La Danimarca va alla guerra: su le spese militari e leva femminile obbligatoria
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 21 marzo 2024 – La corsa verso uno scontro militare diretto dell’occidente con la Russia (e con la Cina) è ormai avviata. Leader politici e comandanti militari europei lo evocano sempre più spesso e sempre più esplicitamente.
Se vogliamo la pace dobbiamo essere pronti alla guerra
L’ultimo, in ordine di tempo, è stato martedì il presidente del consiglio europeo, Charles Michel, che citando la necessità di contrastare la minaccia russa ha affermato: «se vogliamo la pace dobbiamo essere pronti a fare la guerra».
«A due anni dall’inizio della guerra è chiaro che la Russia non si fermerà in Ucraina (…)» ha scritto Michel in un intervento pubblicato da vari media europei, ribadendo che «Mosca rappresenta una seria minaccia militare per il nostro continente europeo e per la sicurezza globale». «Se la risposta dell’Ue non sarà adeguata (…) saremo i prossimi. Non possiamo più contare sugli altri o essere in balia dei cicli elettorali negli Stati Uniti. Dobbiamo rafforzare la nostra capacità, sia per l’Ucraina che per l’Europa, di difendere il mondo democratico», scrive il presidente del Consiglio europeo. Per questo, secondo Michel, che si accoda agli appelli di Ursula von der Leyen, «Dobbiamo essere pronti a difenderci e passare a una modalità di “economia di guerra”. È giunto il momento di assumerci la responsabilità della nostra propria sicurezza».
A parlare, ancor prima delle dichiarazioni dei premier e dei generali, sono soprattutto i fatti, con i vari paesi del continente che stanno vertiginosamente aumentando la spesa militare in ossequio alle richieste sempre più pressanti da parte della Nato e a presunte esigenze di deterrenza.
A pesare è, come ricorda l’appello di Michel, anche la preoccupazione che una vittoria di Donald Trump alle prossime presidenziali spinga gli Stati Uniti a disinvestire dall’Alleanza Atlantica e dalla difesa degli alleati europei.
La Danimarca va alla guerra
Tra i paesi maggiormente mobilitati c’è indubbiamente la Danimarca, che nei giorni scorsi ha presentato un ambizioso piano diretto a “modernizzare” le proprie forze armate aumentando ovviamente anche lo stanziamento per la Difesa.
Tra il 2024 e il 2028, al suo previsto budget militare, il governo danese aggiungerà altri 5,5 miliardi di euro, portando la spesa complessiva per la Difesa al 2,4% del Prodotto Interno Lordo del paese, uno dei livelli più alti di tutta l’Europa, mentre da decenni non dedicava al comparto più dell’1% della ricchezza nazionale. «Ci riarmiamo non per fare la guerra ma per evitarla» ha spiegato la premier danese, la socialdemocratica Mette Frederiksen, nel corso di una conferenza stampa realizzata il 13 marzo.
Già un anno fa, per trovare risorse finanziarie aggiuntive da dedicare al riarmo, il governo danese aveva già deciso di abolire una importante festività religiosa, “Il grande giorno della preghiera”, scatenando le proteste dei sindacati.
Alla fine di febbraio Mette Frederiksen ha visitato l’Ucraina e firmato con Zelensky un accordo di sicurezza della durata di dieci anni che contempla l’invio a Kiev di armi, munizioni ed equipaggiamenti per un valore di quasi 2 miliardi di euro solo nel 2024. Nei prossimi 4 anni, invece, Copenaghen si è impegnata a fornire all’Ucraina altri 8,5 miliardi di aiuti militari e civili. Nel corso dell’estate, inoltre, alcuni caccia F-16danesi saranno consegnati all’aeronautica di Kiev.
La premier danese Mette Frederiksen
Naja obbligatoria anche per le donne
Il governo di Copenaghen intende ora far approvare anche una legge che, a partire dal 2026, renderà obbligatorio il servizio militare anche per le donne e aumenterà il periodo durante il quale si svolge l’addestramento all’uso delle armi.
Attualmente, le giovani donne del piccolo paese nordico possono arruolarsi volontariamente nelle forze armate ma non sono soggette al servizio militare obbligatorio valido invece per gli uomini, estratti a sorte per coprire i posti non occupati dai volontari.
«Proteggere il proprio paese è una delle cose più onorevoli che si possa fare. Per questo il governo propone di ampliare il servizio militare (…). Proponiamo la piena uguaglianza di genere nell’esercito» ha detto Mette Frederiksen. Per la leader danese, sostenuta da una maggioranza formata dai socialdemocratici, dai liberali (centrodestra) e dai Moderati (centro), «una maggiore uguaglianza di genere creerà una difesa più moderna e diversa che rifletta i tempi in cui viviamo». Più pragmaticamente, il Ministro della Difesa di Copenaghen Troels Lund Poulsen ha citato le nuove esigenze poste dal clima di guerra che si respira in Europa, che le decisioni del suo esecutivo contribuiscono indubbiamente ad alimentare.
Con la nuova riforma, dal 2026 la naja in Danimarca dovrebbe passare da quattro a undici mesi: i primi cinque sarebbero destinati ad una formazione militare di base e generica, mentre un secondo periodo dovrebbe essere dedicato all’addestramento specifico nelle forze di terra, nella Marina o nell’Aeronautica.
Lo scorso anno a prestare il servizio militare in Danimarca sono stati quasi 4700 giovani, di cui il 25% erano volontarie donne. Includendo le donne, il Ministero della Difesa danese intende arrivare ad almeno 5000 i richiamati ogni anno, da aggiungere ai 9000 militari professionisti. Il governo intende così rimediare alla cronica scarsità di effettivi da mobilitare in caso di bisogno: finora, ogni anno, almeno un quarto dei posti disponibili nell’esercito professionale rimane infatti scoperto.
Secondo l’Associazione Centrale del personale delle forze armate(CS), il sindacato che rappresenta i militari danesi, il piano del governo non è realistico e l’infrastruttura militare del paese non sarebbe pronta ad una estensione del numero di richiamati.
Servono più militari
La Danimarca sarà comunque il terzo paese europeo che, per ampliare il numero di coscritti, decide di rendere il servizio militare obbligatorio anche per le donne. I due stati che lo hanno già fatto sono entrambi paesi scandinavi: la Norvegia ha fatto da apripista nel 2015 mentre la Svezia ha deciso il passo nel 2017, ripristinando la leva obbligatoria per entrambi i sessi.
Altri paesi, nel continente, stanno comunque progettando di ripristinare la leva militare obbligatoria almeno per gli uomini dopo averla abolita negli anni o nei decenni scorsi.
Ad esempio il governo tedesco sta valutando la reintroduzione di una leva semi obbligatoria, ispirata al modello svedese. Il ministro della Difesa di Berlino, Boris Pistorius, dovrebbe presentare a giorni una proposta di legge in questo senso, rivedendo parzialmente l’abolizione del servizio militare obbligatorio decisa nel 2011.
La Francia, invece, sta decidendo di innalzare il limite d’età per richiamare in caso di necessità i riservisti dell’esercito, che finora è fissata tra i 62 e i 65 anni e potrebbe essere portata sino ai 72 anni. Secondo il ministro della Difesa di Parigi, Sebastien Lecornu, l’esigenza è quella di poter contare su 300 mila soldati, di cui 100 mila riservisti. Finora invece i riservisti in Francia sono circa 77 mila. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, El Salto Diario e Berria
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In Cina e Asia – Hong Kong, approvata nuova legge sulla sicurezza nazionale
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La svolta del Giappone sulla politica monetaria
Tokyo abbandona l'approccio ultra-accomodante sui tassi di interesse, suo tratto fondamentale sin dai tempi dell'Abenomics. La banca centrale giapponese si era sin qui mossa in maniera opposta rispetto agli altri istituti mondiali. La svolta era attesa ed è stata anticipata da un aumento sopra le attese dei salari
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I venti della normalizzazione rimodellano l’immagine dell’Arabia Saudita
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di Safa Naser* – Carnegieendowment.org/sada
“Insegnate ai vostri figli che la Palestina è occupata e che non esiste uno Stato chiamato Israele.” Queste furono le parole del re Faisal bin Abdulaziz, che governò l’Arabia Saudita fino al 1975, e il cui regno è ancora considerato il più fermamente favorevole alla Palestina nella memoria popolare.
Coloro che hanno vissuto quell’epoca e i periodi successivi ricorderanno che i media statali sauditi si sono astenuti persino dal nominare Israele, usando invece termini come “il nemico sionista”, “l’esercito di occupazione” e “il ministro della guerra”. Durante i periodi di intenso conflitto nei territori palestinesi, i canali ufficiali sospendevano prontamente la programmazione regolare in osservanza di un “periodo di lutto” e dedicavano ampio tempo di trasmissione alla cronaca di eventi e al lancio di campagne di donazioni per i palestinesi.
È solo ricordando questa storia che si può cogliere il drastico cambiamento nella posizione dell’Arabia Saudita. Oggi, il festival di intrattenimento e sport Riyadh Season continua nel mezzo del conflitto in corso nella Striscia di Gaza, e scrittori e professionisti dei media sauditi adottano regolarmente la narrativa israeliana quando documentano la realtà della guerra.
Si è trattato di un cambiamento graduale avvenuto nel corso di molti anni, ma iniziato dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e le accuse di coinvolgimento saudita. L’Arabia Saudita si è affrettata ad assolversi dall’accusa di aver propagato una “cultura della morte” e dell’estremismo religioso adottando un discorso mediatico critico nei confronti della religione. La Palestina e le fazioni della “resistenza islamica”, già respinte dalla comunità internazionale e dall’asse arabo della “moderazione”, alla fine sono diventate il bersaglio di questo discorso. In più di un’occasione, quando Gaza è stata bombardata, la stampa saudita ha ridicolizzato della resistenza palestinese e si è allineata con Israele, giustificando i suoi attacchi come risposte alle provocazioni di Hamas.
Il canale Al-Arabiya, fondato nel 2003, ha rafforzato la nuova direzione dell’Arabia Saudita adottando un approccio mediatico che alcuni consideravano al servizio degli interessi dell’Occidente, aprendo la strada alla normalizzazione nella regione e promuovendo l’idea del diritto storico di Israele alla terra di Palestina.
L’erede al trono saudita Mohammed bin Salman
La trasformazione si estese anche all’establishment religioso ufficiale del Paese. Nel 2012, il Ministero degli Affari islamici ha incaricato gli imam della Grande Moschea della Mecca di astenersi da qualsiasi supplica contro gli ebrei al termine dei sermoni del venerdì, sottolineando che “pregare per la distruzione di ebrei e cristiani non è conforme alla Sharia. ” Sono invece emersi sermoni che reinterpretavano Aqeedat Al-Walaa wal Baraa, la dottrina di Fedeltà e Rinnegamento, sottolineando che le credenze religiose sulla lealtà dei non musulmani non dovrebbero estendersi alle relazioni internazionali.
Alla fine del 2020, dopo che gli Accordi di Abraham hanno stabilito relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita ha rivisto i suoi programmi scolastici per eliminare i contenuti che rappresentavano gli ebrei in una luce negativa. Ora, la normalizzazione non è più un segreto né un sogno lontano: il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha dichiarato apertamente, durante una recente intervista con Fox News, che il suo paese si sta costantemente muovendo verso la normalizzazione delle sue relazioni con Israele.
Tuttavia, dato lo status di Israele come “nemico storico” dei sauditi, per preparare l’opinione pubblica ad accettare la normalizzazione è stato necessario reindirizzare questa ostilità verso un obiettivo diverso. Sui social media, gli account sauditi lanciano campagne quotidiane contro i palestinesi, con il pretesto di rispondere a tweet ritenuti offensivi nei confronti dell’Arabia Saudita. Frasi come “I palestinesi ci odiano” e “I palestinesi hanno venduto la loro terra” sono circolate ampiamente su siti web popolari, mentre hanno guadagnato terreno anche hashtag come “La Palestina non è la mia causa” e “Israele non è il mio nemico”. Ci sono state anche campagne che mirano a seminare dubbi sugli eventi storici, inclusa l’uccisione di Muhammad al-Durra nel 2000, e a minare il legame storico dei palestinesi con la terra in generale.
Molti sostengono che il discorso sui social media non riflette accuratamente la posizione popolare saudita, suggerendo che i sauditi si oppongono silenziosamente alla politica del loro governo. I risultati di un recente sondaggio d’opinione, che ha indicato che Israele rimane impopolare presso la maggioranza dei sauditi, sembrano sostenere questa idea. Una piccola percentuale della popolazione potrebbe accettare la normalizzazione, purché questa rimanga limitata alle sole relazioni economiche. Tuttavia, anche questa minoranza è diminuita durante il recente conflitto a Gaza, sebbene rimanga superiore ai livelli precedenti agli Accordi di Abramo. Forse, quindi, è solo questione di tempo prima che emerga una nuova Arabia Saudita, dove la Palestina non trova posto.
Tuttavia, a prescindere dal sostegno ufficiale dello Stato e dei media alla normalizzazione, è probabile che si trovi ad affrontare una resistenza duratura da parte della popolazione saudita, anche se oscurata dallo stretto controllo di sicurezza dello Stato. La causa palestinese è profondamente radicata nella coscienza collettiva saudita – esemplificata dal video di un bambino saudita in lacrime per la sofferenza di Gaza – e rimarrà tale nelle generazioni attuali e future di cittadini sauditi.
*Safa Naser è una giornalista e ricercatrice indipendente dello Yemen. Seguitela su X @SafaNaser
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I titoli di oggi: Elezioni in Russia, congratulazioni a Putin da Cina, India e Corea del Nord Usa commissionano a SpaceX centinaia di satelliti spia. Pla: “minacciata sicurezza globale” Evergrande: Hui Ka Yan accusato di frode per 80 miliardi di dollari In Cina e Corea del Sud aumentano i matrimoni per la prima volta in dieci anni Giappone: banca centrale ...
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In Cina e Asia – Corea del Sud: focus sull’IA al Vertice per la democrazia
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IA, la Cina "non è in grado di eguagliare gli Usa"
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ISRAELE. Come i notiziari televisivi si sono uniti allo sforzo bellico contro Gaza
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Di Eyal Lurie-Pardes* – + 972 Local Call
(traduzione di Federica Riccardi)
Negli ultimi mesi, le persone di tutto il mondo hanno seguito da vicino la continua brutalità della guerra a Gaza. Immagini di palestinesi in fuga verso sud e alla ricerca di parenti sotto le macerie, video di bambini alla ricerca di cibo e acqua, queste e altre ancora sono circolate sui social media e sulle reti di informazione ogni giorno dal 7 ottobre.
Ma queste immagini non si trovano praticamente da nessuna parte nei media israeliani. La maggior parte dei notiziari israeliani raramente aggiorna il numero di vittime palestinesi – che ha superato i 30.000 – né informa i propri spettatori che circa il 70% delle vittime dell’offensiva israeliana sono donne e bambini.
La meta-narrazione presentata dai media israeliani definisce l’attacco di Hamas al sud di Israele come la genesi e il cuore dell’attuale crisi geopolitica. Ogni giorno c’è una nuova angolazione sugli eventi del 7 ottobre: nuovi filmati delle incursioni di Hamas nei kibbutzim, testimonianze di soldati che hanno partecipato alle battaglie o interviste ai sopravvissuti. Inoltre, i giornalisti israeliani coprono gli eventi attuali a Gaza quasi interamente attraverso l’unica lente del 7 ottobre e dei suoi effetti a catena.
Si tratta di una decisione consapevole dei media israeliani. In un’intervista al New Yorker, Ilana Dayan, una delle più apprezzate giornaliste israeliane, ha spiegato: “Intervistiamo le persone sul 7 ottobre – siamo bloccati al 7 ottobre”. Oren Persico, collaboratore di The Seventh Eye, una rivista investigativa indipendente che si occupa di libertà di parola in Israele, ha dichiarato a +972: “C’è un circolo vizioso in cui i notiziari si astengono dal mettere il pubblico di fronte alla scomoda verità e, di conseguenza, il pubblico non la chiede”.
Questo circolo vizioso è comprensibile, in una certa misura. L’attacco del 7 ottobre è stato forse la più grande calamità della storia di Israele. Nel giorno più letale per il popolo ebraico dal 1945, più di 1.200 israeliani sono stati uccisi e 243 sono stati portati come ostaggi a Gaza, la maggior parte dei quali civili. Per la prima volta nella storia dello Stato, un nemico ha conquistato temporaneamente il territorio controllato da Israele. Gli ebrei israeliani continuano a elaborare questo trauma nazionale e, di conseguenza, non hanno ancora recuperato un senso di sicurezza. Le testate giornalistiche, quindi, non solo alimentano il pubblico con una particolare narrazione, ma riflettono anche oggettivamente il sentimento dominante.
Tuttavia, negli ultimi cinque mesi, i media israeliani hanno fatto molto di più che rispecchiare semplicemente la società israeliana. I media, e in particolare i notiziari televisivi, hanno intrapreso azioni per posizionarsi come incarnazione del patriottismo israeliano. Definiscono ciò che è di interesse pubblico, tracciano i confini del discorso politico legittimo e presentano solo una certa verità ai cittadini israeliani. Questa posizione serve sia i loro interessi commerciali sia gli interessi nazionali dichiarati dal governo e dalle forze armate. In questo modo, i notiziari televisivi si muovono costantemente su una linea sottile tra propaganda e giornalismo.
Per capire perché i media israeliani coprono la guerra di Gaza in questo modo, è fondamentale comprendere le tendenze storiche dei media e il loro ruolo nello spostare l’opinione pubblica israeliana verso destra. I media sono diventati parte indelebile di un ciclo in cui gli israeliani diventano sempre più nazionalisti e militaristi, il che li rende avidi di notizie che celebrano la guerra e oscurano o addirittura omettono la copertura dei suoi costi. Il pubblico riceve solo questa narrazione celebrativa e il circolo vizioso continua.
Per analizzare questa realtà, l’analisi che segue si concentra principalmente sui notiziari televisivi, che sono il mezzo predominante attraverso il quale gli israeliani fruiscono delle notizie. Ma lo stesso schema si manifesta in tutte le altre forme dei media, rendendo il ciclo pervasivo.
La trasformazione del panorama mediatico
Fino agli anni Duemila, l’informazione televisiva generalista era considerata una roccaforte dell’élite sionista laica e liberale. Questa élite controllava le emittenti pubbliche finanziate dal governo, che hanno avuto il monopolio delle trasmissioni fino agli anni ’90, e successivamente del Canale 12 e del Canale 13, di proprietà privata.
Tutti questi canali si rivolgevano generalmente a un pubblico centrista e, in generale, raramente contestavano l’occupazione israeliana, il movimento dei coloni o le violazioni operate delle forze di sicurezza. Hanno avuto una forza maggiore quando hanno raccontato altre questioni liberali come la corruzione del governo, l’uguaglianza di genere e, negli ultimi anni, i diritti LGBTQ+. Atteggiamenti simili si riscontrano nei media scritti, con la notevole eccezione del quotidiano di sinistra Haaretz, che pubblica un giornalismo più rigoroso sulle questioni palestinesi. Tuttavia, vale la pena notare che, nonostante l’alto riconoscimento del nome di cui gode all’estero, Haaretz ha un pubblico israeliano relativamente limitato – circa il 5% dei lettori di giornali locali.
Negli ultimi due decenni la scena giornalistica in Israele ha subito cambiamenti tettonici. Da istituzione prevalentemente centrista, si è trasformata in un campo polarizzato: un polo è una macchina dichiaratamente di destra e l’altro è apologeticamente centrista, nel timore di essere percepito come troppo di sinistra.
Fin dal primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro, alla fine degli anni ’90, egli ha criticato aspramente i media tradizionali, definendoli una fonte di informazione di estrema sinistra e inaffidabile. (Questa ossessione per i media è alla base delle accuse di corruzione che sta affrontando, tutte legate ai suoi tentativi di influenzare i media israeliani per ottenere una copertura lusinghiera). Dopo la sua prima estromissione, nelle elezioni del 1999, Netanyahu ha deciso che per tornare al potere era indispensabile rimodellare i media israeliani.
Ha raggiunto questo obiettivo creando un amplificatore indipendente per se stesso e per le sue opinioni, aggirando i media tradizionali. Nel 2007, Netanyahu avrebbe convinto Sheldon Adelson a fondare il quotidiano gratuito Israel Hayom, che gradualmente è diventato il giornale più letto in Israele. Fino alla morte di Adelson, avvenuta qualche anno fa, e ai successivi cambiamenti nella sua redazione, il giornale era immancabilmente favorevole a Netanyahu.
Il primo ministro ha voluto rimodellare anche l’ecosistema dei notiziari televisivi per il loro ruolo determinante nell’influenzare il sentimento pubblico. Sotto il controllo del suo partito Likud, il Ministero delle Comunicazioni ha promosso cambiamenti normativi che hanno permesso al Canale 14 di trasformarsi da “canale del patrimonio culturale” (autorizzato a trasmettere programmi sull’ebraismo) in un vero e proprio canale di notizie che fornisce ore di copertura al giorno, rendendolo una versione israeliana di Fox News. In mezzo alla polarizzazione politica su Netanyahu e la revisione del sistema giudiziario, la popolarità di Canale 14 è cresciuta, soprattutto tra i sostenitori di Netanyahu, rendendolo secondo solo a Canale 12 in termini di audience.
Questi cambiamenti strutturali hanno coinciso con un cambiamento nella composizione dei giornalisti in Israele. Poiché negli ultimi 20 anni la società israeliana è diventata più di destra, soprattutto per quanto riguarda la questione palestinese, è aumentato anche il numero di giornalisti sionisti religiosi di destra, molti dei quali coloni.
Persico, di The Seventh Eye, ha affermato che questi cambiamenti “creano due universi paralleli con presupposti fondamentali anch’essi paralleli, divisi tra Bibisti e non-Bibisti”. Ma anche sui canali mainstream, ha proseguito, “le dichiarazioni di incitamento che una volta si sentivano solo nelle prediche settimanali delle sinagoghe religiose sioniste possono ora essere ascoltate da importanti redattori e giornalisti”. Per esempio, su Canale 12, solo alcuni corrispondenti e ospiti sostengono la necessità di ristabilire gli insediamenti a Gaza, mentre su Canale 14 lo fanno in modo più esplicito ed esteso.
Il portavoce militare israeliano Daniel Hagari
Abbracciare la propaganda
Dopo la guerra di Gaza del 2014 – in cui sono stati uccisi 68 israeliani e oltre 2.200 palestinesi – Dana Weiss, una delle principali corrispondenti di Channel 12, si è lamentata del fatto che una delle lezioni della copertura della guerra è che i media israeliani dovrebbero fare di più per mettere in evidenza le voci dei palestinesi nella Striscia. “La propensione degli israeliani ad ascoltare le domande difficili sta svanendo”, ha avvertito.
Ma nel clima nazionalista creatosi all’indomani del 7 ottobre, la copertura della devastazione che Israele sta scatenando a Gaza è introvabile. Alcuni giornalisti hanno persino messo in dubbio che i media debbano pubblicare storie che potrebbero danneggiare il morale nazionale.
Fin dall’inizio della guerra, i canali televisivi hanno guidato lo sforzo di hasbara in Israele. Hasbara – che in ebraico significa “spiegare” – è usato per descrivere il sostegno a favore di Israele, ma è essenzialmente un discorso ambiguo di propaganda. Elementi di hasbara compaiono in ogni canale televisivo. Ad esempio, dal 7 ottobre, il logo di ogni canale è stato modificato per includere la bandiera israeliana e lo slogan governativo “Yachad Nenatzeach” (“Insieme vinceremo”).
Come parte di questa hasbara, tutte le reti di informazione mainstream ritraggono Israele come la vittima finale e gli attacchi di Hamas come una dimostrazione di brutalità senza pari. Questo vittimismo è uno status esclusivo: non lascia spazio alla sofferenza dei palestinesi di Gaza, né al livello della crisi umanitaria che stanno affrontando. I notiziari della televisione mainstream israeliana raramente documentano le rovine di Gaza o l’entità degli sfollamenti e delle distruzioni. Quando lo fanno, la responsabilità di queste perdite viene addossata ad Hamas.
Chiunque contesti questa narrazione viene attaccato. Ad esempio, quando il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha condannato esplicitamente l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma ha affermato che “non è avvenuto nel vuoto” – facendo riferimento ai 56 anni di occupazione israeliana come contesto determinante – i media israeliani si sono scatenati.
Invece di fornire una spiegazione onesta della sua posizione dominante a livello internazionale, i giornalisti israeliani hanno fatto a gara a chi criticava più aspramente Guterres. Almog Boker, uno dei più popolari corrispondenti di Channel 13, ha affermato che il capo delle Nazioni Unite stava “giustificando le atrocità di Hamas”. Un titolo di Ynet recitava: “Perché il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha così tanta antipatia per Israele?”. Anche Canale 12 ha definito le sue dichiarazioni “oltraggiose“.
L’esercito è la fonte
La stretta interazione tra i media israeliani e l’esercito crea, senza sorpresa, diversi punti ciechi nella copertura della realtà di Gaza. La presenza dei media internazionali è stata praticamente inesistente nelle prime settimane di guerra e la maggior parte dei giornalisti internazionali ha lasciato Gaza per la propria sicurezza. I bombardamenti israeliani e i blackout intermittenti dell’elettricità e delle comunicazioni hanno ostacolato la capacità di cronaca dei giornalisti palestinesi locali.
Con l’avanzare dell’invasione di terra, l’esercito israeliano ha permesso ad alcuni giornalisti – sia israeliani che internazionali – di entrare a Gaza, ma solo se accompagnati dai militari. Tali visite sono solitamente dirette dall’unità dei portavoce dell’IDF, il che significa che i giornalisti non sono in grado di intervistare direttamente i palestinesi o di accedere in modo indipendente ai siti in rovina. Possono vedere solo ciò che viene loro presentato.
L’influenza dei militari va ben oltre il controllo dell’accesso alle informazioni. Per i primi tre mesi di guerra, il capo dell’unità portavoce dell’IDF, Daniel Hagari, ha tenuto conferenze stampa quotidiane trasmesse in diretta su tutti i canali in prima serata. Queste conferenze stampa includevano aggiornamenti sullo stato della guerra, ma solo sporadicamente contenevano istruzioni per il pubblico o informazioni veramente degne di nota. Hagari era ampiamente considerato dal pubblico israeliano come una fonte affidabile di informazione, soprattutto in relazione alla mancanza di fiducia del pubblico nel governo in carica, e la sua presenza non necessaria ma costante ha dato all’esercito il controllo sulla narrazione dei notiziari.
Inoltre, i corrispondenti militari, che si affidano in larga misura all’esercito israeliano come principale fonte, ne tessono costantemente le lodi. Non si tratta di una tendenza nuova. Anche prima della guerra, i corrispondenti militari spesso pubblicavano testualmente le dichiarazioni dell’IDF, senza menzionare che l’esercito fosse l’unica fonte di informazioni. Inoltre, amplificano ferocemente i presunti successi ottenuti dalle forze israeliane a Gaza e sostengono la continuazione dell’operazione.
Lo stesso vale per molti altri giornalisti e per l’establishment dei media nel suo complesso. Questo è in parte un effetto secondario della formazione giornalistica ricevuta attraverso l’esercito israeliano. La formazione di base per molti giornalisti in Israele avviene presso il Galatz, la radio dell’esercito israeliano, non nelle università o nei giornali locali. Infatti, Galatz seleziona decine di soldati israeliani appena arruolati per lavorare alla stazione come parte del loro servizio obbligatorio. Questi soldati ricevono un addestramento e un’esperienza impareggiabili e molto apprezzati, che li rendono particolarmente appetibili per un successivo reclutamento professionale al termine del servizio.
Persico ha sottolineato l’importanza di questo background, sostenendo che “generazioni di giornalisti israeliani sono cresciuti [professionalmente] sotto questa supervisione militare, che li ha addestrati a pensare che ci sono cose che non possono pubblicare”. Di conseguenza, questa educazione ha fatto crollare nel tempo la concezione fondamentale dell’indipendenza della stampa in Israele.
Promuovere false narrazioni, disumanizzare i palestinesi
Oltre a omettere la copertura essenziale sulle vite dei palestinesi, i media israeliani svolgono anche un ruolo attivo nel creare percezioni completamente false della guerra e dell’opinione pubblica palestinese.
Una delle principali differenze tra la copertura internazionale e quella israeliana della guerra, ad esempio, è la questione della legittimità di Hamas tra i palestinesi, che è diventata una fissazione ricorrente dei media mainstream in Israele. Tra i gazawi ci sono certamente critiche nei confronti di Hamas per non aver garantito la sicurezza o non aver fornito assistenza umanitaria durante la guerra. Ma i media israeliani ritraggono Hamas sul punto di perdere tutta la sua credibilità tra i palestinesi.
Sul Canale 12, Ohad Hemo e Ehud Yaari, i principali corrispondenti di questioni arabe e palestinesi in Israele, hanno riferito che le tensioni tra i civili gazawi e Hamas si stanno intensificando. Secondo loro, i gazawi hanno detto che “invece di ‘ciao’, la frase più comune per strada tra le persone è “che Dio si vendichi di Hamas'”.
Qualche settimana fa, i canali televisivi israeliani hanno diffuso un filmato di migliaia di palestinesi che fuggivano da Khan Younis attraverso un corridoio umanitario scandendo: “Il popolo vuole abbattere Hamas”. Nessuno di loro ha menzionato, come rivelato da +972, che sono stati costretti a farlo dai soldati israeliani per essere lasciati passare. Anche se i media non ne erano a conoscenza, qualsiasi giornalista decente avrebbe dovuto mettere in dubbio il significato di quei canti come indicatore della legittimità di Hamas, soprattutto se si considera che i video sono stati girati da soldati e che i palestinesi erano alla mercé dell’esercito israeliano.
La narrazione del presunto imminente crollo di Hamas è stata rafforzata da altri video, come quelli dei palestinesi nel nord di Gaza che consegnano le armi a Israele. Inizialmente, i canali di informazione hanno rapidamente amplificato che “centinaia di militanti di Hamas si stanno arrendendo nel nord di Gaza”. Pochi giorni dopo, tuttavia, i funzionari della sicurezza nazionale hanno stimato che di queste centinaia, solo il 10-15% erano effettivamente militanti di Hamas. Il resto erano normali civili che non erano fuggiti a sud, come l’esercito aveva ordinato loro.
Un altro esempio è l’idea che l’esercito israeliano si stia avvicinando a Yahya Sinwar, il capo della sezione di Hamas a Gaza e una delle menti dietro l’attacco del 7 ottobre. Questo tipo di notizie si susseguono ormai da mesi. A dicembre, in un video che ha suscitato molte beffe, Adva Dadon, giornalista di Channel 12, ha mandato in onda un servizio intitolato “Nella casa di Sinwar“, documentando un’incursione israeliana in quella che sarebbe stata una delle sue abitazioni. Ha persino sollevato un paio di scarpe dalle macerie e ha affermato che appartenevano a Sinwar – un’affermazione che è stata rapidamente smentita.
L’aspetto più sconcertante è che i notiziari televisivi israeliani svolgono un ruolo attivo nella disumanizzazione dei palestinesi. Canale 14 ha costantemente promosso opinioni abominevoli – come la richiesta di annientamento di Gaza e la descrizione di tutti i gazawi come terroristi e bersagli legittimi – che vengono ripetute dai principali conduttori e corrispondenti. A causa di queste dichiarazioni ricorrenti, Canale 14 è stato persino citato più volte nella denuncia del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia che accusa Israele di aver commesso un genocidio a Gaza. Questo tipo di dichiarazioni non sono un’eccezione, e infatti sono apparse anche nei notiziari televisivi tradizionali.
Inoltre, i notiziari mainstream si rifiutano di riportare il numero di vittime palestinesi, sostenendo che non ci si può fidare dei numeri del Ministero della Salute “gestito da Hamas” – anche se sono storicamente accurati e lo stesso esercito israeliano si basa su di essi. Canale 14 ha utilizzato i numeri diffusi dal Ministero della Salute, ma ha definito tutte le migliaia di palestinesi uccisi come “terroristi”.
I punti di vista del governo
In una certa misura, le correnti sotterranee che vediamo nella copertura mediatica israeliana della guerra appaiono anche sui social media – un mezzo centrale di fruizione delle notizie, soprattutto tra la popolazione più giovane. Sui social media, gli algoritmi sono progettati per creare una camera di risonanza con un universo parallelo, e la sua natura personalizzata esacerba l’isolamento degli israeliani sia tra di loro che dal resto del mondo. Ad esempio, anche quando gli israeliani sui social media sono esposti a notizie non israeliane sulla guerra, è probabile che lo facciano attraverso mediatori filo-israeliani che spiegano che si tratta solo di propaganda nemica.
I media mainstream israeliani creano un’altra camera di risonanza per gli israeliani, che amplifica i punti di vista del governo e ha poca somiglianza con il panorama informativo del resto del mondo. A differenza delle notizie israeliane, i media internazionali sono attualmente molto più concentrati sull’entità della devastazione a Gaza e sul suo legame con l’oppressione di lungo corso dei palestinesi. Allo stesso tempo, a livello globale si nutrono molti dubbi sulla fattibilità degli obiettivi di guerra di Israele, dubbi che però in Israele non vengono quasi espressi.
Così, anche se i canali televisivi israeliani non sono stati costretti a promuovere la linea di pensiero del governo, farlo è stato certamente utile ai loro interessi per mantenere alti gli ascolti. Questa strategia ha funzionato: un sondaggio della Hebrew University ha rilevato che dall’inizio della guerra, il consumo di notizie da parte dei media tradizionali è più che raddoppiato e l’esposizione a tutte le principali reti di informazione è aumentata. Tra la popolazione ebraica, la popolarità del Canale 12 è salita alle stelle, soprattutto tra gli spettatori affiliati al blocco anti-Netanyahu.
Questi spostamenti non sono una deviazione dalla norma. Sono l’apice di trasformazioni storiche che hanno cambiato radicalmente i media e le notizie televisive israeliane, combinate con la decisione ad hoc degli operatori di mostrare e dimostrare il proprio patriottismo. Purtroppo, se la copertura della guerra di Gaza è indicativa, è probabile che queste tendenze continuino, aggravando il circolo vizioso che spinge i media e il pubblico israeliano a essere sempre più di destra, conformista, militarista e nazionalista
*Eyal Lurie-Pardes è visiting fellow nel Programma sulla Palestina e gli affari palestinesi-israeliani del Middle East Institute dopo aver ottenuto la borsa di studio post-laurea della University of Pennsylvania Carey Law School LLM. Prima di entrare al MEI, Eyal ha lavorato con l’Associazione per i diritti civili in Israele, l’Istituto Zulat per l’uguaglianza e i diritti umani e come consigliere parlamentare alla Knesset.
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Il “Premio Stefano Chiarini” assegnato al giornalista Raffaele Oriani
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della redazione
Pagine Esteri, 16 marzo 2024 – E’ stato consegnato questa mattina al Palazzo dei Musei di Modena il «Premio Internazionale Stefano Chiarini», promosso dal Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila e assegnato quest’anno al giornalista Raffaele Oriani ex giornalista del quotidiano La Repubblica.
Oriani ha interrotto dopo dodici anni la sua collaborazione con Repubblica scrivendo ai colleghi: “Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti…la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.
La Giuria ha ritenuto che il gesto di Oriani dovesse essere “oggetto di stima e di dibattito, avendo sollevato una questione etica di enorme rilevanza. Un gesto che non volevamo rimanesse chiuso nelle stanze di Repubblica”, ha spiegato il presidente del Premio Chiarini, Flavio Novara. Presenti alla cerimonia Abeer Odeh, ambasciatrice palestinese a Roma, Andrea Bortolamasi, assessore alla cultura, Kassem Aina, presidente dell’associazione «BeitAtfalAssomoud» di Beirut e Mirca Garuti, Coordinatrice del Premio che si propone da 15 anni di onorare la memoria del giornalista de Il Manifesto Stefano Chiarini valorizzando l’impegni di chi si batte per i diritti del popolo palestinese e per un Medioriente di pace”.
Nel pomeriggio presso La Tenda, sempre a Modena, sarà assegnato il «Premio Maurizio Musolino» al regista Enrico Frattaroli e all’attore Franco Mazzi per la realizzazione dello spettacolo teatrale «Nakba».
Le premiazioni saranno accompagnate dalla visione di documentari, da interventi di e da un dibattito sui diritti del popolo palestinese e sull’attacco israeliano in corso sui a Gaza. La band Assalti Frontali presenterà il brano «Fckl. Ci siamo anche noi. Palestina». Pagine Esteri.
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In Cina e Asia – Una campagna social della CIA per infangare il PCC?
Una campagna social della CIA per infangare il PCC?
Collasso Sichuan Trust, gli investitori protestano contro il piano di rimborso del governo
Cina, giornalisti della CCTV allontanati con forza dalle autorità locali
Pechino assicura politiche flessibili per le nuove tecnologie mentre lancia un piano per rilanciare i consumi
Cambogia, in programma la cos
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Africa Rossa – L’Africa alle "Due sessioni”
Africa rossa è la rubrica dedicata alla presenza cinese in Africa, a cura di Alessandra Colarizi.
I temi di questa puntata di:
L'Africa alle "Due sessioni"
Il senso di Julius Maada Bio a Pechino
Dopo il cobalto congolese, la Cina punta al litio zimbabwese
FMI: "Il modello cinese in Africa sta cambiando"
Comunità cinese in Africa ai minimi dal 2015
Pelle di asino, ora c'è il ban dell'UA
AfCFTA contro il de-risking
Crisi Mar Rosso, colpiti gli investimenti cinesi nel Corno d'Africa
Tecno supera Samsung in Africa e Medio Oriente
Cina e Russia: un po' "alleati", un po' avversari
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La guerra in Ucraina, un grande affare per Washington
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 15 marzo 2024 – Ormai anche a Washington si ammette pubblicamente che le possibilità che l’Ucraina “vinca” la guerra contro la Russia sono ridotte al lumicino.
Lungi dall’aumentare l’isolamento internazionale di Mosca e dall’indebolire la Russia, come previsto e sperato da Washington, le dure sanzioni imposte alla Federazione hanno forzato l’economia del gigante eurasiatico a riconvertirsi velocemente, potenziando il suo apparato militare-industriale e la sua capacità di produrre armi e munizioni.
Inoltre, venuti meno i mercati occidentali, Mosca ha dovuto volente o nolente riorientare una parte importante delle sue relazioni commerciali verso i paesi dell’Asia e incrementare le relazioni con l’Africa, sfruttando proprio il suo potenziale militare.
L’Ucraina, sedotta e abbandonata?
In molti temono ora che le prossime elezioni presidenziali statunitensi vedano prevalere Donald Trump che non fa mistero di voler mollare l’Ucraina al suo destino per cercare un relativo appeasement con Vladimir Putin e poter concentrare i propri sforzi contro la Cina. Nel frattempo i parlamentari repubblicani bloccano l’approvazione di un megapacchetto di aiuti finanziari e bellici all’Ucraina, il cui esercito è sempre più sfiancato e a corto di munizioni, incapace di contrastare efficacemente l’avanzata delle truppe russe soprattutto in Donbass.
Comunque, per gli Stati Uniti il sostegno all’Ucraina non sembra essere più una novità. Le dimissioni, alcuni giorni fa, del sottosegretario al dipartimento di Stato Victoria Nuland, prima tra i principali attori del cambio di regime a Kiev nel 2014 e poi sponsor fondamentale del sostegno economico e militare all’Ucraina, confermano il disimpegno di Washington.
Mentre l’establishment europeo e in particolare la Francia gonfiano il petto e pensano di sfruttare il parziale dietrofront degli Stati Uniti per ergersi a strenui difensori di Kiev, costi quel che costi – ma saranno in grado di trasformare le altisonanti dichiarazioni in atti concreti, rischiando di entrare in rotta di collisione diretta con la Russia e di scatenare una guerra su vasta scala? – in Ucraina aumenta il numero di quanti nutrono forti dubbi sulla scelta di affidarsi strategicamente a Washington, col rischio di essere sedotti e abbandonati.
La Nato torna in auge e conquista nuovi membri
In fondo, se pure dovesse tirare i remi in barca e lasciare campo libero alla Russia in Ucraina aprendo magari un nuovo fronte con Mosca in un altro quadrante – o potrebbe essere proprio la dirigenza russa a farlo al fine di sfruttare il momento positivo – Washington avrebbe comunque ottenuto numerosi risultati utili a frenare il declino e la crisi della principale superpotenza globale, assediata dalla nascita e dal rafforzamento di una nuova schiera di potenze internazionali e regionali che aspirano ad un posto al sole e ne mettono quindi in discussione il primato.
Innanzitutto gli Stati Uniti sono riusciti a rivitalizzare la NATO – che, non è un segreto, è un’alleanza militare ad uso e consumo dei suoi interessi geopolitici – e a convincere i partner europei ad aumentare in maniera rapida e consistente le spese destinate al comparto difesa e a finanziare l’Alleanza Atlantica. La guerra in Ucraina ha permesso a Washington di vincere le resistenze di alcuni governi europei e di congelare chissà per quanti anni la nascita di un vero esercito europeo che invece, prima dell’invasione russa, sembrava prendere quota. Inoltre Washington ha ottenuto l’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia che a lungo erano rimasti neutrali dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Il boom delle esportazioni di armi
Come se non bastasse, come certificato dal Sipri (Stockholm International Peace Research institute) gli Stati Uniti hanno fortemente incrementato la vendita di armi arrivando a fornire più di metà di quelle acquistate dagli eserciti europei. Nell’ultimo quinquennio Washington ha venduto sistemi bellici a ben 107 diversi Stati. Per la prima volta negli ultimi 25 anni, Washington è diventata la principale esportatrice verso l’Asia, anche grazie al boom degli acquisti di armi da parte del Giappone (+155%) e alla crescita della Corea del Sud (+6,5%).
A beneficiare del boom delle esportazioni – e delle vendite al governo statunitense, desideroso di rimpinguare i propri arsenali intaccati dai trasferimenti alle forze armate ucraine – sono stati colossi come la Lockheed Martin, il Northrop Grumman, General Dynamics e Raytheon Technologies, i cui soci nel solo 2022 si sono spartiti dividendi per ben 17 miliardi di dollari, grazie all’aumento del volume d’affari del 49% rispetto all’anno precedente. Secondo i dati pubblicati dalla Federal Reserve, negli ultimi due anni il comparto difesa statunitense ha aumentato il proprio fatturato del 18%.
Gli USA scalano la classifica degli esportatori di gas e petrolio
Per quanto riguarda il comparto energetico, con la distruzione – anche fisica – dei corridoi tra Germania e Federazione Russa gli Stati Uniti si sono imposti come uno dei principali fornitori di gas naturale liquefatto dei paesi europei, venduto ad un prezzo assai superiore a quello del carburante esportato da Mosca attraverso il Nord Stream ed altre pipeline.
Se le sanzioni imposte a Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina avevano l’obiettivo dichiarato di comprimere le esportazioni energetiche russe svuotando le casse di Putin, hanno prodotto soprattutto l’aumento delle esportazioni di idrocarburi statunitensi nel continente europeo, riempiendo le casse di Washington.
Le esportazioni record del 2023 hanno trasformato gli Stati Uniti nel maggior esportatore mondiale di Gnl – estratto in gran parte con il metodo, molto inquinante, della fratturazione idraulica che prevede l’iniezione nel terreno di grandi quantità di acqua e di solventi chimici – davanti al Qatar e all’Australia. Nonostante il calo delle ultime settimane le previsioni indicano che Washington manterrà il primato anche nel 2024.
Anche le vendite di petrolio statunitense ai paesi europei sono cresciute notevolmente; secondo i dati pubblicati dall’Energy Information Administration, ad esempio, nel settembre scorso gli Stati Uniti producevano ogni giorno circa 13,2 milioni di barili di greggio al giorno, il livello più alto mai raggiunto.
Nel 2023 il totale delle importazioni di greggio statunitense da parte dell’Europa ha raggiunto il 46% contro il 37% del 2021. Al contrario, l’Asia ha comprato meno petrolio statunitense, passando dal 47 al 41%, mentre le esportazioni russe – soprattutto a India, Cina e Pakistan – sono salite.
Victoria Nuland in piazza Majdan a Kiev nel 2013
La crisi tedesca ed europea
Se l’Unione Europea ha insistentemente puntato a ridurre al minimo la propria dipendenza energetica dalla Russia ha però aumentato notevolmente quella nei confronti degli Stati Uniti, e a caro prezzo.
L’aumento del costo delle forniture energetiche e la feroce speculazione innestata dalle sanzioni alla Russia hanno infatti spinto in alto l’inflazione in tutti i paesi europei – e non solo – causando un danno economico enorme ai ceti medi e soprattutto alle fasce più deboli della popolazione che hanno visto erodere in maniera consistente il proprio potere d’acquisto.
L’economia tedesca, poi, ha subito un gravissimo contraccolpo anche a causa dell’interruzione dei flussi commerciali ed energetici con la Russia e della crescente concorrenza cinese e statunitense, entrando in crisi per la prima volta dopo parecchi decenni. L’aumento esponenziale dei costi energetici, infatti, ha ridotto notevolmente la competitività della manifattura europea, soprattutto di quella tedesca.
Al contrario, nell’agosto del 2022, il governo statunitense ha varato il cosiddetto “Inflation Reduction Act”, un enorme piano di sussidi e incentivi alla propria industria per un totale di 400 miliardi di dollari che ha permesso alla produzione industriale di Washington di rimanere competitiva e di attirare sul suolo americano anche produzioni estere o di ottenere il ritorno in patria di produzioni precedentemente esternalizzate.
Comunque vada a finire, gli Stati Uniti hanno tratto enormi vantaggi dalla situazione di polarizzazione bellica venutasi a creare dopo l’invasione russa dell’Ucraina, quantomeno nei confronti dell’Unione Europa il cui rafforzamento, sul piano militare, economico e politico è sempre stato considerato dall’establishment statunitense un processo da contrastare.
Come scrive il Wall Street Journal, i supporters del sostegno all’Ucraina di solito invocano gli interessi strategici dell’occidente o gli obblighi morali degli Stati Uniti nei confronti della difesa della libertà e della democrazia. Ma la verità è che la guerra in Ucraina è stata una vera manna per l’economia statunitense. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, El Salto Diario e Berria
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In Cina e in Asia – TikTok a rischio espulsione dagli Stati Uniti. Il sì della Camera
TikTok a rischio espulsione dagli Stati Uniti
Prevenire i suicidi con la lotta all'inquinamento
A Pechino si è tenuto l’ottavo dialogo Cina-Nato sulla politica di sicurezza
Cina, Iran e Russia impegnate in esercitazioni navali congiunte nel Golfo dell’Oman
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LIBANO. Israele incrementa gli attacchi e si avvia all’escalation
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Pagine Esteri, 13 marzo 2024. Per due giorni consecutivi le forze armate israeliane hanno compiuto attacchi nella Valle di Bekaa, in Libano, molto lontano dal confine. Lunedì gli aerei da guerra si sono allontanati per centinaia di chilometri dalla frontiera israeliana, uccidendo un civile e ferendone almeno altri 8 a Baalbek.
In risposta all’attacco, Hezbollah ha lanciato più di 100 razzi Katyusha verso il nord di Israele, senza causare feriti.
Il giorno successivo, martedì, Israele è tornato a colpire il Libano orientale, a Baalbek, uccidendo due membri di Hezbollah e causando danni a strutture militari in diverse località, nella città di Sarin e quella di Nabi Sheet. Hezbollah ha risposto con diversi attacchi ai siti israeliani tra cui Birkat Risha e la caserma Zarit.
Questa mattina l’esercito israeliano ha guidato un drone fino alla zona del campo profughi palestinese di Rashdiyeh, a sud di Tiro, colpendo un’automobile privata che percorreva la strada che collega Tiro a Naqoura, nel sud del Libano. Secondo fonti libanesi tutti i passeggeri sono rimasti uccisi.
La Valle della Bekaa era già stata colpita da Israele il 26 febbraio. Mentre l’attacco di droni del 2 gennaio ha raggiunto la capitale libanese, Beirut, uccidendo in maniera mirata un leader di Hamas.
I continui attacchi israeliani, sempre più in profondità oltre la zona di confine, rappresentano una pericolosa escalation nella guerra con il Libano, che al momento ha ucciso in Libano più di 200 combattenti di Hezbollah e circa 50 civili, in Israele circa dodici soldati e sei civili.
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In Cina e Asia – Pinduoduo accusata di sorvegliare gli ex dipendenti
Pinduoduo accusata di sorvegliare gli ex dipendenti
Cina, mancati i target di decarbonizzazione per il 2023
Pechino contro il fondo Usa a supporto di Taiwan
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GAZA. 68 orfani scortati dall’esercito israeliano a Betlemme, i coloni provano a bloccare gli autobus
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 12 marzo 2024. 68 bambini palestinesi sono stati portati via da Gaza in un’operazione condotta con l’esercito israeliano che ha mandato su tutte le furie i coloni e i loro leader. Si tratta di orfani, e tutti hanno perso i genitori prima del 7 ottobre. Si tratta di bambini e bambine gazawi tra i 2 e i 14 anni che avevano trovato rifugio nell’SOS Children’s Villages- Palestine, una struttura dedicata che opera a sud della Striscia di Gaza, a Rafah, già da diversi anni e in Palestina, a Betlemme, dal 1966. I militari li hanno scortati attraverso Israele verso Betlemme, dove ora si trovano, all’interno di un albergo. La casa di accoglienza di Gaza è una delle centinaia di strutture gestite in tutto il mondo dalla SOS Children’s Villages International, una federazione di associazioni con sede legale in Austria. Insieme a loro anche 11 dipendenti dell’organizzazione e le loro famiglie.
SOS Children’s Villages in the Gaza Strip continues to shelter a number of approximately 80 unaccompanied children due to the war and other children who have lost family care. We are working daily to receive more children, as we expect to receive more than 50 new cases during the… pic.twitter.com/jNmvLXHDRs— SOS Children’s Villages- Palestine (@sos_villages) February 1, 2024
Secondo il rapporto trasmesso dal canale televisivo israeliano Channel 12, il centro per orfani di Rafah avrebbe improvvisamente interrotto le proprie attività, chiedendo aiuto e un intervento immediato. Tuttavia, nel comunicato rilasciato dall’organizzazione internazionale si specifica che le attività sono ancora in corso: solo pochi giorni fa, il 9 Marzo, nel suo ultimo post su X aveva lanciato una campagna di sostegno per i bambini che hanno perso le proprie famiglie. “Abbiamo lavorato attraverso canali diplomatici con tutte le autorità competenti – hanno dichiarato – per portare i bambini e gli adulti a Betlemme in Cisgiordania, dove sono arrivati sani e salvi l’11 marzo. I bambini di età compresa tra i due e i 14 anni, sono sotto la cura dei villaggi per bambini SOS, poiché avevano già perso le cure dei genitori prima della guerra. Stanno bene date le circostanze e continuano a ricevere cure e supporto psicologico dai loro curatori di fiducia”.
في رمضان يتواصل العطاء على أياديكم 🌙هذا العام، نستقبل رمضان وقلوبنا حزينة على استمرار الحرب في غزة ونستذكر أكثر من 19,000 طفل وطفلة فقدوا من يرعاهم خلال الحرب، والآلاف من العائلات التي تعيش في ظروف صعبة جدا وتكافح من أجل الحصول على الاحتياجات الأساسية.
نطلق اليوم حملة… pic.twitter.com/tNPNePMtaY
— SOS Children’s Villages- Palestine (@sos_villages) March 9, 2024
Lo spostamento dei minori è avvenuto, su pressione dell’ambasciata tedesca in Israele e ha richiesto un coordinamento tra l’esercito israeliano, il COGAT (l’organismo israeliano che si occupa delle attività governative e amministrative nei Territori palestinesi occupati) e l’Autorità Nazionale Palestinese. Nella dichiarazione ufficiale l’ambasciata ci ha tenuto a precisare che si tratta di una “misura temporanea per allontanare i bambini da un grave pericolo, non è un tentativo di ricollocarli in modo permanente”.
Il Gabinetto di sicurezza del governo non è stato avvisato preventivamente e l’operazione è avvenuta all’insaputa del Ministero della sicurezza nazionale. E proprio Itamar Ben Gvir, insieme al Ministro delle finanze Bezalel Smotrich ha riservato parole infuocate al governo, definendo la scelta un “deterioramento dei valori”: “Ogni misericordia verso i crudeli finisce per essere crudele verso i misericordiosi. Deterioramento dei valori. Chiedo al Primo Ministro chiarimenti su chi ha dato questo ordine immorale e con quale autorità mentre i nostri figli e i figli dei nostri figli sono tenuti prigionieri dal nemico”.
כל המרחם על אכזרים סופו שיתאכזר לרחמנים. ליקוי מאורות ערכי.
אני דורש מראש הממשלה הבהרות מי נתן את הפקודה הבלתי מוסרית הזאת ובאיזה סמכות בשעה שחטופינו וילדיהם בשבי האויב. pic.twitter.com/7W9WZNlpNx— בצלאל סמוטריץ’ (@bezalelsm) March 11, 2024
“In guerra, si deve schiacciare il nemico e non essere sempre moralisti“, ha detto Ben Gvir. “Non è così che opera un Paese che mira alla vittoria totale“.
Secondo The Times of Israel gli autobus con i bambini e un numero imprecisato di caregivers sono usciti da Gaza attraverso il valico di Rafah e hanno percorso la lunga via verso il sud, fino al valico di Taba, vicino Eilat. Da lì sono stati poi scortati, ieri, dall’esercito dentro Israele fino alla Cisgiordania occupata. All’altezza di Gush Etzion, un grande blocco che comprende diverse colonie israeliane d’insediamento nei Territori palestinesi, alcuni coloni hanno tentato di bloccare il passaggio per evitare che gli autobus arrivassero a Betlemme. Il tentativo di blocco è avvenuto in risposta all’appello di uno dei leader dei coloni, Shlomo Ne’eman, che ha dichiarato: “Forniamo sempre più gesti caritatevoli e ci assicuriamo che gli aiuti vengano trasferiti a un gruppo di assassini, quando cittadini innocenti tra cui donne, bambini, anziani e malati sono trattenuti da queste persone malvagie”.
I bambini e le bambine rimasti orfani a Gaza sono almeno 19.000 secondo i dati dell’UNICEF. Circa 12.900 sono stati uccisi. L’SOS Children’s Villages – Palestine aveva dichiarato, due mesi dopo l’inizio degli attacchi, il 21 novembre 2023, che diversi bambini, ragazzi e genitori legati al programma erano stati uccisi dai bombardamenti e che la preoccupazione per l’incolumità del proprio personale era molto alta, soprattutto dopo che due alloggi utilizzati dall’associazione internazionale erano stati completamente distrutti dalle bombe. Pagine Esteri
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HAITI. Il Primo Ministro si dimette, le bande criminali controllano il Paese
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Pagine Esteri, 12 marzo 2024. Il Primo Ministro haitiano Ariel Henry ha dichiarato questa mattina di voler rassegnare le proprie dimissioni in seguito alle azioni delle bande criminali che hanno sconvolto il Paese. Henry è premier di fatto, nonostante nel Paese non si tengano elezioni da 8 anni.
Il 2024 è cominciato con le proteste che chiedevano al governo, considerato da molti corrotto e impotente, di lasciare il potere, assunto senza il voto. Henry era andato in Kenya per firmare un accordo per l’invio di truppe militari ad Haiti quando le bande criminali, guidate dall’ex poliziotto Jimmy Cheriziér alias Barbecue, hanno assalito carceri e aeroporti, impedendo al premier di ritornare in patria. “Il governo che sto guidando si dimetterà immediatamente dopo l’installazione di un consiglio di transizione”, ha dichiarato Henry. “Sto chiedendo a tutti gli haitiani di rimanere calmi e di fare tutto ciò che va fatto perché la pace e la stabilità tornino il più velocemente possibile”.
Per saperne di più → HAITI. Le bande criminali creano il caos, il primo ministro fugge in esilio a Portorico
di Davide Matrone –
Pagine Esteri, 8 marzo 2024. [b]Precedenti storici. Haiti, il paese più povero dell’emisfero occidentale ripiomba nuovamente nel caos e nell’incertezza assoluta. Eppure questa nazione registra nella sua gloriosa storia avvenimenti di grande rilievo a livello internazionale. Haiti diede i natali al primo “Giacobino nero”, Toussaint de l’Overture denominato anche il Napoleone nero che a capo di un esercito di ribelli afrodiscendenti sconfisse l’esercito colonizzatore francese. Con la Rivoluzione Haitiana, ispirata ai principi della Rivoluzione Francese, si aprì una nuova fase per il Paese indipendente con la formazione di un Governo composto totalmente da uomini neri e liberi provenienti dalle fila degli insorti della prima sollevazione armata dell’anno 1791. “Oggi siamo liberi perché siamo i più forti” disse il generale Toussaint de l’Overture nel 1801, considerato ancora oggi il Padre della Patria. Tuttavia, dopo pochi decenni la libertà e l’indipendenza conquistata con la Francia vennero attentate dall’intervento degli Stati Uniti con l’applicazione della famosa Dottrina Monroe del 1823 e dall’invasione militare nel 1915. Di lì in avanti per l’ex Hispaniola non c’è stata più pace, fino a sprofondare agli ultimi posti delle classifiche internazionali, con indici di povertà, malnutrizione infantile, disoccupazione, tassi di omicidi e violenze sulle donne tra i più alti di tutto il continente americano.
Il Primo Ministro di fatto Ariel Henry fugge dal paese dopo le scorribande dei gruppi criminali nella capitale
In questi ultimi giorni nel paese c’è una grave e profonda instabilità politica e sociale. Il lider delle bande criminali, l’ex poliziotto Jimmy Cheriziér alias Barbecue oggi è un attore da non sottovalutare, il boss dell’alleanza della Federazione delle pandillas di Haiti “G9”. Nei giorni scorsi aveva dichiarato che avrebbe attaccato con le sue bande i due sistemi penitenziari più grandi della capitale Port au Prince, e l’ha fatto, liberando circa 3700 detenuti di diverso calibro. L’atto di guerra delle bande criminali era stato la risposta all’accordo siglato dal Primo Ministro Henry con il governo del Kenya per far arrivare sull’isola un contingente di militari kenioti per sedare le scorribande della criminalità organizzata del Paese. Il Primo Ministro, dopo le minacce dei criminali non è poi più potuto rientrare nel Paese. Ha cercato prima rifugio nella vicina Repubblica Domenicana, dove gli è stata rifiutata l’autorizzazione ad entrare. Quindi ha optato per il Portorico dove oggi si trova in esilio. Non può tornare ad Haiti: il lider delle bande criminali, Jimmy Cheriziér, ha dichiarato che se il presidente Henry non si dimette si compirà un genocidio e che se la Comunità Internazionale continuerà ad appoggiarlo, ci sarà una guerra civile. Jimmy Cheriziér nella giornata del 7 marzo ha dichiarato ai giornali di tutto il mondo accorsi sull’isola in una conferenza stampa improvvisata: “Ci sono zone strategiche che stiamo disputandoci affinché si convertano in nostri territori. A breve cominceremo la lotta contro il sistema vigente per avere il paese che vogliamo e cioè una Haiti con occupazione per tutti, con sicurezza ed educazione gratis per tutti. Un paese senza discriminazione sociale dove tutte le persone possono raggiungere la posizione sociale ed economica che si meritano”. Queste dichiarazioni sembrano un programma politico per una campagna elettorale che, viste le condizioni, comincerà presto. Dal 2016 non si svolgono regolari elezioni nel Paese e dalla morte dell’ex Presidente Moises, ucciso nel luglio del 2021, l’attuale Primo Ministro di fatto non ha mai organizzato indetto votazioni. La convocazione di nuove elezioni e l’arrivo di una missione di appoggio (l’ennesima) alle forze di sicurezza sembra essere la via d’uscita alla grave crisi. Non sappiamo ancora se Cheriziér si candiderà o se appoggerà qualche candidato ma certamente la criminalità nell’isola di Haiti – come in altri paesi del continente – sta diventando purtroppo un attore importante che influisce nella vita politica, economica e sociale di ogni nazione americana.
Per saperne di più, Pagine Esteri ha contattato Robby Glessiel attivista dei diritti umani haitiano che ci ha dato una testimonianza dal Paese.
pagineesteri.it/wp-content/upl…
Qual è la situazione ad Haiti?
Non c’è molta differenza tra quello che sta passando ora e tutto quello che è successo l’anno scorso. Gli obiettivi del governo di fatto erano di garantire un clima di sicurezza e di organizzare le elezioni. Niente di questo è stato fatto dal momento dell’assunzione del potere nel 2021.
Sono già 8 anni che non si convocano elezioni e oggi ci ritroviamo con un assoluto vuoto istituzionale. Il 2024 è cominciato con molte proteste che chiedevano al governo di lasciare il potere, assunto senza il voto. Il Primo Ministro di fatto è andato in Kenya per firmare un accordo per l’invio di truppe militari ad Haiti mentre il paese si trovava in una situazione caotica.
Le bande e i gruppi criminali oggi controllano l’80% della capitale e la settimana scorsa avevano annunciato una grande agitazione armata con lo scopo di liberare i detenuti delle due grandi carceri del paese. L’hanno detto e l’hanno fatto. La notte tra sabato 2 e la domenica 3 Marzo hanno svuotato la principale prigione di Port au Prince liberando migliaia di detenuti tra cui criminali di alto profilo che oggi si sono arruolati nelle bande delle due grandi città del paese. La situazione odierna ad Haiti è di totale incertezza, non c’è nessuna comunicazione reale da parte di questo governo, c’è un silenzio totale. Le uniche voci che si ascoltano sono le voci dei gruppi criminali e di alcuni membri delle opposizioni politiche.
Il Primo Ministro del paese ha provato a fuggire verso la Repubblica Domenicana ma non ha avuto l’autorizzazione. Ora dov’è?
Dopo aver firmato l’accordo con il governo del Kenya, il Primo Ministro doveva ritornare ad Haiti ma la situazione nel paese è degenerata e non gli è stato permesso il ritorno in patria: sapendo del suo arrivo, le bande hanno attaccato i due principali aeroporti internazionali di Haiti Quindi, in un primo momento il premier ha optato per l’esilio nella vicina Repubblica Domenicana ma il presidente domenicano non ha concesso l’autorizzazione perché non vuole impicciarsi in problemi che non gli riguardano. Secondo la stampa haitiana, da ieri notte il Primo Ministro si troverebbe nell’isola di Portorico. Ora non si sa se da Portorico intenderà viaggia per raggiungere Haiti. Quello che si dice oggi è che il Primo Ministro sta ricevendo molte pressioni da parte della comunità internazionale perché rinunci al suo ruolo. Ufficialmente non c’è nessun comunicato da parte del Governo per spiegare cosa farà il premier, dove si trova e quando e come ritornerà ad Haiti. Pagine Esteri
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China Briefing – Produrre nell’entroterra cinese: un’alternativa al reshoring
Come scongiurare il reshoring. Le province interne della Cina stanno rapidamente diventando il nuovo centro dell’industria manifatturiera del Paese, come dimostra la crescita delle esportazioni dalle province centrali e occidentali
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In Cina e Asia – Nazionalisti contro il gigante dell’acqua Nongfu Spring
Nazionalisti contro il gigante dell’acqua Nongfu Spring Gli Usa rafforzano le relazioni commerciali nell’Asia-Pacifico Xinjiang. Applicazione retroattiva della legge contro crimini religiosi Nazionalisti contro il gigante dell’acqua Nongfu Spring Lotta alla criminalità finanziaria: nel 2023 oltre 340 accuse di corruzione Cina, più personale e riforme per migliorare la risposta alle malattie infettive Corea del nord, visita eccezionale del viceministro degli ...
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L’Altra Asia – La raccolta di dati biometrici e digitali, per il Vietnam che verrà
In Vietnam i cittadini potranno (o forse dovranno) fornire i propri dati biometrici per le nuove carte d'identità, mentre aumenta la repressione dell'attivismo.
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In Cina e Asia – Nel 2023 gli investimenti cinesi nell’Asia-Pacifico segnano un +37%
Nel 2023 aumento del 37% degli investimenti cinesi nell'Asia-Pacifico
Crisi immobiliare, la Cina è pronta a lasciare "fallire" le aziende insolventi
Cina, lo scrittore Premio Nobel Mo Yan preso di mira dai nazionalisti
La Corea del Nord avrebbe sviluppato armi e tecnologie militari con il supporto di paesi terzi
Cina, Alipay e WeChat Pay facilitano le operazioni di pagamento agli stranieri
Usa, approvati in ritardo finanziamenti a Isole Marshall, Micronesia e Palau
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HAITI. Le bande criminali creano il caos, il primo ministro fugge in esilio a Portorico
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di DavideMatrone – [/b]
Pagine Esteri, 8 marzo 2024. [b]Precedenti storici. Haiti, il paese più povero dell’emisfero occidentale ripiomba nuovamente nel caos e nell’incertezza assoluta. Eppure questa nazione registra nella sua gloriosa storia avvenimenti di grande rilievo a livello internazionale. Haiti diede i natali al primo “Giacobino nero”, Toussaint de l’Overture denominato anche il Napoleone nero che a capo di un esercito di ribelli afrodiscendenti sconfisse l’esercito colonizzatore francese. Con la Rivoluzione Haitiana, ispirata ai principi della Rivoluzione Francese, si aprì una nuova fase per il Paese indipendente con la formazione di un Governo composto totalmente da uomini neri e liberi provenienti dalle fila degli insorti della prima sollevazione armata dell’anno 1791. “Oggi siamo liberi perché siamo i più forti” disse il generale Toussaint de l’Overture nel 1801, considerato ancora oggi il Padre della Patria. Tuttavia, dopo pochi decenni la libertà e l’indipendenza conquistata con la Francia vennero attentate dall’intervento degli Stati Uniti con l’applicazione della famosa Dottrina Monroe del 1823 e dall’invasione militare nel 1915. Di lì in avanti per l’ex Hispaniola non c’è stata più pace, fino a sprofondare agli ultimi posti delle classifiche internazionali, con indici di povertà, malnutrizione infantile, disoccupazione, tassi di omicidi e violenze sulle donne tra i più alti di tutto il continente americano.
Il Primo Minsitro di fatto Ariel Henry fugge dal paese dopo le scorribande dei gruppi criminali nella capitale
In questi ultimi giorni nel paese c’è una grave e profonda instabilità politica e sociale. Il lider delle bande criminali, l’ex poliziotto Jimmy Cheriziér alias Barbecue oggi è un attore da non sottovalutare, il boss dell’alleanza della Federazione delle pandillas di Haiti “G9”. Nei giorni scorsi aveva dichiarato che avrebbe attaccato con le sue bande i due sistemi penitenziari più grandi della capitale Port au Prince, e l’ha fatto, liberando circa 3700 detenuti di diverso calibro. L’atto di guerra delle bande criminali era stato la risposta all’accordo siglato dal Primo Ministro Henry con il governo del Kenya per far arrivare sull’isola un contingente di militari kenioti per sedare le scorribande della criminalità organizzata del Paese. Il Primo Ministro, dopo le minacce dei criminali non è poi più potuto rientrare nel Paese. Ha cercato prima rifugio nella vicina Repubblica Domenicana, dove gli è stata rifiutata l’autorizzazione ad entrare. Quindi ha optato per il Portorico dove oggi si trova in esilio. Non può tornare ad Haiti: il lider delle bande criminali, Jimmy Cheriziér, ha dichiarato che se il presidente Henry non si dimette si compirà un genocidio e che se la Comunità Internazionale continuerà ad appoggiarlo, ci sarà una guerra civile. Jimmy Cheriziér nella giornata del 7 marzo ha dichiarato ai giornali di tutto il mondo accorsi sull’isola in una conferenza stampa improvvisata: “Ci sono zone strategiche che stiamo disputandoci affinché si convertano in nostri territori. A breve cominceremo la lotta contro il sistema vigente per avere il paese che vogliamo e cioè una Haiti con occupazione per tutti, con sicurezza ed educazione gratis per tutti. Un paese senza discriminazione sociale dove tutte le persone possono raggiungere la posizione sociale ed economica che si meritano”. Queste dichiarazioni sembrano un programma politico per una campagna elettorale che, viste le condizioni, comincerà presto. Dal 2016 non si svolgono regolari elezioni nel Paese e dalla morte dell’ex Presidente Moises, ucciso nel luglio del 2021, l’attuale Primo Ministro di fatto non ha mai organizzato indetto votazioni. La convocazione di nuove elezioni e l’arrivo di una missione di appoggio (l’ennesima) alle forze di sicurezza sembra essere la via d’uscita alla grave crisi. Non sappiamo ancora se Cheriziér si candiderà o se appoggerà qualche candidato ma certamente la criminalità nell’isola di Haiti – come in altri paesi del continente – sta diventando purtroppo un attore importante che influisce nella vita politica, economica e sociale di ogni nazione americana.
Per saperne di più, Pagine Esteri ha contattato Robby Glessiel attivista dei diritti umani haitiano che ci ha dato una testimonianza dal Paese.
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Qual è la situazione ad Haiti?
Non c’è molta differenza tra quello che sta passando ora e tutto quello che è successo l’anno scorso. Gli obiettivi del governo di fatto erano di garantire un clima di sicurezza e di organizzare le elezioni. Niente di questo è stato fatto dal momento dell’assunzione del potere nel 2021.
Sono già 8 anni che non si convocano elezioni e oggi ci ritroviamo con un assoluto vuoto istituzionale. Il 2024 è cominciato con molte proteste che chiedevano al governo di lasciare il potere, assunto senza il voto. Il Primo Ministro di fatto è andato in Kenya per firmare un accordo per l’invio di truppe militari ad Haiti mentre il paese si trovava in una situazione caotica.
Le bande e i gruppi criminali oggi controllano l’80% della capitale e la settimana scorsa avevano annunciato una grande agitazione armata con lo scopo di liberare i detenuti delle due grandi carceri del paese. L’hanno detto e l’hanno fatto. La notte tra sabato 2 e la domenica 3 Marzo hanno svuotato la principale prigione di Port au Prince liberando migliaia di detenuti tra cui criminali di alto profilo che oggi si sono arruolati nelle bande delle due grandi città del paese. La situazione odierna ad Haiti è di totale incertezza, non c’è nessuna comunicazione reale da parte di questo governo, c’è un silenzio totale. Le uniche voci che si ascoltano sono le voci dei gruppi criminali e di alcuni membri delle opposizioni politiche.
Il Primo Ministro del paese ha provato a fuggire verso la Repubblica Domenicana ma non ha avuto l’autorizzazione. Ora dov’è?
Dopo aver firmato l’accordo con il governo del Kenya, il Primo Ministro doveva ritornare ad Haiti ma la situazione nel paese è degenerata e non gli è stato permesso il ritorno in patria: sapendo del suo arrivo, le bande hanno attaccato i due principali aeroporti internazionali di Haiti Quindi, in un primo momento il premier ha optato per l’esilio nella vicina Repubblica Domenicana ma il presidente domenicano non ha concesso l’autorizzazione perché non vuole impicciarsi in problemi che non gli riguardano. Secondo la stampa haitiana, da ieri notte il Primo Ministro si troverebbe nell’isola di Portorico. Ora non si sa se da Portorico intenderà viaggia per raggiungere Haiti. Quello che si dice oggi è che il Primo Ministro sta ricevendo molte pressioni da parte della comunità internazionale perché rinunci al suo ruolo. Ufficialmente non c’è nessun comunicato da parte del Governo per spiegare cosa farà il premier, dove si trova e quando e come ritornerà ad Haiti. Pagine Esteri
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In Cina e Asia – Usa, TikTok a rischio ban, Biden rivendica successi contro la Cina
I titoli di oggi: Usa, TikTok a rischio ban, Biden rivendica successi contro la Cina Hong Kong: consegnata la bozza della legge sulla sicurezza nazionale Xi chiede all’esercito di coordinare difesa marittima e sviluppo economico, e riforme alla difesa tecnologica Le aziende statali cinesi dovranno smettere di utilizzare tecnologie informatiche occidentali entro il 2027 India, mobilitazione di truppe senza precedenti ...
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Due sessioni e multipolarizzazione globale
Racconto e analisi della conferenza stampa annuale sulla politica estera e le relazioni internazionali del ministro degli Esteri Wang Yi, tornato nel ruolo dopo la meteora Qin Gang. Prima della fine della lianghui verrà approvata la revisione della legge sul consiglio di stato
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27 prigionieri di Gaza morti nelle strutture militari israeliane
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 7 marzo 2024. Sono almeno 27 i prigionieri palestinesi di Gaza morti all’interno delle strutture militari israeliane dal 7 ottobre, secondo i dati pubblicati dal quotidiano israeliano Haaretz. Non si sa quanti abitanti della Striscia siano stati portati nel campo di prigionia nella base militare di Sde Teiman, al sud di Israele, vicino Beersheba. Ma si sa cosa hanno raccontato coloro che da quel centro sono stati rilasciati. I detenuti vivono in condizioni estreme, ammanettati e bendati per tutto il tempo, ammassati in un centro costruito come prigione “temporanea” per interrogare e poi trasferire gli indagati ma trasformato, dopo il 7 ottobre, in un campo di prigionia in cui non è garantita assistenza legale, senza strutture adeguate e nessun controllo sulle condizioni di salute. Le persone ritornate a Gaza hanno raccontato di aver subito torture, hanno mostrato lividi, ferite. In base a un emendamento di legge approvato durante la guerra, i detenuti possono essere trattenuti e sottoposti a interrogatori per due mesi e mezzo (75 giorni) senza dover apparire dinanzi a un giudice.
Secondo i dati del servizio carcerario israeliano al 1° Marzo 2024 erano 793 i residenti di Gaza in detenzione amministrativa nelle carceri israeliane. A questi si aggiungono coloro che si trovano nei centri militari, il cui numero le autorità non hanno mai voluto comunicare.
Prigionieri palestinesi di Gaza. (X)
The New York Times ha anticipato un’indagine dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi, non ancora pubblicata e che conterrà le testimonianze dei detenuti gazawi in Israele. Secondo il rapporto, delle migliaia di persone arrestate a Gaza e portate nei centri militari, tra le quali almeno 1.000 civili, in molti hanno denunciato di essere stati picchiati, spogliati, derubati, bendati, abusati sessualmente.
Il quotidiano israeliano Haaretz ha potuto confermare attraverso proprie fonti le testimonianze di percosse e abusi durante e dopo gli interrogatori. Sono numerosi i video girati all’interno di Gaza che raccolgono i racconti di persone rilasciate dall’esercito che, tornate nella Striscia, hanno spiegato con dovizia di particolari ciò che hanno subito nelle settimane o nei mesi di detenzione. Alcuni sono medici, giornalisti, insegnanti. Le denunce di brutalità cominciano dal momento in cui vengono fermati, e continuano durante gli interrogatori compiuti all’interno di Gaza e poi con gli spostamenti e la carcerazione presso le strutture militari che accolgono adulti ma anche minori e bambini.
I decessi dei prigionieri sono avvenuti non solo a Sde Teiman ma anche ad Anadot, vicino Gerusalemme. Si tratta di una base della polizia di frontiera convertita in un altro campo di prigionia, dedicato questa volta ai palestinesi di Gaza che il 7 ottobre si trovavano in Israele con un regolare permesso di lavoro. Le licenze sono state revocate a centinaia di lavoratori gazawi, i quali sono stati poi arrestati e portati nella base militare nonostante non abbia le strutture e le capacità necessarie ad accogliere un numero tanto elevato di persone. Sono state improvvisate celle simili a gabbie, circondate da recinzioni, senza letti, coperte, senza cibo. In seguito a una denuncia un giudice israeliano ha confermato che le condizioni in cui sono tenuti i lavoratori gazawi a Anadot sono “inadatte agli esseri umani”. Haaretz ha raccolto testimonianze sul precario stato di salute di alcuni dei detenuti che hanno riportato ferite durante la prigionia ma che non sono stati curati. Il trasferimento delle persone malate o ferite negli ospedali è stato ripetutamente negato dai militari.
L’esercito israeliano ha confermato le morti di alcuni detenuti ma si è rifiutato di dare numeri precisi e spiegazioni sulle circostanze, limitandosi a dire che alcuni di loro sono “arrivati in detenzione” feriti o in “condizioni sanitarie complesse”. I portavoce dell’esercito hanno inoltre dichiarato di aver aperto delle inchieste. Ad indagare saranno, però, gli stessi militari responsabili delle strutture e dei loro prigionieri. Pagine Esteri
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In Cina e in Asia – L’Ue impone dazi sulle auto elettriche cinesi
L'Ue impone dazi sulle auto elettriche cinesi
Il Partito comunista diventa più forte nel Consiglio di Stato
L’inviato cinese Li Hui in Europa dà eco alla propaganda russa sulla guerra in Ucraina
Corea del Nord, prigionieri politici costretti a lavorare negli impianti nucleari
L’India ha una nuova base navale a poca distanza dalle Maldive
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Ucraina. La “linea Zelensky” non tiene, Kiev teme il tracollo
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 6 marzo 2024 – Sostenuti dai consiglieri e dagli “specialisti” dell’Alleanza Atlantica e dai servizi statunitensi e britannici, i comandi militari ucraini cercano di colpire le infrastrutture all’interno del territorio russo – in particolare nella regione di Belgorod – e recentemente sarebbero riusciti ad affondare il pattugliatore russo Sergey Kotov nel Mar Nero.
Sul terreno, però, le forze armate russe continuano a conquistare terreno, e la fine della lunga quanto inefficace controffensiva ucraina ha lasciato spazio ad un’avanzata delle forze di Mosca che dura ormai da settimane.
La “linea Zelensky” non tiene
Lo stallo di fondo tra le forze dei due schieramenti permane, ma nelle regioni orientali dell’Ucraina, in particolare nel Donbass, le forze di Kiev faticano anche solo a mantenere le posizioni rafforzate negli ultimi mesi dalla realizzazione di linee difensive fortificate, trincee e campi minati. A detta degli esperti, però, la cosiddetta “linea Zelensky” è incompleta e spesso si rivela inefficace di fronte agli attacchi delle forze di invasione.
I russi hanno più uomini, più mezzi e più munizioni e continuano a rosicchiare terreno dopo aver conquistato Avdiivka e altre località qualche chilometro più a ovest. Anche in direzione di Kharkiv le difese ucraine sono sottoposte a continui assalti e la situazione a Kupyansk si è fatta difficile, così come a Robotyne, verso Zaporizhzhya.
Zelensky visita la linea del fronte a Kupyansk
Mancano truppe fresche
A pesare, oltre alla crescente penuria di munizioni, è anche l’incapacità da parte del governo ucraino di varare una nuova legge capace di reclutare truppe fresche da inviare al fronte. Nonostante gli impegni presi, Zelensky e i nuovi vertici militari ucraini non sono in grado di accordarsi sulla strategia da adottare, scrive il “Washington Post”. Secondo il quotidiano statunitense, il governo ucraino non è in grado di formulare un piano di mobilitazione efficace nonostante «da mesi stia montando l’allarme per la grave carenza di truppe qualificate al fronte». Nel frattempo le forze armate sono costrette a dipendere da «un’accozzaglia di iniziative di reclutamento» forzoso, che «hanno diffuso il panico tra gli uomini in età da combattimento».
Molti di loro, dato il divieto di lasciare il Paese (spesso aggirabile pagando una mazzetta ai funzionari e alle guardie di frontiera) «tentano talvolta di darsi alla macchia» nel tentativo di evitare l’arruolamento.
Nel frattempo la bozza di una legge che mira ad abbassare l’età minima per la coscrizione da 27 a 25 anni, riducendo inoltre le possibilità di evitare la mobilitazione per studenti e lavoratori, è bloccata in parlamento, gravata da più di 4 mila emendamenti.
Neanche la sostituzione dell’ex comandante in capo delle forze militari ucraine Valery Zaluzhny, inviso a Zelensky, con il generale Oleksandr Syrsky – che a sua volta ha sostituito molti dei responsabili militari a lui sottoposti – ha impresso la necessaria svolta, impossibile senza un provvedimento legislativo che mobiliti forze fresche e giovani.
Secondo il “Washington Post”, inoltre, del milione di uomini mobilitati negli ultimi due anni, solo 300 mila sarebbero stati effettivamente inviati al fronte. La maggior parte di questi ultimi sarebbero stanchi e sfiduciati sull’andamento del conflitto e tra le linee ucraine regnerebbe il pessimismo, se non il disfattismo. Una stanchezza strategica, e non più contingente.
Secondo numerosi analisti e media, il rischio è che le difficoltà incontrate dalle forze armate ucraine a tenere le linee teoricamente fortificate possa rappresentare il segno che Kiev sta rischiando il tracollo.
Governo in difficoltà
A due anni dall’invasione russa, l’abusata retorica di Zelensky su una “vittoria assoluta e certa contro Mosca” rappresenta ormai per molti una prospettiva scarsamente credibile.
Diversi parlamentari ed esponenti politici ucraini criticano ormai apertamente il primo cittadino, accusandolo di incapacità e di raccontare favole alla popolazione rispetto all’andamento del conflitto per non mettere ulteriormente a rischio la sua residua popolarità.
A far infuriare alleati e competitori – sempre più numerosi – la presidenza della Verkhovna Rada (il parlamento monocamerale di Kiev) ha rimandato le previste riunioni programmate per il 6, il 7 e l’8 marzo. Di fatto il parlamento monocamerale di Kiev non dovrebbe riunirsi in sessione plenaria per quasi un mese. Il lungo stop ai lavori, giustificato con la necessità di concentrare le energie sulla redazione di un fondamentale rapporto destinato al Congresso di Washington, nasconderebbe invece una crisi parlamentare indotta dall’incapacità da parte del presidente e dell’esecutivo di gestire una situazione sempre più complicata.
Prigionieri di guerra ucraini
Washington prepara la fuga di Zelensky?
Secondo molte fonti la situazione a Kiev sarebbe più grave di quanto traspare, al punto che il Dipartimento della Difesa di Washington starebbe studiando un piano per permettere al presidente Zelensky – scampato ieri per 150 metri ad un bombardamento russo su Odessa mentre era in compagnia del primo ministro ellenico – di abbandonare il paese nell’eventualità di un collasso del suo governo e di un crollo delle difese ucraine. Almeno è quanto sostiene Stephen Bryen, ex funzionario della commissione esteri del Senato Usa ed ex vice sottosegretario per la Difesa statunitense, in un editoriale pubblicato dal quotidiano “Asia Times”.
Secondo il quotidiano asiatico, se le difese ucraine dovessero crollare, a Kiev potrebbe insediarsi un esecutivo disponibile al negoziato con Mosca ed a quel punto occorrerebbe mettere in sicurezza l’attuale presidente.
Secondo Bryen l’amministrazione Biden vorrebbe però assolutamente scongiurare uno scenario simile fino alle elezioni presidenziali per evitare un fallimento politico anche più grave del ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan nel 2021, che ipotecherebbe del tutto le possibilità di vittoria dei democratici.
L’unico modo per evitare un sempre più probabile cedimento ucraino, secondo Bryen, sarebbe rappresentato da un intervento massiccio e più o meno diretto delle forze dei paesi della Nato, o comunque di alcuni di essi, da giustificare magari attraverso una provocazione che presenti l’escalation come obbligata.
Una mossa del genere, però, avrebbe conseguenze enormi sull’allargamento del conflitto tra Alleanza Atlantica e Russia e al momento non sembra che Washington e i suoi più stretti alleati siano disponibili a imbarcarsi in un conflitto su larga scala con Mosca. Certo, le dichiarazioni del capo del Pentagono Lloyd Austin di qualche giorno fa – «se l’Ucraina cade credo davvero che la Nato entrerà in guerra con la Russia» ha detto pochi giorni fa Lloyd Austin – sembrano indicare il contrario.
Che le affermazioni di Austin e di Bryen siano fondate e vadano quindi prese sul serio è difficile dirlo, anche se sicuramente l’ex funzionario USA mantiene importanti canali all’interno degli apparati di Washington. In ogni caso, se anche quella di Bryen fosse una provocazione, il suo editoriale la dice lunga sul clima che si respira a Kiev e alla Casa Bianca. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto e Berria
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«È tutto nostro». Primo avamposto della destra messianica a Gaza
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di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 6 marzo 2024 – Giovedì scorso, mentre i palestinesi contavano i morti della strage in via Rashid e trasportavano i feriti in ospedali privi di tutto, a ridosso di ciò che resta del valico settentrionale di Erez, circa 200 coloni ed estremisti di destra israeliani allestivano un loro avamposto all’interno di Gaza. Una di loro, Mechi Fendel, ha spiegato in inglese con accento newyorkese che lei (giunta dagli Usa) ha il dovere religioso di (ri)portare sotto il controllo ebraico la Striscia di Gaza sulla quale, ha precisato, i palestinesi che pure ci vivono da secoli non hanno alcun diritto. Solo dopo alcune ore, i soldati rimasti sino a quel momento a guardare, sono intervenuti e hanno sgomberato i coloni. È passato un mese dalla mega «Conferenza per la vittoria di Israele» tenuta a Gerusalemme dal movimento dei coloni, con la presenza di 10 ministri e 27 deputati, per chiedere la colonizzazione di Gaza, e la destra messianica torna a segnalare la sua forza ed influenza oltre alla ferma intenzione di ricostruire gli insediamenti smantellati ed evacuati nel 2005 per ordine dello scomparso premier Ariel Sharon.
Quello del 29 febbraio è stato il tentativo più significativo dal 7 ottobre di ristabilire colonie ebraiche nella Striscia. E con ogni probabilità verrà ripetuto. Una parte dei coloni è entrata per centinaia di metri nel territorio di Gaza. Altri 20 sono penetrati nello spazio tra i due muri che ingabbiano la Striscia e hanno iniziato a erigere due strutture utilizzando i materiali che avevano portato con loro: assi e pali di legno e lamiere di ferro per i tetti. Avevano già pronto il nome della colonia, Nuovo Nisanit, dal nome di uno degli insediamenti evacuati nel 2005. Solo più tardi i militari hanno riportato indietro i giovani che sono stati accolti dagli applausi di tutti gli altri coloni ed attivisti di destra. Poi la folla ha cominciato a scandire «È tutto nostro», in riferimento a Gaza.
L’avamposto dei coloni israeliani dentro Gaza
Presi dalle notizie drammatiche che arrivavano dal luogo della strage alla periferia di Gaza city, i media internazionali hanno minimizzato o ignorato l’accaduto ad Erez. Eppure, quanto si è visto dimostra che, forte dell’appoggio silenzioso del governo, l’idea di colonizzare Gaza non è affatto morta, anzi. «Il governo – ha detto Ariel Pozen, uno dei presenti – deve comprendere quello che la maggioranza degli ebrei (israeliani) ha già capito: siamo qui ed è tutto nostro. Non esiste ostacolo politico o internazionale. Non dobbiamo considerare nessun altro. È una questione interna. Dobbiamo andare a Gaza, distruggere tutto il terrore lì e costruire lì». Molti dei presenti appartenevano alle stesse organizzazioni che nelle ultime settimane hanno tentato – spesso con successo – di impedire l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza. Ai loro occhi, esiste un legame tra lo stop degli aiuti ai palestinesi e il ripristino degli insediamenti a Gaza: entrambi sono visti come necessari per una «vittoria» decisiva.
Leggere l’accaduto come un «atto simbolico» sarebbe un errore. In Cisgiordania molte colonie sono state erette proprio dopo questi blitz di pochi «giovani delle colline». Ed è questo che accadrà a Gaza se il governo di destra religiosa al potere deciderà di lasciar fare, incurante delle pressioni internazionali. Non è un caso che l’anziano colono Baruch Marzel, giunto giovedì da Hebron, abbia detto che l’azione compiuta a Gaza gli ricorda il «primo insediamento a Sebastia». Cinquant’anni fa un gruppo di coloni del movimento Gush Emunim divenne celebre quando tentò di stabilire un insediamento ebraico: resistette agli ordini di sgombero del governo finché non l’ebbe vinta. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto
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In Cina e Asia – Il premier Li promuove un nuovo modello di diplomazia
Due sessioni: il premier Li promuove un nuovo modello di diplomazia
L'UE convalida accordo provvisorio contro i prodotti legati al lavoro forzato
Corea del Sud sorpassata dalla Cina sullo sviluppo tech, il report di Seul
Tensione nel mar Cinese meridionale, le Filippine accusano Pechino
Le Maldive siglano accordo per la sicurezza con Pechino
Nepal, pronta la coalizione del nuovo governo
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Due sessioni: segnali sul futuro della Cina
Target di crescita del pil, stimoli ai consumi, autosufficienza tecnologica, budget militare e segnali su Taiwan: che cosa emerge dal rapporto annuale di lavoro del premier cinese Li Qiang
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VIDEO. A Gaza si muore di fame e 1500 camion di aiuti sono fermi a Rafah
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Pagine Esteri, 5 marzo 2024 – Almeno 1.500 camion carichi di aiuti umanitari per la popolazione di Gaza sono fermi in Egitto. Bloccati a Rafah, gli è impedito di entrare nella Striscia dove la fame ha raggiunto livelli gravissimi. Continua ad aumentare il numero dei bambini morti di stenti, così come gli anziani. A raccontarcelo è Meri Calvelli, cooperante della ong ACS, giunta al valico di Rafah assieme alla delegazione italiana che chiede il cessate il fuoco immediato e l’ingresso nella Striscia di aiuti umanitari senza alcuna limitazione.
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In Cina e Asia –
I titoli di oggi “Due sessioni” 2024: più tecnologia IA home-made e porte “sempre aperte al mondo” Summit ASEAN, la Malaysia accusa l’Occidente di “Cinofobia” Seul e Washington raddoppiano i soldati coinvolti in esercitazioni contro Corea del Nord Corea del Sud, hacker nordcoreani infiltrano produttore di microchip Nepal, cambia l’alleanza per formare il nuovo governo “Due sessioni” 2024: più tecnologia ...
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Qiu Miaojin e la lotta LGBT a Taiwan
Psicologa, scrittrice e attivista, Qiu Miaojin è stata una figura fondamentale per la comunità queer taiwanese, tanto da aver coniato un termine tutt’ora molto utilizzato
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ECUADOR. Continua la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici della Furukawa
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di Davide Matrone
Pagine Esteri, 5 marzo 2024 – Ci sono voluti quasi 4 anni di dura ed estenuante lotta, ma i lavoratori cominciano ora a raccogliere i primi frutti. Dopo i riconoscimenti simbolici e le scuse pubbliche da parte del Ministero del Lavoro, si è passati ai risarcimenti economici per i lavoratori. Tuttavia manca la piena attuazione di questi riconoscimenti.
Negli ultimi giorni il caso Furukawa S.A. è tornato di estrema attualità dopo la convocazione della multinazionale giapponese FURUKAWA S.A., da parte della Corte Costituzionale dell’Ecuador, all’udienza fissata per il prossimo 9 aprile. L’impresa dovrà rendere la propria versione dei fatti sul caso di schiavitù moderna e sulle gravi accuse avanzate dai legali dei lavoratori e delle lavoratrici.
Inoltre, la stessa Corte è chiamata a visionare le sentenze fin qui emesse e stabilire l’azione di protezione e riparazione per i danneggiati. In questa fase di congiuntura, il Comitato di Solidarietà “Furukawa mai più!” ha strategicamente attivato una raccolta firme a livello nazionale per coinvolgere maggiormente la società civile e pressare la Corte Costituzionale. Grazie al lavoro permanente del Comitato e a quest’ultima campagna, c’è maggiore attenzione da parte dell’opinione pubblica ecuadoriana che si attiva perche si giunga alla soluzione di un caso vergognoso. Effettivamente, parlare di schiavitù e di servitù della gleba in pieno secolo ventuno, è imbarazzante.
I legali delle vittime sono dovuti ricorrere alla Corte Costituzionale “dopo aver esaurite le risorse ordinarie e straordinarie dentro dell’ambito legale” così come lo provede l’articolo 94 della Costituzione politica dell’Ecuador.
Per saperne di più, Pagine Esteri ha contattato e intervistato Alejandro Morales, l’avvocato ecuadoriano che sta assistendo legalmente i lavoratori.
Quali sono i punti chiave che dovrà verificare la Corte rispetto al caso Furukawa S.A.?
Stabilire se effettivamente ci sia stata o no una forma contemporanea di schiavitù e/o servitù della gleba considerando che, nell’azione di protezione e nella sentenza di primo grado, viene riconosciuta la servitù della gleba, la violazione del diritto alla libertà e la proibizione della schiavitù.
I giudici della Corte Provinciale di Giustizia di Santo Domingo hanno escluso questa violazione, quindi è ora la Corte Costituzionale a dare il suo giudizio finale così come lo prevede nell’articolo 316 della Costituzione dell’Ecuador in quanto rappresenta “la massima istanza d’interpretazione della Costituzione, in merito ai trattati internazionali dei diritti umani ratificati dallo stato Ecuadoriano, attraverso le sue sentenze. Le sue decisioni avranno un carattere vincolante”.
Inoltre, la Corte Costituzionale, oltre alla revisione delle sentenze di azione di protezione si sta preoccupando di unificare le sentenze che abbiamo già vinto contro l’impresa giapponese Furukawa e di riconoscere anche il processo vinto presso la Difensoria del Pueblo.
Nel processo si è già stabilito un risarcimento in denaro ed un altro in 5 ettari di terra da consegnare ai lavoratori e alle lavoratrici colpite, tuttavia, la Corte Provinciale di Santo Domingo si è espressa dichiarando che questo risarcimento si unifichi solo in forma di denaro senza la concessione di terreni.
Come procede il processo di risarcimento economico integrale per i lavoratori?
Nel processo di protezione, che sarà rivisto dalla Corte, si emetteranno varie misure di riparazione integrale tanto materiali quanto immateriali. Ci sono state riparazioni simboliche come le scuse pubbliche eseguite dal Ministro del Lavoro nell’anno 2020. Tuttavia, ricordiamo anche che il giudice in prima istanza ha ordinato come misura di riparazione integrale un calcolo in soldi basato: sugli anni di prestazione lavorativa in FURUKAWA per ogni lavorato e lavoratrice, le condizioni di lavoro e di vita all’interno delle piantagioni, il deterioramento fisico in termini di salute, la violazione del diritto allo studio e a una salute dignitosa. Tutti questi elementi devono essere valutati in base a perizie precise. Inoltre, a questi risarcimenti in denaro si è stabilito che a tutti i lavoratori vengano consegnate dei terreni con un’estensione totale pari a 5 ettari. Tuttavia, la Corte Provinciale di Santo Domingo, come già detto, ha considerato che non è possibile realizzare un risarcimento in due misure e quindi si deve unificare il risarcimento in soldi. Al momento la liquidazione è già stata stabilita ma non c’é ancora nessuna risorsa. Attendiamo che si realizzi il pagamento. Anche questo dovrà accertare e stabilire la Corte Costituzionale. C’é anche una campagna di raccolta firme per esigere che la Corte intervenga e riconosca il risarcimento economico ai lavoratori. Inoltre, per chiedere che si attuino le misure di risarcimento integrali che sono state modificate parzialmente dalla Corte Provinciale di Giustizia di Santo Domingo.
C’é anche una campagna di raccolta firme per esigire che la Corte intervenga e riconosca il risarcimento economico ai lavoratori. Chi l’ha promossa e come prosegue?
Questa campagna è partita grazie al Comitato di Solidarietá “Mai più Furukawa” nel quale partecipano varie organizzazioni senza fine di lucro che difendono Diritti Umani in Ecuador. Al momento si sono raccoltre 250 firme a livello nazionale.
Qual è la posizione del governo di fronte al caso Furukawa?
La posizione dei differenti Ministeri dello Stato come quello della Salute, dell’Inclusione Economica e Sociale e del Lavoro è quello di negare le loro responsabilità e di negare la violazione dei diritti contro i lavoratori e lavoratrici da parte dell’impresa Furukawa. Tutti i Ministeri prima menzionati dichiarano di aver compiuto con la loro parte. Per esempio, nel caso del MIES (Ministero dell’Inclusione Economica e Sociale) afferma di aver consegnato i boni di solidarietà umana ai lavoratori, tuttavia queste assegnazioni vengono realizzate con criterio abbastanza strano, a nostro avviso. Per esempio, una famiglia che vive in povertà e che riesce a comprare un televisore, automaticamente perde l’accesso al bono. Con questi meccanismi si evidenzia e si dimostra la mancanza di conoscenza di ciò che significa effettivamente essere poveri. Nel caso del Ministero della Salute si dichiara di aver somministrato alcuni vaccini a gruppi isolati di lavoratori e lavoratrici e che si sono realizzate delle visite mediche molto puntuali e di forma isolata però in questo modo si evidenzia che non esiste un vero accesso alla salute per tutti e tutte. Inoltre, da parte del Governo esiste un doppio e contradditorio discorso. Di fronte agli organismi internazionali, come la Commissione Interamericana dei Diritti Umani, si dichiara che lo Stato e i suoi Dicasteri hanno compiuto con il proprio ruolo e dichiarano che tutte le vittime del caso Furukawa accedono ai loro diritti, però questo non è assolutamente vero. A questo si aggiunge la volontà di voler ridurre la platea di lavoratori e lavoratrici da risarcire. C’era un registro su cui c’erano 1200 persone che avevano vissuto e lavorato negli stabilimenti della multinazionale Furukawa S.A. eppure vengono considerati solo 223 lavoratori che richiedono il risarcimento ed altri 206 lavoratori che sono stati vittime di tratta di persone con fini di sfruttamento lavorativo. In tutti i modi, il giorno dell’udienza sono stati interpellati a partecipare tutti i lavoratori e le lavoratrici coinvolte nei casi di violazione di diritti lavorativi ed umani. Nonostante questo, siamo convinti che purtroppo il doppio e contradditorio discorso dello Stato non cambierà nelle aule processuali nel prossimo mese d’aprile. Pagine Esteri
La campagna realizzata dal Comitato Furukawa Mai Più!
Per sostenere la campagna
furukawanuncamas.org/accion-ur…
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Un finanziamento online per uscire dall’inferno di Gaza
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di Gabriel Blondel e Clara Hage – L’Orient Lejour*
(traduzione di Federica Riccardi)
“Sono stata a lungo riluttante all’idea di farlo farlo, ma è l’unico modo per salvare le nostre vite”. Tra due interruzioni di Internet, Farah si dedica al suo servizio di messaggistica WhatsApp. Quando la rete le permette di comunicare, si prende il tempo per scrivere quello che sta passando dal 13 ottobre, quando lei e la sua famiglia hanno deciso di lasciare la loro casa a Tel al-Hawa, una zona residenziale di Gaza City. Quando l’esercito israeliano ha annunciato che tutto il nord di Gaza sarebbe diventato un campo di battaglia, mio padre si è precipitato a cercare un appartamento a Rafah”, spiega la studentessa ventenne. Pensavamo che sarebbe stato solo per poche settimane, come nelle ultime guerre. Ma dopo qualche giorno abbiamo capito che questa non sarebbe stata come le altre.
Dopo aver perso la casa di famiglia, l’attività commerciale del padre (unica fonte di reddito della famiglia) e l’Università di al-Azhar (dove Farah studiava per laurearsi in inglese), la giovane donna teme che la sopravvivenza stessa della sua famiglia sia a rischio. “Finora eravamo preoccupati soprattutto per la situazione dei nostri parenti nel nord. Una delle mie cugine è stata colpita alla testa ad appena 10 anni”, racconta. Ma siamo sempre più in apprensione. Qualche giorno fa, un edificio molto vicino al nostro è stato bombardato, tanto che le finestre del nostro appartamento sono esplose.
Come gli 1,4 milioni di gazawi che si sono rifugiati a Rafah, la giovane donna teme le conseguenze di una potenziale offensiva dell’esercito israeliano nel sud dell’enclave. Inizialmente annunciata per l’inizio del Ramadan, previsto dal 10 marzo all’8 aprile, l’offensiva potrebbe essere rinviata a favore di una tregua osservata durante il mese sacro islamico, ancora in fase di negoziazione. Un momento di tregua che molti gazawi sperano di sfruttare per utilizzare l’unica via d’uscita ancora a loro disposizione: il famoso valico sotto controllo egiziano, che si può aprire solo a una condizione. “Dobbiamo pagare 7.000 dollari a persona, cioè almeno 35.000 dollari per poter evacuare me, i miei genitori, mio fratello, la mia sorellina”, spiega Farah.
“Non c’è altra scelta”
Corredata da foto, la giovane donna descrive l’entità della disperazione che deve affrontare su Gofundme, la piattaforma di crowdfunding su cui sempre più gazawi hanno deciso di lanciare la loro raccolta fondi online. Il sito, che prende una commissione del 16% su ogni donazione, ne conta più di mille. Le storie sono tutte uguali, con la loro parte di atrocità. La nostra dignità ci vieta di chiedere soldi, ma non avevo altra scelta che creare questo fondo”, dice. Qui a Gaza tutto è diventato inaccessibile, anche i beni di prima necessità. Ora che abbiamo esaurito i nostri risparmi, questa era l’unica soluzione per mantenere viva la speranza della mia famiglia”.
Come molte persone, Farah si è rivolta a un familiare che vive all’estero per raccogliere le donazioni ricevute sulla piattaforma, che copre solo 19 Paesi, principalmente in Occidente. Sebbene i suoi genitori abbiano ancora accesso al loro conto presso la Bank of Palestine, le restrizioni bancarie e la quantità limitata di contanti che circolano nella Striscia rendono molto difficile ricevere denaro. Per questo motivo la studentessa ha dovuto rivolgersi al cugino Mohammad, che ha lasciato Gaza circa dieci anni fa per andare in Canada, per ospitare il fondo. Egli è responsabile del trasferimento del denaro raccolto in Egitto, dove vivono altri parenti, una volta raggiunto un numero sufficiente di fondi. Dall’Egitto, questi intermediari verseranno il denaro a un’agenzia di viaggi, la Hala Travel, che negli anni ha ottenuto il monopolio di questo mercato lucrativo.
Se si esaminano le campagne partecipative, le variazioni dei prezzi esposti mostrano la portata di questo business noto come “tansiq” (coordinamento). Si tratta di un sistema informale, ma ormai istituzionalizzato, in base al quale i gazawi con passaporto attraversano il confine con il coordinamento delle guardie di frontiera egiziane, in cambio di una commissione. Ogni mattina, intorno alle 7, l’operazione consiste nel caricare circa 250 passeggeri, i cui nomi vengono annunciati all’ultimo momento su un’applicazione chiamata “Qurubat”, su un convoglio che attraversa il valico in direzione della capitale egiziana.
Si tratta di un mercato vampirizzato da Hala Travel, una delle tante società del Gruppo Organi, un vasto impero commerciale che prende il nome dal suo architetto Ibrahim el-Organi. Fedele seguace del presidente Sissi, che ha sostenuto nel suo colpo di Stato del 2013 come capo della milizia armata della tribù Tarabin, l'”uomo più ricco del Sinai” si è recentemente aggiudicato la gestione di un nuovo importante progetto edilizio attraverso un’altra delle sue società, Abna’ Sinai. Come rivelato dall’ONG Sinai Foundation for Human Rights, sono in costruzione diversi edifici lungo il confine con la Striscia di Gaza, tra i terminal di Rafah e Kerem Shalom. Il complesso, che sarebbe circondato da mura di cemento alte sette metri, potrebbe essere utilizzato per ospitare diverse migliaia di rifugiati palestinesi nel caso in cui l’Egitto dovesse far fronte a un esodo di massa di gazawi nel prossimo futuro.
Ma questa lenta evacuazione della popolazione dell’enclave non è una novità del 7 ottobre. All’epoca, l’agenzia offriva già collegamenti di sola andata per il Cairo dal terminal di Rafah a tariffe che variavano a seconda della buona volontà della compagnia e delle guardie di frontiera. Prima della guerra, lasciare Gaza era già una prova difficile, ma non quanto lo è oggi”, dice Mohammad el-Masri, un giornalista di Gaza. Per le donne, la procedura era più semplice: dovevano solo registrarsi in una lista d’attesa e, dopo un certo periodo di tempo, potevano partire. Gli uomini, invece, dovevano sempre passare per il “tansiq”. Il prezzo variava ogni mese, come il cambio di una valuta. Poteva scendere a 300 dollari e poi risalire a 1.500 dollari. Oggi le regole sono completamente cambiate: per ogni passaporto il prezzo è stato fissato a 7.000 dollari. Ma da quello che mi ha detto un amico appena partito, negli ultimi giorni è salito a 10.000″, conclude.
“Sono sicuro che mi aiuterai a uscire da qui”.
Questi prezzi, terribilmente gonfiati dall’esplosione della domanda (e dall’avidità delle guardie di frontiera) saranno imposti anche a Younes*, 28 anni. Bloccato alle porte dell’Egitto, come molti altri, guarda le donazioni cadere nel suo conto virtuale, sperando che alla fine raggiungano il suo obiettivo: 17.000 dollari. Il resto servirà a coprire i costi di installazione una volta arrivato al Cairo, mentre organizza il resto del suo viaggio. “Prima di tutto, mi scuso per il mio pessimo inglese, ma sono sicuro che tutti voi capirete la mia storia e mi aiuterete ad andarmene da qui”, inizia il suo annuncio pubblicato su Gofundme con l’aiuto di un amico che vive in Europa. Se Younes raggiungerà il suo obiettivo, il denaro raccolto sarà trasferito a “un conoscente” con sede in Egitto che si occuperà di versare la somma a Hala Travel. “Ci vorrà quasi una settimana prima che registrino i nostri nomi al valico di Rafah e ci chiamino per il viaggio”, prevede Younes.
Ma con il passare dei giorni dalla sua pubblicazione, il 19 febbraio, gli appelli di Younes sono diventati sempre più urgenti. L’imminente offensiva su Rafah, dove si è rifugiato, sta mostrando i primi segni, e il suo fondo non decolla. “Ci hanno bombardato due giorni fa a 50 metri da noi”, racconta l’uomo che sostiene di aver perso tutto. Era il direttore di un noto ristorante di Gaza, sua moglie Noura* lavorava in un’azienda farmaceutica, due strutture ora completamente distrutte. Prima della guerra, la coppia stava progettando di acquistare un appartamento, per cui tutti i loro risparmi dovevano essere investiti. Abbastanza per garantire il loro futuro e creare una famiglia. Noura era incinta quando è iniziata la guerra. Ma la fame, la mancanza di acqua potabile e le disastrose condizioni igienico-sanitarie hanno avuto ripercussioni sulla salute della giovane donna. Durante un’operazione di emergenza, ha perso il bambino.
Da ottobre, la vita della coppia è stata una serie infinita di spostamenti dal nord al sud dell’enclave. “Siamo alla quarta evacuazione: dalla nostra casa a Gaza a Deir el-Balah, poi a Khan Younis e infine a Rafah”. Di fronte al valico di frontiera, Younes si è rifugiato in una tenda per strada e confida. “Nessuno ha ancora ricevuto uno stipendio; viviamo grazie all’aiuto di varie organizzazioni o di altri membri della famiglia. Al mercato nero i prezzi sono alle stelle: 5 dollari per una tavoletta di cioccolato, 15 per un chilo di cipolle, 22 per 250 grammi di caffè.
Tuttavia, le rare storie di palestinesi che sono riusciti ad attraversare il terminal di Rafah riempiono di speranza Younes. Come quelle di Ahmad, 39 anni, che avrebbe dovuto far parte del convoglio di venerdì scorso dopo aver pagato i 10.000 dollari richiesti dalle guardie di frontiera. Ma mentre immaginava che suo fratello fosse arrivato in un luogo sicuro, Mohammad è rimasto spiacevolmente sorpreso nell’apprendere che l’ultimo membro della sua famiglia stretta ancora bloccato a Gaza doveva ancora aspettare fino a domenica mattina. “Mi ha detto che gli egiziani non l’hanno fatto entrare all’ultimo momento quando è arrivato al valico e l’hanno riportato all’interno di Gaza”, si rammarica il cugino di Farah, che tuttavia spera che Farah e la sua famiglia possano di seguire le orme di Ahmad, la cui evacuazione è ancora “possibile”, secondo lui.
Per questo si impegna ogni giorno per attirare l’attenzione sulle grida di dolore della cugina: “Cerco di dare al fondo un po’ di visibilità pagando le pubblicità sui social network, ma non basta per farlo decollare”, si lamenta. Sono così tanti che spesso a fare la differenza è il numero di follower. È soprattutto grazie alla sua recente fama digitale che Shayma, 25 anni e 13.000 follower sulla rete X (ex Twitter), è riuscita a raccogliere oltre 70.000 sterline nel giro di due mesi. In teoria, ciò è sufficiente a garantire a lei e ad altri otto membri della sua famiglia un buono di uscita, in attesa del via libera di Hala Travel. Ora dobbiamo solo aspettare che i nostri nomi compaiano sulla lista”, dice felice. Se Dio vuole, presto attraverseremo il confine”.
* L’articolo può essere consultato nella lingua originale al link seguente di Orient Le Jour lorientlejour.com/article/1370…
** I nomi sono stati modificati
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NYT: “In Ucraina 12 basi della CIA”. Von der Leyen: “guerra non impossibile”
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di Marco Santopadre
Pagine Esteri, 1 marzo 2024 – La Central Intelligence Agency ha creato dodici basi segrete in Ucraina per spiare «i movimenti delle forze armate russe». A diffondere la notizia non è stato né qualche organo di stampa putiniano né qualche sito web complottista, bensì il New York Times, uno dei più autorevoli quotidiani statunitensi.
Secondo un lungo reportage firmato dal due volte vincitore del Premio Pulitzer Adam Entous e dal giornalista d’inchiesta Michael Schwirtz, la CIA ha realizzato dodici diverse basi in altrettanti bunker sotterranei al confine con la Federazione Russa, nascosti nei boschi e dotati delle apparecchiature elettroniche più sofisticate.
Operazione Goldfish
Il programma – ribattezzato “Operazione Goldfish” – sarebbe stato approvato e gestito da tre diverse amministrazioni – quelle di Obama, Trump e Biden – e sarebbe stato applicato già a partire nel 2016. Il reportage del New York Times si basa su 200 interviste e conversazioni e sulle rivelazioni di alcuni agenti e funzionari ucraini, tra i quali Ivan Bakanov, ex capo dell’SBU, i servizi segreti interni di Kiev.
Dal reportage emerge, in generale, che i servizi statunitensi hanno non solo collaborato, ma di fatto ricostruito, finanziato, addestrato e guidato passo dopo passo le agenzie di intelligence ucraine in funzione antirussa. Tra gli agenti addestrati dai servizi statunitensi ci sarebbe anche Kyrylo Budanov, prima messo a capo di un’unità speciale destinata a catturare droni russi per tentare di decodificare i sistemi di crittografia di Mosca e poi scelto per comandare lo spionaggio militare di Kiev.
Quando all’inizio del 2022 la Casa Bianca ordinò l’evacuazione del personale statunitense in Ucraina, poco prima l’inizio dell’invasione russa, nel paese rimase comunque un gruppo di agenti della Cia, di base in una località non rivelata dell’Ucraina occidentale (oltre a un consistente gruppo di consiglieri militari statunitensi e di altri paesi della Nato, circostanza nota per quanto mai ammessa esplicitamente dai vari governi occidentali). Poche settimane più tardi, una volta chiaro che i russi non sarebbero riusciti ad occupare Kiev e ad insediare un governo fantoccio, molti degli agenti e dei tecnici americani che avevano lasciato il paese tornarono nel paese e furono schierati nelle basi ucraine.
Una postazione ucraina
I servizi ucraini dipendono dalla CIA
Dal reportage emerge che i servizi ucraini sono di fatto un’estensione di quelli statunitensi (e di quelli britannici), senza i quali avrebbero assai poche possibilità di competere con quelli russi. Come scrive il reportage, sono la CIA e altre agenzie di intelligence statunitensi a fornire agli ucraini le «informazioni per attacchi missilistici mirati, tracciano i movimenti delle truppe russe e aiutano a sostenere le reti di spionaggio».
Il governo e i comandi militari ucraini temono ora, dopo l’allentamento del sostegno statunitense, che Washington tiri i remi in barca e abbandoni Kiev. Il precedente afghano è il peggiore incubo di Zelensky e dei suoi più stretti collaboratori. Forse è per rassicurare il presidente ucraino che la scorsa settimana il direttore della CIA, William Burns, ha compiuto il decimo viaggio a Kiev dall’inizio dell’invasione.
Lo scontro tra Nato e Russia sempre più vicino
Con l’improvviso annuncio delle dimissioni per motivi di salute del leader dei Repubblicani al Senato di Washington, Mitch McConnell, Zelensky perde ora anche l’unico influente sostenitore del sostegno militare all’Ucraina nel partito di Donald Trump.
Il parziale disimpegno statunitense ha convinto il presidente francese Emmanuel Macron a proporre ai partner occidentali un’operazione congiunta e volontaria per inviare truppe nel paese, allo scopo di contrastare l’avanzata russa che, dopo la presa di Avdiivka, prosegue spedita soprattutto in Donbass.
Macron, spiazzando i partner dell’Unione Europea e della Nato e suscitando la contrarietà degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica, con la sua provocazione pensa probabilmente di soffiare a Washington la leadership del fronte antirusso, ruolo che nei fatti non è preparata a sostenere.
Anche se – come è probabile – né la Francia né altri paesi occidentali daranno seguito alla suicida proposta di Macron, l’asticella dello scontro con Mosca si è nuovamente alzata, superando decisamente il livello di guardia.
L’Europarlamento vota guerra a oltranza
Da parte sua, nel corso di un intervento al parlamento europeo, la presidente della Commissione Europea, ieri la tedesca Ursula von der Leyen, ha chiesto più armi e più spese militari ed ha avvertito che «la guerra (con la Russia) non è imminente ma non più impossibile».
Dopodiché la maggioranza degli eurodeputati – ben 451 voti favorevoli, 46 contrari e 49 astensioni – ha votato una risoluzione che impegna i governi a sostenere militarmente l’Ucraina, stanziando allo scopo almeno lo 0,25% del proprio Pil, fino alla riconquista di tutti i territori occupati da Mosca, Crimea compresa. Un obiettivo che anche Washington, da tempo, considera inattuabile e velleitario. Pagine Esteri
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