavorarono Basaglia e la sua équipe trasferendosi a Trieste.
La fine del manicomio
Una volta nominato direttore del manicomio di Trieste, nel 1971, Basaglia poté rimettere a punto il progetto delineato a Gorizia nel 1965: aprì l’ospedale psichiatrico al territorio, favorendo l’interazione tra comunità e pazienti; concesse loro permessi per frequentare scuole, lavorare, praticare sport e partecipare ad attività sociali. Inoltre introdusse nuove terapie alternative ai farmaci e all’elettroshock, come la terapia occupazionale, la terapia di gruppo, l’arteterapia e la musicoterapia, grazie anche a una formazione del personale basata sull’ascolto, la comunicazione e il rispetto dei pazienti. Insieme a questo si batté per il riconoscimento dei diritti dei pazienti psichiatrici, come il diritto alla libertà, alla dignità, al lavoro e all’autodeterminazione[9].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ISRAELE E PALESTINA, LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Le radici di quello che rappresenta uno dei più complessi conflitti del mondo intero, affondano già nella prima metà del Novecento. Ascolta il podcast.
In breve l’ospedale psichiatrico di Trieste divenne un centro di ricerca e innovazione nel campo della salute mentale, attirando l’attenzione di studiosi e operatori da tutto il mondo.
La legge n. 180
L’esperienza di Trieste fu un modello anche per la riforma psichiatrica in Italia e in altri Paesi. Oltre a ottenere il riconoscimento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità come esempio della nuova esperienza, essa contribuì a realizzare la graduale chiusura dei manicomi italiani: la cura della salute mentale venne riorganizzata su base territoriale, con un approccio più umano e rispettoso dei diritti dei pazienti. L’apporto di Basaglia fu fondamentale per la promulgazione della legge n. 180 (13 maggio 1978). Essa sancisce la definitiva chiusura dei manicomi in Italia, sostituendoli con servizi di salute mentale territoriali, distribuiti capillarmente sul territorio nazionale, per garantire la cura e la riabilitazione dei pazienti psichiatrici; ne riconosce il diritto alla libertà, alla dignità, al lavoro, all’autodeterminazione e al trattamento sanitario volontario; regola il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), stabilendo precise garanzie per i pazienti e limitandone l’utilizzo ai casi di stretta necessità. L’orientamento che ispira la legge è di lavorare soprattutto sulla prevenzione del disagio mentale, favorendo il reinserimento sociale dei pazienti e la loro partecipazione alla vita sociale e lavorativa[10].
La legge n. 180 fu uno spartiacque nel trattamento della salute mentale. A distanza di quasi 50 anni, il dibattito su di essa rimane aperto; se, da un lato, essa segnò di diritto (anche se non di fatto) la fine dei manicomi, consentendo un trattamento più umano e dignitoso ai malati mentali e tutelandone i diritti come per ogni altro cittadino, dall’altro la si ritenne lacunosa su diversi punti, come la mancata definizione dei servizi e presìdi alternativi all’ospedale psichiatrico, la carenza di adeguate linee guida; ma soprattutto la si accusò di abbandonare i malati al loro destino o di scaricarli sulle famiglie, per lo più del tutto incapaci di farsene carico.
L’iter della legge fu piuttosto singolare: non venne discussa in Parlamento (lo si fece in seguito, nel contesto della legge n. 833 sulla riforma sanitaria) e non ricevette in aula l’attenzione che meritava a motivo dei gravissimi fatti legati al sequestro e assassinio dell’onorevole Aldo Moro. Per tutto questo, la legge 180 può essere impropriamente attribuita a Basaglia: egli inizialmente la criticò su diversi punti (in particolare circa la medicalizzazione dell’assistenza psichiatrica e il trattamento obbligatorio del malato di mente), ma poi decise di appoggiarla (a nome del movimento Psichiatria democratica, da lui fondato nel 1973), nella speranza di poterla in seguito migliorare. Ciò che contava è che essa sostituiva su molti punti l’aborrita legge del 1904 (n. 36).
Purtroppo, come l’esperienza ha puntualmente mostrato, non basta promulgare una legge per risolvere il problema. A differenza di Trieste, molti dirigenti dei manicomi italiani non erano assolutamente preparati alla chiusura improvvisa dei reparti, alcuni dei quali continuarono a operare per più di vent’anni. «Ne derivò, nell’arco degli anni ottanta, novanta e duemila, una vasta disparità nei tempi e nei modi della riforma. L’Italia non avrebbe mai avuto un modello unico, nazionale, di assistenza psichiatrica»[11].
Si registrò così, analogamente ad altri settori, un’Italia a doppia velocità: da una parte, le innovazioni di Basaglia divennero un modello per il mondo intero e furono considerate all’avanguardia per il trattamento della salute mentale; dall’altra, «il paese avrebbe continuato a presentare anche alcuni degli esempi di assistenza peggiori e più arretrati d’Europa»[12]. In ogni caso, almeno sulla carta, i manicomi rimasti non avrebbero più visto tra le loro mura l’ingresso di nuovi pazienti.
Basaglia non ebbe modo di occuparsi della graduale applicazione della legge; al rientro da un convegno a Berlino scoprì di avere un tumore al cervello, che lo portò in pochi mesi alla tomba, il 29 agosto 1980, a 56 anni, lasciando un’eredità immensa. Le sue riforme, le pubblicazioni, gli interventi pubblici in varie parti del mondo (Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Germania, Brasile) hanno contribuito a cambiare radicalmente il panorama della psichiatria, ponendo l’Italia all’avanguardia nel trattamento del disagio mentale.
Cos’è la follia?
Basaglia non sapeva dire perché nasce la follia, cosa veramente la caratterizzi e la distingua dalla normalità (per quanto risulti comunque difficile precisare anche questa condizione). Le Conferenze brasiliane,che possono essere considerate in qualche modo il suo testamento intellettuale, tenute nel 1979, sono un testo particolarmente prezioso anche su questo punto, perché in esse Basaglia entra in merito a questa tematica terribile e inevitabile per uno psichiatra. Gli studi compiuti, la vastità delle letture, la pratica ospedaliera e di vita lo portavano alla medesima conclusione: «Il dolore che opprime l’uomo, l’angoscia di ogni giorno nella relazione con gli altri uomini, tutto questo io non posso risolverlo. Questa angoscia esistenziale fa parte dell’uomo, è una realtà […], rappresenta la contraddizione e l’opposizione della nostra vita. Non c’è ricetta, né dal punto di vista politico, né a livello di buona volontà, che possa risolvere questa contraddizione»[13].
Se la sofferenza non può trovare soluzione, tuttavia si può dare la possibilità di esprimerla: questo per Basaglia è stato il grande apporto di Freud. Era però altrettanto convinto che la follia possa essere curata nella maniera migliore tutelando la dignità della persona e ascoltandone i suggerimenti. Basaglia riconobbe soprattutto l’importanza di consentire al malato esperienze di libertà e responsabilità mettendo in conto la possibilità di correre rischi anche gravi. Nell’attuare tutto ciò non mancarono certo problemi, ma egli rimase sempre dell’idea che non esistesse una reale alternativa: la sua fiducia nella possibilità di recupero del malato mentale era superiore alla paura di possibili conseguenze sgradite.
Un episodio può rendere l’idea del suo desiderio profondo di dare la parola ai matti. Nell’ottobre 1975 partecipò a un incontro sul tema «Per una nuova psichiatria», all’interno del manicomio di Fermo. Durante il dibattito, un internato irruppe nella sala e fracassò una vetrata con un pugno, per poi andarsene. Molti rimasero terrorizzati. Basaglia non si inquietò affatto, e si limitò a osservare con la sua consueta calma: «Non è niente, ci ha solo voluto dire che c’era anche lui»[14].
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[1]. «Penso che Freud sia stato uno dei grandi di questo secolo per due ragioni: perché disse agli uomini che c’è qualcosa che non conoscono di sé, cioè l’inconscio, elemento estremamente importante da capire per la vita dell’uomo, e perché è stato l’uomo che ha fatto sentire nella soggettività l’odore, il cattivo odore della borghesia che stava morendo. Per me Freud è stato un grande sociologo, un grande politico proprio per questa ragione, perché la partenza della sua teoria nasce dallo studio di un meccanismo politico» (F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Milano, Cortina, 2018, 196).
[2]. «Io non sono un antipsichiatra, perché questo è un tipo di intellettuale che rifiuto. Io sono uno psichiatra che vuole dare al paziente una risposta alternativa a quella che gli è stata data finora» (ivi, 149).
[3]. A. Manacorda – V. Montella, La nuova psichiatria in Italia. Esperienze e prospettive, Milano, Feltrinelli, 1977, 48. Altrettanto traumatico è il ricordo di un altro psichiatra, Giovanni Giudice: «Fu lo spettacolo più orrendo che io avessi mai visto e che abbia tuttora mai visto: uomini abbandonati in squallidi cortili limitati da alte mura, coperti di sporcizia e di mosche, invocanti, quelli che ancora ne avevano la forza, la libertà, l’aiuto a fuggire da quel luogo senza speranza» (Intervento alla Commissione Senato sulla legge n. 180, 10 maggio 1978).
[4]. A. Basaglia, Le nuvole di Picasso,Milano, Feltrinelli, 2014, 64.
[5]. Id. (ed.), Che cos’è la psichiatria? Discussioni e saggi sulla realtà istituzionale, Parma, Amministrazione Provinciale, 1967, 226 (poi ripubblicato da Einaudi nel 1973).
[6]. Cfr Id. (ed.), L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Torino, Einaudi, 1968.
[7]. Cfr Id., Scritti, vol. I, Torino, Einaudi, 1981, 273-276; P. F. Peloso, Franco Basaglia, un profilo, Roma, Carocci, 2023, 101.
[8]. P. F. Peloso, Franco Basaglia, un profilo, cit., 148.
[9]. Cfr V. P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Bologna, il Mulino, 2011, 266-280.
[10]. Cfr https://web.archive.org/web/20201025202651/http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_normativa_888_allegato.pdf
[11]. J. Foot, La «Repubblica dei Matti». Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, Milano, Feltrinelli, 2017, 284.
[12]. Ivi.
[13]. F. Basaglia, Conferenze brasiliane, cit., 59.
[14]. E. Buondonno, Frammenti. Piccole storie di psichiatria, Molfetta (Ba), la meridiana, 2022, 105.
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Intelligenza? Comprensione? Saggezza?
Avviso contenuto: Google Deep Mind. « L’intelligenza artificiale ha questo risvolto curioso», rifletteva il mio amico Jerry, un ingegnere che da molti anni lavora utilizzando reti neurali artificiali per sviluppare sistemi che permettano ai computer di parlare con un tono
«L’intelligenza artificiale ha questo risvolto curioso», rifletteva il mio amico Jerry, un ingegnere che da molti anni lavora utilizzando reti neurali artificiali per sviluppare sistemi che permettano ai computer di parlare con un tono il più possibile naturale. «Ogni volta che produce qualcosa di effettivamente utile, tutti smettono di chiamarla intelligenza artificiale».
Il riconoscimento e la generazione del linguaggio sono elementi che i computer faticano da sempre a gestire, ma le varie forme di intelligenza artificiale (IA) – o piuttosto, le reti neurali e l’apprendimento automatico, come preferiscono chiamarle gli ingegneri del settore – sono finalmente riuscite a fare qualche progresso. Come può testimoniare chiunque abbia provato a parlare con gli avatar dei nostri smartphone, Alexa o Siri, i miglioramenti sono davvero notevoli, ma siamo comunque lontani dalla perfezione. Essere compresi da una macchina non è paragonabile con l’intrattenere una conversazione con una persona reale.
Computer vs cervello umano
Quando ero un novizio gesuita, lavoravo in un cosiddetto «laboratorio protetto», un posto in cui si forniva assistenza a uomini con gravi handicap mentali e che permetteva loro di guadagnare facendo lavori semplici, secondo le loro capacità. Mi era stato detto che il quoziente di intelligenza (QI) tipico di questi uomini sarebbe stato pari o inferiore a 50 (ricordiamo che la media è 100). In effetti, gli uomini con cui lavoravo non erano in grado di contare fino a tre, ma parlavano tutti correntemente inglese. Contare è il genere di cosa che persino i primi computer riuscivano a fare bene; la parola, invece, rappresenta tuttora un problema per essi. Le mie conclusioni? I computer operano in maniera molto diversa dal cervello umano.
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Certo, le «reti neurali» dei computer prendono il nome dalle reti di cellule neurali che sono state mappate all’interno del cervello umano e si ispirano a esse. Ma finora ciò che sono in grado di fare è molto diverso da ciò che succede realmente quando a pensare è un essere umano. Ebbene, non sono un esperto nel campo delle reti neurali o di altre forme di quella che conosciamo come IA; sono un astronomo e un fisico, e mi avvicino all’argomento in qualità di utente. Grazie ai progressi nella tecnologia dei telescopi, in particolare nei rilevatori elettronici e nel modo in cui i segnali provenienti da questi strumenti vengono elaborati, l’astronomia è oggi soggetta a un’invasione di big data, un numero di dati tale per cui i vecchi modi di maneggiare i risultati semplicemente non funzionano più. Oggi ci affidiamo ad algoritmi di calcolo intelligenti per passare al vaglio ciò che abbiamo osservato. L’algoritmo potrebbe suggerire l’ipotesi che un oggetto sia una fonte di raggi X, un altro un punto di formazione di pianeti, e via dicendo.
Dati e manipolazione dei dati
Ora vi invito a riflettete su ciò che un computer dotato di quella che chiamiamo «intelligenza artificiale» sta realmente facendo. Iniziamo con un problema semplice, risolvibile. Immaginiamo che abbiate un oggetto di un certo peso – un grosso libro di fisica, ad esempio –, posto a una certa distanza da terra. Il vostro obiettivo è determinare quanto tempo esso impiegherà a toccare il pavimento, se lo farete cadere, e dove atterrerà esattamente. È il genere di quesito a cui si può rispondere affidandosi a una manciata di equazioni fornite da Isaac Newton. Possiamo presumere che certi parametri rimangano stabili: ad esempio, la massa del libro e la forza di gravità che agisce su di esso. A cambiare sono invece la posizione del libro nello spazio tridimensionale e il momento in cui lo stesso si trova in una data posizione. Ci sono, dunque, tre dimensioni spaziali e una dimensione temporale: vale a dire, quattro variabili. Quindi, per rispondere alla nostra domanda, dobbiamo rispondere a quattro equazioni distinte, una per ogni variabile. In questo caso, i princìpi della dinamica di Newton ci offrono tre delle equazioni necessarie – una per ciascun movimento nelle tre direzioni –, e la sua legge di gravitazione universale fornisce la quarta. Queste equazioni sono talmente semplici che potrebbe risolverle anche uno studente delle scuole superiori, armato soltanto di foglio e matita.
Ma se, invece di un libro, l’oggetto fosse una meteora che dallo Spazio colpisce lo strato superiore dell’atmosfera terrestre? Essa è in fiamme, cambia peso man mano che cade. L’attrito con l’atmosfera, oltre che farla bruciare, la rallenta, perché l’energia della caduta viene trasformata in luce e calore. Il vento nell’atmosfera superiore può spingerla in direzioni sempre diverse. Certo, possiamo semplicemente seguire il percorso della meteora mentre brucia nell’atmosfera superiore, e magari, se lascia cadere un meteorite, trovare il punto in cui quest’ultimo atterra. Ma, in realtà, è una posizione molto difficile da calcolare: bisogna pur sempre organizzare una spedizione per trovare il meteorite.
E se invece volessimo utilizzare il percorso e la luminosità della meteora per determinare la velocità originaria, la direzione, e le dimensioni della roccia prima che il meteorite colpisca la Terra? All’improvviso, il numero delle variabili è cresciuto più velocemente del numero delle equazioni affidabili che possiamo buttare giù sul foglio di carta. Questo non significa che il problema sia irrisolvibile: dopotutto, la natura l’ha risolto. Ma è più complicato di ciò che può calcolare lo studente delle scuole superiori. Pertanto, il passaggio successivo è impostare ogni equazione a noi nota non solo per il movimento, ma anche per l’attrito dell’aria, l’effetto del vento in costante mutamento, la velocità con cui diversi materiali con densità diverse bruciano e risplendono, e così via. Non possiamo risolvere il problema a ritroso, cercando di risalire a un insieme unico di condizioni iniziali, come, ad esempio, la velocità della meteora prima di entrare nell’atmosfera.
Se poi proviamo a immaginare diverse possibili condizioni iniziali, potremmo riuscire ad azzardare delle previsioni e vedere se producono un risultato vicino a ciò che abbiamo osservato. Chiaramente, dal momento che le variabili sono di gran lunga più numerose delle equazioni a nostra disposizione, potrebbero essere validi molti diversi insiemi di condizioni iniziali. Per cui iniziamo a tirare i dadi, facendo congetture casuali per ciascuna delle condizioni di partenza, ed esaminiamo il problema più e più volte – qui i computer tornano utili –, per vedere quale insieme di variabili risulta «vincitore». Alla fine, potremmo notare delle regolarità rispetto a quali condizioni iniziali forniscono risposte simili a ciò che abbiamo osservato. Certo, questo non equivale alla prova che una qualsiasi di quelle condizioni corrisponda realmente ai fatti accaduti, ma è un indizio significativo.
Questa tecnica – un metaforico lancio di dadi al fine di ipotizzare risposte possibili – si chiama «simulazione Monte Carlo». Uno dei problemi di tale approccio è che la maggior parte dei lanci rivela risultati molto distanti dal fenomeno osservato. Tuttavia, se guardiamo più da vicino il modo in cui i risultati cambiano al mutare di ciascuna variabile, possiamo cominciare a capire quali variabili hanno l’effetto maggiore e, infine, come manipolare i dadi per poter ottenere il più rapidamente possibile risposte utilizzabili. Tutto questo può essere fatto da un computer, che può determinare se la modifica di una certa variabile migliora o peggiora le cose, nonché quale insieme di risposte possibili ci sta portando nella giusta direzione, avvicinandoci quindi a ciò che osserviamo. Si tratta di un esempio di quel genere di processo che possiamo cominciare a chiamare «apprendimento automatico». Certo, è importante ricordare che le risposte sono meramente le più probabili, e non è detto che siano corrette; ed è importante ricordare che «l’apprendimento» sta avvenendo solo nella misura in cui gli algoritmi stanno diventando più efficienti.
Ora, immaginate di eseguire questo genere di simulazione per migliaia di meteore, imparando dai risultati quali parametri e quali scelte tendono a comparire con maggiore frequenza insieme ai risultati osservati. Dal momento che queste decisioni sono calcolate dal computer – senza che noi, gli utenti, sappiamo con esattezza a cosa esso si sia affidato per eseguire i calcoli –, l’intero processo può apparire alquanto magico. In realtà, questa «intelligenza artificiale» altro non è che un esempio di programmazione intelligente a cui viene applicata una definizione più alla moda. Si tratta di dati e di manipolazione di dati.
Computer e saggezza umana
Piuttosto che imitare l’intelligenza umana, i sistemi di IA finiscono per svolgere il lavoro di manipolazione di dati che un essere umano troverebbe estremamente noioso. Siamo troppo intelligenti per perdere il nostro tempo con operazioni del genere. Come mi ha detto una volta Cliff Stoll, un vecchio amico – ed esperto di computer –, conosciuto ai tempi degli studi di astronomia: «I dati non sono informazioni, le informazioni non sono conoscenza, la conoscenza non è comprensione, la comprensione non è saggezza». I computer si trovano ancora al primo passaggio: hanno solo a che fare con i dati; sono molto lontani dalla saggezza. Pensate ai bot di IA più in voga – come ChatGPT –, che rispondono alle domande recuperando informazioni su internet, ma che risultano più «umani» dei motori di ricerca, il cui compito è riportare semplicemente i siti web rilevanti. In realtà, questi bot di IA ci restituiscono una versione molto nebulosa del contenuto di tali siti. Di fatto, sembrano umani, perché nei risultati introducono imprecisioni ed errori tipici degli esseri umani. Quello che fanno non è altro che scompigliare – e confondere – i dati. Sembrano umani non grazie all’intelligenza artificiale, bensì grazie alla stupidità artificiale.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ISRAELE E PALESTINA, LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Le radici di quello che rappresenta uno dei più complessi conflitti del mondo intero, affondano già nella prima metà del Novecento. Ascolta il podcast.
Il termine «intelligenza» è di per sé insidioso. Usiamo i test del QI – con una media fissata a 100 – nel tentativo di misurare un cosiddetto «quoziente intellettivo». Ma questi test danno per scontato che l’«intelligenza» sia qualcosa di unidimensionale, misurabile in maniera obiettiva. Un cinico potrebbe dire che l’unica cosa che un test del QI è in grado di misurare è il tuo rendimento in un test del QI.
Nello stesso periodo in cui lavoravo con persone affette da handicap mentali, ebbi anche l’opportunità di trascorrere del tempo al Goddard Space Flight Center della Nasa. Per me fu un’occasione per tenermi al passo con la ricerca in campo astronomico, mentre mi formavo per diventare un gesuita. Ricordo di essermi seduto alla mensa, riflettendo sul fatto che normalmente a quell’ora sarei stato a pranzo nel laboratorio protetto, circondato da uomini con QI di 50 o più punti sotto la media, con vestiti che non sempre calzavano; uomini che a volte parlavano da soli, che vivevano in un mondo che la maggior parte delle persone non saprebbe seguire né comprendere. E poi guardai gli astronomi geniali seduti intorno a me. Mi scappò da ridere. Mi tornò in mente un commento di una persona in visita al Cal Tech: «Questi tizi si vestono tutti al buio?». (Fidatevi, io non mi vestivo certo meglio quando ero al Massachusetts Institute of Technology [Mit]…). Esiste più di un tipo di intelligenza.
In realtà, la mia prima esperienza con l’intelligenza artificiale risale all’epoca dei miei studi al Mit. Nell’estate del 1973 ero impegnato nella scrittura di codice informatico per ipotizzare l’evoluzione nel tempo della parte interiore di una luna ghiacciata di Giove. Il mio compagno di stanza, Paul, studiava matematica con Seymour Papert e Marvin Minsky, pionieri del settore, nei laboratori del Mit dedicati all’IA, nella zona est del campus. I nostri orari erano quelli tipici di ogni studente. La sera tardi, mentre aspettavo l’esecuzione di un nuovo modello informatico, passavo il tempo nel laboratorio di Paul e facevo amicizia con le persone che stavano inventando l’IA. Intorno a mezzanotte andavamo a cenare in una gastronomia aperta tutta la notte. In quegli stessi anni, Hans-Lukas Teuber insegnava quella che all’epoca si chiamava «Introduzione alla psicologia» al Mit. Le sue lezioni si tenevano nell’auditorium più grande del campus, perché la metà delle persone che le frequentavano, tra cui io, non lo facevano per i crediti, ma perché ne erano incantati. La sua versione della psicologia era molto diversa da quella che si insegnava nelle altre università. Non a caso, essa poi prese il nome di «scienze cognitive e del cervello»: una definizione di gran lunga più accurata.
Oggi il Mit ha un dipartimento di Scienze cognitive e del cervello, con un sito web che afferma che tali scienze sottopongono il cervello a un processo di ingegneria inversa. Certamente hanno fatto un lavoro straordinario nel mappare il funzionamento del cervello, ma quella mappa non si può semplicemente ricreare con un insieme di chip di silicio. Quello delle scienze cognitive è un dipartimento a parte, con un insieme di compiti diversi dall’IA. E sebbene i neuroscienziati e i programmatori dell’IA comunichino tra loro, non è affatto detto che essi stiano realmente facendo la stessa cosa.
Cos’è l’intelligenza?
C’è un aspetto che vorrei sottolineare. Le persone che conobbi all’epoca, una cinquantina di anni fa, erano splendide, ma non erano creatori divini: erano solo persone molto intelligenti e molto impegnate. Ciò che si studia nelle scienze cognitive, ciò che si crea nei laboratori di IA, è una mappa di come funziona il cervello, come fa e cosa fa. Ma il «come» è diverso dal «cosa».
Cos’è l’intelligenza? Questa è una domanda per filosofi e, forse, per teologi. A questo proposito, credo si possa partire da Tommaso d’Aquino, il quale sottolineava l’importanza dell’intelletto e del libero arbitrio nell’essere umano. In altre parole, si può pensare all’anima come a un’entità capace di essere consapevole sia di sé sia delle cose al di fuori di sé; e poi è libera di scegliere cosa fare con la conoscenza accumulata, e come interagire con le altre entità. Si noti che questa «anima» non ha massa, non occupa spazio. A differenza del libro dell’esempio riportato sopra, l’anima non è soggetta alle leggi di Newton, ma è comunque molto reale.
Per capire meglio quanto lo sia, proviamo a fare un’analogia con un computer. Immaginate una coppia di portatili identici: stesso modello, stesso sistema operativo, persino stesso colore fisico. La differenza – a parte vari graffi sulla superficie – sta interamente nei file custoditi all’interno di ciascuno. Questi non contribuiscono alla massa del computer, e un computer carico di dati non occupa più spazio di uno con un hard disk quasi vuoto. Ma è proprio in questi file che risiede la differenza tra un computer e l’altro. Ora, riflettete! I file sono conservati con qualche modalità elettronica: ad esempio, tramite l’orientamento dei grani magnetici, che in ultima analisi rappresenta un insieme di scelte binarie. Senza un sistema operativo in grado di leggerla e interpretarla, la manifestazione fisica dei dati nel supporto elettronico sarebbe indistinguibile da un qualsiasi rumore casuale. È il sistema operativo a convertire quei bit in testo. Ma non fate l’errore di pensare che questo denoti l’intelligenza del sistema operativo. Perché, in realtà, tutto ciò che esso fa è creare una serie di puntini colorati sullo schermo del computer. E se non sapete leggere le lettere e le parole formate da quei puntini – ossia, se non riconoscete l’alfabeto o qualsiasi altro sistema di scrittura utilizzato dalla lingua mostrata sullo schermo –, il tutto vi sembrerà semplicemente un gran pasticcio.
Conclusione
Cosa ci insegna tutto questo? Che ciò che il computer contiene e mostra è del tutto privo di significato senza una qualche entità al di fuori dello stesso che sia in grado di dare un senso a ciò che vede sullo schermo. E quella entità deve avere una coscienza, un intelletto, il libero arbitrio, un’anima. I dati non sono informazioni, non sono conoscenza, non sono saggezza. Un’abile programmazione può consentire ai computer di uguagliare, e talvolta superare, gli esseri umani in alcuni casi. Ma i programmatori stessi, come il mio amico ingegnere Jerry, sanno bene che ciò che i computer stanno facendo non ha niente a che fare con l’intelligenza.
L’interrogativo rimane: gli esseri umani saranno mai in grado di costruire qualcosa dotato di intelligenza? Qualcosa capace di saggezza? In realtà, è così, succede ogni giorno. I bambini, grammo per grammo, sono più potenti di un qualsiasi computer. E, a differenza dei computer, possono essere prodotti ovunque da manodopera non specializzata. Ma sebbene siamo in grado di creare nuove persone – e nuovi computer –, la nostra intelligenza umana non è mai stata davvero capace di inventare un nuovo peccato. Il male è semplicemente l’assenza di un bene che dovrebbe esistere nel mondo. L’avarizia, l’invidia, la gola, la lussuria e tutto il resto tenteranno qualsiasi entità dotata di libero arbitrio. E qualsiasi entità dotata di intelletto e consapevolezza di sé si interrogherà sempre sulle «grandi domande», e sarà tentata dal richiamo di qualche sapere segreto, o dalla disperata ricerca di qualche certezza. I poveri saranno sempre tra noi, perché saremo sempre tentati di impoverire il prossimo, di spadroneggiare su di esso. O saremo tentati di impoverire noi stessi, mostrandoci timorosi di affidarci a Dio. Ma, al tempo stesso, anche le virtù della fede, della speranza e della carità saranno sempre possibili.
Anche se un giorno le macchine dovessero raggiungere una certa autocoscienza, ci sarebbe davvero motivo di avere paura? Se davvero sviluppassero i tratti dell’anima umana, intelligenza e libero arbitrio, questo non le renderebbe né migliori né peggiori di qualsiasi altra anima, umana o meno. Sarebbero capaci di peccare, e di amare. Perché temere il peggio?
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In questo libro Marcello Paradiso, docente di teologia sistematica presso l’Istituto teologico abruzzese-molisano di Chieti, affronta tematiche classiche del pensiero occidentale, trattate non soltanto da pensatori cristiani, ma anche da autori comunemente presentati come critici verso l’eredità del pensiero giudaico-cristiano. Le correnti del personalismo, esistenzialismo, dialogismo, e categorie filosofiche come identità, alterità, riconoscimento, relazione, incontro sono il terreno fertile sul quale si fonda la società europea, pur nelle sue diverse declinazioni e versioni, a volte aspre e conflittuali.
La tesi proposta nel libro è che nella cultura europea continua a scorrere un fiume carsico di linfa cristiana, nonostante emergano posizioni estremamente dialettiche. Un pensiero onestamente critico non può non riconoscerlo. Non è illusorio ottimismo nutrire la speranza che tale eredità continui a essere indispensabile per il futuro della nostra civiltà. L’autore non nasconde la pretesa di affrontare problematiche attuali e interrogativi presenti nell’agorà della cultura contemporanea, non tanto per offrire risposte preconfezionate, quanto per contribuire al confronto e al dialogo tra diverse prospettive.
Il libro si articola in quattro capitoli, preceduti da una premessa e un preludio (che precisa i concetti presi in esame) e seguiti da un’appendice. Il primo capitolo è uno sguardo filosofico che va da Hegel fino a Ricœur, passando per alcune figure singolari come Kierkegaard, Heidegger, Sartre, Lévinas, e indaga i registri con i quali il percorso filosofico della modernità e contemporaneità si è cimentato riguardo alle questioni fondamentali dell’identità, alterità, riconoscimento, differenza e relazioni.
Il secondo capitolo è uno sguardo biblico, quasi una modalità di approccio al contenuto della rivelazione dal punto di vista dell’incontro tra Dio e l’uomo.
Il terzo capitolo – che vuol essere il cuore della proposta dell’autore – tratteggia il mistero delle relazioni tra le Persone divine.
Il quarto capitolo è uno sguardo sulla realtà della Chiesa nell’attuale contesto, insistendo sul tema dei suoi rapporti con il mondo, oltre che al suo interno. Il testo si conclude, nell’appendice, con una riflessione sulla preghiera come luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo.
MARCELLO PARADISO
Identità Alterità Riconoscimento. Sulle relazioni umane e divine
Assisi (Pg), Cittadella, 2021, 232, € 17,90.
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