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In Cina e in Asia – Mini trade war tra Pechino e Taipei


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China Files Focus – Decifrare le elezioni di Taiwan 2024


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Il prossimo 13 gennaio si elegge il nuovo presidente della Repubblica di Cina (Taiwan). In occasione del voto, China Files organizza due incontri pre e post voto per conoscere meglio temi e volti di questa tornata elettorale, così come il suo possibile impatto. Ecco come iscriversi

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In Cina e Asia – TikTok è la social app più redditizia al mondo


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I titoli di oggi:

TikTok è la social app più redditizia al mondo
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Cina, arriva la normativa per regolarizzare i pagamenti sui circuiti digitali

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Una fabbrica di omicidi di massa: il bombardamento calcolato di Gaza da parte di Israele (parte seconda)


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Di Yuval Abraham – In collaborazione con Local Call*

(Traduzione a cura di Federica Riccardi)


LEGGI QUI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO


Pagine Esteri, 20 dicembre 2023. Secondo il portavoce dell’IDF, al 10 novembre, durante i primi 35 giorni di combattimenti, Israele ha attaccato un totale di 15.000 obiettivi a Gaza. Secondo diverse fonti, si tratta di una cifra molto alta rispetto alle quattro precedenti grandi operazioni nella Striscia. Durante “Guardian of the Walls” nel 2021, Israele ha attaccato 1.500 obiettivi in 11 giorni. Durante “Protective Edge” del 2014, durata 51 giorni, Israele ha colpito tra i 5.266 e i 6.231 obiettivi. Durante “Pillar of Defense” del 2012, sono stati attaccati circa 1.500 obiettivi in otto giorni. In “Cast Lead”, nel 2008, Israele ha colpito 3.400 obiettivi in 22 giorni.

Fonti dell’intelligence che hanno prestato servizio nelle precedenti operazioni hanno anche riferito a +972 e Local Call che, per 10 giorni nel 2021 e per tre settimane nel 2014, un tasso di attacco di 100-200 obiettivi al giorno ha portato a una situazione in cui l’aviazione israeliana non aveva più obiettivi di valore militare. Perché allora, dopo quasi due mesi, l’esercito israeliano non ha ancora esaurito gli obiettivi nell’attuale guerra?

La risposta potrebbe risiedere in una dichiarazione del portavoce dell’IDF del 2 novembre, secondo la quale l’IDF sta utilizzando il sistema di intelligenza artificiale Habsora (“Il Vangelo”), che secondo il portavoce “consente l’uso di strumenti automatici per produrre obiettivi ad un ritmo veloce e funziona migliorando il materiale di intelligence accurato e di alta qualità in base alle esigenze [operative]”.

Nella dichiarazione, un alto funzionario dell’intelligence afferma che grazie ad Habsora è possibile creare obiettivi per attacchi di precisione “causando grandi danni al nemico e danni minimi ai non combattenti. Gli operativi di Hamas non sono immuni – non importa dove si nascondano”.

Secondo fonti di intelligence, Habsora genera, tra l’altro, raccomandazioni automatiche per attaccare le residenze private dove vivono persone sospettate di essere agenti di Hamas o della Jihad islamica. Israele effettua poi operazioni di assassinio su larga scala bombardando pesantemente queste abitazioni.

Habsora, ha spiegato una delle fonti, elabora enormi quantità di dati che “decine di migliaia di agenti dell’intelligence non potrebbero elaborare” e raccomanda siti di bombardamento in tempo reale. Poiché la maggior parte degli alti dirigenti di Hamas si reca nei tunnel sotterranei all’inizio di qualsiasi operazione militare, le fonti affermano che l’uso di un sistema come Habsora consente di localizzare e attaccare le abitazioni di agenti relativamente giovani.

Un ex ufficiale dei servizi segreti ha spiegato che il sistema Habsora consente all’esercito di gestire una “fabbrica di assassini di massa”, in cui “l’enfasi è sulla quantità e non sulla qualità”. Un occhio umano “esaminerà gli obiettivi prima di ogni attacco, ma non ha bisogno di dedicare loro molto tempo”. Poiché Israele stima che ci siano circa 30.000 membri di Hamas a Gaza, e che siano tutti condannati a morte, il numero di potenziali obiettivi è enorme.

Nel 2019, l’esercito israeliano ha creato un nuovo centro che mira a utilizzare l’intelligenza artificiale per accelerare la generazione di obiettivi. “La Divisione Amministrativa degli Obiettivi è un’unità che comprende centinaia di ufficiali e soldati e si basa sulle capacità dell’IA”, ha dichiarato l’ex capo di Stato maggiore dell’IDF Aviv Kochavi in un’intervista approfondita con Ynet all’inizio di quest’anno.

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“Si tratta di una macchina che, con l’aiuto dell’IA, elabora molti dati meglio e più velocemente di qualsiasi umano, e li traduce in obiettivi da attaccare”, ha proseguito Kochavi. “Il risultato è stato che nell’operazione Guardian of the Walls [nel 2021], dal momento in cui questa macchina è stata attivata, ha generato 100 nuovi obiettivi ogni giorno. Vedete, in passato a Gaza c’erano periodi in cui creavamo 50 obiettivi all’anno. E qui la macchina ha prodotto 100 obiettivi in un giorno”.

“Prepariamo gli obiettivi in modo automatico e lavoriamo secondo una checklist”, ha dichiarato a +972 e Local Call una delle fonti che ha lavorato nella nuova divisione amministrativa degli obiettivi. “È davvero come una fabbrica. Lavoriamo velocemente e non c’è tempo per approfondire l’obiettivo. Si ritiene che siamo giudicati in base al numero di obiettivi che riusciamo a generare”.

Un alto funzionario militare responsabile della banca degli obiettivi ha dichiarato al Jerusalem Post all’inizio di quest’anno che, grazie ai sistemi di intelligenza artificiale dell’esercito, per la prima volta l’esercito è in grado di generare nuovi obiettivi a un ritmo più veloce di quello degli attacchi. Un’altra fonte ha detto che l’impulso a generare automaticamente un gran numero di obiettivi è una realizzazione della Dottrina Dahiya.

Sistemi automatizzati come Habsora hanno quindi facilitato enormemente il lavoro degli ufficiali dell’intelligence israeliana nel prendere decisioni durante le operazioni militari, compreso il calcolo delle potenziali vittime. Cinque diverse fonti hanno confermato che il numero di civili che potrebbero essere uccisi in attacchi contro residenze private è noto in anticipo all’intelligence israeliana e appare chiaramente nel file dell’obiettivo sotto la categoria di “danni collaterali”.

Secondo queste fonti, esistono gradi di danno collaterale, in base ai quali l’esercito determina se è possibile attaccare un obiettivo all’interno di una residenza privata. Quando la direttiva generale diventa “Danno collaterale 5″, significa che siamo autorizzati a colpire tutti gli obiettivi che uccideranno cinque o meno civili – possiamo agire su tutti gli obiettivi che sono cinque o meno”, ha detto una delle fonti.

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“In passato, non segnalavamo regolarmente le case dei membri minori di Hamas per i bombardamenti”, ha detto un funzionario della sicurezza che ha partecipato agli attacchi durante le operazioni precedenti. “Ai miei tempi, se la casa su cui stavo lavorando era contrassegnata come danno collaterale 5, non sempre veniva approvata [per l’attacco]”. Tale approvazione, ha detto, veniva data solo se si sapeva che un alto comandante di Hamas viveva nella casa.

“A quanto mi risulta, oggi possono contrassegnare tutte le case di [qualsiasi militare di Hamas, indipendentemente dal grado]”, ha continuato la fonte. “Si tratta di molte case. I membri di Hamas che non contano nulla vivono ovunque a Gaza. Quindi contrassegnano la casa, la bombardano e uccidono tutti”.

Una politica concertata per bombardare le case delle famiglie

Il 22 ottobre, l’aviazione israeliana ha bombardato la casa del giornalista palestinese Ahmed Alnaouq nella città di Deir al-Balah. Ahmed è un mio caro amico e collega; quattro anni fa abbiamo fondato una pagina Facebook in ebraico chiamata “Across the Wall“, con l’obiettivo di portare le voci palestinesi da Gaza al pubblico israeliano.

L’attacco del 22 ottobre ha fatto crollare blocchi di cemento sull’intera famiglia di Ahmed, uccidendo il padre, i fratelli, le sorelle e tutti i loro figli, compresi i neonati. Solo la nipote Malak, di 12 anni, è sopravvissuta ed è rimasta in condizioni critiche, con il corpo coperto di ustioni. Pochi giorni dopo, è morta anche Malak.

In totale sono stati uccisi ventuno membri della famiglia di Ahmed, sepolti sotto la loro casa. Nessuno di loro era un militare. Il più giovane aveva 2 anni; il più anziano, suo padre, ne aveva 75. Ahmed, che attualmente vive nel Regno Unito, è ora il solo sopravvissuto di tutta la sua famiglia.

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Il gruppo WhatsApp della famiglia di Ahmed si intitola “Better Together”. L’ultimo messaggio che vi compare è stato inviato da lui stesso, poco dopo la mezzanotte della notte in cui ha perso la sua famiglia. “Qualcuno mi ha fatto sapere che va tutto bene”, ha scritto. Nessuno rispose. Si è addormentato, ma si è svegliato in preda al panico alle 4. Inzuppato di sudore, ha controllato di nuovo il telefono. Silenzio. Poi ha ricevuto un messaggio da un amico con la terribile notizia.

Il caso di Ahmed è comune a Gaza in questi giorni. Nelle interviste rilasciate alla stampa, i direttori degli ospedali di Gaza hanno ripetuto la stessa descrizione: le famiglie entrano negli ospedali come una successione di cadaveri, un bambino seguito dal padre e dal nonno. I corpi sono tutti coperti di terra e sangue.

Secondo ex ufficiali dell’intelligence israeliana, in molti casi in cui viene bombardata un’abitazione privata, l’obiettivo è “l’assassinio di agenti di Hamas o della Jihad”, e tali obiettivi vengono attaccati quando l’agente entra in casa. I ricercatori dell’intelligence sanno se anche i membri della famiglia o i vicini dell’operativo potrebbero morire in un attacco e sanno come calcolare quanti di loro potrebbero morire. Ognuna delle fonti ha detto che si tratta di case private, dove nella maggior parte dei casi non si svolgono attività militari.

+972 e Local Call non dispongono di dati sul numero di militari uccisi o feriti da attacchi aerei su abitazioni private durante la guerra in corso, ma è ampiamente dimostrato che, in molti casi, non si trattava di militari o politici appartenenti ad Hamas o alla Jihad islamica.

Il 10 ottobre, l’aviazione israeliana ha bombardato un edificio di appartamenti nel quartiere Sheikh Radwan di Gaza, uccidendo 40 persone, la maggior parte delle quali donne e bambini. In uno dei video scioccanti girati dopo l’attacco, si vedono persone che urlano, tengono in mano quella che sembra essere una bambola estratta dalle rovine della casa e se la passano di mano in mano. Quando la telecamera zooma, si vede che non si tratta di una bambola, ma del corpo di un bambino.

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Uno dei residenti ha detto che 19 membri della sua famiglia sono stati uccisi nell’attacco. Un altro sopravvissuto ha scritto su Facebook di aver trovato solo la spalla di suo figlio tra le macerie. Amnesty ha indagato sull’attacco e ha scoperto che un membro di Hamas viveva in uno dei piani superiori dell’edificio, ma non era presente al momento dell’attacco.

Il bombardamento delle case delle famiglie in cui presumibilmente vivono operatori di Hamas o della Jihad islamica è probabilmente diventato una politica più concertata dell’IDF durante l’operazione “Protective Edge” del 2014. Allora, 606 palestinesi – circa un quarto dei morti civili durante i 51 giorni di combattimenti – erano membri di famiglie le cui case erano state bombardate. Nel 2015 un rapporto delle Nazioni Unite ha definito queste operazioni sia come un potenziale crimine di guerra sia come “un nuovo modello” di azione che “ha portato alla morte di intere famiglie”.

Nel 2014, 93 bambini sono stati uccisi a causa dei bombardamenti israeliani sulle case delle famiglie, di cui 13 avevano meno di un anno. Un mese fa, 286 bambini di età non superiore a 1 anno erano già stati identificati come uccisi a Gaza, secondo un elenco dettagliato con l’età delle vittime pubblicato dal Ministero della Sanità di Gaza il 26 ottobre. Da allora il numero è probabilmente raddoppiato o triplicato.

Tuttavia, in molti casi, e soprattutto durante le attuali operazioni a Gaza, l’esercito israeliano ha effettuato attacchi che hanno colpito residenze private anche quando non c’era un obiettivo militare noto o chiaro. Ad esempio, secondo il Committee to Protect Journalists, al 29 novembre Israele aveva ucciso 50 giornalisti palestinesi a Gaza, alcuni dei quali nelle loro case con le loro famiglie.

Roshdi Sarraj, 31 anni, giornalista di Gaza nato in Gran Bretagna, ha fondato un’agenzia di stampa a Gaza chiamata “Ain Media”. Il 22 ottobre, una bomba israeliana ha colpito la casa dei suoi genitori dove stava dormendo, uccidendolo. Anche la giornalista Salam Mema è morta sotto le macerie della sua casa dopo il bombardamento; dei suoi tre figli piccoli, Hadi, 7 anni, è morto, mentre Sham, 3 anni, non è ancora stata trovata sotto le macerie. Altre due giornaliste, Duaa Sharaf e Salma Makhaimer, sono state uccise insieme ai loro figli nelle loro case.

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Gli analisti israeliani hanno ammesso che l’efficacia militare di questo tipo di attacchi aerei sproporzionati è limitata. Due settimane dopo l’inizio dei bombardamenti a Gaza (e prima dell’invasione di terra) – dopo che nella Striscia di Gaza erano stati contati i corpi di 1.903 bambini, circa 1.000 donne e 187 anziani – il commentatore israeliano Avi Issacharoff ha twittato: “Per quanto sia difficile da sentire, al 14° giorno di combattimenti, non sembra che il braccio militare di Hamas sia stato danneggiato in modo significativo. Il danno più significativo alla leadership militare è l’assassinio del [comandante di Hamas] Ayman Nofal”.

“Combattere contro animali umani”

I militari di Hamas operano regolarmente da un’intricata rete di tunnel costruiti sotto ampie zone della Striscia di Gaza. Questi tunnel, come confermato dagli ex ufficiali dell’intelligence israeliana con cui abbiamo parlato, passano anche sotto le case e le strade. Pertanto, i tentativi israeliani di distruggerli con attacchi aerei rischiano in molti casi di provocare l’uccisione di civili. Questa potrebbe essere un’altra ragione dell’alto numero di famiglie palestinesi spazzate via nell’attuale offensiva.

Gli ufficiali dell’intelligence intervistati per questo articolo hanno affermato che il modo in cui Hamas ha progettato la rete di tunnel a Gaza sfrutta consapevolmente la popolazione civile e le infrastrutture in superficie. Queste affermazioni sono state anche alla base della campagna mediatica che Israele ha condotto nei confronti degli attacchi e delle incursioni all’ospedale Al-Shifa e dei tunnel scoperti sotto di esso.

Israele ha anche attaccato un gran numero di obiettivi militari: operatori armati di Hamas, siti di lancio di razzi, cecchini, squadre anticarro, quartieri generali militari, basi, posti di osservazione e altro ancora. Fin dall’inizio dell’invasione di terra, i bombardamenti aerei e il fuoco dell’artiglieria pesante sono stati utilizzati per fornire supporto alle truppe israeliane sul terreno. Secondo gli esperti di diritto internazionale, questi obiettivi sono legittimi, purché gli attacchi rispettino il principio di proporzionalità.

In risposta a una richiesta di +972 e Local Call per questo articolo, il portavoce dell’IDF ha dichiarato: “L’IDF si impegna a rispettare il diritto internazionale e agisce in base ad esso, e nel farlo attacca obiettivi militari e non attacca i civili. L’organizzazione terroristica Hamas colloca i suoi agenti e i suoi mezzi militari nel cuore della popolazione civile. Hamas usa sistematicamente la popolazione civile come scudo umano e conduce i combattimenti da edifici civili, compresi siti sensibili come ospedali, moschee, scuole e strutture delle Nazioni Unite”.

Fonti dell’intelligence che hanno parlato con +972 e Local Call hanno affermato che in molti casi Hamas “mette deliberatamente in pericolo la popolazione civile di Gaza e cerca di impedire con la forza l’evacuazione dei civili”. Due fonti hanno affermato che i leader di Hamas “capiscono che il danno israeliano ai civili li legittima a combattere”.

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Allo stesso tempo, anche se oggi è difficile da immaginare, l’idea di sganciare una bomba da una tonnellata con l’obiettivo di uccidere un agente di Hamas, ma che finisce per uccidere un’intera famiglia come “danno collaterale”, non è sempre stata accettata così facilmente da ampie fasce della società israeliana. Nel 2002, ad esempio, l’aviazione israeliana bombardò la casa di Salah Mustafa Muhammad Shehade, allora capo delle Brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. La bomba uccise lui, la moglie Eman, la figlia quattordicenne Laila e altri 14 civili, tra cui 11 bambini. L’uccisione ha suscitato un clamore pubblico sia in Israele che nel mondo, e Israele è stato accusato di aver commesso crimini di guerra.

Queste critiche hanno portato alla decisione dell’esercito israeliano, nel 2003, di sganciare una bomba più piccola, da un quarto di tonnellata, su una riunione di alti funzionari di Hamas – tra cui l’inafferrabile leader delle Brigate Al-Qassam, Mohammed Deif – che si svolgeva in un edificio residenziale di Gaza, nonostante il timore che non sarebbe stata abbastanza potente da ucciderli. Nel suo libro “Conoscere Hamas”, il giornalista israeliano veterano Shlomi Eldar ha scritto che la decisione di usare una bomba relativamente piccola era dovuta al precedente di Shehade e al timore che una bomba da una tonnellata avrebbe ucciso anche i civili nell’edificio. L’attacco fallì e gli alti ufficiali dell’ala militare fuggirono dalla scena.

Dopo Protective Edge del 2014, durante il quale Israele ha iniziato a colpire sistematicamente le case delle famiglie dal cielo, gruppi per i diritti umani come B’Tselem hanno raccolto testimonianze di palestinesi sopravvissuti a questi attacchi. I sopravvissuti hanno raccontato che le case sono crollate su se stesse, che i frammenti di vetro hanno tagliato i corpi di coloro che si trovavano all’interno, che le macerie “puzzano di sangue” e che le persone sono state sepolte vive.

Questa politica mortale continua ancora oggi, in parte grazie all’uso di armi distruttive e di tecnologie sofisticate come Habsora, ma anche grazie a un establishment politico e di sicurezza che ha allentato le redini dell’apparato militare israeliano. Quindici anni dopo aver insistito sul fatto che l’esercito si stava impegnando per ridurre al minimo i danni ai civili, Gallant, ora ministro della Difesa, ha chiaramente cambiato idea. “Stiamo combattendo contro animali umani e agiamo di conseguenza”, ha dichiarato dopo il 7 ottobre.

*Yuval Abraham è un giornalista e attivista basato a Gerusalemme

972mag.com/mass-assassination-…

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Gli Usa rafforzano la presenza militare in Scandinavia per controllare il Baltico


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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 20 dicembre 2023 – Gli Stati Uniti continuano a rafforzare la propria presenza militare a ridosso dei confini della Federazione Russa, presentando ovviamente la strategia come “preventiva” e “deterrente”, diretta cioè a disincentivare Mosca da un eventuale attacco che secondo molti analisti occidentali potrebbe colpire la Scandinavia e i paesi baltici. Ed è proprio in questi quadranti che si concentra l’estensione del dispiegamento militare di Washington e dell’Alleanza Atlantica più in generale.

Truppe USA in Danimarca
La Casa Bianca ha appena siglato un accordo di cooperazione con la Danimarca che consentirà alle truppe statunitensi di essere stanziate in maniera permanente in tre basi aeree del piccolo paese nordico, quelle di Karup, Skrydstrup e Aalborg. L’accordo non si applica invece alla Groenlandia e alle Isole Faroe che godono di uno status semi-indipendente rispetto a Copenaghen.

«L’accordo è una svolta importante e vale sia per periodi brevi che per periodi più lunghi», ha spiegato nel corso di una conferenza stampa la premier danese Mette Frederiksen. «In questo modo rafforziamo l’accesso degli Stati Uniti all’Europa e al Mar Baltico e contribuiamo alla difesa collettiva della Nato in Europa» ha aggiunto la leader socialdemocratica.

«Abbiamo delle motivazioni nel rafforzare la nostra sicurezza. Lo facciamo oggi con una collaborazione storica con gli Stati Uniti. (…) L’obiettivo non è solo garantire la pace in Danimarca adesso, ma anche per le generazioni che verranno dopo di noi» ha proseguito la premier.

La strategia di Washington però non si limita all’aumento della propria presenza in Danimarca. Gli Stati Uniti hanno infatti scelto tutta la regione scandinava come fulcro della loro proiezione nel Baltico a ridosso dei confini della Federazione Russa.
Nel giro di poche settimane la Casa Bianca ha quindi siglato accordi di cooperazione simili a quelli concordati con la Danimarca anche con Svezia e Finlandia per consentire il dispiegamento di truppe in quei territori.

Accordo di cooperazione con la Svezia
Il 6 dicembre gli Stati Uniti hanno firmato un accordo di cooperazione militare con la Svezia, che «rafforzerà in maniera significativa» i legami in materia di sicurezza tra i due Paesi. Per le autorità svedesi l’intesa fornisce un importante passo in attesa della ratifica del protocollo di adesione alla Nato, finora ritardato dalla Turchia che in cambio dell’ok continua a chiedere a Washington di sbloccare la vendita ad Ankara di una squadriglia di caccia F16.

Intanto, in base all’accordo, le truppe Usa avranno accesso ad alcune basi e strutture sul territorio svedese, dove potranno dispiegare in maniera permanente non solo soldati ma anche armi ed equipaggiamento militare. Il ministro della Difesa di Stoccolma, Pal Jonson ha spiegato che l’accordo esclude lo stoccaggio in territorio svedese di armi nucleari Usa anche se nel testo non si fa menzione esplicita della questione. Nello specifico, le forze Usa avranno la possibilità di impiegare 17 strutture sul territorio svedese, tra cui cinque basi aeree e un porto. Quattro delle strutture in questione sono localizzate all’interno del Circolo polare artico.

Per diversi commentatori, la base più importante dove gli Stati Uniti potranno stanziare personale e materiale sarà quella di Visby, sull’isola di Gotland, situata proprio nel mezzo del Mar Baltico il che concede a Washington la possibilità di controllare il traffico marittimo tra Mosca e l’exclave russa di Kaliningrad. L’isola di Gotland venne demilitarizzata dalla Svezia nel 2005, ma nel 2016 le autorità di Stoccolma decisero di stabilirvi una base permanente; nel 2021, poi, a Gotland sono state dispiegate alcune batterie di missili terra-aria a medio raggio e sull’isola sono aumentate le esercitazioni a cui partecipano vari paesi membri della Nato.

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La firma del trattato tra USA e Finlandia

Truppe USA in Finlandia
Il 18 dicembre a Washington è stato siglato un accordo di cooperazione militare anche con la Finlandia, che condivide un confine di 1340 km con la Russia e che è entrata a far parte dell’Alleanza Atlantica nell’aprile scorso dopo decenni di neutralità.
L’intesa consentirà alle truppe di Washington di accedere a ben 15 diverse strutture finlandesi, tra cui una base navale nel sud, un’area di addestramento in Lapponia e alcuni aeroporti nelle aree interne. Il Pentagono avrà a disposizione anche l’isola di Russaro, nel Golfo di Finlandia, che ospita già una base militare finlandese e che garantirebbe agli USA un ulteriore punto di controllo sulla porzione del Baltico su cui si affaccia anche San Pietroburgo. Gli Stati Uniti avranno inoltre a disposizione un deposito vicino a una ferrovia che conduce al confine russo.

Come ha documentato nei mesi scorsi l’agenzia Reuters, la Finlandia sta attualmente migliorando la propria infrastruttura ferroviaria al confine svedese, per rendere più facile per la Nato l’invio di rinforzi e attrezzature dall’altra parte dell’Atlantico fino a Kemijarvi, a un’ora di macchina dal confine russo. Nelle ultime settimane, inoltre, alla frontiera con la Russia è già stato inviato dalla Nato un contingente di soldati polacchi.

I rapporti tra Russia e Finlandia si sono fatti particolarmente tesi negli ultimi giorni anche a causa della decisione da parte di Helsinki di chiudere tutti i valichi di frontiera con Mosca, accusata di spingere un alto numero di immigrati verso il territorio finlandese per destabilizzare il paese.

Con la Norvegia un accordo di cooperazione è stato firmato dagli Stati Uniti già nel 2021. Nel giro di pochi anni e prima dell’invasione russa dell’Ucraina, Washington ha iniziato a estendere notevolmente il raggio di azione del proprio dispositivo militare nell’Europa nord-orientale, anche per ottenere vantaggi nella corsa al controllo della regione artica dove Mosca ha già aumentato i propri presidi e dove anche la Cina potrebbe presto sbarcare.

Mosca reagisce
Il governo russo non ha gradito soprattutto l’intesa tra Washington e la Finlandia, che Mosca – ha avvisato – «non lascerà senza risposta». La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha affermato che l’intesa «minaccia la sicurezza» del Paese al punto che saranno necessarie «misure per rispondere alle decisioni aggressive della Finlandia e dei suoi alleati della Nato».
Domenica scorsa Vladimir Putin ha già annunciato la realizzazione di una nuova base militare nel nord-ovest della Russia, nella regione di San Pietroburgo, per «garantire la sicurezza del paese di fronte all’espansione dell’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti». Pagine Esteri

11214883* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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In Cina e Asia – Terremoto nel Gansu e Qinghai: almeno 118 i morti


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Terremoto nel Gansu e Qinghai: almeno 118 i morti Cina: nuove misure per rilanciare la “circolazione interna” Xi guida “personalmente” le riforme in Cina Pentagono: manovre “pericolose” dei caccia cinesi ridotte dopo vertice Xi-Biden Cina. In calo i casi polmonite batterica tra i bambini Cina. Giustiziata la serial killer Lao Rongzhi, latitante per vent’anni Corea del Nord: Usa, Giappone e ...

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Il Cile boccia la Carta di destra, ma la crisi di Boric sembra irreversibile


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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 19 dicembre 2023 – Nel settembre del 2022 gli elettori avevano bocciato una proposta di Costituzione che tentava, seppur in maniera parziale e contraddittoria, di superare in senso progressista la Carta imposta nel 1980 dalla dittatura militare fascista di Augusto Pinochet. Si pensava quindi che il nuovo testo, elaborato negli ultimi mesi da un Consiglio Costituzionale dominato dalla destra, sarebbe passato agevolmente.

La seconda bocciatura in due anni
E invece anche la seconda proposta è stata bocciata nel plebiscito tenutosi in Cile domenica. I “no” sono stati quasi 6,9 milioni, il 55,76% degli elettori che si sono recati alle urne, contro i quasi 5,5 milioni di “sì”, il 44,24%. Al voto, grazie all’obbligatorietà introdotta lo scorso anno, ha partecipato alla fine circa l’84% degli aventi diritto, ma l’appuntamento non ha suscitato particolari passioni nell’opinione pubblica.

Il testo respinto era organizzato in 216 articoli divisi in 17 capitoli ed era stato licenziato grazie al voto affermativo di 33 dei 50 membri del Consiglio Costituzionale eletto il 7 maggio, esponenti dei partiti di destra ed estrema destra, in particolare del Partito Repubblicano di José Antonio Kast. I 17 rappresentanti dei partiti di centrosinistra e sinistra che sostengono il presidente Gabriel Boric avevano votato contro, denunciando i notevoli passi indietro sul piano dei diritti civili ed economici.

Sconfitta la destra radicale
Per i rappresentanti della maggioranza di governo – finiti però in minoranza nel Consiglio Costituzionale – il nuovo testo era «escludente, dogmatico, retrogrado e divisivo», per certi versi peggiore di quello pinochettista. Tra gli articoli più contestati quello che assicurava la protezione ideologica del “diritto alla vita” e una legislazione che “protegge la vita che sta per nascere”, prefigurando un passo indietro rispetto all’esercizio – peraltro già molto limitato – del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza.

Al centrosinistra non piaceva poi la promessa di nuovi vincoli nella composizione della Camera dei deputati, a partire dall’introduzione di una soglia di sbarramento al 5% e dalla riduzione da 155 a 138 dei deputati. Senza prevedere grandi differenze con la Costituzione in vigore, quella sottoposta al plebiscito proponeva che sanità, istruzione e sistema pensionistico fossero finanziati dalle entrate fiscali generali, assicurando però un’erogazione mista e prevedendo l’esistenza di un sistema statale e di uno privato.

I partiti che appoggiano Boric hanno anche contestato la formulazione del diritto di sciopero previsto nell’articolo 16; la disposizione avrebbe privato il diritto di sciopero del necessario rango costituzionale, limitandone l’esercizio al rispetto della norma secondaria.
Molte riserve sono state espresse inoltre a proposito del fatto che secondo la nuova costituzione la contrattazione collettiva nazionale e di categoria fosse penalizzata a vantaggio di quella d’impresa, favorendo così gli imprenditori e indebolendo i sindacati.

Contrarietà aveva suscitato infine l’articolo che attribuisce alla legge il potere di «rimpatrio o espulsione nel minor tempo possibile» dei cittadini stranieri entrati nel paese «in forma clandestina o per valichi non autorizzati», fatti salvi i casi di asilo politico.

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Il leader dell’estrema destra José Antonio Kast

Il Cile si tiene la Costituzione di Pinochet
Gli elettori hanno comunque bocciato a maggioranza la nuova proposta. Il risultato è che la costituzione reazionaria pinochettista – basata su un mix di autoritarismo politico e di turboliberismo, sottoposta dal 1980 a decine di revisioni – rimarrà la legge fondamentale del paese. Un fallimento netto per Gabriel Boric, eletto presidente grazie ad un ciclo di grandi proteste e mobilitazioni contro Sebastián Piñera che nel 2019 attraversarono il paese anche per chiedere una nuova Carta, l’estensione dei diritti civili e sociali e un serio contrasto alle diseguaglianze.

L’ex leader studentesco eletto presidente, già tradito dalla bocciatura col 62% di ‘no’ della “sua” bozza costituzionale nel 2022, ha infatti dichiarato che nel caso di un nuovo fallimento non avrebbe attivato nuovi tentativi di riforma. Dopo le speranze e le contrarietà suscitate dall’apertura del processo costituente, il paese torna quindi al punto di partenza in un contesto dominato dalla disillusione.

Un sospiro di sollievo per Boric
La Moneda tira però un sospiro di sollievo, perché l’approvazione della bozza costituzionale varata dalla destra radicale avrebbe rappresentato uno stop definitivo per una maggioranza di centrosinistra. Il governo soffre l’avanzata dei populisti del Partito Repubblicano e di fronte alle difficoltà incontrate nell’approvare le riforme sociali e politiche promesse ha scelto di improntare il proprio discorso e la propria azione ad una mera gestione dell’esistente, scontentando e allontanando molti settori progressisti della società cilena.

Il duello tra le due destre
A gioire per la bocciatura di un testo frutto soprattutto delle rivendicazioni di José Antonio Kast è anche la destra più moderata che cercherà ora di approfittare del passo falso del Partito Repubblicano per ottenere la guida dell’opposizione, magari per accordarsi con i settori centristi dell’attuale maggioranza.
L’estrema destra, però, è stata finora abile a sfruttare l’incapacità e la contraddittorietà dell’azione di governo e a strumentalizzare la grave situazione sociale con campagne demagogiche che fanno breccia non solo nelle classi alte ma anche tra i settori popolari.

Il tema principe della propaganda di Kast – che Boric ha deciso di cavalcare legittimando però gli argomenti del suo principale avversario – è quello della “sicurezza”, in un paese dove negli ultimi 5 anni il tasso di omicidi è passato da 4,5 a 6,7 ogni 100 mila abitanti. Secondo i dati ufficiali, gli omicidi sono passati dagli 845 del 2018 ai 1322 del 2022. Il leader repubblicano è stato molto abile a puntare il dito contro “gli stranieri” e le bande formate da immigrati, promettendo la mano dura in caso di vittoria.

La crisi economica, a picco i consensi per Boric
La verità è che l’economia non cresce più da un decennio e il sistema sanitario privato in crisi potrebbe trascinare nel baratro anche quello pubblico, per non parlare del fatto che dal 2019 tutti gli indici sociali ed economici sono peggiorati.

La portavoce del governo, l’ex leader studentesca e dirigente comunista Camila Vallejo, ha annunciato che nei prossimi giorni la maggioranza si concentrerà sull’approvazione della riforma delle pensioni. Ma secondo un sondaggio appena pubblicato, solo il 31% dei cileni approva l’operato del presidente Boric, mentre il 61% lo disapprova. Pagine Esteri

11188895* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Una fabbrica di omicidi di massa: Il bombardamento calcolato di Gaza da parte di Israele (parte prima)


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Di Yuval Abraham – In collaborazione con Local Call*

L’ampliamento dell’autorizzazione dell’esercito israeliano a bombardare obiettivi non militari, l’allentamento dei vincoli relativi alle vittime civili previste e l’uso di un sistema di intelligenza artificiale per generare un numero maggiore di potenziali obiettivi rispetto al passato, sembrano aver contribuito alla natura distruttiva delle fasi iniziali dell’attuale guerra di Israele contro la Striscia di Gaza, come rivela un’inchiesta di +972 Magazine e Local Call. Questi fattori, come descritto da attuali ed ex membri dell’intelligence israeliana, hanno probabilmente giocato un ruolo nel produrre quella che è stata una delle campagne militari più letali contro i palestinesi dalla Nakba del 1948.

L’indagine di +972 e Local Call si basa su conversazioni con sette attuali ed ex membri della comunità di intelligence israeliana – tra cui personale dell’intelligence militare e dell’aeronautica che ha partecipato alle operazioni israeliane nella Striscia assediata – oltre a testimonianze palestinesi, dati e documentazione provenienti dalla Striscia di Gaza e dichiarazioni ufficiali del portavoce dell’IDF e di altre istituzioni statali israeliane.

Rispetto ai precedenti assalti israeliani a Gaza, l’attuale guerra – che Israele ha chiamato “Operazione Spade di Ferro” e che è iniziata in seguito all’assalto guidato da Hamas al sud di Israele il 7 ottobre – ha visto l’esercito espandere in modo significativo il bombardamento di obiettivi che non sono distintamente di natura militare. Questi includono residenze private, edifici pubblici, infrastrutture e grattacieli, che secondo le fonti l’esercito definisce “obiettivi di potere” (“matarot otzem”).

Il bombardamento di “obiettivi di potere”, secondo fonti dell’intelligence che hanno avuto esperienze dirette di tali pratiche a Gaza in passato, ha come scopo principale quello di danneggiare la società civile palestinese: “creare uno shock” che, tra l’altro, si riverberi con forza e “porti i civili a fare pressione su Hamas”, come ha detto una fonte.

Diverse fonti, che hanno parlato con +972 e Local Call in condizione di anonimato, hanno confermato che l’esercito israeliano dispone di file sulla stragrande maggioranza dei potenziali obiettivi a Gaza – comprese le case – che stabiliscono il numero di civili che potrebbero essere uccisi in un attacco a un determinato obiettivo. Questo numero è calcolato e noto in anticipo alle unità di intelligence dell’esercito, che sanno approssimativamente anche, poco prima di effettuare un attacco, quanti civili saranno uccisi.

In un caso discusso dalle fonti, il comando militare israeliano ha consapevolmente approvato l’uccisione di centinaia di civili palestinesi nel tentativo di assassinare un singolo alto comandante militare di Hamas. “I numeri sono aumentati da decine di morti civili [permessi] come danno collaterale nell’ambito di un attacco a un alto dirigente in operazioni precedenti, a centinaia di morti civili come danno collaterale”, ha detto una fonte.

“Nulla accade per caso”, ha detto un’altra fonte. “Quando una bambina di 3 anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che non era un grosso problema ucciderla – che era un prezzo da pagare per colpire [un altro] obiettivo. Noi non siamo Hamas. Questi non sono razzi casuali. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa”.

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Palestinians inspect the damage following an Israeli airstrike on the El-Remal aera in Gaza City on October 9, 2023. Israel continued to battle Hamas fighters on October 10 and massed tens of thousands of troops and heavy armour around the Gaza Strip after vowing a massive blow over the Palestinian militants’ surprise attack. Photo by Naaman Omar apaimages

Secondo l’indagine, un’altra ragione del gran numero di obiettivi e dei danni estesi alla vita civile a Gaza è l’uso diffuso di un sistema chiamato “Habsora” (“Il Vangelo”), che è in gran parte costruito sull’intelligenza artificiale ed è in grado di “generare” obiettivi quasi automaticamente a un ritmo che supera di gran lunga quello che era possibile in precedenza. Questo sistema di intelligenza artificiale, come descritto da un ex ufficiale dei servizi segreti, facilita essenzialmente una “fabbrica di omicidi di massa”.

Secondo le fonti, l’uso crescente di sistemi basati sull’intelligenza artificiale come Habsora consente all’esercito di effettuare attacchi su larga scala contro singole abitazioni in cui vive un singolo membro di Hamas, anche se si tratta di giovani operativi. Tuttavia, le testimonianze dei palestinesi a Gaza suggeriscono che dal 7 ottobre l’esercito ha attaccato anche molte residenze private in cui non risiedeva alcun membro noto o apparente di Hamas o di qualsiasi altro gruppo militare. Tali attacchi, hanno confermato le fonti a +972 e Local Call, possono uccidere deliberatamente intere famiglie.

Nella maggior parte dei casi, hanno aggiunto le fonti, l’attività militare non viene condotta da queste case prese di mira. “Ricordo di aver pensato che è come se [i militanti palestinesi] bombardassero tutte le residenze private delle nostre famiglie quando [i soldati israeliani] tornano a dormire a casa durante il fine settimana”, ha ricordato una fonte, che ha criticato questa pratica.

Un’altra fonte ha affermato che un alto funzionario dell’intelligence ha detto ai suoi ufficiali, dopo il 7 ottobre, che l’obiettivo era quello di “uccidere il maggior numero possibile di operativi di Hamas”, per cui i criteri relativi al danneggiamento dei civili palestinesi sono stati notevolmente allentati. Per questo motivo, ci sono “casi in cui bombardiamo sulla base di un’ampia localizzazione dell’obiettivo, uccidendo civili. Questo viene fatto spesso per risparmiare tempo, invece di fare un po’ più di lavoro per ottenere un’individuazione più accurata”, ha detto la fonte.

Il risultato di queste politiche è la sconcertante perdita di vite umane a Gaza dal 7 ottobre. Più di 300 famiglie hanno perso 10 o più familiari nei bombardamenti israeliani degli ultimi due mesi – un numero 15 volte superiore a quello di quella che è stata la guerra più letale di Israele contro Gaza, nel 2014. Al momento in cui scriviamo, sono circa 15.000 i palestinesi uccisi nella guerra, e non solo.

“Tutto questo sta avvenendo in contrasto con il protocollo utilizzato dall’IDF in passato”, ha spiegato una fonte. “C’è la sensazione che gli alti ufficiali dell’esercito siano consapevoli del loro fallimento il 7 ottobre e siano impegnati a capire come fornire all’opinione pubblica israeliana un’immagine [di vittoria] che salvi la loro reputazione”.

Una scusa per causare distruzione

Israele ha lanciato l’assalto a Gaza all’indomani dell’offensiva guidata da Hamas del 7 ottobre contro il sud di Israele. Durante quell’attacco, sotto una pioggia di razzi, i militanti palestinesi hanno massacrato più di 840 civili e ucciso 350 soldati e personale di sicurezza, hanno rapito circa 240 persone – civili e soldati – e hanno commesso diffuse violenze sessuali, tra cui stupri, secondo un rapporto dell’ONG Physicians for Human Rights Israel.

Fin dal primo momento dopo l’attacco del 7 ottobre, i responsabili delle decisioni in Israele hanno dichiarato apertamente che la risposta sarebbe stata di portata completamente diversa rispetto alle precedenti operazioni militari a Gaza, con l’obiettivo dichiarato di sradicare totalmente Hamas. “L’enfasi è sul danno e non sulla precisione”, ha dichiarato il portavoce dell’IDF Daniel Hagari il 9 ottobre. L’esercito ha rapidamente tradotto queste dichiarazioni in azioni.

Secondo le fonti che hanno parlato con +972 e Local Call, gli obiettivi a Gaza che sono stati colpiti dagli aerei israeliani possono essere divisi approssimativamente in quattro categorie. La prima è quella degli “obiettivi tattici”, che comprende obiettivi militari standard come cellule militanti armate, magazzini di armi, lanciarazzi, lanciamissili anticarro, fosse di lancio, bombe di mortaio, quartieri generali militari, posti di osservazione e così via.

Il secondo è costituito dagli “obiettivi sotterranei”, principalmente i tunnel che Hamas ha scavato sotto i quartieri di Gaza, anche sotto le case dei civili. Gli attacchi aerei su questi obiettivi potrebbero portare al crollo delle case sopra o vicine ai tunnel.

Il terzo è quello degli “obiettivi di potere”, che comprende grattacieli e torri residenziali nel cuore delle città, ed edifici pubblici come università, banche e uffici governativi. L’idea che sta alla base del colpire questi obiettivi, affermano tre fonti dell’intelligence che sono state coinvolte nella pianificazione o nella conduzione di attacchi a “obiettivi di potere” in passato, è che un attacco deliberato alla società palestinese eserciti una “pressione civile” su Hamas.

L’ultima categoria è costituita dalle “case di famiglia” o “case degli operativi”. Lo scopo dichiarato di questi attacchi è quello di distruggere le abitazioni private per assassinare un singolo residente sospettato di essere un operativo di Hamas o della Jihad islamica. Tuttavia, nella guerra in corso, le testimonianze palestinesi affermano che alcune delle famiglie uccise non comprendevano alcun esponente di queste organizzazioni.

Nelle prime fasi dell’attuale guerra, l’esercito israeliano sembra aver prestato particolare attenzione alla terza e quarta categoria di obiettivi. Secondo le dichiarazioni rilasciate l’11 ottobre dal portavoce dell’IDF, nei primi cinque giorni di combattimenti, la metà degli obiettivi bombardati – 1.329 su un totale di 2.687 – erano considerati “obiettivi di potere”.

“Ci viene chiesto di cercare edifici alti con una parte di un piano che possa essere attribuito ad Hamas”, ha detto una fonte che ha partecipato alle precedenti offensive israeliane a Gaza. “A volte si tratta dell’ufficio del portavoce di un gruppo militare, o di un punto in cui si incontrano gli operativi. Ho capito che è una scusa che permette all’esercito di causare molta distruzione a Gaza. Questo è ciò che ci hanno detto”.

“Se dicessero al mondo intero che gli uffici [della Jihad islamica] al 10° piano non sono importanti come obiettivo, ma che la loro esistenza è una giustificazione per far crollare l’intero grattacielo con l’obiettivo di mettere sotto pressione le famiglie civili che vi abitano perché queste facciano a loro volta pressione sulle organizzazioni terroristiche, questo verrebbe visto come terrorismo. Quindi non lo dicono”, ha aggiunto la fonte.

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Diverse fonti che hanno prestato servizio nelle unità di intelligence dell’IDF hanno affermato che, almeno fino all’attuale guerra, i protocolli dell’esercito consentivano di attaccare “obiettivi di potere” solo quando gli edifici erano vuoti di residenti al momento dell’attacco. Tuttavia, testimonianze e video da Gaza suggeriscono che dal 7 ottobre alcuni di questi obiettivi sono stati attaccati senza preavviso agli occupanti, uccidendo intere famiglie.

L’attacco su larga scala alle abitazioni può essere ricavato da dati pubblici e ufficiali. Secondo l’Ufficio governativo per i media di Gaza – che fornisce il bilancio delle vittime da quando il Ministero della Salute di Gaza ha smesso di farlo l’11 novembre a causa del collasso dei servizi sanitari nella Striscia – al momento del cessate il fuoco temporaneo, il 23 novembre, Israele aveva ucciso 14.800 palestinesi a Gaza; circa 6.000 di loro erano bambini e 4.000 donne, che insieme costituiscono più del 67% del totale. Le cifre fornite dal Ministero della Salute e dall’Ufficio governativo dei media – entrambi sotto l’egida del governo di Hamas – non si discostano significativamente dalle stime israeliane.

Il Ministero della Salute di Gaza, inoltre, non specifica quanti dei morti appartenevano alle ali militari di Hamas o della Jihad islamica. L’esercito israeliano stima di aver ucciso tra i 1.000 e i 3.000 militari palestinesi armati. Secondo i media israeliani, alcuni di loro sono sepolti sotto le macerie o all’interno del sistema di tunnel sotterranei di Hamas, e quindi non sono stati conteggiati nei dati ufficiali.

I dati delle Nazioni Unite relativi al periodo fino all’11 novembre, quando Israele aveva ucciso 11.078 palestinesi a Gaza, affermano che almeno 312 famiglie hanno perso 10 o più persone nell’attuale attacco israeliano; per avere un termine di paragone, durante l’operazione “Protective Edge” del 2014, 20 famiglie a Gaza hanno perso 10 o più persone. Almeno 189 famiglie hanno perso tra le sei e le nove persone, secondo i dati delle Nazioni Unite, mentre 549 famiglie hanno perso tra le due e le cinque persone. Non sono ancora stati forniti dati aggiornati sulle cifre delle vittime pubblicate dall’11 novembre.

I massicci attacchi contro “obiettivi di potere” e residenze private sono avvenuti nello stesso momento in cui l’esercito israeliano, il 13 ottobre, ha richiesto agli 1,1 milioni di residenti della Striscia di Gaza settentrionale – la maggior parte dei quali risiede a Gaza City – di lasciare le loro case e a trasferirsi nel sud della Striscia. A quella data, era già stato bombardato un numero record di “obiettivi di potere” e più di 1.000 palestinesi erano già stati uccisi, tra cui centinaia di bambini.

In totale, secondo le Nazioni Unite, 1,7 milioni di palestinesi, la grande maggioranza della popolazione della Striscia, sono stati sfollati a Gaza dal 7 ottobre. L’esercito ha affermato che la richiesta di evacuare il nord della Striscia era volta a proteggere le vite dei civili. I palestinesi, tuttavia, vedono questo sfollamento di massa come parte di una “nuova Nakba”, un tentativo di pulizia etnica di una parte o di tutto il territorio.

“Hanno abbattuto un grattacielo per il gusto di farlo”.

Secondo l’esercito israeliano, nei primi cinque giorni di combattimenti sono state sganciate 6.000 bombe sulla Striscia, per un peso totale di circa 4.000 tonnellate. I media hanno riferito che l’esercito ha spazzato via interi quartieri; secondo il Centro Al Mezan per i diritti umani, con sede a Gaza, questi attacchi hanno portato alla “completa distruzione di quartieri residenziali, alla distruzione delle infrastrutture e all’uccisione di massa dei residenti”.

Come documentato da Al Mezan e da numerose immagini provenienti da Gaza, Israele ha bombardato l’Università islamica di Gaza, l’Ordine degli avvocati palestinesi, un edificio delle Nazioni Unite che ospita un programma educativo per studenti eccellenti, un edificio appartenente alla Società palestinese per le telecomunicazioni, il Ministero dell’Economia nazionale, il Ministero della Cultura, strade e decine di grattacieli e case, soprattutto nei quartieri settentrionali di Gaza.

Il quinto giorno di combattimenti, il portavoce dell’IDF ha distribuito ai giornalisti militari in Israele immagini satellitari “prima e dopo” di quartieri nel nord della Striscia, come Shuja’iyya e Al-Furqan (soprannome di una moschea della zona) a Gaza City, che mostravano decine di case ed edifici distrutti. L’esercito israeliano ha dichiarato di aver colpito 182 “obiettivi di potere” a Shuja’iyya e 312 “obiettivi di potere” a Al-Furqan.

Il capo di Stato Maggiore dell’aviazione israeliana, Omer Tishler, ha dichiarato ai giornalisti militari che tutti questi attacchi avevano un obiettivo militare legittimo, ma anche che interi quartieri sono stati attaccati “su larga scala e non in modo chirurgico”. Notando che la metà degli obiettivi militari fino all’11 ottobre erano “obiettivi di potere”, il portavoce dell’IDF ha detto che sono stati attaccati “quartieri che servono come covi di terrore per Hamas” e che sono stati causati danni a “quartieri generali operativi”, “beni operativi” e “beni utilizzati dalle organizzazioni terroristiche all’interno di edifici residenziali”. Il 12 ottobre, l’esercito israeliano ha annunciato di aver ucciso tre “alti membri di Hamas“, due dei quali facevano parte dell’ala politica del gruppo.

Eppure, nonostante il bombardamento israeliano senza freni, i danni alle infrastrutture militari di Hamas nel nord di Gaza durante i primi giorni di guerra sembrano essere stati minimi. In effetti, fonti dell’intelligence hanno dichiarato a +972 e Local Call che gli obiettivi militari che facevano parte di “obiettivi di potere” sono stati usati molte volte come foglia di fico per danneggiare la popolazione civile. “Hamas è ovunque a Gaza; non c’è edificio che non abbia qualcosa di Hamas al suo interno, quindi se si vuole trovare un modo per trasformare un grattacielo in un obiettivo, lo si potrà fare”, ha detto un ex funzionario dell’intelligence.

“Non colpiranno mai un grattacielo che non abbia qualcosa che possiamo definire come obiettivo militare”, ha detto un’altra fonte dell’intelligence, che ha effettuato precedenti attacchi contro “obiettivi di potere”. “Ci sarà sempre un piano nel grattacielo [associato ad Hamas]. Ma per la maggior parte, quando si tratta di “obiettivi di potere”, è chiaro che l’obiettivo non ha un valore militare che giustifichi un attacco che abbatta un intero edificio vuoto nel mezzo di una città, con l’aiuto di sei aerei e bombe del peso di diverse tonnellate”.

Infatti, secondo le fonti che hanno partecipato alla compilazione degli “obiettivi di potere” nelle guerre precedenti, anche se gli obiettivi di solito contengono qualche tipo di presunta associazione con Hamas o altri gruppi militari, colpirli funziona principalmente come “mezzo che consente di danneggiare la società civile”. Le fonti hanno capito, alcune esplicitamente e altre implicitamente, che i danni ai civili sono il vero scopo di questi attacchi.

Nel maggio 2021, ad esempio, Israele è stato pesantemente criticato per aver bombardato la Torre Al-Jalaa, che ospitava importanti media internazionali come Al Jazeera, AP e AFP. L’esercito ha affermato che l’edificio era un obiettivo militare di Hamas; fonti hanno dichiarato a +972 e Local Call che si trattava in realtà di un “obiettivo di potere”.

“La percezione è che Hamas subisca un duro colpo quando vengono abbattuti i grattacieli, perché questo crea una reazione pubblica nella Striscia di Gaza e spaventa la popolazione”, ha detto una delle fonti. “Volevano dare ai cittadini di Gaza la sensazione che Hamas non avesse il controllo della situazione. A volte hanno abbattuto edifici, a volte il servizio postale e gli edifici governativi”.

Sebbene sia senza precedenti che l’esercito israeliano attacchi più di 1.000 “obiettivi di potere” in cinque giorni, l’idea di causare devastazioni di massa alle aree civili per scopi strategici è stata formulata in precedenti operazioni militari a Gaza, affinate dalla cosiddetta “Dottrina Dahiya” durante la Seconda guerra del Libano del 2006.

Secondo la dottrina – sviluppata dall’ex Capo di Stato Maggiore dell’IDF Gadi Eizenkot, che ora è membro della Knesset e fa parte dell’attuale gabinetto di guerra – in una guerra contro gruppi di guerriglieri come Hamas o Hezbollah, Israele deve usare una forza sproporzionata e schiacciante, colpendo le infrastrutture civili e governative, al fine di stabilire una deterrenza e costringere la popolazione civile a fare pressione sui gruppi per porre fine ai loro attacchi. Il concetto di ““obiettivi di potere”” sembra essere nato da questa stessa logica.

La prima volta che l’esercito israeliano ha definito pubblicamente gli “obiettivi di potere” a Gaza è stato alla fine dell’operazione Protective Edge nel 2014. L’esercito ha bombardato quattro edifici durante gli ultimi quattro giorni di guerra: tre edifici residenziali a più piani a Gaza City e un grattacielo a Rafah. L’establishment della sicurezza ha spiegato all’epoca che gli attacchi avevano lo scopo di comunicare ai palestinesi di Gaza che “nulla è più immune” e di fare pressione su Hamas affinché accettasse un cessate il fuoco. “Le prove che abbiamo raccolto dimostrano che la massiccia distruzione [degli edifici] è stata effettuata deliberatamente e senza alcuna giustificazione militare”, ha dichiarato un rapporto di Amnesty alla fine del 2014.

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In un’altra violenta escalation iniziata nel novembre 2018, l’esercito ha nuovamente attaccato “obiettivi di potere”. Questa volta Israele ha bombardato grattacieli, centri commerciali e l’edificio della stazione televisiva Al-Aqsa, affiliata a Hamas. “Attaccare “obiettivi di potere” produce un effetto molto significativo sull’altra parte”, ha dichiarato all’epoca un ufficiale dell’Aeronautica. “Lo abbiamo fatto senza uccidere nessuno e ci siamo assicurati che l’edificio e i suoi dintorni fossero stati evacuati”.

Operazioni precedenti hanno anche dimostrato come colpire questi obiettivi non sia solo per danneggiare il morale dei palestinesi, ma anche per sollevare il morale all’interno di Israele. Haaretz ha rivelato che durante l’operazione Guardian of the Walls, nel 2021, l’unità dei portavoce dell’IDF ha condotto una psy-op contro i cittadini israeliani per aumentare la consapevolezza delle operazioni dell’IDF a Gaza e dei danni causati ai palestinesi. I soldati, che hanno utilizzato falsi account sui social media per nascondere l’origine della campagna, hanno caricato su Twitter, Facebook, Instagram e TikTok immagini e filmati degli attacchi dell’esercito a Gaza per dimostrare al pubblico israeliano la prodezza dell’esercito.

Durante l’assalto del 2021, Israele ha colpito nove obiettivi definiti di potere, tutti grattacieli. “L’obiettivo era quello di far crollare i grattacieli per fare pressione su Hamas e anche perché l’opinione pubblica [israeliana] vedesse un’immagine di vittoria”, ha dichiarato una fonte della sicurezza a +972 e Local Call.

Tuttavia, ha continuato la fonte, “non ha funzionato. Come persona che ha seguito Hamas, ho sentito in prima persona quanto non si preoccupassero dei civili e degli edifici abbattuti. A volte l’esercito ha trovato qualcosa in un grattacielo che era legato ad Hamas, ma era anche possibile colpire quell’obiettivo specifico con armi più precise. Il risultato è che hanno abbattuto un grattacielo per il gusto di abbattere un grattacielo”.

“Tutti cercavano i loro figli in questi mucchi”.

L’attuale guerra non solo ha visto Israele attaccare un numero senza precedenti di “obiettivi di potere”, ma ha anche visto l’esercito abbandonare le politiche precedenti che miravano a evitare danni ai civili. Mentre in precedenza la procedura ufficiale dell’esercito prevedeva che fosse possibile attaccare gli “obiettivi di potere” solo dopo che tutti i civili fossero stati evacuati, le testimonianze dei residenti palestinesi a Gaza indicano che, dal 7 ottobre, Israele ha attaccato i grattacieli con i loro residenti ancora all’interno, o senza aver preso misure significative per evacuarli, causando molte morti tra i civili.

Questi attacchi molto spesso causano l’uccisione di intere famiglie, come già sperimentato in precedenti offensive; secondo un’indagine dell’AP condotta dopo la guerra del 2014, circa l’89% delle persone uccise nei bombardamenti aerei delle case familiari erano residenti disarmati, e la maggior parte di loro erano bambini e donne.

Tishler, il capo di stato maggiore dell’aeronautica, ha confermato un cambiamento di politica, dicendo ai giornalisti che la politica dell’esercito di ” bussare ai tetti” – in base alla quale si sparava un piccolo colpo iniziale sul tetto di un edificio per avvertire i residenti che stava per essere colpito – non è più in uso “dove c’è un nemico”. Il “Roof Knocking”, ha detto Tishler, è “un termine che riguarda le battaglie e non la guerra”.

Le fonti che hanno lavorato in precedenza sugli “obiettivi di potere” hanno detto che la strategia sfacciata dell’attuale guerra potrebbe essere uno sviluppo pericoloso, spiegando che l’attacco agli “obiettivi di potere” era originariamente inteso per “scioccare” Gaza, ma non necessariamente per uccidere un gran numero di civili. “Gli obiettivi sono stati pianificati con il presupposto che i grattacieli sarebbero stati evacuati dalle persone, quindi quando stavamo lavorando [alla compilazione degli obiettivi], non c’era alcuna preoccupazione riguardo al numero di civili che sarebbero stati danneggiati; il presupposto era che il numero sarebbe sempre stato zero”, ha detto una fonte con una profonda conoscenza della tattica.

“Questo significa che ci dovrebbe essere un’evacuazione totale [degli edifici presi di mira], che richiede dalle due alle tre ore, durante le quali i residenti vengono chiamati [per telefono ad evacuare], vengono lanciati missili di avvertimento e facciamo anche un controllo incrociato con i filmati dei droni per verificare che le persone stiano effettivamente lasciando i grattacieli”, ha aggiunto la fonte.

Tuttavia, le testimonianze da Gaza suggeriscono che alcuni grattacieli – che presumiamo fossero “obiettivi di potere” – sono stati abbattuti senza preavviso. +972 e Local Call hanno individuato almeno due casi durante la guerra in corso in cui interi grattacieli residenziali sono stati bombardati e sono crollati senza preavviso, e un caso in cui, secondo le prove, un grattacielo è crollato sui civili che si trovavano all’interno.

Il 10 ottobre, Israele ha bombardato il Babel Building a Gaza, secondo la testimonianza di Bilal Abu Hatzira, che quella notte ha estratto dei corpi dalle macerie. Nell’attacco all’edificio sono rimaste uccise dieci persone, tra cui tre giornalisti.

Il 25 ottobre, l’edificio residenziale di 12 piani Al-Taj, a Gaza City, è stato bombardato senza preavviso fino alle fondamenta, uccidendo le famiglie che vi abitavano. Circa 120 persone sono state sepolte sotto le rovine dei loro appartamenti, secondo le testimonianze dei residenti. Yousef Amar Sharaf, un residente di Al-Taj, ha scritto su X che 37 membri della sua famiglia che vivevano nell’edificio sono stati uccisi nell’attacco: “Il mio caro padre e la mia cara madre, la mia amata moglie, i miei figli e la maggior parte dei miei fratelli e le loro famiglie”. I residenti hanno dichiarato che sono state lanciate molte bombe, danneggiando e distruggendo anche gli appartamenti degli edifici vicini.

Sei giorni dopo, il 31 ottobre, l’edificio residenziale di otto piani Al-Mohandseen è stato bombardato senza preavviso. Secondo quanto riferito, il primo giorno sono stati recuperati dalle rovine tra i 30 e i 45 corpi. Un bambino è stato trovato vivo, senza i suoi genitori. Alcuni giornalisti hanno stimato che oltre 150 persone sono rimaste uccise nell’attacco, mentre molte sono rimaste sepolte sotto le macerie.

L’edificio si trovava nel campo profughi di Nuseirat, a sud di Wadi Gaza – nella presunta “zona sicura” verso cui Israele ha indirizzato i palestinesi fuggiti dalle loro case nel nord e nel centro di Gaza – e serviva quindi come rifugio temporaneo per gli sfollati, secondo le testimonianze.

Secondo un’indagine di Amnesty International, il 9 ottobre Israele ha bombardato almeno tre edifici a più piani e un mercato all’aperto in una strada affollata del campo profughi di Jabaliya, uccidendo almeno 69 persone. “I corpi erano bruciati… non volevo guardare, avevo paura di guardare il volto di Imad”, ha detto il padre di un bambino ucciso. “I corpi erano sparsi sul pavimento. Tutti cercavano i loro figli in questi mucchi. Ho riconosciuto mio figlio solo dai pantaloni. Volevo seppellirlo immediatamente, così ho preso in braccio mio figlio e l’ho portato via”.

Secondo l’indagine di Amnesty, l’esercito ha dichiarato che l’attacco all’area del mercato aveva come obiettivo una moschea “dove erano presenti operativi di Hamas”. Tuttavia, secondo la stessa indagine, le immagini satellitari non mostrano alcuna moschea nelle vicinanze.

Il portavoce dell’IDF non ha risposto alle domande di +972 e Local Call su attacchi specifici, ma ha dichiarato più in generale che “l’IDF ha fornito avvertimenti prima degli attacchi in vari modi e, quando le circostanze lo hanno permesso, ha anche consegnato avvertimenti individuali attraverso telefonate a persone che si trovavano presso gli obiettivi o nelle vicinanze (ci sono state più di 25.000 conversazioni dal vivo durante la guerra, oltre a milioni di conversazioni registrate, messaggi di testo e volantini lanciati allo scopo di avvertire la popolazione). In generale, l’IDF lavora per ridurre il più possibile i danni ai civili nell’ambito degli attacchi, nonostante la sfida di combattere un’organizzazione terroristica che usa i cittadini di Gaza come scudi umani”. (fine prima parte, domani la seconda).

*Yuval Abraham è un giornalista e attivista basato a Gerusalemme.

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In Cina e Asia – Gli e-book di China Files n°24


In Cina e Asia – Gli e-book di China Files n°24 Cina Asia 2024 - N7 - V3 - DIC23 - CHINA FILES
Come da tradizione, è ora disponibile il nuovo dossier dedicato all'Asia del 2024. Tra numerosi appuntamenti elettorali e sfide economiche, ecco quali sono i punti chiave che determineranno il futuro asiatico (e un po' anche il nostro)

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Cina, sono sempre meno i matrimoni


Cina, sono sempre meno i matrimoni matrimoni
Il Covid-19, l’invecchiamento della popolazione e il cambio di mentalità tra i giovani. Secondo gli esperti, sono questi i principali fattori che incidono sul continuo calo dei matrimoni in Cina.

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Israele e la guerra nel Mar Rosso: anche MSC cambia rotta


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di Eliana Riva –

Pagine Esteri, 17 dicembre 2023. La più grande compagnia di navigazione al mondo, la MSC (Mediterranean Shopping Company), modificherà le rotte marittime a causa dell’aumento del numero degli attacchi alle sue navi cargo. La comunicazione arriva subito dopo quella della società francese CMA CGM, che ha seguito a sua volta il gigante danese Maersk e la società di trasporti tedesca Hapag-Lloyd.

Lo Yemen, l’estremità meridionale della Penisola Arabica, è teatro di un violento conflitto civile ormai dal settembre 2014. Il nord del Paese, compresa la capitale Sana’a, è stata occupata dai miliziani Houthi. Questi ultimi, sostenuti dall’Iran, hanno più volte, negli ultimi anni, attaccato le navi israeliane che transitavano nei pressi del Golfo di Aden con lanci di droni e di razzi.

Israele considera gli Houthi, i cui attacchi con i droni vanno solitamente a segno, una sorta di unità missilistica al servizio delle forze armate iraniane, utilizzati all’occorrenza da Teheran come una minaccia a Israele.

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, che ha causato 1.200 morti in Israele, e i violenti bombardamenti di quest’ultimo che hanno ucciso a Gaza più di 18.800 persone, il lancio di droni e razzi dallo Yemen è aumentato e gli Houthi hanno dichiarato di rivolgere i propri attacchi non solo alle navi cargo israeliane e statunitensi ma contro tutte quelle che attraverso il Mar Rosso intendono raggiungere Israele. Le navi da guerra statunitensi hanno più volte intercettato e distrutto i droni lanciati da Ansrallah.

Lo scorso venerdì la nave-container MSC PALATIUM III è stata attaccata da droni mentre si apprestava ad entrare nel Mar Rosso attraverso lo stretto di Bab al-Mandab, in italiano letteralmente “Porta del lamento funebre”. Il passaggio congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden, che separa l’Africa dalla Penisola Arabica.

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Gli attacchi a MSC e agli altri colossi, che rappresentano quattro delle cinque compagnie marittime più grandi al mondo, non hanno causato feriti ma alcuni danni alle imbarcazioni. Un effetto immediato dell’incremento dell’insicurezza e dei pericoli nella navigazione è stato l’aumento dei costi delle polizze assicurative, saliti alle stelle. Ma non è questo l’unico problema.

Passando per lo stretto di Bab al-Mandab, le navi cargo che attraversano il Mar Rosso, raggiungono il Canale di Suez e arrivano quindi al Mar Mediterraneo, il tutto in 13 ore, rappresentano il 12% del commercio mondiale. L’unico percorso alternativo possibile è quello che prevede la circumnavigazione del continente africano, allungando il viaggio di circa 10 giorni, un aumento del 30% che incide in maniera importante sui costi relativi all’equipaggio, al rifornimento, alla gestione dei depositi. Difficile immaginare che tali aumenti non interesseranno i consumatori finali.

Israele conduce via mare il 98% circa del suo commercio e negli ultimi decenni l’importanza del Mar Rosso per Tel Aviv è cresciuta sensibilmente, anche perché in esso fluisce circa un quarto del commercio estero israeliano, quello che riguarda l’Asia, con la quale Israele intende stringere nuovi e più stretti rapporti, anche per limitare l’eccessiva dipendenza dall’Europa. Quando nel 1973, durante la guerra dello Yom Kippur, lo Yemen, in collaborazione con l’Egitto chiuse lo stretto di Bab el-Mandeb, bloccò tutte le attività commerciali che avevano destinazione Eilat. In ottobre, le importazioni israeliane di merci, esclusi i diamanti, ammontavano a 17,5 miliardi di NIS. Circa il 49% delle importazioni proveniva da paesi europei e il 25% proveniva da paesi asiatici, secondo i dati dell’Ufficio centrale di statistica. Le importazioni dall’Estremo Oriente, principalmente dalla Cina, includono macchinari per infrastrutture e progetti di costruzione, prodotti di consumo e merci ordinati da siti web cinesi, tra cui Ali Express, nonché prodotti elettronici e negli ultimi anni veicoli di fabbricazione cinese.

Circa il 30% delle importazioni israeliane arriva attraverso il Mar Rosso su navi portacontainer prenotate con due o tre mesi di anticipo per i prodotti di consumo o di altro tipo

Il 16 dicembre, i portavoce del governo di Tel Aviv hanno dichiarato che una nuova nave da guerra stava raggiungendo il Mar Rosso. Il presidente Nethanyahu ha richiesto una “coalizione internazionale” contro gli Houthi, proposta rilanciata dagli Stati Uniti, che però intendono allargare il più possibile il coinvolgimento di attori internazionali, per non rimanere isolati su un fronte di conflitto che si rivela sempre più insidioso e problematico.

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GAZA. Popolazione alla fame, prezzi alle stelle. Gli aiuti vengono distribuiti solo in parte


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della redazione

Pagine Esteri, 15 dicembre 2023 – La gente di Gaza non ha più pane, deve fare i conti con prezzi che sono aumentati anche di 50 volte e spesso deve macellare asini per sfamarsi. Ciò mentre i camion con gli aiuti alimentari ed umanitari della Mezzaluna rossa e delle Nazioni unite non riescono a raggiungere numerose aree della Striscia di Gaza, in particolare a nord, a causa dei bombardamenti israeliani. L’ufficio umanitario delle Nazioni Unite Ocha ha comunicato che alcune distribuzioni limitate di aiuti sono avvenute nell’area di Rafah, vicino al confine con l’Egitto, dove si stima che viva quasi la metà della popolazione di Gaza di 2,3 milioni di abitanti.

“Nel resto della Striscia di Gaza, la distribuzione degli aiuti è in gran parte interrotta, a causa dell’intensità delle ostilità e delle restrizioni alla circolazione lungo le strade principali”, si legge in un comunicato.

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Secondo i civili palestinesi, spingere la popolazione di Gaza alla fame sarebbe uno degli obiettivi dell’offensiva militare israeliana. “Gli israeliani ci hanno costretto a lasciare le nostre case, poi le hanno distrutte e ci hanno portato al sud dove possiamo morire sotto le loro bombe o di fame”, ha dichiarato uno sfollato a giornalisti locali. Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, Unrwa, ha detto che persone affamate fermano i camion degli aiuti per prendere cibo e mangiarlo subito.

Youssef Fares, giornalista di Jabalia, nel nord, dice che i beni di base, come la farina, sono ormai così difficili da trovare che i prezzi sono aumentati da 50 a 100 volte rispetto a prima della guerra. “Stamattina sono andato in cerca di un pezzo di pane e non l’ho trovato. Al mercato sono rimaste solo caramelle per i bambini e qualche barattolo di fagioli, il cui prezzo è salito di 50 volte”, ha scritto su Facebook. “Ho visto qualcuno che macellava un asino per darlo ai membri della sua famiglia”, ha aggiunto.

Tutti i camion degli aiuti entrano a Gaza attraverso il valico di Rafah con l’Egitto, ma prima devono essere ispezionati da Israele. Da quando le consegne sono iniziate il 20 ottobre, le ispezioni avvengono al valico di Nitzana tra Israele ed Egitto, costringendo i camion a fare il giro da Rafah a Nitzana e ritorno. Ciò causa forti ritardi nell’ingresso degli aiuti nella Striscia.

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Mercoledì sono entrati a Gaza 152 camion di aiuti, rispetto ai circa 100 del giorno precedente, ma è solo una frazione di ciò che è necessario per affrontare la catastrofe umanitaria in corso. Due giorni fa Israele ha avviato ulteriori ispezioni al valico di Kerem Shalom. Potrebbe fare una differenza significativa se Israele lasciasse passare i camion direttamente a Kerem Shalom, ma ha scelto di non farlo.

Dal 7 ottobre, giorno dell’attacco compiuto dal movimento islamico Hamas nel sud di Israele (1200 morti, in maggioranza civili), i bombardamenti e l’offensiva di terra delle forze armate israeliane hanno provocato circa 19mila morti tra i palestinesi, in prevalenza civili, tra cui migliaia di bambini e donne. Pagine Esteri

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In Cina e Asia – Allerta meteo, 100 feriti sulla metro di Pechino


In Cina e Asia – Allerta meteo, 100 feriti sulla metro di Pechino allerta meteo
I titoli di oggi:

Allerta meteo, 100 feriti sulla metro di Pechino
Xinjiang, critiche al rapporto commissionato da Volkswagen sul lavoro forzato
Italia, Giappone e Regno Unito svi

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Sustanalytics – Cop28 e Cina: contraddizioni e novità della diplomazia climatica made in Bejing


Sustanalytics – Cop28 e Cina: contraddizioni e novità della diplomazia climatica made in Bejing cop28 cina clima
Poche variazioni sul tema nel sillabario cinese della diplomazia climatica alla Cop28. Ma tra le novità arriva un nuovo inviato per il clima e uno slancio (all'indietro?) verso il compromesso crescita-sostenibilità. La nuova puntata con la rubrica dedicata ad ambiente, energia e cambiamenti climatici in Asia

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In Cina e in Asia – Milioni di cinesi abbandonano il sistema di assicurazione sanitaria nazionale


In Cina e in Asia – Milioni di cinesi abbandonano il sistema di assicurazione sanitaria nazionale 11081920
Milioni di cinesi abbandonano il sistema di assicurazione sanitaria nazionale
Ex funzionario condannato per tangente record da 3 miliardi di yuan
La Cina supera gli Stati Uniti come Paese con più catene di caffetterie
La smart city di Xiong’an avrà un sistema di navigazione per la rete sotterranea
Nuovo rimpasto di governo in Giappone
Thailandia, condannata a 6 anni deputata del Move Forward

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Il Niger sceglie Mosca e Pechino e rafforza l’alleanza con Mali e Burkina Faso


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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 14 dicembre 2023 – Niger, Mali e Burkina Faso, i paesi del Sahel dove negli ultimi tre anni si sono imposte altrettante giunte militari grazie a colpi di stato, sembrano avviati sulla via di una collaborazione sempre più stretta.
Nei mesi scorsi, infatti, i governi militari di Niamey, Bamako e Ouagadougou hanno già firmato un accordo di cooperazione militare dopo aver espulso le truppe francesi da anni presenti sul loro territorio, indebolendo fortemente l’influenza di Parigi nell’area.

L’Alleanza degli Stati del Sahel si rafforza
Il 16 settembre i leader di Mali, Niger e Burkina Faso avevano ufficializzato la nascita dell’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes), un’iniziativa di natura diplomatica e militare diretta a «garantire l’indipendenza dei tre paesi nei confronti degli organismi regionali e internazionali».
Se all’inizio l’Aes è nata come un patto di difesa comune, diretta a unire le rispettive risorse militari per combattere i gruppi ribelli e jihadisti attivi nel Sahel – per contrastare i quali i governi precedenti avevano chiesto in passato l’intervento delle truppe francesi e dell’Onu – sembra che ora le tre giunte golpiste puntino ad allargare la cooperazione anche ad altri campi.

Recentemente i rappresentanti dei tre paesi si sono nuovamente incontrati a Bamako e al termine della riunione hanno annunciato la firma di protocolli aggiuntivi, l’istituzione di organismi istituzionali e giuridici dell’Alleanza e la «definizione delle misure politiche e del coordinamento diplomatico». I tre governi hanno affermato di voler rafforzare gli scambi commerciali, realizzare insieme progetti energetici e industriali, creare una banca di investimenti e persino una compagnia aerea comune.

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Il colonnello Yevkurov firma accordi in Niger

Il Niger diventa una potenza petrolifera
Nei giorni scorsi, poi, il generale golpista Omar Abdourahamane Tchiani, salito al potere lo scorso 26 luglio, ha annunciato l’intenzione di avviare con gli altri due paesi una collaborazione di tipo anche politico e monetario. Tchiani ne ha parlato nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente nigerina “Rts”, affermando che «oltre al campo della sicurezza, la nostra alleanza deve evolversi nel campo politico e in quello monetario».

Nell’intervista Tchiani ha informato che Niamey intende esportare già a gennaio i primi barili di greggio sfruttando il nuovo oleodotto che collegherà il giacimento nigerino di Agadem al porto di Seme, in Benin. La realizzazione dell’oleodotto, lungo 2000 km e con una capacità di 90 mila barili al giorno, è ormai in fase conclusiva ed è stata avviata a novembre grazie ai finanziamenti di PetroChina. L’infrastruttura permetterà al Nigerdi diventare una piccola potenza petrolifera aggirando almeno in parte le sanzioni imposte al paese dopo la deposizione del governo filoccidentale. Secondo il capo del settore della raffinazione del petrolio, la produzione petrolifera potrebbe generare un «quarto del Prodotto interno lordo del Paese». La Cnpc, un’impresa di proprietà del governo cinese, è inoltre impegnata nello sfruttamento del bacino del Rift di Agadem e nella costruzione del gasdotto Niger-Benin sostenuto con un investimento da 6 miliardi di dollari.

Che l’avvio della cooperazione monetaria vada in porto o meno, i tre paesi sembrano intenzionati a rompere del tutto i legami con la Cedeao – la Comunità Economica dei Paesi dell’Africa occidentale – che dopo i colpi di stato ha sospeso Bamako, Ouagadougou e Niamey dall’alleanza alla quale fino ad un certo punto Parigi chiedeva di intervenire militarmente per ripristinare i governi estromessi prima di decidere il ritiro delle proprie missioni militari dal Niger chiesta a gran voce dai golpisti.

L’annuncio del generale Tchiani è giunto dopo che domenica scorsa i leader dell’organismo regionale hanno deciso di confermare le sanzioni alla giunta golpista del Niger, che si è rifiutata di rilasciare il presidente deposto Mohamed Bazoum in cambio della loro revoca.

La rottura con Parigi e Bruxelles
Sempre la scorsa settimana i governi di Mali e Niger avevano denunciato, tramite un comunicato stampa congiunto, le convenzioni firmate con la Francia dai governi precedenti miranti al superamento della doppia imposizione fiscale e che disciplinano le norme per la tassazione dei redditi e per le successioni. La decisione di abolire le convenzioni in questione entro tre mesi – afferma la nota – risponde al «persistente atteggiamento ostile della Francia» e al «carattere squilibrato» degli accordi in questione che causano «un notevole deficit per il Mali e il Niger». Se effettivamente attuata, la misura avrà serie ripercussioni sia per i privati che per le imprese domiciliate in Francia e che svolgono attività in Mali e in Niger e viceversa.
Nelle settimane scorse, inoltre, la giunta militare del Niger ha già annunciato la cancellazione degli accordi di difesa e sicurezza siglati con l’Unione Europea, diretti a «combattere il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione irregolare».

Già a fine novembre i golpisti avevano abrogato una legge, precedentemente concordata con la Francia e l’Unione Europea, che puniva il «traffico illecito di migranti» e bloccava il loro transito verso la Libia, spiegando che la decisione risponde alla necessità di una «decolonizzazione dall’occidente».

In un comunicato, lo scorso 4 dicembre il ministro degli Esteri di Niamey ha annunciato di voler revocare anche l’accordo stipulato con l’Ue relativo alla missione civile europea denominata Eucap Sahel Niger, attiva dal 2012 e che attualmente conta su 130 gendarmi e agenti di polizia europei, impegnati finora nell’addestramento dei militari nigerini.

Inoltre la giunta nigerina ha comunicato di aver ritirato il consenso al dispiegamento della “Missione di partenariato militare dell’Ue in Niger” (Eumpm), attualmente a guida italiana. Entro la fine di dicembre, inoltre, si concluderà il ritiro dei circa 1500 militari francesi schierati finora nel paese; secondo quanto riferito da fonti militari francesi citate dall’emittente “Rfi”, rimane da evacuare soltanto la base aérea di Niamey, dove restano circa 400 uomini. In Niger per ora rimangono 1100 militari statunitensi e 250 soldati italiani.

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Manifestanti filorussi in Niger

Sempre più vicini a Mosca
Nello stesso giorno dell’annuncio sulla fine della cooperazione con l’UE, a Niamey era giunto in visita il viceministro della Difesa della Federazione Russa, il colonnello Junus-bek Yevkurov, che dopo aver fatto tappa prima in Mali, in Burkina Faso e poi in Libia è stato ricevuto dal generale Tchiani e dal Ministro della Difesa del Niger Salifou Modi con i quali ha siglato un accordo che prevede il rafforzamento della cooperazione militare fra i due paesi.

A Bamako la delegazione russa è stata ricevuta dal capo del “governo di transizione maliano”, il colonnello Assimi Goita. Al termine dei colloqui il ministro dell’Economia e delle Finanze del paese africano, Alousseni Sanou, ha riferito che con i russi si è parlato della costruzione di una rete ferroviaria, di uno stabilimento per la lavorazione dell’oro estratto nelle miniere maliane e di un accordo per la realizzazione di una centrale nucleare. La realizzazione di una centrale nucleare in Burkina Faso è stata invece al centro dei colloqui tra i rappresentanti di Mosca e la giunta di Ouagadougou.

Basta alle missioni Onu
Come se non bastasse, il 2 dicembre il Niger e il Burkina Faso hanno annunciato il proprio ritiro dal gruppo “G5 Sahel”, creato nel 2014 grazie ai finanziamenti dell’Unione Europea per coordinare la lotta contro il terrorismo jihadista. L’anno scorso era stato il Mali ad abbandonare il progetto che coinvolge ora soltanto la Mauritania e il Ciad che però hanno già informato di voler sciogliere il coordinamento ormai privo di senso.

La giunta militare di Bamako, al potere dal 2021, ha invece deciso recentemente di mettere fine a dieci anni di presenza in Mali della Missione militare dell’Onu denominata Minusma, avviata nel 2012 per contrastare l’insurrezione jihadista. L’11 dicembre i vertici della missione internazionale, nel corso di una mesta cerimonia, hanno ammainato la bandiera delle Nazioni Unite dal quartier generale delle truppe dell’Onu. Il ritiro del contingente internazionale dalle 12 basi sparse per il Mali, che ospitavano 12 mila caschi blu e 4300 dipendenti civili, dovrebbe concludersi entro il 31 dicembre proprio mentre le milizie jihadiste intensificano gli attacchi contro l’esercito e conquistano nuovi territori.

I jihadisti avanzano nonostante la Wagner
A fine agosto i miliziano dei “Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani” (Jnim) hanno occupato Timbuctù, infliggendo un duro colpo alle forze fedeli alla giunta militare maliana che, nel tentativo di contrastare l’offensiva jihadista, ha stretto un accordo con le milizie mercenarie russe della Wagner. La decisione ha però scatenato le proteste dei movimenti tuareg che in molte aree costituiscono l’unico baluardo efficace contro i combattenti fondamentalisti. In alcuni territori le milizie tuareg indipendentiste, riunite nel “Coordinamento dei movimenti dell’Azawad”, hanno ingaggiato violenti scontri con l’esercito regolare e i paramilitari della Wagner, che recentemente avrebbe iniziato ad operare utilizzando la denominazione di “Africa Corps”. Secondo molti analisti la compagnia mercenaria, dopo la morte dei suoi vertici in un “incidente aereo” nell’agosto scorso, sarebbe meno autonoma dal governo di Mosca rispetto alla Wagner e dovrebbe limitare le proprie attività proprio al continente africano in stretta sintonia con le esigenze politiche ed economiche del Cremlino. Pagine Esteri

11079572* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Dialoghi – SOS: sfide ed evoluzione della risposta cinese alle emergenze


Dialoghi – SOS: sfide ed evoluzione della risposta cinese alle emergenze emrgenze cina
A vent’anni dall’esplosione della pandemia di Sars in Cina com’è evoluta la strategia della Repubblica popolare per rispondere a catastrofi naturali ed emergenze sanitarie? Dal 2003 sono tanti i tentativi avviati da Pechino per implementare un sistema tempestivo di soccorso. La parola chiave resta la“mobilitazione”. “Dialoghi” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio di Milano

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In Cina e Asia – Xi in Vietnam, è la prima visita in sei anni


In Cina e Asia – Xi in Vietnam, è la prima visita in sei anni xi jinping vietnam
I titoli di oggi:
Xi in Vietnam, prima visita in sei anni
Yoon arriva nei Paesi Bassi. E visiterà nota azienda leader dei chip
Palestina, Wang Yi al ministro iraniano: "Perseguire un cessate il fuoco immediato"
Cina, la Conferenza centrale per l'economia: "Sviluppo è priorità politica"
Malaysia, pronto il nuovo ministero del Digitale

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La "resistenza morbida” di Hong Kong e il caso Agnes Chow


La agnes chow
Citata dalla BBC tra le 100 donne più influenti del 2020, Chow è stata tra i volti delle proteste pro-democrazia. Pochi giorni fa ha annunciato di aver scelto l'esilio in Canada. "Considerata la situazione politica a Hong Kong e la mia salute personale, mentale, fisica, ho deciso di non tornare indietro", ha spiegato su Instagram.

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In Cina e Asia – La Cina apre indagini sul flusso transfrontaliero di dati geografici


In Cina e Asia – La Cina apre indagini sul flusso transfrontaliero di dati geografici dati geografici
I titoli di oggi:

La Cina apre indagini sul flusso transfrontaliero dei dai
Giappone, Kishida accetta le dimissioni del capo gabinetto Matsuno
Produzione oppio: il Myanmar supera l'Afghanistan
Pilota taiwanese accusato di aver accettato 15 milioni dollari da Pechino per disertare
Cina, centri per la quarantena trasformati in appartamenti
Alla Cop28 l’eredità di Kerry e Xie, veterani della politica climatica

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“Sparano e bruciano”: I civili presi di mira nella guerra della Nigeria contro Boko Haram


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The New Humanitarian, VICE News

(traduzione di Federica Riccardi, foto di Chris Roberts www.commons.wikimedia)

thenewhumanitarian.org/investi…

BAMA, Nigeria

Al primo rumore degli spari sparati da veicoli in avvicinamento, Falmata* e il resto del suo villaggio si sono dispersi nella boscaglia dietro le loro case: sapevano cosa stava per succedere. L’esercito nigeriano aveva già distrutto il villaggio di Bula Ali tre volte, ricorda la donna. Questa volta, la pattuglia è arrivata in una mattina di dicembre del 2021 e ha iniziato a sparare. I soldati in uniforme sono poi scesi e, mentre alcuni davano fuoco alle case e ai depositi di cibo, altri radunavano il bestiame e lo caricavano sui loro veicoli.

Secondo Falmata, quel giorno sono morti otto civili, tra cui due bambini di 10 e 15 anni e la loro madre, Bintu. Anche un uomo anziano, Ba Modu, è stato ucciso: troppo fragile per correre, è morto quando la sua casa è stata incendiata mentre era ancora dentro.

Bula Ali non è un’anomalia. Nei 13 anni di guerra contro i gruppi jihadisti del nord-est – indicati collettivamente come Boko Haram – l’esercito nigeriano lancia abitualmente quelle che definisce operazioni di “bonifica” contro le comunità che descrive come roccaforti degli insorti. Interi villaggi vengono incendiati, i raccolti e il bestiame distrutti e gli abitanti dispersi.

Nel corso di un’indagine durata un anno, The New Humanitarian e VICE News hanno raccolto immagini satellitari, fotografie e video – oltre a decine di testimonianze di operatori umanitari locali e internazionali, esperti militari, testimoni e soldati – che supportano tutte le accuse di violazioni del diritto internazionale umanitario (IHL) da parte dell’esercito. Alcune presunte violazioni sono avvenute nel maggio di quest’anno.

HumAngle, un organo di informazione che si occupa di conflitti e questioni umanitarie in Africa, ha stimato che più di 200 villaggi sono stati distrutti dal 2010 nella sola regione settentrionale del Lago Ciad.

I rapporti e le analisi delle immagini satellitari di The New Humanitarian e VICE News, tuttavia, indicano che il numero totale di villaggi distrutti, dalla combinazione di esercito nigeriano, milizie locali della Civilian Joint Task Force (CJTF) e unità militari straniere dispiegate nell’ambito dalla Multinational Joint Task Force (MNJTF) regionale che comprende Ciad, Camerun e Niger, potrebbe arrivare a centinaia.

“I soldati pensano che tutti gli abitanti dei villaggi siano Boko Haram, ma non c’è nessun Boko Haram a Bula Ali”, ha detto Falmata a The New Humanitarian e VICE News alla fine dello scorso anno in una serie di interviste con i sopravvissuti, che hanno tutti parlato a condizione di anonimato, temendo rappresaglie. “Siamo solo presi in mezzo”.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, la guerra contro l’insurrezione ha ucciso direttamente o indirettamente 350.000 persone e ne ha sradicate altre 2,5 milioni, di cui 1,8 milioni nello Stato nordorientale di Borno, epicentro del conflitto.

Ha inoltre preso di mira una regione della Nigeria dove le agenzie umanitarie stanno attualmente conducendo un’operazione umanitaria da 1,3 miliardi di dollari per raggiungere 8,3 milioni di persone in stato di bisogno.

“Ci sono sempre state voci di atrocità, ma non ci è mai stato concesso l’accesso [da parte dell’esercito] per verificare, e tanto meno per fornire assistenza umanitaria alle persone intrappolate dietro le linee”, ha dichiarato Fred Eno, portavoce di Matthias Schmale, il massimo funzionario delle Nazioni Unite in Nigeria. “Per questo abbiamo bisogno che la comunità internazionale chieda un’indagine approfondita”.

Molti abitanti dei villaggi intervistati da The New Humanitarian e VICE News hanno detto di essere stati costretti a lasciare le proprie case durante le operazioni di sgombero da parte dell’esercito, che non è stato in grado di distinguere tra civili e jihadisti che operano nell’area.

Falmata e molti altri abitanti del villaggio sono ora senza casa, bloccati in un campo per sfollati sovraffollato a Bama, la città più vicina. Le loro fattorie, un tempo produttive, sono state abbandonate e dipendono dagli aiuti umanitari.

“Quando i soldati arrivano, non fanno domande, non ascoltano. Sparano e bruciano le case”, ha detto Yusuf del villaggio di Abbaram. Anche lui ha parlato in condizione di anonimato, temendo rappresaglie da parte dei militari.

Le nuove evidenze si aggiungono a un crescente numero di prove – tra cui i precedenti lavori di Reuters, Amnesty International e Human Rights Watch – che suggeriscono che le violazioni dei diritti da parte dell’esercito nigeriano sono continue e sistematiche.

Tali violazioni includono l’uso di una forza sproporzionata negli attacchi aerei che hanno utilizzato munizioni non guidate contro i villaggi, nonché la distruzione delle scorte di cibo dei civili, secondo quanto riportato dagli abitanti dei villaggi e dagli analisti.

È probabile che anche i combattenti feriti siano stati giustiziati, in chiara violazione del diritto umanitario internazionale. Le forze armate nigeriane non hanno risposto alle domande al momento della pubblicazione, ma hanno precedentemente negato le violazioni dei diritti.

“Le autorità nigeriane devono indagare a fondo e tempestivamente sui risultati di questo rapporto”, ha dichiarato Isa Sanusi, direttore ad interim di Amnesty International per la Nigeria, riferendosi ai risultati dell’inchiesta di The New Humanitarian e VICE News, condivisi con l’organizzazione prima della pubblicazione.

Le presunte violazioni sono continuate sotto due presidenti, Goodluck Jonathan e Muhammadu Buhari. Il neoeletto presidente Bola Tinubu, che ha prestato giuramento il 29 maggio dopo aver vinto elezioni contestate all’inizio dell’anno, ha sostituito i comandanti militari dei suoi predecessori all’inizio del mese – una pratica normale per un capo di Stato entrante. Ma ha fornito pochi indizi sul fatto che la politica di sicurezza possa cambiare.

“La cosa migliore che [Tinubu] può fare è affrontare la questione delle violazioni del diritto internazionale umanitario in modo frontale”, ha dichiarato Idayat Hassan, direttore del think tank Centre for Democracy and Development di Abuja ed esperto del conflitto nel nord-est.

“La Nigeria ha bisogno del sostegno internazionale, data la portata dei suoi problemi umanitari, e tali accuse danneggiano questo rapporto”.

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Combattenti di Boko Haram (foto di AK Rockfeller)

Oltre la “trincea

Da anni esiste un rapporto difficile tra gli operatori umanitari e l’esercito nigeriano, che ha messo in discussione la reale neutralità delle organizzazioni nel conflitto, un principio fondamentale delle operazioni umanitarie. Nel 2019, le autorità nigeriane hanno chiuso temporaneamente gli uffici di Mercy Corps e Action Against Hunger nel nord-est, accusando le agenzie umanitarie di aiutare Boko Haram – un’accusa ripetutamente rivolta al più ampio sistema umanitario e negata dalle due organizzazioni. La legge antiterrorismo della Nigeria criminalizza qualsiasi contatto con Boko Haram.

L’uccisione di un operatore umanitario da parte di un soldato nella città nordorientale di Damboa, nel novembre dello scorso anno, ha avuto un ulteriore effetto paralizzante.

“Gli operatori umanitari hanno paura di confrontarsi con i militari”, ha dichiarato un responsabile degli aiuti nel nord-est a The New Humanitarian e VICE News. “Quello che fanno è molto opaco. E noi non abbiamo la capacità necessaria. Siamo sopraffatti dal numero di persone che cerchiamo di aiutare”.

Un unico campo sovraffollato nel centro di Bama ospita circa 50.000 sfollati. Le condizioni sono difficili; chi ha amici e parenti in città si trasferisce appena può. Bama, 70 chilometri a sud della capitale regionale, Maiduguri, è la seconda città più grande del nord-est e vicina alla foresta di Sambisa, da sempre base di Boko Haram.

Nel 2014, Bama è stata catturata dai jihadisti, che hanno massacrato centinaia di cittadini prima di essere riconquistata dall’esercito nigeriano un anno dopo. Con la lenta ripresa della città, si è registrato un afflusso di persone dalla campagna, attratte dalle agenzie umanitarie e dai soccorsi che forniscono, nonché dalle crescenti opportunità commerciali. A Bama ha sede anche la 21ª Brigata corazzata, guidata dal generale di brigata Adewale Adekeye. Come altre città di guarnigione, un perimetro di sicurezza profondo cinque chilometri – noto come “la trincea” – circonda Bama.

Quasi nessuna agenzia umanitaria lavora al di fuori della “trincea” – l’unica eccezione è il Comitato Internazionale della Croce Rossa, a cui è stato concesso un permesso speciale.

“Dicono che ‘se siete fuori dalla trincea, siete soli… non faremo distinzione tra voi e il nemico’”, ha dichiarato il direttore di una ONG internazionale a The New Humanitarian e VICE News, ricordando le conversazioni con i soldati. Il direttore ha parlato in condizione di anonimato per timore di rappresaglie.

Gli sfollati intervistati hanno descritto un’esistenza precaria nelle campagne, cercando di gestire la violenza e le intimidazioni dei jihadisti e dei militari. Ma mentre Boko Haram si limita a tassare i raccolti della gente sotto la minaccia delle armi e a chiedere tutto ciò che vuole, i militari tendono a considerare ogni abitante del villaggio come un potenziale bersaglio. Alla domanda dei giornalisti su chi temono di più, la risposta ricorrente è stata “i militari”.

“Sono entrambi malvagi, ma posso dire che i soldati sono peggio”, ha detto Abubakar del villaggio di Anbara, a circa 50 chilometri a sud di Bama. “Hanno ucciso i miei due figli [che stavano tornando dalle loro fattorie]. Boko Haram ha preso tutti i miei beni, le mie mucche, tutto ciò che abbiamo guadagnato con l’agricoltura, ma i militari hanno ucciso i miei figli”.

“Possono facilmente ucciderti, distruggere la tua casa e tutto ciò che hai”, ha detto Ali, che ha descritto come il suo villaggio di Dauleri sia stato bruciato quasi ogni anno negli ultimi sei anni. Tutti gli abitanti del villaggio intervistati hanno detto che l’esercito avrebbe dovuto sapere che stava attaccando gli agricoltori, non i jihadisti. “Nessuno ha sfidato l’esercito quando è arrivato, nessuno ha sparato”, ha detto Fatima, di Bula Chinguwa, a 45 chilometri da Bama. “Se Boko Haram fosse stato davvero lì, ci sarebbe stato uno scontro”.

Questo è “il campo

La Nigeria, con una popolazione di 220 milioni di abitanti, è un importante mercato e un partner occidentale nella lotta contro l’espansione jihadista nell’Africa occidentale saheliana. Un tempo pilastro delle operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite e della regione, la reputazione delle forze armate nigeriane – sia a livello internazionale che interno – si è sgretolata nel corso della guerra del nord-est. Non solo la professionalità dell’esercito è stata messa in discussione, ma è anche accusato di essere istituzionalmente corrotto, eccessivamente politicizzato e condizionato da guerre di territorio.

Ha anche una lunga storia di presunte violazioni dei diritti umani.

“In ogni singolo teatro in cui l’esercito opera, brucia – è semplicemente quello che fa”.

Nel nord-est, l’esercito è stato ripetutamente accusato di esecuzioni extragiudiziali, stupri, torture, detenzioni senza processo e, più recentemente, di aborti forzati su donne messe incinte dagli insorti, nonché di uccisioni mirate di bambini maschi. Nel febbraio di quest’anno è stato istituito un gruppo speciale della Commissione nazionale per i diritti umani per indagare su un rapporto della Reuters del dicembre 2022 sugli aborti forzati. Ma la commissione, finanziata dal governo, non ha precedenti nel ritenere responsabili istituzioni potenti come l’esercito. “Ci sono state diverse commissioni che hanno indagato sulle accuse di violazioni da parte dell’esercito nigeriano e di altri agenti di sicurezza, ma non c’è stata alcuna attribuzione significativa di responsabilità “, ha dichiarato Sanusi di Amnesty International.

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“Non ci sono più persone innocenti nella boscaglia”.

L’esercito nigeriano non è il solo a faticare a distinguere tra combattenti armati e civili nelle operazioni di contrasto alle insurrezioni. Dall’Afghanistan all’Iraq, anche i più sofisticati eserciti occidentali sono stati accusati di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Le disposizioni del diritto internazionale umanitario fanno parte della formazione degli ufficiali nigeriani. “Ma intellettualmente e consapevolmente, rifiutano il concetto”, ha detto un ufficiale umanitario che interagisce con l’alto comando militare a Maiduguri. “Dicono: ‘Va bene per i libri e per gli accademici, ma questo è il campo’”. I soldati a Bama ammettono di essere profondamente diffidenti nei confronti delle comunità rurali.

“Sono tutti Boko Haram”, ha osservato un sergente e veterano della zona da quattro anni, che si è espresso in condizione di anonimato perché non era autorizzato a parlare delle operazioni. “Diamo fuoco alle loro case e loro ricostruiscono. Non si può rimanere lì se non si è Boko Haram; significa che hanno questo modo di pensare dentro di loro”.

Il mancato trasferimento a Bama è visto dai militari quasi come una prova di fedeltà ai jihadisti. “Quando c’è un attacco, è la loro occasione per trovare un modo per uscire. Quelli che non se ne vanno sono con loro”, ha detto un altro caporale. “Non ci sono più persone innocenti nella boscaglia”.

“I governi occidentali non lo dicono pubblicamente, ma accettano le vittime civili come danni collaterali nelle loro [operazioni di contro-insurrezione] in tutto il mondo”, ha detto il direttore di una ONG internazionale, che ha parlato in condizione di anonimato a causa dell’attrito tra i militari e le ONG. “L’esercito nigeriano non sente alcuna pressione per fare le cose in modo diverso”.

L’aviazione nigeriana è stata anche accusata di attacchi indiscriminati e sproporzionati contro villaggi e località civili, in diretta violazione delle regole di guerra. Tuttavia, la cultura della terra bruciata è profondamente radicata nell’esercito nigeriano, secondo un ex soldato e ora esperto di sicurezza che ha parlato con i ricercatori.

“Non ci sono ordini ufficiali. È più un atteggiamento che una politica”, ha osservato, chiedendo di rimanere anonimo per poter parlare liberamente. “In ogni singolo teatro in cui operano i militari, bruciano – è semplicemente quello che fanno”. A causa della lontananza dei villaggi rurali e della mancanza di comunicazioni, le vittime non combattenti in genere non vengono segnalate. L’esercito riporta abitualmente che la maggior parte dei presunti insorti è stata uccisa o è riuscita a sfuggire alla cattura – un linguaggio che suggerisce che i combattenti feriti sono raramente catturati vivi.

I combattenti di gruppi armati non statali come Boko Haram – inabili o comunque incapaci di combattere a causa di ferite – sono legalmente protetti dal diritto internazionale umanitario come persone “hors de combat”. Un caporale, di stanza a Bama, ha detto che i soldati sono governati da un rigido codice militare. Ma in realtà – e soprattutto per i combattenti che si arrendono – “se non ci sono telefoni o altro in giro, ci si ” sbarazza” di quella persona”. Nessun altro soldato, degli otto intervistati da The New Humanitarian, ha ammesso di aver commesso uccisioni illegali.

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Perdere “i cuori e le menti

Il Boko Haram originale, Jamā’at Ahl as-Sunnah lid-Da’wah wa’l-Jihād (JAS), era guidato da Abubakar Shekau. Una scissione nel 2016 ha visto l’emergere della cosiddetta Provincia dello Stato Islamico dell’Africa Occidentale (ISWAP), che si è sviluppata in una forza molto più potente – e politicamente abile – che opera nel nord del Borno. Nel 2018, una serie di basi operative avanzate isolate lungo i margini del lago Ciad sono state invase dall’ISWAP, consentendo al gruppo di sviluppare una via di approvvigionamento con il vicino Niger. È stato allora che l’esercito ha abbandonato la tattica di mantenere tali basi e ha lanciato la cosiddetta strategia del “super campo”, con le truppe concentrate in città di guarnigione più facilmente difendibili.

Ora, è da città come Bama che le organizzazioni umanitarie accedono alle persona in stato di bisogno. Mentre i critici sostengono che la strategia ha abbandonato la campagna e la popolazione rurale ai jihadisti, l’esercito risponde che ora monta pattuglie regolari a lungo raggio, spesso supportate da copertura aerea, per “dominare” il territorio. Un membro anziano della milizia CJTF di Bama – che spesso accompagna i militari nelle operazioni come “occhi e orecchie” locali – ha spiegato cosa può comportare. “Ci sono due tipi di operazioni: Si può andare per un giorno o due e tornare, oppure si possono trascorrere due o tre settimane”, ha detto. “Se si tratta di un giorno o due, i nostri camion trasportano il cibo e gli animali [dai villaggi attaccati] a Bama”.

“Ma se l’obiettivo è più lontano, si dà fuoco al villaggio e si va avanti. In queste missioni, uccidiamo tutti gli animali. Se ci sono prodotti alimentari, li bruciamo. Se c’è una fattoria, entriamo con i nostri veicoli e devastiamo la fattoria, così la fame farà venire [gli abitanti del villaggio] a Bama”. Dalla scissione all’interno del movimento jihadista nel 2021, il governo nigeriano ha accolto con favore la defezione di ex combattenti, accompagnati da familiari e abitanti dei villaggi sotto il loro controllo che sono fuggiti con loro. Sono sottoposti a “screening” e a una rudimentale “deradicalizzazione” in tre centri di accoglienza a Maiduguri.

Separatamente, centinaia di altri ex-insorti sono stati sottoposti a un’iniziativa più formale e molto più vecchia, nota come Operazione Corridoio Sicuro.

I militari descrivono coloro che vengono inviati a questo programma come “a basso rischio” Boko Haram. Ma in realtà, la maggior parte delle persone non è costituita da combattenti – un’altra indicazione della difficoltà dell’esercito di distinguere tra civili e combattenti.

Tuttavia, invitando i disertori a partecipare a programmi di riabilitazione che potrebbero consentire loro di tornare in sicurezza alla vita civile, l’esercito ha riconosciuto il valore strategico di disarmare gli avversari con l’astuzia piuttosto che combattere sul campo di battaglia. La guerra della Nigeria nel nord-est non è solo una competizione militare, ma anche una battaglia politica.

La propaganda jihadista dipinge i militari come feroci assassini e promette “una vita migliore” ai musulmani che si uniscono a loro, ha osservato un altro analista nigeriano, che scrive molto sul conflitto nel nord-est e che ha chiesto di non usare il suo nome a causa delle sue ricerche in corso. La sfida per lo Stato nigeriano è dimostrare che ciò è falso, ha aggiunto.

Tuttavia, le violazioni dei diritti e l’intimidazione della popolazione locale nelle zone di operazioni militari nel nord-est sono contrarie a qualsiasi obiettivo “dei cuori e delle menti”, generalmente riconosciuto come una componente chiave di qualsiasi strategia di controinsurrezione.

Diversi analisti hanno sottolineato la necessità di una riforma del settore della sicurezza in Nigeria. Tuttavia, per Hassan, direttore del think tank con sede ad Abuja, “non si tratta tanto di formazione quanto di porre fine all’impunità”. “Quando le persone saranno chiamate a rispondere delle loro azioni – non solo alcuni ufficiali, ma i vertici della gerarchia -, è questo che scoraggerà le violazioni del diritto internazionale umanitario”.

NOTE

I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità dei sopravvissuti che temono ritorsioni da parte dell’esercito e delle autorità nigeriane. I nomi delle persone uccise sono reali. Altre persone intervistate dai giornalisti hanno parlato a condizione di anonimato a causa della natura sensibile del loro lavoro in Nigeria.

Ulteriori ricerche e analisi sulle immagini satellitari a cura di Josh Lyons.

Nota dell’editore: i giornalisti e i ricercatori che hanno lavorato a questa inchiesta hanno stretti legami con la Nigeria. Consapevole del rischio di ritorsioni, il New Humanitarian ha scelto di non mettere in prima pagina questa storia. Questo articolo è stato redatto da Paisley Dodds e Obi Anyadike per il New Humanitarian e da Dipo Faloyin per VICE News a Londra.

Informazioni su questa inchiesta: L’anno scorso, un ricercatore indipendente ha contattato il New Humanitarian per condividere immagini satellitari che suggerivano che l’esercito nigeriano fosse responsabile di incendi su larga scala di villaggi civili. Molte di queste immagini erano concentrate nell’area di Bama. Giornalisti e ricercatori si sono recati a Bama e hanno condotto una serie di interviste con civili e soldati. Il New Humanitarian ha poi collaborato con VICE News per la sua copertura approfondita della Nigeria e della regione.

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Sinologie – La Repubblica Popolare Cinese secondo la classe dirigente tedesca dal 2018 ad oggi


Sinologie – La Repubblica Popolare Cinese secondo la classe dirigente tedesca dal 2018 ad oggi classe dirigente tedesca
Tratto dall'elaborato di Gioele Sotgiu, "La Repubblica Popolare Cinese secondo la classe dirigente tedesca dal 2018 ad oggi". La tesi è stata discussa presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore sotto la supervisione della Dr.ssa Giulia Sciorati.

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In Cina e Asia – Hong Kong al voto: crollo storico dell’affluenza


In Cina e Asia – Hong Kong al voto: crollo storico dell’affluenza hong kong
I titoli di oggi: Hong Kong al voto tra crollo storico dell’affluenza e guasto al sistema Cina, Xi: “La ripresa economica alle prese con una fase decisiva” Mar cinese meridionale, nuove tensioni tra Cina e Filippine Cop28, Cina: “Accordo sulle fossili necessario anche se non perfetto” Sullivan: “Stati Uniti e alleati si batteranno per stabilità Stretto di Taiwan e Mar ...

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In Cina e in Asia – Navi militari cinesi attraccano alla base navale di Ream in Cambogia


In Cina e in Asia – Navi militari cinesi attraccano alla base navale di Ream in Cambogia ue
I titoli di oggi: Navi militari cinesi attraccano alla base navale di Ream in Cambogia Apple vuole produrre le batterie degli iPhone in India Cina e Iran insieme per raggiungere la pace nella guerra tra Israele e Hamas Le riforme del sistema scolastico cinese hanno alimentato la disuguaglianza educativa La Cina ha attivato la prima centrale nucleare di quarta generazione ...

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GAZA. Il piano Biden per la Striscia: una Autorità «riformata» e senza Abu Mazen


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di Michele Giorgio*

Pagine Esteri, 7 dicembre 2023Da «rivitalizzata» a «riformata» passando per l’uscita di scena, si dice in primavera, di Abu Mazen, fino ad arrivare alla nomina di un «premier» ad hoc a Gaza. Forse l’ex primo ministro Salam Fayyad, gradito ad americani ed egiziani e che potrebbe essere accettato da Israele. Un ruolo, volto a rassicurare la popolazione palestinese, potrebbe averlo anche l’ex ministro degli esteri Nasser al Qudwa, perché nipote dello scomparso leader dell’Olp Yasser Arafat e vicino a Marwan Barghouti, popolare prigioniero politico. È questo lo scenario che, più di altri, si affaccia all’orizzonte quando si parla del futuro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiamata dagli Stati uniti, e a rimorchio dall’Europa, a guidare Gaza quando «Hamas non sarà più al potere» e si dovrà avviare la ricostruzione, se Israele lo consentirà.

«Il nome di Salam Fayyad, un indipendente con rapporti pessimi con Abu Mazen, gira da un po’, da quando (l’ex premier) ha pubblicato un articolo in cui spiega la sua visione per Gaza e la necessità di una riorganizzazione dell’Anp», dice T.A. giornalista di Ramallah ben informato sulle questioni interne palestinesi che per la delicatezza del tema ha chiesto di restare anonimo. «Fayyad piace all’Amministrazione Biden e agli egiziani» aggiunge T.A. «Ci sono due grandi incognite: la posizione di Israele e la portata delle ‘riforme’ che l’Anp dovrebbe avviare. In questo quadro l’uscita di scena del presidente Abu Mazen è un fattore centrale. Gli americani la vogliono in tempi brevi. L’ultimo incontro tra (il segretario di stato) Blinken e Abu Mazen è stato carico di tensione».

Casa Bianca e Dipartimento di stato da quando è iniziata la catastrofica offensiva israeliana a Gaza, hanno indicato nell’Anp l’entità che dovrà subentrare ad Hamas – e l’hanno ribadito ieri sera – e ribadito sostegno alla soluzione a Due Stati (Israele e Palestina). Una Anp però da «rivitalizzare», dice Washington, alla luce dello scarso consenso di cui gode tra i palestinesi. Da parte loro Abu Mazen e il suo primo ministro, Mohammed Shttayeh, hanno replicato che l’Anp a Gaza non ci tornerà «sui carri armati israeliani». Lo farà soltanto nell’ambito di una ripresa dei negoziati per la creazione di uno Stato palestinese indipendente.

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Israele per giorni ha reagito con gelo alla proposta di Biden e Blinken. Quindi è sceso in campo Netanyahu che, con toni oltremodo decisi, ha respinto l’idea che venga coinvolta l’Anp. Ufficialmente perché «legata ai terroristi», cioè ad Hamas, affermazione sconcertante alla luce della frattura insanabile tra le due parti palestinesi e della cooperazione di sicurezza che l’Anp mantiene con Israele. In realtà Netanyahu non intende riprendere il negoziato che ha coscientemente affossato per 14 anni e ridare slancio all’idea dello Stato di Palestina «rivitalizzando» l’Anp che, con tutti i suoi gravi limiti agli occhi dei palestinesi, continua in qualche modo a rappresentare. Per Netanyahu la risposta all’attacco del 7 ottobre non deve concentrarsi solo su Hamas, deve anche affossare le aspirazioni politiche palestinesi.

Comunque sia, l’ostilità di Israele nei confronti dell’Anp ha impresso una svolta al processo di pianificazione per Gaza dell’Amministrazione Biden. A inizio settimana il coordinatore per la Sicurezza nazionale Usa, John Kirby, parlando dell’Anp ha messo da parte il verbo «rivitalizzare» per adottare «riformare» in modo da avvicinare la posizione americana a quella israeliana. Netanyahu, dicono le indiscrezioni, avrebbe chiarito agli alleati americani che Israele pretende una Anp che combatta, armi in pugno e ogni giorno, contro Hamas e altre organizzazioni armate. Altrimenti, ha ammonito, i soldati israeliani non lasceranno mai Gaza. In sostanza l’Autorità palestinese «riformata» che ha in mente Israele si avvicina molto per ruolo e funzioni a ciò che era l’Esercito del Libano del sud, la milizia mercenaria libanese che per oltre venti anni ha sorvegliato la «Fascia di sicurezza» a ridosso del confine con lo Stato ebraico. Un progetto che si sposa con la creazione, da parte di Israele, di una «zona cuscinetto» all’interno di Gaza.

«Con ogni probabilità questa è l’idea dell’Anp ‘riformata’ che ha in mente Netanyahu» ci dice l’analista Ghassan Khatib, docente all’università di Bir Zeit, «in parte è diversa da quella degli Stati uniti che danno più rilievo alla dimensione politica. E riformare per gli americani significa cambiare i leader politici». Venti anni fa, durante la seconda Intifada, – ricorda Khatib – gli Usa allo scopo di isolare Yasser Arafat imposero la nomina di un vice ai vertici dell’Anp. In quel caso fu scelto Abu Mazen che poi nel 2005 divenne presidente». Il problema degli Usa è che ora non ci sono palestinesi pronti a svolgere il ruolo di premier o presidente fantoccio a Gaza. Neppure il reietto di Fatah, sempre molto influente, Mohammed Dahlan, originario di Khan Yunis, è tanto ingenuo da accettare una poltrona così scomoda imposta ai palestinesi dagli occupanti e da Washington. Pagine Esteri

*Questo articolo è stato pubblicato il 6 dicembre 2023 dal quotidiano Il Manifesto

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In Ucraina è l’ora delle brutte notizie


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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 7 dicembre 2023 – «Dobbiamo essere preparati anche alle cattive notizie». L’avviso è arrivato nei giorni scorsi dal segretario generale della Nato nel corso di un’intervista alla tv tedesca ARD. Jens Stoltenberg ha ribadito che «dobbiamo stare al fianco dell’Ucraina sia nei momenti buoni sia in quelli cattivi» spiegando che «più sosteniamo l’Ucraina, più velocemente questa guerra finirà», ma le quotazioni di Kiev nel conflitto in corso contro la Russia stanno rapidamente crollando.

“Putin può vincere”
Solo due giorni prima, il settimanale “The Economist” scriveva che «per la prima volta da quando Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina sembra che abbia la possibilità di vincere. Il presidente russo ha preparato il suo Paese alla guerra e rafforzato il suo potere. Si è procurato forniture militari all’estero e sta aizzando il sud del mondo contro gli Stati Uniti. Fondamentalmente, sta minando la convinzione in Occidente che l’Ucraina possa emergere dalla guerra come una fiorente democrazia europea».

Lo stesso Volodymyr Zelensky, che pure insiste sul fatto che il conflitto potrà terminare solo con la riconquista ucraina di tutti i territori sottratti dai russi, ha dovuto ammettere che la controffensiva estiva «non è riuscita a produrre i risultati desiderati a causa della persistente carenza di armi e forze di terra». Una dichiarazione che ha fatto arrabbiare il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko. In un’intervista l’ex pugile ha accusato il presidente di dare un’immagine euforica della guerra, e ha sottolineato: «La gente si chiede perché non fossimo meglio preparati per questa guerra. Perché Zelensky ha negato fino alla fine che si sarebbe arrivati ad un conflitto (…) Troppe informazioni non corrispondevano alla realtà».

Tutti contro Zelensky
Più la situazione dal punto di vista militare si fa difficile, più a Kiev aumentano le tensioni e le divisioni all’interno dell’establishment, anche in vista di elezioni presidenziali che prima o poi Zelensky, dopo averle sospese, dovrà indire. Il moltiplicarsi delle critiche e degli attacchi espliciti nei confronti del presidente è evidente.

Le polemiche sono esplose quando l’SBU, i servizi di sicurezza di Kiev, hanno impedito al leader del partito “Solidarietà Europea” Petro Poroshenko di lasciare l’Ucraina, nonostante l’esponente politico di opposizione avesse già ottenuto tutte le autorizzazioni. Il motivo è che intendeva incontrare il premier ungherese Viktor Orban, colpevole di aver posto il veto all’ingresso dell’Ucraina nell’Ue e di essere troppo vicino a Mosca. L’ex presidente ucraino avrebbe dovuto partecipare anche al vertice dell’IDU – l’organizzazione che riunisce i partiti di centrodestra occidentali – ed incontrare a Washington i dirigenti repubblicani e democratici; probabilmente Zelensky ha temuto che il miliardario gli rubasse la scena ed ha deciso di bloccarlo, dando però un segnale di debolezza.

Ivanna Klympush-Tsintsadze, che è stata la vice di Petro Poroshenko, ha denunciato la «involuzione autoritaria» in atto nel paese. Klitschko afferma che «Zelensky sta pagando gli errori che ha commesso» e di temere che «ad un certo punto non saremo più diversi dalla Russia, dove tutto dipende dal capriccio di un uomo». Al notiziario svizzero “20 minuten” il sindaco della capitale ha spiegato di sostenere il capo di stato maggiore Valery Zaluzhny, da tempo in contrasto con le alte sfere del governo, perché non avrebbe paura di dire le cose come stanno rispetto all’andamento della guerra. Secondo “Ukrayinska Pravda”, l’ex attore starebbe intanto comunicando con i comandanti militari fedeli tagliando fuori Zaluzhny, nel tentativo di isolarlo.

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Vitali Klitschko e Petro Poroshenko

L’Ucraina ora gioca in difesa
Dal fronte continuano ad arrivare brutte notizie per Zelensky. Le forze russe starebbero continuando ad avanzare, seppur molto lentamente, in alcuni punti del Donbass, con l’obiettivo di conquistare Avdiivka e spingersi fino a Lyman e Kupyansk, per poi occupare Sloviansk e Kramatorsk.
Mosca sta già intensificando gli attacchi contro le infrastrutture energetiche ucraine; la possibilità che milioni di persone passino un nuovo inverno al buio e al freddo, e che calino quindi ulteriormente il morale e la fiducia degli ucraini, è molto concreta e preoccupa non poco Kiev.

Intanto Putin ha ricominciato ad ammassare uomini e mezzi nelle regioni di confine ed ha firmato venerdì scorso un decreto che punta ad aumentare gli effettivi del proprio esercito, tramite arruolamenti più o meno volontari, di 170 mila unità, in maniera da avere più forze a disposizione in vista dello “scongelamento” dei combattimenti in primavera. Probabilmente Mosca non ha fatto ricorso ad un’ulteriore mobilitazione dei riservisti per non aumentare lo scontento nella società russa, dove le opinioni critiche nei confronti dell’avventura militare di Putin in Ucraina sembrano aumentare, almeno stando ad alcuni sondaggi.

Per ora la strategia di Mosca sembra essere quella di reggere un minuto più di Kiev e di non forzare quindi troppo la mano dal punto di vista militare, continuando nel frattempo a premere sull’Ucraina nell’attesa che le difficoltà crescenti spingano Zelensky – o chi lo sostituirà – a negoziare un cessate il fuoco che congelerebbe una situazione favorevole alla Federazione Russa.

Le lamentele e le proteste dei militari ucraini si fanno sempre più forti, e ora le famiglie di molti coscritti bloccati al fronte anche da 650 giorni chiedono una più ampia turnazione tra gli uomini e le donne mobilitate, l’abolizione del servizio militare a tempo indeterminato e l’abbassamento dell’età per essere richiamati.

Per evitare che le forze russe, dopo il disgelo, sfondino le linee di un esercito ucraino sempre più debilitato, Zelensky avrebbe scelto di dare la priorità al rafforzamento e alla fortificazione delle proprie posizioni, copiando di fatto la strategia utilizzata da Mosca per bloccare la controffensiva estiva di Kiev. In attesa delle decisioni dei politici dei due opposti schieramenti, quella in corso potrebbe diventare una logorante guerra di trincea.

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Soldato ucraino ferito

Il sostegno USA vacilla
Altre brutte notizie stanno arrivando a Kiev dai paesi che finora l’hanno sostenuta (se non aizzata) finanziariamente e militarmente contro la Russia e che ora sembrano tirare i remi in barca, alle prese con reali problemi di budget o interessati a congelare lo scontro con Mosca.

La responsabile del bilancio della Casa Bianca, Shalanda Young, ha suonato l’allarme: i fondi stanziati dagli Stati Uniti a sostegno dell’Ucraina potrebbero esaurirsi nel giro di poche settimane a causa della mancata approvazione di nuovi stanziamenti da parte del Congresso americano, bloccato dai Repubblicani di Trump. Young ha rivolto un accorato appello ai congressisti affinché approvino presto un nuovo pacchetto di aiuti finanziari a Kiev, perché altrimenti «l’interruzione del flusso di armi ed equipaggiamenti statunitensi metterà in ginocchio l’Ucraina sul campo di battaglia, mettendo a rischio i successi ottenuti e aumentando la probabilità di vittorie militari russe».

L’esponente dell’amministrazione Biden ha chiarito che gli ultimi stanziamenti «in materia di sicurezza sono già diventati più ridotti e le consegne di aiuti sono diventate più limitate». In cambio dello sblocco dei 106 miliardi di dollari chiesti da Biden per Ucraina e Israele, alcuni senatori repubblicani pretendono l’approvazione di nuove restrizioni all’immigrazione e al diritto di asilo.

La situazione è così incerta che nei giorni scorsi Zelensky ha inviato a Washington il capo del suo staff, Andriy Yermak, il ministro della Difesa e il presidente del parlamento per incontrare personalmente deputati e senatori recalcitranti. L’esito negativo dei colloqui avrebbe però convinto il presidente a rinunciare al previsto video-appello ai legislatori statunitensi. La notte scorsa al Senato i repubblicani (e il democratico di sinistra Bernie Sanders) hanno bloccato l’approvazione di una legge straordinaria che avrebbe stanziato circa 111 milioni di dollari di aiuti all’Ucraina.

L’UE è divisa
Il problema è che ora anche i rubinetti europei potrebbero chiudersi o comunque farsi più avari. I forti disaccordi tra i paesi dell’Unione Europea potrebbero ritardare o bloccare del tutto il pacchetto di assistenza finanziaria da 50 miliardi promesso da Bruxelles. Nonostante l’impegno dei dirigenti comunitari, poi, la recente decisione della Corte Costituzionale tedesca di limitare l’indebitamento pubblico del paese starebbero complicando il raggiungimento di un accordo con i partner. A bloccare esplicitamente gli aiuti a Kiev c’è il premier ungherese Viktor Orbán, seguito dal nuovo primo ministro slovacco Robert Fico che ha anche sospeso le spedizioni di armi all’Ucraina. Nel frattempo il presidente della Bulgaria, Rumen Radev, ha posto il veto alla fornitura di veicoli blindati all’Ucraina, chiedendo al parlamento di rivedere la legge di ratifica dell’accordo raggiunto con Kiev.

Questo mentre la rivista statunitense “Forbes” ammette che i carri armati “M-1 Abrams” forniti all’Ucraina da Washington non sono adeguati a operare nei terreni fangosi, che rappresentano la normalità sul fronte orientale ucraino durante i mesi invernali e primaverili, a causa dei delicati filtri che impediscono alla turbina del motore di intasarsi. Se non vengono puliti almeno ogni 12 ore, i filtri degli Abrams sono soggetti a gravi danni che possono essere riparati solo in strutture specializzate situate in Polonia. Pagine Esteri

10918449* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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In Ucraina è l’ora delle brutte notizie


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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 7 dicembre 2023 – «Dobbiamo essere preparati anche alle cattive notizie». L’avviso è arrivato nei giorni scorsi dal segretario generale della Nato nel corso di un’intervista alla tv tedesca ARD. Jens Stoltenberg ha ribadito che «dobbiamo stare al fianco dell’Ucraina sia nei momenti buoni sia in quelli cattivi» spiegando che «più sosteniamo l’Ucraina, più velocemente questa guerra finirà», ma le quotazioni di Kiev nel conflitto in corso contro la Russia stanno rapidamente crollando.

“Putin può vincere”
Solo due giorni prima, il settimanale “The Economist” scriveva che «per la prima volta da quando Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina sembra che abbia la possibilità di vincere. Il presidente russo ha preparato il suo Paese alla guerra e rafforzato il suo potere. Si è procurato forniture militari all’estero e sta aizzando il sud del mondo contro gli Stati Uniti. Fondamentalmente, sta minando la convinzione in Occidente che l’Ucraina possa emergere dalla guerra come una fiorente democrazia europea».

Lo stesso Volodymyr Zelensky, che pure insiste sul fatto che il conflitto potrà terminare solo con la riconquista ucraina di tutti i territori sottratti dai russi, ha dovuto ammettere che la controffensiva estiva «non è riuscita a produrre i risultati desiderati a causa della persistente carenza di armi e forze di terra». Una dichiarazione che ha fatto arrabbiare il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko. In un’intervista l’ex pugile ha accusato il presidente di dare un’immagine euforica della guerra, e ha sottolineato: «La gente si chiede perché non fossimo meglio preparati per questa guerra. Perché Zelensky ha negato fino alla fine che si sarebbe arrivati ad un conflitto (…) Troppe informazioni non corrispondevano alla realtà».

Tutti contro Zelensky
Più la situazione dal punto di vista militare si fa difficile, più a Kiev aumentano le tensioni e le divisioni all’interno dell’establishment, anche in vista di elezioni presidenziali che prima o poi Zelensky, dopo averle sospese, dovrà indire. Il moltiplicarsi delle critiche e degli attacchi espliciti nei confronti del presidente è evidente.

Le polemiche sono esplose quando l’SBU, i servizi di sicurezza di Kiev, hanno impedito al leader del partito “Solidarietà Europea” Petro Poroshenko di lasciare l’Ucraina, nonostante l’esponente politico di opposizione avesse già ottenuto tutte le autorizzazioni. Il motivo è che intendeva incontrare il premier ungherese Viktor Orban, colpevole di aver posto il veto all’ingresso dell’Ucraina nell’Ue e di essere troppo vicino a Mosca. L’ex presidente ucraino avrebbe dovuto partecipare anche al vertice dell’IDU – l’organizzazione che riunisce i partiti di centrodestra occidentali – ed incontrare a Washington i dirigenti repubblicani e democratici; probabilmente Zelensky ha temuto che il miliardario gli rubasse la scena ed ha deciso di bloccarlo, dando però un segnale di debolezza.

Ivanna Klympush-Tsintsadze, che è stata la vice di Petro Poroshenko, ha denunciato la «involuzione autoritaria» in atto nel paese. Klitschko afferma che «Zelensky sta pagando gli errori che ha commesso» e di temere che «ad un certo punto non saremo più diversi dalla Russia, dove tutto dipende dal capriccio di un uomo». Al notiziario svizzero “20 minuten” il sindaco della capitale ha spiegato di sostenere il capo di stato maggiore Valery Zaluzhny, da tempo in contrasto con le alte sfere del governo, perché non avrebbe paura di dire le cose come stanno rispetto all’andamento della guerra. Secondo “Ukrayinska Pravda”, l’ex attore starebbe intanto comunicando con i comandanti militari fedeli tagliando fuori Zaluzhny, nel tentativo di isolarlo.

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Vitali Klitschko e Petro Poroshenko

L’Ucraina ora gioca in difesa
Dal fronte continuano ad arrivare brutte notizie per Zelensky. Le forze russe starebbero continuando ad avanzare, seppur molto lentamente, in alcuni punti del Donbass, con l’obiettivo di conquistare Avdiivka e spingersi fino a Lyman e Kupyansk, per poi occupare Sloviansk e Kramatorsk.
Mosca sta già intensificando gli attacchi contro le infrastrutture energetiche ucraine; la possibilità che milioni di persone passino un nuovo inverno al buio e al freddo, e che calino quindi ulteriormente il morale e la fiducia degli ucraini, è molto concreta e preoccupa non poco Kiev.

Intanto Putin ha ricominciato ad ammassare uomini e mezzi nelle regioni di confine ed ha firmato venerdì scorso un decreto che punta ad aumentare gli effettivi del proprio esercito, tramite arruolamenti più o meno volontari, di 170 mila unità, in maniera da avere più forze a disposizione in vista dello “scongelamento” dei combattimenti in primavera. Probabilmente Mosca non ha fatto ricorso ad un’ulteriore mobilitazione dei riservisti per non aumentare lo scontento nella società russa, dove le opinioni critiche nei confronti dell’avventura militare di Putin in Ucraina sembrano aumentare, almeno stando ad alcuni sondaggi.

Per ora la strategia di Mosca sembra essere quella di reggere un minuto più di Kiev e di non forzare quindi troppo la mano dal punto di vista militare, continuando nel frattempo a premere sull’Ucraina nell’attesa che le difficoltà crescenti spingano Zelensky – o chi lo sostituirà – a negoziare un cessate il fuoco che congelerebbe una situazione favorevole alla Federazione Russa.

Le lamentele e le proteste dei militari ucraini si fanno sempre più forti, e ora le famiglie di molti coscritti bloccati al fronte anche da 650 giorni chiedono una più ampia turnazione tra gli uomini e le donne mobilitate, l’abolizione del servizio militare a tempo indeterminato e l’abbassamento dell’età per essere richiamati.

Per evitare che le forze russe, dopo il disgelo, sfondino le linee di un esercito ucraino sempre più debilitato, Zelensky avrebbe scelto di dare la priorità al rafforzamento e alla fortificazione delle proprie posizioni, copiando di fatto la strategia utilizzata da Mosca per bloccare la controffensiva estiva di Kiev. In attesa delle decisioni dei politici dei due opposti schieramenti, quella in corso potrebbe diventare una logorante guerra di trincea.

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Soldato ucraino ferito

Il sostegno USA vacilla
Altre brutte notizie stanno arrivando a Kiev dai paesi che finora l’hanno sostenuta (se non aizzata) finanziariamente e militarmente contro la Russia e che ora sembrano tirare i remi in barca, alle prese con reali problemi di budget o interessati a congelare lo scontro con Mosca.

La responsabile del bilancio della Casa Bianca, Shalanda Young, ha suonato l’allarme: i fondi stanziati dagli Stati Uniti a sostegno dell’Ucraina potrebbero esaurirsi nel giro di poche settimane a causa della mancata approvazione di nuovi stanziamenti da parte del Congresso americano, bloccato dai Repubblicani di Trump. Young ha rivolto un accorato appello ai congressisti affinché approvino presto un nuovo pacchetto di aiuti finanziari a Kiev, perché altrimenti «l’interruzione del flusso di armi ed equipaggiamenti statunitensi metterà in ginocchio l’Ucraina sul campo di battaglia, mettendo a rischio i successi ottenuti e aumentando la probabilità di vittorie militari russe».

L’esponente dell’amministrazione Biden ha chiarito che gli ultimi stanziamenti «in materia di sicurezza sono già diventati più ridotti e le consegne di aiuti sono diventate più limitate». In cambio dello sblocco dei 106 miliardi di dollari chiesti da Biden per Ucraina e Israele, alcuni senatori repubblicani pretendono l’approvazione di nuove restrizioni all’immigrazione e al diritto di asilo.

La situazione è così incerta che nei giorni scorsi Zelensky ha inviato a Washington il capo del suo staff, Andriy Yermak, il ministro della Difesa e il presidente del parlamento per incontrare personalmente deputati e senatori recalcitranti. L’esito negativo dei colloqui avrebbe però convinto il presidente a rinunciare al previsto video-appello ai legislatori statunitensi. La notte scorsa al Senato i repubblicani (e il democratico di sinistra Bernie Sanders) hanno bloccato l’approvazione di una legge straordinaria che avrebbe stanziato circa 106 miliardi di dollari, di cui 61 di aiuti all’Ucraina e 10 a Israele.

L’UE è divisa
Il problema è che ora anche i rubinetti europei potrebbero chiudersi o comunque farsi più avari. I forti disaccordi tra i paesi dell’Unione Europea potrebbero ritardare o bloccare del tutto il pacchetto di assistenza finanziaria da 50 miliardi promesso da Bruxelles. Nonostante l’impegno dei dirigenti comunitari, poi, la recente decisione della Corte Costituzionale tedesca di limitare l’indebitamento pubblico del paese starebbero complicando il raggiungimento di un accordo con i partner. A bloccare esplicitamente gli aiuti a Kiev c’è il premier ungherese Viktor Orbán, seguito dal nuovo primo ministro slovacco Robert Fico che ha anche sospeso le spedizioni di armi all’Ucraina. Nel frattempo il presidente della Bulgaria, Rumen Radev, ha posto il veto alla fornitura di veicoli blindati all’Ucraina, chiedendo al parlamento di rivedere la legge di ratifica dell’accordo raggiunto con Kiev.

Questo mentre la rivista statunitense “Forbes” ammette che i carri armati “M-1 Abrams” forniti all’Ucraina da Washington non sono adeguati a operare nei terreni fangosi, che rappresentano la normalità sul fronte orientale ucraino durante i mesi invernali e primaverili, a causa dei delicati filtri che impediscono alla turbina del motore di intasarsi. Se non vengono puliti almeno ogni 12 ore, i filtri degli Abrams sono soggetti a gravi danni che possono essere riparati solo in strutture specializzate situate in Polonia. Pagine Esteri

11037012* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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GERMANIA. Scioperi della fame in sostegno agli oppositori politici turchi arrestati


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di Eliana Riva –

Pagine Esteri, 6 dicembre 2023. Il 16 maggio 2022 la giornalista turca Özgül Emre è stata arrestata in Germania, dove da anni risiedeva. Nei due giorni seguenti le forze armate tedesche hanno fermato e portato in prigione altri due cittadini di origine turca, İhsan Cibelik, uno dei fondatori della band musicale Grup Yorum e Serkan Küpeli, studente. Tutti e tre sono attivisti politici impegnati in attività associative, musicali, culturali o di sensibilizzazione in opposizione alle misure ritenute repressive e antidemocratiche dei governi turchi. Sono stati arrestati con l’applicazione di una legge che consente, in Germania, di fermare persone sospettate di appartenere ad associazioni terroristiche. Anche di altri Stati. E anche senza l’accusa di aver compiuto azioni criminali. Emre, Cibelik e Küpeli sono accusati di appartenere al Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo, DHKP-C, un partito marxista-leninista rivoluzionario considerato terrorista in Turchia, Stati Uniti e Unione Europea.

Tra le prove a sostegno dell’arresto di Özgül Emre, ad esempio, l’organizzazione di un concerto, realizzato rispettando tutte le normative vigenti, al quale parteciparono più di 10.000 persone. O anche la presenza della stessa giornalista al funerale, nel 2022 a Stoccarda, di una oppositrice politica turca: Birsen Kars è morta lo scorso anno in seguito alle ustioni riportate nel 2000, durante l’assalto operato delle forze armate turche alle carceri con lo scopo di interrompere lo sciopero della fame a cui aderivano centinaia di detenuti politici. Un’altra prova a carico di Emre è rappresentata dalla sua partecipazione al matrimonio di due membri della storica band Grup Yorum. Si tratta di un gruppo musicale estremamente noto in Turchia e nel mondo per il suo impegno politico. Non è considerato fuorilegge in Germania né in Turchia dove però i musicisti vengono da anni arrestati e trattenuti in prigione: nel 2020 Helin Bölek e Ibrahim Gökçek, due membri del gruppo, morirono in Turchia di sciopero della fame.

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L’accusa di appartenenza al DHKP-C è stata sufficiente a criminalizzare le attività legali che gli oppositori politici turchi hanno svolto in Germania: concerti, campi estivi, seminari, partecipazione a manifestazioni che coinvolgevano centinaia di persone e a cerimonie private come matrimoni e funerali.

L’Associazione tedesca degli Avvocati Democratici, VDJ, sta seguendo il loro processo, cominciato il 14 giugno 2023 presso il Tribunale regionale superiore di Düsseldorf. Il copresidente dell’associazione, l’avvocato Joachim Kerth-Zelter ha dichiarato che il procedimento soffre del fatto che i termini di “organizzazione terroristica” o “movimenti di liberazione” non siano definiti dalla legge ma determinati politicamente. In Germania, l’inclusione del DHKP-C tra le organizzazioni terroristiche – dichiara Kerth-Zelter – è operata in base alle valutazioni delle autorità turche, e alla classificazione dell’Unione Europea, che si basa su quelle stesse valutazioni. L’avvocato specifica che “gli imputati non sono accusati di atti di terrorismo o di reati penali propri. Essi vengono invece ritenuti responsabili di attività come l’organizzazione di eventi musicali e conferenze informative, poiché queste costituiscono sostegno al DHKP-C, classificato come organizzazione terroristica. Tutti gli imputati sono in custodia da quasi 18 mesi. L’imputato Küpeli fu imprigionato poco dopo la nascita di sua figlia. L’imputato Cibelik soffre di cancro alla prostata, come è stato scoperto da un medico con un ritardo di 16 mesi, motivo per cui la sua detenzione ha un peso particolare”.

La legge che consente la responsabilità penale per atti di sostegno a organizzazioni terroristiche straniere (anche non europee) è stata introdotta pochi mesi dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2011 alle Torri Gemelle di New York, con l’approvazione dell’articolo 129b del Codice penale tedesco. “Come in molti altri procedimenti ai sensi dell’articolo 129b StGB, – spiega la VDJ – l’accusa si basa, tra l’altro, su accertamenti di autorità straniere, in questo caso la Turchia, il che è particolarmente problematico quando i Paesi stessi non sono governati dallo Stato di diritto”. Soprattutto se “si considera il vasto smantellamento dello Stato di diritto in Turchia: in particolare dopo la repressione del tentativo di colpo di stato nel luglio 2016, le autorità di contrasto e i tribunali tedeschi devono chiedersi se la Turchia possa essere un oggetto adeguato di protezione ai sensi della Sezione 129b StGB”. Molte delle accuse nei confronti degli imputati sono state mosse sulla base di indicazioni portate dalle autorità turche e dalla testimonianza di un informatore su cui già gravava l’accusa di falsificazione di documenti. Gli avvocati fanno, infine, notare che secondo l’articolo 129b è il Ministero della Giustizia ad autorizzare le indagini e l’arresto delle persone accusate di far parte di un’organizzazione terroristica, cosa che rappresenta un’eccezione alla separazione dei poteri, garantita dalla Legge Fondamentale della Repubblica Federale di Germania.

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Eda Deniz Haydaroğlu, in sciopero della fame da 264 giorni

Una giovane donna tedesca di 23 anni, Eda Deniz Haydaroğlu, figlia di genitori turchi, ha cominciato 264 giorni fa uno sciopero della fame (con l’assunzione acqua, zucchero, sale e vitamina B) per richiedere la liberazione degli oppositori politici e l’abrogazione dell’articolo di legge 129 e dei paragrafi 129a e 129b. Insieme a lei, altri tre giovani, due ragazze e un ragazzo, hanno iniziato a scioperare, dando vita così una campagna di sostegno internazionale. Si tratta di Ilgin Güler, in sciopero della fame da 212 giorni, Sevil carino Guler, da 207 giorni e Lena Açıkgöz, da 147 giorni. Le condizioni fisiche di Eda Deniz Haydaroğlu, come quelle degli altri 3 giovani si fanno giorno dopo giorno più serie e gli appelli al Ministero della Giustizia tedesco si moltiplicano. Lo scorso 3 dicembre si è tenuta a Berlino una manifestazione in loro sostegno.

La seduta del processo ai tre oppositori politici turchi arrestati, che doveva tenersi oggi, è stata rimandata alla prossima settimana. Pagine Esteri

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L’Italia è uscita dalla Via della Seta


L’Italia è uscita dalla Via della Seta meloni xi
Il governo Meloni ha comunicato l'addio alla Belt and Road Initiative. La scelta era nota già da mesi, ma Roma e Pechino hanno trattato sulle modalità, molto lontane dalla grande esposizione dell'accordo del 2019. Le tempistiche non sono casuali, vista la concomitanza col summit Cina-Ue che può "assorbire" il dossier italiano

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GAZA. Il piano Biden per la Striscia: una Autorità «riformata» e senza Abu Mazen


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di Michele Giorgio

(questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto)

Pagine Esteri, 6 dicembre 2023Da «rivitalizzata» a «riformata» passando per l’uscita di scena, si dice in primavera, di Abu Mazen, fino ad arrivare alla nomina di un «premier» ad hoc a Gaza. Forse l’ex primo ministro Salam Fayyad, gradito ad americani ed egiziani e che potrebbe essere accettato da Israele. È questo lo scenario che, più di altri, si affaccia all’orizzonte quando si parla del futuro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiamata dagli Stati uniti, e a rimorchio dall’Europa, a guidare Gaza quando «Hamas non sarà più al potere» e si dovrà avviare la ricostruzione, se Israele lo consentirà.

«Il nome di Salam Fayyad, un indipendente con rapporti pessimi con Abu Mazen, gira da un po’, da quando (l’ex premier) ha pubblicato un articolo in cui spiega la sua visione per Gaza e la necessità di una riorganizzazione dell’Anp», dice al manifesto T.A. giornalista di Ramallah ben informato sulle questioni interne palestinesi che per la delicatezza del tema ha chiesto di restare anonimo. «Fayyad piace all’Amministrazione Biden e agli egiziani» aggiunge T.A. «Ci sono però due grandi incognite: la posizione di Israele e la portata delle ‘riforme’ che l’Anp dovrebbe avviare. In questo quadro l’uscita di scena del presidente Abu Mazen è un fattore centrale. Gli americani la vogliono in tempi brevi. L’ultimo incontro tra (il segretario di stato) Blinken e Abu Mazen è stato carico di tensione».

10890335Casa Bianca e Dipartimento di stato da quando è iniziata la catastrofica offensiva israeliana a Gaza, hanno indicato nell’Anp l’entità che dovrà subentrare ad Hamas e ribadito sostegno alla soluzione a Due Stati (Israele e Palestina). Una Anp però da «rivitalizzare», hanno ripetuto, alla luce dello scarso consenso di cui gode tra i palestinesi. Da parte loro Abu Mazen e il suo primo ministro, Mohammed Shttayeh, hanno replicato che l’Anp a Gaza non ci tornerà «sui carri armati israeliani». Lo farà soltanto nell’ambito di una ripresa dei negoziati per la creazione di uno Stato palestinese. Israele per giorni ha reagito con gelo alla proposta di Biden e Blinken. Quindi è sceso in campo Netanyahu che, con toni oltremodo decisi, ha respinto l’idea che venga coinvolta l’Anp. Ufficialmente perché «legata ai terroristi», cioè ad Hamas, affermazione sconcertante alla luce della frattura insanabile tra le due parti palestinesi e della cooperazione di sicurezza che l’Anp mantiene con Israele. In realtà Netanyahu non intende riprendere il negoziato che ha coscientemente affossato per 14 anni e ridare slancio all’idea dello Stato di Palestina «rivitalizzando» l’Anp che, con tutti i suoi gravi limiti agli occhi dei palestinesi, continua in qualche modo a rappresentare. Per Netanyahu la risposta all’attacco del 7 ottobre non deve concentrarsi solo su Hamas, deve anche affossare le aspirazioni politiche palestinesi.

Comunque sia, l’ostilità di Israele nei confronti dell’Anp ha impresso una svolta al processo di pianificazione per Gaza dell’Amministrazione Biden. A inizio settimana il coordinatore per la Sicurezza nazionale Usa, John Kirby, parlando dell’Anp ha messo da parte il verbo «rivitalizzare» per adottare «riformare» in modo da avvicinare la posizione americana a quella israeliana. Netanyahu, dicono le indiscrezioni, avrebbe chiarito agli alleati americani che Israele pretende una Anp che combatta, armi in pugno e ogni giorno, contro Hamas e altre organizzazioni armate. Altrimenti, ha ammonito, i soldati israeliani non lasceranno mai Gaza. In sostanza l’Autorità palestinese «riformata» che ha in mente Israele si avvicina molto per ruolo e funzioni a ciò che era l’Esercito del Libano del sud, la milizia mercenaria libanese che per oltre venti anni ha sorvegliato la «Fascia di sicurezza» a ridosso del confine con lo Stato ebraico. Un progetto che si sposa con la creazione, da parte di Israele, di una «zona cuscinetto» all’interno di Gaza.

«Con ogni probabilità questa è l’idea dell’Anp ‘riformata’ che ha in mente Netanyahu» ci dice l’analista politico Ghassan Khatib, docente all’università di Bir Zeit, «in parte è diversa da quella degli Stati uniti che danno più rilievo alla dimensione politica. E riformare per gli americani significa cambiare i leader politici». Venti anni fa, durante la seconda Intifada, – ricorda Khatib – gli Usa allo scopo di isolare Yasser Arafat imposero la nomina di un vice ai vertici dell’Anp. In quel caso fu scelto Abu Mazen che poi nel 2005 divenne presidente». Il problema degli Usa è che ora non ci sono palestinesi pronti a svolgere il ruolo di premier o presidente fantoccio a Gaza. Neppure il reietto di Fatah, sempre molto influente, Mohammed Dahlan, originario di Khan Yunis, è tanto ingenuo da accettare una poltrona tanto scomoda imposta ai palestinesi dagli occupanti e da Washington.

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In Cina e Asia – Scambio sul Medio Oriente tra Wang Yi e Blinken


In Cina e Asia – Scambio sul Medio Oriente tra Wang Yi e Blinken medio oriente
I titoli di oggi:
Cina, l'export di automotive potrebbe subire gravi danni dalle tensioni in Medio oriente
Papua Nuova Guinea, ok all'accordo con l'Australia per la sicurezza
Moody's abbassa le previsioni sui titoli di stato cinesi
Cop28, la Cina difende il suo piano di riduzione di emissioni di metano
La Cina festeggia i 75 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
Nepal, arrestate dieci persone coinvolte nell'invio di cittadini nepalesi nell'esercito russo

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In Cina e Asia – Hong Kong: la polizia condanna la fuga in Canada dell’attivista Agnes Chow


In Cina e Asia – Hong Kong: la polizia condanna la fuga in Canada dell’attivista Agnes Chow Agnes Chow
I titoli di oggi: Hong Kong: la polizia condanna la fuga in Canada dell’attivista Agnes Chow Missili Usa di media gittata nell’Indo-Pacifico: è la prima volta dai tempi della Guerra Fredda Corea del Sud, rimpasto di governo in vista delle elezioni del 2024 Cina e Bielorussia rafforzano la cooperazione Il sito archeologico di Liangzhu e i 5 mila anni di ...

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Kim Bo young, la scrittrice coreana regina del genere sci-fi: "La fantascienza è un genere globale. L’Italia? L’ho amata”


Kim Bo young, la scrittrice coreana regina del genere sci-fi: 10840361
Creazionismo ed evoluzionismo, scienza e teologia, passato e presente. Nei racconti di L’origine delle specie, Kim Bo-Young, voce di spicco della letteratura sci-fi coreana, mostra al lettore il mondo da prospettive inconsuete e lo fa riflettere su quesiti di portata esistenziale. Dopo la recensione della sua ultima opera, China Files le ha fatto qualche domanda per provare a conoscerla meglio e comprendere il suo successo

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INTERVISTA: “L’attacco contro Gaza e i suoi civili va avanti perché lo vogliono Usa e Europa”


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di Michele Giorgio

(questa intervista è stata pubblicata in origine da forumalternativo.ch)

(foto Wafa)

Pagine Esteri, 4 novembre 2023 – La posizione dell’Occidente è stata e resta decisiva per il consenso alla guerra di Israele contro Gaza e il movimento islamico Hamas. Il governo guidato da Benyamin Netanyahu ha più volte fatto riferimento a questo appoggio per accreditare la legittimità dell’ offensiva militare che ha fatto oltre 15mila morti tra i palestinesi. Sull’atteggiamento di Stati Uniti ed Unione europea verso Gaza e sulla sua possibile evoluzione abbiamo intervistato l’analista Mouin Rabbani, tra gli esperti principali di affari palestinesi e in passato all’International Crisis Group.

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Mouin Rabbani

Mouin Rabbani, lei è uno degli analisti internazionali più assidui nel commentare gli sviluppi della guerra di Gaza e le sue gravi conseguenze in termini di vite umane e distruzioni. Quando finirà, a suo avviso, l’offensiva di Israele?

Molto dipenderà dall’atteggiamento che avranno i governi occidentali al momento tutti schierati con Israele e l’avanzata delle sue forze armate contro Gaza. C’è una convinzione che esista un livello di morte, distruzione e sofferenza oltre il quale i governi occidentali cesseranno o ridurranno significativamente la loro partecipazione di fatto alla guerra di Israele. Tuttavia, questa supposizione riflette un malinteso fondamentale sul modo in cui tali governi formulano le loro politiche. Finora, Israele ha imposto un assedio globale alla Striscia di Gaza, privando milioni di persone di tutte le forniture essenziali tranne l’ossigeno; sta radendo al suolo intere città e quartieri; ha ucciso molte migliaia di civili, tra i quali tanti bambini. Lo ha fatto come parte di una campagna di bombardamenti il cui scopo trasparente è la vendetta, la distruzione fisica e la punizione di un’intera società. Né la campagna di bombardamenti ha ridotto in modo significativo le capacità militari di Hamas e delle organizzazioni palestinesi nella Striscia di Gaza. Se il volume delle morti, delle distruzioni e delle sofferenze palestinesi avesse un peso nei calcoli dei governi occidentali, ebbene lo avrebbe già fatto sentire. Non è così e, indipendentemente da altri sviluppi, non lo farà. Mentre le forze israeliane bombardano scuole, ospedali, colonne di rifugiati, strutture delle Nazioni unite, zone autoproclamate sicure e tutte le forme di infrastrutture civili, la maggior parte dei governi occidentali continua a schierarsi in piena solidarietà con il governo israeliano. Papa Francesco è praticamente l’unico leader occidentale a non aver compiuto il pellegrinaggio da Netanyahu. I governi Usa ed europei inquadrano loro politica attorno al “diritto di Israele a difendersi”. È un diritto che non hanno mai concesso al popolo palestinese in una sola occasione.

Sta dicendo che non dobbiamo aspettarci una conclusione in tempi brevi delle offensive militari israeliane?

Fare previsioni è un azzardo in queste circostanze. Allo stesso tempo sono convinto che potrà causare un cambiamento nella politica occidentale solo il fallimento militare israeliano. Per questo l’Amministrazione Biden prova a convincere Israele a formulare obiettivi più raggiungibili della cosiddetta distruzione di Hamas che gran parte degli osservatori ritiene un traguardo irrealistico. La storia ci corre in soccorso. Nel 2006, il Segretario di Stato Condoleeza Rice accolse con entusiasmo la guerra di Israele contro Hezbollah e il Libano come “i dolori del parto di un nuovo Medio Oriente”. Fiduciosi che Israele stesse polverizzando Hezbollah, gli Stati uniti respinsero per settimane gli sforzi volti a raggiungere la cessazione delle ostilità. Quando si accorsero che l’avanzata israeliana sta andando incontro al fallimento nel sud del Libano, cambiarono tono e fecero pressioni sul Consiglio di Sicurezza dell’Onu affinché adottasse una risoluzione di cessate il fuoco. In altre parole, finché gli Usa e altri governi occidentali rifiutano una tregua a Gaza e si concentrano su oscenità senza senso come le “pause umanitarie”, significa che credono ancora che Israele riuscirà o potrà avere un successo militare completo. Se invece cominceranno a pronunciare omelie sulla sofferenza dei civili palestinesi e ad allestire una vetrina di buoni sentimenti, vuol dire che hanno capito che Israele ha fallito.

Esiste uno scenario alternativo in cui Usa e Europa costringeranno il gabinetto di guerra israeliano a fermarsi?

Dovrebbero capire che la loro condotta e quella di Israele producono non solo sofferenze terribili a milioni di civili palestinesi ma anche una minaccia significativa ai loro interessi. Ciò potrebbe assumere la forma di una crescente instabilità nella regione e di minacce ai regimi arabi alleati oltre alla prospettiva di una guerra in tutta la regione che richiederebbe un intervento diretto che gli Stati uniti non vogliono.

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Dopo l’attacco di Hamas al sud di Israele che ha ucciso circa 1200 civili e soldati e ha visto la presa in ostaggio di 200 israeliani e cittadini stranieri, il premier Netanyahu ha accusato il movimento islamico di essere come l’Isis e di voler massacrare tutti gli ebrei. Una lettura dell’accaduto largamente condivisa in Occidente.

La falsificazione storica e politica non è cominciata con questa guerra. E ancora una volta chiama in causa il doppio standard dei Paesi occidentali. Qualche mese fa il leader dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha rilasciato una serie di dichiarazioni sugli ebrei d’Europa e sull’Olocausto che hanno suscitato una genuina indignazione europea. Naturalmente è giusto che la falsificazione storica venga condannata e sconfessata. Tuttavia, perché dovrei considerare le condanne europee di Abbas, quando l’affermazione fatta tempo fa da Netanyahu secondo cui l’Olocausto attuato dai nazisti e da Adolf Hitler sarebbe stato ispirato addirittura dal Mufti di Gerusalemme, Hajj Amin al-Husseini, è passata praticamente sotto silenzio? O quando il più alto funzionario dell’Unione europea, Ursula Von Der Leyen, raggiunge l’orgasmo nel suo messaggio per il 75esimo compleanno di Israele? Secondo Von Der Leyen, Israele è “una vivace democrazia nel cuore del Medio Oriente” che “ha letteralmente fatto fiorire il deserto”. Una terra senza popolo affinché un popolo senza terra continui a vivere. È forse storia vera questa?

L’Europa potrà mai svolgere un ruolo costruttivo nella questione palestinese?

Rispondo con due aneddoti. Negli anni ’90 ero amico di un diplomatico olandese distaccato a Bruxelles. Mi raccontava che i suoi sforzi per promuovere la corretta etichettatura, non con il “Made in Israel”, delle merci prodotte negli insediamenti coloniali israeliani nei Territori palestinesi occupati, sia nei Paesi Bassi che a Bruxelles, sono stati combattuti con le unghie e con i denti. Non da gruppi di pressione israeliani, ma dai suoi colleghi e superiori. È un dibattito che va avanti da decenni nonostante si tratti di una questione ampiamente chiarita e definita dal diritto internazionale dai regolamenti dell’Ue. Quindi perché dovremmo prendere sul serio l’Europa? Anni dopo ho partecipato a una cena presso l’ambasciata olandese ad Amman con deputati della commissione parlamentare dei Paesi Bassi per gli affari esteri. Il suo presidente disse che non avrebbero avuto contatti con Hamas fino a quando quest’ultimo rifiuterà l’esistenza di Israele. Quando gli chiesi se gli stessi criteri si applicassero anche all’estremista di destra Avigdor Lieberman, all’epoca astro nascente della politica israeliana, mi rispose che, a differenza di Hamas, Lieberman non faceva parte del governo israeliano. Eppure, quando Lieberman divenne ministro, è stato un partner per i governi europei pur proclamando la sua totale opposizione ai diritti dei palestinesi. Mi è capitato di trovarmi a Cipro quando il ministro degli esteri ha dato un caloroso benvenuto a Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza e tra i leader della destra israeliana più radicale e antipalestinese. Non ho dubbi che sia solo questione di tempo prima che anche Ben-Gvir venga normalizzato dalla democratica Europa. Perché i palestinesi dovrebbero prendere sul serio gli europei se si concentrano principalmente sui libri di testo palestinesi e sulla loro criminalizzazione con definizioni distorte di antisemitismo? Si è mai saputo di indagini svolte in Europa sui libri di testo israeliani che negano la storia e i diritti dei palestinesi nella loro terra?

Usa e Ue continuano a sostenere la soluzione a Due Stati, quindi la nascita di uno Stato palestinese, e manifestano sostegno a Mahmoud Abbas nel momento in cui Netanyahu lo proclama irrilevante ed esclude l’Anp da un possibile governo futuro di Gaza.

Non ho alcuna obiezione in linea di principio né alla soluzione a Due Stati né al suo appoggio da parte dell’Europa. Allo stesso tempo occorre andare oltre dichiarazioni scontate e ripetitive e guardare la realtà sul terreno. Chiedete a qualsiasi palestinese e ti dirà che l’Anp ormai serve solo gli interessi di Israele, di Usa e Europa. E più di tutto Usa e Ue dovrebbero domandarsi con obiettività se trent’anni di Accordi di Oslo (nel 1993, tra Israele e Olp, ndr) abbiano avvicinato o allontanato l’obiettivo della nascita dello Stato palestinese e la realizzazione del diritto internazionale in Medio Oriente. Data l’ovvia risposta a questa domanda, chiedo: non è forse giunto il momento di adottare un approccio diverso, in cui ci si concentri non sul dare ulteriore vita a un negoziato marcio, ma piuttosto ad avviare politiche per mettere fine al conflitto sulla base del diritto internazionale? Non credo che ciò possa avvenire nei prossimi anni. Perciò i palestinesi devono cambiare la natura del loro impegno soprattutto con l’Europa. Non devono considerare più l’Europa come un potenziale contrappeso agli Stati Uniti alleati di Israele, ma come un robusto pilastro nell’architettura dell’espropriazione palestinese. Pagine Esteri

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In Cina e Asia – Cop28, la Cina annuncerà nuovi obiettivi


In Cina e Asia – Cop28, la Cina annuncerà nuovi obiettivi cop28
I titoli di oggi:

Cop28, la Cina annuncerà nuovi obiettivi
L’Ucraina fa esplodere i collegamenti ferroviari tra Russia e Cina
Xi chiede alla guardia costiera di difendere la sovranità cinese, mentre le Filippine rafforzano al sorveglianza sul Mar cinese meridionale
Cina, consigliere di stato esorta al pagamento dei salari arretrati
Cina, report evidenzia i problemi finanziari per i troppi dipendenti pubblici
Cina, cresce il debito personale
Aukus, i ministri della Difesa si impegnano a sviluppare nuove tecnologie in ambito militare
Filippine: l'IS rivendica attentato a Marawi

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Chinoiserie – Lao Xie Xie, a Milano nella mostra fotografica "Uncensored” la trasgressione della Gen Z di Shanghai


Chinoiserie – Lao Xie Xie, a Milano nella mostra fotografica lao xiexie
Il volto trasgressivo di una Gen Z cinese senza filtri viene catturato attraverso gli scatti di un milanese dall’identità virtuale misteriosa. China Files ha incontrato l’artista che si cela dietro il nome di Lao XieXie in occasione di UNCENSORED, la sua prima personale a Milano presso la galleria Lungolinea. Chinoiserie, la rubrica sull’arte cinese a cura di Camilla Fatticcioni In ...

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La Cina celebra il vecchio amico Henry Kissinger


La Cina celebra il vecchio amico Henry Kissinger 10772897
Pechino piange l'ex segretario di stato che favorì l'avvio delle relazioni diplomatiche con Washington. Ma in Vietnam e in Cambogia c'è un ricordo molto diverso

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In Cina e Asia – Cina-Usa: riprendono le relazioni militari. Estesa la cooperazione anche allo spazio


In Cina e Asia – Cina-Usa: riprendono le relazioni militari. Estesa la cooperazione anche allo spazio usa
I titoli di oggi:

Cina-Usa: riprendono le relazioni militari. Estesa la cooperazione anche allo spazio
Cina, scomparsa giornalista del South China Morning Post

Cina-Turkmenistan: rafforzata la cooperazione su energia e sicurezza
Polmonite tra i bambini, primi casi anche a Hong Kong

Cina, Pinduoduo tallona Alibaba
La Cina rivedrà le restrizioni sul vino australiano

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Il regista Mohammed Alatar presenta a Roma “Il patriarca del popolo”


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Pagine Esteri, 30 novembre 2023. Venerdì 1 dicembre 2023, presso l’Archivio Audiovisivo del movimento operaio e democratico, a Roma, verrà proiettato alle 18.00 l’ultimo film del regista palestinese Mohammed Alatar, “The People’s Patriarch” (“Il patriarca del popolo”). La serata, curata da Monica Maurer, regista di origini tedesche di fama mondiale che custodisce un importante fondo audiovisivo-storico sulla Palestina, si inserisce in un ricco cartellone di appuntamenti cinematografici che da anni portano in Italia film, registi e autori provenienti da varie parti del mondo.

“Normalmente quando si parla della Palestina a parlare sono i politici – ha dichiarato Alatar – Io ho voluto realizzare questo lavoro sulla figura di un uomo importante per la Palestina, Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme, che mi ha parlato di pace e della necessità di trovare un modo per convivere”. Michel Sabbah, palestinese, è stato il primo arabo ad essere nominato Patriarca Latino di Gerusalemme, nel 1987 da Giovanni Paolo II. Il film raccoglie i suoi ricordi e i suoi pensieri, quelli di un religioso impegnato sul piano civile che ha seguito gli ideali di giustizia e pace.

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Dal 2015 Mohammed Alatar, che vive a Ramallah ed è originario di Jenin, ha realizzato una serie di film e documentari tra i quali “Jerusalem, the east side story” (2008), “The iron wall” (2008), “Broken” (2018), “Oltre ai terribili eventi di Gaza, anche in Cisgiordania oggi la situazione è davvero complicata – ha commentato il regista – ed è resa ancora più difficile dalla presenza e dalla violenza dei coloni israeliani”.

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Dopo la proiezione, Mohammad Alatar dialogherà con Monica Maurer e Raniero La Valle. Pagine Esteri

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Ucraina. La controffensiva è fallita, la Nato ha un “piano B”


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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 30 novembre 2023 – L’inverno è arrivato con le sue tempeste di neve e le sue gelate, ed ormai nessuno può più nascondere che la controffensiva ucraina contro i russi, bloccata dai campi minati e dalle fortificazioni erette dalle truppe di Mosca, sia sostanzialmente fallita.
Neanche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che in una lunga dichiarazione dai toni pure trionfalistici – «Kiev ha riconquistato il 50% del territorio occupato da Mosca, l’Ucraina ha prevalso come nazione indipendente e sovrana: questa è una grande vittoria» – non ha potuto non inserire un passaggio incontrovertibile, riconoscendo che «un sostanzioso sostegno militare da parte degli alleati Nato non è riuscito» a permettere agli ucraini di «spostare la linea del fronte: non dovremmo mai sottovalutare la Russia».

Secondo molti osservatori e diplomatici la situazione di stallo che dura ormai da parecchi mesi, con la linea del fronte che non si è sostanzialmente mossa, potrebbe lasciare spazio ad una nuova avanzata delle truppe di Mosca. Ad Avdiivka (nel Donbass), ad esempio – una delle poche località dove si combatte sul terreno una battaglia lunga e feroce – i militari di Mosca starebbero avanzando da tre direzioni, col rischio che le truppe ucraine rimangano chiuse in un cul de sac.

A Kiev servono più truppe
Quella in corso da quasi due anni si è ormai trasformata in una guerra di logoramento, che avvantaggia la Russia, dotata di un apparato militare-industriale in parte obsoleto ma molto più consistente di quello ucraino.
Il timore dei governi occidentali – scrive il Wall Street Journal – è che «la posizione dell’Ucraina sul campo di battaglia possa crollare già quest’inverno» a causa del fatto che l’esercito di Kiev «soffre una carenza della fanteria a causa delle pesanti perdite subite».

Per rimpinguare i ranghi Kiev sta preparando una nuova legge sulla mobilitazione militare generale che estenderebbe il reclutamento a fasce della popolazione finora esentate. D’altronde da quando le truppe russe hanno invaso l’Ucraina, si calcola che circa 600 mila uomini in età di leva abbiano abbandonato il paese per sfuggire all’arruolamento, mentre alcune categorie di cittadini sono state graziate suscitando il risentimento dei soldati impantanati al fronte. Per questo il governo ha intensificato ora la caccia ai renitenti e ai disertori, imponendo multe e pene detentive.

La nuova legge – che stando al presidente della “Commissione per la sicurezza e la difesa nazionale” Oleksandr Zavitnevych sarebbe in via di approvazione – dovrebbe prevedere il reclutamento anche di chi è stato condannato per reati di vario genere, degli studenti universitari finora esentati e dei cittadini ucraini che hanno prestato servizio militare in altri Paesi prima di ottenere la cittadinanza ucraina. Inoltre dovrebbe essere incrementato il reclutamento delle donne nei ranghi dell’esercito.

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Soldati ucraini al fronte

Le munizioni arrivano con il contagocce
Ma a Kiev non mancano solo gli uomini; i suoi reparti, soprattutto d’artiglieria, sono a corto di munizioni. L’Unione Europea finora è riuscita a spedire a Kiev neanche un terzo del milione di proiettili che aveva promesso entro il marzo prossimo. Anche le consegne di armi e munizioni provenienti dagli Stati Uniti sono diminuite da quando Washington ha deciso di dirottare verso Israele alcuni stock destinati a Kiev, circostanza segnalata con preoccupazione dallo stesso Volodymyr Zelensky.

Come se non bastasse, ora anche gli aiuti finanziari annunciati da Biden sono in ritardo, anche a causa dell’ostruzionismo dei repubblicani che controllano il senato di Washington.

Il “piano segreto” di Usa e Germania
Alle crescenti difficoltà materiali si sommerebbe però anche un mutamento di strategia da parte degli “alleati” di Kiev. Mentre Zelensky continua a perseguire pubblicamente la riconquista di tutti i territori annessi da Mosca, Crimea compresa, i suoi sostenitori della Nato nutrono ora seri dubbi su una linea intransigente quanto irrealistica, dopo aver lungamente spinto Kiev contro Mosca ed aver chiuso ad ogni seria trattativa nelle fasi iniziali del conflitto.

Per convincere Zelensky alla moderazione e ad un negoziato disponibile anche a “brutali compromessi”, secondo un articolo pubblicato dal quotidiano tedesco Bild che cita alcuni funzionari del governo Scholz, Washington e Berlino avrebbero messo a punto un piano diretto a ridurre gli aiuti militari e finanziari all’Ucraina, fornendo solo quelli sufficienti a evitare una Caporetto. Secondo la fonte citata da Bild, «il piano tedesco-americano è fornire a Kiev il tipo di armi e la giusta quantità per consentire all’esercito ucraino di mantenere l’attuale linea del fronte, ma non di riconquistare territori». Se Zelensky dovesse mettersi di traverso rispetto alla trattativa, il “piano segreto” di Joe Biden e Olaf Scholz (che però vedrebbe la contrarietà del suo ministro della Difesa, Boris Pistorius) prevederebbe un congelamento di fatto del conflitto senza il raggiungimento di un cessate il fuoco, così come era avvenuto in Donbass dopo le fasi più cruente del 2014.

Per ora la posizione ufficiale dei governi di Germania e Stati Uniti non è mutata e prevede il “sostegno totale all’Ucraina fino alla sconfitta della Russia”, ma nella grande stampa occidentale i difensori della trattativa, non fosse altro che per motivi di necessità, prendono sempre più piede. Occorre smetterla col «pensiero magico della sconfitta russa» e cominciare a ragionare su una strategia di contenimento di Mosca, ha avvertito nei giorni scorsi il Wall Street Journal, mentre il francese Le Figaro ricordava che «si è dissipata la speranza» di un «collasso dell’esercito russo nel medio termine».

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La Russia regge
Anche la Russia ha problemi non indifferenti a mantenere lo sforzo bellico, ma finora ha dimostrato di resistere meglio del previsto. E comunque, “è condannata a vincere”. Le sanzioni occidentali non hanno causato il previsto tracollo del suo Pil e anzi Mosca ha rapidamente riorientato gli scambi commerciali e la vendita dei suoi idrocarburi verso partner asiatici, africani e latino-americani, riuscendo a evitare l’isolamento. Anche la ribellione della Wagner è stata rapidamente assorbita e le falle create al fronte dallo smantellamento della compagnia mercenaria sono state tappate senza grandi problemi. Ora probabilmente Putin spera che la probabile vittoria di Donald Trump alle prossime presidenziali alleggerisca ulteriormente il sostegno statunitense a Kiev, e a quel punto diminuirebbe anche quello europeo spesso frutto proprio delle pressioni (e dei condizionamenti) di Washington.

Cresce la sfiducia in Zelensky
L’andamento non proprio trionfale della guerra nell’ultimo anno continua invece a provocare tensioni e spaccature all’interno dell’establishment ucraino e tra questo e le truppe.
I militari denunciano – racconta ancora Bild in un lungo reportage – le inefficienze della macchina statale e in particolare del governo, che li costringerebbe a combattere in condizioni insostenibili a causa della mancanza di armi ed equipaggiamenti, di assistenza e di una strategia bellica razionale.

Da parte loro, invece, i più stretti collaboratori di Zelensky e i dirigenti del suo partito – “Servitore del popolo” – accusano alcuni generali e soprattutto il capo di Stato Maggiore Valeriy Zaluzhny per il fallimento di una controffensiva che pure, per il presidente, procede a gonfie vele. Il generale è ancora molto popolare e secondo vari analisti potrebbe catalizzare lo scontento elettorale nei confronti dell’ex attore al comando dal 2019, anche se il diretto interessato nega ogni interesse per la politica. Nel dubbio, Zelensky ha rimandato a data da destinarsi le elezioni previste nel marzo del 2024. Secondo i risultati di un sondaggio riportato dall’Economist, la fiducia dei cittadini ucraini nei confronti di Zelensky, anche a causa dei numerosi scandali per corruzione che hanno interessato il suo entourage, è scesa al 32%, mentre il generale Zaluzhny godrebbe del sostegno del 70% del campione. Anche il direttore dell’intelligence militare ucraina, Kyrylo Budanov – la cui moglie sarebbe stata recentemente avvelenata – potrebbe contare su un 45% di opinioni positive.

Dopo aver rimosso vari stretti collaboratori di Zaluzhny, colpevole di aver confessato in un’intervista all’Economist le difficoltà di Kiev, Zelensky avrebbe ora ordinato ai governatori regionali di «interrompere ogni comunicazione» con il capo di Stato Maggiore, per evitare che “le élite regionali creino entusiasmo” intorno alla figura di Zaluzhny. Almeno così scrive il giornale online ucraino “Strana”, considerato un media dell’opposizione e filorusso (anche se è stato bandito anche da Mosca per le sue critiche nei confronti del Cremlino) e per questo teoricamente chiuso dal governo di Kiev già nel 2021. – Pagine Esteri

10748343* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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