TURCHIA. Raid e arresti. L’appello internazionale dei giuristi: “rilasciate gli avvocati”
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Eliana Riva –
Pagine Esteri, 12 febbraio 2024. Il 6 febbraio 2024 due persone, Emrah Yayla e Pinar Birkoc, un uomo e una ragazza, hanno attaccato, armati, il tribunale di Çaglayan, a Istanbul, morendo poi sotto i colpi delle forze armate.
Secondo fonti della polizia, si tratta di due membri del Partito-Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo (in turco Devrimci Halk Kurtuluş Partisi-Cephesi, DHKP-C), una formazione politica marxista-leninista considerata dal governo turco organizzazione terroristica. Nell’azione armata sono rimaste ferite sei persone, tra cui tre agenti di polizia. Uno dei civili coinvolti è morto a causa delle ferite riportate.
A seguito dell’attacco sono state numerose e violente le retate dei servizi di sicurezza turchi, che hanno perquisito 67 diverse abitazioni, comprese case private e sedi di associazioni che si occupano di diritti umani. Anche l’Ufficio legale popolare è stato preso d’assalto e sono stati arrestati quattro avvocati, tutt’ora trattenuti senza accuse. Nel giro di due giorni sono state più di 90 le persone fermate. A tutte, per 24 ore, è stato vietato consultare i propri legali.
Tra gli arrestati figurano membri dell’associazione TAYAD, partecipata dai parenti dei prigionieri politici detenuti nelle carceri turche. Molti dei membri di Tayad sono persone anziane, che hanno figli, mariti o mogli in prigione, condannati a pene pesanti, a volte con accuse pretestuose.
La polizia ha attaccato e vandalizzato l’Idil Cultural Centre, sede della band musicale Grup Yorum, gruppo da sempre politicamente impegnato.
Tra gli arrestati, Ayten Öztürk, l’oppositrice politica turca che ha denunciato di essere stata sequestrata e torturata per sei mesi dalla polizia segreta. Ayten era agli arresti domiciliari da più di due anni e mezzo, costantemente sorvegliata e perquisita. La polizia non ha concesso che le si staccasse la cavigliera elettronica neanche per il tempo necessario all’operazione chirurgica alla quale è stata lo sottoposta qualche mese fa.
Ayten Ozturk
È in attesa della pronuncia della Corte che potrebbe condannarla in via definitiva a due ergastoli con accuse che, secondo i suoi legali e le organizzazioni dei diritti umani, sono un obbrobrio normativo e rappresentano un’arma politica utilizzata per punire le sue denunce di tortura. Durante il raid a casa di Ayten, la polizia ha distrutto armadi, rovesciato librerie e sotto gli occhi di testimoni ha trascinato fuori la prigioniera sui vetri delle finestre rotte.
Tra gli avvocati arrestati, Didem Baydar Unsal, Berrak Çaglar, Seda Saraldi e Betül Vangölü Kozagaçli, ci sono anche i legali che seguono i casi di Ayten.
La Comunità giuridica internazionale, in un comunicato pubblicato l’8 febbraio, ha condannato l’incursione delle forze armate turche nell’Ufficio legale popolare e l’arresto dei membri dell’Associazione degli avvocati progressisti (CHD). Anche loro, come le altre persone arrestate, non hanno potuto incontrare familiari né legali. Né è consentito accedere ai propri fascicoli e dunque conoscere le accuse formulate e le ragioni dell’arresto. Cinque avvocati dell’Ufficio legale popolare sono in carcere ormai da anni. Secondo la Comunità giuridica internazionale, rappresentata da numerose associazioni, fondazioni, enti di diversi Paesi del mondo, gli avvocati sono stati arrestati in quanto si occupano o si sono occupati della difesa di presunti membri e sostenitori del DHKP-C: “questa inaccettabile identificazione degli avvocati con i loro clienti sembra essere anche la ragione dell’attacco del 6 febbraio all’Ufficio legale popolare […] Ricordiamo alle autorità turche che il mondo vi sta osservando”.
Anche il Consiglio Nazionale forense della Turchia ha espresso preoccupazione per gli arresti e chiesto di garantire l’esercizio di diritto alla difesa. Quattordici Organizzazioni internazionali di avvocati e di osservatori per i diritti legali, tra i quali UA Institute for the Rule of Law, The Law Society of England and Wales, International Observatory for Lawyers in Danger (OIAD), Institut des droits de l’Homme du Barreau de BRUXELLES, European Association of Lawyers for Democracy & Human Rights, World Organisation Against Torture (OMCT), FIDH (International Federation for Human Rights) e Giuristi Democratici italiani, hanno chiesto il rilascio immediato e incondizionato degli avvocati.
Abbiamo incontrato Ayten solo pochi mesi fa, a novembre, presso la sua abitazione e anche all’interno del tribunale Çaglayan di Istanbul, dove abbiamo assistito all’udienza per una nuova accusa, quella di “propaganda per un’organizzazione terroristica”, formulata in seguito alla pubblicazione di un libro in cui denuncia gli abusi subiti dalla polizia segreta. In quell’occasione, alla presenza di giornalisti e osservatori internazionali, il suo team di avvocati è riuscito a ottenere l’assoluzione. In una lunga intervista rilasciataci, l’Avv. Seda Saraldi, ora in prigione insieme agli altri legali, ci ha parlato dell’inconsistenza delle accuse mosse contro Ayten Öztürk e di come avesse scelto di sostenere legalmente la sua lotta contro la tortura di stato e quella di altre donne vittime di orribili violenze, comprese quelle sessuali.
Seda Şaraldı, avvocata di Ayten Öztürk
Ayten è in prigione dal 7 febbraio. Non si sa, al momento, quale sarà la sua sorte. Il fatto che non si possa rivolgere ai suoi stessi avvocati, tutt’ora agli arresti, rende la sua posizione ancora più complicata. All’inizio del mese aveva denunciato la decisione del tribunale di non consentirle di effettuare una visita medica di controllo in seguito all’operazione chirurgica di asportazione di alcune masse per la quale è rimasta ricoverata in ospedale diversi giorni. “Esaminando il contenuto della richiesta, considerando l’entità della pena inflitta all’imputato, la richiesta viene respinta”. Queste sono state le motivazioni del tribunale.
Lo stato della giustizia in Turchia e le condizioni dei detenuti nelle carceri sono stati oggetto di numerose critiche e denunce da parte di organizzazioni internazionali e delle Nazioni Unite.
Il documentario “La rivoluzione di Ayten”, prodotto da Pagine Esteri, racconta la storia sua storia e quella di atri oppositori e oppositrici politici in Turchia.
Locandina del documentario “La rivoluzione di Ayten. Realizzato da Eliana Riva e prodotto da Pagine Esteri
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Ritrovata senza vita Hind, la bimba palestinese scomparsa. Uccisi anche i due paramedici inviati a salvarla
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Pagine Esteri, 10 febbraio 2024. Si è conclusa nel peggiore dei modi la storia e la vita di Hind Hamada, La bambina palestinese di soli 6 anni che è rimasta per ore al telefono con i soccorritori nell’automobile attaccata dai carri armati israeliani.
Dopo 12 giorni la piccola, per la cui sorte si era alzato un coro di appelli internazionali, è stata ritrovata morta nel mezzo in cui viaggiava insieme ai suoi parenti, mentre fuggiva da Gaza City verso il sud della Striscia.
Tutti uccisi i membri della sua famiglia, compresi altri bambini.
La storia di Hind ha fatto il giro del mondo: la sua voce spaventata che supplicava aiuto, registrata per ore dal centralino della Mezzaluna Rossa Palestinese, rimarrà per sempre un grido inascoltato.
Come quella della sua cuginetta Layan, di 15 anni, la prima a rispondere ai volontari della PRCS. La sua morte è avvenuta in diretta audio: “siamo bloccati in macchina, ci sono i carri armati vicino a noi, ci stanno attaccando”. Poi spari, urla e nulla più.
Alla chiamata successiva è stata Hind a rispondere. Ha detto che tutti gli altri erano morti e che lei era ferita. Ha parlato per ore con Rana al-Faqeh, una coordinatrice della Mezzaluna Rossa e anche con sua madre, Wissam, che pur essendo di poco distante non poteva accedere alla zona in cui l’esercito israeliano stava operando con i mezzi corazzati.
Lo stesso valeva per le ambulanze della Mezzaluna che hanno provato a coordinare una difficile operazione di soccorso con i militari, per garantire il passaggio sicuro del mezzo e degli operatori che si trovavano all’interno, Yousef Zeino e Ahmed Madhoun.
Yousef Zeino e Ahmed Madhoun, i due volontari della Mezzaluna Rossa uccisi mentre provavano a salvare Hind, di 6 anni
Quel lunedì 29 gennaio l’ambulanza, infine, è partita: si stava facendo sera e Hind pregava al telefono di essere portata via, diceva di aver paura del buio.
I membri della Mezzaluna hanno comunicato alla sala operativa di essere arrivati sul posto in cui si trovava l’automobile con la bambina e la sua famiglia massacrata. Erano le 18 circa.
Secondo lo zio, Hind è riuscita a dire al telefono, in collegamento con la madre, di vedere da lontano l’ambulanza. E queste sono state le sue ultime parole.
Poi più nessuna notizia, per 12 giorni, di Hind né dei volontari della Mezzaluna.
Questa mattina è venuta a galla la terribile verità: tutti morti. La bimba di 6 anni, i suoi cuginetti e i suoi zii e anche Yousef e Ahmed. Uccisi tutti. L’ambulanza è stata bombardata.
Dal giorno della scomparsa la Mezzaluna ha pubblicato appelli quotidiani per provare ad avere notizie dei suoi membri e di Hind. Ma è stato tutto inutile. Erano tutti morti quel giorno eppure l’esercito israeliano ha prima dichiarato di non essere a conoscenza di “incidenti” nella zona e poi ha detto che avrebbe “indagato”.
Non è stato possibile per nessuno raggiungere l’area.
Hind si trovava in quell’automobile solo perché troppo piccola per camminare ore a piedi, come invece hanno fatto i suoi fratelli più grandi e i suoi genitori, per provare a raggiungere l’ospedale Ahli, nella speranza di trovarvi rifugio.
Quella mattina l’esercito israeliano aveva ordinato agli abitanti di evacuare la zona Ovest di Gaza City ed era esattamente quello che la famiglia di Hind stava facendo.
Mentre procedeva in direzione sud, l’automobile si è trovata circondata dai carri armati. Lo zio di Hind ha provato a fermarsi nella stazione di servizio di Fares, sperando di essere al sicuro. Ma è stato tutto inutile.
12 giorni ci sono voluti per avere notizie della loro sorte, per recuperare i corpi, in una Striscia di Gaza occupata ormai alla violenza senza controllo, dove la distruzione e gli omicidi extragiudiziali sono diventati il pane quotidiano per una popolazione abbandonata a se stessa e alla legge dell’esercito israeliano.
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Netanyahu: “Attaccheremo Rafah. La popolazione deve evacuare”
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 9 febbraio 2024. “È impossibile raggiungere l’obiettivo di eliminare Hamas lasciando quattro battaglioni di Hamas a Rafah. Al contrario, è chiaro che l’intensa attività a Rafah richiede che i civili evacuino le zone di combattimento”. La dichiarazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato ciò che già da giorni si immaginava sarebbe accaduto e che metà della popolazione palestinese, per la maggior parte sfollati mandati a Rafah dall’esercito israeliano, più di tutto ora teme.
Il “piano finale” israeliano è partito. Nonostante il seppur timido e tardivo “no” del presidente degli Stati Uniti d’America. “Israele sta esagerando” ha dichiarato Biden dopo 28.000 morti. “Ogni operazione a Rafah, con oltre un milione di palestinesi che vi si rifugiano, sarebbe un disastro e non la sosterremmo senza un’appropriata pianificazione” gli ha fatto eco il segretario di Stato Blinken dopo la sua ultima, infruttuosa visita a Tel Aviv.
E il momento della pianificazione, per bocca dello stesso Netanyahu, è subito arrivato. Il premier ha infatti ordinato alle forze armate di presentare al governo un “piano combinato per l’evacuazione della popolazione e la distruzione di Hamas”.
Dopo il via libera americano alle “ammonizioni” per Israele, anche l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha scritto su X che l’attacco israeliano a Rafah avrebbe “conseguenze catastrofiche, peggiorando la già terribile situazione umanitaria e l’insopportabile bilancio civile”
1.4 million Palestinians are currently in #Rafah without safe place to go, facing starvation.Reports of an Israeli military offensive on Rafah are alarming. It would have catastrophic consequences worsening the already dire humanitarian situation & the unbearable civilian toll.
— Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) February 9, 2024
Sono almeno 21 le persone uccise oggi dai cecchini israeliani appostati sui tetti delle abitazioni a Khan Yunis. Tutte provavano a entrare nell’ospedale Nasser o a uscirne. Anche il personale sanitario è stato attaccato. Un video mostra una giovane ragazza colpita dai cecchini a pochi metri dalle scuole piene di sfollati di fronte alla struttura sanitaria. Il sangue si è allungato in una lunga pozzanghera ed era ancora lì quando, ore dopo, decine di persone disperate provavano a conquistare due taniche di acqua potabile senza affacciarsi in strada. Con una lunga corda tiravano un piccolo carretto che doveva arrivare dall’ospedale alle scuole, attraversando così la strada, diventata ormai letale per gli esseri umani e, talvolta, anche per gli animali.
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L’Autorità Nazionale Palestinese ha condannato le dichiarazioni di Netanyahu e ha dichiarato che l’intenzione di attaccare Rafah e di evacuare i cittadini palestinesi costituisce “un serio preludio all’attuazione della politica israeliana volta a cacciare il popolo palestinese dalla propria terra“. L’ANP ha aggiunto, con toni minacciosamente impotenti, che riterrà il governo israeliano e gli Stati Uniti responsabili delle ripercussioni. Facendo appello al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’Autorità ha chiesto un intervento che possa evitare “un’altra Nakba che spingerà l’intera regione in infinite guerre”.
In serata, dal Libano, Hezbollah ha effettuato uno dei più numerosi lanci di missili (60 verso Kiryat Shmona) da quando il confronto armato con Israele ha avuto inizio.
A Rafah ci sono circa 1,2 milioni di palestinesi su una popolazione totale che a Gaza, prima della guerra, era di circa 2,3 milioni. Secondo Save the Children la maggior parte dei 610.000 bambini sfollati sono ora intrappolati a Rafah in un’area inferiore a un quinto della superficie totale della Striscia. Molti di loro sono stati già sfollati più volte dall’esercito israeliano, dal nord di Gaza verso il centro e poi dal centro verso il sud. Le autorità israeliane hanno lanciato volantini per avvisare la popolazione di andar via, nell’imminenza di attacchi aerei e incursioni dei mezzi di terra, indicando loro con complicate numerazioni, le zone designate come sicure. Una per una quelle zone sono state attaccate e alla popolazione è stato detto ancora di spostarsi. Sempre più al sud, fino a raggiungere il punto più estremo, al confine con l’Egitto, che è appunto Rafah.
Intanto al nord e al centro i bulldozer, i carri armati e gli esplosivi israeliani distruggevano interi quartieri residenziali, campi coltivati, stadi sportivi, moschee, scuole. Con l’obiettivo, non di rado pubblicamente dichiarato, anche sui social network, di rendere impossibile il ritorno dei cittadini gazawi mandati via dalle proprie case.
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La situazione umanitaria a Rafah è disperata e inumana. Vi è affollata ormai circa metà dell’intera popolazione della Striscia. Non c’è spazio e non ci sono risorse per tutti. Si dorme in rifugi di fortuna, nelle scuole, negli ospedali, nelle macchine o per strada. Manca l’acqua e procurarsela, con i cecchini israeliani appostati, è estremamente difficile e pericoloso. I feriti non possono raggiungere gli ospedali e quelli che lo fanno trovano una situazione agghiacciante: non c’è spazio, non c’è personale, non bastano le medicine, i pazienti sono stesi a terra, tra i rifiuti medici non più smaltibili. La notizia di un’imminente attacco israeliano manda nel panico la popolazione già esageratamente provata. Non c’è altra via da percorrere per fuggire. Schiacciati al confine con l’Egitto che non intende prendersi cura di una popolazione che non vorrebbe lasciare la propria terra, il “piano finale” di cui lo stesso governo israeliano parlava a inizio guerra e che era stato apparentemente messo da parte, pare ore l’unico sviluppo possibile. A meno che non si trovi il modo di costringere Netanyahu a desistere, “l’evacuazione” della popolazione non potrebbe che avvenire al di fuori della Striscia di Gaza, fatta pezzi, saccheggiata, deflagrata, resa inabitabile, cancellata.
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Partito il “piano finale” israeliano. Netanyahu: “Attaccheremo Rafah. La popolazione deve evacuare”
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 9 febbraio 2024. “È impossibile raggiungere l’obiettivo di eliminare Hamas lasciando quattro battaglioni di Hamas a Rafah. Al contrario, è chiaro che l’intensa attività a Rafah richiede che i civili evacuino le zone di combattimento”. La dichiarazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato ciò che già da giorni si immaginava sarebbe accaduto e che metà della popolazione palestinese, per la maggior parte sfollati mandati a Rafah dall’esercito israeliano, più di tutto ora teme.
Il “piano finale” israeliano è partito. Nonostante il seppur timido e tardivo “no” del presidente degli Stati Uniti d’America. “Israele sta esagerando” ha dichiarato Biden dopo 28.000 morti. “Ogni operazione a Rafah, con oltre un milione di palestinesi che vi si rifugiano, sarebbe un disastro e non la sosterremmo senza un’appropriata pianificazione” gli ha fatto eco il segretario di Stato Blinken dopo la sua ultima, infruttuosa visita a Tel Aviv.
E il momento della pianificazione, per bocca dello stesso Netanyahu, è subito arrivato. Il premier ha infatti ordinato alle forze armate di presentare al governo un “piano combinato per l’evacuazione della popolazione e la distruzione di Hamas”.
Dopo il via libera americano alle “ammonizioni” per Israele, anche l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha scritto su X che l’attacco israeliano a Rafah avrebbe “conseguenze catastrofiche, peggiorando la già terribile situazione umanitaria e l’insopportabile bilancio civile”
1.4 million Palestinians are currently in #Rafah without safe place to go, facing starvation.Reports of an Israeli military offensive on Rafah are alarming. It would have catastrophic consequences worsening the already dire humanitarian situation & the unbearable civilian toll.
— Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) February 9, 2024
Sono almeno 21 le persone uccise oggi dai cecchini israeliani appostati sui tetti delle abitazioni a Khan Yunis. Tutte provavano a entrare nell’ospedale Nasser o a uscirne. Anche il personale sanitario è stato attaccato. Un video mostra una giovane ragazza colpita dai cecchini a pochi metri dalle scuole piene di sfollati di fronte alla struttura sanitaria. Il sangue si è allungato in una lunga pozzanghera ed era ancora lì quando, ore dopo, decine di persone disperate provavano a conquistare due taniche di acqua potabile senza affacciarsi in strada. Con una lunga corda tiravano un piccolo carretto che doveva arrivare dall’ospedale alle scuole, attraversando così la strada, diventata ormai letale per gli esseri umani e, talvolta, anche per gli animali.
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L’Autorità Nazionale Palestinese ha condannato le dichiarazioni di Netanyahu e ha dichiarato che l’intenzione di attaccare Rafah e di evacuare i cittadini palestinesi costituisce “un serio preludio all’attuazione della politica israeliana volta a cacciare il popolo palestinese dalla propria terra”. L’ANP ha aggiunto, con toni minacciosamente impotenti, che riterrà il governo israeliano e gli Stati Uniti responsabili delle ripercussioni. Facendo appello al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’Autorità ha chiesto un intervento che possa evitare “un’altra Nakba che spingerà l’intera regione in infinite guerre”.
In serata, dal Libano, Hezbollah ha effettuato uno dei più numerosi lanci di missili (60 verso Kiryat Shmona) da quando il confronto armato con Israele ha avuto inizio.
A Rafah ci sono circa 1,2 milioni di palestinesi su una popolazione totale che a Gaza, prima della guerra, era di circa 2,3 milioni. Secondo Save the Children la maggior parte dei 610.000 bambini sfollati sono ora intrappolati a Rafah in un’area inferiore a un quinto della superficie totale della Striscia. Molti di loro sono stati già sfollati più volte dall’esercito israeliano, dal nord di Gaza verso il centro e poi dal centro verso il sud. Le autorità israeliane hanno lanciato volantini per avvisare la popolazione di andar via, nell’imminenza di attacchi aerei e incursioni dei mezzi di terra, indicando loro con complicate numerazioni, le zone designate come sicure. Una per una quelle zone sono state attaccate e alla popolazione è stato detto ancora di spostarsi. Sempre più al sud, fino a raggiungere il punto più estremo, al confine con l’Egitto, che è appunto Rafah.
Intanto al nord e al centro i bulldozer, i carri armati e gli esplosivi israeliani distruggevano interi quartieri residenziali, campi coltivati, stadi sportivi, moschee, scuole. Con l’obiettivo, non di rado pubblicamente dichiarato, anche sui social network, di rendere impossibile il ritorno dei cittadini gazawi mandati via dalle proprie case.
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La situazione umanitaria a Rafah è disperata. Vi è affollata ormai circa metà dell’intera popolazione della Striscia. Non c’è spazio e non ci sono risorse per tutti. Si dorme in rifugi di fortuna, nelle scuole, negli ospedali, nelle macchine o per strada. Manca l’acqua e procurarsela, con i cecchini israeliani appostati, è estremamente difficile e pericoloso. I feriti non possono raggiungere gli ospedali e quelli che lo fanno trovano una situazione agghiacciante: non c’è spazio, non c’è personale, non bastano le medicine, i pazienti sono stesi a terra, tra i rifiuti medici non più smaltibili. La notizia di un’imminente attacco israeliano manda nel panico la popolazione già inumanamente provata. Non c’è altra via da percorrere per fuggire. Schiacciati al confine con l’Egitto che non intende prendersi cura di una popolazione che non vorrebbe lasciare la propria terra, il “piano finale” di cui lo stesso governo israeliano parlava a inizio guerra e che era stato apparentemente messo da parte, pare ore l’unico sviluppo possibile. A meno che non si trovi il modo di costringere Netanyahu a desistere, “l’evacuazione” della popolazione non potrebbe che avvenire al di fuori della Striscia di Gaza, fatta a pezzi, saccheggiata, deflagrata, resa inabitabile, cancellata.
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In Cina e Asia – Xi e Putin rafforzeranno il "coordinamento strategico”
Telefonata Xi-Putin: Cina e Russia si impegnano a rafforzare il "coordinamento strategico"
Perquisiti gli uffici di Huawei in Francia
Cina: lotta all’ETIM cruciale per la sicurezza nazionale e internazionale
La Cina potenzia il settore dei veicoli elettrici per il commercio internazionale
Pakistan, ritardo nella pubblicazione dei risultati elettorali
Rapporto di Citizen Lab: rete di siti web in Europa, Asia e America Latina
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Gli avvocati avvertono l’Eni: la licenza israeliana per il gas di Gaza è illegale
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Pagine Esteri, 8 febbraio 2024. Due giorni fa lo studio legale Foley Hoag LLP, con sede a Boston, negli Stati Uniti, ha inviato un avviso all’Eni S.p.A perché non intraprenda attività nelle aree marittime della Striscia di Gaza che appartengono alla Palestina. Insieme alle società inglese Dana Petroleum Limited (una filiale della South Korean National Petroleum Company), all’israeliana Ratio Petroleum e altri tre enti, l’Eni ha ottenuto la licenza di operare all’interno della zona G, un’area marittima adiacente alle rive di Gaza. Il 62% della zona G rientra nei confini marittimi dichiarati dallo Stato di Palestina nel 2019, in conformità con le disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (UNCLOS), di cui la Palestina è firmataria.
Il governo israeliano ha annunciato la concessione il 29 ottobre 2023, tre settimane dopo l’attacco di Hamas che ha causato circa 1.200 vittime e nel pieno dei bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, che continuano fino ad oggi e che hanno causato al momento circa 27.800 morti.
Le concessioni sono state riconosciute in seguito alla quarta fase di offerte offshore lanciata dal Ministero dell’energia e delle infrastrutture israeliano nel dicembre 2022.
I gruppi palestinesi per i diritti umani Adalah, Al Mezan, Al-Haq e PCHR hanno fatto appello alle società coinvolte di astenersi immediatamente dalla partecipazione “ad atti di saccheggio delle risorse naturali sovrane del popolo palestinese”. E hanno dunque dato mandato allo studio legale Foley Hoag LLP di agire per loro conto, avvisando gli enti coinvolti che “l’emissione della gara d’appalto e la successiva concessione di licenze per l’esplorazione in questo settore costituiscono una violazione del diritto internazionale umanitario (IHL) e del diritto internazionale consuetudinario“. Israele, in quanto Stato occupante, non ha il diritto di utilizzare le risorse naturali delle terre occupate per un proprio tornaconto economico.
Le associazioni fanno presente che “le offerte, emesse in conformità con il diritto interno israeliano, equivalgono effettivamente all’annessione de facto e de jure delle aree marittime palestinesi rivendicate dalla Palestina, in quanto cercano di sostituire le norme applicabili del diritto internazionale applicando invece la legge interna israeliana all’area, nel contesto della gestione e dello sfruttamento delle risorse naturali. Ai sensi del diritto internazionale applicabile, a Israele è vietato sfruttare le risorse finite non rinnovabili del territorio occupato, a scopo di lucro commerciale e a beneficio della potenza occupante, secondo le regole di usufrutto, di cui all’articolo 55 del Regolamento dell’Aia. Invece, Israele come autorità amministrativa di fatto nel territorio occupato non può esaurire le risorse naturali per scopi commerciali che non sono a beneficio della popolazione occupata”.
Oltre alle licenze concesse per la zona G, Israele ha pubblicato una gara d’appalto per la zona H, di cui il 75% rientra nei confini marittimi palestinesi.
La mappa 1 mostra i confini marittimi dello Stato di Palestina ai sensi della sua dichiarazione del 2019 in conformità con la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.
La mappa 2 mostra le aree coperte dalla gara. Le linee rosse indicano ciò che Israele di fatto disegna come sua area di concessione, mentre le linee nere rappresentano i confini marittimi della Palestina, come mostrato nella mappa 1.
Alla questione, già dibattuta dalle organizzazioni nel settembre del 2019, il governo israeliano ha risposto che per principio consolidato, “solo gli Stati sovrani hanno il diritto alle zone marittime, compresi i mari territoriali e le zone economiche esclusive, nonché di dichiarare i confini marittimi”. Non essendo, dunque, quello palestinese uno Stato riconosciuto da Israele, non ha, secondo Tel Aviv, diritto legale sulle zone marittime.
La notifica legale presentata dalle organizzazioni palestinesi contiene un avvertimento chiaro all’Eni e alle altre società che intendono sfruttare il gas a largo di Gaza: utilizzando la concessione israeliana potrebbero rendersi complici in crimini di guerra. Il riferimento è all’indagine per genocidio da parte della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia che potrebbe, secondo la notifica dello studio legale, avere risvolti molto gravi sulle azioni “di saccheggio” delle risorse naturali appartenenti ai Territori palestinesi occupati da Israele. Le organizzazioni hanno fatto sapere che intendono utilizzare tutti i meccanismi legali disponibili, sia quelli legati alle responsabilità penali che a quelle civili per danni, a meno che le società non si astengano da attività che violano il diritto internazionale: “Come visto dalle organizzazioni, la demarcazione unilaterale di Israele dei suoi confini marittimi per includere le aree marittime della Palestina e le lucrose risorse naturali non solo viola il diritto internazionale, ma perpetua anche un modello di lunga data di sfruttamento delle risorse naturali dei palestinesi per i propri guadagni finanziari e coloniali. Israele cerca di saccheggiare le risorse della Palestina, sfruttando quella che è già una semplice frazione delle risorse naturali legittime dei palestinesi”.
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PAKISTAN. Voto insanguinato, dal carcere l’ex premier accusa Washington
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 8 febbraio 2024 – Oggi la popolazione del Pakistan – uno dei paesi asiatici più importanti con i suoi 240 milioni di abitanti, potenza nucleare oggetto di un’esplicita contesa egemonica tra Stati Uniti e Cina – è chiamato alle urne per rinnovare l’Assemblea Nazionale e le assemblee elettive di quattro province: Punjab, Sindh, Khyber Pakhtunkhwa e Belucistan.
A causa della recente revisione dei collegi da parte della Commissione elettorale, l’Assemblea nazionale avrà 336 seggi, di cui 266 da eleggere con il sistema maggioritario uninominale e i rimanenti – 60 riservati alle donne e 10 alle minoranze religiose non musulmane – assegnati invece su base proporzionale. I suoi membri, insieme a quelli del Senato e ad altri “grandi elettori”, dovranno eleggere il nuovo presidente della Repubblica, essendo scaduto a settembre il mandato dell’attuale capo dello Stato, Arif Alvi.
Le elezioni giungono dopo numerosi rinvii e in un clima di fortissimo scontro politico. La tornata del 2018 era stata vinta – anche grazie alla mobilitazione dell’esercito – dal leader del Movimento per la Giustizia del Pakistan (Pti) Imran Khan. Nel 2021, però, l’ex campione di cricket è entrato in conflitto con Washington e con le potenti forze armate pakistane.
Il “regime ibrido”
In Pakistan, come scrive “Foreign Policy”, vige un “regime ibrido”, un sistema politico in cui i militari coesistono con le istituzioni civili elette in un contesto multipartitico. Nei suoi 76 anni di storia del Pakistan indipendente, nessun primo ministro ha completato un mandato e vari governo eletti sono stati rovesciati dalle forze armate attraverso veri e propri colpi di stato o semplicemente dalle pressioni e dalle minacce dei militari. I generali occupano vari posti chiave nelle istituzioni statali e recentemente il ruolo decisionale dell’esercito, anche in campo economico, è stato formalizzato attraverso la creazione di un nuovo organismo di governo per gli investimenti stranieri, denominato “Special Investment Facilitation Council”. Inoltre ai tribunali militari è stata attribuita la facoltà, in alcune circostanze, di processare i civili.
Il dissidio con i militari è stato fatale a Khan. Nell’aprile del 2022 alcuni dei suoi deputati e dei suoi alleati gli hanno voltato le spalle e il suo governo è caduto; a rimpiazzarlo è stato Shehbaz Sharif, leader della Lega Musulmana del Pakistan – Nawaz (Pnl-N) al quale nell’agosto del 2023, in vista delle elezioni, è subentrato come capo di un governo ad interim il senatore indipendente Anwaar ul Haq Kakar.
L’ex premier in galera
Nel frattempo Imran Khan è stato condannato per corruzione e arrestato, e la Commissione Elettorale ha impedito al suo partito di utilizzare il simbolo della mazza da cricket. Khan è stato anche condannato a cinque anni di inabilitazione e quindi non si è potuto candidare alle elezioni politiche odierne.
Dopo la sfiducia parlamentare, sfruttando la sua grande popolarità Khan ha accusato l’esercito – che pure nel 2018 ne aveva favorito la vittoria – di inquinare la vita democratica del paese ed ha organizzato grandi manifestazioni in tutto il Pakistan. Ma il governo e le forze armate hanno attaccato frontalmente la sua organizzazione: migliaia di dirigenti e militanti sono stati arrestati o minacciati, molti altri sono dovuti fuggire all’estero o hanno dovuto nascondersi per evitare la persecuzione. Alcuni sono stati torturati e obbligati ad aderire ad un nuovo partito accondiscendente con le richieste delle forze armate.
I candidati superstiti del Movimento per la Giustizia si sono presentati come indipendenti e hanno condotto una campagna elettorale semi-clandestina, basata soprattutto sul protagonismo delle donne e sull’intelligenza artificiale.
Nei giorni scorsi, con un tempismo sospetto, l’ex premier Khan, che si proclama innocente e si dice vittima di una persecuzione giudiziaria con motivazioni politiche, è stato condannato ben tre volte: a dieci anni di reclusione per divulgazione di segreti di Stato; ad altri dieci anni per la compravendita di doni di Stato; a sette anni per aver sposato la terza moglie, Bushra Bibi, prima della fine del periodo di attesa (“iddah”) imposto ad una donna divorziata per contrarre nuove nozze. La condanna per la violazione dei segreti è particolarmente sensibile, perché legata alla caduta del suo governo: Khan avrebbe divulgato informazioni contenute in un dispaccio diplomatico ricevuto dal ministero degli Esteri da Washington che secondo l’allora primo ministro contenevano esplicite pressioni del governo statunitense per un cambio al vertice di Islamabad. Durante un comizio nel marzo del 2022, Khan denunciò che il Dipartimento di Stato aveva invitato alcuni diplomatici pakistani a organizzare la destituzione dell’ex campione di cricket, dopo che Khan aveva rafforzato i legami con la Cina e si era rifiutato di condannare apertamente l’invasione russa dell’Ucraina.
In un suo articolo – redatto in realtà grazie all’intelligenza artificiale, visto che l’ex premier è rinchiuso nel carcere di Adiala – pubblicato a inizio gennaio da “The Economist”, Khan denuncia: «È stato l’establishment a organizzare la nostra rimozione dal governo su pressione degli USA, allarmati per il mio sostegno ad una politica estera indipendente e per il mio rifiuto di fornire basi alle sue forze armate».
Per il tribunale che lo ha condannato Khan ha utilizzato un documento riservato a fini politici, mettendo a rischio la sicurezza nazionale. E oggi le autorità hanno sospeso l’accesso ad internetdai dispositivi mobili su tutto il territorio del paese per evitare, hanno spiegato, l’organizzazione di attacchi o di proteste.
L’ex premier Khan al momento dell’arresto
Favorita la Lega Musulmana
La clandestinizzazione del partito di Khan favorisce la vittoria della Lega Musulmana che candida a primo ministro Nawaz Sharif, fratello di Shehbaz e in passato già a capo di due esecutivi negli anni Novanta e di un altro dal 2013 al 2017, quando fu rimosso dalla Corte Suprema in seguito a un’inchiesta per riciclaggio e corruzione nata dalla divulgazione dei cosiddetti Panama Papers, documenti relativi a migliaia di società offshore portati alla luce dal Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij). Dopo un’interdizione dai pubblici uffici, due condanne e quattro anni trascorsi nel Regno Unito, dove era stato autorizzato a recarsi per cure per otto settimane e da dove ha fatto ritorno solo lo scorso ottobre, il politico ha risolto i suoi problemi giudiziari in secondo grado, con due assoluzioni che gli hanno permesso di ricandidarsi.
La Lega Musulmana potrebbe formare un governo alleandosi con alcuni partner tradizionali ma anche con un partito formato da alcuni fuoriusciti del Pti, ribattezzato Istehkam-e Pakistan Party (Ipp).
Il vuoto politico creato dalla repressione del partito di Khan potrebbe essere riempito, almeno in parte, dal Partito Popolare Pakistano (PPP) di Bilawal Bhutto, figlio dell’ex premier Benazir Bhutto, assassinata nel 2007.
Il nuovo governo dovrà affrontare sfide urgenti e molto impegnative in un contesto di crisi politica, economica e di sicurezza.
La scorsa estate il Pakistan ha evitato per un soffio il default grazie al prestito di 3 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale e il paese è alle prese con un’elevata inflazione e con una crescita economica del Pil instabile e lenta.
La recrudescenza del terrorismo
Le elezioni sono state caratterizzate da una recrudescenza degli attentati, una piaga che negli ultimi due anni ha provocato nel paese circa 2300 vittime.
Ieri due attacchi dinamitardi contro altrettanti uffici elettorali nel Belucistan hanno causato 30 morti e decine di feriti. Gli attentati sono stati rivendicati dai Talebani.
Nelle ultime ore, nel distretto nord-occidentale di Dera Ismail Khan, uomini armati hanno fatto esplodere una bomba e hanno aperto il fuoco contro un furgone della polizia, uccidendo cinque agenti e ferendone altri due. Un militare è stato ucciso in un altro attacco nella città di Kot Azam.
Alla fine del 2022 il gruppo Tehreek-i-Taliban Pakistan (Ttp), i “Talebani del Pakistan”, ha messo fine a un accordo di cessate il fuoco col governo e rivendicato poi una serie di attentati. A novembre Islamabad ha accusato il governo talebano in Afghanistan di sostenere la recente ondata di attacchi, giustificando così la decisione di espellere in massa centinaia di migliaia di immigrati afganipresenti in Pakistan.
In Belucistan, invece, operano delle organizzazioni nazionaliste che rivendicano la riunificazione con i territori dell’Iran e dell’Afghanistan abitate dai Beluci, una popolazione di lingua iranica e religione sunnita. Spesso gli obiettivi delle azioni armate e degli attentati condotti dalle organizzazioni dei Beluci sono le infrastrutture legate alle miniere della regione e al porto di Gwadar, oggetto negli ultimi anni di consistenti investimenti da parte della Cina.
Nel frattempo, al confine orientale, sono scoppiate nuove tensioni con l’India, dopo che Islamabad ha accusato Nuova Delhi di condurre una campagna di omicidi all’interno del Pakistan.
Infine, tre settimane fa il governo ad interim si è trovato a gestire una grave crisi con l’Iran, paese con cui il Pakistan ha buone relazioni. Prima Islamabad ha dovuto subire un attacco iraniano nella provincia del Belucistan contro un gruppo armato Jaish al Adl, e poi ha ordinato una rappresaglia nel Belucistan iraniano contro un’altra milizia armata. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria
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Il presidente dell’Argentina Milei in Israele: “Trasferiremo l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme”
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Pagine Esteri, 6 febbraio 2024. L’ultraliberista Javier Milei, neo-presidente dell’Argentina è in queste ore in visita in Israele.
Accolto dal ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, appena sceso dall’aereo ha dichiarato con fermezza che intende trasferire l’ambasciata Argentina in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme occupata.
Tra incontri con rabbini e membri del governo, il leader di estrema destra ha messo da parte la motosega sventolata durante la campagna elettorale per lasciare posto agli abbracci commossi dinanzi al Muro del Pianto.
Il Ministro Katz ha ringraziato Milei per “aver riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e per aver annunciato adesso il trasferimento dell’ambasciata argentina a Gerusalemme, capitale del popolo ebraico e dello Stato d’Israele’‘.
Milei ha dichiarato che il viaggio di due giorni ha lo scopo di “mostrare il mio sostegno a Israele contro gli attacchi del gruppo terroristico Hamas e ad esprimere il legittimo diritto d’Israele di difendersi”. Secondo fonti giornalistiche argentine, il governo intende inserire Hamas nella l’osta dei gruppi terroristici, come richiesto a gran forza dalla comunità ebraica locale.
È previsto per domani, mercoledì, il suo incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu.
Il presidente argentino Javier Milei a Gerusalemme, al Muro del pianto
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In Cina e Asia – Cina, anche il programma nucleare nel mirino dell’anti-corruzione
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La Casa Bianca nega ancora che le tensioni in Medio Oriente siano legate a Gaza
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di Daniel Larison* – Responsible Statecraft 2 Febbraio 2024
(traduzione di Federica Riccardi)
L’amministrazione Biden continua a negare qualsiasi collegamento tra la guerra a Gaza e i conflitti in corso che coinvolgono le forze statunitensi in Iraq, Siria e Yemen. La posizione della Casa Bianca, secondo la quale si tratta di conflitti non collegati tra loro e che sono scoppiati nello stesso momento, non può conciliarsi con le prove che dimostrano come la guerra a Gaza abbia alimentato l’instabilità e la violenza regionale, compreso il recente attacco con un drone da parte di una milizia irachena, che ha ucciso tre membri del contingente americano e ne ha feriti più di 40 in una base in Giordania all’inizio di questa settimana.
Per quanto l’amministrazione voglia tenere il conflitto confinato a Gaza, la verità è che si è esteso a diversi altri Paesi. È un disservizio per il popolo americano e per il personale militare americano fingere che il sostegno degli Stati Uniti alla guerra a Gaza non abbia già avuto gravi conseguenze negative per la stabilità regionale e per le forze americane nella regione, quando è evidente che sia così. Quando gli è stato chiesto di questo “stesso, più ampio conflitto” durante una conferenza stampa mercoledì, il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale John Kirby ha respinto qualsiasi collegamento tra Gaza e gli attacchi degli Stati Uniti contro obiettivi Houthi o gli scontri tra le milizie locali e le forze statunitensi.
“Non sono assolutamente d’accordo con la vostra descrizione di uno stesso, più ampio conflitto. C’è un conflitto in corso tra Israele e Hamas… e noi ci assicureremo di continuare a fornire a Israele il sostegno di cui ha bisogno per difendersi da questa minaccia ancora attuale”, ha detto Kirby. “Ci sono stati attacchi alle nostre truppe e alle nostre strutture in Iraq e in Siria ben prima del 7 ottobre, certamente anche durante la scorsa amministrazione. Per quanto riguarda gli Houthi, possono sostenere quanto vogliono che questo è legato a Gaza, ma due terzi delle navi che hanno colpito non hanno alcun legame con Israele. Quindi non è vero, è una falsità”.
La risposta di Kirby è fuorviante e falsa. Il gruppo iracheno che ha rivendicato la responsabilità dell’attacco in Giordania, la Resistenza islamica dell’Iraq, ha dichiarato esplicitamente che il suo attacco era collegato alla guerra a Gaza. La leadership degli Houthi ha enfatizzato come i loro attacchi continueranno fino a quando la guerra continuerà. La decisione di altri attori di salire sul carro di una causa può essere cinica o meno, ma non si può negare che siano saliti sul carro.
Rifiutare di affrontare la realtà delle connessioni tra questi conflitti garantisce agli Stati Uniti di perseguire politiche inefficaci e controproducenti, ignorando che la chiave per disinnescare le tensioni regionali è porre fine alla guerra a Gaza il più rapidamente possibile.
Kirby non ha menzionato che gli attacchi dei miliziani contro le forze statunitensi in Iraq e Siria erano cessati per diversi mesi prima del 7 ottobre a seguito dell’intesa che gli Stati Uniti e l’Iran avevano raggiunto in relazione all’accordo sullo scambio di prigionieri. Solo dopo il 7 ottobre gli attacchi sono ripresi e sono aumentati a livelli record. Le milizie locali hanno altre ragioni per prendere di mira le forze statunitensi che sono precedenti alla guerra, ma non c’è modo di capire l’intensità degli attacchi negli ultimi mesi, o la loro cessazione durante la pausa dei combattimenti a Gaza l’anno scorso, senza riconoscere che sono legati alla guerra di Israele.
Bab El Mandeb
Lo stesso vale per gli attacchi degli Houthi. Gli Houthi non hanno lanciato una campagna contro la navigazione commerciale durante la loro guerra contro la coalizione saudita, quindi non è una cosa che hanno fatto abitualmente da quando hanno preso il potere nel 2014. I primi attacchi degli Houthi dopo il 7 ottobre erano rivolti proprio contro Israele. Gli Houthi hanno cambiato poi tattica prendendo di mira le navi commerciali, ma era chiaro che lo hanno fatto in risposta alla guerra.
Senza dubbio gli Houthi stanno agendo in modo opportunistico e stanno lanciando questi attacchi in parte per rafforzare le proprie sorti politiche in Yemen, ma questo non cambia la realtà che tali attacchi stanno avvenendo ora a causa della guerra a Gaza. Se questo è vero, sembra anche ragionevole concludere che gli assalti contro la navigazione potrebbero terminare con un cessate il fuoco.
L’amministrazione Biden ha forti incentivi politici a negare i legami tra questi diversi conflitti. Se riconosce un legame, diventa più difficile giustificare il suo appoggio incondizionato alla guerra di Israele, a causa dei costi maggiori che comporta. Inoltre, mina la loro argomentazione a favore di un’azione militare in Yemen contro gli Houthi.
La Casa Bianca ha bisogno che gli americani pensino che i costi del continuo sostegno alla guerra israeliana siano più bassi di quanto non siano in realtà, e ha anche bisogno che gli americani credano che gli attacchi allo Yemen non siano legati alla loro ostinata opposizione al cessate il fuoco a Gaza. Ora che ci sono morti americani a causa di un attacco della milizia irachena, l’amministrazione vuole compartimentare ogni conflitto, in modo che il popolo americano non concluda che i soldati statunitensi sono stati uccisi a causa di una guerra esterna che il presidente ha scelto di sostenere senza condizioni.
L’amministrazione insiste nel voler prevenire una guerra regionale, ma non ci riuscirà se non riconoscerà le relazioni tra la campagna di Israele e ciò che sta accadendo altrove in Medio Oriente. Negare il legame con Gaza nello Yemen ha già portato all’abbaglio dell’escalation contro gli Houthi. Questo non ha fatto nulla per rendere più sicure le spedizioni commerciali, ma ha trascinato gli Stati Uniti in un’altra inutile battaglia a tempo indeterminato. Il Presidente sta per commettere un errore simile in risposta all’attacco dei droni in Giordania.
Gli Stati Uniti possono scegliere di impelagarsi sempre di più nei conflitti mediorientali, come stanno facendo ora, oppure possono riconoscere l’inutilità e la follia di percorrere la stessa strada senza uscita come hanno già fatto in passato. Se Washington vuole evitare di essere coinvolta in nuovi conflitti, deve rifiutare la strada dell’escalation e deve smettere di alimentare la guerra a Gaza, che è uno dei principali fattori di instabilità regionale.
A lungo termine, gli Stati Uniti devono ridurre la loro presenza militare nella regione per rendere più difficile per altri attori colpire le forze americane, e devono rivalutare e ridurre significativamente le loro relazioni clientelari.
L’opinione pubblica merita un resoconto onesto di ciò che il nostro governo sta facendo in Medio Oriente e perché, e al momento la Casa Bianca non sta fornendo nulla di simile. Se il Presidente non vuole cambiare rotta, il minimo che possa fare è parlare con il popolo americano di tutti i costi che comporta continuare a percorrere la strada pericolosa che ha scelto.
*E’ editorialista regolare di Responsible Statecraft, collaboratore di Antiwar.com ed ex redattore senior della rivista The American Conservative. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia presso l’Università di Chicago. Scrive regolarmente per la sua newsletter, Eunomia, su Substack.
Le opinioni espresse dagli autori su Responsible Statecraft non riflettono necessariamente quelle del Quincy Institute o dei suoi associati.
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La Casa Bianca nega ancora che le tensioni in Medio Oriente siano legate a Gaza
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di Daniel Larison* – Responsible Statecraft 2 Febbraio 2024
(traduzione di Federica Riccardi)
L’amministrazione Biden continua a negare qualsiasi collegamento tra la guerra a Gaza e i conflitti in corso che coinvolgono le forze statunitensi in Iraq, Siria e Yemen. La posizione della Casa Bianca, secondo la quale si tratta di conflitti non collegati tra loro e che sono scoppiati nello stesso momento, non può conciliarsi con le prove che dimostrano come la guerra a Gaza abbia alimentato l’instabilità e la violenza regionale, compreso il recente attacco con un drone da parte di una milizia irachena, che ha ucciso tre membri del contingente americano e ne ha feriti più di 40 in una base in Giordania all’inizio di questa settimana.
Per quanto l’amministrazione voglia tenere il conflitto confinato a Gaza, la verità è che si è esteso a diversi altri Paesi. È un disservizio per il popolo americano e per il personale militare americano fingere che il sostegno degli Stati Uniti alla guerra a Gaza non abbia già avuto gravi conseguenze negative per la stabilità regionale e per le forze americane nella regione, quando è evidente che sia così. Quando gli è stato chiesto di questo “stesso, più ampio conflitto” durante una conferenza stampa mercoledì, il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale John Kirby ha respinto qualsiasi collegamento tra Gaza e gli attacchi degli Stati Uniti contro obiettivi Houthi o gli scontri tra le milizie locali e le forze statunitensi.
“Non sono assolutamente d’accordo con la vostra descrizione di uno stesso, più ampio conflitto. C’è un conflitto in corso tra Israele e Hamas… e noi ci assicureremo di continuare a fornire a Israele il sostegno di cui ha bisogno per difendersi da questa minaccia ancora attuale”, ha detto Kirby. “Ci sono stati attacchi alle nostre truppe e alle nostre strutture in Iraq e in Siria ben prima del 7 ottobre, certamente anche durante la scorsa amministrazione. Per quanto riguarda gli Houthi, possono sostenere quanto vogliono che questo è legato a Gaza, ma due terzi delle navi che hanno colpito non hanno alcun legame con Israele. Quindi non è vero, è una falsità”.
La risposta di Kirby è fuorviante e falsa. Il gruppo iracheno che ha rivendicato la responsabilità dell’attacco in Giordania, la Resistenza islamica dell’Iraq, ha dichiarato esplicitamente che il suo attacco era collegato alla guerra a Gaza. La leadership degli Houthi ha enfatizzato come i loro attacchi continueranno fino a quando la guerra continuerà. La decisione di altri attori di salire sul carro di una causa può essere cinica o meno, ma non si può negare che siano saliti sul carro.
Rifiutare di affrontare la realtà delle connessioni tra questi conflitti garantisce agli Stati Uniti di perseguire politiche inefficaci e controproducenti, ignorando che la chiave per disinnescare le tensioni regionali è porre fine alla guerra a Gaza il più rapidamente possibile.
Kirby non ha menzionato che gli attacchi dei miliziani contro le forze statunitensi in Iraq e Siria erano cessati per diversi mesi prima del 7 ottobre a seguito dell’intesa che gli Stati Uniti e l’Iran avevano raggiunto in relazione all’accordo sullo scambio di prigionieri. Solo dopo il 7 ottobre gli attacchi sono ripresi e sono aumentati a livelli record. Le milizie locali hanno altre ragioni per prendere di mira le forze statunitensi che sono precedenti alla guerra, ma non c’è modo di capire l’intensità degli attacchi negli ultimi mesi, o la loro cessazione durante la pausa dei combattimenti a Gaza l’anno scorso, senza riconoscere che sono legati alla guerra di Israele.
Bab El Mandeb
Lo stesso vale per gli attacchi degli Houthi. Gli Houthi non hanno lanciato una campagna contro la navigazione commerciale durante la loro guerra contro la coalizione saudita, quindi non è una cosa che hanno fatto abitualmente da quando hanno preso il potere nel 2014. I primi attacchi degli Houthi dopo il 7 ottobre erano rivolti proprio contro Israele. Gli Houthi hanno cambiato poi tattica prendendo di mira le navi commerciali, ma era chiaro che lo hanno fatto in risposta alla guerra.
Senza dubbio gli Houthi stanno agendo in modo opportunistico e stanno lanciando questi attacchi in parte per rafforzare le proprie sorti politiche in Yemen, ma questo non cambia la realtà che tali attacchi stanno avvenendo ora a causa della guerra a Gaza. Se questo è vero, sembra anche ragionevole concludere che gli assalti contro la navigazione potrebbero terminare con un cessate il fuoco.
L’amministrazione Biden ha forti incentivi politici a negare i legami tra questi diversi conflitti. Se riconosce un legame, diventa più difficile giustificare il suo appoggio incondizionato alla guerra di Israele, a causa dei costi maggiori che comporta. Inoltre, mina la loro argomentazione a favore di un’azione militare in Yemen contro gli Houthi.
La Casa Bianca ha bisogno che gli americani pensino che i costi del continuo sostegno alla guerra israeliana siano più bassi di quanto non siano in realtà, e ha anche bisogno che gli americani credano che gli attacchi allo Yemen non siano legati alla loro ostinata opposizione al cessate il fuoco a Gaza. Ora che ci sono morti americani a causa di un attacco della milizia irachena, l’amministrazione vuole compartimentare ogni conflitto, in modo che il popolo americano non concluda che i soldati statunitensi sono stati uccisi a causa di una guerra esterna che il presidente ha scelto di sostenere senza condizioni.
L’amministrazione insiste nel voler prevenire una guerra regionale, ma non ci riuscirà se non riconoscerà le relazioni tra la campagna di Israele e ciò che sta accadendo altrove in Medio Oriente. Negare il legame con Gaza nello Yemen ha già portato all’abbaglio dell’escalation contro gli Houthi. Questo non ha fatto nulla per rendere più sicure le spedizioni commerciali, ma ha trascinato gli Stati Uniti in un’altra inutile battaglia a tempo indeterminato. Il Presidente sta per commettere un errore simile in risposta all’attacco dei droni in Giordania.
Gli Stati Uniti possono scegliere di impelagarsi sempre di più nei conflitti mediorientali, come stanno facendo ora, oppure possono riconoscere l’inutilità e la follia di percorrere la stessa strada senza uscita come hanno già fatto in passato. Se Washington vuole evitare di essere coinvolta in nuovi conflitti, deve rifiutare la strada dell’escalation e deve smettere di alimentare la guerra a Gaza, che è uno dei principali fattori di instabilità regionale.
A lungo termine, gli Stati Uniti devono ridurre la loro presenza militare nella regione per rendere più difficile per altri attori colpire le forze americane, e devono rivalutare e ridurre significativamente le loro relazioni clientelari.
L’opinione pubblica merita un resoconto onesto di ciò che il nostro governo sta facendo in Medio Oriente e perché, e al momento la Casa Bianca non sta fornendo nulla di simile. Se il Presidente non vuole cambiare rotta, il minimo che possa fare è parlare con il popolo americano di tutti i costi che comporta continuare a percorrere la strada pericolosa che ha scelto.
*E’ editorialista regolare di Responsible Statecraft, collaboratore di Antiwar.com ed ex redattore senior della rivista The American Conservative. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia presso l’Università di Chicago. Scrive regolarmente per la sua newsletter, Eunomia, su Substack.
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GAZA. Nessuna notizia dell’ambulanza mandata a salvare la bimba palestinese
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Pagine Esteri, 5 febbraio 2024. Sono trascorsi otto giorni da quando a Gaza un’ambulanza della Mezzaluna Rossa è partita per soccorrere una bambina palestinese di 6 anni, Hind Hamada, unica sopravvissuta al fuoco dei carri armati israeliani che avrebbero circondato e colpito l’automobile in cui si trovava insieme a 6 parenti, inclusi 4 bambini.
Una coordinatrice del centralino della Mezzaluna Rossa, Rana al-Faqeh, è rimasta al telefono con la bambina per ore, provando a tranquillizzarla e a distrarla. Nonostante ciò Hind, come si può ascoltare dalla registrazione della telefonata, ha continuato a chiedere aiuto, a pregare i soccorritori di portarla via: “Si sta facendo buio e io ho paura del buio. Vieni a prendermi”. Durante la conversazione, in più occasioni, si è sentito distintamente il rumore degli spari.
Tutto è cominciato lunedì 29 gennaio, quando la sala operativa della PRCS ha ricevuto una chiamata di soccorso da parte di Layan Hamadeh di 15 anni. La ragazza chiedeva disperatamente aiuto perché l’automobile in cui si trovava, insieme ai genitori, ai due fratellini e alla cuginetta Hind, era circondata dai carri armati israeliani. Tra le urla si sentono gli spari e poi più nulla.
Yousef Zeino, volontario della Mezzaluna Rossa Palestinese di cui si sono perse le tracce
Durante le tre ore della telefonata successiva tra la sala operativa e la bambina di 6 anni, unica sopravvissuta nell’automobile, i membri della Mezzaluna Rossa hanno provato a coordinare la partenza e il percorso dell’ambulanza con l’esercito israeliano.
È un’operazione che, nella Striscia assediata dai militari israeliani, devono compiere organizzazioni internazionali, associazioni umanitarie e sanitarie e anche le agenzie delle Nazioni Unite per comunicare all’esercito il passaggio dei propri mezzi e provare a garantire la sicurezza del personale. Nonostante ciò a Gaza molte ambulanze sono state colpite e diversi operatori della Mezzaluna Rossa sono rimasti uccisi.
Ahmed Madhoun, volontario della Mezzaluna Rossa Palestinese di cui si sono perse le tracce
I due volontari partiti per raggiungere Hind, Yousef Zeino e Ahmed Madhoun, alle 18.00 circa di lunedì hanno comunicato alla sala operativa di essere arrivati sul luogo in cui si trovava l’automobile. Da quel momento, però, di loro si sono perse le tracce. Come per Hind, dopo l’interruzione delle comunicazioni.
Gli appelli quotidiani della Mezzaluna Rossa, che si è rivolta anche all’esercito israeliano per ottenere notizie, non sono riusciti al momento a ottenere risposte né informazioni. Dopo una settimana non si sa nulla di Hind né dell’ambulanza e dei due soccorritori che sembrano scomparsi nel nulla.
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Attacchi USA: il Medio Oriente sull’orlo di una guerra totale?
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 5 febbraio 2024 – Dopo l’uccisione di tre soldati americani in un attacco a sorpresa contro una base militare segreta in Giordania alcuni giorni fa, l’amministrazione Biden aveva promesso una rappresaglia esemplare.
Ma i massicci bombardamenti condotti sabato da Washington contro le milizie filoiraniane in Siria e in Iraq rappresentano un ulteriore passo in una escalation che rischia di andare completamente fuori controllo, innescando una guerra totale in Medio Oriente dagli esiti inimmaginabili.
Quello di Washington non è stato un raid episodico, di quelli fin qui condotti all’interno di un braccio di ferro con l’Iran fatto di azioni e rappresaglie in qualche modo misurate e deterrenti, ma un attacco su vasta scala contro decine di obiettivi. Non solo; Biden ha annunciato nuove azioni massicce aggressive ed ha minacciato di colpire direttamente il territorio iraniano.
Gli Stati Uniti devono dimostrare che fanno sul serio e che non intendono stare alla finestra mentre il cosiddetto “asse della Resistenza” – la rete di organizzazioni militari e politiche radicate in diversi paesi del Medio Oriente che fanno riferimento a Teheran – aumenta la pressione nei confronti di Israele per rivendicare la propria egemonia e contrastare il genocidio della popolazione di Gaza.
Washington ha lanciato un messaggio chiaro all’Iran e ai suoi alleati: se serve, gli Stati Uniti sono pronti anche alla guerra. Si tratta, in parte, di un bluff, e gli avversari degli Stati Uniti, ne sono coscienti. Una guerra frontale in Medio Oriente obbligherebbe la Casa Bianca, già impegnata sul fronte ucraino contro la Russia, a mobilitare centinaia di migliaia di uomini e centinaia di miliardi di dollari in un conflitto con forze assai più coese e battagliere rispetto all’esercito di Saddam Hussein, spazzato via senza grande sforzo pochi decenni fa.
Certamente, i caccia e i droni statunitensi sono entrati in azione per proteggere Israele, anche se negli anni i rapporti tra Washington e Tel Aviv si sono deteriorati visto che la nuova classe dirigente sionista vuole fare di testa sua e i suoi eccessi rischiano di mandare in pezzi la rete che gli Stati Uniti stanno faticosamente cercando di tessere con i paesi arabi dagli Accordi di Abramo in poi.
Ma è soprattutto per proteggere i suoi di interessi che gli Stati Uniti hanno deciso di entrare in azione con una campagna di bombardamenti così estesa, per tentare di rafforzare – o meglio, di ristabilire – la propria egemonia in un quadrante del mondo in cui la presa di Washington si è fortemente allentata. Negli ultimi decenni, il tradizionale dominio statunitense in Medio Oriente è stato indebolito dall’intervento russo a difesa del regime siriano e dalla crescita del ruolo iraniano nella regione, incentivato anche dai gravissimi errori compiuti da Washington ad esempio in Iraq che hanno favorito l’ascesa dei movimenti sciiti. Anche l’autonomizzazione del regime turco e le pretese egemoniche delle petromonarchie sunnite hanno ridotto Washington ad un attore spesso di secondo piano. Ora l’amministrazione Biden cerca di recuperare terreno esercitando il ruolo di gendarme globale già interpretato in passato, ma in un contesto completamente mutato e con la grazia di un elefante in un negozio di cristalli.
L’Iran e il suo alleato principale nella regione, il movimento sciita libanese Hezbollah, hanno più volte chiarito che non progettano di entrare in guerra con Israele, tantomeno con gli Stati Uniti. Israele è una potenza nucleare spregiudicata e può contare su un esercito tra i più forti del mondo, sorretto dai massicci invii di armi statunitensi e dagli aiuti finanziari provenienti da Washington. Attualmente la guerriglia trumpiana sta bloccando al Senato di Washington circa 14 miliardi di dollari destinati a Tel Aviv, ma in caso di guerra i Repubblicani difficilmente potrebbero mantenere il veto.
L’Iran, invece, sconta una profonda crisi economica – frutto anche di decenni di embarghi economici – e non è militarmente pronto per uno scontro diretto. Se volesse sostenere una guerra frontale, Teheran dovrebbe convincere Mosca e Pechino a un sostegno economico e militare massiccio che, almeno al momento, non sembra all’ordine del giorno.
Ma se Biden è convinto che aumentando la pressione militare contro le ramificazioni di Teheran in Medio Oriente convincerà gli ayatollah a fermarsi per evitare una guerra regionale su vasta scala nella quale questi ultimi non vogliono assolutamente imbarcarsi, è anche vero che le continue provocazioni di Washington e di Tel Aviv – bombardamenti, omicidi mirati, attentati, sabotaggi – in vari paesi del quadrante rischiano di suscitare l’effetto contrario.
Fino a quando la classe dirigente iraniana potrà sopportare di essere colpiti senza perdere la faccia di fronte alle rispettive popolazioni già inferocitedopo quattro mesi di operazioni militari israeliane che hanno ucciso decine di migliaia di palestinesi e reso la Striscia di Gaza un cumulo di macerie? Fin quando gli apparati dell’Asse della Resistenza riusciranno a tenere a basa gli incitamenti alla vendetta di organizzazioni decimate da un continuo stillicidio di omicidi mirati?
Il rischio è proprio che il meccanismo “azione-ritorsione”, che fin qui ha consentito ad entrambi i contendenti di tenere il punto, mirando a disincentivare l’avversario dallo spingersi oltre nello scontro, sfugga improvvisamente di mano.
Basterebbe che una delle milizie alleate – ma non necessariamente del tutto controllate da Teheran – decidesse di alzare il tiro contro Israele o gli interessi di Washington nella regione per accendere una miccia che nessuno sarebbe più in grado di spegnere. Ad esempio in Iraq, dove da tempo movimenti politici e militari sciiti ma anche nazionalisti sunniti chiedono a gran voce l’espulsione delle truppe statunitensi di stanza nel paese. Non a caso il portavoce delle forze armate irachene, Yahya Rasul, ha denunciato: «Questi attacchi sono una violazione della sovranità irachena, minano gli sforzi del nostro governo e rappresentano una minaccia che trascinerà l’Iraq e la regione verso conseguenze impreviste, le cui ripercussioni saranno disastrose». Persino l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, il catalano Josep Borrell, si è profuso in un sibillino «Tutti dovrebbero evitare che la situazione nella regione diventi esplosiva».
Sul fronte opposto Israele e le lobby filoisraeliane statunitensi, da decenni spingono per una guerra totale con l’Iran e potrebbero approfittare del clima già incandescente per dare fuoco alle polveri e mettere la Nato di fronte al fatto compiuto. Imbarcandoci tutti in una guerra regionale sì, ma su vasta scala, ennesimo e imprevedibile fronte di una guerra mondiale “a pezzi” che stiamo già combattendo senza che sia mai stata dichiarata.
La maggior parte degli analisti, al momento, non crede all’imminenza di una guerra totale in Medio Oriente. Eppure, afferma la CNN, «Errori o eventi imprevisti possono portare a spirali e ciò può portare a conflitti inevitabili e più ampi in una zona ad alta tensione». «È quasi un miracolo che un conflitto più ampio non sia già scoppiato in Medio Oriente quattro mesi dopo l’attacco del gruppo militante palestinese Hamas contro Israele» riconosce il network statunitense. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria
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In Cina e Asia – Pechino condanna blogger australiano alla pena di morte sospesa
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EL SALVADOR AL VOTO. Bukele tornerà presidente ma la povertà minerà la sua popolarità
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di Andrea Cegna*
Pagine Esteri, 3 febbraio 2024 – Domani si vota in Salvador. L’esito dell’elezione presidenziale è dato per scontato. Nayib Bukele tornerà ad essere presidente in quello che più che un voto si annuncia come un plebiscito. Alcuni sondaggi indicano che potrebbe prendere fino al 90% delle preferenze, anche perché che le opposizioni sono inesistenti e mancano, tristemente fatto necessario nella politica di oggi, di un leader credibile.
Bukele vincerà nonostante la sua candidatura abbia mostrato diverse criticità per dubbi costituzionalità. La carta fondamentale del Salvador infatti non darebbe la possibilità di un secondo mandato. L’articolo 154 della Magna Carta decreta in 5 anni il mandato “senza che la persona che ha esercitato la Presidenza possa continuare le sue funzioni un giorno di più”, mentre l’articolo 248 vieta qualsivoglia riforma costituzionale riguardante l’alternanza nell’esercizio della presidenza della Repubblica e l’articolo 75 che sanziona con la perdita dei diritti di cittadino coloro che promuovono la rielezione o la continuazione del presidente. Tuttavia con un colpo di mano nel 2021 Bukele, cambiando la maggior parte dei giudici della Corte Costituzionale, ha fatto rivedere la materia e grazie alla sentenza che dice “una persona che esercita la Presidenza della Repubblica e non è stato presidente nel precedente periodo immediato, può partecipare alla competizione elettorale per una seconda volta” si è dimesso alcuni mesi fa così da potersi “legittimamente” ricandidare.
Ma è il sostegno popolare di cui gode oggi a permettergli di correre nuovamente. Sostegno che si basa tutto sul “successo” dello stato di eccezione contro pandillas e maras, ossia la criminalità organizzata. Si tratta di una legge speciale che ha condotto nell’ultimo anno circa il 10% della popolazione maschile in carcere, alzato il potere discrezionale della polizia, e messo in moto azioni repressive contro la delinquenza comune, senza però agire sulle cause che spingono migliaia di salvadoregni ad entrare nei gruppi criminali. Anzi la povertà si sta allargando nel paese e questo fattore rischia di creare un cortocircuito tra propaganda, repressione e stato reale nella vita delle persone. Certo è che ad ora il sostegno verso Bukele è talmente alto che vedere, o cercare di vedere, spazi di crisi della sua futura presidenza è difficile.
Un vaticinio però circola in diversi ambienti del paese. Molte voci sostengono che scemerà il sostegno allo stato d’emergenza e la crescente povertà metterà in crisi il presidente. Nell’ottobre dello scorso anno un rapporto della Banca Mondiale sosteneva che “sebbene negli ultimi anni il debito sia diminuito, è ancora superiore ai livelli prepandemia e la posizione fiscale del paese rimane fragile. Il governo è sottoposto a pressioni di liquidità dovute alla riduzione delle alternative di finanziamento. Un quadro di bilancio a medio termine ben definito potrebbe ridurre l’incertezza e consentire al paese di recuperare la capacità di emettere debito sui mercati internazionali per promuovere una crescita sostenibile”.
A luglio il governo di Bukele ha reso pubblica una sua inchiesta fiscale che rileva come la popolazione in povertà, cioè le cui entrate sono insufficienti a coprire le spese di base, sia aumentata a 1,87 milioni di persone nel 2022, cifra record che ha superato quella registrata nei quattro anni precedenti. Uno studio di fine 2023 realizzato dal Centro di studi di opinione pubblica (CEOP) di FUNDAUNGO dice: “Alla fine del 2023, sette persone su 10 (69,9%) segnalano che l’economia è il problema più grave che il paese deve attualmente affrontare. Il 4,4% indica problemi associati all’insicurezza e la violenza, il 2,2% a problemi politici e di governance, l’1,8% segnala il regime di deroga, lo 0,1 % il COVID 19 e l’8,3 % per altri tipi di problemi. Il 9 % della la popolazione non riconosce alcun problema particolare, mentre il 4,3% non sa e non risponde”.
Nel corso del tempo si osserva come la percezione dell’insicurezza e della violenza siano diminuite gradualmente, a partire dalla fine del 2021, così come la percentuale di segnalazioni che la indicavano come problema più grave del paese. Pertanto il tema dell’economia ha cominciato ad essere identificato come la principale preoccupazione della popolazione salvadoregna, passando dal 28,9% nel novembre/dicembre 2021 al 69,9 % nel novembre/dicembre 2023. Inoltre, il COVID 19 non è più stato segnalato come motivo di preoccupazione più pressante tra la popolazione, passando dal 10,2 % alla fine del 2021 a solo lo 0,1 % nella misurazione novembre/dicembre 2023”.
Ora Bukele si “gode” i risultati della sua guerra alle pandillas ma con la povertà crescente e l’incapacità di affrontare le questioni socio/politiche/economiche che hanno permesso la crescita del crimine cosa succederà? Pagine Esteri
*Giornalista-pubblicista nato nel 1982. Attualmente collaboratore di diverse testate tra cui Il Manifesto, Radio Onda d’Urto, Radio Popolare, Altreconomia, Il Fatto Quotidiano, Desinformemonos. Ho iniziato conducendo programmi a Radio Lupo Solitario, in provincia di Varese. Ho scritto anche dei libri, l’ultimo “Cosa Succede in Città” per Prospero Editore.
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GAZA. Le immagini della devastazione e la distruzione delle case per impedire il ritorno dei profughi
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Pagine Esteri, 2 febbraio 2024. Un’indagine del quotidiano inglese The Guardian, utilizzando immagini satellitari e video open source, ha messo insieme prove visive della terribile devastazione della Striscia di Gaza dopo 119 giorni di bombardamenti. Le zone distrutte o danneggiate ricoprono la maggior parte della cartina geografica.
È possibile visionare il “prima e dopo” di diverse aree e quartieri che sono stati non solo danneggiati dai bombardamenti ma successivamente appiattiti e livellati dalle ruspe dell’esercito israeliano. I militari hanno cambiato la geografia dei luoghi creando crateri, avvallamenti, sentieri militari e livellando campi sportivi, terreni agricoli, cimiteri, interi quartieri residenziali.
A Beit Hanoun, ad esempio, una città nel nord-est di Gaza circondata da terreni agricoli che nel 2017 ospitava circa 50.000 persone, un quartiere residenziale con più di 150 edifici è stato appiattito. Una scuola delle Nazioni Unite è stata fatta saltare in aria, gli ospedali sono stati distrutti o gravemente danneggiati. Si stima che almeno il 39% dei terreni agricoli del nord della Striscia sia stato distrutto.
Particolare Beit Hanoun – PRIMA
Particolare Beit Hanoun – DOPO
I bombardamenti e l’invasione di terra dell’esercito non solo hanno costretto 1,9 milioni di persone a lasciare le proprie case, divenendo sfollati, ma di fatto ne impediscono il ritorno. La distruzione deliberata, completa o parziale delle abitazioni, viene utilizzata in guerra proprio per rendere impossibile il ritorno dei profughi. Alcuni esperti hanno coniato per questo il termine “domicidio” e chiesto che l’azione venga legalmente riconosciuta come strumento e crimine di guerra.
Non solo le abitazioni ma anche le università, le moschee, i supermercati sono stati letteralmente distrutti. I bulldozer sono entrati anche negli stadi di calcio, rendendoli completamente inutilizzabili. Grandi e piccoli cimiteri sono stati appiattiti dalle ruspe che hanno distrutto le lapidi, schiacciato e mischiato i resti dei defunti, rendendo impossibile recuperare le ossa.
L’analisi dei dati satellitari di Corey Scher della City University di New York e Jamon Van Den Hoek dell’Oregon State University rivela che tra il 50% e il 62% di tutti gli edifici di Gaza sono stati danneggiati o distrutti. Ma la stima potrebbe essere ottimistica: la distruzione totale è più semplice da individuare dalle immagini ma è quasi impossibile stabilire il numero degli edifici danneggiati quanto l’entità stessa dei danni.
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In Cina e Asia – Cina, Xi Jinping chiede la modernizzazione del sistema industriale
Cina, Xi Jinping chiede la modernizzazione del sistema industriale
Cina, Il nuovo smartphone di Samsung sceglie Ernie Bot
Stati Uniti contro le aziende tech cinesi che aiutano il PLA
AUKUS, passi in avanti per l'adesione della Nuova Zelanda
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Taiwan Files – Han Kuo-yu del Guomindang alla guida dello Yuan legislativo
I nuovi equilibri in paramento complicano le letture semplicistiche del voto del 13 gennaio. Reazioni alle urne e manovre di Taipei, Pechino e Washington. Tsai all'isola di Taiping? Una questione politica e identitaria. Tuvalu molla Taipei? Il dossier energetico. Macchine taiwanesi per le armi russe. Il dossier energia. Microchip. Addio al nonno arcobaleno. La rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
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Ucraina. «A Kiev regna la disperazione»
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 2 febbraio 2024 – A quasi due anni dall’invasione russa, le speranze dell’Ucraina di uscire vincitrice dalla guerra con Mosca sono ridotte al lumicino, e nei palazzi del potere di Kiev regna «un senso di disperazione».
Lo scrive in una lunga e dettagliata analisi il “Washington Post”, secondo cui l’Ucraina sta faticando a ottenere dai suoi sponsor occidentali il sostegno militare ed economico necessario a fronteggiare un’offensiva di Mosca che nelle ultime settimane ha portato alla perdita di altri territori in Donbass e nell’oblast di Kharkiv.
Nei giorni scorsi il presidente Volodymyr Zelensky ha realizzato un ennesimo tour delle capitali occidentali alla ricerca di nuovi aiuti, in un clima segnato – ricorda il quotidiano statunitense – «dal crescente affaticamento internazionale nei confronti del conflitto e dalla paralisi del Congresso Usa sullo stanziamento di ulteriori fondi per Kiev».
Un anno difficile
Il “Washington Post” riporta che i funzionari statunitensi e occidentali prevedono un anno difficile per l’Ucraina e sollecitano quindi Kiev a preservare le sue forze armate, esauste dopo mesi di combattimenti, e a consolidare le difese piuttosto che a tentare improbabili e dispendiose offensive per riconquistare i territori perduti.
La scorsa settimana il Pentagono «si è presentato a mani vuote» all’incontro di coordinamento mensile tra i 50 paesi che sostengono militarmente l’Ucraina. Infatti Washington ha esaurito a dicembre il grosso dei fondi finora stanziati dal Congresso per supportare Kiev e il governo non è stato in grado di sbloccarne di nuovi a causa dell’opposizione repubblicana.
Al fronte – prosegue il quotidiano – «i rapporti indicano che le scorte di munizioni e proiettili d’artiglieria scarseggiano» mentre la Russia è riuscita ad aumentare la produzione interna e ad assicurarsi nuove scorte grazie alla collaborazione dei suoi partner.
«Al momento, tutto indica che quest’anno avremo a disposizione meno proiettili dello scorso anno, quando abbiamo tentato una controffensiva che non ha funzionato. In questo caso non potremo che limitarci alla difesa» ha dichiarato al WP il parlamentare ucraino Roman Kostenko.
Soldati ucraini in trincea
Washington: “impegnare la Russia senza avanzare”
Ma non sono solo le divisioni tra repubblicani e democratici a penalizzare Kiev. Lo stesso governo statunitense – conferma ancora il quotidiano statunitense – avrebbe deciso di limitare i propri aiuti, puntando a evitare che l’Ucraina resista agli attacchi russi senza però prevedere che il paese possa liberare i territori annessi da Mosca. Secondo le fonti del quotidiano, la nuova strategia della Casa Bianca sarebbe il frutto «dei risultati deludenti delle controffensiva ucraina dell’anno scorso». «È abbastanza chiaro che sarà difficile per Kiev cercare di mettere in campo lo stesso genere di spinta forte su tutti i fronti, come ha tentato di fare nel 2023» ha osservato un funzionario della Casa Bianca citato dal Post.
Sfumata la possibilità di una vittoria netta contro Mosca, Washington non vorrebbe rinunciare a continuare a utilizzare il conflitto ucraino per impantanare il più a lungo possibile la Russia, tentando di indebolirla. Gli aiuti, quindi, dovrebbero consentire a Kiev di impegnare per anni le truppe russe ma l’Ucraina dovrebbe abbandonare l’idea di riconquistare i territori persi.
Stando alle fonti interrogate dal Post, il documento su cui si basa la nuova strategia della Casa Bianca mira a garantire a Kiev operazioni militari a breve termine e la creazione di una forza militare ucraina in grado di scoraggiare ulteriori avanzate russe. Washington si impegnerebbe inoltre a «proteggere, ricostituire ed espandere la base industriale e dell’export» dell’Ucraina, ovviamente avvantaggiando la propria economia e i propri interessi nell’area. Intanto Biden ha annunciato la volontà di trasferire armi nucleari statunitensi sul suolo della Gran Bretagna, una mossa che Mosca non ha preso per niente bene.
L’Ue supera lo scoglio del veto ungherese
Di fronte alla parziale ritirata di Washington, i paesi europei cercano come possono di ritagliarsi un ruolo maggiore nel sostegno a Kiev, sperando che lo sforzo porti a qualcosa. La scorsa settimana il premier britannico Rishi Sunak e il presidente ucraino Zelensky hanno siglato un accordo bilaterale di sicurezza della durata di dieci anni, e presto potrebbe toccare alla Francia.
Ieri, inoltre, i 27 sono riusciti almeno in parte a superare lo scoglio rappresentato dal veto ungherese alla fornitura di nuovi ingenti aiuti militari all’Ucraina. In cambio dello sblocco dei fondi congelati a causa della violazione di numerose direttive da parte di Budapest, il governo del nazionalista Orban ha accettato di sottoscrivere un accordo di compromesso. «Tutti i 27 leader hanno concordato un pacchetto di sostegno aggiuntivo di 50 miliardi per l’Ucraina all’interno del bilancio Ue. Così si garantisce un finanziamento costante, a lungo termine e certo» ha rivendicato in una dichiarazione il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel. Nei giorni scorsi fonti dell’Ue avevano ventilato l’applicazione a Budapest di forti sanzioni nel caso non avesse rimosso il veto.
Nei giorni scorsi, poi, Germania, Polonia e Paesi Bassi hanno firmato un accordo – ribattezzato “Schengen militare” – per creare un corridoio destinato a far transitare velocemente le armi destinate all’Ucraina. Intanto però l’Unione Europea ha dovuto ammettere di non essere in grado di inviare a Kiev il milione di proiettili promessi entro marzo, obiettivo raggiungibile solo all’inizio del prossimo anno.
Il generale Valery Zaluzhny
Corruzione e lotte intestine
Kiev ha fame di munizioni, e la diffusa corruzione non aiuta a far fronte alle necessità. Nei giorni scorsi il Servizio di Sicurezza Ucraino (SBU) ha arrestato una persona e ha denunciato altri cinque funzionari di alto rango, accusandoli di aver intascato 36 milioni di euro destinati nell’agosto del 2022 all’acquisto di 100 mila proiettili di mortaio, ovviamente mai consegnati. Ora i fondi rubati, trasferiti su vari conti in Ucraina e nei Balcani, sarebbero stati recuperati e i sei imputati rischierebbero fino a 12 anni di reclusione. L’ampia pubblicità concessa all’operazione mira ad accreditare i successi della campagna di Zelensky contro la corruzione, definita dal presidente una forma di tradimento. Ma il fatto che a condurre l’inchiesta sia stata l’SBU e non gli organismi preposti lascia trapelare per l’ennesima volta la gravità dello scontro in corso tra i diversi apparati dello stato ucraino.
Il duello Zelensky-Zaluzhny
Da parecchi giorni, ormai, sui media e sui social ucraini è un fiorire di conferme e smentite sulla defenestrazione del generale Valery Zaluzhny, comandante in capo delle forze armate inviso a Zelensky che ne teme il carisma e le potenzialità politiche (diversi sondaggi lo indicano come più popolare dell’attuale capo dello stato). Secondo alcune fonti, tra le quali il quotidiano britannico “The Times”, Zaluzhny sarebbe stato effettivamente silurato dal presidente dopo aver rifiutato l’offerta di un nuovo incarico, ma le proteste di vari comandanti dell’esercito e di alcuni importanti partner internazionali di Kiev – in particolare di Washington e di Londra – avrebbero convinto Zelensky a soprassedere, almeno momentaneamente. Ma il presidente avrebbe già pronto il decreto di licenziamento del suo rivale, mossa che però potrebbe infliggere un duro colpo alla tenuta delle forze armate.
L’ennesimo pomo della discordia tra il politico e il generale è rappresentato dalla portata della nuova mobilitazione. Da mesi le truppe schierate al fronte in certi casi da più di due anni lamentano la mancanza di avvicendamenti e denunciano che il compito di difendere il paese non può essere affidato soltanto a una piccola percentuale di cittadini. A decine di migliaia sono fuggiti all’estero o si sono imboscati per sfuggire alla chiamata alle armi (nel paese finora sono stati aperti circa 9 mila procedimenti per renitenza alla leva) e nella maggior parte del paese si vive come se la guerra non esistesse.
Il governo, dopo numerosi rinvii, ha deciso finalmente di presentare in parlamento una legge diretta ad arruolare truppe fresche. I numeri chiesti da Zaluzhny, però, sono lontani, e Zelensky non ha intenzione di richiamare le 500 mila nuove reclute chieste dai comandi militari; sarebbe una misura troppo antipopolare. Il governo ha anzi apportato alcune modifiche al progetto di legge inizialmente presentato, proprio per ridurre il numero delle convocazioni al fronte. La proposta comunque prevede un indurimento delle sanzioni per chi non risponde alla chiamata e abbassa l’età del reclutamento obbligatorio dei civili da 27 a 25 anni, riduce le esenzioni per alcune categorie di dipendenti pubblici e permette il reclutamento per i detenuti che godano di una sospensione condizionale della pena.
I tempi dell’approvazione della nuova legge, però, potrebbero essere lunghi, e comunque le nuove leve hanno bisogno di almeno tre mesi di addestramento prima di diventare operative. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria
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BRASILE. Spari contro gli aerei dei cercatori d’oro ma la situazione degli Yanomami peggiora
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Pagine Esteri, 1 febbraio 2024. Nonostante gli sforzi del presidente Luiz Inácio Lula da Silva e i tentativi del suo governo, i minatori d’oro stanno tornando nella riserva indigena di Yanomami, portando morte e distruzione.
L’Aeronautica militare ha fatto sapere di aver sparato colpi di mitragliatrici contro un aereo non identificato che sorvolava l’aerea nonostante la no Fly zone imposta dal governo.
La stessa aeronautica è stata molto criticata per non aver fatto abbastanza, in questi mesi, per evitare che i minatori d’oro entrassero illegalmente nella riserva. Le organizzazioni ambientaliste hanno anzi presentato un documento che accusa apertamente le forze armate di star sabotando i tentativi di protezione dell’area cominciati un anno fa.
Lo scorso anno un’operazione governativa è riuscita a cacciare circa 20.000 minatori dalla riserva indigena delle dimensioni del Portogallo. La presenza dei minatori e dei loro mezzi di estrazione è una delle cause principali della crisi umanitaria che mette a rischio la popolazione indigena, che muore per le malattie, la fame e la violenza.
In un video diffuso dalle forze armate brasiliane, si vede l’aereo, un Cessna 182 monomotore, costretto ad un atterraggio di emergenza a seguito dei colpi di avvertimento partiti dalle mitragliatrici dell’esercito.
Il pilota è riuscito a far atterrare il mezzo ed è poi fuggito nella foresta. La polizia federale non è riuscita a rintracciarlo ma ha sequestrato il velivolo.
Le organizzazioni internazionali denunciano che la grave crisi umanitaria del popolo Yamomai continua a peggiorare, nonostante i tentativi del governo.
‼️ Entidades representativas dos servidores do Ibama, MMA, ICMBio, SFB e da Funai repudiam atuação das Forças Armadas na operação Yanomami em nota pública. Leia na íntegra 👇🏽t.co/qeHqBoNOJU— Comissão Pró-Índio de São Paulo (@proindio) February 1, 2024
Dal comunicato stampa di Survival International:
Gli esperti denunciano che una grave crisi sanitaria sta devastando il popolo Yanomami, nel nord dell’Amazzonia brasiliana, a un anno dalla massiccia operazione governativa che doveva liberare il territorio Yanomami dai cercatori d’oro illegali.
I dati diffusi dal servizio sanitario ufficiale nell’area mostrano che:
- Nel 2023, l’incidenza della malaria è aumentata del 61%, con almeno 25.000 casi.
- Anche il tasso di influenza è aumentato in modo drammatico, passando da 3.203 casi nel 2022 a 20.524 nel 2023 (un incremento del 640%)
- 308 indigeni sono morti (gennaio – novembre 2023), e la maggior parte erano bambini sotto i 5 anni.
La Corte Inter-Americana per i Diritti Umani ha pubblicato di recente una schiacciante risoluzioneche mostra quanto la situazione nel territorio Yanomami si sia deteriorata:
- I servizi sanitari nell’area funzionano a malapena. Nove avamposti sanitari, che avrebbero dovuto essere riaperti, sono ancora chiusi.
- C’è poca disponibilità di acqua potabile.
- Sono ancora attivi molti siti minerari illegali.
- “Persiste una situazione estremamente grave e urgente, che sta arrecando danni irreparabili alla vita e alla salute dei popoli indigeni.”
- “Nel Territorio Indigeno Yanomami permangono ancora gruppi di minatori armati che appartengono a bande criminali organizzate, che distribuiscono armi alla popolazione indigena e cercano di controllarla.”
Foto e video recenti provenienti dal territorio mostrano una malnutrizione drammatica tra bambini e adulti yanomami, ma anche cercatori d’oro illegali che agiscono nell’area nell’impunità.
Una pista di atterraggio illegale costruita dai cercatori d’oro appena all’interno del confine venezuelano, nel cuore del Territorio Yanomami. Sono visibili nove aerei leggeri. © Globo TV
In un episodio particolarmente scioccante ripreso in video, si vedono tre giovani bambini yanomami legati e tenuti prigionieri dai cercatori d’oro.
“Il governo non è riuscito a risolvere la situazione nemmeno con il decreto d’emergenza,” ha detto Dario Kopenawa Yanomami, vice-presidente dell’Associazione Yanomami Hutukara. “I minatori sono ancora nella terra yanomami. E oggi le attività minerarie sono più distruttive di quanto non lo fossero negli anni ’80 e ’90. Oggi a cercare l’oro nel territorio Yanomami ci sono bande criminali, il crimine organizzato, il PCC (Primo Commando Capitale) e il Commando Vermelho (Commando Rosso). È una situazione molto, molto grave e gli Yanomami sono estremamente vulnerabili. I bambini continuano a morire di malaria e polmonite, per parassiti e tubercolosi. Gli Yanomami e la loro terra continuano a soffrire una crisi umanitaria. E noi continueremo a lottare e a criticare i governi federale e statali.”
“Nonostante le promesse fatte dal Presidente Lula al momento del lancio dell’operazione per sfrattare i cercatori d’oro, un anno fa, la situazione attuale nel Territorio Yanomami è catastrofica” ha commentato Fiona Watson, Direttrice del Dipartimento Ricerca e Advocacy di Survival International.
“I minatori stanno ritornando nell’area, e i vecchi siti di estrazione vengono ripristinati” ha detto Watson.
“Le forze armate, che sono coinvolte nell’operazione per sfrattare i minatori, si muovono lentamente. Molti avamposti e servizi sanitari cruciali, che sarebbero essenziali, non funzionano.”
“La situazione per le migliaia di Yanomami che vivono oltreconfine, sul lato venezuelano, è tragica, e non riceve praticamente alcuna attenzione mediatica. I cercatori d’oro stanno operando in nuove aree del Venezuela con il supporto dei militari venezuelani. Al momento è in corso un’epidemia di malaria, e molti Yanomami sono morti.”
“Particolarmente preoccupante è la situazione degli Yanomami incontattati – sappiamo che i cercatori d’oro stanno ancora operando a pochi chilometri dalle loro comunità”.
“Se questa situazione dovesse continuare, moriranno centinaia di altri Yanomami e la loro terra diventerà inabitabile. È assolutamente cruciale che le nuove misure appena annunciate dal Presidente Lula vengano attuate immediatamente nell’ambito di un’operazione prolungata e completa per sfrattare i minatori in modo definitivo e per fornire l’assistenza sanitaria urgente necessaria. Inoltre, è essenziale che queste attività vengano poi mantenute nel tempo – altrimenti questa tragedia si ripeterà ancora e ancora, fino a quando gli Yanomami non saranno stati decimati. È ora che tutti coloro che guadagnano dall’estrazione illegale dell’oro rispondano dei loro crimini”.
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In Cina e in Asia – Il nuovo ministro della Difesa cinese riafferma la cooperazione militare con la Russia
I titoli di oggi: Il nuovo ministro della Difesa cinese riafferma la cooperazione militare con la Russia La Cina attua nuove misure per sostenere il settore immobiliare Medio Oriente, Russia e Taiwan: i temi discussi da Wang e Sullivan La Cina apprezza il sostegno delle Nazioni Unite al principio dell’unica Cina Cina, giustiziati un padre e la sua fidanzata per ...
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In Cina e Asia – Usa e Cina finalizzano patto di collaborazione sul fentanyl
I titoli di oggi: Usa e Cina finalizzano patto di collaborazione sul fentanyl Papua Nuova Guinea, al vaglio patto di sicurezza con la Cina Myanmar, giunta manda inviato ASEAN Usa e Cina finalizzano patto di collaborazione sul fentanyl È ufficiale: Washington e Pechino hanno lanciato un gruppo di lavoro per il controllo dei traffici di fentanyl, l’oppioide che in questi ...
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In Cina e Asia – Interrogatori "ingiustificati” per gli studenti cinesi negli Usa
La Cina denuncia interrogatori “ingiustificati” per gli studenti cinesi negli Usa
Cina, un altra espulsione nel settore missilistico
Accordo Cina-Hong Kong sul riconoscimento reciproco delle cause civili e commerciali
Vietnam e Filippine siglano accordo sulla difesa marittima
L'ASEAN manderà assistenza umanitaria in Myanmar
Filippine, accuse reciproche tra Marcos e Duterte
Filippine, la CNN sospende le trasmissioni
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VIDEO JENIN. Soldati israeliani travestiti uccidono tre palestinesi all’ospedale Ibn Sina
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Pagine Esteri, 30 gennaio 2024. Alle prime luci dell’alba circa 12 militari israeliani infiltrati hanno fatto irruzione all’ospedale Ibn Sina di Jenin. Il video registrato dalle telecamere di sorveglianza mostra il loro ingresso. Travestiti per sembrare arabi, con le tuniche tipiche maschili, con il velo da donna o con la divisa medica, hanno nascosto i fucili forniti di silenziatori tra gli abiti, in una sedia a rotelle e in una culla per neonati. Obiettivo del raid l’uccisione di tre combattenti palestinesi, uno dei quali precedentemente ferito e in degenza al terzo piano della struttura sanitaria.
Nonostante la versione delle forze armate israeliane parli dell’ospedale come di una base operativa di Hamas, i soldati non hanno trovato alcuna resistenza né all’ingresso della struttura né durante l’accesso ai vari piani e alle sale di ricovero. L’esercito ha pubblicato la fotografia di una pistola che uno dei tre combattenti, Mohammed Jalamneh, di 27 anni, avrebbe avuto con sé durante e che gli è stata “confiscata”. I militari, dopo le tre esecuzioni, sono usciti dall’ospedale e dal campo profughi senza difficoltà.
I tre palestinesi uccisi sono stati accusati, in un comunicato delle forze armate, di far parte di una cellula terroristica di Hamas e di essere in procinto di organizzare un attentato terroristico.
Le altre due vittime sono due fratelli, Mohammad e Basil Al Ghazawi. Quest’ultimo era rimasto ferito alcune settimane fa in un bombardamento israeliano.
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Il Ministero della Sanità palestinese ha chiesto alle Nazioni Unite e alle organizzazioni per i diritti umani di garantire la sicurezza e la protezione delle strutture ospedaliere, delle ambulanze e del personale sanitario. Non è la prima volta che l’ospedale Ibn Sina è stato oggetto di un attacco da parte dell’esercito israeliano. In precedenti raid i militari avevano bloccato le ambulanze, circondato la struttura con i carri armati e ordinato al personale medico di lasciare l’ospedale uscendo con le mani alzate.
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La destra israeliana si riunisce sulla ricostruzione delle colonie a Gaza
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della redazione
Pagine Esteri, 29 gennaio 2024 – Ieri sera fronte a un pubblico di migliaia di coloni e di attivisti di destra, 12 ministri del governo Netanyahu e 15 parlamentari della coalizione di maggioranza si sono impegnati a ricostruire gli insediamenti ebraici israeliani nel cuore della Striscia di Gaza e a incoraggiare l’“emigrazione” della popolazione palestinese dopo la fine della guerra.
I ministri del Likud, il partito di maggioranza relativa, presenti all’evento erano Miki Zohar, Haim Katz, Idit Silman, Shlomo Kahri, May Golan e Amichai Chikli. Hanno partecipato anche i ministri di Otzma Yehudit (Potere Ebraico) Ben Gvir, Yitzhak Wasserlauf e Amichai Eliyahu, insieme a Bezalel Smotrich e Orit Strock di Sionismo Religioso. Presenti anche un ministro il Partito del Giudaismo della Torah e l’influente rabbino Dov Lior. La folla, circa 3mila persone, è giunta in maggioranza dalle comunità sioniste religiose. Presenti centinaia di giovani e molte famiglie, compresi bambini piccoli.
A nome degli organizzatori della conferenza che si è tenuta al Centro Congressi di Gerusalemme, la presidentessa dell’associazione dei coloni, Nachala, e attivista degli insediamenti Daniella Weis ha chiesto che i 2,3 milioni palestinesi di Gaza “lascino il territorio” e vadano all’estero. “Milioni di profughi di guerra vanno da un paese all’altro in tutto il mondo”, ha dichiarato Weiss, contestando che solo quelli che ha descritto come i “mostri cresciuti a Gaza (i palestinesi)” restino collegati ad essa. Weiss ha quindi proclamato che “Solo il popolo di Israele si stabilirà sull’intera Striscia di Gaza e la governerà”.
“E’ ora di tornare a casa a Gush Katif”, ha detto da parte sua il ministro della Sicurezza e leader dell’estrema destra, facendo riferimento al nome del blocco di insediamenti israeliani a Gaza evacuato con il Piano di Disimpegno del 2005. Ben Gvir e il suo collega Smotrich, insieme a sei parlamentari della coalizione, hanno firmato quello che è stato soprannominato il “Patto di vittoria e rinnovamento degli insediamenti” a Gaza. Uno striscione alzato dalla folla diceva: “Solo un trasferimento [di palestinesi da Gaza] porterà la pace”.
Israele ha smantellato i 21 insediamenti ed evacuato 8.000 coloni da Gaza circa 19 anni fa.
Netanyahu non ha partecipato alla conferenza e sabato sera aveva dichiarato di essere contrario al reinsediamento a Gaza di coloni. Ha inoltre smentito che il tema della conferenza rappresenti una politica del suo governo. Una posizione conseguenza anche dell’opposizione degli Stati Uniti e di altri paesi alleati di Israele alla colonizzazione di Gaza, al centro di offensiva israeliana devastante che ha fatto oltre 26mila morti, decine di migliaia di feriti e distrutto interi centri abitati palestinesi.
Qualcuno però sostiene che la colonizzazione di Gaza diventerà un pilastro della campagna elettorale della destra quando Israele andrà al voto. Pagine esteri
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In Cina e Asia – Evergrande, tribunale di Hong Kong ordina liquidazione
I titoli di oggi: Evergrande, tribunale di Hong Kong ordina liquidazione Cina e Stati Uniti tornano a parlare di contrasto alla diffusione del fentanyl Cina e Corea del Nord “rafforzeranno la comunicazione strategica Cina, ricompense a chi presenta delle donne da sposare agli scapoli nelle zone rurali La Cina è “il leader delle rinnovabili” India e Francia rafforzano le relazioni ...
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Africa Rossa – In attesa del Piano Mattei, la Cina si allarga in Africa
Il Piano Mattei prenda forma: venticinque capi di Stato e di governo, i vertici europei da Ursula von der Leyen a Roberta Metsola, rappresentanti dell’Onu, della Fao e del Fondo monetario. È un parterre decisamente ricco quello che, tra domenica 28 e lunedì 29 gennaio, sarà protagonista a Roma della prima conferenza di alto livello Italia-Africa. Convitato di pietra la ...
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L’offensiva diplomatica contro l’Unrwa è un attacco alla questione dei profughi palestinesi
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di Michele Giorgio
(questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto)
Pagine Esteri, 28 gennaio 2024 – È un’offensiva politica e diplomatica senza precedenti, parallela all’invasione militare che sta radendo al suolo Gaza, quella che Israele, l’Amministrazione Biden e alcuni dei loro alleati – Italia, Australia, Gran Bretagna, Canada e Finlandia – hanno lanciato contro l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste milioni di profughi palestinesi. Sulla base della documentazione prodotta dall’intelligence israeliana contro 12 lavoratori dell’Unrwa – che impiega molte migliaia di palestinesi – accusati di aver partecipato all’attacco di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele (1.200 morti), gli Stati uniti hanno sospeso i fondi per l’agenzia appena un’ora dopo la decisione della Corte internazionale di Giustizia (Cig) che all’Aja aveva definito «plausibile» l’accusa di «genocidio» a Gaza. L’Italia e gli altri paesi hanno fatto lo stesso nelle ore successive. Un tempismo a dir poco sospetto, da far pensare a un coordinamento deciso con largo anticipo da Tel Aviv e Washington.
La vicenda della partecipazione all’assalto di Hamas in Israele dei 12 lavoratori dell’Unrwa era già emersa nelle settimane passate. È tornata in primo piano, proprio venerdì sera. Mentre si attendevano i primi, sebbene improbabili, riflessi sul terreno delle decisioni della Corte dell’Aja, i riflettori da Israele sotto indagine internazionale per «genocidio» si sono spostati sull’Unrwa. Il commissario generale dell’agenzia, Philippe Lazzarini, ha provato a contenere la deflagrazione del caso annunciando il licenziamento dei 12 e la piena volontà di fare chiarezza sull’accaduto, ma non è servito a molto. In poche ore l’aiuto umanitario è diventato «aiuto al terrorismo». Di fronte ai «crimini dell’Onu» Israele evidentemente ora si ritiene dispensato dall’obbligo di cooperare con le agenzie delle Nazioni unite al fine di garantire senza limitazioni l’ingresso e la distribuzione di generi di prima necessità ai civili di Gaza, come richiesto dai giudici internazionali. «Il terrorismo mascherato da attività umanitaria è una vergogna per l’Onu e per i principi che sostiene di rappresentare», ha scritto il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant.
L’attacco frontale all’Unrwa non è una novità. Israele insiste da tempo affinché l’Unrwa cessi di esistere e di rappresentare la questione dei profughi palestinesi nata dalla Nakba nel 1948. Quest’ultima vicenda è solo l’ultimo capitolo di una campagna che si è fatta più intesa dal 2009 in poi con l’ascesa al potere in Israele del premier di destra Benyamin Netanyahu. Su X il ministro degli esteri Israel Katz è stato esplicito. «Israele cercherà di impedire all’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi di operare a Gaza dopo la guerra», ha detto Katz, annunciando che l’Unrwa non dovrà fare parte del cosiddetto «day after». «L’Unrwa perpetua la questione dei rifugiati, ostacola la pace e funge da braccio civile di Hamas a Gaza», ha proseguito Katz sollecitando le Nazioni unite a varare sanzioni contro i dirigenti dell’agenzia per i profughi. Durante il suo mandato, Donald Trump, accogliendo la tesi di Israele del peso dell’Unrwa nel tenere viva la questione dei profughi palestinesi e del loro diritto al ritorno nella terra d’origine (Risoluzione 194 dell’Onu), tagliò i fondi Usa dell’agenzia e ne chiese la chiusura. Mossa che trovò alleati in esponenti politici di vari paesi occidentali, Italia inclusa. Biden dopo il 2020 riprese i finanziamenti, ora li ha sospesi.
Con oltre 340 milioni di dollari nel 2022, gli Stati uniti sono il più donatore più importante dell’agenzia nata con la risoluzione 302 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite l’8 dicembre 1949 e che ha iniziato ad operare il 1° maggio 1950. Gli altri due principali finanziatori sono la Germania e l’Unione europea. Negli ultimi anni l’Unrwa ha visto diminuire progressivamente le sue risorse – per il crescente disinteresse internazionale nei confronti dei profughi palestinesi e per l’inizio nel mondo di altre gravi crisi umanitarie – e ha dovuto lanciare appelli per tenere in piedi le sue attività principali, tra le quali l’istruzione e la sanità per gli oltre 5 milioni di profughi nei Territori occupati, in Libano, Siria e Giordania. Colpire l’Unrwa significa mettere a rischio a Gaza il suo ruolo essenziale nel fornire assistenza salvavita ai palestinesi, compresi cibo, medicine, alloggi e altro sostegno umanitario. Sarebbe una catastrofe nella catastrofe tenendo conto di ciò che servirà alla popolazione di Gaza per uscire dall’emergenza umanitaria se e quando finirà l’offensiva israeliana. «Gettare discredito su tutta l’Unrwa, per ciò che hanno fatto alcuni dei suoi lavoratori, che pure vanno condannati, è assurdo» ha detto al manifesto la direttrice di +972 ed intellettuale israeliana Orly Noy. «Le motivazioni di Israele sono evidentemente politiche – ha aggiunto – punendo l’Unrwa si negano i diritti dei profughi e si puniscono tutti i palestinesi».
Intanto la guerra va avanti. «Se la fermassimo adesso, significherebbe rinunciare a una vittoria decisiva», scriveva ieri Yedidia Stern sul Jerusalem Post commentando le voci dubbiose del successo dell’offensiva a Gaza. Secondo il JPPI Israeli Society Index, all’inizio del conflitto il 78% degli israeliani era certo della vittoria, ora il 61%. Slogan contro Benyamin Netanyahu e il leader di Hamas Yahya Sinwar si sentono anche in video con gruppi di civili palestinesi che camminano tra le macerie di Gaza. Per alcuni sono manifestazioni spontanee di dissenso nei confronti delle mosse fatte dal movimento islamico, per altre fonti sarebbero pilotate. Ieri altre migliaia di palestinesi hanno lasciato Khan Yunis sotto attacco e si sono dirette a piedi verso la zona di Mawasi. A Rafah le forti piogge hanno allagato le tende degli sfollati gettando centinaia di civili nella disperazione. Tra venerdì e sabato i bombardamenti israeliani hanno ucciso altri 174 palestinesi, facendo salire a 26.257 il numero dei morti dal 7 ottobre.
Ieri sera, mentre migliaia di israeliani chiedevano in strada le sue dimissioni, Benyamin Netanyahu è tornato sul procedimento all’Aja, anche per ribadire che non fermerà l’attacco a Gaza. «La disponibilità della Corte» anche solo ad esaminare il caso contro Israele, ha detto, «dimostra che molti nel mondo non hanno imparato nulla dall’Olocausto. La lezione principale è che ci difenderemo da soli. Israele deve essere forte e determinato». Su richiesta dell’Algeria, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si riunirà la prossima settimana sulla decisione dei giudici dell’Aja che chiede a Israele di prevenire atti di genocidio a Gaza. Pagine Esteri
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“Esistono prove sufficienti per indagare il genocidio” ma la Corte di Giustizia non ordina il cessate in fuoco
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Pagine Esteri, 26 gennaio 2024. La Corte internazionale di giustizia ha emesso la sua sentenza iniziale riguardo alla causa presentata contro Israele dal Sudafrica, dichiarando che esistono prove sufficienti per valutare l’accusa di genocidio. La sentenza obbliga legalmente Israele a prendere tutte le misure necessarie per prevenire atti di genocidio e a consegnare eventuali prove delle stesse azioni genocidiarie. La sentenza è stata votata da 15 giudici su 2.
I 17 giudici della Corte dell’Aia hanno comunicato pochi minuti fa la prima decisione, che ha un’importante eco internazionale e potrebbe rappresentare un primo passo verso la condanna di Israele per genocidio. La giudice Donoghue ha infatti affermato che la Corte ha giurisdizione per pronunciarsi sulle misure di emergenza nel caso e che le operazioni militari di Israele hanno provocato un numero enorme di morti, feriti, una massiva distruzione e lo sfollamento della popolazione.
Joan E. Donoghue, giudice della Corte Internazionale di Giustizia
Le dichiarazioni dei rappresentanti politici israeliani sono state riportate, dalla giudice che ha presieduto la seduta, come esempi di linguaggio disumanizzante e come prova dell’intenzione di commettere una punizione collettiva.
Il Ministro degli Esteri del Sudafrica ha commentato la sentenza, dichiarando che la Corte ha emesso un ordine importante per salvare delle vite a Gaza.
Israele ha provato con tutte le sue forze ad evitare la pronuncia, movimentando i propri diplomatici, facendo pressioni sui governi e rilasciando dichiarazioni infuocate contro i rappresentanti del Sudafrica. Appena ieri, prima che la Corte si riunisse, il governo Netanyahu ha detto, per bocca del suo portavoce Eylon Levi “ci aspettiamo che la Corte respinga le false accuse”. Molti altri Stati hanno però sostenuto la denuncia del Sudafrica, soprattutto quelli arabi.
Ora Israele sa di essere seriamente sotto inchiesta per il crimine di genocidio. I rappresentanti governativi sono stati avvisati, in qualche modo, che le dichiarazioni pubbliche potranno essere utilizzate contro loro stessi, come prova di incitamento al genocidio. Questo vale anche per i vertici militari, ai quali potrebbe essere ordinato di cambiare registro linguistico. Ma è improbabile che ciò avvenga per alcuni rappresentanti del governo, come il ministro israeliano Amichai Eliyanu, che un giorno prima della sentenza dell’Aia ha confermato il suo invito a sganciare una bomba nucleare su Gaza.
SEGUONO AGGIORNAMENTI
Il Sudafrica ha denunciato il 29 dicembre Israele alla Corte Internazionale di Giustizia. L’accusa, mossa all’interno di un documento di 84 pagine, è quella di compiere deliberatamente un genocidio, tentando ripetutamente di distruggere i palestinesi in quanto gruppo. Tali intenzioni, secondo i rappresentanti sudafricani, sono state più volte chiaramente espresse dal primo ministro Benjamin Netanyahu e dal ministro della difesa Yoav Galant.
Oltre ai bombardamenti e alle uccisioni mirate, la documentazione fa riferimento alla scelta deliberata, da parte del governo israeliano, di infliggere condizioni di vita intese a distruggere una parte sostanziale del gruppo nazionale, razziale ed etnico palestinese.
La Corte internazionale di giustizia è l’organo giurisdizionale principale delle Nazioni Unite. Il suo scopo è quello di definire in base al diritto internazionale controversie giuridiche presentate dagli Stati e di dare pareri su questioni sottoposte da organismi delle Nazioni Unite e da agenzie indipendenti.
Al momento della denuncia Israele ha commentato, attraverso il portavoce del Ministero degli affari esteri Lior Haiat, che la richiesta del Sudafrica “costituisce un uso spregevole della Corte” e che il governo sudafricano starebbe “cooperando con un’organizzazione terroristica che chiede la distruzione dello Stato di Israele”, aggiungendo poi che Hamas è “responsabile della sofferenza dei palestinesi nella Striscia di Gaza, perché li usa come scudi umani e ruba loro aiuti umanitari”.
Lior Haiat ha dichiarato inoltre che “Israele è impegnato nel diritto internazionale e agisce in conformità con esso e dirige i suoi sforzi militari solo contro l’organizzazione terroristica di Hamas e le altre organizzazioni terroristiche che cooperano con Hamas. Israele ha chiarito che i residenti della Striscia di Gaza non sono il nemico e sta facendo ogni sforzo per limitare i danni ai non coinvolti e per consentire agli aiuti umanitari di entrare nella Striscia di Gaza”.
Nel documento presentato alla Corte Internazionale di Giustizia, si legge, tra le altre cose:
“I fatti invocati dal Sudafrica nel presente ricorso e che dovranno essere ulteriormente sviluppati nel presente procedimento dimostrano che, in un contesto di apartheid, espulsione, pulizia etnica, annessione, occupazione, discriminazione e continua negazione del diritto del popolo palestinese alla autodeterminazione – Israele, in particolare dal 7 ottobre 2023, non è riuscito a prevenire il genocidio e non è riuscito a perseguire l’incitamento diretto e pubblico al genocidio. Ancora più grave, Israele si è impegnato, si sta impegnando e rischia di impegnarsi ulteriormente in atti di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza. Tali atti includono l’uccisione, il causare gravi danni mentali e fisici e l’infliggere deliberatamente condizioni di vita intese a provocare la distruzione fisica come gruppo.
Le ripetute dichiarazioni dei rappresentanti dello Stato israeliano, anche ai massimi livelli, del presidente, del primo ministro e del ministro della Difesa israeliani esprimono intenzioni genocide. Tale intenzione deve essere correttamente dedotta anche dalla natura e dalla condotta dell’operazione militare israeliana a Gaza, tenuto conto, tra l’altro, dell’incapacità di Israele di fornire o garantire cibo, acqua, medicine, carburante, riparo e altra assistenza umanitaria essenziale per l’assediato popolo palestinese, spinto sull’orlo della carestia.
Ciò emerge chiaramente anche dalla natura e dalla portata degli attacchi militari israeliani contro Gaza, che hanno comportato il bombardamento prolungato per più di 11 settimane di uno dei luoghi più densamente popolati del mondo, costringendo all’evacuazione di 1,9 milioni di persone, l’85% della popolazione di Gaza dalle loro case e spingendoli in aree sempre più piccole, senza un riparo adeguato, in cui continuano ad essere attaccati, uccisi e feriti.
Israele al momento ha ucciso oltre 21.110 palestinesi, tra cui oltre 7.729 bambini – con oltre 7.780 altri dispersi, presumibilmente morti sotto le macerie – e ha ferito oltre 55.243 altri palestinesi, causando loro gravi danni fisici e mentali. Israele ha inoltre devastato vaste aree di Gaza, compresi interi quartieri, e ha danneggiato o distrutto oltre 355.000 case palestinesi, insieme a estesi tratti di terreni agricoli, panifici, scuole, università, aziende, luoghi di culto, cimiteri, centri culturali e di siti archeologici, edifici municipali e tribunali e infrastrutture critiche, comprese strutture idriche e igienico-sanitarie e reti elettriche, perseguendo al contempo un attacco implacabile al sistema medico e sanitario palestinese.
Israele ha ridotto e continua a ridurre Gaza in macerie, uccidendo, ferendo e distruggendo la sua popolazione e creando condizioni di vita calcolate per provocare la loro distruzione fisica come gruppo”.
All’inizio di novembre il Sudafrica aveva ritirato i propri diplomatici in Israele e l’Assemblea Nazionale sudafricana ha votato la sospensione di tutte le relazioni diplomatiche con Tel Aviv.
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“Esistono prove sufficienti per indagare il genocidio” ma la Corte di Giustizia non ordina il cessate in fuoco
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Pagine Esteri, 26 gennaio 2024. La Corte internazionale di giustizia ha emesso la sua sentenza iniziale riguardo alla causa presentata contro Israele dal Sudafrica, dichiarando che “esistono prove sufficienti per valutare l’accusa di genocidio”. La sentenza obbliga legalmente Israele a prendere tutte le misure necessarie per prevenire atti di genocidio e a consegnare eventuali prove delle stesse azioni genocidiarie. La sentenza è stata votata da 15 giudici su 17.
Questa prima decisione ha un’importante eco internazionale e potrebbe rappresentare un primo passo verso la condanna di Israele per genocidio. La giudice Joan E. Donoghue ha infatti affermato che la Corte ha giurisdizione per pronunciarsi sulle misure di emergenza del caso e che le operazioni militari di Israele hanno provocato un numero enorme di morti, feriti, una massiva distruzione e lo sfollamento della popolazione. L’ordine è che Israele prevenga l’uccisione o il ferimento dei palestinesi di Gaza, e le condizioni calcolate per distruggere in tutto o in parte la popolazione della Striscia.
Joan E. Donoghue, giudice della Corte Internazionale di Giustizia
Le dichiarazioni dei rappresentanti politici israeliani sono state riportate, dalla giudice che ha presieduto la seduta, come esempi di linguaggio disumanizzante e come prova dell’intenzione di commettere una punizione collettiva.
Il Ministro degli Esteri del Sudafrica, Naledi Pandorthe, ha commentato la decisione, dichiarando che la Corte ha emesso un ordine importante per salvare delle vite a Gaza ma che avrebbe voluto che la sentenza avesse contenuto il “cessate il fuoco”.
Il Ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir è stato il primo membro del governo israeliano a commentare l’ordine, definendo “antisemita” la Corte internazionale di Giustizia: “La decisione della corte antisemita dell’Aia dimostra ciò che era già noto: questa corte non cerca giustizia, ma piuttosto la persecuzione degli ebrei“. Ha continuato dichiarando che “Le decisioni che mettono in pericolo la continua esistenza dello Stato di Israele non devono essere ascoltate. Dobbiamo continuare a sconfiggere il nemico fino alla vittoria completa”. Ben Gvir ha anche accusato il Tribunale internazionale dell’Aia di essere rimasto “in silenzio durante l’Olocausto”. In realtà, la corte è stata fondata il 26 giugno 1945.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che “l’affermazione stessa che Israele stia commettendo un genocidio contro i palestinesi non è solo falsa, è oltraggiosa e la volontà della corte di discuterne è una vergogna che non verrà cancellata per generazioni”.
Anche Hamas ha commentato la sentenza in un comunicato: “è un importante sviluppo che contribuisce a isolare Israele e a smascherare i suoi crimini a Gaza”.
Israele ha provato con tutte le sue forze ad evitare la pronuncia, movimentando i propri diplomatici, facendo pressioni sui governi e rilasciando dichiarazioni infuocate contro i rappresentanti del Sudafrica. Appena ieri, prima che la Corte si riunisse, il governo Netanyahu ha detto, per bocca del suo portavoce Eylon Levi “ci aspettiamo che la Corte respinga le false accuse”. Molti altri Stati hanno però sostenuto la denuncia del Sudafrica, soprattutto quelli arabi.
Ora Israele sa di essere seriamente sotto inchiesta per il crimine di genocidio. I rappresentanti governativi sono stati avvisati, in qualche modo, che le dichiarazioni pubbliche potranno essere utilizzate contro loro stessi, come prova di incitamento al genocidio. Questo vale anche per i vertici militari, ai quali potrebbe essere ordinato di cambiare registro linguistico. Ma è improbabile che ciò avvenga con alcuni rappresentanti del governo, come il ministro israeliano Amichai Eliyanu, che un giorno prima della sentenza dell’Aia ha confermato il suo invito a sganciare una bomba nucleare su Gaza.
Il Sudafrica ha denunciato il 29 dicembre Israele alla Corte Internazionale di Giustizia. L’accusa, mossa all’interno di un documento di 84 pagine, è di compiere deliberatamente un genocidio, tentando ripetutamente di distruggere i palestinesi in quanto gruppo. Tali intenzioni, secondo i rappresentanti sudafricani, sono state più volte chiaramente espresse dal primo ministro Benjamin Netanyahu e dal ministro della difesa Yoav Galant.
Oltre ai bombardamenti e alle uccisioni mirate, la documentazione fa riferimento alla scelta deliberata, da parte del governo israeliano, di infliggere condizioni di vita intese a distruggere una parte sostanziale del gruppo nazionale, razziale ed etnico palestinese.
La Corte internazionale di giustizia è l’organo giurisdizionale principale delle Nazioni Unite. Il suo scopo è quello di definire in base al diritto internazionale controversie giuridiche presentate dagli Stati e di dare pareri su questioni sottoposte da organismi delle Nazioni Unite e da agenzie indipendenti.
Al momento della denuncia Israele ha commentato, attraverso il portavoce del Ministero degli affari esteri Lior Haiat, che la richiesta del Sudafrica “costituisce un uso spregevole della Corte” e che il governo sudafricano starebbe “cooperando con un’organizzazione terroristica che chiede la distruzione dello Stato di Israele”, aggiungendo poi che Hamas è “responsabile della sofferenza dei palestinesi nella Striscia di Gaza, perché li usa come scudi umani e ruba loro aiuti umanitari”.
Lior Haiat ha dichiarato inoltre che “Israele è impegnato nel diritto internazionale e agisce in conformità con esso e dirige i suoi sforzi militari solo contro l’organizzazione terroristica di Hamas e le altre organizzazioni terroristiche che cooperano con Hamas. Israele ha chiarito che i residenti della Striscia di Gaza non sono il nemico e sta facendo ogni sforzo per limitare i danni ai non coinvolti e per consentire agli aiuti umanitari di entrare nella Striscia di Gaza”.
Nel documento presentato alla Corte Internazionale di Giustizia, si legge, tra le altre cose:
“I fatti invocati dal Sudafrica nel presente ricorso e che dovranno essere ulteriormente sviluppati nel presente procedimento dimostrano che, in un contesto di apartheid, espulsione, pulizia etnica, annessione, occupazione, discriminazione e continua negazione del diritto del popolo palestinese alla autodeterminazione – Israele, in particolare dal 7 ottobre 2023, non è riuscito a prevenire il genocidio e non è riuscito a perseguire l’incitamento diretto e pubblico al genocidio. Ancora più grave, Israele si è impegnato, si sta impegnando e rischia di impegnarsi ulteriormente in atti di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza. Tali atti includono l’uccisione, il causare gravi danni mentali e fisici e l’infliggere deliberatamente condizioni di vita intese a provocare la distruzione fisica come gruppo.
Le ripetute dichiarazioni dei rappresentanti dello Stato israeliano, anche ai massimi livelli, del presidente, del primo ministro e del ministro della Difesa israeliani esprimono intenzioni genocide. Tale intenzione deve essere correttamente dedotta anche dalla natura e dalla condotta dell’operazione militare israeliana a Gaza, tenuto conto, tra l’altro, dell’incapacità di Israele di fornire o garantire cibo, acqua, medicine, carburante, riparo e altra assistenza umanitaria essenziale per l’assediato popolo palestinese, spinto sull’orlo della carestia.
Ciò emerge chiaramente anche dalla natura e dalla portata degli attacchi militari israeliani contro Gaza, che hanno comportato il bombardamento prolungato per più di 11 settimane di uno dei luoghi più densamente popolati del mondo, costringendo all’evacuazione di 1,9 milioni di persone, l’85% della popolazione di Gaza dalle loro case e spingendoli in aree sempre più piccole, senza un riparo adeguato, in cui continuano ad essere attaccati, uccisi e feriti.
Israele al momento ha ucciso oltre 21.110 palestinesi, tra cui oltre 7.729 bambini – con oltre 7.780 altri dispersi, presumibilmente morti sotto le macerie – e ha ferito oltre 55.243 altri palestinesi, causando loro gravi danni fisici e mentali. Israele ha inoltre devastato vaste aree di Gaza, compresi interi quartieri, e ha danneggiato o distrutto oltre 355.000 case palestinesi, insieme a estesi tratti di terreni agricoli, panifici, scuole, università, aziende, luoghi di culto, cimiteri, centri culturali e di siti archeologici, edifici municipali e tribunali e infrastrutture critiche, comprese strutture idriche e igienico-sanitarie e reti elettriche, perseguendo al contempo un attacco implacabile al sistema medico e sanitario palestinese.
Israele ha ridotto e continua a ridurre Gaza in macerie, uccidendo, ferendo e distruggendo la sua popolazione e creando condizioni di vita calcolate per provocare la loro distruzione fisica come gruppo”.
All’inizio di novembre il Sudafrica aveva ritirato i propri diplomatici in Israele e l’Assemblea Nazionale sudafricana ha votato la sospensione di tutte le relazioni diplomatiche con Tel Aviv.
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“Esistono prove sufficienti per indagare il genocidio” ma la Corte di Giustizia non ordina il cessate in fuoco
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Pagine Esteri, 26 gennaio 2024. La Corte internazionale di giustizia ha emesso la sua sentenza iniziale riguardo alla causa presentata contro Israele dal Sudafrica, dichiarando che “esistono prove sufficienti per valutare l’accusa di genocidio”. La sentenza obbliga legalmente Israele a prendere tutte le misure necessarie per prevenire atti di genocidio e a consegnare eventuali prove delle stesse azioni genocidiarie. La sentenza è stata votata da 15 giudici su 17.
Questa prima decisione ha un’importante eco internazionale e potrebbe rappresentare un primo passo verso la condanna di Israele per genocidio. La giudice Joan E. Donoghue ha infatti affermato che la Corte ha giurisdizione per pronunciarsi sulle misure di emergenza del caso e che le operazioni militari di Israele hanno provocato un numero enorme di morti, feriti, una massiva distruzione e lo sfollamento della popolazione. L’ordine è che Israele prevenga l’uccisione o il ferimento dei palestinesi di Gaza, e le condizioni calcolate per distruggere in tutto o in parte la popolazione della Striscia.
Joan E. Donoghue, giudice della Corte Internazionale di Giustizia
Le dichiarazioni dei rappresentanti politici israeliani sono state riportate, dalla giudice che ha presieduto la seduta, come esempi di linguaggio disumanizzante e come prova dell’intenzione di commettere una punizione collettiva.
Il Ministro degli Esteri del Sudafrica, Naledi Pandorthe, ha commentato la decisione, dichiarando che la Corte ha emesso un ordine importante per salvare delle vite a Gaza ma che avrebbe voluto che la sentenza avesse contenuto il “cessate il fuoco”.
Il Ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir è stato il primo membro del governo israeliano a commentare l’ordine, definendo “antisemita” la Corte internazionale di Giustizia: “La decisione della corte antisemita dell’Aia dimostra ciò che era già noto: questa corte non cerca giustizia, ma piuttosto la persecuzione degli ebrei“. Ha continuato dichiarando che “Le decisioni che mettono in pericolo la continua esistenza dello Stato di Israele non devono essere ascoltate. Dobbiamo continuare a sconfiggere il nemico fino alla vittoria completa”. Ben Gvir ha anche accusato il Tribunale internazionale dell’Aia di essere rimasto “in silenzio durante l’Olocausto”. In realtà, la corte è stata fondata il 26 giugno 1945.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che “l’affermazione stessa che Israele stia commettendo un genocidio contro i palestinesi non è solo falsa, è oltraggiosa e la volontà della corte di discuterne è una vergogna che non verrà cancellata per generazioni”.
Anche Hamas ha commentato la sentenza in un comunicato: “è un importante sviluppo che contribuisce a isolare Israele e a smascherare i suoi crimini a Gaza”.
Israele ha provato con tutte le sue forze ad evitare la pronuncia, movimentando i propri diplomatici, facendo pressioni sui governi e rilasciando dichiarazioni infuocate contro i rappresentanti del Sudafrica. Appena ieri, prima che la Corte si riunisse, il governo Netanyahu ha detto, per bocca del suo portavoce Eylon Levi “ci aspettiamo che la Corte respinga le false accuse”. Molti altri Stati hanno però sostenuto la denuncia del Sudafrica, soprattutto quelli arabi.
Ora Israele sa di essere seriamente sotto inchiesta per il crimine di genocidio. I rappresentanti governativi sono stati avvisati, in qualche modo, che le dichiarazioni pubbliche potranno essere utilizzate contro loro stessi, come prova di incitamento al genocidio. Questo vale anche per i vertici militari, ai quali potrebbe essere ordinato di cambiare registro linguistico. Ma è improbabile che ciò avvenga con alcuni rappresentanti del governo, come il ministro israeliano Amichai Eliyanu, che un giorno prima della sentenza dell’Aia ha confermato il suo invito a sganciare una bomba nucleare su Gaza.
Il Sudafrica ha denunciato il 29 dicembre Israele alla Corte Internazionale di Giustizia. L’accusa, mossa all’interno di un documento di 84 pagine, è di compiere deliberatamente un genocidio, tentando ripetutamente di distruggere i palestinesi in quanto gruppo. Tali intenzioni, secondo i rappresentanti sudafricani, sono state più volte chiaramente espresse dal primo ministro Benjamin Netanyahu e dal ministro della difesa Yoav Galant.
Oltre ai bombardamenti e alle uccisioni mirate, la documentazione fa riferimento alla scelta deliberata, da parte del governo israeliano, di infliggere condizioni di vita intese a distruggere una parte sostanziale del gruppo nazionale, razziale ed etnico palestinese.
La Corte internazionale di giustizia è l’organo giurisdizionale principale delle Nazioni Unite. Il suo scopo è quello di definire in base al diritto internazionale controversie giuridiche presentate dagli Stati e di dare pareri su questioni sottoposte da organismi delle Nazioni Unite e da agenzie indipendenti.
Al momento della denuncia Israele ha commentato, attraverso il portavoce del Ministero degli affari esteri Lior Haiat, che la richiesta del Sudafrica “costituisce un uso spregevole della Corte” e che il governo sudafricano starebbe “cooperando con un’organizzazione terroristica che chiede la distruzione dello Stato di Israele”, aggiungendo poi che Hamas è “responsabile della sofferenza dei palestinesi nella Striscia di Gaza, perché li usa come scudi umani e ruba loro aiuti umanitari”.
Lior Haiat ha dichiarato inoltre che “Israele è impegnato nel diritto internazionale e agisce in conformità con esso e dirige i suoi sforzi militari solo contro l’organizzazione terroristica di Hamas e le altre organizzazioni terroristiche che cooperano con Hamas. Israele ha chiarito che i residenti della Striscia di Gaza non sono il nemico e sta facendo ogni sforzo per limitare i danni ai non coinvolti e per consentire agli aiuti umanitari di entrare nella Striscia di Gaza”.
Nel documento presentato alla Corte Internazionale di Giustizia, si legge, tra le altre cose:
“I fatti invocati dal Sudafrica nel presente ricorso e che dovranno essere ulteriormente sviluppati nel presente procedimento dimostrano che, in un contesto di apartheid, espulsione, pulizia etnica, annessione, occupazione, discriminazione e continua negazione del diritto del popolo palestinese alla autodeterminazione – Israele, in particolare dal 7 ottobre 2023, non è riuscito a prevenire il genocidio e non è riuscito a perseguire l’incitamento diretto e pubblico al genocidio. Ancora più grave, Israele si è impegnato, si sta impegnando e rischia di impegnarsi ulteriormente in atti di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza. Tali atti includono l’uccisione, il causare gravi danni mentali e fisici e l’infliggere deliberatamente condizioni di vita intese a provocare la distruzione fisica come gruppo.
Le ripetute dichiarazioni dei rappresentanti dello Stato israeliano, anche ai massimi livelli, del presidente, del primo ministro e del ministro della Difesa israeliani esprimono intenzioni genocide. Tale intenzione deve essere correttamente dedotta anche dalla natura e dalla condotta dell’operazione militare israeliana a Gaza, tenuto conto, tra l’altro, dell’incapacità di Israele di fornire o garantire cibo, acqua, medicine, carburante, riparo e altra assistenza umanitaria essenziale per l’assediato popolo palestinese, spinto sull’orlo della carestia.
Ciò emerge chiaramente anche dalla natura e dalla portata degli attacchi militari israeliani contro Gaza, che hanno comportato il bombardamento prolungato per più di 11 settimane di uno dei luoghi più densamente popolati del mondo, costringendo all’evacuazione di 1,9 milioni di persone, l’85% della popolazione di Gaza dalle loro case e spingendoli in aree sempre più piccole, senza un riparo adeguato, in cui continuano ad essere attaccati, uccisi e feriti.
Israele al momento ha ucciso oltre 21.110 palestinesi, tra cui oltre 7.729 bambini – con oltre 7.780 altri dispersi, presumibilmente morti sotto le macerie – e ha ferito oltre 55.243 altri palestinesi, causando loro gravi danni fisici e mentali. Israele ha inoltre devastato vaste aree di Gaza, compresi interi quartieri, e ha danneggiato o distrutto oltre 355.000 case palestinesi, insieme a estesi tratti di terreni agricoli, panifici, scuole, università, aziende, luoghi di culto, cimiteri, centri culturali e di siti archeologici, edifici municipali e tribunali e infrastrutture critiche, comprese strutture idriche e igienico-sanitarie e reti elettriche, perseguendo al contempo un attacco implacabile al sistema medico e sanitario palestinese.
Israele ha ridotto e continua a ridurre Gaza in macerie, uccidendo, ferendo e distruggendo la sua popolazione e creando condizioni di vita calcolate per provocare la loro distruzione fisica come gruppo”.
All’inizio di novembre il Sudafrica aveva ritirato i propri diplomatici in Israele e l’Assemblea Nazionale sudafricana ha votato la sospensione di tutte le relazioni diplomatiche con Tel Aviv.
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La strage dimenticata nel Sudan devastato dai signori della guerra
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 26 gennaio 2024 – La rivolta popolare che nel 2019 ha rovesciato la dittatura reazionaria e islamista di Omar al-Bashir, al potere da ormai tre decenni, sembrava potesse portare il Sudan sulla strada della transizione verso la democrazia e lo sviluppo.
Dal golpe alla guerra civile
Ma il 25 ottobre 2021 il colpo di stato militare, diretto dal generale Abdel Fattah al-Burhan, ha posto fine ad ogni speranza di liberazione, nonostante il tentativo di resistenza di un vasto fronte di forze politiche, sociali e sindacali che hanno pagato con centinaia di morti le continue mobilitazioni contro il nuovo regime.
Il 15 aprile del 2022, poi, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemeti, ha lanciato le sue Forze di Supporto Rapido (la milizia nata dal movimento dei famigerati janjaweed) contro l’ex alleato al-Burhan, capo delle Forze Armate Sudanesi sostenuto dagli ambienti ancora fedeli al vecchio dittatore al-Bashir.
La vasta ribellione delle FSR ha scatenato una guerra civile che in nove mesi ha causato decine di migliaia di vittime, ridotto in macerie numerose città e portato il Sudan sull’orlo dell’implosione.
Una mediazione impossibile
Alcune settimane fa un accordo raggiunto grazie alla mediazione dell’Etiopia sembrava aprire uno spiraglio. Il 2 gennaio le Forze di Supporto Rapido hanno infatti firmato ad Addis Abeba, con il “Coordinamento delle forze civili democratiche” (Taqaddum, una piattaforma formata da decine di partiti politici, comitati popolari, sindacati, organizzazioni della società civile), una dichiarazione diretta a stabilire una tabella di marcia per porre fine ai combattimenti e aprire le trattative con al-Burhan. Subito dopo, però, molte realtà politiche interne ed esterne a Taqaddum hanno disconosciuto l’accordo firmato da Dagalo e dall’ex premier Abdallah Hamdok, denunciando quello che hanno definito un “tradimento”. D’altronde il rifiuto del presidente de facto di partecipare all’incontro organizzato da Hamdok in Etiopia aveva già reso inefficace il documento siglato.
Nei giorni scorsi poi, la scena si è ripetuta all’incontro organizzato dall’IGAD – Inter Governamental Agency for Development, l’organizzazione regionale del Corno d’Africa e dell’Africa Orientale alla quale l’Unione Africana ha delegato la ricerca di una soluzione delle diverse crisi in atto nel quadrante – il 18 gennaio a Entebbe, in Uganda. Alla riunione, alla quale erano presenti i rappresentanti dell’Onu, dell’Unione Europea, di vari paesi arabi e degli Stati Uniti, si sono infatti presentati sia l’ex primo ministro e coordinatore di Taqaddum Abdallah Hamdok, sia il capo delle Forze di Supporto Rapido, Dagalo. Il capo della giunta militare, al-Burhan, ha dato invece forfait accusando l’iniziativa di rappresentasse una violazione della sovranità del Sudan. Non contento, al-Burhan ha sospeso l’adesione del Sudan all’IGAD e ha richiamato l’ambasciatore di Khartum in Kenya, accusando Nairobi di «ospitare la ribellione e (…) cospirare contro il Sudan». La mossa è stata decisa dopo che il 3 gennaio il presidente keniota William Ruto ha ricevuto Dagalo, che nelle ultime settimane ha intrapreso un tour che ha fatto tappa anche in Ruanda, Uganda, Etiopia e Gibuti nel tentativo di accreditarsi come rappresentante legittimo del suo paese.
Etiopia contro tutti
Ad aggravare il quadro, recentemente, la firma da parte dell’Etiopia di un accordo con la regione separatista somala del Somaliland per l’ottenimento di uno sbocco al mare, che ha causato la dura reazione di Mogadiscio ma anche dell’Eritrea, dell’Egitto e dello stesso governo golpista sudanese. L’esplosione di nuove tensioni regionali indebolisce ulteriormente i già infruttuosi tentativi dei paesi dell’area di costringere i contendenti sudanesi ad un accordo.
Le credibilità di molti degli attori regionali, del resto, è minata dal fatto che vari paesi sono direttamente o indirettamente coinvolti nella guerra civile, interessati ai proventi della vendita di armi o a conquistare un ruolo egemone in un Sudan ridotto in pezzi.
Dagalo con Mohammed bin Zayed
Lo zampino degli Emirati Arabi Uniti
La potenza regionale più attiva in Sudan sembra essere Abu Dhabi che, del resto, in passato ha già fornito varie flotte di droni da bombardamento all’esercito etiope, garantendogli una schiacciante superiorità aerea contro i ribelli del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, e ingenti carichi di armi all’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, in guerra con il governo di Tripoli riconosciuto dalla cosiddetta comunità internazionale.
Ora da più parti si accusano gli Emirati Arabi Uniti di armare i miliziani delle Forze di Supporto Rapido che, durante la dittatura di Omar al-Bashir hanno combattuto per anni assieme alle forze di Abu Dhabi contro i ribelli houthi yemeniti.
Nonostante gli emiratini continuino a negare ogni coinvolgimento, numerosi media hanno documentato i carichi di armi inviati ai janjaweed da parte della piccola ma potente petromonarchia, a tal punto che a metà dicembre al-Burhan ha espulso 15 diplomatici di Abu Dhabi. In precedenza Yassir al-Atta, membro della giunta golpista, aveva esplicitamente accusato gli Emirati di rifornire i ribelli attraverso l’Uganda, la Repubblica Centrafricana e il Ciad. Recentemente, un documento diffuso dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, basato su fonti di intelligence e testimonianze di osservatori indipendenti, definisce “credibili” le ricostruzioni secondo cui gli Emirati hanno più volte fornito armi ai miliziani ribelli tramite la base aerea di Amdharass, nel nord del Ciad. I più di 100 voli registrati, secondo Adu Dhabi, trasportavano invece soltanto “aiuti umanitari” destinati ai profughi.
Ma i legami tra il leader delle RSF e la petromonarchia araba sono noti e consistenti. Il centro dell’impero economico di Dagalo – e del fratello – è a Dubai, mentre il generale è ritenuto molto vicino al vicepresidente degli Emirati Mansour bin Zayed ed ha fatto un lungo viaggio ad Abu Dhabi nella scorsa primavera, prima di ordinare la ribellione contro il suo ex alleato al-Burhan, che ora è sostenuto dall’Egitto di al Sisi.
Il Sudan va in pezzi
Mentre la guerra civile ha messo il paese in ginocchio, in varie regioni il vuoto di potere ha portato alla formazione di milizie regionali più o meno indipendenti dai due contendenti, che dettano legge a livello locale utilizzando la violenza e minacciano la stessa integrità dello stato sudanese.
Di fatto il paese è spaccato a metà. I paramilitari di Dagalo controllano gran parte della capitale, le regioni occidentali, il Darfur e una parte della provincia del Kordofan. L’esercito “regolare”, fedele al regime, invece, occupa alcuni quartieri di Omdurman, la città gemella di Khartum, il nord del paese, le regioni orientali e la valle del Nilo.
In giallo le zone controllate dalle Forze di Supporto Rapido, in rosa quelle controllate dall’esercito
Crimini di guerra e pulizia etnica
Recentemente i combattimenti tra le opposte fazioni e si sono allargati a territori finora relativamente tranquille. Entrambe le fazioni si stanno rendendo responsabili di crimini di guerra e atrocità contro la popolazione, bombardando in maniera indiscriminata i centri abitati e sottoponendo gli oppositori a torture e detenzioni arbitrarie.
In particolare, l’avanzata delle Forze di Supporto Rapido di Dagalo nel Darfur Occidentale ha provocato nella sola capitale regionale Geneinatra i 10 e i 15 mila morti. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite i janjaweed hanno preso deliberatamente di mira i civili nelle strade, nelle case e nei campi profughi, colpendo anche le colonne di profughi in fuga verso il Ciad, con esecuzioni sommarie e stupri. Le RSF, i cui membri sono reclutati per la maggior parte tra le tribù arabe delle regioni occidentali, sono accusate di uccisioni di massa a sfondo etnico contro la popolazione nera africana, in particolare quella Masalit, maggioritaria nel Darfur Occidentale, oltre che di saccheggi e distruzioni punitive.
Mentre la capitale Khartum è sempre più una città fantasma, con interi quartieri ridotti in macerie e abbandonati dai loro abitanti, da dicembre gli scontri si sono estesi alle regioni orientali e meridionali, costringendo alla fuga centinaia di migliaia di persone. Particolarmente intensi sono stati gli scontri nello stato di Gezira, a sud di Khartum, una regione che viene abitualmente definita “il granaio del Sudan”.
Emergenza umanitaria e sanitaria
I profughi sarebbero in totale già 7,5 milioni; di questi, circa 1 milione e mezzo si sarebbero rifugiati in Ciad, Sud Sudan ed Egitto. Gli altri hanno cercato riparo nei territori scampati agli scontri fino al momento del loro arrivo, dovendo però poi spesso fuggire di nuovo a causa dello scoppio di ulteriori combattimenti e dovendo comunque confrontarsi con una grave penuria di cibo, acqua potabile e assistenza sanitaria.
Il paese, nonostante il sostanziale disinteresse dai circuiti mediatici principali, è investito da una crisi gravissima. Secondo l’Ufficio dell’ONU per il coordinamento umanitario (OCHA), circa 25 milioni di sudanesi hanno o avranno bisogno nei prossimi mesi di assistenza. Nel solo stato di Khartum, denuncia un dossier diffuso da Medici Senza Frontiere, almeno 3 milioni di persone non hanno alcun accesso all’assistenza medica.
Nelle zone interessate dalla guerra civile, afferma l’associazione Care International, l’80% degli ospedali e dei presidi sanitari ha dovuto chiudere a causa dell’inagibilità delle strutture e della mancanza di elettricità. La situazione, in mancanza di una svolta allo stato improbabile, può solo peggiorare. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria
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La posizione della Cina sulle tensioni del mar Rosso
Washington chiede aiuto sugli Houthi, Pechino pesa la sua posizione diplomatica e i rischi sul commercio. Critica gli attacchi alle navi ma anche quelli contro il territorio yemenita
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In Cina e Asia – Cina e Stati Uniti pronti a discutere di Medio Oriente
Cina e Stati Uniti pronti a discutere di Medio Oriente
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Gaza tra future colonie e appelli all’uso dell’atomica
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di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 25 gennaio 2024 – In Israele c’è un ministro che vorrebbe cancellare Gaza dalla faccia della terra con la bomba atomica e altri ministri che chiedono di cacciare via i suoi abitanti per ricostruirvi gli insediamenti coloniali. Sullo sfondo, si fa per dire, ci sono le «armi convenzionali» delle forze armate israeliane che da tre mesi e mezzo proseguono la demolizione della Striscia provocando ogni giorno decine se non centinaia di morti e feriti. Ieri 14 sfollati palestinesi, tra cui 8 donne e bambini, sono stati uccisi ed altri 75 feriti quando due cannonate hanno colpito un centro di formazione dell’agenzia dei profughi Unrwa che le Nazioni Unite avevano designato come rifugio a Khan Younis. A denunciarlo è stato il direttore dell’Unrwa a Gaza, Thomas White, che ha parlato di numerose vittime, edifici in fiamme e persone intrappolate dentro il centro che ospitava circa 800 civili palestinesi. L’esercito israeliano ha detto che indagherà sull’accaduto ma ha già anticipato che la responsabilità potrebbe essere non sua ma di Hamas.
Amichai Eliyahu
Sfidando apertamente la Corte internazionale di Giustizia dell’Aia che domani comunicherà una sua prima decisione riguardo la denuncia per «genocidio a Gaza» rivolta dal Sudafrica a Israele, Amichai Eliyahu, ministro israeliano per gli affari e il patrimonio di Gerusalemme, ha detto che andrebbe sganciata una bomba nucleare su Gaza. Eliyahu è andato persino oltre le dichiarazioni già fatte a novembre quando aveva parlato di «opzione bomba atomica» contro la Striscia prendendosi poi il rimprovero del premier Netanyahu, forse più per aver confermato indirettamente il possesso da parte di Israele di ordigni atomici. La Corte dell’Aia «conosce le mie posizioni» ha detto spavaldo Eliyahu. Invece, non chiedono di distruggere Gaza con una bomba nucleare, ma di renderla disponibile di nuovo alla colonizzazione ebraica i due ministri del governo Netanyahu che hanno annunciato per il 28 gennaio a Gerusalemme una ampia conferenza su questo tema ormai parte del dibattito politico in Israele. Haim Katz, ministro del Turismo, e Miki Zohar, ministro dello Sport e della Cultura, entrambi del partito Likud del primo ministro, affermano che solo la colonizzazione di Gaza potrà impedire altri attacchi come quello fatto il 7 ottobre da Hamas nel sud di Israele e la creazione di uno Stato palestinese. L’iniziativa non è del governo, ma i suoi promotori sono dei ministri e ciò illustra bene i desideri che animano la maggioranza di destra. Alla conferenza prenderanno parte altri esponenti del Likud, ministri e deputati di Potere ebraico e Sionismo religioso e naturalmente i leader di organizzazioni dei coloni e del Movimento per gli insediamenti ebraici «Nachala».
VIDEO: SPARI SU ABITANTI NEL NORD DI GAZA IN ATTESA DI GENERI ALIMENTARI
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Khan Yunis resta accerchiata dall’esercito israeliano. I carri armati hanno isolato l’ospedale Nasser e la sede della Mezzaluna Rossa, un edificio di otto piani in cui si trovano migliaia di sfollati. La strage continua. Tra i 210 morti in 24 ore – in totale dal 7 ottobre sono 25.700 – e circa 400 feriti riferiti dal ministero della Sanità a Gaza, c’è anche l’accademico Fadel Abu Hein, docente da oltre venti anni di psicologia all’Università Al-Aqsa, colpito a morte, pare, da un cecchino. Abu Hein era considerato un esperto nel trattamento dei traumi mentali derivanti dalla guerra, specie nei bambini. Israele ha ucciso almeno 94 accademici a Gaza, denunciano i palestinesi.
I reparti corazzati avanzano lungo la strada al-Bahar e hanno bloccato la via di fuga da Khan Yunis verso l’autostrada costiera del Mediterraneo. Per chi fugge verso Rafah a bordo di auto, su carretti o a piedi è un ulteriore ostacolo considerando che la superstrada all’interno, la Salah Edin, è gravemente danneggiata e bloccata in molti punti da terrapieni alzati dai militari israeliani. Tanti, perciò, scelgono di attraversano la campagna esponendosi a rischi enormi. I combattimenti infatti sono intensi.
I militanti di Hamas e di altre formazioni armate, impegnano i soldati in scontri a fuoco incessanti nelle strade di Khan Yunis e in altre zone. Israele afferma di aver ucciso un centinaio di palestinesi armati. Hamas da parte sua sostiene di aver causato altre perdite agli israeliani. Ieri, riferivano alcune agenzie di stampa, si è svolta una manifestazione a Deir al Balah di palestinesi che chiedevano la fine della guerra a Gaza, con la restituzione degli ostaggi israeliani. Non è chiaro però se la loro iniziativa sia stata anche una contestazione di Hamas, come hanno riportato i media israeliani. Sempre ieri 16 organizzazioni internazionali umanitarie e per i diritti umani – tra cui Amnesty, Oxfam, Save the Children, Norwegian Refugee Council – hanno lanciato un appello congiunto contro l’invio di armi a Israele e ai gruppi armati palestinesi e per un cessate il fuoco generale immediato e definitivo a Gaza.
Invece è lontana persino una tregua umanitaria a tempo determinato con uno scambio tra ostaggi israeliani a Gaza e detenuti politici palestinesi in carcere in Israele. Negli ultimi due-tre giorni sono circolate indiscrezioni su intese mediate da Usa, Egitto e Qatar ma di concreto non c’è nulla. Hamas insiste sulla proclamazione di un cessate il fuoco permanente come base di qualsiasi negoziato per uno scambio di prigionieri. La portavoce del governo Netanyahu, Ilana Stein, è stata perentoria quando ieri ha affermato che «non ci sarà alcun cessate il fuoco e Israele non rinuncerà alla distruzione di Hamas, alla restituzione di tutti gli ostaggi e non ci sarà alcuna minaccia alla sicurezza da Gaza verso Israele». L’Amministrazione Biden, avvicinandosi alle posizioni del premier israeliano Netanyahu, afferma che il futuro governo di Gaza non dovrà includere alcun leader di Hamas. Il movimento islamico replica che gli Stati uniti non potranno «imporre un mandato al nostro popolo libero».
VIDEO: MANIFESTANTI ISRAELIANI CERCANO AL VALICO DI KEREM SHALOM DI BLOCCARE L’INGRESSO A GAZA DEGLI AIUTI
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Ieri si sono svolti in tutto Israele picchetti di famigliari e e sostenitori degli oltre 130 ostaggi. Al valico di Kerem Shalom tra Egitto, Gaza e Israele, decine di israeliani hanno provato a bloccare i camion con gli aiuti umanitari per la popolazione palestinese affermando che occorre impedire l’ingresso di ogni fornitura sino a quando non saranno liberati gli ostaggi. Pagine Esteri
*Il testo integrale di questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio dal quotidiano Il Manifesto
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Dialoghi – Essere taoisti, fuori dalla Cina
In Asia il taoismo si è diffuso da secoli ed è spesso praticato in sincretismo con altre pratiche locali, mentre in occidente non ha mai attecchito davvero.
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