Dialoghi – Il sogno cinese è di tutti, anche delle persone con disabilità
La situazione delle persone con disabilità in Cina è progressivamente migliorata negli ultimi trent’anni, ma restano ampi margini per una maggiore inclusione, soprattutto a livello sociale.
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In Cina e Asia – Gaza, la Cina pubblica documento per raggiungere una "pace duratura”
I titoli di oggi: Gaza, la Cina pubblica documento per raggiungere una “pace duratura” La Cina rilascia le prime immagini della stazione spaziale Tiangong Governatore banca centrale cinese: “Slegare la crescita dagli investimenti” Hong Kong: 47 attivisti rischiano l’ergastolo Gli Usa accusano un funzionario indiano per il tentato omicidio di un leader sikh La Corea del Nord rilancia il commercio ...
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JENIN. Due bambini palestinesi uccisi dal fuoco di precisione dei cecchini israeliani
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Pagine Esteri, 29 novembre 2023. Due bambini di 8 e 15 anni sono stati uccisi dall’esercito israeliano durante il raid, durato più di 12 ore, all’interno del campo profughi palestinese di Jenin, nella Cisgiordania occupata. L’attacco israeliano è stato descritto dai residenti come il più violento dal 7 ottobre, giorno dal quale le incursioni israeliane sono avvenute a cadenza quasi quotidiana.
Adam Samer al-Ghoul di 8 anni e Basil Suleiman Abu al-Wafa di 15 anni sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco che i tiratori scelti hanno sparato dalla distanza contro di loro, mentre camminavano in strada. I due bambini hanno tentato invano di cercare riparo ma non hanno avuto scampo. Fonti israeliane hanno dichiarato che si stavano preparando a “lanciare ordigni”. I video di entrambe le uccisioni, riprese da telecamere di sicurezza, hanno fatto il giro del web.
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L’esercito israeliano ha dichiarato che durante il raid sono stati uccisi altri due uomini, uno dei quali avrebbe avuto un importante ruolo di collegamento tra i gruppi armati palestinesi. La casa in cui si trovava è stata bombardata e distrutta da un drone. I mezzi israeliani hanno distrutto le strade del campo profughi, come è ormai tradizione durante i raid in Cisgiordania.
Nelle ultime 24 ore 35 palestinesi sono stati arrestati in Cisgiordania, tra i quali un bambino di 12 anni. Il numero totale degli arresti nella West Bank dal 7 ottobre supera i 3.300.
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Torna in gioco il gas al largo di Gaza negato ai palestinesi.
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di Michele Giorgio
(questo articolo è stato pubblicato il 28 novembre dal quotidiano Il Manifesto)
Pagine Esteri, 29 novembre 2023 – Davanti alle rovine e ai lutti di Gaza e al rilascio di sequestrati israeliani e prigionieri palestinesi avvenuto durante i quattro giorni di tregua, la visita in Israele di Amos Hockstein è passata inevitabilmente in secondo piano. Ufficialmente volto ad evitare una escalation al confine tra Libano e Israele, il viaggio dell’inviato speciale della Casa Bianca per le risorse energetiche – un anno fa Hockstein ha mediato l’accordo sul gas tra Tel Aviv e Beirut – rientra nelle manovre che Usa, Europa e Israele, con l’apporto del Qatar, stanno avendo dietro le quinte per definire il «futuro di Gaza» nel «dopo Hamas». Sebbene la fine politica e sociale auspicata in Occidente del movimento islamico a Gaza resti un obiettivo a dir poco irrealistico.
Hochstein nel suo tour mediorientale in più occasioni ha parlato delle riserve di gas offshore a Gaza come di una fonte di reddito e di indipendenza energetica per i palestinesi. «Mentre marciamo verso un futuro di Gaza che non sia controllato da un’organizzazione terroristica, ma dal popolo palestinese, dobbiamo guardare all’attività economica», ha detto l’inviato Usa in una intervista. «Qui c’è l’opportunità di sviluppare i giacimenti di gas al largo di Gaza (il Gaza Marine, ndr) per conto dei palestinesi», ha detto, aggiungendo che di aver lavorato sulla questione con l’Autorità nazionale palestinese a Ramallah nell’ultimo anno e mezzo. Quindi è arrivato a prevedere che «ci saranno aziende disposte a sviluppare quei giacimenti» e si è detto sicuro «al 100%» che Israele non avrà rivendicazioni «perché quel gas appartiene al popolo palestinese». Tuttavia, le parole di Hockstein vanno interpretate con grande cautela, specie quando si parla della posizione di Israele sul giacimento di gas al largo di Gaza.
Il «Dono di Allah» come definì il giacimento lo scomparso leader palestinese Yasser Arafat potrebbe contenere 32 miliardi di metri cubi di gas e garantire 15 anni di energia a Gaza e Cisgiordania e favorire la costruzione di impianti per la produzione di elettricità senza dover ricorrere a forniture israeliane ed egiziane. Ma dopo oltre due decenni le popolazioni di Gaza e Cisgiordania non hanno potuto beneficiare del Gaza Marine. Il giacimento scoperto nel 2000 dalla British Gas che nel 1999 aveva firmato un accordo di esplorazione di 25 anni con l’Anp che conferiva ai palestinesi la giurisdizione marittima sulle acque che si estendevano a 20 miglia dalla costa di Gaza. All’epoca il governo israeliano approvò la perforazione e la British Gas scavò due pozzi. Poi, con l’inizio della seconda Intifada palestinese, l’apparente atteggiamento conciliante di Israele ebbe fine e i vari governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni hanno condizionato lo sfruttamento del gas di Gaza a un ruolo di primo piano delle compagnie israeliane e alla esclusione totale di Hamas.
Le pressioni occidentali sull’Anp si sono fatte crescenti – in particolare negli anni in cui l’ex primo ministro laburista Tony Blair è stato il rappresentante del Quartetto in Medio oriente – tanto che, nel 2020, a margine della riunione al Cairo dell’East Mediterranean Gas Forum, il governo di Ramallah si è piegato accettando che l’estrazione e la commercializzazione del gas del Gaza Marine passi per le compagnie israeliane. Una fonte dell’Anp ha spiegato al manifesto che la decisione di cedere fu dettata anche dalla necessità di garantire l’ingresso nelle casse del governo palestinese guidato da Mohammed Shttayeh, notoriamente vuote, di centinaia di milioni di dollari in royalties.
Ora, dopo anni, giungono le dichiarazioni di Hochstein. Se da un lato dicono gli Stati uniti riconoscono che il Gaza Marine è palestinese, dall’altro continuano a contenere condizioni, come l’uscita di scena completa di Hamas che, ripetono gli analisti, è una illusione dei governi occidentali.
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In Cina e Asia – Xi torna a Shanghai per fiume Azzurro e fiducia alle imprese
I titoli di oggi:
Lituania, rimossi i blocchi commerciali voluti da Pechino
Cina, al via la prima fiera dedicata alla supply chain
Cyberbullismo, arriva la prima sentenza in Cina
Cina, pronto il primo forum dedicato al delta dello Yangtze
I ricchi cinesi spostano sempre più soldi all'estero
Vietnam, il Parlamento approva un aumento delle tasse per le multinazionali
Filippine, pronto il ban a Tik Tok?
Malaysia Airlines, un nuovo appello per le vittime del volo scomparso nel 2014
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Auto economiche, jet supersonici e centrali elettriche galleggianti: sotto copertura nel programma segreto dell'Arabia Saudita per continuare a bruciare petrolio nel mondo
@Politica interna, europea e internazionale
Cheap cars, supersonic jets and floating power plants: Undercover in Saudi Arabia’s secretive program to keep the world burning oil – Centre for Climate Reporting
Speaking to undercover reporters, Saudi energy officials disclosed ambitious plans to undo progress on phasing out oil by financing high carbon infrastructure across Africa and Asia.Lawrence (Centre for Climate Reporting)
Fallito golpe in Sierra Leone, ora è caccia ai responsabili
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della redazione
Pagine Esteri, 28 novembre 2023 – Continuano le operazioni delle forze di sicurezza della Serra Leone contro i responsabili dell’attacco alla capitale Freetown avvenuto domenica scorsa in cui sono morte venti persone, 13 delle quali militari. Nelle ultime ore almeno quattro presunti aggressori e due civili sono stati uccisi in relazione ai fatti di due giorni fa, quando uomini armati hanno fatto irruzione in una caserma e in penitenziari della capitale favorendo la fuga di quasi duemila detenuti. Quindi hanno attaccato installazioni di massima sicurezza fuori da Freetown facendo pensare all’inizio di un colpo di stato, simile a quelli avvenuti in tempi recenti in Mali, Burkina Faso, Guinea, Niger e Gabon.
Secondo un resoconto ufficiale, domenica alle prime ore del giorno un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione nella caserma Willbeforce per appropriarsi di armi. L’attacco però è fallito. I responsabili sono stati respinti alla periferia di Freetowm ed i loro leader arrestati. Inoltre, i principali centri di detenzione, tra cui il carcere centrale di Pademba Road, sono stati attaccati permettendo la fuga di circa 2000 prigionieri. Solo dopo diverse ore le forze sicurezza avrebbero avuto il sopravvento sui “rivoltosi” che continuano a restare avvolti nel mistero. Sui social circola l’immagine di un ex membro della Guardia dell’ex presidente Ernest Bai Koroma (2007-2018), descritto come uno dei partecipanti all’attacco.
Il presidente Julius Maada Bio parla di un tentativo di “sovvertire l’ordine costituzionale e di minare la pace e la stabilità per cui stiamo lavorando così duramente”. Ma è proprio Bio, autoritario e attaccato al potere, il motivo di tensioni politiche che si trascinano da tempo nel Paese africano. Ad agosto del 2022 nelle proteste scoppiate contro la sua ricandidatura sono morte non meno di 31 persone. Lo scorso giugno, Bio è stato ufficialmente rieletto con il 56 per cento dei voti, vincendo per un pugno di schede – come nelle precedenti elezioni del 2018 – contro il leader dell’opposizione, l’ex ministro degli Esteri Samura Kamara. Il fatto che abbia superato di un soffio la soglia del 55 per cento di preferenze necessarie per essere dichiarato presidente, ha generato polemiche e sospetti.
La Sierra Leone è uscita solo pochi anni fa da una sanguinosa guerra civile che ha fatto 50 mila morti. Pagine Esteri
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Prigionieri palestinesi, il sistema giudiziario parallelo di Israele
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 28 novembre 2023. Un sistema giudiziario parallelo, speciale e riservato ai palestinesi sotto occupazione imprigiona e trattiene con o senza accuse in media 16.000 persone ogni anno.
Sono più o meno 1 milione i palestinesi dei Territori arrestati dal 1967 (800.000 fino al 2006), anno in cui Israele ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, incluse almeno 23.000 donne e 25.000 minori.
Esiste una giustizia gestita dall’Autorità Nazionale Palestinese ed è quella che giudica i reati che Israele non ritiene ledano se stesso: furti, violenza domestica, risse, piccola criminalità organizzata, omicidi tra palestinesi.
Tutto ciò che viene considerato una violazione alla sicurezza dello stato occupante è giudicato, invece, dinanzi alla corte militare israeliana. Tali violazioni includono certe forme di espressione culturale e politica, di associazione, movimento e protesta non violenta, anche alcuni reati stradali, la stampa e la distribuzione di materiali politici, sventolare la bandiera palestinese o simboli di organizzazioni giudicate da Israele illegali. Un palestinese condannato per omicidio dalla corte militare riceve una sentenza più severa rispetto a un israeliano condannato per lo stesso reato da una corte civile. Secondo il codice penale israeliano, i prigionieri possono essere rilasciati dopo aver scontato metà della pena mentre i prigionieri palestinesi possono fare richiesta di libertà vigilata solamente dopo i due terzi.
Al momento sono circa 7.000 i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, tra cui 200 minori. Secondo le leggi israeliane la responsabilità penale inizia a 12 anni di età. Tuttavia, mentre gli israeliani vengono giudicati come maggiorenni al compimento dei 18 anni, i palestinesi vengono processati come adulti già dall’età di 16 anni e per loro non è prevista la rieducazione né l’obbligo di essere interrogati, come invece accade per i propri coetanei israeliani, da agenti appositamente addestrati.
Sono 46 i giornalisti incarcerati, 29 dei quali sono stati arrestati dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso.
I giornalisti soprattutto, ma anche gli studenti, i lavoratori e persone comuni, possono essere fermati per un post pubblicato sui social network. Come è capitato a Sumayya Jawabreh, reporter di 30 anni al settimo mese di gravidanza. È stata messa in prigione con l’accusa di incitamento sui social media. Dopo il pagamento di una cauzione di 10.000 shekel (circa 2.500,00 euro), è stata poi rilasciata agli arresti domiciliari per un tempo indefinito, con il divieto di utilizzare qualsiasi piattaforma social. La maggior parte dei giornalisti è sotto detenzione amministrativa. Si tratta di una pratica estremamente diffusa in Israele, grazie alla quale i prigionieri palestinesi possono essere tenuti in carcere senza accusa, senza processo e a tempo indeterminato. Tutto sulla base di ciò che i militari scrivono all’interno di un file segreto, inaccessibile al detenuto e ai suoi legali.
Sono 2.070 i palestinesi trattenuti con la formula della detenzione amministrativa, soprattutto attivisti per i diritti umani, studenti universitari, avvocati, madri o mogli di detenuti o ricercati da Israele. Capita, soprattutto dopo il 7 ottobre, che vengano arrestati membri della famiglia di palestinesi indagati, come forma di pressione: il rilascio avviene dopo che il ricercato si consegna spontaneamente alle forze di sicurezza.
Sumayya Jawabreh, reporter palestinese
Spesso le due giustizie, quella delle autorità palestinesi e quella di Israele, lavorano insieme, determinando una lunghissima e viziosa catena di arresti, interrogatori, accuse, trasferimenti, tribunali. Questo è possibile grazie alla collaborazione di sicurezza tra l’ANP e Israele, sancita dagli accordi di Oslo. Secondo le Nazioni Unite e molte realtà locali e internazionali che si occupano di diritti umani e di diritti dei detenuti, questo doppio sistema non ha fatto altro che peggiorare l’asfissiante regime punitivo al quale vengono sottoposti i cittadini della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme est. Ma la privazione della libertà comincia già fuori dal carcere: la limitazione dei movimenti, la sorveglianza continua, i raid militari, il muro, i checkpoint, l’allargamento delle colonie israeliane illegali e delle infrastrutture solo ad esse destinate, rendono i Territori “una prigione all’aperto”. Lo stato occupante, in poche parole, tratta ogni palestinese come una possibile minaccia alla propria sicurezza.
Solitamente gli arresti avvengono ai checkpoint o durante le manifestazioni, quando i palestinesi sono in auto, in strada, oppure nelle loro case. Spesso accade durante i raid dell’esercito nei villaggi, città e campi profughi delle Cisgiordania. L’associazione per i diritti umani Addameer ha registrato, ad esempio, numerosi e massicci arresti compiuti all’interno dei villaggi della Cisgiordania, specialmente quelli nelle cui vicinanze sono state fondate colonie israeliane illegali, descrivendo le azioni militari come una forma di intimidazione e punizione collettiva: l’esercito israeliano arriva con numerosi uomini e mezzi per arrestare decine di abitanti che vengono poi quasi tutti rilasciati dopo qualche ora.
Durante gli interrogatori, soprattutto nel periodo di indagine in detenzione amministrativa, quando i militari sono alla ricerca di prove e/o confessioni da parte del detenuto, vengono utilizzati metodi di pressione fisica e psicologica come la privazione del sonno, con lunghe e ininterrotte sessioni di interrogatori. I prigionieri vengono legati e tenuti per molte ore in posizioni innaturali, scomode e dolorose, sotto minaccia di arresto dei membri della propria famiglia o di demolizione della propria abitazione (punizione, anche quest’ultima, molto diffusa). Dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele ha portato avanti una campagna di arresti senza precedenti e varie forme di tortura, umiliazione e punizione dei detenuti in fase di fermo e di arresto sono state diffusamente documentate. Anche dagli stessi soldati israeliani, che hanno pubblicato sui social network, specialmente TikTok, video in cui i palestinesi, bendati e legati, vengono picchiati e umiliati in vari modi.
L’isolamento è uno strumento largamente utilizzato da Israele, anch’esso, all’occorrenza, come punizione collettiva. L’utilizzo di questa modalità detentiva è aumentato negli ultimi anni, in particolare dal 2021, dopo la fuga di alcuni detenuti palestinesi dal carcere di Gilboa attraverso un piccolo tunnel. Altre forme di punizione collettiva sono l’interruzione delle visite familiari, le incursioni continue nelle celle e il rifiuto al rilascio dei corpi dei detenuti morti in prigione, che sono 242 dal 1967, di cui 6 dal 7 ottobre di quest’anno.
Nelle carceri sono documentati sistematici casi di negligenza medica. A metà 2023 erano almeno 700 i prigionieri politici palestinesi malati, di cui 200 affetti da malattie croniche. Due di loro sono morti. L’articolo 40A della legge antiterrorismo del 2016 impedisce il rilascio anticipato dei detenuti di sicurezza condannati per reati legati all’omicidio, considerati atto terroristico. Finora, questo articolo è stato applicato solo contro i palestinesi, compresi quelli con malattie terminali. Come Walid Daqqa, detenuto da 38 anni, afflitto da un raro cancro al midollo osseo a causa del quale ha subito numerose operazioni, compresa l’esportazione di gran parte del polmone destro. Secondo Amnesty International la prigione di Ayalon, nella quale è detenuto, non è in grado di fornire cure adeguate. Daqqa è in fin di vita e la sua famiglia richiede che venga rilasciato prima della sua morte.
Il
Il detenuto politico palestinese Walid Daqqa
Numerosi detenuti palestinesi hanno intrapreso più o meno lunghi scioperi della fame come forma di protesta per le condizioni all’interno delle carceri israeliane e contro la detenzione amministrativa. Da quando si è insediato l’attuale governo di estrema destra guidato da Benjamin Nethanyahu, i detenuti hanno scioperato contro l’attuazione di alcune delle misure restrittive più estreme annunciate a marzo dal ministro suprematista israeliano Ben Gvir. Scioperi della fame si tengono quasi ogni anno. Una campagna di solidarietà internazionale a sostegno del detenuto palestinese Samer Issawi, in sciopero della fame controllato per 266 giorni, portò nel 2013 a un accordo sulla sua scarcerazione. Non ha avuto, purtroppo, lo stesso esito la protesta di Khader Adnan, arrestato 12 volte, che è morto a maggio di quest’anno per lo sciopero della fame, che portava avanti da 87 giorni, contro la sua detenzione amministrativa. Nel 2017 una campagna di protesta che ha ottenuto un’eco internazionale ha unito 1.500 prigionieri palestinesi nello sciopero della fame.
Il prigioniero palestinese Khader Adnan, morto nelle carceri israeliane di sciopero della fame
Secondo le Nazioni Unite la maggior parte delle condanne che Israele infligge ai palestinesi sono arbitrarie, perché risultato di una molteplicità di violazioni del diritto internazionale, come la mancata garanzia del giusto processo, che contaminano la legittimità dell’amministrazione della giustizia da parte della potenza occupante. Pagine Esteri
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Xi chiede nuovi strumenti legali contro i rischi esterni” Per ridurre le emissioni di carbonio la Cina si rivolge alle famiglie
Pronta la più grande centrale solare al mondo in vista della Cop28 Cina, la competitività nel settore IA lascia indietro i lavoratori del “data labeling” nelle aree rurali La Corea del Nord sta militarizzando il confine con il ...
@Politica interna, europea e internazionale
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Xu Xiangshun o Alvise Giusti? Quella volta in cui Piero Angela forse si è sbagliato
È morto Xu Xiangshun (Alvise Giusti), da alcuni soprannominato “il contadino cinese dalle origini italiane” e definito da Piero Angela “l’italiano di Wenzhou”. Lo ha annunciato sua figlia il 16 settembre scorso sul suo profilo Douyin. La sua storia, tra Cina e Italia, interseca i grandi eventi del secolo scorso alla personale ricerca di una propria identità culturale, rimasta incompresa ...
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In Cina e Asia – Gaza, Wang Yi va New York per parlare della crisi
Gaza, Wang Yi va New York per parlare della crisi
Cina, Giappone e Corea del Sud lavorano a un vertice trilaterale tra i leader
Belt and road, pronta la roadmap per i prossimi dieci anni
La Cina valuta costruzione di un tunnel sottomarino tra Russia e Crimea
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Taiwan Files – Elezioni presidenziali: corsa a 3 dopo una settimana folle
Cronaca di una drammatica settimana di politica taiwanese, con l'accordo nell'opposizione per una candidatura unitaria che salta in livestreaming tra accuse incrociate. Lai Ching-te della maggioranza Dpp sceglie come vice l'ex rappresentante negli Usa Hsiao Bi-khim ed è il grande favorito. Nell'opposizione si ritira Gou Taiming dopo l'indagine della Cina sulla sua Foxconn. Restano Hou Yu-ih del Guomindang e Ko Wen-je del People's Party. Gli scenari a 50 giorni dal voto. Il racconto di Lorenzo Lamperti da Taipei
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Guerra. Voci da Gaza (parte seconda)
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(Traduzione a cura di Federica Riccardi)
insaniyyat.org/voices-from-gaz…
Insaniyyat, Society of Palestinian Anthropologists
Dall’inizio della guerra israeliana contro la popolazione di Gaza, familiari e amici, compresi i membri della nostra comunità Insaniyyat, hanno cercato con ansia di avere notizie dei propri cari in tutta Gaza. Di seguito sono riportate le trascrizioni di messaggi di testo personali, note vocali e post sui social media che gli amici e i cari di Gaza sono riusciti a inviare in risposta; messaggi intermittenti composti nel bel mezzo dei bombardamenti e della distruzione, mentre erano sopraffatti dalle notizie di continue morti, anche di amici e parenti, senza elettricità, cibo, acqua, rifugio sicuro e speranza.
“R” Fotografo, Gaza City
R è un fotografo e padre devoto di due figlie di 2 e 6 anni. Uno dei suoi recenti progetti ha celebrato la vita e le conquiste delle persone di Gaza che hanno perso gli arti durante le guerre precedenti; le sue fotografie ritraggono il modo in cui continuano a vivere una vita piena nonostante le amputazioni. Fa parte di una rete regionale di fotografi documentaristi e lavora come freelance per agenzie di stampa locali e internazionali. Vive a Gaza City, ma è stato costretto a mandare sua moglie e le sue figlie, e poi suo padre e sua madre, sua sorella con la famiglia a Deir al-Balah, dove vive la famiglia di sua moglie. Poi, anche lui è dovuto fuggire da Gaza. La sua casa, quella dei suoi genitori e quella di sua sorella a Gaza sono state tutte bombardate. È ancora a Deir al-Balah, dai suoceri, insieme ad altri 30 membri della famiglia.
R ha inviato i seguenti messaggi ad un amico tra il 13 ottobre e il 12 novembre
Venerdì 13 ottobre (mattina)
[da Gaza City]
Ho già mandato le bambine [di 2 e 6 anni], la loro madre e i miei genitori dalla famiglia di mia moglie a Deir al-Balah.
Sto bene, ma la situazione è molto difficile. I massacri avvengono ovunque.
Non ci sono auto. Sto pensando di farmi 20 chilometri a piedi per andare dalle ragazze [a Deir al-Balah].
Venerdì 13 ottobre (sera)
[da Deir Balah]
La gente sta ancora lasciando Gaza [City], e ci sono persone che non possono lasciare le loro case, ma la città è quasi vuota ora. Ogni volta che cerco di comunicare con qualcuno all’interno di Gaza, mi dice che è una città fantasma.
Cerco di fotografare quello che posso.
Ho provato a chiamare Samar [un amico comune] ma non c’è linea. Non so se sono lì [Gaza City] o se sono andati via.
…
Ho comprato del cibo in scatola, una scatola di formaggio, biscotti e sardine.
Sono uscito sotto i bombardamenti e ho trovato cibo in scatola, biscotti, acqua, za’atar, dukkah e formaggio.
Qui c’è una palma, così ogni tanto raccolgo qualche dattero e mangio un frutto fresco.
Mangio poco per non dover andare in bagno.
La notte e le sue preoccupazioni sono iniziate.
Oh Dio, ti prego, salvaci da ciò che sta per accadere.
Vado da mia figlia maggiore e poi torno. Piange per la paura, perché hanno ricominciato a bombardare.
A mezzanotte tutti i servizi di telecomunicazione e internet potrebbero essere interrotti in tutta la Striscia di Gaza. Se perdi i contatti con noi, sappi che stiamo bene, e non importa quali immagini vedrai in TV, noi staremo bene, e io farò tutto il possibile per tenere al sicuro le mie figlie e l’impossibile per proteggerle.
Che mondo ingiusto è questo.
Vorrei non conoscere così tante persone a Gaza.
Ho perso molte persone. Ogni volta che chiedo di qualcuno, mi dicono che è stato martirizzato o che è disperso.
Mia figlia più grande, che ha quasi 7 anni, capisce già tutto.
Sabato 14 ottobre
Buongiorno, è stata una notte molto difficile ma è passata.
Sto scattando alcune foto, ma tutti sono nervosi, le bambine piangono in continuazione e io sono impegnato a prendermi cura di loro.
Tutti aspettano l’invasione. Ci sono ancora persone all’interno di Gaza [City] che non sono riuscite a uscire ieri.
Oggi hanno dato una finestra di quattro ore per le persone che vogliono andarsene.
Domenica 15 ottobre (mattina)
Per la maggior parte del tempo non c’è internet né batteria.
Ci sono attacchi dappertutto, ma non sappiamo nemmeno dove, perché non c’è modo di sapere dove sono i bombardamenti.
Negli ospedali non ci sono abbastanza medicine, non ci sono infermieri né medici e il sistema sanitario è completamente collassato.
La rete di comunicazione è pessima, noi stiamo bene.
Dio, facci uscire indenni da questa situazione.
Domenica 15 ottobre (sera)
Sembra che la casa della mia famiglia sia stata colpita qualche tempo fa – qualcuno me l’ha detto solo ora. Ci sono così tanti ricordi lì
…
Non sono triste per le pietre, la costruiremo di nuovo.
Ieri ho detto a mia figlia: “Voglio portarti in Egitto”. E lei ha risposto: “A trovare Rula?” [un’amica di famiglia].
Lunedì 16 ottobre
Oggi ho messo il mondo sottosopra alla ricerca di sonniferi e non ne ho trovati
Da stamattina non abbiamo più acqua, a parte qualche cassa d’acqua in bottiglia per bere. Il mare è vicino, ma è troppo rischioso andarci: tutta la costa è piena di navi da guerra.
Forse, se piove, possiamo raccogliere l’acqua nelle pentole.
Martedì 17 ottobre
Non c’è più acqua in nessuno dei serbatoi e non ce n’è in tutta la Striscia di Gaza. Ci è rimasta solo una cassa d’acqua che vogliamo conservare per i bambini.
Mercoledì 18 ottobre
Cercherò di uscire in sicurezza. Ancora una volta, prega per me affinché riesca a prendere le cose e a tornare sano e salvo.
Sto bene, ho trovato due casse d’acqua grazie a Dio. Ci sono stati un sacco di bombardamenti, ma sono andato al mercato e ho comprato delle arance per le mie figlie.
Sabato 4 novembre (mattina)
Siamo riusciti a comprare un sacco di farina
Tra poco usciremo e cercheremo di prendere dell’acqua.
Questa è farina rubata
Se ci prendono, ci rinchiudono tutti.
Hahahahaa
L’abbiamo pagata all’intermediario, al venditore e, naturalmente, a chi l’ha saccheggiata.
Un processo molto complicato.
Le trattative sono state intense.
La mia razione d’acqua è ora di 200 millilitri al giorno.
Esco di nuovo sotto ai bombardamenti, devo trovare dell’acqua. Andrò nello stesso posto dove l’ho presa prima. Prega che la trovi e che torni sano e salvo dal giro.
Se potessi sentire come bombardano Gaza, i missili, la terra trema per i bombardamenti.
Sabato 4 novembre (sera)
Ogni giorno raccogliamo delle olive dall’albero, le schiacciamo, ci mettiamo sopra il sale e il giorno dopo le mangiamo così…
È il momento della raccolta delle olive, ma le mangiamo così perché le olive vanno a male. Dovremmo raccoglierle e spremerle per ottenere l’olio, ma non ci sono frantoi in funzione.
Mamma e papà ti salutano
La mamma dice che la prossima volta che verrai vuole cucinarti un buon piatto.
Domenica 5 novembre (sera)
Buongiorno, grazie a Dio, stiamo ancora bene.
Voglio che chiami un medico per me
Ho bisogno di un sedativo per bambini
Mia figlia è sopraffatta dalla paura, si lamenta dei dolori alle gambe e allo stomaco e si comporta come una persona disorientata e confusa
Domenica 5 novembre (notte)
Oggi sono riuscito a bere un litro d’acqua.
Ho mangiato un po’ di datteri e za’atar.
Lunedì 6 novembre
Giuro che è stata una notte difficile.
C’erano un sacco di bombe e i bambini piangevano tutti seduti in mezzo alla casa.
Non ho trovato nessuna delle medicine di cui hai scritto [suggerite dal medico].
Ma useremo una medicina alternativa e le massaggeremo i muscoli con dell’olio d’oliva.
Tra un po’ devo uscire per cercare una nuova fonte d’acqua, ma aspetto che i bombardamenti si calmino. Ci sono stati bombardamenti vicino alla fonte d’acqua da cui ci siamo riforniti e ho paura a camminare nelle zone agricole.
Martedì 7 novembre (sera)
Ho fatto un bagno. Ho scaldato l’acqua salata sul fuoco. Non c’era acqua fredda disponibile, così ho fatto un bagno vero Hahahaha
Oggi c’è stato un massacro vicino a noi….
Abbiamo persino smesso di sentire il rumore dei missili che cadono. Sentiamo solo le esplosioni improvvise.
…
Sì, hanno bombardato un quartiere con un solo colpo…
Martedì 7 novembre (notte fonda)
Ho pregato, ho preso le mie figlie in braccio e mi sono sdraiato accanto a loro. Mi sentivo stanco morto: il mio cervello era addormentato, ma i miei occhi erano ancora aperti.
Mercoledì 8 novembre
Sono a un chilometro dall’ospedale Al-Shifa
e ci sono combattimenti per le strade di Gaza
Giovedì 9 novembre (mattina)
Ho dormito per 4 ore, un sonno interrotto ma buono.
Ci sono bombardamenti sulla strada [di Gaza City] che usiamo per arrivare a casa nostra, si chiama Al-Baraka Street.
Hanno detto qualcosa al telegiornale?
Giovedì 9 novembre (notte)
Quali notizie ci sono, a parte una pausa di 4 ore al giorno per il corridoio umanitario, in modo che la gente possa lasciare Gaza [City]?
Venerdì 10 novembre
Cosa scrivono le notizie sull’ospedale Al-Shifa e su ciò che sta accadendo lì intorno?
La rete è pessima, ma noi stiamo bene.
Uno dei miei cugini è riuscito a fuggire oggi [da Gaza City], ma il resto della sua famiglia è morto o non può uscire. Sua madre è paralizzata e lui è l’unico figlio. Lei gli ha detto di prendere i suoi figli e di fuggire. Non poteva trasportare sua madre
Sabato 12 novembre
Buonasera, come stai? Noi stiamo bene, grazie a Dio. È dalla mattina che cerco acqua e qualsiasi cosa da comprare. Sono riuscito a tornare solo poco fa, le strade erano terrificanti e non c’era praticamente nulla da comprare e quello che c’era era raddoppiato di prezzo.
Grazie a Dio, siamo riusciti a procurarci acqua, farina, una scatola di Prill [pastiglie per purificare l’acqua], un pacchetto di sigarette e dei pannolini.
Oggi il mio telefono era senza batteria. Ha piovuto per 5 secondi e poi non c’era il sole, quindi non abbiamo potuto caricare la batteria con l’energia solare.
Sorseggio la stessa tazza di caffè ogni poche ore, dalla mattina alla sera. Ci è permessa solo una tazza piccola al giorno.
Mia madre ha nascosto il sacchetto del caffè insieme alle chiavi di casa. Pagine Esteri
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Tecnocina: Il capo dei nerd
Per gentile concessione di add editore riproponiamo un estratto di Tecnocina, il libro in cui Simone Pieranni ripercorre la storia della Repubblica popolare dal 1949 fino ai giorni nostri, attraverso un intreccio di vicende affascinanti mai narrate prima al cui centro spiccano le storie di donne e uomini finora ignoti.
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In Cina e Asia – Cina, l’Oms osserva casi di polmonite batterica tra i bambini
Cina, picco di casi di polmonite batterica tra i bambini
Mar cinese meridionale: fregata cinese osserva le esercitazioni di Filippine e Usa
Pentagono: Usa ritardo di 4 anni sulla Cina
Il tribunale della Corea del Sud ordina al Giappone di risarcire le "comfort women”
Nepal: scontri tra polizia e manifestanti pro-ripristino della democrazia
Sri Lanka: sempre più famiglie sotto la soglia di povertà
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In Cina e Asia – Coree, salta l’accordo militare del 2018
Coree, salta l'accordo militare del 2018
Delegazione russa in Cina, Xi: "continuare le eterne relazioni di vicinato"
Pechino celebra i migliori giornalisti dell'anno sotto l'egida del pensiero di Xi Jinping
Cina, raro arresto nel mondo tech
Cina, morto il giornalista dissidente Sun Lin
Uruguay e Cina siglano patti di collaborazione in vista di un potenziale accordo di libero scambio
L'intelligence Usa sventa attentato a separatista Sikh
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Spagna: l’estrema destra esulta per Milei e tenta la spallata di piazza
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 23 novembre 2023 – Lo spoglio per le presidenziali argentine non si era ancora concluso che il leader dell’estrema destra spagnola Santiago Abascal è corso a complimentarsi con il leader de “La Libertad Avanza”, il turbocapitalista argentino Javier Milei. «Oggi si apre un cammino di futuro e speranza per gli argentini e per tutta l’Iberoamerica e noi in Spagna esultiamo con particolare allegria» ha scritto su X il presidente di Vox, aggiungendo «Viva la Spagna e viva l’Argentina libere dal socialismo e sovrane!».
Da tempo Vox ha intessuto relazioni privilegiate con l’estrema destra latinoamericana, in nome dell’anticomunismo e del contrasto alle forze popolari che negli ultimi anni hanno riconquistato il potere in alcuni paesi del Cono Sur.Ora Abascal spera che il trionfo del “loco” a Buenos Aires si trasformi in un’onda in grado di attraversare presto l’Atlantico per spazzare via il governo di Pedro Sánchez, appena confermato primo ministro dopo trattative durate 171 giorni.
«Sánchez dittatore»
Giunto secondo alle elezioni del 23 luglio, il leader socialista è riuscito a comporre una maggioranza in parlamento – 179 voti contro i 171 raggranellati dalle destre – ottenendo il sostegno dei nazionalisti baschi, catalani e galiziani. Per conquistare gli indispensabili voti degli indipendentisti di Esquerra Republicana e di Junts, il leader socialista ha dovuto promettere una legge per amnistiare circa 400 tra dirigenti politici e attivisti processati per il loro ruolo nella celebrazione del referendum per l’autodeterminazione della Catalogna del 2017. Poco importa che grazie al provvedimento cadranno le accuse anche nei confronti di decine di poliziotti sotto inchiesta per le violenze nei confronti degli elettori e dei manifestanti catalani. Per le destre spagnole quella di Sánchez è una duplice colpa intollerabile: governare nonostante la sconfitta alle elezioni nelle quali il PP è arrivato in testa, e grazie all’amnistia concessa ai “separatisti” che attenterebbe all’unità della patria e legittimerebbe nuove spinte indipendentiste.
E così contro Sánchez – che slogan, striscioni e cartelli definiscono “usurpatore”, “dittatore” e “vendipatria” – le piazze hanno cominciato a ribollire mesi fa, quando le trattative per la formazione del nuovo esecutivo erano ancora agli inizi e la legge per l’amnistia solo una bozza.
Quando il Partito Popolare e Vox hanno capito che in Parlamento non avrebbero trovato appoggi sufficienti a governare – dopo i no dei nazionalisti di centro-destra baschi e delle Canarie – hanno fatto appello alla spallata dalla piazza e hanno mobilitato i governi locali e i loro addentellati nello “stato profondo”.
Le piazze e le strade hanno cominciato a riempirsi molto gradualmente – con numeri a lungo non proprio esaltanti per due formazioni che insieme sommano il 45% dei voti – e man mano che si avvicinava il 16 novembre, quando Sánchez ha incassato la fiducia, la tensione è salita a livelli parossistici.
L’assedio alla sede del Psoe di Madrid
L’assedio ai socialisti
A farne le spese è stato anche il sovrano, Filippo VI, accusato di passività se non di complicità con i misfatti in corso alla Moncloa; per questo molti manifestanti hanno sventolato bandiere spagnole dalle quali era stato asportato, lasciando un consistente buco, lo stemma che raffigura i regni di Castiglia, Aragona, León, Navarra e Granada riuniti sotto il dominio spagnolo a partire dal XV secolo. I più fiduciosi, invece, si aspettano che il re non firmi la legge di amnistia nel caso dovesse passare l’esame delle camere.
Da quasi tre settimane migliaia di militanti delle formazioni di destra ed estrema destra, circondati da “elettori indignati” e da un’umanità quanto mai varia, assediano la sede statale del Partito Socialista a Madrid. In Calle Ferraz ogni sera va in scena un folkloristico ma non meno inquietante mix di complottismo, neofascismo, nostalgie franchiste, fondamentalismo cattolico e suggestioni trumpiane.
Nell’assedio convivono spezzoni diversi non sempre tra loro amichevoli. Si sono visti capannelli recitare “rosari per la salvezza della Spagna”; giovani palestrati scagliarsi contro i cordoni di polizia colpevoli di non unirsi alla sacra lotta contro i “nemici della Spagna”; pensionate in ghingheri inveire al grido di «Puigdemont (l’ex leader catalano attualmente in esilio) in prigione»; cinquantenni illustrare strampalate teorie negazioniste sul Covid e sul cambiamento climatico o denunciare i piani del governo per la sostituzione etnica.
Il fronte reazionario ha convocato molte altre manifestazioni, sia locali che nazionali. L’ultima e più numerosa ha riunito a Madrid, sabato scorso, più di 200 mila persone. Ma sono soprattutto gli assedi alle sedi socialiste, soprattutto a quella madrilena, a rappresentare il palcoscenico e la palestra dove le varie anime organizzate della protesta mostrano i muscoli e tentano di accrescere credibilità e consensi.
Santiago Abascal e Tucker Carlson a calle Ferraz
La regia di Vox
A mettersi abilmente in mostra è stato soprattutto Vox, presente in forze sia con i propri dirigenti nazionali e locali, sia con decine di sigle – a volte reali, spesso fantasma – utili a pescare in ambiti diversi e a dare la sensazione dell’espansione del partito in tutti i settori indignati dal ritorno dei “rossi” a braccetto con i “separatisti”. Seppure a malincuore e in netto ritardo, il leader dei Popolari Núñez Feijóo ha dovuto ad un certo punto prendere le distanze dalle intemperanze violente di parte della piazza, perdendo appeal e lasciando campo libero alla sua destra. E così Vox – pure indebolito dalle lotte intestine tra le diverse correnti – ha conquistato il proscenio, utilizzando abilmente alcune sue emanazioni per dare la sensazione di un partito che si mette a disposizione, al servizio di una protesta corale e spontanea della società civile e delle associazioni degli “spagnoli per bene” contro il «colpo di stato ordito da Sánchez».
Questa strategia ha quindi proiettato in primo piano “Revuelta”, che si definisce “movimento giovanile contro il separatismo, la corruzione, le politiche contro la famiglia”. Si tratta di una sigla finora sconosciuta e fantasma, che non è però difficile ricondurre proprio a Vox e ad altri soggetti dell’arcipelago reazionario interni o orbitanti attorno al partito di Abascal. Tra questi c’è “Plataforma 711” (dall’anno della conquista araba e islamica della penisola iberica), dedita prima alla vendita di merchandising identitario e poi ad animare un’associazione universitaria di ultradestra “vicina” a Vox. Altre sigle utilizzate, come la Fundación Disenso e la Fundación Danaes, invece, sono riconducibili direttamente ad Abascal, come d’altronde il sindacato “Solidaridad” che per il 24 novembre ha indetto nientemeno che uno “sciopero generale”, forte del suo 0,1% di rappresentatività tra i delegati dei lavoratori.
Neonazisti, franchisti, integralisti cattolici e complottisti
Attorno e dentro la rete intessuta da Vox si muovono, come detto, i membri dei circoli fondamentalisti cattolici ed evangelici e soprattutto i militanti dei gruppi e dei partiti esplicitamente neofascisti e neonazisti, a capo spesso delle curve calcistiche più violente e addestrati a menare le mani. Sono loro – insieme ai militanti più scalmanati di Vox – ad animare le serate in calle Ferraz innalzando bambole gonfiabili, cantando inni franchisti – il “Cara al sol” è il più gettonato – e inveendo contro “i froci” e i “traditori” al governo.
L’elenco di sigle, alcune delle possono contare su migliaia di militanti e su finanziatori generosi, è lunga. La più consistente è forse “Democracia Nacional”, che si ispira a Roberto Fiore e alla sua Forza Nuova ed ha velleità elettorali. Poi ci sono Hogar Social, che invece scimmiotta Casapound; i tradizionalisti cattolici omofobi e transfobici di Hazte Oír; i nostalgici delle varie Falangi; gli xenofobi di “España 2000″, esperti nel conquistare i finanziamenti pubblici; gli escursionisti di “FACTA”, ammiratori del Terzo Reich e di Alba Dorata; i suprematisti islamofobi di “Hacer Nación”. Tutti giocano le loro carte per emergere come forza egemone della “riscossa nazionale”, e alcuni di strappare a Vox consensi elettorali tali da permettergli di accedere alle istituzioni.
Non mancano, in piazza, militari e agenti di polizia. D’altronde subito dopo la fiducia accordata dalle Cortes a Sánchez, 51 ufficiali in congedo delle forze armate hanno esplicitamente invitato l’esercito spagnolo a destituire l’esecutivo per ristabilire la legalità; giorni prima non erano mancati i pronunciamenti contro il nuovo governo da parte di associazioni di magistrati e di agenti della Guardia Civil (la polizia militarizzata).
Santiago Abascal insieme a Javier Milei
La strategia trumpiana
A unificare e ad amplificare il caotico magma all’interno del quale si muovono le varie sigle e le varie correnti ideologiche, una strategia politica e comunicativa apertamente “trumpiana” (o “bolsonariana”) che descrive gli avversari di centro-sinistra e sinistra come nemici interni che si sarebbero impossessati illegittimamente del potere. Di qui i continui appelli a trasformare l’indignazione in mobilitazione, a cacciare gli usurpatori e ad occupare le sedi istituzionali.
Non a caso ai movimentati happening di calle Ferraz è stato invitato a partecipare anche l’ex anchorman di Fox News Tucker Carlson, grande amico di Abascal e tra i principali diffusori di fake news sui presunti brogli dei Democratici alle elezioni statunitensi del 2020.
Finora in Spagna non si è concretizzata la replica dell’occupazione del Campidoglio di Washington del 6 gennaio 2021 da parte della alt-right americana o del più recente assalto al Congresso nazionale di Brasilia. Eppure, per quanto la situazione politica e sociale spagnola differisca da quella di oltreoceano, il rischio di un’esplosione di violenza anche a Madrid non è trascurabile, al di là delle intenzioni dei principali organizzatori del “Noviembre Nacional”, come alcuni tra i promotori hanno definito il lungo assedio alla sede statale del PSOE. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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In Cina e in Asia – Oltre il 75% dei fondi esteri arrivati in Cina nel 2023 sono andati via
Oltre il 75% dei fondi esteri arrivati in Cina nel 2023 sono andati via
Gli uomini di Xi diventano sempre più importanti
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La Cina ha costruito il primo "comando near-space" al mondo
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Gaza, Xi: "Senza la soluzione dei due stati niente pace e stabilità”
Il presidente cinese interviene all'incontro virtuale dei Brics e articola la posizione cinese sul conflitto tra Israele e Hamas, mentre si conclude la visita della delegazione di paesi a maggioranza musulmana a Pechino. Al G20 virtuale indiano partecipa il premier Li Qiang
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Le deportazioni di massa dei rifugiati afghani dal Pakistan
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di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, Anabah, 21 novembre 2023 – Al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, le montagne continuano il racconto della terra in cielo. In questa stagione, le vette si uniscono al colore azzurro con un gesto leggero, che ne fa sbiadire i contorni rocciosi e le confonde con il celeste come in un cinguettio, come se nei millenni di sorveglianza alla frontiera la catena dell’Hindu Kush si fosse convertita alla lingua degli uccelli. Il ghiaccio in questa stagione colora le cime come la punta di un pastello sbriciolata da un temperino.
Le montagne dell’Hindu Kush si rincorrono per oltre 800 chilometri dalle regioni centro-occidentali dell’Afghanistan a quelle nord-orientali del Pakistan. Le più alte superano i 7.000 metri di altitudine – l’Himalaya non è troppo distante, con i suoi scalatori, le sue vertigini, gli scheletri seppelliti lungo i suoi crinali. Ottemperando per millenni al suo lavoro di reggere il cielo come un vestito, l’Hindu Kush ha di volta in volta svelato agli uomini riserve di lapislazzuli azzurri come i suoi ghiacci nella valle di Kowkchech, o di smeraldi nella valle del Panjshir, questo pozzo di luce dove mi trovo e dove sventolano le bandiere di Emergency dal 1999, o, ancora, ha fatto riaffiorare dalle sue radici i gioielli di Alessandro Magno, il re viaggiatore ossessionato dal superamento delle frontiere. La storia ha attraversato questi massicci con valichi e passi che permettessero in ogni direzione il movimento degli uomini, il contatto tra le culture, lo scambio delle merci, delle stoffe, delle spezie, delle lingue. Più che il tempo, è stata la guerra, come sempre, a logorarne tanti: durante l’occupazione militare del Paese a partire dal 2001, gli Stati Uniti sfruttarono molti di questi passi nella montagna per muovere i loro mezzi militari corazzati, rendendone molti, ancora oggi, inagibili.
Oltre che della natura montuosa, il confine tra Afghanistan e Pakistan è opera soprattutto del disegno degli uomini. Si chiama “linea Durand” la frontiera che per 2.640 km separa i due Paesi. Definita a tavolino alla fine dell’’800, aveva lo scopo di delimitare i territori della Corona Britannica in India da tutto quello che si trovava subito a nord, vale a dire un impero russo in espansione verso sud e verso gli sbocchi sul mare. Per frenarlo, quindi, l’allora emiro afghano fu convinto dagli ambasciatori britannici a ratificare questa frontiera. Si divisero ufficialmente, così, i due stati, con una barriera che, inutile dirlo, spaccava in due intere comunità pashtun.
In queste settimane, è lungo questa frontiera che si sta giocando la vita di quasi due milioni di profughi afghani.
Alla vigilia dell’inverno, due mesi fa, le autorità pakistane hanno, infatti, annunciato il nuovo piano di estradizione dal Paese degli immigrati illegali, in prima battuta dei rifugiati afghani senza documento di soggiorno, con un invito a lasciare il Pakistan entro il primo novembre. A partire da quella data, il Ministro degli Interni ha promesso che il governo avrebbe messo in campo tutti i mezzi per deportare i clandestini afghani rimasti. E, di fatto, è con estrema rapidità che la macchina dell’estradizione forzata si è messa in moto e, tra il 15 settembre e l’11 novembre, 327.000 profughi afghani sono già rientrati nel loro Paese d’origine, molti costretti anche sotto la minaccia dell’arresto, mentre un altro milione e settecentomila di loro rischia di affrontare lo stesso destino.
Per decenni, il Pakistan ha ospitato rifugiati dall’Afghanistan, in fuga dalla guerra, dalle persecuzioni o dalla miseria del loro Paese. Due ondate di migrazioni, in particolare, hanno segnato la diaspora afghana oltre il confine: la prima, nel 1979, ai tempi dell’occupazione sovietica del Paese. La seconda, che coinvolse almeno 800.000 persone, solo due anni fa, quando nell’agosto 2021 i talebani tornarono al potere, a seguito dell’uscita dal Paese delle forze internazionali che avevano occupato l’Afghanistan per oltre vent’anni e che adesso lo lasciavano in maniera caotica, con sagome di disperati aggrappati ai carrelli dei loro aerei di ritorno.
In tutto, il Pakistan sarebbe casa oggi per almeno 3.7 milioni di rifugiati afghani secondo le Nazioni Unite. Una popolazione che le autorità tengono a dividere in due sottogruppi: gli immigrati legali, ovvero i circa 1,3 milioni di rifugiati afghani regolarmente registrati, a cui si aggiungono altri 840.000 afghani in possesso di un altro tipo di documento che ne riconosca l’asilo, temporaneo o meno; e quelli, invece, illegali, che hanno attraversato la frontiera clandestinamente, percorrendo uno dei tanti passi che la traforano per il passaggio di treni merce e bestiame. Questi ultimi, nel giro di pochissimo tempo, sono finiti in cima alle agende del governo di Anwaar-ul-Haq Kakar con una sola risoluzione: la deportazione.
Non basta l’inverno imminente a fermare il piano di creare un improvviso popolo di due milioni di profughi rimpallati da un versante all’altro della frontiera. Profughi nel loro Paese. Per quanto anche questa definizione, per la grande maggioranza di questa massa di persone oggetto della discordia tra Aghanistan e Pakistan, sia inesatta: dal 1979 ad oggi, sono trascorsi 44 anni. Vale a dire una vita. Molti dei rifugiati che il governo pakistano vuole adesso rigettare indietro con un colpo di scopa sono nati in Pakistan, lì sono cresciuti, lì hanno frequentato la scuola, e magari ci si sono innamorati e vi hanno messo su una famiglia e una casa. Buona parte di loro non ha più nessun legame in Afghanistan, meno che mai con il nuovo-vecchio Paese amministrato dal governo de facto dei talebani.
Né l’Afghanistan sarebbe pronto a ricevere questa ondata di persone. La crisi umanitaria, per quanto lontana dai riflettori mediatici, continua a tenere quasi la totalità della popolazione, oltre 24 milioni di abitanti, sotto la soglia di povertà, e a rendere dipendente almeno la metà dall’assistenza internazionale, il cui intervento nel Paese, però, si è drasticamente ridotto dopo il ritorno dei talebani. I quali rigettano la politica pakistana di deportazione dei rifugiati, e annunciano, intanto, l’allestimento dei primi campi profughi transitori per fornire cibo e aiuto temporaneo ai deportati afghani.
Le tensioni tra i due Paesi si inaspriscono di giorno in giorno, ma il Pakistan non accetta intimidazioni e sembra sordo anche alle denunce della comunità internazionale: per il governo pakistano, i rifugiati afghani senza documento sono “un problema di sicurezza” da risolvere con urgenza. Secondo il Ministro degli Interni pakistano Sarfraz Bugti, dei 24 attentati suicidi avvenuti in Pakistan nell’ultimo anno, almeno 14 sarebbero riconducibili a residenti di nazionalità afghana. “Sono attacchi contro di noi da parte dell’Afghanistan e gli afghani sono coinvolti in questi attacchi. Ne abbiamo le prove”, avrebbe aggiunto. Accuse che l’autoproclamatosi Emirato Islamico dell’Afghanistan ha rigettato, dichiarando che l’Afghanistan non può essere colpevolizzato del “fallimento della sicurezza” di altri Paesi nella regione.
Quasi due milioni di persone sono diventate il pericolo da epurare per sbarazzarsi dallo spettro della violenza terroristica nel Paese. Al costo di incrinare definitivamente i rapporti politici ed economici con l’Afghanistan, ma con il beneficio di investire le deportazioni nella propaganda politica per le elezioni annunciate per il mese di febbraio 2024.
Da Ginevra, il 15 novembre scorso l’Alto Commissario per i Diritti Umani Volker Turk si è detto “allarmato” dai report che riferiscono gli abusi, i maltrattamenti, le detenzioni arbitrarie, la distruzione delle proprietà e delle estorsioni che stanno caratterizzando l’ondata di deportazioni condotte dal Pakistan contro i profughi afghani. L’obiettivo è, secondo molte testimonianze, quello di rendere la vita dei profughi afghani impossibile, così da costringerli con la forza a lasciare tutto affrontando il viaggio verso l’ignoto. Raid notturni, sequestro di gioielli e beni di prima necessità, fino alla chiusura di attività commerciali e all’arresto di rifugiati per ore o per giorni. Ferma è arrivata la condanna anche da parte della ONG Amnesty International, che ha chiamato il Pakistan a “fermare le deportazioni”.
“C’è un senso di paura nella comunità afghana, viviamo costantemente in ansia, sigilliamo le porte appena sentiamo le auto della polizia avvicinarsi”, ha raccontato Junaid in un report di Amnesty International.
“Migliaia di rifugiati afghani stanno venendo usati come pedine politiche”, ha denunciato Livia Saccardi, che per la ONG è Regional Director per l’Asia Meridionale, “per essere riportati nell’Afghanistan a guida talebana dove la loro vita e la loro integrità fisica potrebbe essere in pericolo, nel pieno di un crollo dei diritti umani e di una catastrofe umanitaria in corso. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a deportazioni forzate di massa, e il Pakistan dovrebbe ricordare bene i suoi obblighi secondo il diritto internazionale, incluso il principio di non-respingimento”.
Per agevolare le operazioni, il governo pakistano ha costruito 49 centri di detenzione, che preferisce definire “di transito”, con la possibilità di realizzarne di nuovi. Non esiste, tuttavia, un ordinamento legale che regolamenti la gestione dei centri. In almeno di sette di questi, sempre Amnesty ha potuto documentare la totale assenza del rispetto dei diritti umani come il diritto a un avvocato o di comunicare con i familiari, che spesso assistono alla scomparsa di un loro caro senza riceverne più notizie.
Una volta superato il confine, le prime vittime della deportazione sarebbero, poi, senza dubbio le donne e le bambine, strappate da un giorno all’altro alla possibilità di ricevere un’educazione e di avere un lavoro e una vita pubblica.
“Il Pakistan deve assicurare la protezione per gli individui che potrebbero affrontare persecuzioni, torture, maltrattamenti o altri irrimediabili rischi in Afghanistan”, ha dichiarato l’Alto Commissario Turk. “Questo include le donne e le bambine, gli ufficiali e il personale di sicurezza del precedente governo, le minoranze etniche e religione, gli attivisti per i diritti umani e della società civile e gli operatori mediatici”.
“Questi nuovi sviluppi sono un cambio di passo della lunga tradizione pakistana di accogliere, generosamente, rifugiati afghani in vasti numeri”, ha aggiunto Turk. Già tra il 2015 e il 2016, tuttavia, quando le relazioni politiche col governo afghano iniziavano a deteriorarsi, ai profughi afghani in Pakistan era spettato un destino molto simile, con raid e maltrattamenti denunciati da Human Rights Watch e minacce di deportazioni di massa, in molti casi andate a termine. Né i richiami dell’Onu o di Amnesty intimidiscono adesso il governo pakistano, che nella persona del Ministro dell’Informazione Jan Achakzai promette che “tutti i profughi afghani saranno deportati entro la fine di gennaio”.
Il Pakistan non è il solo, del resto, a volersi liberare degli immigrati afghani proprio nel cuore della stagione più fredda. Anche dall’Iran, più in sordina, nella sola scorsa settimana sarebbero stati rimpatriati circa 20.000 rifugiati.
In Afghanistan, intanto, un sole tardivo ancora riscalda, fino al tramonto, e le vette si imbiancano lentamente, una alla volta, come un presagio di futuro dal cielo. Ma il clima secco già spacca le mani e le labbra, e la notte il gelo arriva improvviso sul petto, come una coperta bagnata. La frontiera afghana si prepara incredula a venire attraversata migliaia di volte per consegnare all’inverno più cupo e al freddo più disperato i suoi antichi figli senza più una casa.
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In Cina e Asia – Crisi Medio Oriente, Pechino lavora con i player regionali
I titoli di oggi: Crisi Medio Oriente, Pechino lavora con i player regionali Xi chiede a Macron più investimenti in Cina Mar cinese meridionale, le Filippine propongono un codice di condotta senza la Cina Il nuovo leader argentino Milei minaccia di rivedere le relazioni con la Cina Insurrezione in Myanmar: stranieri e cooperanti trasferiti in territorio protetto Guerra Israele-Hamas: ...
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In Cina e Asia – Gaza, delegazione di paesi islamici a Pechino per fermare il conflitto
-Gaza, delegazione di paesi a maggioranza musulmana a Pechino per fermare il conflitto
-L'Apec chiude con la promessa di riformare l'Omc
-Cina, indagini a tappeto negli ospedali dopo lo scandalo del traffico di bambini
-Canada, uno dei "Due Michael" arrestati in Cina sostiene di essere stato usato per spiare la Corea del Nord
-L'Australia accusa la marina cinese di condotta "pericolosa e non professionale"
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La Germania si arma: “dobbiamo prepararci alla guerra”
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 20 novembre 2023 – Nei giorni scorsi il tribunale di Firenze ha riconosciuto la Germania colpevole di “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità” e ha condannato Berlino a risarcire i familiari di alcune vittime italiane delle forze di occupazione tedesche per crimini compiuti durante la Seconda Guerra Mondiale.
La giudice Susanna Zanda ha deciso un indennizzo di 50.000 euro a favore di Mirella Lotti, 88 anni, per l’assassinio del padre Giuliano Lotti, trucidato insieme ad altre 11 persone nella strage di Pratale compiuta il 23 luglio 1944. La giudice ha inoltre fissato un risarcimento di 25.000 euro, rivalutato con gli interessi a partire dal 1945, per Sergio e Katia Poneti, nipoti di Egidio Gimignani, che fu torturato e ucciso dai nazisti a Tavarnelle val di Pesa il 20 giugno 1944.
“La spina dorsale della sicurezza europea”
A distanza di 80 anni Berlino paga ancora le conseguenze del suo tradizionale militarismo, eppure il governo della Germania – che pure sta facendo i conti con la crisi economica più grave degli ultimi decenni – sta intraprendendo in queste settimane ulteriori passi verso la trasformazione delle sue forze armate in un esercito potente e pronto alla battaglia.
È un obiettivo che, tra stop and go, la Germania persegue da alcuni anni. Subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, nel marzo del 2022, il governo tedesco decise di destinare 100 miliardi di euro al rimodernamento delle sue forze armate, descritte da più parti come una “scatola vuota”.
Ma evidentemente lo stanziamento record di un anno e mezzo fa non è stato ritenuto sufficiente da Berlino che vuole fare di più e più in fretta.
«Oggi nessuno può seriamente dubitare della necessità (…) di una Bundeswehr potente» ha chiarito il 10 novembre il cancelliere tedesco Olaf Scholz partecipando ad una conferenza. La teoria del dirigente socialdemocratico è che «il nostro ordine di pace» sarebbe in pericolo; l’invasione russa dell’Ucraina obbligherebbe la Germania a trasformare il suo esercito in una forza combattente «potente e ben finanziata».
“Dobbiamo abituarci alla guerra in Europa”
«Dobbiamo riabituarci all’idea che in Europa possa esserci il pericolo di una guerra» ha dichiarato durante un’intervista rilasciata all’emittente tv “Zdf” il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius. «Solo una Bundeswehr forte può impedire che accada il peggio» ha aggiunto chiarendo poi: «Abbiamo bisogno di una Bundeswehr che possa difendersi e fare la guerra per difendere la nostra sicurezza e la nostra libertà. Con la Zeitenwende (com’è stato ribattezzato il “grande cambiamento”, ndr) la Germania diventa un Paese adulto in termini di politica di sicurezza».
La nuova dottrina militare tedesca – che sostituisce quella varata nel 2011 – è riassunta in un documento di 19 pagine intitolato “Linee guida per la politica della difesa” redatto da Pistorius e dal capo di Stato maggiore dell’esercito, generale Carsten Breuer, nel quale si afferma: «La guerra è tornata in Europa. La Germania e i suoi alleati devono ancora una volta fare i conti con una minaccia militare. L’ordine internazionale è sotto attacco in Europa e nel mondo. Viviamo a un punto di svolta».
«Come Stato e come società abbiamo trascurato per decenni la Bundeswehr» recita il testo, dimenticando che furono le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale a imporre a Berlino – così come al Giappone– una Costituzione pacifista per impedire al paese di riarmarsi e di diventare nuovamente una minaccia per la pace.
Il nemico è la Russia (e la Cina)
Il documento strategico indica esplicitamente il nemico – «La Federazione Russa rimarrà la più grande minaccia alla pace e alla sicurezza nell’area euro-atlantica» – ma cita anche la lontana Cina, accusata di «rivendicare in modo sempre più aggressivo la supremazia regionale».
Sembrano passati secoli da quando Berlino considerava Mosca un partner strategico non solo per l’approvvigionamento degli idrocarburi ma anche per la costruzione di un ordine internazionale euro-asiatico stabile.
Ora la nuova dottrina punta alla riduzione delle missioni all’estero – che Berlino aveva intrapreso con entusiasmo negli anni scorsi, alla ricerca di un ruolo e di una proiezione militare internazionale inediti dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale – per concentrarsi sul potenziamento delle proprie forze armate. Per sostenere l’esercito, il governo composto da socialdemocratici, verdi e liberali promette di rafforzare l’industria militare e di accelerare gli appalti militari. «L’azione centrale è il superamento della lentezza organizzativa e burocratica che da anni rallenta le truppe» ha spiegato il cancelliere. Per Pistorius e Breuer occorre rafforzare sia la cooperazione nel settore degli armamenti sia le esportazioni di materiale bellico, puntando in particolare sull’area dell’Indo-Pacifico così da «contenere le ambizioni politiche della Cina (…) che contraddice sempre più i valori e gli interessi» della Germania.
Evoluzione della spesa militare in Germania
Aumenta la spesa militare
Per dotarsi di un esercito “pronto alla guerra” la Germania ha deciso di aumentare la propria spesa militare portandola al 2% del Pil, come richiesto esplicitamente dal Patto Atlantico. «Garantiremo questo 2% a lungo termine, per tutti gli anni ’20 e ’30», ha promesso Scholz.
Come altri paesi della Nato – eclatante è il caso della Polonia – o del sistema di alleanze incentrato su Washington – come nel caso del Giappone– il comparto militare sta risucchiando sempre più risorse, sottratte ovviamente alla spesa sociale, al contrasto del cambiamento climatico, alla lotta contro le diseguaglianze.
Il 20 ottobre il ministero della Difesa tedesco ha informato che il prossimo anno saranno messi a disposizione del comparto già 71 miliardi tra bilancio ordinario e fondo speciale. In un’intervista al quotidiano “Handelsblatt”, Pistorius si è vantato del fatto che il suo dicastero è l’unico ad aver ricevuto un «incremento significativo» di risorse nel bilancio del 2024. Per soddisfare l’obiettivo del 2%, però, le spese per il comparto militare dovranno aumentare dai 50 miliardi attuali a 75 l’anno, perché il “fondo speciale” di 100 miliardi istituito lo scorso anno si esaurirà entro il 2027.
A ottobre la commissione Bilancio del Bundestag ha approvato l’acquisto del sistema di difesa aerea “Arrow 3” prodotto da Israele e dalla statunitense Boeing, per un costo di circa 4 miliardi, e di 4 droni sottomarini.
Entro il 2025 il governo tedesco si è dato l’obiettivo di formare una divisione armata e addestrata al combattimento da mettere a disposizione della Nato. Berlino dovrebbe poi inviare in Lituania una brigata di 4000 uomini, come promesso all’Alleanza Atlantica, ma il suo allestimento è in forte ritardo ed ha rivelato i “gravi problemi strutturali” delle forze armate che Scholz e Pistorius di sono impegnati a superare il prima possibile.
Nel governo Scholz si discute inoltre del ristabilimento di una certa forma di leva obbligatoria – abolita solo nel 2011 – per avere a disposizione un numero più alto di cittadini da mobilitare in caso di crisi bellica.
La competizione con Parigi
Berlino aspira esplicitamente a diventare “la spina dorsale” della difesa europea, mirando ad affiancare gli Stati Uniti all’interno della Nato ed entrando in competizione sul piano militare con Parigi, mentre per decenni si è accontentata di lasciare alla Francia la preminenza militare concentrandosi sullo sviluppo economico.
Recentemente il governo Scholz ha annunciato il raddoppio degli aiuti militari all’Ucraina (che pure è responsabile del sabotaggio del gasdotto Nord Stream) portandoli da 4 a 8 miliardi di euro. Dal 24 gennaio 2022, il governo tedesco ha impegnato 17 miliardi in aiuti militari a Kiev; si tratta di una cifra rilevante, che svetta rispetto ai 7 miliardi stanziati dal Regno Uniti e ai soli 500 milioni della Francia, potendo competere con i 42 degli Stati Uniti. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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La Cina e la crisi a Gaza: tra derive "antisemite” e ambizioni globali
Dall’attacco del 7 ottobre la Cina ha cercato di proporsi come un interlocutore super partes tra Palestina e Israele, vantando buoni rapporti un po’ in tutto il Medio Oriente. Oltre il linguaggio felpato della diplomazia, occorre però notare l’esistenza di impercettibili chiaroscuri. Il dibattito online e sui media statali si rivela molto utile per cogliere le sfumature della postura cinese
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Taiwan Files – Salta l’annuncio del candidato d’opposizione
Sabato 18 novembre doveva essere il giorno dell'annuncio del candidato unitario dell'opposizione dialogante con Pechino per le presidenziali di gennaio. L'annuncio non è mai arrivato, perché il Taiwan People's Party di Ko Wen-je non ha accettato il "margine d'errore" dei sondaggi d'opinione inizialmente concordato con il Guomindang. C'è tempo fin a venerdì 24 per depositare le candidature, ma ricucire appare complicato. Il Dpp sorride e aspetta, senza accordo Lai Ching-te è strafavorito. Incognita sul terzo (quarto?) incomodo Gou Taiming. Appendice sul summit Biden-Xi visto da Taiwan. Puntata speciale della rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
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Il "grande gioco” di Guadalcanal
Dall'epica battaglia iniziata ottantuno anni fa ai giochi del Pacifico. La geografia non cambia: Guadalcanal (e quindi l'arcipelago delle Isole Salomone) resta una dei siti più strategici del Pacifico.
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AGGIORNAMENTI. GAZA. L’Oms: evacuati 32 neonati dallo Shifa ormai “zona della morte”
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AGGIORNAMENTI 19 NOVEMBRE
ORE 14
L’Organizzazione Mondiale della Sanità e le Nazioni Unite hanno evacuato 32 neonati prematuri dall’ospedale Al-Shifa. Quattro bambini sono morti nei giorni scorsi a causa della mancanza di corrente per le incubatrici. Nell’ospedale restano 25 membri del personale medico e 291 pazienti, due dei quali in terapia intensiva senza ventilazione e 22 sottoposti a dialisi.
Negli ultimi due o tre giorni si sono verificati diversi decessi a causa dell’interruzione forzata dell’assistenza medica.
Ieri un team dell’OMS ha visitato l’ospedale per valutare la situazione e lo ha descritto come una “zona della morte”. Ha potuto però trascorrere solo un’ora all’interno dello Shifa a causa delle restrizioni imposte dall’esercito israeliano che da giorni occupa l’ospedale. Ha riferito tra le altre cose che i corridoi dell’ospedale sono pieni di rifiuti con il rischio di infezioni.
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AGGIORNAMENTI 18 NOVEMBRE
ORE 21.30
Il ministero della sanità a Gaza ha aggiornato a 64 il numero dei palestinesi uccisi nell’attacco aereo su Khan Yunis.
Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) ha dichiarato di aver ricevuto immagini e filmati “terribili” di decine di palestinesi uccisi e feriti nell’attacco israeliano alla scuola Al Fakhoura nel nord di Gaza. “Questi attacchi non possono diventare un luogo comune, devono finire. Un cessate il fuoco umanitario non può più aspettare”, ha affermato Lazzarini.
Hamas comunica di aver perduto contatto con i suoi uomini responsabili per la sorveglianza degli ostaggi israeliani e stranieri.
Il premier israeliano Netanyahu ha ribadito che le pressioni internazionali non fermeranno Israele e che l’offensiva a Gaza andrà avanti. Ha anche sminuito le notizie che vorrebbero imminente uno scambio tra ostaggi e prigionieri politici palestinesi.
Ore 13.20
Israele bombarda la scuola ONU Fakhoora, nel nord di Gaza, utilizzata come rifugio da centinaia di persone. Le immagini mostrano un grande numero di vittime tra cui molti bambini.
pagineesteri.it/wp-content/upl…
Ore 12.30
L’ospedale al-Shifa di Gaza è stato quasi completamente evacuato dopo l’ordine che medici e pazienti dichiarano di aver ricevuto dai militari israeliani. L’esercito ha poi negato di aver imposto l’evacuazione ma al momento controlla completamente l’ospedale quasi deserto. All’interno solo qualche medico, i pazienti più gravi, tra i quali i neonati prematuri sopravvissuti e i loro familiari.
Pazienti e sfollati che vi avevano trovato rifugio si stanno spostando a piedi verso sud, secondo le indicazioni che ritengono gli siano state date da Israele. Tuttavia, al Jazeera ha fatto sapere che testimoni oculari hanno dichiarato di aver trovato, lungo la strada principale, indicata come via di evacuazione sicura da Israele, i checkpoint dell’esercito che permetterebbe solamente alle donne di passare e tratterrebbe al nord tutti gli uomini.
della redazione
(foto di archivio, commons.wikimedia)
Pagine Esteri, 18 novembre 2023 – La tv al Jazeera riporta che l’esercito israeliano ha intimato a staff medico, pazienti e sfollati nell’al Shifa di Gaza city di evacuare l’ospedale entro un’ora. L’agenzia di stampa palestinese Wafa aggiunge che 26 persone sono state uccise durante la notte in un attacco israeliano a edifici di Khan Younis nel sud di Gaza. In Cisgiordania cinque palestinesi sono stati uccisi la scorsa notte in un attacco di droni israeliani nel campo profughi di Balata, contro una edificio usato dalle Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Fatah).
Queste notizie giungono mentre lancia Israele lancia un nuovo avvertimento ai palestinesi della città meridionale di Khan Younis affinché si allontanino subito verso Ovest, indicando così l’intenzione di attaccare nel sud dopo aver già occupato il nord. Una mossa del genere potrebbe costringere centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti a sud dall’assalto israeliano a Gaza City a fuggire nuovamente, insieme ai residenti di Khan Younis, una città di oltre 400.000 abitanti, peggiorando una terribile crisi umanitaria.
Un portavoce militare ha detto che le truppe israeliane dovranno avanzare su Khan Yunis “per cacciare i combattenti di Hamas dai tunnel sotterranei e dai bunker”.
Israele ha bombardato gran parte di Gaza city riducendola in macerie e ordinato lo sfollamento dell’intera metà settentrionale di Gaza lasciando senza casa circa due terzi dei 2,3 milioni di palestinesi della Striscia. Uno sfollamento che potrebbe diventare permanente.
Ieri le autorità sanitarie di Gaza hanno aumentato il bilancio dei palestinesi uccisi a oltre 12.000, 5.000 dei quali bambini. Le Nazioni Unite ritengono credibili queste cifre, anche se ora vengono aggiornate raramente a causa della difficoltà di raccogliere informazioni. Pagine Esteri
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AGGIORNAMENTI. GAZA. L’Oms: evacuati 32 neonati dallo Shifa ormai “zona della morte”
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AGGIORNAMENTI 19 NOVEMBRE
ORE 16.30
Fonti giornalistiche di Gaza affermano che sono almeno 15 gli uccisi dai nuovi massicci raid aerei israeliani sui sobborghi a est e a nord est di Gaza city, in particolare a Jabaliya e Zeitun, dove l’esercito dello Stato ebraico ha lanciato un”altra offensiva nelle ultime 24 ore. Queste vittime vanno ad aggiungersi alle decine di morti e feriti nei bombardamenti di ieri sulla scuola dell’agenzia Unrwa (Onu) “Al Fakhoura” e sulla città di Khan Yunis. Il commissario generale dell’Unrwa, Philippe Lazzarini ha denunciato che sono circa 200 i civili rimasti uccisi sino ad oggi nelle scuole e nei centri della sua agenzia dove avevano cercato rifugio dai bombardamenti aerei.
ORE 14
L’Organizzazione Mondiale della Sanità e le Nazioni Unite hanno evacuato 32 neonati prematuri dall’ospedale Al-Shifa. Quattro bambini sono morti nei giorni scorsi a causa della mancanza di corrente per le incubatrici. Nell’ospedale restano 25 membri del personale medico e 291 pazienti, due dei quali in terapia intensiva senza ventilazione e 22 sottoposti a dialisi.
Negli ultimi due o tre giorni si sono verificati diversi decessi a causa dell’interruzione forzata dell’assistenza medica.
Ieri un team dell’OMS ha visitato l’ospedale per valutare la situazione e lo ha descritto come una “zona della morte”. Ha potuto però trascorrere solo un’ora all’interno dello Shifa a causa delle restrizioni imposte dall’esercito israeliano che da giorni occupa l’ospedale. Ha riferito tra le altre cose che i corridoi dell’ospedale sono pieni di rifiuti con il rischio di infezioni.
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AGGIORNAMENTI 18 NOVEMBRE
ORE 21.30
Il ministero della sanità a Gaza ha aggiornato a 64 il numero dei palestinesi uccisi nell’attacco aereo su Khan Yunis.
Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) ha dichiarato di aver ricevuto immagini e filmati “terribili” di decine di palestinesi uccisi e feriti nell’attacco israeliano alla scuola Al Fakhoura nel nord di Gaza. “Questi attacchi non possono diventare un luogo comune, devono finire. Un cessate il fuoco umanitario non può più aspettare”, ha affermato Lazzarini.
Hamas comunica di aver perduto contatto con i suoi uomini responsabili per la sorveglianza degli ostaggi israeliani e stranieri.
Il premier israeliano Netanyahu ha ribadito che le pressioni internazionali non fermeranno Israele e che l’offensiva a Gaza andrà avanti. Ha anche sminuito le notizie che vorrebbero imminente uno scambio tra ostaggi e prigionieri politici palestinesi.
Ore 13.20
Israele bombarda la scuola ONU Fakhoora, nel nord di Gaza, utilizzata come rifugio da centinaia di persone. Le immagini mostrano un grande numero di vittime tra cui molti bambini.
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Ore 12.30
L’ospedale al-Shifa di Gaza è stato quasi completamente evacuato dopo l’ordine che medici e pazienti dichiarano di aver ricevuto dai militari israeliani. L’esercito ha poi negato di aver imposto l’evacuazione ma al momento controlla completamente l’ospedale quasi deserto. All’interno solo qualche medico, i pazienti più gravi, tra i quali i neonati prematuri sopravvissuti e i loro familiari.
Pazienti e sfollati che vi avevano trovato rifugio si stanno spostando a piedi verso sud, secondo le indicazioni che ritengono gli siano state date da Israele. Tuttavia, al Jazeera ha fatto sapere che testimoni oculari hanno dichiarato di aver trovato, lungo la strada principale, indicata come via di evacuazione sicura da Israele, i checkpoint dell’esercito che permetterebbe solamente alle donne di passare e tratterrebbe al nord tutti gli uomini.
della redazione
(foto di archivio, commons.wikimedia)
Pagine Esteri, 18 novembre 2023 – La tv al Jazeera riporta che l’esercito israeliano ha intimato a staff medico, pazienti e sfollati nell’al Shifa di Gaza city di evacuare l’ospedale entro un’ora. L’agenzia di stampa palestinese Wafa aggiunge che 26 persone sono state uccise durante la notte in un attacco israeliano a edifici di Khan Younis nel sud di Gaza. In Cisgiordania cinque palestinesi sono stati uccisi la scorsa notte in un attacco di droni israeliani nel campo profughi di Balata, contro una edificio usato dalle Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Fatah).
Queste notizie giungono mentre lancia Israele lancia un nuovo avvertimento ai palestinesi della città meridionale di Khan Younis affinché si allontanino subito verso Ovest, indicando così l’intenzione di attaccare nel sud dopo aver già occupato il nord. Una mossa del genere potrebbe costringere centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti a sud dall’assalto israeliano a Gaza City a fuggire nuovamente, insieme ai residenti di Khan Younis, una città di oltre 400.000 abitanti, peggiorando una terribile crisi umanitaria.
Un portavoce militare ha detto che le truppe israeliane dovranno avanzare su Khan Yunis “per cacciare i combattenti di Hamas dai tunnel sotterranei e dai bunker”.
Israele ha bombardato gran parte di Gaza city riducendola in macerie e ordinato lo sfollamento dell’intera metà settentrionale di Gaza lasciando senza casa circa due terzi dei 2,3 milioni di palestinesi della Striscia. Uno sfollamento che potrebbe diventare permanente.
Ieri le autorità sanitarie di Gaza hanno aumentato il bilancio dei palestinesi uccisi a oltre 12.000, 5.000 dei quali bambini. Le Nazioni Unite ritengono credibili queste cifre, anche se ora vengono aggiornate raramente a causa della difficoltà di raccogliere informazioni. Pagine Esteri
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In Cina e Asia – APEC: Xi annuncia nuove aperture ai capitali stranieri
APEC: Xi annuncia nuove aperture ai capitali stranieri
Gli Stati Uniti rinnovano l'impegno a inviare armi a Taiwan
Von der Leyen spinge sul pedale del de-risking
Pechino: intelligenza artificiale rischio per la sicurezza nazionale
Le restrizioni Usa minacciano il cloud computing di Alibaba e Tencent
La crisi immobiliare cinese non accenna a finire
Pianificatore statale cinese intende attrarre nuovi investimenti stranieri
Cina e Giappone annunciano la creazione di un nuovo quadro per il dialogo commerciale
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Com’è andato il summit tra Xi e Biden
Raggiunti i risultati previsti, tranne che sull'intelligenza artificiale. La distanza maggiore resta quella su Taiwan, ma il tono del confronto è più che cordiale. Una piccola ombra dalla conferenza stampa del leader americano, mentre quello cinese incontra Musk, Cook e i vecchi amici dell'Iowa
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In Cina e in Asia: Xi a Biden: "Il mondo è abbastanza grande per il successo di Cina e Usa”
I titoli di oggi: Xi a Biden: “Il mondo è abbastanza grande per il successo di Cina e Usa” Cina e Usa lanciano un gruppo di lavoro sulla cooperazione climatica Gli Stati Uniti ribadiscono il sostegno alle Filippine nel vertice sulla Difesa dell’ASEAN Tre “pilastri” dei colloqui dell’IPEF sono stati completati Xiaomi mostra il suo primo veicolo elettrico Apre il ...
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Dialoghi – Finché pietà filiale non ci separi: chi si prende cura degli anziani in Cina?
Mentre si alza l'età media dei cinesi, sono ancora tante le sfide da affrontare nell’assistenza agli anziani, in un panorama fatto di incentivi ma anche di pressioni per le famiglie della “Nuova era”.
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CISGIORDANIA. La guerra non dichiarata di esercito e coloni israeliani
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 15 novembre 2023. Poco lontani dalle bombe e dai combattimenti di Gaza, i 2,8 milioni di palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata non sono immuni dalle conseguenze della guerra cominciata il 7 ottobre con l’attacco di Hamas che ha causato circa 1.400 morti israeliani.
Nonostante la popolazione palestinese vivesse già prima sotto il rigido israeliano, negli ultimi 40 giorni le Nazioni Unite così come le principali associazioni per i diritti umani e ONG che operano nei Territori, hanno registrato un rapido e allarmante peggioramento delle condizioni di vita. Una tendenza, peraltro, già documentata negli ultimi 10 mesi, da quando è stato formato il governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu, ma precipitata nelle ultime settimane, tra uccisioni, arresti, raid, distruzioni, espulsioni.
La Cisgiordania, chiamata anche West Bank, è territorio palestinese occupato da Israele dal 1967. È governato dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), la cui leadership, al momento, è aspramente criticata da molti palestinesi. In realtà l’ANP controlla solo in parte e solo alcuni degli aspetti della vita quotidiana dei cittadini, tutti, invece, inderogabilmente influenzati dall’occupazione israeliana.
Il territorio, ampio meno di 6.000 chilometri quadrati, è diviso in 3 diverse zone: A, B e C. Nella zona A, circa il 18% della Cisgiordania, l’Autorità nazionale palestinese ha il controllo civile e della sicurezza, nell’area B, che rappresenta il 22% circa del territorio, l’ANP gestisce solo l’amministrazione civile mentre Israele controlla la sicurezza, quella C, il 60% della terra, è interamente amministrata e controllata da Israele.
In realtà, anche nelle aree in cui è previsto il controllo palestinese, la politica, l’esercito e la presenza israeliana regolano la quotidianità dei cittadini, dagli spostamenti all’utilizzo delle risorse, alla sicurezza, gestita a volte in maniera congiunta con l’ANP, secondo i molto criticati accordi di collaborazione.
Israele negli anni ha costruito in Cisgiordania un numero sempre crescente di colonie, trasferendo all’interno del territorio palestinese circa 500.000 israeliani. La politica di ampliamento delle colonie è uno dei capisaldi di tutte le amministrazioni israeliane, le quali hanno da sempre ignorato gli appelli, seppure provenienti da governi amici come quello degli Stati Uniti di America, a fermarne la costruzione e l’espansione. Gli insediamenti, la maggior parte dei quali presenti nella zona C, sono illegali per il diritto internazionale, le Nazioni Unite e i governi stranieri, compresi quelli occidentali, che non li riconoscono.
Colonia israeliana. Foto di Eliana Riva
Sono state inoltre fabbricate infrastrutture e strade di collegamento che scorrono sempre all’interno del territorio palestinese ma che sono, molte di esse, accessibili solo agli israeliani. Queste infrastrutture, insieme alle colonie e al muro di separazione, spezzettano la Cisgiordania, chiusa in una rete di “divieti di accesso” per i palestinesi i quali sono spesso costretti, per aggirare le zone proibite, a percorrere chilometri raggiungendo luoghi vicini solo pochi metri.
Il muro che Israele ha costruito nel territorio palestinese, a vederlo dall’alto pare un lungo serpente impazzito, che gira su se stesso, torna dietro, si attorciglia non per dividere la Palestina da Israele ma per separare la Palestina dalla Palestina e i palestinesi dai palestinesi.
E poi ci sono i checkpoint. Centinaia. E per passare c’è bisogno dei permessi, il cui rilascio è stabilito insindacabilmente da Israele, che quindi regola e decide i movimenti delle persone e dei beni in territorio palestinese.
Con la formazione dell’ultimo governo Netanyahu, il IV, dopo le elezioni del 22 dicembre 2022, il movimento dei coloni, molto forte in Israele, in grado di esercitare una pressione politica impossibile da ignorare, ha trovato una propria diretta rappresentanza tra i membri del parlamento e alcuni ministri, come il suprematista ebraico Ben Gvir. Già prima del 7 ottobre si moltiplicavano gli attacchi dei coloni ai villaggi palestinesi, come quello estremamente violento del 27 febbraio a Huwara, dove, in una rappresaglia di massa, è stato ucciso un palestinese e sono stati date alle fiamme decine di automobili e di abitazioni. L’esercito israeliano, solitamente, non interviene per fermare i coloni, che godono di una speciale autonomia e dispensa legale consuetudinaria. Neanche quando attaccano i coltivatori palestinesi, estirpando e bruciando gli olivi. Provocazioni e attacchi di questo tipo sono andati avanti per mesi, impossibili da frenare, se non mettendo in serio pericolo la tenuta del governo.
Eppure, dal 7 ottobre, gli attacchi dei coloni sono raddoppiati. Appena pochi giorni dopo il sanguinoso attacco di Hamas, quando i bombardamenti su Gaza erano solo all’inizio, Ben Gvir distribuiva pistole e fucili ai coloni, invitandoli ad utilizzarli contro i palestinesi. Cosa che hanno fatto, uccidendo fino ad ora almeno 8 persone sulle quasi 200 ammazzate in Cisgiordania in questi 40 giorni, il bilancio peggiore degli ultimi venti anni. I coloni spesso indossano divise militari, costruiscono barriere per impedire ai contadini di raggiungere le terre che coltivano, irrompono nei villaggi palestinesi picchiando e minacciando i residenti, intimandogli di ad andar via se vogliono salva la vita. Secondo le Nazioni Unite la violenza ha raggiunto livelli senza precedenti, con attacchi mai visti negli ultimi 15 anni. L’Unrwa, l’agenzia ONU che si occupa dei profughi palestinesi, ha fatto sapere che i raid dei coloni e le restrizioni di movimento hanno causato l’espulsione di più di 800 palestinesi dall’inizio della guerra. L’obiettivo dichiarato del movimento dei coloni è quello di occupare tutta la terra della Palestina storica (qualcuno vorrebbe allargarsi poi verso il Libano e la Siria), eliminando la presenza palestinese.
Dal 7 ottobre si sono moltiplicati in Cisgiordania anche i raid dell’esercito israeliano. In media circa 40 al giorno. Soprattutto a Jenin, storica roccaforte della resistenza palestinese. Anche se all’inizio di luglio Israele aveva già lanciato, nel campo profughi, una enorme operazione militare, la più grande degli ultimi 20 anni, con l’utilizzo di droni e tecnologie avanzate, lasciando 12 palestinesi uccisi e il campo profughi devastato.
Le devastazioni provocata dalle incursioni, in effetti, sono sensibilmente aumentate. Anche a Tulkarem, sempre nella Cisgiordania occupata, dove proprio ieri l’esercito è entrato, uccidendo 7 palestinesi. Sono stati utilizzati mezzi pesanti per distruggere le strade, creando solchi profondi nell’asfalto, danneggiando la rete idrica e quella elettrica. I bulldozer hanno persino abbattuto un monumento a Yasser Arafat, lo storico leader palestinese con il quale il premier israeliano Yitzhak Rabin firmò gli Accordi di Oslo nel 1993. Paradossalmente, la configurazione della Cisgiordania di oggi è figlia proprio di quegli accordi, così come la collaborazione tra l’ANP e Israele sulla sicurezza.
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La repressione si manifesta anche con l’aumento esponenziale del numero degli arresti tra i palestinesi della Cisgiordania, 2.650 dal 7 ottobre, compresi leader politici, studenti universitari, attivisti per i diritti umani, attrici. Solo nell’ultima notte sono stati 78 i palestinesi arrestati nella West Bank, incluse 17 studentesse universitarie di Hebron. I fermati provengono spesso da Ramallah, Jenin, Betlemme, Nablus. I palestinesi, trattenuti sempre più di frequente con il metodo della detenzione amministrativa, senza accuse formali, sono spesso vittime di pestaggi, violenze e torture, secondo le organizzazioni che si occupano di diritti umani: subiscono gravi percosse e umiliazioni, costretti a inginocchiarsi, a volte completamente nudi e con la testa bendata, e a cantare canzoni israeliane.
C’è poi la grave situazione dei palestinesi originari di Gaza con permessi di lavoro in Israele, 21.000 prima della guerra. A migliaia sono stati arrestati dopo il 7 ottobre e cacciati da Israele. Sono stati lasciati ai posti di blocco all’ingresso delle principali città della Cisgiordania e vivono ammassati nelle palestre e locali pubblici. Ne sono circa 3.000 e l’esercito israeliano li tiene sotto controllo, lontani da casa, sottoposti a continui rastrellamenti.
Dal 7 ottobre gli spostamenti sono divenuti estremamente più complicati per i palestinesi, le città del nord della Cisgiordania sono tenute completamente separate da quelle del sud.
I negozi chiusi di Shuhada Street, nella zona H2 di Hebron. Foto Eliana Riva
A Hebron la zona H2 è diventata una prigione: le 750 famiglie che ci vivono sono chiuse nelle proprie case, non possono ricevere visite e hanno il permesso di uscire, se ai checkpoint i militari israeliani glielo consentono, tre giorni a settimana, per un’ora al mattino e una alla sera. La guerra non dichiarata ai palestinesi della Cisgiordania, fa parte, con ogni probabilità di quella “risposta israeliana all’attacco di Hamas” che, secondo le promesse di Nethanyahu intende “cambiare il Medio Oriente”.
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In Cina e Asia – Gaza, inviato cinese condanna la posizione dell’Ue
I titoli di oggi: Gaza, inviato cinese condanna la posizione dell’Ue La Cina realizza “in house” la rete internet più veloce la mondo Cina, continua la campagna anticorruzione: record per il 2023 Corea del Sud, servizi segreti accusano Pechino della disinformazione nel paese Cina, il vescovo di Pechino in visita a Hong Kong solleva timori sull’indipendenza religiosa Cina, nuovo caso ...
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Xi a San Francisco da Biden ma anche dagli amici dell’Iowa
Il presidente cinese torna negli Usa dopo oltre 6 anni. Ecco che cosa c'è nella sua agenda. Ma al summit Apec si muove anche altro: dal possibile incontro col premier giapponese Kishida alla visita del filippino Marcos al comando del Pacifico dell'esercito americano
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Taiwan Files – Elezioni 2024: candidati allo scoperto
Tutte le novità sulle elezioni presidenziali e legislative di gennaio 2024. Morris Chang al summit Apec. Manovre militari e diplomatiche. Israele-Gaza e comunità musulmana a Taiwan. I diari di Chiang Kai-shek. La rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
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In Cina e Asia – Pechino condanna le affermazioni di Israele sull’atomica
Pechino condanna le affermazioni di Israele sull’atomica Crea: “La Cina ridurrà le emissioni di carbonio nel 2024” Ombre cinesi sul ritorno di Cameron agli Esteri La Lituania vuole normalizzare i rapporti con la Cina Sicurezza e Pacifico: l’Australia sigla accordo con Tuvalu Corea del Nord: Stati Uniti e Corea del Sud rivedono la strategia di deterrenza Indonesia e Usa lanciano ...
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In Cina e Asia – Sullivan: "Biden chiederà a Xi di ristabilire i contatti militari”
Sullivan: "Biden chiederà a Xi di ristabilire i contatti militari"
Cina, lanciato nuovo organo per combattere i rischi finanziari nell'industria IT
Meta torna in Cina dopo 14 anni (ma solo per vendere hardware)
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Belt and road – Gli e-book di China Files n°23
È disponibile il nuovo e-book di China Files dedicato alla Belt and Road Initiative, l'ambiziosa iniziativa lanciata da Xi e che quest'anno compie 10 anni. Un progetto che, alla luce delle esperienze passate viene rilanciato e si prepara a entrare in una "nuova fase"
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Ucraina: per Zelensky è l’ora più difficile
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 10 novembre 2023 – Per Volodymyr Zelensky sembra essere arrivata l’ora più difficile. Il conflitto con la Russia si è visibilmente impantanato e nonostante l’enorme sforzo profuso dalle forze armate ucraine l’inverno ormai è alle porte e la controffensiva che avrebbe dovuto sbloccare la situazione ha prodotto risultati assai scarsi e a costo di enormi perdite, umane ed economiche.
Come dimostrano le dichiarazioni di Giorgia Meloni al “comico” russo fattosi passare per il dirigente dell’Unione Africana, anche i più caldi sostenitori europei di Kiev sono ormai stanchi di investire risorse infinite per finanziare la guerra contro Mosca, continuando a subire i contraccolpi economici e commerciali causati dalle sanzioni imposte alla Federazione Russa. In molti, al di là delle dichiarazioni di facciata, sono in attesa che un qualche evento permetta loro di sfilarsi dalla “guerra di civiltà” proclamata contro Vladimir Putin per tornare a far girare l’economia.
Il conflitto in Medio Oriente avvantaggia Mosca
Come hanno fatto maliziosamente notare alcuni dirigenti di Hamas al Cremlino – per perorare la causa di un maggiore attivismo a favore della causa palestinese della Russia, finora molto restia a troncare i consistenti rapporti economici, politici e militari con lo “stato ebraico” – l’assalto a Israele del 7 ottobre e la brutale rappresaglia di Tel Aviv, con il conseguente rischio di allargamento del conflitto a tutto il Medio Oriente, hanno fortemente avvantaggiato Mosca nei confronti di Kiev.
L’amministrazione Biden afferma senza remore di essere in grado di sostenere dal punto di vista bellico e finanziario sia Israele sia l’Ucraina, ma ovviamente lo sdoppiamento dei fronti mette in difficoltà il Pentagono e lo stesso esecutivo di Washington. A tal punto che all’ultima riunione a Bruxelles del “Ukraine Defense Contact Group” – il coordinamento che riunisce i 54 paesi che sostengono militarmente Kiev – i rappresentanti degli Stati Uniti, compreso il segretario alla Difesa Lloyd Austin, hanno esplicitamente fatto pressioni su Zelensky affinché tenti di intavolare una trattativa con la Russia. Se fino a qualche tempo fa Washington si è spesa per impedire che l’Ucraina avviasse un serio negoziato con Putin, ora sembrano assai più interessati ad una soluzione concordata. Una cristallizzazione del fronte attuale potrebbe ampiamente soddisfare il Cremlino, che manterrebbe – pur senza riconoscimento internazionale – il possesso dei territori conquistati, ma che potrebbe rivelarsi inaccettabile per Kiev che ha sempre posto l’irrinunciabile condizione del ripristino dell’integrità territoriale come base per ogni accordo.
La situazione sul campo al 5 ottobre
Il comandante dell’esercito ucraino ammette lo stallo
La situazione al fronte si è fatta a tal punto complicata che qualche giorno fa, in un’intervista al settimanale britannico “The Economist”, il comandante in capo dell’esercito ucraino Valery Zaluzhny ha esplicitamente denunciato lo “stallo” tra due schieramenti di fatto equivalenti che da mesi si affrontano con ampio impiego di uomini e mezzi senza determinare particolari progressi né in un senso né nell’altro. Tra poco il gelido inverno delle steppe ucraine congelerà letteralmente il fronte fino alla prossima primavera, avvantaggiando oggettivamente la Russia che potrà continuare a logorare le forze ucraine sfruttando la superiorità aerea e tecnologica. La più volte annunciata e rimandata controffensiva ucraina, iniziata effettivamente il 4 giugno, non ha prodotto i risultati sperati, consentendo a Kiev di riconquistare solo una manciata di kmq. Nemmeno l’invio dei missili Atacms ha spezzato il sostanziale equilibrio tra le forze dei due eserciti nemici.
Se la Nato non fornirà a Kiev quantità consistenti di armi e mezzi di ultima generazione, ha chiarito Zaluzhny, lo stallo non potrà che continuare consumando le risorse ucraine ma anche le finanze e la pazienza dei sostenitori internazionali di Zelensky.
Nelle scorse ore la rivista statunitense Forbes, riprendendo le analisi di alcuni esperti militari, ha però fatto notare che l’Ucraina potrebbe perdere rapidamente i 195 carri armati Leopard 1A5 che dovrebbe ricevere a breve, qualora ripetesse gli errori commessi nell’utilizzo – ritenuto scorretto – dei più avanzati Leopard 2 inviati nei mesi scorsi.
Il nervosismo di Zelensky
Le dichiarazioni di Zaluzhny hanno mandato su tutte le furie il presidente ucraino, impegnato a chiedere costantemente nuovo sostegno ai suoi partner e sponsor internazionali, al punto da far trapelare l’intenzione di rimuovere il comandante in capo delle forze militari del paese, opzione per ora congelata.
Uno dei più stretti collaboratori di Zelensky, Ihor Zhovkva, ha accusato il generale di «semplificare il lavoro del nemico» con le sue dichiarazioni e di fatto gli ha dato del “traditore” in diretta tv, rivelando quanto sia duro lo scontro all’interno dei vertici ucraini. Qualche malizioso commentatore ha poi fatto notare il sospetto tempismo dell’incidente che, pochi giorni fa, ha ucciso Gennady Chastiakov, assistente personale di Zaluzhny saltato in aria dopo aver aperto un “pacco di compleanno” contenente alcune granate che gli era stato donato – uno scherzo malriuscito, assicurano da Kiev – da un sottoposto.
E comunque la presidenza ha silurato il comandante delle forze speciali Victor Horenko, stretto collaboratore di Zaluzhny, sostituendolo con Sergei Lupanchuk, ritenuto molto vicino al capo dello Stato.
La strage degli artiglieri
A mettere in discussione l’immagine di un esercito preparato e infallibile che Zelensky si è tanto prodigato a costruire e a diffondere ci ha poi pensato la strage di artiglieri ucraini causata da un attacco russo contro una celebrazione irresponsabilmente organizzata a ridosso del fronte.
Il 4 novembre, infatti, un Iskander lanciato dai russi ha colpito il villaggio di Zarichne, a meno di 30 km dal fronte nell’oblast di Zaporizhzhia, causando 19 morti e decine di feriti tra i militari della 128esima Brigata della Transcarpazia che erano riuniti in un piazzale per una premiazione in occasione della “Giornata dell’Artigliere”.
Il presidente ha dovuto sospendere il comandante della brigata decimata con Zaluzhny che ne ha definito il comportamento «uno scempio». Da tempo, inoltre, i vertici militari chiedono a quelli politici di impedire che decine di migliaia di giovani che potrebbero combattere alla difesa del paese si sottraggano rendendosi irreperibili, iscrivendosi all’Università oppure ottenendo da medici concilianti certificati che li esentano dalla leva per motivi di salute.
Salta il viaggio di Zelensky a Tel Aviv
Come se non bastasse, prima è trapelata la notizia che Zelensky aveva in programma un viaggio in Israele che non avrebbe dovuto essere divulgato, poi la importante visita a Tel Aviv è stata rinviata a data da destinarsi. L’ennesima brutta figura di un leader che appare sempre più incapace di rispettare le promesse – la più azzardata era stata quella di riprendere il Donbass e la Crimea entro l’estate che ci siamo lasciati alle spalle – che continua a fare al suo popolo e agli alleati, dimostrando scarso realismo. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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