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di Laura Tussi

“Giornata della Solidarietà” che in realtà purtroppo diventa una “Giornata in Caserma”.

Per anni il Comune di Pisa ha organizzato per le scuole pisane una “Giornata della Solidarietà” che in realtà era una “Giornata in Caserma”, dato che le attività si svolgevano all’interno del Capar, centro di addestramento paracadutisti e sede della Brigata Paracadutisti Folgore.

L’iniziativa che da noi pacifisti e nonviolenti è stata avversata era prevista nella città di Pisa il 27 aprile 2011, promossa dal comune sotto le insegne ipocrite della “Giornata della solidarietà”.

Chiedevamo al comune di Pisa di non portare i bambini delle scuole in caserma.

Il rapporto direttamente proporzionale tra incremento delle spese militari e impoverimento della scuola e dell’istruzione è evidente e netto.

Sarebbe davvero necessario, promuovendo e favorendo un contesto di disarmo generalizzato, convertire le caserme in luoghi di cultura, in ambiti di dialogo interculturale, interreligioso e di educazione alla pace e alla gestione dei conflitti.

Il militarismo e la propensione alla guerra sono un aspetto del maschilismo più truce. Gli uomini, muovendosi guerra, violentano Madre Terra, l’umanità e l’ambiente.

Il militarismo sconsacra l’ideale di donna e ripudia il rispetto del femminile, ossia il lato femmineo di ogni individuo e persona, che è implicito in tutto il genere umano e nel regno animale e vegetale.

La valorizzazione di genere, la considerazione della donna e del femminile, il dialogo tra generi e generazioni, come punto di riferimento per la trasmissione della memoria storica e dei valori della Pace, a partire dall’istituzione scolastica, sono strumenti ed istanze imprescindibili dei veri processi di Pace, contro l’obbedienza agli ordini, all’uniformità, al culto della forza tipici delle organizzazioni militari.

Il sistema politico e guerrafondaio egemone svilisce la figura della donna come portatrice di bellezza autentica come ideale anche interiore e di pace e di logiche nonviolente nel contesto sociale e a livello planetario e universale.

Per questo motivo, la cultura politica attualmente egemone, strumentalizza e svilisce la figura della donna. Vuole imporre lo spirito maschilista e guerrafondaio, di violenza e sopraffazione.

La caserma viene propinata agli studenti con la seduzione di una giornata di festa, di avventura, di gioco, di evasione e i militari vengono presentati come eroi e promotori di alti ideali di pace e solidarietà. Invece, in realtà, la guerra è mercenaria.

I martiri militari morti nelle cosiddette e surrettizie missioni di pace sono elevati a eroi nazionali tramite una retorica militaresca e guerrafondaia davvero negativa e di pessimo esempio soprattutto per le giovani generazioni e per l’intera umanità.

La giornata di solidarietà con gli eroi militari morti in guerra è una retorica militarista molto pericolosa, per cui la guerra viene presentata e trasmessa in maniera fittizia ed edulcorata. Questo pretesto ha un effetto devastante anche sulla psicologia infantile.

La guerra viene proposta come una missione di pace e rappresentata come un gioco a cui i bambini e i ragazzi non possono rinunciare. La giornata in caserma risulta molto seduttiva agli occhi dei bambini, in quanto viene posta enfasi nel mondo che popola le fantasie infantili, con armi giocattolo e altri espedienti fascinosi, dove il gioco assume i connotati della violenza e della prevaricazione, come avveniva con la gioventù balilla in epoca fascista.

La guerra ingenera sempre violenza, lutti, morte, dolore, miseria materiale, etica e morale. Per questo motivo, le nuove generazioni devono essere educate a valori veri di democrazia, di rispetto dell’altro, di dialogo tra culture e fedi, aborrendo ogni forma di prevaricazione e di violenza e di sopraffazione e odio tra genti, popoli, minoranze: persone.

La pace non è un’utopia: possiamo vivere in un mondo dove non esistano patrie e nazioni, frontiere e burocrazie, limiti e confini, ma comunità educanti aperte al dialogo, alla gestione nonviolenta dei conflitti, al cambiamento, al progresso costruttivo, senza stereotipi e pregiudizi, nel rispetto delle culture altre e delle differenze di genere e intergenerazionali. Chiediamo di non portare i bambini in caserma e nemmeno i militari nelle scuole e nelle università per favorire contesti di pace: apriamo invece le scuole e gli atenei accademici agli altri, ai diversi, agli ultimi, agli emarginati, agli oppressi e a tutti più deboli di cui tutti siamo parte nel tessuto sociale, comunitario e nel mondo.

Afferma Federico Giusti dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e dell’università: “La militarizzazione delle scuole e dell’università ha ormai origini lontane da quando, una quindicina di anni fa registravamo le prime presenze, in varie vesti, di militari nelle scuole.

Abbiamo avuto percezione del problema con qualche anno di ritardo eppure il fenomeno militarizzazione interessa tutta la scuola, da quella dell’infanzia a quella secondaria di secondo grado, fino ormai all’università dove il settore della ricerca, anche su indicazioni Ue, si sta muovendo nella ricerca di tecnologie duali o equiparando ad antisemitismo le iniziative di boicottaggio di Israele e di contrasto al genocidio del popolo palestinese. Sono stati firmati protocolli a livello nazionale, il primo è del 2014 e locale, accordi quadro tra i ministeri dell’Istruzione e della Difesa. In taluni casi hanno coinvolto anche il ministero del Lavoro attraverso i percorsi di alternanza scuola-lavoro, oggi PCTO, con la presenza degli studenti in basi e infrastrutture militari o all’interno delle principali aziende del comparto militare-industriale”.

La strategia è ben chiara: affermare la cultura della difesa e della sicurezza, un concetto presente da tempo in tutti i documenti strategici delle forze armate o dei Governi nella Ue.

Si cerca inoltre di conquistare il consenso delle nuove generazioni su un modello di forze armate che intervengono a 360 gradi: sia all’estero, nelle varie missioni internazionali, sia all’interno, in sfere una volta non di loro competenza, oppure, sulle ceneri dello stato sociale, si presentano all’occorrenza come artefici della protezione civile, protagonisti dell’educazione civica, stradale, della lotta al cyberbullismo o insegnanti di educazione fisica. Siamo davanti, ormai da anni, a una svolta che vuole presentare il settore militare non solo come protagonista della nostra società ma anche alfiere di progetti sociali che oggi lo Stato non realizza avendo impoverito il welfare, ossia lo stato sociale e i servizi alla persona, proprio per indirizzare crescenti risorse al settore militare.

*wwwtransform.it



“Stamattina siamo a Fiuggi al presidio contro il G7 del genocidio. I governi del G7 sono corresponsabili e complici dei crimini di Netanyahu”, dichiara il segretario di Rifondazione Maurizio Acerbo presente al presidio NoG7 a Fiuggi. “Chiediamo che USA, Germania e anche Italia la smettano di armare uno stato terrorista come Israele Il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale nei confronti di Netanyahu ha reso evidente il doppiopesismo dell’Occidente che pretende l’impunità per i suoi crimini”, conclude Acerbo.


4 Femminismi, transfemminismi, intersezionalità: rivoluzione in corso - Incontro con: Eleonora Forenza Silvia Conca Ivana Palieri Carlotta Cossutta Lunedì 25 novembre 2024 Con questo seminario desideriamo proporre alla nostra autoformazione intellettuale collettiva un approfondimento sulla prospettiva teorica e politica dell’intersezionalità e del femminismo intersezionale. Pensiamo siano posizionamenti teorici, pratici e politici non affatto scontati nel [...]


Faccio gli auguri a Giuseppe Conte e al M5S per la nuova fase che si è aperta. Con M5S abbiamo costruito in varie città coalizioni di alternativa e abbiamo tanti punti di convergenza sulle politiche sociali, ambientali e contro la guerra. Con spirito costruttivo e di confronto debbo dire che lascia perplessi la loro scelta di fare propria la proposta di esercito europeo. Si tratta di un’opzione a cui già si opponeva negli anni ’80 Enrico Berlinguer con i movimenti pacifisti facendo presente che l’Europa non doveva aggiungersi agli altri poli militaristi ma qualificarsi come soggetto che opera per la pace e il disarmo nelle relazioni internazionali.

Se si fa propria la necessità di un esercito europeo diventa difficile sostenere che dobbiamo tagliare le spese militari, fermare i crescenti investimenti sull’industria bellica come nuovo pilastro europeo promossi da Ursula von der Leyen, criticare la logica folle del Patto di Stabilità. Su questa strada si legittimano le richieste della NATO e di Trump di aumentare la nostra spesa militare. Questo esercito in realtà sarebbe semplicemente una scusa per armare ulteriormente la NATO in Europa. Per queste e altre ragioni alle ultime elezioni europee, con Michele Santoro e Raniero La Valle, abbiamo ribadito nel programma della lista Pace Terra Dignità il nostro no all’esercito europeo.

Inoltre appare piuttosto surreale il passaggio dal “basta euro” a una proposta propria di chi sta costruendo l’Europa senza democrazia. Fare un esercito europeo senza una Costituzione, una politica estera e di difesa e senza istituzioni democratiche di riferimento è inaccettabile e perpetua il funzionalismo ademocratico per altro rafforzando un complesso militare industriale europeo che imita il modello di keynesismo militare degli USA e nella UE non avrebbe neanche contrappesi. Pensare che sia la forza militare a garantire la sicurezza è un grave errore. Per altro significa porsi nel quadro di una corsa al riarmo che oggi è in particolare nucleare e accresce l’insicurezza come aveva previsto Gorbaciov denunciando la crescente militarizzazione delle relazioni internazionali indotta dalle scelte degli USA e della NATO a partire dagli anni ’90.

L’Europa ha bisogno non di deterrenza ma di pace. Nel mondo multipolare l’Europa dovrebbe svolgere ruolo di mediazione nei conflitti e di garanzia di politiche di pace e disarmo. Dovremmo chiedere che l’Unione Europea faccia proprio il rifiuto della guerra della nostra Costituzione invece di accodarsi alla tendenza verso il militarismo e lo scontro globale.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea



Profitti alle stelle, salari al palo. In Italia il sistema delle relazioni industriali è completamente saltato: non resta che il conflitto. Tre documenti, letti in successione, possono aiutarci a mettere a fuoco la situazione dell’Italia di oggi e a capire meglio le cose giuste da fare. Il 29 settembre l’area studi di Mediobanca ha pubblicato il [...]

marcolo reshared this.



Il Comitato politico nazionale esprime grande preoccupazione in merito all’improvvisa accentuazione della drammaticità della situazione economica, già grave, in cui versa il Partito.

È del tutto evidente che le ultime iniziative degli Enti verso i quali si è formato nel corso degli anni l’enorme debito che ci affligge, innanzitutto Agenzia delle entrate, disegnano un quadro radicalmente diverso da quello che, fino ad ora, ci aveva consentito, con vari artifici e molti sacrifici, di gestire il debito stesso.

La possibilità per gli Enti creditori di poter agire direttamente sui depositi e perfino su alcune entrate ricorrenti, come ad esempio gli affitti, azzerando le lungaggini della tradizionale esazione delle cartelle, fa venir meno ogni alternativa all’obbligo della certezza del pagamento di quanto dovuto.

Il Cpn impegna pertanto tutto il Partito ad uno sforzo collettivo straordinario per far sì che il Partito possa superare un momento di difficoltà più grave, anche per la sua diversa natura, di tutti quelli che abbiamo fin qui affrontato.
Si tratta di dar vita immediatamente ad una campagna straordinaria di sottoscrizioni diffusa , articolata e di massa, con l’obiettivo di raccogliere almeno 50/70.000 euro entro breve tempo.

La cifra che ci prefiggiamo di raccogliere corrisponde a poco più di 5/7 euro ad iscritto/a. Siamo consapevoli di quanto già fanno quotidianamente le/gli iscritte/i per mandare avanti Circoli e Federazioni riteniamo che ci si debba muovere anche e soprattutto verso l’esterno. Ci sembra utile, però, fissare un obiettivo che responsabilizzi tanto le strutture periferiche quanto le iscritte e gli iscritti al suo raggiungimento.

A tale scopo, si danno le seguenti indicazioni:


  • Lancio sottoscrizione straordinaria e nomi di singoli e federazioni vanno pubblicati sul sito
  • Si chiede alle compagne e ai compagni che partecipano ai congressi di circolo e di federazione di versare un piccolo contributo personale e volontario che le federazioni debbono inviare IMMEDIATAMENTE al nazionale.
  • Si proponga poi un contributo per il congresso dal titolo “La tredicesima per il dodicesimo”
  • Raccolta diretta di fondi con il classico “blocchetto” rivolto, per esempio, al giro di conoscenti, parenti, colleghi di lavoro, ecc.
  • Lettera del segretario nazionale a personalità esterne e a iscritte/i e dei segretari di federazione e regionali analoghe
  • Mercatini (libri, oggettistica, abbigliamento, ecc)
  • Sottoscrizioni a premi in tutti i territori, le cosiddette lotterie, gestite a livello provinciale ma organizzate contestualmente a livello regionale
  • raccolta di fondi tramite crowfounding su piattaforme dedicate


Nell’immediato, il Cpn


  1. sollecita tutte le Federazioni che siano in grado di farlo a versare la somma di 500 euro al nazionale a titolo di prestito per il quale riceveranno una “lettera di credito”.
  2. sollecita tutte/i le/i componenti che ancora non lo abbiano fatto a sottoscrivere il versamento periodico (RID) e lancio campagna 2000 rid per il partito da raggiungersi entro la data del congresso nazionale con obiettivi distribuiti proporzionalmente tra federazioni.
  3. dà mandato al Tesoriere di verificare, in accordo con le strutture interessate, la possibilità di procedere alla messa in vendita di immobili oltre quelli già deliberati dalla direzione che vanno comunque proposti al cpn.
  4. in caso di protrarsi “emergenza” dà mandato alla segreteria, solo come estrema ratio, di verificare entro il 31 dicembre la possibilità di tenere il congresso nazionale on line o altrimenti di promuovere una “cassa di mutuo soccorso” per garantire la partecipazione e preservare l’efficacia del congresso nello spazio pubblico (sociale, politico, mediatico).
  5. Dà mandato alla segreteria di procedere al lancio della campagna di tesseramento 2025.


Rifondazione Comunista sarà in piazza come ogni anno, insieme alla marea che lotta contro il patriarcato tuttora vigente e radice culturale della nostra società, contro le espressioni più tossiche del patriarcato – in primis le guerre, i femminicidi e la violenza contro le donne in tutte le sue forme. Una grande partecipazione sarà la migliore risposta alle parole del ministro Valditara e al suo vergognoso tentativo di etnicizzare la violenza maschile: a uccidere Giulia è stato un figlio sano del patriarcato ‘made in Italy’.

Come Rifondazione Comunista – Partito della Sinistra Europea sosteniamo la lotta femminista e queer, l’intersezionalità nei processi di liberazione e affermazione di diritti sociali e civili. Rifiutiamo le narrazioni reazionarie per cui le rivendicazioni femministe sarebbero ‘radical chic’ quando in realtà riguardano la condizione e i diritti della maggioranza delle classi popolari e lavoratrici, come insegnava Lidia Menapace.

Sosteniamo la protesta crescente delle donne e dei movimenti transfemministi europei per il compromesso raggiunto da Consiglio e Parlamento europei sulla direttiva contro la violenza sulle donne, in cui si è recepito il principio per cui un rapporto sessuale senza consenso è stupro, ma senza l’indicazione di reato europeo – e sosteniamo con altrettanta convinzione che non può esistere lotta di liberazione di tutti i popoli senza la liberazione di tutte le donne, di tutte le soggettività oppresse e di tutti i corpi non conformi.

Sabato 23 a Roma e a Palermo manifestiamo contro la violenza maschile e di genere.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista,
Eleonora Forenza , segretariato del partito della Sinistra Europea

Sabato 23 novembre

Ore 14.30
Piazzale Ostiense, Roma

Ore 16.30
Piazza Indipendenza, Palermo



I dati del rapporto povertà della Caritas di Roma evidenziano le conseguenze della guerra ai poveri del governo Meloni. Chi ha cancellato il reddito di cittadinanza porta la responsabilità del forte aumento del numero di nuovi poveri che si rivolgono alle mense e ai servizi della Caritas nella capitale. I dati sugli sfratti per morosità incolpevole ricordano poi che il governo ha cancellato il fondo relativo. Il sindaco Gualtieri e il presidente della Regione Rocca si sono detti favorevoli alla richiesta di blocco degli sfratti e auspichiamo che il governo recepisca la proposta. E’ evidente – come sottolinea il rapporto – che la povertà abitativa è conseguenza delle scelte di governi nazionali e regionali che hanno dimenticato che quello a un tetto è un diritto umano e che non hanno investito per il recupero del patrimonio edilizio pubblico esistente e per la realizzazione di nuove case popolari. Invece di criminalizzare le occupazioni dei movimenti di lotta per la casa con il ddl sicurezza il governo pensi a investire nell’edilizia sociale.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale e Elena Mazzoni, segretaria della Federazione di Roma del Partito della Rifondazione Comunista



Matteo Prencipe Segretario Provinciale di Rifondazione Comunista di Milano dichiara:
Il “Salva Milano” approvata oggi alla Camera, da sanatoria ai costruttori pensata dalla destra al governo, diventa il “liberi tutti” ad edificare selvaggiamente in tutta Italia per la richiesta del Sindaco Sala e il benestare del Partito Democratico.
Dora in avanti i cittadini milanesi e dell’intero paese, si troveranno edifici costruiti in cortili e grattacieli dove prima vi erano case di un piano. Tutto legale. Uno schiaffo alla città e alla Magistratura competente che aveva avviato numerose indagini per gli illeciti riscontrati , che hanno coinvolto costruttori e funzionari comunali. Una grave responsabilità politica che si è assunta il Partito Democratico per compiacere un Sindaco ormai alla deriva politica. Positivo che il Movimento 5 Stelle e AVS abbiano votato contro alla Camera. Sarebbe auspicabile che i Verdi e il loro Assessore nella Giunta Sala ne traessero le conseguenze politiche, perchè non si può fare due parti in commedia. O con i cementificatori e chi li sostiene o con la protesta. Come Rifondazione Comunista proseguiremo la nostra battaglia a sostegno della Magistratura e per vedere prevalere la legge sul sopruso e parteciperemo al sit-in indetto da numerosi comitati ambientalisti il 22 novembre davanti al P.zzo di Giustizia”

Milano, 21 Novembre 2024



L’urbanista e saggista Paolo Berdini ha deciso di iscriversi a Rifondazione Comunista. Di seguito una dichiarazione di Maurizio Acerbo e la lettera di Paolo Berdini.

”La scelta di Paolo Berdini di iscriversi al nostro partito ci incoraggia nell’impegno per la ricostruzione di una sinistra degna di questo nome. Paolo è da sempre un punto di riferimento per le lotte ambientaliste, contro la speculazione edilizia e il consumo di suolo, per i servizi pubblici, il diritto all’abitare, la difesa dei beni comuni e del paesaggio. Con Paolo Berdini lavoreremo per rafforzare il profilo ecosocialista del nostro partito”, dichiara Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista.

Pubblichiamo la lettera con cui Paolo Berdini ha comunicato la decisione di iscriversi a Rifondazione Comunista:

Qualcosa è cambiato. Perché mi iscrivo a Rifondazione

di Paolo Berdini

Sono molti anni che condivido con le compagne e i compagni di Rifondazione comunista la riflessione e l’azione concreta in difesa dei diritti del lavoro e dei diritti alla città.

Grandi gruppi economici e di potere hanno deciso da più di due decenni di chiudere le conquiste sociali dello scorso secolo, dalla sanità pubblica all’educazione scolastica, e non tollerano più neppure che ci sia una voce a tenere accesa la speranza di riprendere il cammino interrotto.

Due fatti recenti che mi hanno spinto a chiedere l’iscrizione al partito.

Due anni fa lo schieramento della destra guidata da Giorgia Meloni conquistava il governo del paese battendo uno schieramento guidato dal Pd incapace di proporre alcun tema alternativo. Da due anni la seconda carica dello Stato, alcuni ministri e la stessa presidente del consiglio, sono impersonate da chi non si riconosce nella Costituzione del 1948. È un fatto inedito nella storia d’Italia.

Un mese fa, nelle elezioni per il governo della regione Liguria provocate da un’inchiesta sulla corruzione che ruotava intorno al presidente di centro destra, il centro sinistra ha ripetuto l’errore e non è stato capace di scrivere un’agenda politica che rendesse evidente la indispensabile discontinuità culturale e programmatica. I partiti che sostenevano il presidente Toti – che patteggiando la pena ha ammesso le sue dirette responsabilità- è riuscito a vincere di nuovo.

Del resto, per toccare un tema che mi sta a cuore, l’inchiesta sull’urbanistica milanese ha scoperchiato un modello di governo urbano guidato dal Pd succube dei poteri fondiari e dei fondi immobiliari che dominano le nostre città. Quello schieramento non è dunque in grado di distinguersi sul piano della legalità e del rispetto delle regole.

Sono dunque convinto che siamo di fronte ad un passaggio molto delicato della vita del nostro paese. In gioco ci sono il rispetto della Costituzione e della legalità.

Per questo occorre contribuire con idee e militanza attiva alla costruzione di un partito di sinistra forte e autorevole, unico argine al dilagare delle idee eversive.

Rifondazione comunista non ha alcuna rappresentanza istituzionale nazionale e viene sistematicamente oscurato dal sistema omologato di informazione. Pur in questa chiave di difficoltà, Rifondazione è stata un coerente punto di riferimento per la difesa della dignità del lavoro, dei servizi pubblici e anche sui temi ambientali e urbanistici con posizioni nette su temi come lo stop al consumo di suolo.

Merito questo dell’attuale gruppo dirigente che con Maurizio Acerbo ha saputo mantenere una linea politica e di azione coerente di sinistra e antiliberista.

La democrazia italiana, questo afferma la nostra Costituzione, si basa sul sistema dei partiti. È dunque indispensabile contribuire al rafforzamento dell’unica voce fuori dal coro del sistema politico italiano.

Per questo ho deciso di mettermi a disposizione di Rifondazione comunista e contribuire dal suo interno alla costruzione di una sinistra in grado di condizionare l’agenda dei governi nazionali e locali scritta dai poteri economici dominanti.



Da diversi anni l’ex Canapificio di Caserta, una delle realtà più note e significative nella solidarietà attiva ai migranti, è sotto attacco. Una inchiesta giudiziaria, avviata nel 2018 dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, conclusa nel 2019, silente per cinque anni e ora riemersa con il deposito formale degli Atti, ha indagato le attiviste e gli attivisti del Canapificio, accusandoli incredibilmente di truffa ai danni dello Stato.
Nonostante la palese inconsistenza del reato ipotizzato, la Procura ha ritenuto finora di non dover archiviare l’inchiesta.
E parallelamente, contro gli attivisti, si è mossa periodicamente la stampa più apertamente reazionaria.
Così, la vergognosa prima pagina di un quotidiano casertano notoriamente schierato a destra avvia nuovamente oggi, 20 novembre, l’ennesimo e insidioso attacco mediatico contro la più rilevante “presenza scomoda” del Casertano. Scomoda, ovviamente, per chi se ne sta comodamente dalla parte delle logiche di sopraffazione dell’attuale sistema sociale.
Di fatto, si tenta di dar vita a un nuovo “caso Lucano”, con la grancassa dei media allineati col ministro Salvini, che criminalizzano spudoratamente le pratiche concrete di solidarietà.
Noi lo sappiamo che i compagni e le compagne del Canapificio non si lasceranno abbattere dai linciaggi mediatici. Sappiamo che alla fine usciranno a testa alta, con le scuse e i risarcimenti dovuti.
Ma in ogni caso non si può permettere che la disinformazione passi impunemente.
Come Rifondazione Comunista, ci dichiariamo disponibili fin da subito a contribuire a una vasta campagna nazionale di solidarietà con le compagne e i compagni dell’ex Canapificio.
Le menzogne, le cattiverie e le aggressioni vanno contrastate colpo su colpo. E tutto quello che potremo fare in tal senso, lo faremo.
Per l’intanto inviamo, a nome di tuttà la nostra comunità politica, un abbraccio fortissimo agli attivisti e alle attiviste dell’ ex Canapificio di Caserta.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale del PRC.
Stefano Galieni, responsabile del Dipartimento Immigrazione.
Rino Malinconico, segretario regionale del PRC della Campania



Cristina Simó Alcaraz*

1. Sviluppo dell’Assemblea.

La coordinatrice dell’Assemblea, Cristina Simó, ha spiegato lo slogan della VII Assemblea femminista. “Mai più fascismo, mai più guerre”.

Purtroppo, il fascismo e l’estrema destra in tutte le sue forme sono già una minaccia reale per l’umanità. Le loro politiche reazionarie vanno contro gli interessi delle classi lavoratrici, contro la sovranità dei popoli e soprattutto contro i diritti umani delle donne e delle persone LGBTI.

Il fascismo è tornato e intende restare perché ha un piano globale che va oltre l’Europa. Il fascismo controlla i social network e i media che inondano quotidianamente di fake news. Cerca la disaffezione politica con i suoi discorsi negazionisti, nega tutto, non solo le disuguaglianze e la violenza maschile, ma lo vediamo anche con il cambiamento climatico. Usano la guerra e i conflitti come roccaforti per consolidare la loro ideologia reazionaria. Dal femminismo sappiamo che le guerre non risolvono le controversie, al contrario, le accentuano perché, inoltre, nelle guerre, noi donne, i nostri corpi continuano a essere territorio di conquista.

La violenza contro le donne si intensifica prima e dopo una guerra. Ne abbiamo visto un esempio nella guerra della NATO in Afghanistan. Quando la liberazione delle donne afghane dai Talebani è stata usata per giustificare l’invasione del Paese e, d’altra parte, il ritiro delle truppe statunitensi è avvenuto senza tener conto della situazione di estrema schiavitù subita dalle donne afghane.

Le femministe capiscono che la cura è un diritto umano e sanno che non si possono realizzare i diritti umani di qualcuno violando quelli di qualcun altro.

Parliamo di femminilizzazione della povertà nel mondo e gran parte di essa deriva dalle azioni imperialiste degli Stati Uniti e dal neocolonialismo dei loro satelliti europei. Le guerre e le guerre economiche, perché dopo i conflitti bellici veniamo usate come bottino di guerra, ci vengono sottratte le nostre terre e subiamo spostamenti forzati, lasciandoci in situazioni di estrema povertà ed esclusione sociale, oppure dopo i conflitti economici alcune di noi sono costrette a emigrare e diventano facili prede delle reti di trafficanti. Tutto questo sarà aggravato dalla vittoria di Trump e dai suoi ideali misogini e LGTBI-fobici, che potrebbero significare una riduzione globale dei nostri diritti.

L’Assemblea si è sviluppata in una prospettiva internazionale in cui si è cercato di comprendere gli effetti dell’estrema destra, del neofascismo e del sionismo sulla vita e sui diritti delle donne, sulla base di diverse realtà concrete.

Dalla proiezione di un video in cui Nirva Camacho, vicepresidente della FDIM nella regione delle Americhe e dei Caraibi. Fondatrice della Rete di organizzazioni afro-venezuelane, del Cumbe di Donne afro-venezuelane e della Rete di donne Vargas. Componente del consiglio di amministrazione dell’Unione nazionale delle donne (UNAMUJER) del Venezuela. Nel suo intervento ha spiegato l’emancipazione e le conquiste di diritti che le donne venezuelane hanno ottenuto dopo la rivoluzione “bolivariana” e come l’estrema destra, nel suo tentativo di colpo di Stato dopo le elezioni presidenziali, abbia commesso tre femminicidi di donne leader di comunità per il semplice fatto di essere chaviste e di difendere i diritti conquistati.

È seguito l’intervento di Ratebeh Alaidin, dell’Unione Democratica della Palestina (FIDA). Ci ha spiegato come la situazione delle donne sia peggiorata dopo il genocidio del popolo palestinese da parte del governo sionista di Israele; la maggior parte delle vittime e delle persone scomparse sono donne e bambini. Le donne partoriscono senza assistenza medica. Dopo la guerra, le donne sono state separate dai loro figli che vivono nelle aule scolastiche e dai loro mariti in campi profughi separati. Ma la situazione di disuguaglianza dura da decenni, le donne palestinesi subiscono un apartheid perché non conoscono l’ebraico e non hanno diritto al lavoro o all’assistenza sanitaria. I muri con più di 700 checkpoint hanno reso difficile per le donne lasciare i loro villaggi. Dall’assemblea esprimiamo la nostra solidarietà alle donne palestinesi e l’urgenza del cessate il fuoco e dei necessari aiuti umanitari.

Abbiamo poi visto un video di Cristina Romano, presidente dell’organizzazione femminile Juanita Moro in Argentina. Ha spiegato le azioni del governo di ultradestra di Milei, che si oppone al diritto all’aborto e al matrimonio egualitario. È contrario a tutti i servizi pubblici come la sanità, l’istruzione e la parità di genere, considerando questi ultimi uno spreco di denaro. In un Paese dove ogni 35′ c’è un femminicidio, non ci sono più progetti per la prevenzione, l’attenzione e la riparazione dalla violenza maschile e tutte le politiche pubbliche per la parità di genere sono state congelate.

Poi Skevi Koukouma, segretaria generale del Movimento femminile cipriota POGO, vicepresidente della FDIM per l’Europa ed ex compoente di AKEL, ha spiegato come la guerra colpisca le donne più degli uomini. Circa il 90% delle vittime della guerra sono civili, donne e bambini.

Le parti coinvolte nel conflitto spesso violentano le donne impunemente, a volte utilizzando lo stupro sistematico come tattica di guerra e terrorismo, perchè è vero che è lo strumento di guerra più economico.

Nel 2023, la percentuale di donne uccise nei conflitti armati è raddoppiata rispetto all’anno precedente, il numero di casi di violenza sessuale legata ai conflitti verificati dalle Nazioni Unite è aumentato del 50% rispetto all’anno precedente e il numero di ragazze vittime di gravi violazioni in situazioni di conflitto armato è aumentato del 35%.

Gli autori e i leader che tollerano la violenza sessuale legata ai conflitti, quando non la incoraggiano, devono essere ritenuti responsabili e deve essere fatta giustizia, anche attraverso i comitati per le sanzioni del Consiglio di Sicurezza e il Gruppo informale di esperti su donne, pace e sicurezza.

Nonostante le campagne volte a promuovere la partecipazione delle donne alla prevenzione, alla risoluzione e alla riabilitazione dei conflitti e a difendere i loro diritti durante la guerra, gli ultimi rapporti annuali del Segretario generale delle Nazioni Unite sulle donne, la pace e la sicurezza segnalano una stagnazione e una regressione su tutti gli indicatori chiave, con crescenti contraccolpi contro le donne I diritti umani e l’uguaglianza di genere sono un fattore chiave in questo senso.

Le attuali politiche di espansione dei bilanci della difesa oltre il 2% del PIL in ogni Paese e di investimento in tecnologie militari non sono la strada per una pace duratura, ma portano a un’escalation dei conflitti.

Tina Tomsich dell’Istituto 8M in Slovenia e coordinatrice della rete My Voice and My Choice. Ha parlato dell’impatto dell’estrema destra sui diritti delle donne e in particolare sul diritto all’aborto e dell’iniziativa che hanno lanciato per rendere l’Unione Europea un posto migliore per tutte. Un’Europa che protegga e rispetti i diritti fondamentali delle donne, compresi i diritti sessuali e riproduttivi.

L’iniziativa europea My Voice and My Choice denuncia il fatto che più di 20 milioni di donne in Europa non hanno accesso all’aborto. Che in Polonia le donne continuano a morire per questo motivo e che nei Paesi in cui non è gratuito, l’accesso all’aborto per milioni di donne dipende dalle loro condizioni economiche o che, a causa della mancanza di personale sanitario, le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze o a cercare alternative che mettono a rischio la loro salute.

Per questo si chiede che l’UE agisca nell’ambito delle sue competenze per garantire un aborto sicuro, libero e accessibile a tutte. Approvare una legislazione che istituisca un meccanismo finanziario per sostenere gli Stati membri che scelgono di aderire volontariamente a questa politica, al fine di fornire l’accesso all’aborto sicuro e gratuito a chi non ce l’ha.

L’assemblea si è impegnata a promuovere l’iniziativa per raggiungere le 1.000.000 di firme necessarie come iniziativa dei cittadini europei.

È poi intervenuta Anna Camposampiero, componente della direzione di Rifondazione Comunista e del Comitato esecutivo del partito della Sinistra Europea, spiegando che Giorgia Meloni rappresenta una conquista “delle” donne, ma non “per” le donne. Meloni fa politica degli uomini, con gli uomini e per gli uomini. Questo ci è chiaro. Quello che non è chiaro è la battuta d’arresto e la difficoltà che crea a tutto il movimento femminista. Nella nostra Europa, abbiamo tre donne in posizioni di leadership: Ursula Von der Leyn, Kaja Kallas, Roberta Metzola. Ripetere il femminile non è femminista, non è sufficiente e non è compreso. La nostra riflessione deve partire da qui: come riportare il femminismo in politica? Perché solo così possiamo contribuire alla pace e contro il fascismo.

Infine, Cristina Noé, componente del Partito Comunista Ungherese, ha chiuso gli interventi denunciando le politiche patriarcali del governo di destra ungherese. Anche l’ultima, che mira a criminalizzare le donne che vogliono interrompere volontariamente la gravidanza, facendo loro ascoltare il battito cardiaco del feto prima di abortire.

2 Proposte.

- Proponiamo che la prospettiva femminista sia un criterio trasversale per le politiche economiche, ecologiche e sociali dell’UE, nonché per la sanità, l’assistenza, l’istruzione e la cultura. per avviare una transizione femminista a livello europeo.

- Difendiamo i diritti sessuali e riproduttivi per tutte le donne in Europa e i diritti matrimoniali di base per tutte le coppie. Il riconoscimento legale gratuito delle identità LGBTQ+I deve essere incluso nei motivi per la concessione dell’asilo.

- Sosteniamo e promuoviamo l’iniziativa europea My Voice and My Choice per il diritto all’aborto libero e sicuro per tutti.

- Insieme ai movimenti femministi vogliamo spingere per l’inclusione del diritto di decidere del proprio corpo e della maternità nella Carta europea dei diritti fondamentali e per il riconoscimento dell’apartheid di genere nel diritto internazionale, in modo che le donne e le persone LGBTQI che subiscono l’apartheid di genere come in Afghanistan siano accolte come rifugiati e protette in Europa.

- Siamo solidali con le donne vittime di tutti i conflitti bellici, come la guerra in Ucraina e il genocidio in Palestina. Siamo inoltre solidali con le donne costrette a vivere nei campi profughi, come il popolo Saharawi.

- Siamo solidali con le donne che subiscono le conseguenze dei blocchi economici promossi dagli Stati Uniti e dai loro satelliti europei, come a Cuba e in Venezuela.

- Di fronte all’avanzata dei discorsi negazionisti sulla disuguaglianza di genere e sulla violenza, dobbiamo lavorare per rompere il discorso fascista che vuole avvolgerci in una guerra dei sessi. Non è una lotta tra uomini e donne. È una lotta tra chi di noi vuole l’uguaglianza, chi mette la vita al centro delle proprie politiche e chi vuole la PACE.

- Chiediamo la pace come asse trasversale di tutte le nostre lotte in tutti i paesi, che ci uniamo sotto l’ombrello della difesa della pace di fronte a questo 25N o 8M e per questo dobbiamo iniziare a tessere reti che convergano nell’Iniziativa della Conferenza di Pace della Sinistra Europea perché sia un incontro massiccio organizzato da diverse articolazioni, essendo questa assemblea uno degli assi principali che guideranno la conferenza.

*Coordinatrice dell’Assemblea Femminista del Forum Europeo delle Forze di Sinistra, Progressiste e Ambientaliste



1. Al fine di costruire un’Europa progressista e socialmente avanzata, noi siamo per una distribuzione equa della ricchezza, servizi pubblici universali e di qualità, e la proprietà pubblica dei beni comuni, al fine di realizzare una società più giusta, partecipativa e democraticamente pianificata. L’accesso a un alloggio dignitoso, accessibile e adeguato al clima deve essere un diritto, non un lusso, la copertura della sicurezza sociale in termini di salute, pensioni e disoccupazione deve essere universale, cioè un diritto per tutti in Europa. Questo implica un diverso uso del denaro da parte delle imprese, delle banche e della BCE.

Il diritto a condizioni di lavoro dignitose, a un impiego sicuro e a una formazione permanente ben retribuita sono fondamentali, il rafforzamento dei diritti sindacali, le clausole sociali nei contratti pubblici, l’aumento dei salari e dei diritti sociali, colmare il divario occupazionale e migliorare l’ambiente e le condizioni di lavoro. Vogliamo

posti di lavoro di qualità e il diritto a una pensione dignitosa a partire dai 60 anni, erogata da enti pubblici efficienti.

Difendiamo l’accesso libero e universale all’assistenza sanitaria e il rafforzamento dei sistemi sanitari pubblici, al fine di ridurre le disuguaglianze sociali.

Vogliamo servizi pubblici moderni con personale sufficiente, senza burocrazia, con una gestione partecipata e che rispondano alle esigenze delle persone che ne usufruiscono.

Una delle questioni fondamentali della nostra società è garantire a tutta la popolazione un’istruzione di alto livello, libera, gratuita, egualitaria, liberatoria ed emancipatrice, libera da pressioni religiose, oscurantiste o del mercato economico.

La carenza di alloggi sociali di qualità ed economicamente accessibili rappresenta una crisi urgente in tutta Europa che richiede un’azione immediata e decisiva. È necessario adottare misure e iniziative a livello europeo, per utilizzare le risorse finanziarie in base alle esigenze di ogni singolo individuo piuttosto che agli interessi finanziari.

Chiediamo l’istituzione di un programma europeo per l’edilizia sociale, sostenuto da politiche economiche e sociali che rafforzino gli investimenti pubblici nell’edilizia senza scopo di lucro. Chiediamo una regolamentazione transnazionale della speculazione.

Affrontare la crisi sociale deve essere una priorità assoluta.

Per questo motivo ci opponiamo a un ritorno alla politica di austerità liberale, così come pretesa dalla Commissione europea, che si concretizza da un lato in misure liberali che favoriscono le classi dirigenti e tagliano i diritti umani e di cittadinanza, economici e sociali dei popoli europei mentre dall’altro aumentano le spese militari a scapito dei fondi che dovrebbero essere spesi per la spesa sociale, l’uguaglianza e creazione di lavoro.

Vogliamo acquisire potere sul denaro, sviluppare servizi pubblici, cooperazione, servizi efficienti, occupazione efficiente e di qualitá nelle aziende, e rifiutare il libero e rifiutare la concorrenza libera e non distorta.

Questo vale sia all’interno dell’UE che con il resto del mondo.

Vogliamo la sovranità popolare sul denaro per altri obiettivi sociali, a differenza dell’attuale UE, che risponde alle esigenze del capitale. Un modo per farlo sarebbe quello di creare un Fondo europeo per finanziare i servizi pubblici attraverso prestiti ai governi a tasso zero, finanziati dalla BCE.

2. Consideriamo la crisi climatica come un’emergenza che richiede una risposta globale basata su una trasformazione ecologica, energetica e industriale. L’Unione europea deve agire senza indugio di fronte all’emergenza climatica e sociale. È essenziale abbandonare il modello che fondato sull’energia basata sul carbonio, garantendo al contempo la creazione di posti di lavoro. Questo implica una trasformazione sociale dei modelli di produzione e di consumo per raggiungere la neutralità climatica entro il 2040, e soddisfare gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Abbiamo bisogno di obiettivi ambientali più ambiziosi e una pianificazione verde per garantire una giusta transizione.

3. Ci battiamo per un’Europa di pace e solidarietà, con una prospettiva pacifista che affronta i conflitti attraverso il dialogo e le soluzioni diplomatiche. Un’Europa che propone un approccio alternativo al modello di sicurezza a partire da una nuova visione basata sul riconoscimento che nessuno Stato può essere veramente sicuro se gli altri non condividono lo stesso livello di sicurezza.

Condanniamo fermamente le politiche europee contro migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo: il diritto di asilo e la libertà di movimento devono diventare il fondamento dell’Europa che vogliamo, e ci batteremo contro le politiche proposte dal Patto sull’Immigrazione e l’Asilo di Ursula von der Leyen che mirano a vietarli. Questo significa affrontare le cause alla radice della migrazione e sviluppare una nuova politica di co-sviluppo con i Paesi interessati.

Non vogliamo che l’Europa faccia parte della nuova guerra fredda, né che diventi un campo di battaglia su cui questa infuria.

Ci opponiamo alla dominazione militarista della NATO sull’UE e sui suoi Stati membri, all’aumento dei bilanci militari e di guerra a scapito della spesa sociale, alla rapida militarizzazione della politica, dell’economia e delle menti, invece vogliamo vedere l’Europa emancipata dai mandati degli USA e della NATO, libera dai mandati di potenze esterne.

Guerre e conflitti servono gli interessi del capitale finanziario che ne trae profitto. Finché queste guerre dureranno, sempre più civili innocenti moriranno ogni giorno. Per questo chiediamo che si ponga fine alla violenza attraverso negoziati per portare una pace duratura in Ucraina, nel quadro delle Nazioni Unite.

Allo stesso modo, chiediamo soluzioni eque e negoziate ai conflitti armati che si stanno diffondendo in varie parti del mondo, Somalia, Yemen, Siria, Sahara occidentale, ecc.

L’ulteriore sviluppo delle armi nucleari e il fatto che il loro utilizzo è apertamente considerato dalle potenze nucleari, rende il disarmo una necessità di prim’ordine per la sopravvivenza dell’umanità.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre, che condanniamo fermamente, non giustifica la guerra condotta da Israele. Chiediamo un immediato cessate il fuoco in Medio Oriente e la fine dell’aggressione israeliana in Palestina. Chiediamo il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e i prigionieri politici palestinesi, nonché la consegna di aiuti umanitari alla popolazione di Gaza, la ricostruzione di tutto ciò che è stato distrutto dall’esercito israeliano e il ritorno di tutti i palestinesi sfollati. Riaffermiamo che l’instaurazione di una pace duratura nella regione richiede la fine dell’occupazione, della colonizzazione e del regime di apartheid di cui soffre il popolo palestinese insieme al riconoscimento di uno Stato palestinese vitale e pienamente sovrano alle condizioni definite dalle risoluzioni delle Nazioni Unite sul riconoscimento di due Stati.

Esprimiamo la nostra solidarietà al popolo Saharawi, privato da decenni del diritto di vivere nel proprio territorio, subendo la repressione delle forze di occupazione, e chiediamo il rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite a favore dell’autodeterminazione e l’indizione di un referendum nel Sahara Occidentale.

Chiediamo la fine dell’occupazione di Cipro e la riunificazione del Paese in conformità con le risoluzioni delle Nazioni Unite.

Chiediamo la fine degli interventi militari turchi nella Siria nord-orientale, nell’Iraq settentrionale e nel Sinjar, e la fine dell’oppressione dei curdi e del popolo turco in Turchia. Chiediamo alla Turchia

il rilascio di tutti i prigionieri politici e l’attuazione delle decisioni del Consiglio d’Europa e della Corte europea dei diritti dell’uomo.

La repressione della politica democratica e contro i rappresentanti eletti deve essere fermata. Una soluzione giusta e democratica alla questione curda, che dura da decadi, richiede dialogo e negoziazione, non isolamento, imprigionamento e violenza.

Questo ottavo Forum si unisce alla mozione approvata alle Nazioni Unite che chiede la fine del blocco ingiusto e illegale cui gli Stati Uniti sottopongono Cuba da decine di anni e, allo stesso tempo, chiede la rimozione di Cuba dalla lista degli Stati patrocinatori del terrorismo.

Sosteniamo la ricerca della pace e dell’autonomia in Africa. È tempo di ricostruire le relazioni afro-europee sulla base dell’uguaglianza e della uguaglianza e solidarietà, per costruire un futuro in cui pace e dignità prevalgano sulla violenza e sul dominio.

Aspiriamo a un nuovo ordine economico internazionale basato sui diritti dei popoli e rifiutiamo qualsiasi egemonia monetaria globale.

Chiediamo soluzioni cooperative, democratiche e non egemoniche per il finanziamento comune della transizione ecologica e dei servizi pubblici in tutto il mondo.

4. Il femminismo di classe contesta il sistema capitalista e patriarcale e mette in evidenza la contraddizione tra capitale e vita.Si pone come un’alternativa a un’economia basata sullo sfruttamento degli esseri umani e propone una società libera dalla violenza maschilista, che permetta uno sviluppo umano emancipatorio per tutte le persone in uguaglianza e armonia con la natura: è l’economia basata sulla cura della vita.

I movimenti femministi lottano contro la violenza maschile e la disuguaglianza che le donne e i loro figli e figlie subiscono nel corso della loro vita e chiedono una legislazione completa e un quadro politico per affrontare tutte le forme di violenza di genere.

Il movimento femminista, insieme al movimento ambientalista,

sono motori del cambiamento politico per la trasformazione sociale in Europa ed è per questo che la destra e l’estrema destra attaccano sistematicamente i diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+ e negano il cambiamento climatico.

Questo Forum propone che la prospettiva femminista sia un criterio per le politiche economiche, ecologiche e sociali dell’UE, cosí come per l’assistenza sanitaria, la cura, l’istruzione e la cultura. Per avviare la transizione femminista in Europa.

Difendiamo i diritti sessuali e riproduttivi di tutte le donne in Europa e i diritti fondamentali al matrimonio per tutte le coppie.

Il riconoscimento legale delle identità LGBTQIA+ deve essere incluso nei motivi per la concessione dell’asilo.

Insieme ai movimenti femministi vogliamo spingere per l’inclusione del diritto di decidere del nostro stesso corpo e della nostra maternità nella Carta Europea dei Diritti Fondamentali e nei Diritti Fondamentali e il riconoscimento dell’apartheid di genere nel diritto internazionale, in modo che le donne e le persone LGBTQIA+ che lo subiscono, come in Afghanistan, siano accolte come rifugiate e protette in Europa.

5. Siamo consapevoli della necessità di affrontare e integrare attivamente i bisogni, i sogni, le preoccupazioni e le prospettive dei/delle giovani e degli studenti e delle studentesse, promuovendo il loro protagonismo nei piani, nelle campagne e nelle azioni delle forze della Sinistra Europea, dei Verdi e delle forze progressiste, e ne faremo un obiettivo specifico per i prossimi anni.

6. L’ascesa dell’estrema destra nelle elezioni per il Parlamento europeo è proseguita nelle successive elezioni statali e regionali in vari Paesi europei. Questa ascesa riflette un’ideologia neofascista priva di valori etici e morali, che si nutre di razzismo, xenofobia, misoginia, sessismo, omofobia, LGBTQIA+fobia, autoritarismo, odio per i migranti e di un individualismo non solidale.

Di fronte all’aggravarsi della crisi economica, sociale e morale, le classi lavoratrici provano un senso crescente di disaffezione politica e la mancanza di prospettive future, e la loro rabbia è diretta dai movimenti di estrema destra e fascisti, che propongono soluzioni economiche semplicistiche nell’interesse della borghesia, delle classi dominanti e del capitalismo, e in parte verso la demotivazione e l’astensionismo. Solo una strategia basata sulla giustizia sociale, l’uguaglianza, l’ecologia, la condivisione e sulla pace, che le forze progressiste della trasformazione sociale sostengono può offrire loro una prospettiva positiva.

Di conseguenza, con questa Dichiarazione finale l’8° Forum europeo delle forze di Sinistra, Verdi e Progressiste concorda di partecipare, in cooperazione con altre organizzazioni politiche, sindacali, pacifiste, femministe, alla preparazione di una Conferenza per la Pace e la Solidarietà nel Mondo e di promuovere in collaborazione con i sindacati europei una campagna contro le politiche di austerità e di tagli proposte dalla Commissione europea.



di Alba Vastano - Scrivere di Roma e di come vive la città chi vi risiede è come fare un viaggio in escalation nel degrado totale. Un viaggio attraversando al contrario i tre canti della commedia dantesca, senza la guida di Virgilio. Da Roma aurea con Petroselli e Nicolini a Roma stracciona con Gualtieri. Roma, [...]


La sconfitta dei fascioleghisti in Umbria e Emilia Romagna è una buona notizia, ma l’astensione testimonia una drammatica crisi democratica.

La vittoria di Stefania Proietti in Umbria è un ottimo segnale perché la presidente ha sempre esplicitato posizioni pacifiste richiamandosi all’articolo 11 della Costituzione.

Siamo contenti di aver contribuito alla vittoria con la lista “L’Umbria per la sanità pubblica e la pace”.

Che esca sconfitta la mostruosa alleanza Tesei – Bandecchi ci evita un’ulteriore puntata del degrado della politica.

In Emilia Romagna la scontata vittoria del campo largo non cancella le ragioni della nostra critica radicale e della nostra presenza in alternativa.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista



I seminari autunno-invernali di Rifondazione - relatrice: Rita Scapinelli discussant: Gianfranco Pagliaru Saverio Ferrari Raul Mordenti Lunedì 18 novembre 2024 I sempre più blandi tentativi messi in atto dal governo in carica per dissimulare la profonda nervatura fascista del proprio background culturale lasciano via via il passo a politiche dal segno inequivoco, tutte rivolte, in [...]


È iniziato oggi a Napoli il processo contro quattro fascisti di CasaPound che il 23 ottobre del 2023 picchiarono Roberto Tarallo, quasi uccidendolo. La vittima degli squadristi fu aggredita perché sul giubbotto aveva la scritta “sono antifascista” . Gli imputati sono i fratelli Acuto, Palmentano, segretario della sezione Berta di Casa Pound e proveniente da Roma. Segnaliamo che tra gli imputati c’è un tal Taras Abhua, un ucraino che lavora per il consolato ucraino, elemento che dovrebbe far riflettere coloro che negano il ruolo del neofascismo nell’etnonazionalismo e i legami strettissimi con il governo ucraino. È accettabile che il dipendente di un consolato partecipi a aggressioni squadriste? Roberto Tarallo si è costituito parte civile assistito dalla nostra compagna Elena Coccia. Si sono costituiti parte civile anche l’ANPI, attraverso l’avvocato Maria Giorgia de Gennaro, e il comune di Napoli. Il processo è stato aggiornato al 18 dicembre. Lunga discussione dell’ avvocato Diddi di Roma che ha sostenuto che non è reato essere e richiamarsi al fascismo. Una tesi inaccettabile visto che siamo di fronte a un partito organizzato sul piano nazionale che si dichiara apertamente fascista e i cui militanti sono responsabili da anni di aggressioni e violenze tipiche dello squadrismo fascista. Quello di Napoli non è l’unico procedimento a carico di squadristi di Casa Pound. Per esempio a Bari è in corso quello per l’aggressione alla nostra ex-europarlamentare Eleonora Forenza e al compagno napoletano Antonio Perillo. Torniamo a chiedere lo scioglimento di Casa Pound e degli altri gruppi neofascisti come impone la XII disposizione della Costituzione.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista



La Corte costituzionale ha esaminato i ricorsi di quattro Regioni che hanno richiesto la dichiarazione di incostituzionalità della legge Calderoli e – mentre ‘ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge sull’autonomia differenziata delle regioni ordinarie (n. 86 del 2024)’ – ha considerato, invece, ‘illegittime specifiche disposizioni dello stesso testo legislativo’, come afferma il comunicato emanato dal Palazzo della Consulta.

Naturalmente andrà letta la sentenza con le sue motivazioni; di certo possiamo affermare, come Comitati contro ogni autonomia differenziata, che il Governo, il ministro Calderoli e la maggioranza parlamentare di destra escono malconci dalle dichiarazioni di illegittimità di punti significativi della legge. Basta richiamare alcune disposizioni della legge Calderoli dichiarate incostituzionali per coglierne la portata:
la possibilità che l’intesa tra lo Stato e la regione e la successiva legge di differenziazione trasferiscano materie o ambiti di materie, e non solo specifiche funzioni;
la mancata prescrizione di una legge delega che stabilisca i criteri direttivi per emanare i successivi decreti; infatti, la legge Calderoli li indica nella legge di bilancio 197/2022, fatto che la Corte giudica incostituzionale, ravvisando in questo una lesione delle competenze del Parlamento;
la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito;
- l’estensione della legge n. 86 del 2024, e dunque dell’art. 116, comma 3 della Costituzione, alle regioni a statuto speciale che, invece, per ottenere maggiori forme di autonomia, possono ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali.

Inoltre, la Corte afferma che il Parlamento non può essere spogliato delle sue prerogative di emendare le Intese; che la distinzione tra materie LEP e non-LEP non può pregiudicare la garanzia dei diritti civili e sociali; che la clausola di invarianza deve collocarsi in un quadro di valutazione complessiva della finanza pubblica, e dunque vanno definiti i fabbisogni per i LEP e, su questa base, decidere le poste finanziarie.
La Corte infine pone al Parlamento il compito indefettibile di intervenire per colmare i vuoti creati con la dichiarazione di incostituzionalità di disposizioni-chiave della legge 86/2024.
Certo, la Corte afferma che la legge Calderoli non è illegittima nel suo complesso, perché tale legge è volta a disciplinare l’attuazione del comma 3 dell’art 116 della Costituzione, frutto della sciagurata riforma del Titolo V del 2001.

I Comitati contro l’AD – insieme a sindacati, associazioni e partiti che fanno parte del comitato referendario – attraverso il referendum abrogativo totale, chiedono invece che siano cittadine e cittadini a decidere se la legge Calderoli violi o no gli articoli 2, 3, 5 della Costituzione. Secondo i Comitati la legge Calderoli viola quegli articoli perché frantuma l’unità e indivisibilità della Repubblica, lede il principio di solidarietà e di uguaglianza dei cittadini, che verrebbero a godere di diritti differenziati secondo il luogo di residenza. Per questo i Comitati sono certi che, anche qualora il Parlamento intervenisse per sanare le illegittimità costituzionali, come richiede la Consulta, il referendum di abrogazione totale sarà ammesso e la legge Calderoli, attraverso il voto referendario, sarà cancellata.

Comitati per il ritiro di qualunque Autonomia differenziata, l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti



“La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali parti fondamentali della legge Calderoli, da noi sempre criticate: ruolo evanescente del Parlamento, invarianza finanziaria, devoluzione indiscriminata, modifica dei lep attraverso DPCM. La secessione è stata bloccata. L’unità della Repubblica in base all’articolo 5 della Costituzione è confermata. Ora continuiamo a far crescere il consenso per il referendum completamente abrogativo su cui abbiamo raccolto quasi un milione e mezzo di firme.”, dichiarano il segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo e la responsabile della campagna contro A.D. Tonia Guerra


Laura Tussi* Qui sopra vedete la città di #Hiroshima appena dopo essere stata distrutta dalla bomba atomica americana. Le poche persone sopravvissute a quella tragedia si chiamano #hibakusha e proprio loro sono l’anima di Nihon Hidankyo, l’associazione che ha vinto il Premio Nobel per la Pace 2024. Da Paolo Ferrero a Roberto Lovattini, da [...]


di Laura Tussi

Le realtà ecopacifiste si oppongono con il presidio davanti alla base NATO di Solbiate Olona per demolire il mito della forza e della militarizzazione e della deterrenza nucleare, della base dell’Alleanza Atlantica che vuole abbattere i Russi e le forze considerate terroristiche, secondo la perversa logica NATO

Come apprendiamo dall’Agenzia Ansa, l’Italia, con il suo Comando NATO di Rapida Operatività (Nrdc-Ita) e multinazionale con sede operativa a Solbiate Olona (VA), è il quartier generale della nuova forza di reazione della NATO. Il nuovo assetto operativo vedrà crescere il numero di soldati, che arriveranno a 300 mila unità, oltre a mezzi e tecnologie. Come si evince dallo studio dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università di Varese.

L’Italia accresce ulteriormente il proprio impegno in campo bellico, diventando la sede della nuova forza di reazione rapida dell’Alleanza Atlantica in contrasto con i nostri alti ideali di pace e solidarietà e accoglienza

L’inaugurazione del nuovo strumento NATO si è svolta lunedì primo luglio 2024 nella base di Solbiate Olona, in provincia di Varese, dove hanno sede le forze NATO italiane a dispiegamento rapido. Sarà proprio questa la sede provvisoria della NATO, fino a che non verranno realizzate strutture permanenti specificamente dedicate ad essa.

La Nato si è già riunita nei summit di Madrid, Vilnius e Washington dove ha anche approntato l’installazione degli euromissili ipersonici in Germania entro il 2026. Altro passo verso l’escalation militare e la conflagrazione nucleare e il conseguente annientamento della vita sulla terra

Lo scopo della nuova Forza NATO, la cui creazione è stata annunciata al termine del summit di Vilnius del 2023, è quella di “produrre effetti con un preavviso più breve di quanto sia stato possibile in precedenza”, aumentando così la capacità operativa dell’Alleanza.

Per protestare tutto il nostro dissenso di ecopacifisti in contrasto al sistema di guerra criminogeno della NATO, si è svolta domenica 28 Luglio una manifestazione con presidio davanti alla base NATO Solbiate Olona

Quartier generale Nato: Solbiate Olona dice no. Un presidio innanzi alla base Nato di Solbiate Olona, domenica 28 luglio 2024 dalle 15 alle 17, è la risposta della popolazione locale alla scelta di collocare nella base stessa il quartier generale della nuova forza di reazione della Nato: l’Arf (Allied Reaction Force). Oltre alla questione etica relativa alla militarizzazione del territorio, infatti, emerge la preoccupazione per l’incolumità della popolazione, in vista di un’escalation bellica che negli ultimi anni sembra essere ricercata con sempre maggiore insistenza. “Dal nostro punto di vista la Nato non è un’alleanza di difesa, ma aggressiva.”, specifica il manifestante Elio Pagani, presidente di “Abbasso la Guerra OdV Venegono”: “Noi siamo per il suo scioglimento”. Il numero dei presenti è andato aumentando nelle ore seguenti, stabilizzandosi su un totale di circa cinquanta persone e poi aumentando fino a oltre un centinaio tra i membri di associazioni come “Assemblea Popolare di Busto Arsizio” e “Osservatorio Contro la Militarizzazione delle Scuole e delle Università Varese”. Non manca chi è venuto da più lontano, come Beppe Corioni, arrivato da Brescia in rappresentanza del “Centro Sociale 28 Maggio Rovato” e “Donne e Uomini Contro la Guerra Brescia”. E altre realtà.

Questa è la logica perversa delle nuove forze NATO dispiegate a Solbiate Olona un paese della provincia di Varese in Lombardia

Il fine esplicito della nuova Forza multinazionale è quello di concentrarsi sul contrasto alle ‘principali minacce’ contemporanee, poste ”dalla Russia e dai principali gruppi terroristici”, secondo quanto sostengono i generali e i comandanti in capo delle forze NATO, permettendo di “rafforzare la deterrenza in pace o in crisi” e di “creare un dilemma strategico per gli avversari”.

La nuova Alleanza mette diabolicamente in campo un assetto militare multiforze che oltre a essere dannoso, è criminale nei confronti di tutti noi cittadini non solo delle vicinanze, ma dell’intero assetto terrestre e villaggio globale

L’Alleanza permette, in caso di necessità, di coordinare una risposta multiforze da parte di altri componenti dell’Alleanza in tempi estremamente rapidi, mettendole a disposizione del Comandante supremo delle forze NATO, massima autorità dell’Alleanza. Le missioni che questa unità può svolgere sono molteplici e vanno dalla “riserva strategica dispiegabile in caso di crisi” alla “dissuasione dell’escalation verticale o orizzontale”, passando per la “risposta a crisi legate a situazioni emergenti”.

Tutti mezzi e misure di attacco e di offensiva che noi ecopacifisti non possiamo tollerare e ammettere e permettere

Si è svolta lunedì 1 luglio 2024, alla base Nato di Solbiate Olona, sede operativa di Nrdc-Ita, la cerimonia che ha sancito l’assunzione per i prossimi tre anni del ruolo di guida dell’Arf per il Comando Nato di Solbiate Olona, comandato dal generale di corpo d’armata. Il passaggio di consegne è avvenuto alla presenza della massima autorità militare dell’Alleanza in Europa e del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale di corpo d’armata.

Come ecopacifisti non ammettiamo il dispiegamento di forze militari per la costituzione di un nuovo Quartier generale. Sono manovre criminali inammissibili in un paese come l’Italia la cui Costituzione “ripudia la guerra”

Secondo i poteri forti e i comandanti in capo e i generali NATO, questo nuovo ruolo rafforzerà anche le relazioni già stabilite dal Comando NATO di Solbiate Olona, consentendogli di collaborare con nuovi partner e alleati militari per condividere competenze ed esperienze, dimostrando nel contempo i migliori principi di coesione e legittimità. Secondo la logica perversa del potere.

Il nuovo assetto operativo militare vedrà crescere il numero di soldati, che arriveranno a 300 mila unità, oltre a mezzi e tecnologie, ordine che la NATO ha imposto a seguito dell’intervento della Russia in Ucraina

Tra i partecipanti all’inaugurazione gli studenti dell’Istituto Falcone, noto per promuovere attività di PCTO (alternanza scuola lavoro) presso la base NATO, e sempre in prima fila quando si tratta di aprire le porte ai militari o di garantire la presenza degli alunni alla base NATO.

Il mondo della scuola e dell’infanzia viene sempre più coinvolto in queste disposizioni militari e esercitazioni guerresche, quando i bambini soprattutto hanno diritto alla pace e alla felicità nel nostro Paese e in tutto il mondo

In questa occasione sono stati coinvolti anche i bambini delle scuole materne, come la Scuola Materna paritaria di Fagnano Olona, dove “gli scoiattoli” sono stati accompagnati alla Base NATO di Solbiate Olona, e i bambini «hanno potuto esplorare i luoghi in cui i militari si addestrano e lavorano; hanno conosciuto i mezzi militari usati nelle missioni, le fasi di una missione seguendo con curiosità e attenzione», come si leggeva sulla loro pagina fb in un post rimosso dopo le rimostranze ricevute. Inoltre pochi giorni prima, sempre con un post pubblicato sulla loro pagina fb, comunicano che poiché «Il mondo militare affascina da sempre i bambini. Abbiamo trasformato la nostra scuola in una base per l’addestramento militare, la battaglia in trincea e un ospedale da campo con le migliori infermiere».

Quanto avviene non è casuale ma sostenuto da protocolli d’intesa firmati da rappresentanti dell’Esercito con il Ministero dell’Istruzione, gli Uffici Scolastici Regionali e Provinciali e le singole scuole.

Le scuole si trasformano sempre di più in caserme e le caserme entrano sempre di più nelle nostre scuole

Dobbiamo cercare di fermare questo processo di militarizzazione, iniziato almeno una ventina di anni fa non solo nella provincia di Varese ma in tutta Italia, deriva ignorata da gran parte delle persone e spesso anche dagli stessi docenti.

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Stefano Galieni*

I Giochi olimpici, che hanno visto proporre, in maniera ancora più netta rispetto al passato, la presenza di atlete e atleti con background migratorio, hanno fatto si che, in questo silenzio agostano, sia tornato nel dibattito politico l’annoso tema della riforma della legge sulla cittadinanza, la stantia 91/1992. Va ricordato che a causa di tale normativa, per divenire cittadine/i italiani occorre risiedere per almeno 10 anni continuativi nel “Belpaese”, avere un reddito, una residenza e non aver subito condanne gravi, anche in primo grado. Trascorsi i fatidici 10 anni si può inoltrare la richiesta che viene analizzata dal ministero dell’Interno anche mediante i suoi organismi territoriali, le prefetture. I tempi di attesa, che già erano lunghi nel 1992, sono più che raddoppiati, passano almeno 4 anni prima di ottenere una risposta che non sempre è positiva. La vita privata del richiedente viene scandagliata in nome della “sicurezza nazionale”. Procedure accelerate e speciali possono essere messe in atto per casi individuali, riguardanti persone che si siano distinte per atti di eroismo o per meriti sportivi. Ma neanche per gli atleti e le atlete la vita è facile. Si debbono avere prestazioni da primato, che fino a quando non si diventa cittadini, non sono neanche riconosciute, prima di poter accedere a tale privilegio.

Per chi nasce in Italia da genitori di cui almeno uno è regolarmente residente, la richiesta della cittadinanza può essere fatta – quanta bontà – dal compimento del diciottesimo anno di età per un solo anno e ovviamente senza mai essersi allontanati dal Paese, dopo è troppo tardi. Potrà sembrare un’inezia ma per una ragazza o un ragazzo minorenne che intenda andare in gita scolastica con i propri compagni, tale diritto è spesso negato. Più di una volta si è tentato di modificare una legge basata sullo ius sanguinis – diritto basato sul sangue – (terminologia scientificamente inesistente), per giungere allo ius soli, diritto del suolo, che lega la cittadinanza al luogo di nascita. Destra e sinistra moderata hanno sempre, di fatto, avversato quest’ultima ipotesi. Già nel 1998 l’allora ministro dell’Interno, poi Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si spingeva ad utilizzare una forma come “ius soli temperato”, secondo cui, per chi era di origine straniera, non era sufficiente essere nato in Italia per acquisire la cittadinanza. La proposta di legge, varata nel 2015 in tal senso prevedeva che chi era nata/o in Italia ne diveniva immediatamente cittadino a condizione che almeno uno dei due genitori fosse in possesso della carta di soggiorno illimitata. Ma anche il possesso di questo prezioso documento non è svincolato da requisiti: residenza continuativa in Italia negli ultimi 5 anni da comprovare attraverso idonea documentazione; reddito annuo pari o superiore all’importo dell’assegno sociale (attualmente €5.983,00), come da disposizioni vigenti. Tale requisito reddituale dovrà essere attestato mediante certificazione unica (CU) o modello Redditi PF; conoscenza della lingua italiana di livello A2 o titolo di studio conseguito in Italia riconosciuto equivalente, salvo nei casi di protezione internazionale; possesso di un valido permesso di soggiorno; assenza di condanne penali, nei Paesi di residenza o cittadinanza.

Anche questa proposta ultramoderata si è arenata al Senato grazie allo strepitare della destra – c’era chi lanciava allarmi relative a barconi con donne in gravidanza, pronte a salpare per l’agognato titolo – ignavia della dirigenza dell’allora M5S, paura del centro sinistra tanto di perdere consensi quanto di essere sconfitto in aula. Quasi un milione di minori perse questa importante occasione di affrancamento. Oggi riparte la bagarre con 2 ulteriori restrizioni già agitate negli ultimi anni: lo ius scholae, del 2022 che mira a concedere la cittadinanza italiana ai minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni, dopo aver completato un ciclo scolastico di almeno cinque anni o lo ius culturae, parte di un disegno di legge approvato nel 2015 e arenatosi ben presto che prevedeva la concessione della cittadinanza al completamento di un ciclo scolastico con successo, basandosi sul principio che lo straniero debba dimostrare attivamente la sua volontà di integrazione. Le proposte che si vanno confrontando in questi giorni sono al ribasso per convincere parte delle destre a sostenerle e per non ridare fiato a chi lancia l’allarme della “sostituzione etnica” o dell’invasione. Sono proposte col fiato corto, che non tengono conto di quanto questo Paese, malgrado l’assenza o l’ostilità della politica, sia profondamente cambiato.

Oggi ci sono in Italia oltre 5 milioni di persone che vivono regolarmente sul territorio nazionale e almeno altre 500 mila che, usufruendo di percorsi di regolarizzazione, potrebbero affrancarsi dal ricatto del lavoro nero. Fermo restando che bisognerebbe spiegare, a chi ne parla a sproposito, che la cittadinanza dovrebbe essere un diritto e non una concessione, una lotta vera su questo tema dovrebbe porsi obiettivi più ambiziosi. Nel 2011 partì la raccolta firme per due leggi di iniziativa popolare lanciata dalla Campagna “L’Italia sono anch’io”, di cui anche Rifondazione fece parte insieme a sindacati, mondo dell’associazionismo laico e cattolico, intellettuali e quant’altro. Le proposte che raccolsero complessivamente oltre 200 mila firme, sostenevano hic et nunc due cambiamenti. Il passaggio diretto allo ius soli (se nasci in Italia sei italiana/o almeno che tu poi non decida di rinunciarci, unita al dimezzamento di richiesta e ottenimento della cittadinanza, senza vincoli economici e, richiesta frettolosamente abbandonata, la ratifica del Capitolo C, Art 6 della Convenzione di Strasburgo. L’Italia non ha mai voluto accettare questo Capitolo secondo cui chi risiede in maniera stabile in un Paese deve aver accesso al diritto di voto attivo e passivo alle elezioni amministrative. Se tale ratifica fosse avvenuta anche durante i governi di centro sinistra molto probabilmente i partito che hanno costruito il proprio successo sulla caccia all’immigrato dovrebbero fare i conti, almeno a livello locale, con un elettorato non soltanto autoctono da generazioni e magari alcune vergognose politiche discriminatorie si sarebbero evitate. Si pensi ai territori oggi leghisti o in mano a FdI, in cui il voto di uomini e donne non nati/e in Italia, sarebbe determinante per eleggere un Sindaco.

E se nell’Italia meloniana fosse questo il momento in cui alzare l’asticella e, insieme alle tante e ai tanti uomini e donne che lavorano o studiano qui, che sono parte attiva della società del presente, fosse il giunto il momento di osare di più? Di non accontentarsi del meno peggio in nome di qualche voto in più in Parlamento pagato a caro prezzo? Occorrerebbe che su questo tema si aprisse uno spazio pubblico di riflessione e di costruzione di vertenze. C’è chi ha già lanciato l’idea di un referendum, difficile capire se sia questo lo strumento migliore, ma intanto, far precipitare, nei diversi mondi solidali e di interconnessione, l’idea che possa partire una grande campagna, anche culturale, per riportare le persone a ragionare sull’importanza di una società con diritti garantiti a tutte/i e basata sulla convivenza è un dovere politico. Cittadinanza e diritto di voto trascinano con se a valanga il contrasto alle politiche securitarie e all’abolizione del diritto d’asilo, alla criminalizzazione di chi salva le persone, all’ampliamento di Centri di detenzione, anche fuori dai confini nazionali, destinati a rimpatriare chi non è considerato degno di ricevere protezione. E un contrasto netto infine alla dimensione europea assunta col Patto sulle migrazioni che dovrebbe entrare in vigore nel 2026 e che rende l’intero continente ancor più fortezza in tempi di guerra.

Non si tratta di un tema marginale ma fondamentale per affrontare l’arretratezza di un suprematismo istituzionale che è divenuto anche sub cultura di massa. Un tema in cui non si possono avere posizioni di compromesso, chi le fa proprie è parte del problema, ci si deve schierare con schiettezza e senza alibi, da una parte o dall’altra.

*Responsabile nazionale immigrazione, Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea



Ci ha lasciato oggi, a 92 anni, il compagno Mario Brunetti, intellettuale calabrese meridionalista, esponente della comunità arbëreshe, socialista e comunista democratico che è rimasto sempre fedele alla lezione di Antonio Gramsci e Rodolfo Morandi.
Mario Brunetti per tre mandati è stato parlamentare di Rifondazione Comunista, dopo una lunga militanza nello Psiup, nel PdUP e in Democrazia Proletaria. Ci ha lasciato, nel lavoro fatto come Presidente del Comitato dei diritti umani della Commissione Esteri della Camera, delle importanti testimonianze scritte.
Nel 1998 seguì Cossutta nella scissione ma tornò dopo alcuni anni a collaborare con Rifondazione per la sua netta opposizione allo stravolgimento della Costituzione – dal contrasto alle famigerate modifiche del Titolo V, all’opposizione ai diversi e pericolosi tentativi di cambiamento avvenuti nel corso degli ultimi decenni. La nostra comune battaglia si è infine rinforzata nel denunciare, insieme e per primi, le pericolosità insite nei propositi leghisti volti ad affermare l’Autonomia differenziata.
Non possiamo dimenticare il suo infaticabile lavoro di meridionalista e di difensore dei diritti e delle peculiarità delle minoranze etniche nonché l’organizzazione ultratrentennale degli Itinerari Gramsciani: in questo quadro, grazie alle sue ricerche ed ai suoi studi, è stato possibile conoscere e datare con precisione le origini arbëreshe, di Plataci (Cs), della famiglia paterna di Antonio Gramsci.
Con Mario perdiamo un intellettuale di assoluto valore, un compagno che ha messo il suo sapere al servizio della sua terra e un militante della sinistra autentica che ha onorato il nostro partito con un lavoro instancabile per la causa della Pace e della giustizia sociale. Il suo esempio di lavoro culturale e politico e i suoi libri rappresentano un’eredità fondamentale.
Domani alle 17:30, alla Villa vecchia di Cosenza gli daremo, insieme ai suoi cari familiari ed ai loro amici, l’ultimo saluto laico con le nostre bandiere rosse al vento.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale
Mimmo Serrao, segretario regionale Calabria
Gianmaria Milicchio, segretario provinciale Cosenza
Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea



Enrico Lai*

Risulterebbe parecchio singolare che la politica si affidi al capitale e al libero mercato per avviare la transizione energetica in Sardegna.

Quello stesso libero mercato e quello stesso capitale che nel sistema di accumulo capitalista, a partire dall’industria fordista dell’900 in poi, ha sfruttato il territorio inquinandolo e mai bonificandolo e ha sfruttato tantissime masse di lavoratrici e lavoratori lasciando sul territorio disoccupazione e malattie. Possono essere quindi loro stessi a porsi alla guida col “placet” della politica di governo nella transizione energetica? Verrebbe da dire spudoratamente “not in my name”.

Affidarsi armi e bagagli a lor signori, ovvero gli stessi che hanno prodotto crisi climatiche, ambientali, sanitarie e occupazionali, è il peggio che possiamo augurarci per il nostro futuro. Quindi il timore che il tema del “pubblico” a limitazione del “laissez faire” liberista e neoliberista non entri con prepotenza nel dibattito politico, così come purtroppo non sta avvenendo, lascia presagire che il “mito della caverna” di Platone sia più che una realtà tangibile.

Ad oggi ho il timore che si guardi e si ragioni su delle ombre proiettate appunto alla fine della caverna e non sulla realtà concreta ed essenziale dei fatti. Basta voltarsi per vedere la luce del sole e la “verità”. In fin dei conti dopo anni di narrazioni sulla dicotomia “privato bello, pubblico brutto” non sorprende che questo motto sia diventato senso comune in diversi strati di popolazione ed egemone nella quasi totalità della classe politica. Oggi più che mai, ritengo, sia indispensabile ribaltare seccamente questo concetto della “mano invisibile” di Adam Smith.

La transizione energetica o la si fa o non la si fa. “Tertium non datur”. Ritengo che adoperarsi a favore sia un obbligo civile e un dovere politico improcrastinabile della classe dirigente per lasciare un mondo migliore, ma soprattutto per salvaguardarlo, ai nostri figli e ai nostri nipoti. Questo è un punto che deve coinvolgere tutte e tutti. In qualunque ambito lavorativo, istituzionale e sociale a partire dalla conoscenza e dall’istruzione nelle scuole primarie. Purtroppo poco si parla nel dibattito pubblico di ciò. La comunità scientifica da decenni ormai è unanime nel ritenere che i cambiamenti climatici con fenomeni sempre più estremi, frequenti e devastanti in larga misura derivanti dall’uso di combustibili fossili rischiano di lasciarci un mondo completamente differente da come lo conosciamo.

A partire dai mutamenti di flora, fauna e clima fino all’allarme più devastante che è quello dell’immigrazione climatica. L’UNHCR (alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati) stima che all’anno ci siano circa 20 milioni di persone obbligate a emigrare a causa del clima con conseguente destabilizzazione antropologica delle stesse comunità e una mutazione irreversibile della società mondiale con tutti i danni economici prodotti a corollario. Questo perché è indispensabile avere un approccio scientifico e non moralista al tema. E’ lo snodo centrale.

La transizione energetica scollegata da una lettura storica del sistema di accumulo capitalista che non tiene in considerazione la “questione di classe”, sarebbe mero “giardinaggio”. Così come il rifiuto della realtà e del principio “non nel mio giardino” non farebbe altro che produrre una situazione peggiorativa del quadro economico e ambientale. Nel solco di conquista del territorio sardo avviato dalla speculazione delle multinazionali del sole e del vento, ci viene sempre in aiuto Marx. Ad oggi siamo davanti a un attacco colonialista, figlio del capitalismo e nipote della globalizzazione. La transizione energetica va immaginata partecipata, democratica, riconosciuta ma in particolar modo voluta. Soprattutto voluta perché necessaria e non rimandabile.

Nell’ambito di una seppur debole autonomia speciale la Sardegna all’articolo 4 del proprio Statuto Speciale può legiferare in merito alla produzione e alla distribuzione dell’energia elettrica. Esiste quindi uno strumento che ci permetterebbe di limitare fortemente la “deregulation” parafrasando Humphrey Bogart: “è il mercato bellezza, e non puoi farci niente!”. Forse può essere non è esattamente così. E fa vibrare le vene ai polsi il fatto che non lo si riconosca come strumento efficace e utile per avviare delle scelte e una seria programmazione in tal senso.

Già negli anni ‘60 la stessa DC si dichiarava indisponibile alla privatizzazione dell’energia in Italia. Su questo ci tornerò con più precisione e dettaglio. Ad oggi però è utile sottolineare che da parte della giunta regionale non è previsto nessun piano energetico che sappia indicare puntualmente quali tipologie di energie rinnovabili ma solo la ricerca affannosa nell’individuazione di aree idonee all’installazione degli impianti di produzione privata per limitare le giuste preoccupazioni, totalmente fondate, delle sarde e dei sardi.

Faccio notare che nel 2006, anche noi come Partito della Rifondazione Comunista della Sardegna volevamo fortemente, anche a seguito della legge Salvacoste del compianto Luigi Cogodi, votando poi a favore del Piano Paesaggistico Regionale. PPR, costruito di concerto col ministero e le comunità locali, appunto per bloccare la speculazione dei “mattonari” e questo elemento lo rivendichiamo con estremo orgoglio tutt’oggi. Il PPR prevede già su tutti i comuni costieri quelle aree e quei beni individui tutelati che non possono essere alla mercé di nessuno, tantomeno degli autoproclamati “signori del vento”.

Non risulterebbe banale che, uno strumento che ha dato prova positiva e che continua a darla nel suo funzionamento, debba essere recuperato nell’ambito della mappatura delle zone interne invece che demonizzarlo e brandirlo come uno spauracchio solo perché antipatico al centrodestra e allo stesso PD che ha deciso persino di interrompere anticipatamente una legislatura regionale su questo preciso punto. Gli strumenti esistono già, usiamoli, miglioriamoli e adeguiamoli alle nuove esigenze che la fase storica ci pone davanti. Per questo nutro delle perplessità di natura giuridica in merito alla proposta di legge proveniente da più parti chiamata “Pratobello”, sebben sia un’iniziativa nobile e giusta che prova a dare una risposta alla salvaguardia del territorio sardo contro la speculazione arrembante e merita particolare attenzione e riconoscimento da parte di tutte e tutti.

Preciso, essendo utile, che noi fummo tra i pochi che posero all’attenzione del governo i vizi di incostituzionalità dell’ultimo Piano Casa della “giunta Solinas”. E la Corte Costituzionale esprimendosi qualche mese fa confermò l’orientamento giuridico già assunto in precedenza, ovvero il paesaggio e l’ambiente non è appannaggio esclusivo in termini di competenze della Regione di fatto cassandolo praticamente in tutta la sua interezza.

Per questo buttare fumo negli occhi delle sarde e dei sardi evocando la più nota rivolta di Pratobello del 1969, con dispiegamento di vele mediatiche così come sta facendo l’Unione Sarda, rischia di non rendere onore alla storia intrinseca sulla portata culturale di quel movimento, ma soprattutto di non produrre gli effetti sperati da tutti, ovvero arrestare oggi, non domani, ma soprattutto neanche dopodomani la speculazione sul territorio.

Ritengo utile sottolineare che il direttore dell’Unione Sarda in un editoriale del 16 giugno sotto forma di lettera aperta alla presidente Giorgia Meloni e rivolgendosi a lei scriveva: ”Ci eravamo illusi, Cara Giorgia, quando incontrando il presidente algerino nel gennaio 2023 Lei rispolverò il gasdotto Sardegna-Italia. Ma forse avevamo capito male. Ora il disegno è chiarissimo: neppure un atomo di metano”. Una domanda sorge quindi francamente spontanea: la strenua e intransigente difesa del territorio identitario sardo proposto dall’Unione Sarda come si concilia con la metanizzazione attraverso una dorsale del gas che attraversa in lungo e in largo la Sardegna? Ma soprattutto come si concilia con la stessa transizione energetica? Ai posteri l’ardua sentenza.

Alcuni mesi fa, noi insieme ad altre forze, parlavamo di “agenzia sarda pubblica dell’energia”. E in sintonia col già richiamato articolo 4 dello Statuto Speciale oggi assume una connotazione di attualità sorprendente nell’ambito di un reale cambio di paradigma di produzione di beni e servizi. Un cambio che da una situazione di difesa strenua del territorio può passare a una situazione di limpida e cristallina opportunità per le sarde e i sardi.

L’agenzia, in cui il pubblico detiene la proprietà dell’energia prodotta, avrebbe la possibilità non solo di creazione di nuovi posti di lavoro ma soprattutto di realizzare parecchi utili da reinvestire sullo stato sociale come politiche attive del lavoro, sanità e scuola pubblica. Far passare, seduti sulla riva del fiume, questa opportunità sarebbe francamente deleterio, così come consegnarla ai privati. Con ogni evidenza nell’ambito della mappatura delle aree, di concerto con le comunità locali, nell’ambito della programmazione di quali e quante energie si debbano installare è imprescindibile trovare il giusto equilibrio. Non può esserci giustizia climatica senza giustizia sociale.

Il combinato disposto di PPR con l’Agenzia Sarda Pubblica dell’Energia è una delle soluzioni a parer mio più credibili che possono sottrarre dalla speculazione il territorio da una parte e avviare un effetto volano di natura economica per il benessere delle sarde e dei sardi dall’altra.

*Segretario regionale Sardegna, PRC-S.E. da “Il Manifesto sardo



Giovanni Russo Spena

Quest’anno “Itinerari gramsciani” a Plataci non si terrà, purtroppo. Il suo ideatore, il suo appassionato organizzatore , Mario Brunetti, poche ore fa, è morto. Ho conosciuto Mario nel 1972, quando fummo, insieme a Vittorio Foa, Pino Ferraris, , Silvano Miniati, Domenico Jervolino, Giangiacomo Migone , tra le altre e gli altri, fondatori del Nuovo Psiup/Sinistra Mpl e, poi, del Pdup, con le compagne e i compagni de “il manifesto”. Sini al percorso che portò a Democrazia Proletaria. Mario è stato, per me, un fratello maggiore; mi ha insegnato tanto. La sua splendida famiglia è stata (ed è) la mia famiglia. Evito qui elogi funebri, che Mario, sempre così sobrio, non amava. Ricordo solo che è stato un parlamentare importante, un coerente partigiano della Costituzione. Ha interpretato la sua funzione non solo come raffinato conoscitore e studioso delle aule e delle commissioni parlamentari, ma, soprattutto, nelle strade, nei luoghi di lavoro e della mancanza di lavoro, nei villaggi sperduti della globalizzazione, in Italia, come nell’America Latina, come nel Medio Oriente.

Nei luoghi delle ingiustizie e delle diseguaglianze, nei meandri del dolore, negli spazi delle lotte , delle rivolte, delle ribellioni. Abbiamo scritto insieme articoli, saggi per Sinistra Meridionale, che è l’amata creatura editoriale di Mario. Rigoroso e lucidissimo intellettuale, arbereshe. Stavamo, in questi giorni, discutendo di un convegno per sottolineare i danni che l’”autonomia differenziata” avrebbe prodotto per il Sud : una sorta di discussione /inchiesta popolare , come facemmo, guidati da Pino Ferraris, all’epoca della “rivolta” di Reggio Calabria. Mario è, infatti, un padre del meridionalismo contemporaneo. Un meridionalismo gramsciano, come ripeteva con convinzione. E si arrabbiava con noi, donne e uomini di sinistra, perché avevamo, sosteneva, sostanzialmente rimosso il Mezzogiorno dalle nostre strategie. “Il Sud non è un orpello; è centrale per pensare la rivoluzione”, ci ripeteva con accorata testardaggine. Mario ha formato, culturalmente e politicamente, tante ragazze e tanti giovani che saranno i nuovi meridionalisti. Intanto, mi sento (ci sentiamo), oggi, spaesati, molto soli. Senza Mario, orgogliosamente e liberamente comunista



Della chiusura della linea per i lavori di ammodernamento previsti (urgenti e necessari) come il raddoppio di alcune tratte, l’eliminazione dei passaggi a livello, ecc…, si parla da lunghi anni, cioè da quando c’erano il sig. Zingaretti e il sig. Civita in Regione, ma adesso pare che siamo arrivati al dunque perchè a gennaio 2025 si dovrebbero avviare i lavori.
Finalmente, dopo tanti anni di chiacchiere, stanno per arrivare i fatti.

Ma c’è un però, grande come una casa.

Intanto non esiste un piano di mobilità alternativo alla chiusura della tratta extraurbana da Montebello in avanti, nessuno lo ha ancora elaborato. E il tempo vola. Conoscendo i soggetti non ci sarà da aspettarsi niente di più che qualche navetta incarrozzata nel traffico della via Flaminia nelle ore di punta.

Teniamo presente che la Roma Viterbo, come la Roma Lido, ha perso negli anni moltissimi utenti a causa del pessimo servizio erogato ed iL rischio reale è quello di perderne molti altri, che magari preferiranno la propria auto.

Detto questo, ci viene un forte dubbio in merito alla chiusura della linea.
Sulla Roma Lido i lavori su infrastruttura, segnalamento e linea elettrica (in atto da due anni) si fanno dalle 21 alle 5 di mattina e di giorno i treni girano regolarmente.

Perché sulla Roma Viterbo no?
Perchè punire di nuovo i pendolari?

RIFONDAZIONE COMUNISTA – LAZIO



Noi di Rifondazione siamo stati gli unici a votare contro la direttiva Bolkestein e trovo ridicolo che da anni quelli che l’hanno votata diano colpa a una cattiva Europa per nascondere le loro responsabilità. Il vittimismo dei balneatori è fuori luogo. Hanno goduto di un sostegno bipartisan per decenni che ha portato a prevedere il rinnovo automatico, cioè eterno, delle concessioni con canoni irrisori. Un privilegio e una rendita insostenibile sul piano giuridico su un bene demaniale dai tempi dell’imperatore Giustiniano. Questo ha consentito di creare un mercato delle concessioni che vengono cedute per milioni di euro senza che la collettività – comuni e demanio – ne ricavi nulla. Ma soprattutto ha scatenato una progressiva proliferazione di manufatti e recinzioni che hanno reso la vista mare preclusa in gran parte delle spiagge italiane. Questo è accaduto grazie alla complicità bipartisan dei legislatori e degli amministratori di comuni e regioni che si sono per anni contesi il voto della loro lobby. Che ora si lamentino degli investimenti come se fosse stata la comunità a chiedergli di costruire a più non posso è davvero fuori luogo. I balneatori sono da tempo una lobby potentissima che ha avuto un trattamento di favore da parte di centrodestra e centrosinistra. Ricordo che quando si provò ad aumentare i canoni ci fu una rivolta prepotente a cui la politica si piegò. L’alta redditività delle concessioni ha portato a una corsa alla cementificazione delle spiagge e alla sostanziale assenza di spiagge libere nel nostro paese. Se sai che la tua concessione è eterna investi un sacco di soldi per costruire sempre nuove strutture. E’ davvero triste che debba essere l’Unione Europea a imporre con criteri meramente ordoliberisti di porre fine a un regime di gestione del demanio marittimo inaccettabile. Doveva essere la Repubblica italiana a tutelare un bene comune come la spiaggia con criteri di interesse pubblico a partire dalla vista mare (la Repubblica tutela il paesaggio, recita l’articolo 9 della Costituzione) e a imporre un modello di gestione diversa. Il dibattito da tempo in corso è concentrato solo sulle gare mentre bisognerebbe mettere al primo posto la tutela ambientale-paesaggistica, la fruibilità di un bene comune, il lavoro. Sbaglia chi pensa che bastino le gare per ottenere una corretta gestione del demanio marittimo. Anzi c’è il rischio – in assenza di regolamentazione nazionale – che come soggetti economicamente più forti delle famiglie dei balneatori si approprino di questo bene di tutte/i per continuare il saccheggio. Chi lo ha detto che a scadenza delle concessioni debbano semplicemente andare a gara? E’ possibile un modello di gestione pubblico diverso. C’è bisogno di un grande piano per la rinaturalizzazione delle spiagge italiane, di aumentare i canoni, di aumentare le spiagge libere, di salvaguardare il lavoro non la rendita. La spiaggia è di tutti, riprendiamocela!

Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista



Di Laura Tussi

Elaborato di ricerca del saggio inedito CREATIVITA’, ARTE E CAMBIAMENTO di Boris Luban-Plozza, Presidente della Federazione di Medicina Psicosomatica e Sociale- Ascona, Svizzera e Antonino Minervino, membro del direttivo della Società Italiana di Medicina Psicosomatica

L’ideale universale dell’arte: la musica, la pittura, la poesia, la letteratura, la scrittura, la teatralità e ogni ideale di creazione come manifestazioni di pace per l’umanità

L’accezione di arte, in questa parte di ricerca, vuole significare il senso potenziale del percettibile nella creatività che in ogni individuo può suscitare, innescando una dinamica di cambiamento, un metabolismo sensoriale, una metabletica delle espressioni

L’arte universale come altissimo ideale di creatività per l’estro e per le grandi azioni dell’umanità e per ascrivere per sempre nella Storia la parola ‘Pace’

E’ necessario considerare che il significato del vocabolo “arte” deve essere riservato a tutte quelle espressioni che grazie a particolari intensità di emozioni e rappresentazioni, si elevano a ideale universale, come la musica, la pittura, la poesia, la letteratura, la scrittura, la teatralità e altro ancora.

La dinamica artistica relazionale stimola le capacità inconsce della persona e dell’artista

La dinamica processuale che sommuove e coinvolge intime profondità della personalità è la creatività di cui si denotano la funzione e la presenza, ma che rimane per una notevole parte fuori dalla conoscenza e consapevolezza del soggetto.

La creatività per ‘lavorare per vivere e non per morire’

La creatività si coagula e si trasforma in cambiamento, nella metamorfosi delle espressioni artistiche, dalla musica alla scrittura, quali preziose potenzialità, spesso trascurate, a cui rivolge il proprio interesse il pluriverso delle relazioni d’aiuto, nella complessità di quella sfera professionale che fonda la propria attività in relazioni complementari da una persona ad un’altra.

La creatività è l’ultimo barlume della personalità sopravvissuta al disagio, alla devianza, all’insensato giovanile e adulto

La creatività soprattutto musicale è una scintilla sovente sopita da risvegliare e coltivare, sia nella dimensione terapeutica, sia nello sviluppo di ogni essere umano, nell’approfondimento, nella riflessione sulla propria vita e infine persino di accompagnamento alla morte. Il disagio esistenziale interrompe un progetto di vita, deviandolo, sconvolgendolo.

La progettualità creatrice e la condizione esistenziale di ogni evoluzione artistica per un convinto NO al conflitto armato e alle guerre

Il malessere interiore, il turbamento psichico può ridisegnare una condizione di progettualità esistenziale, ponendo l’individuo in una situazione di crisi, quale momento di evoluzione, di cambiamento, di nuova e diversa ritrascrizione esistenziale.

L’arte-terapia relazionale e l’espressione musicale in tante forme poliedriche di espressione come simbolo della pace nel mondo

Nelle molteplici forme di arte-terapia, dalla scrittura alla pittura all’espressione musicale in tutte le sue peculiarità e accezioni, sussiste una grande potenzialità nell’esprimere emotività nel far trapelare sentimenti che spesso non si vogliono esternare verbalmente.

Quando l’arte incontra la psicologia e la psicanalisi e la pedagogia come forma di aiuto della persona in dinamiche pacifiche e contesti di nonviolenza

Dunque l’arte incontra la psicanalisi e la pedagogia a favore di categorie sempre più numerose di persone: portatori di varie forme di handicap, tossicodipendenti, ma anche e soprattutto portatori di emarginazione e di patologie in diverse fasce d’età, e per interventi a valenza terapeutica risocializzante e riabilitativa.

L’arte come forma e modalità di espressione interioristica di ideali e emozioni e sensazioni di pace a livello individuale e collettivo e universale

L’espressione artistica, con la musica, la pittura e altre forme d’arte, vale come terapia per favorire in bambini, adulti, anziani l’espressione di sensazioni ed emozioni.

Sappiamo da Freud che il nostro inconscio non pensa secondo criteri logici, ma la sua attività è simbolica e presenta molteplici significati al di fuori del tempo e dello spazio

L’arte, in ogni sua poliedrica accezione, si esprime per mezzo di immagini complesse che si sottraggono alla formulazione diretta e precisa del linguaggio. Ogni forma artistica, sia visiva, grafica, musicale o verbale è in primo luogo un’idea sensibile alle immagini nate dall’esperienza intensamente vissuta e scaturita da una complicità intima con la natura, l’ambiente ed il corpo umano.

L’arte e il rapporto con l’immaginario creativo, la dimensione interiore e il disagio umano in tutte le sue forme

Si coglie come il rapporto tra l’immaginario e la vita affettiva assuma sempre maggior significato ed importanza; è noto come in questi ultimi decenni le scienze umane abbiano manifestato un interesse particolare per lo sforzo creativo dello psichismo sia a livello conscio che inconscio.

Il piacere della creatività nel percorso giovanile e di crescita e dell’età adulta per convivere in contesti nonviolenti

Non importa ovviamente che ne risulti un’opera d’arte. In rilievo sono l’espressione emotiva, la comunicazione ed il piacere che se ne ricava. Le nozioni di gioia e di piacere sono presenti nell’atto espressivo e rappresentano elementi vitali di grande importanza.

Scrittura, musica, pittura, scultura racchiudono le nozioni di tempo, spazio e movimento per l’amore della creatività e della pace interiore e nel mondo contro le varie imposizioni dei poteri forti e che impongono le guerre contro l’umanità

La creatività spesso si attiva da uno stato di paura, di angoscia, di timore perché penetra in un ambito sconosciuto. Scrittura, musica, pittura, scultura racchiudono le nozioni di tempo, spazio e movimento, consentendo un altro linguaggio del corpo, diverso dal sintomo e dalla parola. L’armonia pervade le varie istanze dell’uomo, fra il razionale e l’emotivo, fra la carica pulsionale e la ragione pensante, armonia fra l’uomo e il suo ambiente.

Il linguaggio dell’immaginazione, della pittura, della musica è senza dubbio espressione intima dell’inconscio

Liberare la propria creatività significa svegliare in sé delle forze psichiche e morali insospettabili. L’artista tende a reagire emotivamente, ma, all’ascolto delle sue emozioni, si impegnerà ad esteriorizzarle in forma di idee. I nostri antenati già attribuivano all’armonia e al ritmo il potere educativo e autoformativo della creatività.

Arte-terapia come modalità per far scaturire dinamiche di pace e nonviolenza tra le nuove generazioni e a livello mondiale e universale

Per mantenere un buono stato di salute mentale e fisica sembra indispensabile utilizzare ogni giorno un po’ del nostro intuito, della nostra immaginazione e della personale capacità creatrice.

Il ritmo musicale è l’espressione del nostro essere e la creatività stabilisce il legame con l’infinito universale

I servizi che erogano prestazione di tipo sociale, assistenziale e sanitario dovrebbero tenere conto delle loro potenzialità in termini di creatività per produrre quei processi di cambiamento al loro interno che rappresentano l’espressione di quella vitalità necessaria a rendere efficace la loro risposta.

I processi creativi, dalla musica alla danza alla pittura al teatro, per abolire la guerra dei potenti

I processi creativi sono una fonte di benessere e di salute per ogni singolo individuo e per l’insieme di persone, attraverso un’attivazione dei propri processi di conoscenza e di creatività relazionale.

Dall’elaborazione creativa scaturisce il prodotto artistico che determina un processo di cambiamento in ogni persona che immagina, che scrive, che suona, che danza oltre ogni imposizione di potere

Le polimorfe sfaccettature creative consentono al soggetto di evidenziare il proprio presente esperienziale, riflettendo nella propria vita quel ritmo del rituale catartico implicito nelle fasi della creazione: dalla creatività, alla creazione.

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 di Franco Ferrari* Quando si apre il dibattito sulla trasformazione del Partito Comunista in un nuovo e inizialmente non ben definito soggetto politico (“l


INDICE 1. Il contesto internazionale: l'anticomunismo atlantico (capace di tutto) 1 2. Il "vero problema", storiografico e politico 1 3. Il primo fatto inneg


Mercoledì 7 agosto ore 18.00, piazzale degli Eroi 9 a Roma presidio contro le aggressioni operate da chi sostiene il governo israeliano, davanti alla sede dell

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di Monica Pellicone - Da Pescara il leader nazionale di Rifondazione lancia una campagna contro la decisione del governo. E in conferenza stampa intervengono


di Edi Arnaud, Paolo Cacciari, Marinella Correggia, Marino Ruzzenenti -

Il ricordo

Giovanna Ricoveri se ne è andata, a Genova, nella notte fra il 3 e il 4 agosto. Cinque anni dopo Giorgio Nebbia, con il quale aveva collaborato fin dal 1991, anno di nascita dell’edizione italiana di Cns-Capitalismo Natura Socialismo. La rivista di ecologia politica, diretta da Giovanna e da Valentino Parlato, faceva parte di una rete internazionale creata due anni prima in California da James O’Connor, il teorico della seconda contraddizione: quella fra capitale e natura.

Nata a Rosignano, sulla costa livornese, Giovanna Ricoveri aveva iniziato a collaborare stabilmente con la Cgil nei primi anni 1970, un impegno durato fino ai primi anni 1990. In seguito, dirigendo Cns, diventata poi Cns-Ecologia politica, si dedicò ad analizzare tre grandi questioni a lungo trascurate o negate dalle forze politiche della sinistra: la crisi ecologica come causa importante di crisi economica e sociale; lavoro e natura come due contraddizioni speculari che nel capitalismo maturo vanno affrontate insieme, due facce della stessa medaglia; l’importanza dei movimenti sociali nel superamento della crisi. Negli anni 1990, forse solo su Cns si potevano leggere saggi guidati dalle interconnessioni che cromaticamente potremmo riassumere nella definizione “rosso-verde”.

Giovanna fu anche straordinaria curatrice di diversi libri. Sviluppò l’idea della centralità della natura anche grazie ai rapporti con l’eco-femminismo a livello internazionale. Approfondì con passione l’antica eppure attualissima tematica dei beni comuni e si inserì, lei proveniente dal sindacato, nel dibattito internazionale sulla decrescita. Le tante persone che – come noi – hanno avuto Giovanna come compagna di pensiero e attività, e come amica, sono approdate a lei per vie diverse.

Chi partendo dal mondo del lavoro, chi da quello dell’ecologia. Giovanna era profondamente legata all’idea che per affrontare la crisi ecologica fosse indispensabile il contributo del movimento dei lavoratori, di chi agiva direttamente all’interno del sistema produttivo. E d’altro canto, per un vero ambientalismo che intendesse cambiare la società, era indispensabile il contributo dei lavoratori. Questione sociale e questione ecologica come inscindibilmente unite, una convergenza necessaria, ecco il messaggio centrale di Giovanna.

Un contributo che ci mancherà, in un mondo pervaso dalla convinzione che il neoliberismo si possa in qualche modo governare, e che la questione ecologica si possa risolvere con la green economy, mantenendo intanto il sistema capitalistico. Tanti i ricordi personali. Gli incontri con lei nella sua casa-ufficio erano sempre densi, a volte agitati, mai noiosi. Prima di passare all’enorme tavolo da lavoro, bianco e un po’ traballante sotto il peso di libri e fascicoli, l’accoglienza avveniva in cucina con il caffè e i biscotti.

E come dimenticare i piatti toscani che cucinava anche per i vegetariani. Negli ultimi due mesi aveva avuto un’emorragia cerebrale dalla quale purtroppo non si era più ripresa. Nel libro collettivo pubblicato dalla Fondazione Luigi Micheletti nel 2016 per festeggiare i 90 anni di Giorgio Nebbia, Giovanna si esprimeva così: “Giorgio è uno scienziato che ha cuore e intelligenza”. Giovanna, valeva anche per te. Un abbraccio alla famiglia e in particolare alle nipoti Eleonora e Luisa.



Giovanna Ricoveri ci ha lasciati. Ma resta tutto il lavoro straordinario fatto in decenni di militanza sociale e culturale. Giovanna entra di diritto nel gotha


Aumentano in modo preoccupante le aggressioni alle sedi e a compagn* di Rifondazione Comunista, da parte di fascisti e sionisti, essendo individuati come princi

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Questa mattina a Roma un sostenitore di Israele ha aggredito il nostro compagno Giovanni Barbera e ha infranto la vetrata della nostra federazione di Roma a Pia

Stefano Andaloro reshared this.



Stefano Galieni*

L’uccisione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, messa in atto a Teheran dal governo israeliano va considerata secondo numerosi punti di vista. Intanto, dopo il bombardamento in Yemen e l’aumento delle operazioni in Libano, due Stati sovrani, dovrebbero far considerare l’allargamento del conflitto mediorientale come già in atto. Una fase che, coinvolgendo direttamente, non è la prima volta, l’Iran, finisce col non limitare più i confini reali del conflitto. Ma a quale scopo? Indebolire Hezbollah in Libano come si è fatto con Hamas? Garantire continuità al governo Netanyahu, costi quel che costi? Israele sta subendo in questi mesi numerose e pesanti critiche per il genocidio gazawi, anche da parte di Paesi e di governi considerati amici. Le stesse risoluzioni delle Corti internazionali dell’Aja, (penale e di giustizia), rischiano di costringere Tel Aviv a rapportarsi con meno oltraggio al diritto internazionale. Viene da pensare che questa strategia sia frutto di una scelta autonoma israeliana affinché, indipendentemente da chi sarà il prossimo Presidente USA, ci si trovi davanti ad un fatto compiuto. C’è una guerra in atto su larga scala e l’occidente non può non schierarsi con Israele né far diminuire il proprio sostegno.

Questo permetterebbe di fare carta straccia non solo dei capi di accusa rivolti al governo “dell’unico paese democratico nell’area” (come ancora ci si ostina a dire, ma e soprattutto a impedire qualsiasi prospettiva di risoluzione della questione palestinese. Gli 800 mila coloni in Cisgiordania resterebbero dove sono, Gaza se non si arrende diventerà terra di deportazione o di carestia – drammatico l’aumento dei casi di poliomielite fra i bambini – e Gerusalemme sarà capitale di un solo Stato. Questo a costo di una guerra senza fine. Del resto per gli Usa, indebolire l’Iran, indipendentemente da chi sarà eletto, è da considerare fattore positivo, l’importante è che, anche a costo di far divenire un deserto tanto quel che resta della Palestina che il sud del Libano. Problema non risolto resterebbe il traffico marittimo nel Mar Rosso dove è ancora forte lo spazio e il ruolo della minoranza Houthi. Gli attacchi come quelli condotti da Israele nei giorni scorsi non possono scuotere il Paese, peraltro confinante con gli altri del Golfo e che, non a caso, si stanno irrigidendo anche con gli Usa, in particolare l’Arabia Saudita. Quel tratto di mare è fondamentale, dal punto di vista strategico e commerciale, soprattutto per l’Europa, per Washington, soprattutto se prevarranno spinte isolazioniste, sarà l’ennesima area dimenticata in cui però, ogni giorno, transitano navi commerciali e militari, anche statunitensi.

C’è un secondo punto di vista da tenere in considerazione: per Israele e i suoi alleati, quelle che si stanno effettuando sono “operazioni speciali” contro terroristi. Si combatte contro Hamas, non contro i palestinesi, contro Hezbollah, non contro i libanesi, contro gli Houthi, non gli yemeniti. Una traduzione della lettura del conflitto che non è soltanto formale e linguistica. Si nomina il proprio nemico, lo si fa inserire, anche se si tratta come Hamas ed Hezbollah, nelle liste delle organizzazioni terroriste, pur essendo partiti, con propri statuti, che hanno partecipato ad elezioni e che hanno propri rappresentanti nelle istituzioni. E l’equiparazione partito ostile = organizzazione terroristica, permette di violare senza alcun tipo di restrizione, ogni norma di diritto internazionale.

Un diritto che è divenuto far west 2.0, il leader di Hamas è stato ucciso con un missile ad altissima precisione, così almeno pare, ma che non nasce oggi e da decenni autorizza le potenze imperialiste a operare come giustizieri, (il termine boia sarebbe più adeguato) senza neanche un minimo processo. La storia della seconda metà del XX secolo è costellata di vicende simili, dalle decine di tentativi andati a vuoto per uccidere Fidel Castro a Cuba, agli omicidi degli esuli, realizzati anche in Italia, da agenti delle dittature latino americane incaricate di eliminare chi aveva trovato scampo in Europa. Colpire a distanza, spesso anche con il silenzio complice dei governi in cui erano presenti i rifugiati. Israele, dopo l’attentato sanguinoso alle Olimpiadi di Monaco del 1972, 11 atleti uccisi anche a causa dell’assalto delle teste di cuoio tedesche, decise immediatamente, con l’allora leader Golda Meir di far partire l’operazione “l’Ira di dio”, era, curiosa coincidenza l’11 settembre 1972. E il primo ad essere ucciso fu Wael Zuaiter, intellettuale, pacifista, amico di Moravia e Jean Genet, Ennio Calabria e Giorgio La Pira. Fu ucciso a Roma, il 16 ottobre dello stesso anno. Attivista politico nella sinistra, stava lavorando alla traduzione in italiano de Le mille e una notte. L’uccisione di figure di spicco e di ampia capacità di dialogo, in grado di far conoscere in Europa le ragioni del popolo palestinese, è stato il filo rosso di quella stagione che non si è interrotta neanche dopo gli accordi di Oslo del 1993. Agenti del Mossad hanno colpito indisturbati in Europa e non solo. Omicidi mirati di cui, secondo lo storico il giornalista israeliano Ronen Bergman, sono state uccise, all’estero, da allora, oltre 500 persone. Nel 2018 fece scalpore in Italia il suo volume “Uccidi per primo” che ricostruiva molte di quelle vicende. Negli ultimi anni gli obiettivi sono stati anche dirigenti di Hamas e di Hezbollah e nonostante alcuni smacchi, non si sono fermati. Considerando anche gli omicidi mirati compiuti in Cisgiordania e aggiungendo cittadini siriani o iraniani, si è ormai superata la soglia delle 800 uccisioni, tutte rimaste impunite. Tutte compresa quella di un cameriere arabo, in Norvegia, scambiato per un palestinese, quelle di scienziati, almeno 5 eliminati in maniera diversa in Iran in quanto sospettati di lavorare ad un ordigno nucleare per Teheran, Nel 1997, guarda caso col primo governo Netanyahu, riprende la catena di omicidi e si tenta di avvelenare ad Amman, in Giordania, Khaled Meshal, considerato l’allora leader politico di Hamas. Un triplo errore perché Meshal sopravvive, gli avvelenatori vengono arrestati e il governo Giordano, che aveva da poco firmato gli accordi con Israele, minaccia di stracciarli. Come in una pessima spy story, il governo di Tel Aviv è costretto non solo a mandare l’antidoto al veleno che salva l’esponente politico ma anche a liberare l’allora vero leader spirituale del Movimento di Resistenza Islamica, Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin che torna a Gaza accolto come un eroe. I governi israeliani, ormai da oltre 50 anni, dichiarano di “dover condurre” queste azioni perché non si fidano più dei governi europei, ma nel frattempo hanno continuato ad uccidere in Tunisia, Cipro, Turchia, Siria, Yemen, Emirati Arabi. Uno smacco si determina a Dubai nel 2010, quando, nella camera d’albergo, viene soffocato con un veleno un dirigente di Hamas. Ma come in ogni grande albergo ci sono le telecamere che tutto osservano e i killer vengono tutti identificati dall’intelligence degli Emirati.

Rispetto al 1972, gran parte dei Paesi in cui trovano rifugio esponenti palestinesi, sono dotati di tecnologia e di intelligence molto avanzata, non vale più la superiorità che, insieme al comune intento degli Usa e di altri governi UE, sancivano il potere assoluto. Oggi le armi per rispondere colpo su colpo sono in mano a numerosi Stati e ad ogni azione prima o poi corrisponde una reazione, sul piano militare, destinata a far aumentare la tensione. E non è più utilizzabile, continuando con la metafora del western, a elaborare liste di “wanted, dead or alive” ( di vivi ne prendono sempre raramente), il mondo multipolare non permette queste semplificazioni tanto care alla leggenda della vecchia frontiera su cui sono nati gli Usa. Prima o poi si dovrà tornare ad accettare che le soluzioni ai conflitti le può trovare solo la diplomazia, quella reale e non serva di interessi superiori. Ma quanti ne cadranno di leader o di uomini, donne, bambini che non sono neanche nelle liste, prima che questo possa accadere? Pace e tregua diventano perciò ancor più urgenti parole dominanti. Da ultimo, una terribile perplessità. Nel ripercorrere decenni di omicidi extragiudiziali sale un’inquietudine. Chi ci assicura che, avendo opinioni che vengono censurate anche dalle piattaforme social, che sono bandite dal sistema mediatico mainstream di non essere, che so, in quanto comunisti, anche noi un prossimo target su cui apporre la scritta wanted? Se si torna ad essere considerati come non gestibili, nelle nostre ormai caricature di democrazie, anche questo è possibile

*da Transform Italia



  di Laura Tussi, Alex Zanotelli, Fabrizio Cracolici   Dagli intellettuali di oggi e del passato tra cui Bloch e Hessel e Morin deve partire lo s

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FOLLE DIVIETO CANNABIS LIGHT: UN DANNO PER TANTE IMPRESE

“Il divieto che il governo ha inserito nel ddl sicurezza è una follia oscurantista che, se approvata, colpirebbe una filiera produttiva importante e in crescita”, dichiara Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista. “Per questo ho invitato due operatori del settore a intervenire in conferenza stampa per dare voce a chi lavora e investe”.

Domani, sabato 3 agosto, alle 11,30 presso sede PRC a Pescara in via Giulio Tedesco 8

CONFERENZA STAMPA

Interverranno:
Maurizio Acerbo, segretario nazionale di PRC
Lucio Boschi, Mario Muzii
coordina Viola Arcuri, co- segretaria regionale PRC




Franco Ferrari*

Cento anni fa i quartieri popolari di Parma si opponevano alla spedizione fascista guidata da Italo Balbo e costringevano gli squadristi alla ritirata.

Lo sciopero “legalitario”


Il 31 luglio 1922, l’Alleanza del lavoro proclamò per il giorno successivo uno sciopero generale nazionale, con l’obiettivo dichiarato di difendere “le libertà politiche e sindacali minacciate dalle insorgenti fazioni reazionarie”. Turati, principale esponente della corrente riformista del PSI, lo definì per questo uno sciopero “legalitario”. La sua proclamazione sarebbe dovuta restare segreta fino all’ultimo momento ma venne anticipata dal quotidiano ligure “Il lavoro” e i fascisti, in tal modo messi in allerta, intimarono la cessazione dello sciopero entro 48 ore minacciando, altrimenti, di intervenire direttamente con la violenza per ripristinare l’ordine. A Parma aderirono allo sciopero le tre camere del lavoro (CGdl, UIL, USI) e a partire dalle dieci di sera di martedì 1° agosto anche il sindacato ferrovieri.
Il quadro sindacale parmense ci viene così descritto da William Gambetta:

Fu così che, nel dopoguerra, quattro diventarono le centrali sindacali: la Camera del Lavoro di borgo delle Grazie, aderente all’Unione Italiana del Lavoro deambrisiana, che nel 1921 contava ancora 23 mila iscritti; la Camera Confederale della Cgil, in strada Imbriani, che trovava sempre più consenso su impulso della linea massimalista del Psi; la piccola Unione Sindacale Parmense, fedele alle posizioni neutraliste e libertarie dell’Usi di Armando Borghi; e la cattolica Unione del Lavoro di Borgo Tommasini, attiva dall’estate 1919, gracile in città ma forte del sostegno dell’Azione Cattolica e dei notabili del Partito Popolare, soprattutto nelle valli montane.

Di queste solo l’Unione cattolica non aderì allo sciopero generale.
In città vi fu una significativa adesione a cui parteciparono quasi tutti i lavoratori delle industrie e larga parte del pubblico impiego. Nello stesso giorno cominciarono ad arrivare le squadre d’azione dei paesi della provincia, dove il fascismo aveva messo maggiori radici di quanto non fosse riuscito a insediarne nel capoluogo. A Parma, infatti, era rimasto debole e diviso. Il primo agosto si registrò solo qualche incidente minore.

Il ruolo degli Arditi del Popolo


Un ruolo importante nelle vicende di queste giornate ebbero gli Arditi del Popolo, fondati nel luglio del 1921 nel cortile di un’osteria di Borgo Santa Maria, certamente ispirati all’organizzazione fondata a Roma da Argo Secondari, ma dotati di una sostanziale autonomia. Del gruppo promotore degli Arditi, a livello nazionale faceva parte anche Giuseppe Mingrino, deputato socialista, con cui entrò in contatto il collega parlamentare Guido Picelli, eletto grazie al sostegno dell’elettorato popolare dei borghi dell’Oltretorrente.
Picelli, ispiratore e guida degli Arditi di Parma, aveva lasciato il PSI, ostile all’organizzazione armata e al ricorso alla violenza nell’opporsi al fascismo, nell’ottobre del 1921. Il suo avvicinamento al Pci non portò alla sua immediata adesione. La data esatta del suo ingresso è stata avvolta da una relativa incertezza. È sembrato che dovesse essere fatta risalire al 1924, dopo le elezioni che lo confermavano deputato, ma questa volta nelle liste di “unità proletaria” promosse dal Partito Comunista insieme alla frazione massimalista dei terzini, favorevole alla fusione delle forze che sostenevano la politica della Terza Internazionale. La ricerca successiva (in particolare da parte di Fiorenzo Sicuri) oltre che la nota autobiografica compilata dallo stesso Picelli a Mosca nel 1936, sembrano farla risalire al 1922 ma, presumibilmente, in un momento successivo agli eventi di Parma dell’agosto.
Sul ruolo e anche le specificità degli Arditi parmensi scriverà lo stesso Picelli, in un saggio pubblicato su “lo Stato Operaio” organo del Partito Comunista d’Italia, nell’ottobre del 1934, ma in realtà scritto almeno un paio d’anni prima:

Qui il movimento si differenziò un poco da quello delle altre provincie per la sua maggiore disciplina e per l’applicazione tecnica delle operazioni armate di strada. Il comando dei “gruppi degli arditi del popolo” prevedendo la spedizione punitiva in grande stile, da tempo preparò oltreché gli animi, il piano difensivo e procurò i mezzi necessari per affrontare e respingere il nemico. I capisquadra scelti fra gli operai militari, ebbero il compito dell’addestramento degli uomini, mentre gli addetti ai servizi speciali furono incaricati di mantenere il contatto coi soldati dei reggimenti di permanenza a Parma per il rifornimento di armi e munizioni.

Sulla presenza delle varie correnti e organizzazioni politiche all’azione di difesa armata, William Gambetta scrive:

Sulle prime fortificazioni, quelle in faccia al nemico, spiccavano orgogliose le bandiere d’appartenenza politica, come gagliardetti di reparti di uno stesso esercito. Sì perché tra quegli uomini armati, nell’urgenza della difesa, ogni diverbio ideologico era scomparso ed era difficile distinguere, dietro moschetti e revolver, i comunisti dai corridoniani, i socialisti dagli anarchici. Ad essi poi si aggiunsero giovani dell’Azione Cattolica dell’Oltretorrente, come Ulisse Corazza e Giuseppe e Luigi Mori, in dissenso con le direttive del Partito Popolare.

Per quanto riguarda i comunisti, come ha ricordato Bruno Fortichiari, al tempo membro della Commissione Esecutiva del PCdI e responsabile dell’Ufficio I (che si doveva occupare della struttura illegale):

D’accordo con l’Esecutivo, l’Ufficio I non autorizzò un accordo con i sedicenti “Arditi del Popolo” sul piano nazionale, considerando pericoloso esporre la propria organizzazione a interventi non controllabili. Accettava e autorizzava accordi locali e operativi limitatamente a gruppi ben conosciuti o disposti ad ammettere a parità di condizioni una temporanea convergenza.

Un esempio lampante di questa forma di collaborazione si ebbe a Parma per merito di un socialista stimatissimo e capace, Picelli, capo autentico e amato, col quale i numerosi proletari combattenti dell’Oltretorrente resisteranno in armi agli squadristi organizzati, foraggiati e armati dagli agrari emiliani (Picelli passerà poi al Partito Comunista).
La sera dell’estate 1921 in cui vennero fondati gli Arditi erano presenti anche Umberto Filippini, segretario della federazione provinciale del PCdI e Dante Gorreri che guidava l‘organizzazione giovanile comunista, la Federazione Giovanile Comunista d’Italia. Filippini venne eletto a far parte del Direttorio, mentre a Gorreri venne affidata la responsabilità di un settore che andava da Piazzale Imbriani a piazzale della Rocchetta.
Il rapporto tra i comunisti e gli Arditi fu però piuttosto complesso. Secondo la ricostruzione di Fiorenzo Sicuri:

Anche a Parma i comunisti uscirono, pertanto dagli arditi e si formarono le squadre comuniste, che fecero nei mesi successivi qualche azione. Cfr. l’ “Ordine Nuovo”, 13 agosto 1921, “Le squadre comuniste a Parma”, ove si annunciavano le dimissioni dei comunisti dagli arditi del popolo e dal Direttorio del corpo e si comunicava la costituzione di un inquadramento militare di partito. Inoltre, si minacciava l’allontanamento dal partito a chi non avesse ottemperato alla direttiva restando negli arditi e si rendeva nota l’espulsione di Umberto Filippini “già segretario della Federazione Provinciale Parmense”, verosimilmente perché non abbandonò il movimento degli arditi. (…) Successivamente al settembre 1921, in una data difficile da stabilire, a Parma le squadre dei comunisti ebbero rapporti unitari col movimento degli Arditi, non è chiaro se coordinandosi semplicemente con esso oppure sotto il completo comando del Direttorio degli Arditi (…) ma non aderendo individualmente.

Secondo Marco Rossi la Federazione comunista parmense contava, nel 1922, 172 iscritti e 577 aderivano alla sua federazione giovanile. “Più volte entrati in contrasto con la dirigenza nazionale sulla questione degli AdP, i comunisti parmensi raggiunsero con essa una mediazione, partecipando con proprie squadre all’organizzazione territoriale diretta da Picelli”, scrive Rossi, confermando in tal modo la ricostruzione di Fortichiari.
Sul peso dell’anarchismo a Parma è ancora Marco Rossi a fornirci un quadro complessivo:

Storicamente, l’anarchismo nel parmense aveva una presenza rilevante, sia col sindacalismo d’azione diretta che con l’organizzazione specifica; a questo proposito va ricordato che Malatesta, dopo il suo rientro in Italia alla fine del 1913, era stato a Parma, Borgo San Donnino e Sala Baganza, nell’ambito di un tour di conferenze nelle “roccaforti” anarchiche. Nel 1922, oltre alla componente anarchica dell’USI, erano attivi l’Unione anarchica parmense, il Circolo di studi sociali e il Gruppo femminile libertario, oltre ad altri circoli nel circondario, mentre rimaneva vivo il ricordo della grande bandiera rossa e nera che aveva sventolato nell’inespugnato Borgo delle Carra durante le “cinque giornate” del 1908.

A dirigere la mobilitazione popolare di Parma, non furono solo gli Arditi, ma si costituì un più ampio Comitato per la difesa operaia, sempre guidato da Picelli, che consentì l’aggregazione di forze più ampie. La sua esatta composizione però non è stata ancora determinata.

Arrivano migliaia di fascisti


Il successo dello sciopero a Parma città e in alcune zone del parmense, portò ad un crescente afflusso degli squadristi che cominciarono ad arrivare anche dalle province vicine. Secondo la prefettura il 2 agosto erano già 3.500-4.000. Nel pomeriggio dello stesso giorno iniziarono i primi conflitti a fuoco che avevano come epicentro il rione del Naviglio, incastonato nella “città nuova”, quella borghese, e decisamente più esposto e difficile da difendere di quanto non fosse l’Oltretorrente. Nel Naviglio si trovava un nutrito gruppo di Arditi in cui avevano un ruolo di primo piano gli anarchici Alberto Puzzarini e Antonio Cieri.
Il quotidiano “Il Piccolo”, di orientamento democratico-massonico, descriveva così la situazione che si era creata in Oltretorrente:

Alle Camere del Lavoro vigilano le squadre degli organizzati. Via Nino Bixio e via d’Azeglio sono un solo bivacco. Gli uomini dormono e vigilano sui marciapiedi. Lo spettacolo è fantastico. Anche qui i propositi sono fermi e precisi. – Nessuna provocazione, ma non subire passivamente alcuna violenza -. Crediamo di poter dire che un vero e proprio dislocamento strategico è stato compiuto, e vi ha un piano di difesa pronto. Le vedette sono sulle case. Molti punti sono guardati da pattuglie di giovani. Ma quello che da un tono quasi suggestivo a questa preparazione di difesa, si è che i bivaccanti intonano le vecchie canzoni della trincea e molti si sono appuntati sul petto le decorazioni guadagnate in guerra, difendendo quella Patria che altri vogliono monopolizzare.

Non particolarmente diversa la descrizione che ne fa Picelli nel suo citato articolo del 1934:

Il Comando degli “Arditi del Popolo” appena ebbe notizia dell’arrivo dei fascisti, convocò d’urgenza i capi squadra e capi gruppo e dette loro disposizioni per la costruzione immediata di sbarramenti, trincee, reticolati, con l’impiego di tutto il materiale disponibile. All’alba, all’ordine di prendere le armi e di insorgere, la popolazione operaia scese per le strade, impetuosa come le acque di un fiume che straripi, con picconi, badili, spranghe ed ogni sorta di arnesi, per dar mano agli “Arditi del Popolo” a divellere pietre, selciato, rotaie del tramway, scavare fossati, erigere barricate con carri, banchi, travi, lastre di ferro e tutto quanto era a portata di mano. Uomini, donne, vecchi, giovani di tutti i partiti e senza partito furono là, compatti, fusi in una sola volontà di ferro: resistere e combattere.

La cosiddetta “Parma vecchia” corrispondeva alla zona che era divisa dal torrente Parma da quella erroneamente detta “nuova” (in realtà più antica ma, ospitando i luoghi del potere e le residenze della borghesia e della residua aristocrazia, d’aspetto più moderno di quella dove si erano soprattutto ammassati ceti popolari spesso di nuova immigrazione dalle zone circostanti). Come sottolinea Fiorenzo Sicuri:

I quartieri popolari della città non erano nuovi alle barricate e alle sommosse. Nel 1859 l’Oltretorrente aveva eretto le barricate per contrastare le truppe asburgiche in fuga, a seguito del crollo del ducato di Parma. Nel 1869, per i moti del macinato, nel quartiere Naviglio, ne furono di nuovo costruite, alcune con mobili di chiese dismesse. Sommosse urbane si ebbero nella crisi politica di fine ‘800: nel 1891 per protesta contro il rincaro del pane, nel 1896 per le sconfitte militari di Macallé e di Adua, nella guerra d’Africa, e di nuovo per il rincaro del pane nel 1898, con qualche barricata nell’Oltretorrente. In età giolittiana vi furono proteste e sommovimenti nel 1908 per lo sciopero agrario, con momentanei barricamenti, e nel 1911 per la guerra di Libia; e le barricate ricomparvero nel 1914, durante la “settimana rossa”.

Ma Gambetta evidenzia anche le differenze:

Queste barricate infatti erano diverse da quelle del passato, anche da quelle del 1908 o dei moti del pane di fine del secolo. Sì, c’erano ancora sbarramenti costruiti con mobilio, carri, panche di scuole e pure di chiesa, ma erano nei punti meno nevralgici. Le difese che sfidavano le pallottole e le urla avversarie erano costruite con le tecniche imparate al fronte: le lastre dei marciapiedi per parapetto davanti al fossato, su tre, quattro o più ordini, con i passaggi sovrapposti. Erano trincee vere e proprie: il segno della cicatrice inguaribile che la Grande guerra europea aveva lasciato al popolo dei borghi, ma anche una lezione da utilizzare nella lotta al nemico interno.

Oltretorrente e Naviglio si riempiono di barricate e trincee


È ancora Picelli a descriverci in dettaglio, ad una decina d’anni di distanza, come fu organizzata la difesa dell’Oltretorrente e del rione Naviglio:

In poche ore, i rioni popolari della città presentarono l’aspetto di un campo trincerato. La zona occupata dagli insorti fu divisa in quattro settori: Nino Bixio e Massimo d’Azeglio nell’Oltretorrente; Naviglio e Aurelio Saffi in Parma Nuova. Ad ogni settore corrispose un numero di squadre in proporzione alla sua estensione: ventidue nei settori dell’Oltretorrente, sei nel rione Naviglio, quattro nel rione Saffi. Ogni squadra era composta di otto-dieci uomini, e l’armamento costituito da fucili modello 1891, moschetti, pistole d’ordinanza, rivoltelle automatiche, bombe S.I.P.E. Soltanto una metà degli uomini poterono essere armati di un fucile o di moschetto. Tutte le imboccature delle piazze, delle strade, dei vicoli, vennero sbarrate da costruzioni difensive. Nei punti ritenuti tatticamente più importanti, i trinceramenti furono rafforzati da vari ordini di reticolato e il sottosuolo venne minato. I campanili, trasformati in osservatori numerati. Per tutta la zona fortificata i poteri passarono nelle mani del comando degli “Arditi del Popolo”, costituito da un ristretto numero di operai, in precedenza eletto dalle squadre, fra i quali fu ripartita la direzione delle branche di servizio: difesa e ordinamento interno, approvvigionamenti, sanità. Bottegai e classi medie simpatizzarono con gli insorti e misero a loro disposizione materiale vario e viveri.

Sin dal secondo giorno la direzione della mobilitazione popolare era di fatto passata dall’Alleanza del lavoro al Direttorio degli Arditi del Popolo.
Il tre agosto, al mattino, i fascisti fecero un primo tentativo di penetrare nell’Oltretorrente, ma vennero fermati dai soldati di guardia. Provarono anche ad assaltare il Circolo dei ferrovieri ma furono bloccati dalle forze dell’ordine. Fu ancora la zona del Naviglio ad essere scenario di sparatorie e del contatto diretto tra gli squadristi e gli Arditi sostenuti dalla popolazione dei borghi.
Sulla situazione della zona abbiamo una testimonianza diretta di un giornalista de’ “Il Piccolo” il quale così scriveva:

Uomini e giovani ingombrano le vie di arroccamento discutendo sugli avvenimenti. Molti hanno addirittura l’elmetto in testa (…). Le squadre hanno graduati, che naturalmente sono ex ufficiali e caporali dell’esercito: in Borgo del Naviglio c’è un vero dedalo di trincee profonde, con le relative feritoie. E si continua a lavorare ed approfondirle, a migliorarle. Il Naviglio, Borgo della Trinità, via XX Settembre sono sbarrati dalle trincee. In Borgo Torto gli ordini di trincea sono quattro o cinque tutti profondi. Sul fianco delle trincee è lasciato un punto di passaggio. Un cartello però ammonisce che alle 18 si chiude, e si attendono gli eventi.

Un quadro non molto diverso è quello che viene fornito dallo stesso giornale sull’Oltretorrente:

Anche nell’Oltretorrente si è in grande stato di allarmi. I borghi sono affollatissimi di gente nervosa. Si ha l’impressione di una vigilia. Quando ieri sera si è sparsa la voce che l’autorità non aveva impedito l’entrata dei fascisti in città, si è dato mano alla costruzione di trincee. Nei borghi Carra, Corridoni, S. Giacomo, Poi, Bertani, ecc. sono state scavate e rizzate trincee. Nei pressi dei ponti vi sono le avanguardie che hanno il compito di dare l’allarme. Lo spettacolo è impressionante. (…) Nell’Oltretorrente, tuttavia, non è ancora capitato niente. Ma l’incubo di una minaccia grave è ovunque. Le donne sono nelle strade e s’affannano a chiamare i bimbi che scappano per ogni dove, e vanno di preferenza a giocare alla “guerra” nelle trincee.

Il 3 agosto restò gravemente ferito Giuseppe Mussini, un calzolaio di venticinque anni, degli Arditi del Popolo di strada XX Settembre, che morì il giorno dopo.

Con l’aggravarsi degli scontri iniziarono anche i primi tentativi di “pacificazione”, di cui non fu protagonista il sindaco, il liberale Amedeo Passerini, perché questi eletto da una coalizione di destra, aveva aperte simpatie per gli squadristi. Il compito fu assolto principalmente dal prefetto Federico Fusco, che propose alle associazioni combattentistiche un compromesso consistente nella cessazione dello sciopero, con la conseguente partenza dei fascisti. Nella notte un manifesto dell’alleanza sindacale era già pronto per annunciare l’intesa, quando il questore, Federico Signorile, informò che era impossibile allontanare le camicie nere che in realtà continuavano ad arrivare a migliaia.

Intanto, in Oltretorrente, si tenne un’assemblea per decidere come proseguire l’azione di difesa dei quartieri popolari. Con il tono enfatico che in generale contraddistingue il suo libro, ma che rende anche il clima concitato del momento, Mario De Micheli ne ha fatto questa descrizione:

Fu dunque il Direttorio (ndr degli Arditi del Popolo), insieme coi capisettore, che Picelli convocò d’urgenza la notte fra il 3 e il 4 agosto, alle ore 3 circa, nei locali della Lega proletaria invalidi, mutilati e vedove di guerra, in via Imbriani, presso la sede della Confederazione generale del lavoro.

Il suo proposito di fare di Parma una inespugnabile cittadella operaia si era ancor più rafforzato in seguito all’evidente filofascismo delle autorità, le quali, tra l’altro, avevano fatto ritirare dalle due caserme situate nell’Oltretorrente i carabinieri e le guardie regie, quasi a voler sottolineare che, per quanto era in loro, i fascisti avevano via libera.

Alla riunione c’erano una trentina di persone, tutte giovani. Picelli fece il punto della situazione. I volti erano tesi, contratti; nell’aria giungevano, attraverso le finestre aperte, gli echi delle fucilate. Le parole di Picelli furono, immediate, energiche, esprimevano una precisa volontà di lotta. Quand’egli accennò all’intimazione fascista di cessare lo sciopero, si levarono grida infuriate e fischi acutissimi. Poi, appena poté riprendere la parola per sostenere la tesi della resistenza a oltranza, entrò una delegazione degli Arditi del Popolo del rione Trinità, presso il Naviglio: i fascisti, rafforzati dalle squadre “forestiere”, attaccavano con violenza. Un applauso commosso salutò i compagni già provati dal fuoco avversario. “Noi”, continuarono i giovani della delegazione con voci rotte, “noi combattiamo da molte ore, abbiamo scavato trincee, ci difendiamo. Cosa intende fare il Direttorio degli Arditi del Popolo?”.
Questa volta il grido esplose da tutti i petti con veemenza tempestosa: “Resistere! Resistere!”. C’era forse bisogno di altre parole? Uscito dalle finestre delle due stanzette a pianterreno della Lega Proletaria, il grido fu ripreso dalla gente che, insonne, aspettava le decisioni del Direttorio nelle strade, passò di bocca in bocca, divenne la parola di quella notte d’ansia.
Tutti uscirono all’aperto e i capisettore si recarono subito ai posti di combattimento per dare inizio febbrilmente all’opera di fortificazione dei borghi.

Nella stessa notte, furono di nuovo assaltate e distrutte dai fascisti le sedi di due circoli dei ferrovieri, stavolta senza intervento a difesa da parte delle forze dell’ordine e di nuovo si ebbero sparatorie al Naviglio.
L’organizzazione dei difensori si andava intanto rafforzando sempre di più, come scriverà Picelli:

i servizi andarono man mano migliorando: requisizioni e distribuzione di viveri, posti di medicazione, cucine, vigilanza, informazione, rafforzamento delle costruzioni difensive. Grande fu la partecipazione delle donne, le quali accorsero ovunque a prestar l’opera loro preziosissima e ad incitare.

Per gli organizzatori della resistenza si poneva il problema non facile di mantenere i collegamenti fra le due zone popolari. Per questo veniva utilizzato il lancio di colombi viaggiatori mentre razzi luminosi segnalavano i movimenti del nemico. C’erano anche le numerose postazioni di vedetta.

Una successiva testimonianza di Antonio Cieri, pubblicata da “Il Grido del Popolo” del 28 marzo 1937, scritta in commemorazione di Picelli qualche mese dopo la sua morte, ci informa che in un’occasione lo stesso Picelli riuscì a passare la Parma e a recarsi nella zona del Naviglio. L’anarchico scriveva sul settimanale dei comunisti, edito dal Centro estero in Francia:

Lo rivedrò soprattutto come l’ho visto il quarto giorno dell’asprissima lotta sostenuta nei borghi di “Parma Nuova” e mi domando ancora come fece per venirci a salutare dall’Oltre Torrente nelle trincee di Borgo del Naviglio.
Migliaia e migliaia di mercenari fascisti bivaccavano in città e, nel pomeriggio bruciante di sole, un atleta con il fucile a tracolla sbucò da un borghino e svelto svelto saltò il parapetto della trincea di via XX Settembre. Era Guido Picelli! Che entusiasmo! Diecine di mani rudi e nervose si tesero verso di lui: Viva Picelli! Viva “el noster Guido”! Viva gli “Arditi del Popolo”!

Mi propose a cittadino d’onore di Parma, giacché ero “el foraster”. Un buon bicchier di vino, qualche raccomandazione, dei forti abbracci ed eccolo ripartito verso i più gravi rischi, accompagnato dagli echi di Bandiera Rossa e dell’Internazionale. I borghi erano in festa e i fascisti, in quella notte, si accanirono con ferocia contro di noi e vari assalti in Viale Mentana e in via XX Settembre furono respinti.

La stessa vicenda è riportata anche da De Micheli, che così la ricostruisce, collocandola dopo la morte di Gino Gazzola:

Ma quella sera Picelli stesso raggiunse Borgo del Naviglio e ne La Verta, salito sopra un tavolo della osteria di Orestin, che dà proprio sulla piazzetta, parlò alla gente del quartiere del giovanissimo eroe Gino Gazzola. Gli uomini e le donne singhiozzavano. Picelli diceva parole che trovavano un’eco profonda nel cuore di quella schietta e coraggiosa gente. Egli disse che Gino era il “Gavroche di Parma”, la “Piccola vedetta lombarda” di Borgo del Naviglio. Il suo discorso fu breve, ma alla fine la volontà popolare di combattere i fascisti e cacciarli dalla città era moltiplicata. Gino Gazzola sarebbe stato vendicato.

Il “Gavroche” di Parma


Sulle vicende delle barricate, nel corso del tempo, sono sorte anche delle leggende. Esistono dubbi su questa improvvisata commemorazione del giovane Gazzola da parte di Picelli. Se ne fa portavoce Francesco Pelosi a commento del graphic novel da poco uscito.
L’accostamento alla figura letteraria di Gavroche (da “I Miserabili”) non sembra però così lontana dalla sensibilità di Picelli. De Micheli, il cui testo va certamente valutato con una certa prudenza critica ma che aveva effettivamente raccolto testimonianze di partecipanti alle giornate di Parma, ci informa su questa vittima che, essendo molto giovane, ha profondamente colpito i sentimenti dei settori popolari di Parma:

Gino Gazzola (…) era un ragazzo che non aveva ancora compiuto i quindici anni: alto, magro, biondo di capelli, con gli occhi chiari: un ragazzo generoso e intelligente, che amava leggere libri e giornali benché avesse fatto appena tre anni di elementari. Gli altri ragazzi stavano volentieri con lui e i “grandi” non sdegnavano la sua compagnia perché ragionava già come loro, anche se continuava a portare i pantaloni corti.
Gino non aveva conosciuto una vera infanzia. Il padre era un galantuomo, ma spesso si lasciava prendere dal vino e allora toccava a Gino, primo di quattro fratelli, tenergli testa. Questa situazione aveva così incominciato assai presto a far sentire sulle sue magre spalle il peso di una responsabilità familiare.
D’estate il padre faceva il gelataio: possedeva tre carretti che i figli, meno l’ultimo ch’era troppo piccolo, spingevano un po’ ovunque per i borghi di Parma, vendendo sorbetti soprattutto ai bambini. D’inverno invece chiuso il “commercio” dei gelati, il padre si trasformava in venditore di pere cotte e in questa stagione era lui che girava per la città con la piccola caldaia di rame sostenuta sul davanti dalla cinghia passata intorno al collo.

Arriva Italo Balbo e scende alla “Croce Bianca”


Il quattro agosto oltre a continuare l’afflusso di squadre di fascisti, arrivò anche in prima mattinata Italo Balbo, Ras di Ferrara, al quale la direzione del Partito Nazionale Fascista, aveva affidato il comando delle squadre fasciste. E con questo anche il compito di sbrogliare una situazione che si stava facendo sempre più complicata.
Nei primi giorni a coordinare l’azione degli squadristi erano stati il fiduciario Giovanni Botti e il deputato toscano Michele Terzaghi che era arrivato da Roma il 2 agosto. Come sintetizza Gambetta: “L’esercito nero infatti si muoveva in modo frenetico ma scomposto, come in una gara per cogliere frettolosamente qualche riconoscimento evitando le difficoltà della battaglia.”
Balbo, come racconta De Micheli, “scese all’albergo Croce Bianca e convocò subito i dirigenti locali del fascio per avere un rapporto su quanto stava accadendo. L’albergò diventò per tre giorni la sede del quartier generale delle bande nere. Nella giornata arrivarono anche Moschini, Buttafuochi, Farinacci, Ranieri, Bigliardi, Arrivabene e altri consoli o comandanti di coorte di non minore importanza”.
Gli squadristi ammontavano ormai a diverse migliaia. I giornali dell’epoca e lo stesso Balbo li calcolavano in 10.000. Picelli darà nel tempo cifre diverse. Li valutava in 20.000 nell’articolo del 1934, ma in 7.000 in uno scontro polemico avuto in Parlamento con i deputati fascisti e in 12-15.000 in un testo di commemorazione scritto per “Falce e Martello”, il settimanale in lingua italiana dei comunisti svizzeri. In ogni caso si trattava di una vera e propria truppa di occupazione della città.
Balbo era certamente consapevole della posta in gioco nello scontro di Parma, perché come scriverà poi nel suo diario, per la prima volta, il fascismo “si trovava di fronte ad un nemico agguerrito e organizzato, armato ed equipaggiato e deciso a resistere ad oltranza”.
Non potendo sfondare in Oltretorrente i fascisti assaltarono e distrussero la sede de “Il Piccolo”. Verso le dieci della mattina iniziò il conflitto più cruento delle cinque giornate ed ebbe ancora una volta come sfondo la zona del Naviglio. Si prolungò per diverse ore. Si registrò uno scontro anche in Oltretorrente, e gli Arditi riuscirono ancora a respingere l’assalto dei fascisti.

Il Prefetto mandava rapporti sempre più allarmati:

In tutta la giornata è continuato in vari punti della città scambio di colpi d’arma da fuoco con maggiore intensità da parte dei fascisti. Si lamentano sinora sei morti popolazione civile e vari feriti. Contegno fascisti che stanotte hanno sparato qualche colpo contro agenti questura si fa sempre più minaccioso. Circolazione è diventata pericolosa per individui estranei lotta politica.

Fra i caduti vi furono, oltre a Gino Gazzola, Carluccio Mora, che era di vedetta nella zona del Naviglio, il consigliere comunale popolare Corazza, che si stava appostando alla difesa del ponte Caprazucca, dalla parte dell’Oltretorrente. Caddero anche due passanti, Mario Tomba e Attilio Zilioli. Quest’ultimo mentre cercava di soccorrere un ferito sul ponte Umberto (ora Ponte Italia).
Dal racconto di Picelli emerge come la determinazione alla resistenza si facesse sempre più forte e anche i mezzi di difesa si facevano via via più estremi:

Nessun aiuto fu possibile avere all’ultimo momento dalla campagna, perché nelle località temute, i fascisti inviarono piccoli distaccamenti impedendo il collegamento con la città. Venne però disposta la grande difesa, fatta con ogni mezzo e che avrebbe dovuto impegnare il nemico sino all’ultimo uomo, in tutte le forme possibili di combattimento. (…) Il morale della massa si dimostrò elevatissimo; sembrò quasi che l’annuncio dell’azione imminente delle camicie nere avesse contribuito ad aumentare ancora di più il coraggio e l’entusiasmo. (…) Nelle case si attese alla fabbricazione di ordigni esplodenti, di pugnali fatti con lime, pezzi di ferro, coltelli e alla preparazione di acidi. (…) Alle donne vennero distribuiti recipienti pieni di petrolio e di benzina, poiché in base al piano difensivo, nel caso in cui i fascisti fossero riusciti ad entrare in Oltretorrente, il combattimento si sarebbe svolto strada per strada, vicolo per vicolo, casa per casa, senza risparmio di sangue, con lancio di liquidi infiammabili, contro le camicie nere e sino all’incendio e alla distruzione completa delle posizioni.

In seguito a colloqui svoltisi al mattino tra Balbo e il prefetto, si stabilì un patto tra fascisti e autorità pubbliche. Se i militari avessero occupato i borghi del Naviglio entro le ore quattordici, i fascisti avrebbero abbandonato la città: altrimenti si sarebbero impegnati in prima persona a “ristabilire l’ordine” con la violenza.
Ci furono intense trattative tra gli Arditi e l’esercito. Da parte del ‘Corpo di guardia del nucleo di Borgo del Naviglio’, a firma di Picelli venne consegnato al colonnello Roberto Simondetti, comandante delle truppe, il foglio di resa. L’esercito poté occupare il quartiere smantellando le opere di difesa. La “Gazzetta di Parma” scrisse che “Le truppe furono accolte dai sovversivi con applausi e da grida: ‘Evviva i nostri fratelli soldati! Evviva il comunismo!’”, mentre l’Alleanza del Lavoro “faceva affiggere un proclama inneggiante alla propria vittoria, non essendo i fascisti entrati nella Trinità”. I fascisti si sentirono così beffati per l’atteggiamento degli avversari, e cercarono di sfogare la propria rabbia assaltando la trincea di borgo Valorio e, dopo un violento combattimento, riuscirono a demolirla. Con l’ingresso dell’esercito il Naviglio usciva di scena, ma restava in campo l’Oltretorrente.
Si intensificarono i tentativi di pacificazione. Il presidente della Deputazione Provinciale, il popolare Tullio Maestri, assieme col socialista riformista Faraboli si recò in Oltretorrente per avviare dei veri e propri colloqui di pace. Una iniziativa che fu aspramente criticata dai fascisti e gli attirò i sarcasmi della “Gazzetta di Parma” per avere creduto, secondo il quotidiano filofascista, alle promesse di disarmo annunciate da Picelli.
Più tardi si scatenò una furiosa fucileria dall’Oltretorrente verso i fascisti, attestati sul Lungo Parma, mentre colpi isolati e scariche risuonavano in numerosi punti della città, anche in centro. Secondo la “Gazzetta di Parma”:

Nelle prime ore della sera, l’aspetto della città era fantastico. Nuove forze fasciste giungevano da ogni dove. Imponente la colonna di oltre mille fascisti giunti da Reggio Emilia in una lunga teoria di camion e completamente equipaggiati. Poco prima del suo arrivo la Piazza Garibaldi e adiacenze erano state teatro di spari e inseguimenti di individui in camicia nera, mescolantesi fra i fascisti e sparando loro addosso, lanciando anche alcune bombe.

Nella notte fra il quattro e il cinque agosto, i ripetuti tentativi d’assalto dei fascisti in Oltretorrente furono respinti, ma sparatorie avvenivano in numerosi punti della città, perché erano gli stessi Arditi ad attaccare gli accampamenti fascisti, con operazioni di “commando”.

Anche Balbo ci prova ma viene respinto


Nella giornata del cinque agosto, quella finale, Balbo in persona tentò in mattinata un assalto all’Oltretorrente. Alla guida di un centinaio di squadristi provò a penetrare in Oltretorrente attraverso il ponte Verdi, grazie anche alla complicità di alcuni ufficiali del Novara Cavalleria. Tra borgo Tanzi e strada Farnese, intervennero gli Arditi e i corridoniani (che avevano la loro Camera del lavoro poco distante) e respinsero l’attacco a fucilate. A quel punto si interposero i soldati e il gruppo di Balbo dovette fare marcia indietro.
Nella giornata i fascisti devastarono gli studi professionali di Guido Albertelli, degli avvocati Emilio Baracchini, Ugo Grassi e Renzo Provinciali, del ragionier Augusto Argenziano, lo studio e la casa dell’avvocato Gustavo Ghidini; l’abitazione di Tullio Masotti direttore de “Il Piccolo” e del consigliere comunale socialista Vico Ghisolfi, così come furono devastate la sede delle associazioni cattoliche sindacali e cooperative, nonché del Partito Popolare. Tentativi di devastazione furono compiuti, inoltre, nei confronti degli studi degli avvocati Aurelio Candian, Ildebrando Cocconi e Francesco Pangrazi. Quando gli squadristi arrivarono nella zona di strada XXII luglio per assaltare e devastare la sede de “Il Piccolo”, i soldati che la piantonavano si allontanarono.
Il comportamento degli squadristi cominciò a sollevare le proteste anche di quella “Parma nuova” che pure aveva accolto con un certo favore l’arrivo dei fascisti pensando che la loro violenza si scatenasse solo contro i quartieri dei sovversivi.
Secondo quanto scrive De Micheli:

L’indignazione dei cittadini di Parma nuova fu tale che Balbo si vide costretto a far affiggere un manifesto in cui deplorava il “gruppo di sconsigliati” che aveva commesso quelle poco belliche imprese. In realtà tutto ciò rientrava nella normale attività delle squadracce.

Probabilmente i più accaniti nell’effettuare queste devastazioni furono i gruppi di squadristi legati al cremonese Roberto Farinacci, nonché ai parmensi Paolo Giudici e Alcide Aimi, che rappresentavano la fazione del fascismo maggiormente legata agli agrari e che – rileva Gambetta – “mal tollerava le manovre di corteggiamento verso i corridoniani”.
Nelle prime ore del pomeriggio, il vescovo di Parma, Guido Conforti, si recò al comando fascista offrendo la sua mediazione per la cessazione dei conflitti e fu diffuso un appello del prelato alla cittadinanza per il ripristino della pace.
Intanto, il governo Facta, esaminata la situazione che si era creata in diverse città dove vi era un forte concentramento di forze fasciste, decise di proclamare lo stato d’assedio in alcune province, fra cui Parma, dalla mezzanotte. Di conseguenza i poteri passarono all’autorità militare. Il telegramma del governo che annunciava alle prefetture la decisione assunta partì alle 16:40 del 5 agosto.
Di fronte al passaggio dei poteri, per non scontrarsi con l’esercito, i fascisti cominciarono a lasciare la città. Balbo aveva comunicato, dopo il fallimento del suo tentativo di entrare in Oltretorrente attraverso strada Farnese, di essere disponibile alla smobilitazione. I responsabili militari si espressero con molta decisione: il colonnello Simondetti dichiarò che “avrebbe difeso la vita e gli averi dei cittadini tutti, senza distinzione di parte, sino all’ultimo suo uomo”; il generale Enrico Lodomez, che con la dichiarazione dello stato d’assedio aveva assunto i poteri che erano spettati al prefetto Fusco, in un colloquio con il Ras fascista aveva chiarito la posizione dell’esercito.

I fascisti lasciano la città


Per svicolare da una situazione senza via d’uscita, trovandosi nell’impossibilità di battere con la forza le difese popolari nell’Oltretorrente e dovendo evitare di entrare in conflitto con le truppe che, nel frattempo avevano ricevuto altri rinforzi (alpini del Cadore e i reparti del 66° e 26° fanteria), Balbo cercò quanto meno di salvare la faccia. Nello stesso pomeriggio, radunò gli squadristi ancora presenti in città di fronte al Palazzo della Prefettura e li arringò cercando di convincerli della “vittoria” ottenuta. Questa era giustificata col fatto che “il governo aderisce finalmente alla nostra richiesta esautorando l’indegna autorità politica complice e responsabile dell’attuale situazione”.
In realtà era evidente che i fascisti avevano subito una clamorosa sconfitta. Per rifarsi si vendicarono assaltando e devastando cooperative e associazioni proletarie in diversi centri della provincia e in particolare distrussero l’articolata e capillare organizzazione del socialismo riformista e del cooperativismo municipale che ruotava attorno a Roccabianca. Inoltre imposero con la forza le dimissioni di numerose amministrazioni comunali.
Allontanati i fascisti dalla città, fu l’esercito a riportare “l’ordine” nei quartieri ribelli. Come scriveva la “Gazzetta di Parma”:

un reggimento di fanteria è penetrato nelle strade dell’Oltretorrente ed affrontando la resistenza degli abitanti, ha preso a demolire i reticolati e le trincee di B(orgo) Carra. Gli ordini erano precisi e le opposizioni non hanno valso a nulla. L’on. Picelli, che tutto ieri ha girato per le trincee, ha dovuto cedere contro la fermezza del Colonnello che comandava le truppe.

Nel racconto di Picelli, questa è la conclusione della rivolta:

Il Comando della difesa operaia esaminò immediatamente la nuova situazione, creatasi in seguito all’intervento dell’autorità militare, e constatò la impossibilità materiale di impedire alle forze dell’esercito, costituite localmente da due reggimenti di fanteria, con sezioni di mitragliatrici e carriarmati, di un reggimento di cavalleria e di numerosa artiglieria, di tenere l’Oltretorrente e i settori Naviglio e Aurelio Saffi. Alle ore tre e dieci minuti il colonnello Simondetti, dopo aver fatto sparare un colpo a polvere con uno dei due pezzi di artiglieria piazzati sul ponte di Mezzo, avanzò seguito da autoblindate, da mitragliatrici e dalla truppa, e procedette all’occupazione di tutti i quartieri operai, ordinando ai soldati lo sgombero delle strade.

Sulle ragioni che hanno consentito all’Oltretorrente di non cedere all’aggressione delle squadre fasciste così sintetizza Fiorenzo Sicuri:

Il bilancio delle cinque giornate mostra che i dedali di strade e la conformazione urbanistica degli spazi, l’organizzazione armata all’interno dei quartieri e i piani militari predisposti, le catene di solidarietà e la compattezza della popolazione, la presenza di ex combattenti, tecnicamente attrezzati allo scontro armato, la capacità di costruire barricate che era storico patrimonio dei quartieri popolari parmensi, a cui si aggiungeva la recente abilità nello scavare trincee e nel posare reticolati di filo spinato, e, infine, una leadership militarmente dotata di una certa perizia ebbero successo nel respingere i tentativi di conquista.

A questi elementi si deve aggiungere anche l’atteggiamento di relativa neutralità tenuto dalle forze militari. Sottolinea questo aspetto lo storico militare, Marco Mondini, secondo il quale il conflitto avutosi a Parma:

Non fu certo un esempio di ripristino dell’autorità, giacché (…) lo scontro armato tra fascisti e difensori parmigiani andò avanti per tre giorni senza che l’esercito (che ne avrebbe avuto tutti i poteri e le facoltà) intervenisse. Di fatto la piccola guerra civile in corso nel quartiere vecchio di Parma fu isolata da una sorta di “cordone sanitario” steso dai distaccamenti di due reggimenti di fanteria e uno di cavalleria, rinforzati con reparti provenienti da tutti i corpi d’armata vicini, per un totale forse di 2000 uomini. La neutralità armata mantenuta a Parma dall’esercito non era dovuta ad un particolare (e abbastanza inverosimile) senso di “affratellamento” tra soldati e proletari (…) quanto piuttosto, all’opera efficace del prefetto Fusco e alla sua capacità di far eseguire dal comando locale una politica di “non intervento” anche dopo il passaggio dei poteri.

In tale contesto e in tali condizioni la battaglia dei quartieri popolari fu “l’unica effettiva sconfitta della grande offensiva fascista dell’estate”.
La partecipazione alla difesa dei quartieri popolari dalle bande fasciste ebbe una partecipazione realmente trasversale, anche sul piano delle appartenenze sociali. Il giornale cattolico “Vita Nuova”, scriveva: “Nei due quartieri tutti, letteralmente tutti, di qualunque classe, partito o tendenza, si sono trovati d’accordo dietro le trincee e le barricate”. Non diversa la valutazione de “L’Internazionale”: “i sindacalisti corridoniani, gli arditi del popolo, i confederali, i popolari, scendevano dalle case si disponevano in squadre delle quali assumevano il comando i più audaci, scelti fra gli ex sottufficiali e ufficiali dell’Esercito”. Un altro giornale locale, “L’Idea”, rilevava: “Abbiamo visto, accanto allo scamiciato e talvolta scalzo abitante dei borghi, l’impiegato e il professionista, elegante ancora, con l’immancabile colletto, spilla d’oro e moschetto sottobraccio”.
Quante furono le vittime delle cinque giornate? Dalla parte degli Arditi e dei difensori, Picelli parla di cinque morti e qualche ferito, mentre tra i fascisti conteggiava, nell’articolo pubblicato nel 1934, ben 39 morti e centocinquanta feriti. Si tratta di una valutazione che non ha trovato conferma in sede di ricerca storica. Le uniche vittime certe di parte squadrista sono i due fascisti, deceduti negli scontri, contemporanei alle giornate di Parma, avvenuti nel vicino comune di Sala Baganza. Vi furono certamente dei feriti ma non nelle dimensioni indicate da Picelli. In ogni caso le squadre fasciste, abituate a rapporti di forza totalmente squilibrati a loro favore e a non registrare alcuna resistenza armata nelle loro scorribande, non avevano alcun desiderio di impegnarsi in una vera battaglia da condurre casa per casa in borghi in cui la popolazione era completamente ostile.
Lo stato d’assedio terminò il 16 agosto e due giorni dopo venne siglato un patto di pacificazione da parte di tutte le cariche istituzionali e dai rappresentanti dei combattenti oltre che da diversi partiti, tra i quali il Pnf e il Partito Popolare. Anche le Camere del lavoro corridoniana (guidata dal fratello di Alceste De Ambris, Amilcare e dal fratello di Guido Picelli, Vittorio) apposero le loro firme. Si rifiutarono invece ad ogni idea di “pacificazione” col nemico fascista le forze che erano state effettivamente protagoniste della resistenza come gli Arditi del Popolo, i comunisti, i sindacalisti dell’Usi e gli anarchici. Anche una parte del fascismo locale si oppose al “patto”.
Ipotesi di un nuovo assalto alla città che non si era piegata alla violenza squadrista e che Balbo definiva “isola di bolscevismo armato e delinquente”, vennero avanzate per essere poi accantonate a seguito della “marcia su Roma” e della chiamata di Mussolini a guidare il governo.
Come commenta Gambetta:

Dopo, una volta al potere, la vendetta contro i quartieri delle barricate fu affidata agli strumenti tradizionali della repressione poliziesca e della costruzione del consenso. Fu poi il “piccone risanatore” ad abbattere materialmente le strade e le case di quell’insurrezione e a smembrare il corpo sociale di quella comunità ribelle.

Il bilancio politico e militare delle giornate di Parma


Da parte sua Picelli trarrà dalle cinque giornate di Parma una serie di insegnamenti di carattere militare che consegnerà all’articolo pubblicato su “Lo Stato Operaio”:

Prima. Di quale importanza sia il problema politico-militare e la teoria della guerra civile, sino a ieri trascurata, se non ignorata completamente; ma che oggi si impone al nostro studio come una necessità assoluta.
Seconda. Nei riguardi degli effetti ottenuti dall’azione armata, la storia del movimento operaio italiano registra con la rivolta di Parma un enorme successo, una battaglia di strada vinta in condizioni di inferiorità numerica e di armamento, di grande sproporzione di forze.
Terza. Se gli “Arditi del Popolo” riuscirono a trascinare tutta la massa operaia nella resistenza armata, insufficiente fu però il lavoro di preparazione fra i soldati che, data la loro disposizione morale e la particolare situazione, non sarebbe stato difficile attirare alla solidarietà attiva col proletariato; come pure insufficiente e cattiva l’organizzazione del collegamento con la provincia che venne a mancare proprio nei momenti più difficili della lotta, mentre un movimento coordinato di contadini avrebbe permesso di passare immediatamente all’offensiva.

A queste considerazioni di carattere militare, Picelli faceva seguire anche delle valutazioni più decisamente politiche:

Quarta – Lo smascheramento completo dei socialdemocratici e dei capi locali delle organizzazioni operaie, che attraverso il linguaggio demagogico, nascondevano gli scopi reali della loro azione di asservimento alla borghesia. Mentre parlavano ipocritamente di difesa degli interessi delle masse e di antifascismo, praticamente tradivano questi interessi, intralciando ed ostacolando la formazione spontanea del fronte unico dal basso, facendo in tal modo il giuoco dei fascisti. La ragione del successo, oltre che alla nostra preparazione tecnica, sta soprattutto nel fatto che il proletariato parmense, riuscì a liberarsi e a mettere in disparte i suoi falsi capi, i nemici interni alla classe operaia, ed opporre finalmente al fascismo l’unione compatta delle proprie forze.
Quinta. L’errore di incomprensione politica, commesso anche dal nostro Partito, allora ammalato di sinistrismo, nei riguardi degli Arditi del popolo opponendosi alla partecipazione individuale nelle squadre dei suoi militanti. In quel momento le masse erano con gli Arditi del Popolo o simpatizzavano per essi. Il bordighismo, manifestazione tipica della mentalità piccolo-borghese, aveva condotto il Partito sul terreno opportunistico dell’assenteismo e fuori della realtà. Con la partecipazione individuale dei comunisti alle squadre degli Arditi del Popolo, il Partito, con un’azione propria avrebbe influito su tutta l’organizzazione conquistandone la direzione e i comandi. Con un serio lavoro di preparazione e di penetrazione nei sindacati riformisti e nell’esercito, avrebbe potuto incanalare il movimento verso obbiettivi precisi, trascinare con gli Arditi del popolo tutto il resto della massa all’insurrezione armata, arrestare la marcia della reazione in Italia, facendo deviare il corso degli avvenimenti.

Il testo di Picelli viene scritto nel 1932 quando la linea politica del Comintern, adottata dopo qualche incertezza e perplessità anche dalla direzione comunista italiana, è caratterizzata da un tono fortemente polemico verso le altre correnti della sinistra, in primis la socialdemocrazia. Viene pubblicato due anni dopo quando la denuncia del “socialfascismo” comincia ad attenuarsi, ma ancora non si è dato avvio alla politica dei “fronti popolari” che verrà sancita dal VII Congresso del Comintern nell’estate del 1935.
Aspra è anche la polemica verso la direzione bordighista a cui è attribuita la responsabilità, nel 1921-22, di aver respinto la possibilità di un avvicinamento agli Arditi del Popolo.

Riferimenti bibliografici

Questa ricostruzione delle giornate di Parma è largamente tributaria del lavoro di Fiorenzo Sicuri “Il guerriero della rivoluzione” (2010, Uni.Nova, Parma) in particolare delle pagine 174-183 e del saggio di William Gambetta “Le pietre presero un’anima. Le barricate del 1922”, in “Le due città. Parma dal dopoguerra al fascismo (1919-1926), a cura di Roberto Montali, 2008, Silva, Parma, pagine 73-89. Dal libro di Sicuri sono riprese le citazioni dalla stampa dell’epoca e dello storico Marco Mondini. Le citazioni dell’articolo di Picelli, “La rivolta di Parma”, pubblicato su “Lo Stato Operaio” nell’ottobre del 1934 sono riprese dal volume di scritti e discorsi “La mia divisa “, curato da William Gambetta (2021, BFS, Ghezzano). I richiami a “Barricate a Parma” di Mario De Micheli, fanno riferimento alla seconda edizione riveduta del 1972, pubblicata da La Libreria Feltrinelli di Parma (con prefazione di Giorgio Amendola). Le citazioni di Marco Rossi sono tratte da “Arditi, non gendarmi! Dalle trincee alle barricate: arditismo di guerra e arditi del popolo (1917-1922)” (2011, BFS, Ghezzano), che dedica un capitolo a “L’insegnamento di Parma”. La citazione di Bruno Fortichiari è tratta da “Comunismo e revisionismo in Italia. Testimonianza di un militante rivoluzionario” (2006, Mimesis, Milano). Il graphic novel è di Francesco Pelosi e Rise, “Guido Picelli. Un antifascista sulle barricate” (2022, Round Robin, Roma).

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