I 10 satelliti più affascinanti del Sistema Solare
Un bel video del divulgatore Luca Nardi su alcuni dei molti satelliti naturali del Sistema Solare.
Bomba a Gerusalemme, morto un ragazzo israeliano. Esercito uccide 16enne palestinese
Pagine Esteri, 23 novembre 2022 – Un ragazzo israeliano ucciso e decine feriti in esplosioni nei pressi di diverse fermate dell’autobus a Gerusalemme. A meno di mezz’ora di distanza l’una dall’altra, le bombe sono esplose in maniera controllata e attivate a distanza.
Gli israeliani hanno chiuso le strade principali della città e attivato check point nella parte est e in quella ovest di Gerusalemme. Le ricerche dei sospettati sono subito cominciate, insieme a quelle di altri eventuali ordigni esplosivi.
רגע הפיצוץ הראשון ביציאה מהעיר ירושלים. pic.twitter.com/DeKYxAKfGF— סולימאן מסוודה سليمان مسودة (@SuleimanMas1) November 23, 2022
Uno studente di 16 anni, Aryeh Shtsupack, è morto in ospedale a causa delle ferite riportate per la prima delle due esplosioni, a Givat Sha’ul, poco dopo le 7 di questa mattina. La seconda, invece, alla fermata di Ramot non ha causato vittime.
Alcuni dei feriti versano in gravi condizioni. Gli attentati sono avvenuti poche ore dopo l’uccisione di un ragazzo palestinese, anche lui di 16 anni, avvenuta a Nablus, la 200^ vittima palestinese dall’inizio dell’anno, il 51° minore. Circa 30 gli israeliani uccisi nel 2022.
Gli attentati sono destinati a pesare sulla formazione del nuovo governo israeliano, con i leader di estrema destra che aumentano la pressione su Netanyahu per un esecutivo che agisca con il pugno di ferro contro le minacce “alla sicurezza di israele”.
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Gli attacchi turchi hanno ucciso 184 persone nel Kurdistan. Tra i morti 18 soldati siriani
della redazione
Pagine Esteri, 22 novembre 2022 – I sanguinosi attacchi turchi nel Kurdistan siriano e iracheno hanno causato dalla sera del 19 novembre almeno 184 morti. Lo ha affermato il ministro della difesa turco, Hulusi Akar, all’agenzia di stampa Anadolu, definendo “terroristi” i morti nei raid. Akar ha aggiunto che sono stati colpiti 89 obiettivi, inclusi rifugi, bunker, grotte, tunnel e magazzini appartenenti ai “gruppi terroristici” a Qandil e Hakurk nel nord dell’Iraq, e Kobane, Manbij, Zour Maghar, Tal Rifaat, Al Jazira e Al Malikiyah in Siria. Aree in cui si trovano postazioni sia dell’esercito regolare siriano sia delle Forze democratiche (Sdf) a maggioranza curda. L’aviazione e l’artiglieria di Ankara hanno anche martellato l’area a nord di Aleppo, nella Siria settentrionale, e una postazione militare siriana nel villaggio di Qarmough, a est di Kobane.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha avvertito che l’operazione non si limiterà a “semplici raid aerei” e che chi provoca la Turchia ne pagherà le conseguenze. Da parte sua il ministro Hulusi Akar ha aggiunto “Faremo ciò che è necessario per far crollare le organizzazioni terroristiche del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e delle Unità curde di protezione del popolo (Ypg)”.
L’attacco turco è stato lanciato a circa una settimana dall’attentato che, il 13 novembre, ha colpito il centro di Istanbul provocando sei morti e 81 feriti. La Turchia ha accusato i curdi dell’attacco. Nonostante le smentite curde e l’opinione degli esperti che indicano in qualche gruppo jihadista il probabile responsabile dell’attentato, Erdogan ha colto l’occasione per prendere di nuovo di mira i curdi, suo bersaglio abituale.
Cresce nel frattempo la tensione tra Ankara e Damasco. È salito a 18 il numero di militari delle forze siriane governative uccisi durante gli attacchi lanciati dalla Turchia. In totale, il numero delle vittime provocate dai raid aerei in Siria ammonta a 37 ma il bilancio è destinato a salire per le gravi condizioni di alcuni feriti. La Russia alleata di Damasco ha inviato rinforzi militari nella periferia orientale di Aleppo. 25 veicoli e mezzi militari si sono diretti verso due basi militari nei pressi di Sarrin, nella Siria settentrionale, a sud di Kobane, e verso quella di Al Saidiyah, situata ad ovest della città di Manbij.
Intanto oggi ha preso nella capitale del Kazakhstan, Nur-Sultan, il 19mo round dei colloqui di Astana per la Siria, con la partecipazione dei rappresentanti dei tre Paesi promotori – Russia, Iran e Turchia – di due delegazioni siriane (governo e opposizione), dell’inviato dell’Onu , Geir Pedersen, e di Iraq, Libano e Giordania. Si discuterà soprattutto della situazione a livello economico, sociale e umanitario, oltre al progresso delle trattative. All’ordine del giorno ci sono anche il ritorno dei profughi siriani in Turchia, Libano e Giordania, la Commissione costituzionale e la stabilizzazione del cessate il fuoco nel nord-ovest della Siria. Pagine Esteri
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Conoscere per crescere. Conoscere per deliberare di Giuseppe Benedetto
#orientare #connessoalletuepassioni #regionelazio #FSE+
Conoscere per crescere. Conoscere per deliberare di Giuseppe BenedettoConoscere per deliberare è una delle più importanti massime del nostro eponimo. Non lasciarsi sfuggire l’opportunità di approfondire le inclinazioni personali, gli interessi e le skills nella scelta del proprio futuro formativo, professionale e lavorativo, è fondamentale per i giovani. “Conoscere per crescere” è il progetto ideato dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma per orientare gli studenti degli Istituti d’Istruzione Superiore Marconi di Civitavecchia e Dante Alighieri di Anagni nell’ambito dell’avviso pubblico della Regione Lazio “ORIENTARE” finanziato con il Programma Fondo Sociale Europeo Plus (FSE+) 2021- 2027.
Approfondisci il progetto “Conoscere per crescere”
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"Giochi troppo!": il libro di Andrea Corinti è figlio del lockdown del 2020 ed è un invito alla riflessione su quanto il videogioco sia importante nelle nostre vite
Segnaliamo alla comunità di @Videogiochi qesto libro di @Xab :archlinux: in cui i videogiochi non vengono demonizzati ma raccontati in una chiave di lettura che, seppur scanzonata, vanta solidi studi e riferimenti alle spalle.
Seguono le interviste a tre videogiocatori molto particolari per provare a raccontare cosa sia il videogioco oggi, ipotizzando cosa potrebbe diventare domani.
Qui è possibile visitare il sito dell'autore e trovare i link per l'acquisto (purtroppo solo Amazon)
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La TAV per le merci è un business che non esiste: l'unica linea italiana chiude per inutilizzo.
"I costi di manutenzione risultavano troppo onerosi a fronte della domanda per questo tipo di servizio. La notizia è stata commentata dai No TAV come il segno dell’inutilità di queste opere, che richiedono un enorme dispendio di risorse, oltre che la devastazione del territorio, ma non risultano necessarie."
Lettera al direttore Claudio Cerasa – Il Foglio
Al direttore – Caro Carlo Calenda, caro Matteo Renzi. E’ trascorso un mese dalla nascita del governo Meloni, e l’avvio non è stato di quelli memorabili: molte concessioni alle platee di appartenenza, prime misure abborracciate e confuse, e un quotidiano conflitto intestino alla maggioranza – tra Meloni e Salvini – che non autorizza a sperare che in futuro le cose vadano meglio. Ma le opposizioni, come è evidente, non godono di migliore salute.
I Cinque stelle soffiano irresponsabilmente sul fuoco di tutti i No, ricevendo in cambio continue profferte di collaborazione da parte del Pd: una invidiabile rendita di posizione che certo non costruisce prospettive per il futuro.
Il Partito democratico è in preda alle sue imperscrutabili convulsioni precongressuali, combattuto tra gli animal spirits della componente postcomunista e la perenne vocazione dorotea delle correnti postdemocristiane.
Mentre i vostri partiti sono al momento impegnati in appuntamenti interni, che speriamo non diventino solo l’occasione per la nascita di altri apparati e nuove piccole nomenklature. Nelle aspirazioni di tanti, il progetto liberaldemocratico e riformista del Terzo polo non può che maturare attraverso un incessante slancio programmatico, innovativo e di rottura, con una leadership chiara, univoca e riconosciuta, e un continuo, strutturale apporto di competenze e professionalità esterne.
Questo non vuol dire rinunciare all’ambizione di costruire una solida struttura di partito. Ma che il partito sia uno, e si faccia al più presto, valorizzando nuove risorse sui territori e promuovendo dal basso gruppi dirigenti coesi e unitari
Questo è quanto vi chiediamo. Non c’è tempo da perdere. Non perché l’alternativa all’attuale stato di cose sia dietro l’angolo. Al contrario, è auspicabile che il paese goda di una fase di stabilità che permetta al governo scelto dagli elettori di affrontare le tante emergenze che abbiamo di fronte. Ma, allo stesso tempo, gli italiani devono sapere da subito che si sta costruendo il cantiere di un’alternativa di governo credibile e matura. Questo è il compito che spetta a voi. Non ci deludete. E sbrigatevi!
Ernesto Auci, Simona Benedettini, Giuseppe Benedetto, Umberto Contarello, Alberto De Bernardi, Biagio de Giovanni, Oscar Giannino, Paolo Macry, Claudia Mancina, Alessandro Maran, Claudio Petruccioli, Sergio Scalpelli,Andrée Ruth Shammah, Chicco Testa, Claudio Velardi
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Ralf Dahrendorf Roundtable. Next Generation EU: Taking Stock
Più di un anno dopo il lancio del piano “Next Generation EU” da parte della Commissione europea, si rende necessario un nuovo “follow up” delle misure implementate finora dagli stati membri nel contesto dei rispettivi Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza: infatti, alla luce delle ingenti risorse impiegate nel fondo Next Generation EU, è giocoforza valutare la qualità e la rilevanza delle politiche domestiche. Particolare attenzione sarà data agli aspetti della digitalizzazione e della transizione ecologica.
In cooperazione con European Liberal Forum e con l’Università di Losofona (Lisbona), la Fondazione Luigi Einaudi ha organizzato una roundtable a Lisbona nella giornata del 24 novembre 2022, alla presenza, tra gli altri, di Ricardo Silvestre, Karolina Mickuté, Kristijan Kotarski, Milosz Hodun, Veronica Grembi.
Al termine dell’evento si provvederà a discutere una serie di policy recommendations volte a sottolineare le potenziali e auspicabili “best practices” di collaborazione tra i Paesi europei, anche alla luce degli esiti finora raggiunti ma non conclusi da ciascuno stato membro.
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William Faulkner e i romanzi dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (2a parte)
di Patrizia Zanelli*
Pagine Esteri, 23 novembre 2022 – In The Sound and the Fury, la descrizione della situazione dei membri di una famiglia aristocratica in decadenza serve a raffigurare il declino del Sud degli Stati Uniti avvenuto a seguito della guerra di secessione americana. Faulkner scrisse infatti il romanzo per evidenziare il legame tra eventi storici traumatici e crisi esistenziali personali. In un articolo pubblicato nel 2000 sul Journal of Arabic Literature, Aida Azouqa nota che similmente la Nakba è all’origine dei problemi dei protagonisti di “Tutto ciò che vi resta”: Maryam, una donna dalla vita sentimentale tormentata – il cui ruolo nel racconto è simile a quello di Caddy in The Sound and the Fury – e il fratello sedicenne Hamid. Come numerosi romanzieri occidentali, Kanafani era stato chiaramente influenzato dal freudismo e dall’esistenzialismo; usò la tipica crisi identitaria adolescenziale per raffigurare quella nazionale dovuta alla diaspora palestinese, in questo romanzo in cui ritrae appunto un adolescente per rappresentare la nazione. I conflitti interiori ed esterni affrontati da Hamid evocano la confusione di un’epoca della Storia del popolo della Palestina; il Tempo è il grande nemico del fratello e della sorella la cui infanzia felice è ormai soltanto un ricordo del passato da quando vivono in un campo profughi lontano da Giaffa, dove abitavano in un bel quartiere residenziale moderno con la loro famiglia del ceto medio-alto. La vita infelice di Maryam, dovuta alla lontananza dalla madre, da cui avrebbe potuto ricevere buoni consigli, evitando di mettersi nei guai, conclude Azouqa, rappresenta la disgrazia subita da un’intera nazione.
D’altra parte, “Tutto ciò che vi resta” è forse il romanzo più autobiografico di Kanafani, che da bambino aveva frequentato una scuola missionaria francese a Giaffa, per volontà del padre, un avvocato e attivista nazionalista, che esercitava la professione in quella fiorente città palestinese benché fosse lontana da Acri. Quando poi nell’aprile del ’48 aveva lasciato la Palestina con la famiglia, trovando rifugio in un villaggio sulla frontiera libanese, il dodicenne Ghassan avrà avuto la sensazione che il suo mondo dell’infanzia fosse crollato. Il padre aveva scelto quel paesino come una sistemazione provvisoria, convinto di poter tornare presto a casa, ma dopo la fondazione d’Israele e il prolungarsi dell’attesa decise di trasferirsi con la famiglia a Damasco. Nella capitale siriana il giovane Ghassan dovette lavorare, passando da un mestiere all’altro, per completare l’istruzione secondaria. Nel 1953, iniziò a insegnare in una delle scuole dell’UNRWA, a conoscere direttamente la dura realtà dei campi profughi, a maturare una maggiore consapevolezza politica e il desiderio di contribuire alla causa nazionale del suo popolo. Poi da studente universitario partecipò al movimento studentesco, attivismo per cui fu espulso dall’Università di Damasco, e da qui la decisione di raggiungere la sorella e il fratello in Kuwait, dove erano emigrati come molti altri esuli palestinesi, attratti dalle opportunità di lavoro presenti nel paese petrolifero.
Dunque, l’adolescenza particolarmente difficile vissuta dallo scrittore, accompagnata da una crescente politicizzazione, è simile a quella di Hamid, il protagonista di “Tutto ciò che vi resta”, che molti esperti considerano inoltre come una sorta di ponte, essendo un romanzo che presenta temi o motivi ripresi dall’autore nella fase successiva della sua produzione letteraria, durante la quale si avvicinò maggiormente alla letteratura impegnata teorizzata da Sartre, rinunciando alla tecnica del flusso di coscienza del modello faulkneriano. Questo cambiamento è dovuto a un altro trauma collettivo, una seconda sconfitta, che portò Kanafani a voler dar voce in modo più chiaroalle istanze politiche del suo popolo.
L’arte narrativa dello scrittore fu inevitabilmente influenzata dalla Naksa (Ricaduta), la disfatta militare araba nella guerra lanciata da Israele il 5 giugno 1967, per occupare i territori palestinesi di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza, le alture siriane del Golan e la Penisola del Sinai egiziana. Kanafani pubblicò, nell’anno seguente, il saggio “La letteratura palestinese della resistenza sotto occupazione, 1948-1968” 1 ; e nel 1969, il romanzo “Ritorno a Haifa” (2) . In quest’opera, l’autore descrive la situazione post-Naksa, per ricordare la Nakba e la Shoah, unendo la memoria storica delle tragedie dei due popoli. All’indomani della guerra di occupazione, le autorità israeliane effettivamente aprirono la frontiera tra Israele e i territori palestinesi appena occupati. Nel romanzo, il 30 giugno 1967, Said e la moglie Safiya partono in auto da Ramallah per andare a Haifa, dove non erano più potuti tornare dopo l’esodo di massa del 21 aprile 1948, provocato dall’aggressione compiuta dai miliziani sionisti con la complicità dei militari inglesi. Quel giorno lui e lei si trovavano per strada, l’uno lontano dall’altra, erano stati come risucchiati dalla folla di persone in fuga verso il porto durante il bombardamento, spinti su un’imbarcazione britannica e costretti a lasciare la città, senza avere avuto la possibilità di portare con sé il figlio di cinque mesi Khaldun, rimasto da solo a casa loro. È proprio nella speranza di ritrovarlo che i due protagonisti tornano a Haifa. Arrivati a destinazione, scoprono che la loro vecchia casa è abitata da una coppia di ebrei polacchi, Efrat e Miriam, divenuti i genitori adottivi di Khaldun, ora Dov, un soldato israeliano.
Kanafani riprese il modello faulkneriano, come lui stesso lo aveva rielaborato in “Uomini sotto il sole”, per creare appunto “Ritorno a Haifa”, in cui è fondamentale la retrospezione. Nel primo dei cinque capitoli del testo, Said e Safiya ricordano l’esodo coatto dalla città; e nel terzo, vengono esposti i fatti accaduti da quando Efrat e Miriam avevano lasciato Varsavia agli inizi del novembre del 1947, finché non si erano stabiliti, il 29 aprile del ’48, nella casa dei protagonisti palestinesi assenti, concessa agli stessi immigrati dall’Agenzia Ebraica a patto che adottassero il bambino ritrovato lì una settimana prima da una donna ebrea che abitava al piano superiore. La storia è narrata da un narratore esterno, e i punti di vista sono multipli in questo racconto, in cui l’autore ricostruisce e intreccia la memoria della Nakba con quella della Shoah. Il principio etico condiviso da tutti i personaggi, espresso nell’enunciato “all’ingiustizia non si pone rimedio con una nuova ingiustizia”, è il nodo centrale di un romanzo tematicamente complesso che unisce dati storici precisi riguardo al tragico conflitto tra i due popoli ad altri temi di portata universale, come l’amore genitoriale, la paternità, il patriottismo e l’idea stessa di patria. I genitori palestinesi sono gli sconfitti, i più deboli e sofferenti, eppure hanno la forza di ammettere i propri errori e le proprie debolezze, e di riconoscere perfino il dolore dell’altro. Nel romanzo, l’autore esprime una piena solidarietà con il popolo ebraico vittima delle persecuzioni naziste, rappresentato dalla coppia di ebrei polacchi appena sfuggiti all’Olocausto nel novembre del ‘47. Ma nel giugno del ’67, Efrat e Miriam rappresentano gli israeliani, i vincitori che, pur riconoscendo le sofferenze inferte ai palestinesi, trovano negli errori e nelle debolezze del popolo vinto un’autogiustificazione che li intrappola nelle loro stesse contraddizioni condensate nella figura di Khaldun/Dov. Il giovane educato all’odio, alla negazione della Nakba, chiuso nella sua crisi identitaria, è un figlio adottato/rubato/perduto, nato a Haifa pochi mesi prima che la città diventasse parte d’Israele come oltre la metà della Palestina. I genitori naturali si sentono in colpa per averlo abbandonato, pur sapendo di essere stati costretti a lasciarlo a casa da solo ancora lattante insieme alla loro terra.
Ancora una volta l’autore raffigura la relazione tra Spazio e Tempo nella Storia e la crisi identitaria di un adolescente associata a quella collettiva. Alla fine, però, Khaldun/Dov rappresenta la Nakba, un passato da dimenticare per Said e Safiya il cui figlio più giovane Khaled si è appena arruolato in un gruppo di fedayin per liberare il suo popolo. Lui è il presente e il futuro, conosce la propria identità e quella dei suoi genitori, che lo hanno cresciuto, raccontandogli la verità; quindi personifica la consapevolezza, l’autocoscienza nazionale, la rivoluzione, la salvezza della nazione. La crisi familiare non è però affatto risolta. I genitori, che hanno già perduto un figlio e non sopportano l’idea di perderne un altro, accettano con grande amarezza la decisione di Khaled di sacrificarsi per la patria. È altrettanto amara la constatazione che i due fratelli, entrambi vissuti sotto il peso di un destino crudele, potrebbero combattere l’uno contro l’altro. Solo la pace li può salvare.
In questo terzo romanzo di Kanafani, lo stile è più lineare, e il messaggio politico più esplicito, il che è tipico della letteratura palestinese della resistenza, nell’ambito della quale i sentimenti di rabbia e frustrazione vengono mitigati o addirittura soppiantati da una volontà di riscatto, alimentata dalla speranza nella possibilità di cambiare la situazione. Su “Ritorno a Haifa” si basano un omonimo film, del 1982, girato in Libano dal regista iracheno Kassem Hawal (n. 1940), e un altro, del 1995, intitolato “Il sopravvissuto”, diretto dal cineasta iraniano Seifollah Dad (1955-2009). Lo stesso romanzo ha inoltre ispirato diversi spettacoli teatrali presentati in vari paesi del mondo.
Per quanto riguarda invece “Gli ingannati”, l’adattamento di “Uomini sotto il sole”, Saleh cambiò non solo il titolo ma anche il finale dell’opera originale; nel film infatti i tre protagonisti bussano alle pareti della cisterna (3) . La loro richiesta d’aiuto rimane però inascoltata. Il regista egiziano, ideologicamente marxista, espresse così la propria rabbia nei confronti dei regimi arabi responsabili della Naksa, una seconda sconfitta che in ambito culturale stimolò da un lato l’impegno a registrare la memoria della Nakba e dall’altro una volontà di ribellarsi in generale, particolarmente spiccata nella cultura giovanile dell’epoca. In un articolo pubblicato nel 1976 sul periodico British Society for Middle Eastern Studies Bulletin, Hillary Kilpatrick ricorda che Kanafani vide il film e approvò il cambiamento del finale per il messaggio politico che veicolava; inoltre lo considerava una sorta di aggiornamento storico necessario. La passività dei protagonisti del romanzo ormai contrastava con la lotta armata che i profughi palestinesi stavano conducendo sin dagli anni ’60. Kanafani dava grande importanza all’arte, si identificava anzitutto come un artista, riteneva che lo scopo della letteratura fosse di contribuire alla trasformazione della società, ma come romanziere lui preferivaconcentrarsi sull’individuo, basandosi sulla propria esperienza personale e su quella delle persone che conosceva.
Questo atteggiamento letterario e politico dello scrittore palestinese spiega ulteriormente la sua predilezione per il modello faulkneriano. Va poi ricordato che, sempre nel 1969, Kanafani pubblicò “Umm Saad” (4) ; in questo caso, la narrazione è in prima persona, ma il narratore – che sembra essere l’autore reale – racconta la storia di un altro personaggio, una figura femminile veramente esistita. La protagonista del romanzo è una donna resiliente, una contadina sulla quarantina abituata al duro lavoro nei campi; rappresenta la resistenza palestinese e addirittura la Palestina stessa i cui figli l’avevano sempre coltivata e ora lottano per liberarla e tornare da lei. Umm Saad è la madre di tutti loro. Sembra che Kanafani abbia scritto questo romanzo dall’atmosfera fiabesca, per esporre in forma artistica le idee che aveva espresso nel già citato saggio sulla letteratura palestinese della resistenza. Nel libro dice infatti che il suo popolo aveva iniziato a lottare per liberare la patria difendendola dal colonialismo sionista sin dall’epoca del mandato britannico sulla Palestina. L’autore si concentra sui contadini palestinesi che in passato avevano sofferto per la vendita dei terreni ai coloni da parte dei latifondisti e dopo la Nakba soffrivano vivendo nei campi profughi.
In “Umm Saad”, il narratore del racconto sembra quasi un cantastorie moderno. Descrivendo la vicenda della protagonista, presenta man mano altri personaggi, di cui lei gli parla e così nasce di volta in volta una storia nella storia. Ciò spiega ancor più la frammentazione del racconto, un espediente narrativo generalmente volto anche a raffigurare la disgregazione sociale che caratterizza le società contemporanee, e di cui Kanafani si serviva per rappresentare la diaspora palestinese. Lo scrittore cercò nuove modalità artistiche per veicolare un messaggio rivoluzionario tramite questo breve romanzo, che scrisse attingendo alla letteratura popolare araba, senza però rinunciare a certe tecniche moderniste, e specialmente ai punti di vista multipli. L’autore riuscì a esprimere la propria creatività, fondendo perfettamente tradizione e modernità in “Umm Saad”, un’opera intrisa di quel tipico ottimismo che è la vera linfa della resilienza del popolo palestinese. È inoltre interessante ricordare che in un’intervista rilasciata al quotidiano kuwaitiano al-Siyāsa (La politica) durante questa seconda fase spiccatamente politicizzata della sua produzione narrativa, Kanafani dichiarò: “Per quanto mi riguarda, la politica e il romanzo sono tutt’uno e posso categoricamente affermare di essere diventato politicamente impegnato, perché sono un romanziere, e non viceversa”. Pagine Esteri
La prima parte dell’articolo di Patrizia Zanelli è a questo link:
CULTURA. William Faulkner e i romanzi dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (1a parte)
pagineesteri.it/2022/11/16/in-…
NOTE
1) Kanafani scrisse questo saggio letterario per completare un altro dal titolo simile pubblicato sempre nel ’68 e che ricopre il periodo 1948-1966.
2) Ghassan Kanafani, Ritorno a Haifa, tr. Isabella Camera d’Afflitto, Rispostes, 1985; Edizioni Lavoro, 2014.
3) Il film “Gli ingannati” (al-Makhdū‘ūn) è noto anche col titolo inglese “The Dupes”.
4) Ghassan Kanafani, Umm Saad, tr. Isabella Camera d’Afflitto, Rispostes, 1985; Edizioni Lavoro, 2014.
*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui il romanzo Memorie di una gallina (Istituto per l’Oriente “C.A. Nallino”, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī.
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Qatar, i Mondiali della vergogna
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 17 novembre 2022 – «Gli alimenti non sono freschi. Puzzano già quando arrivano, ma bisogna mangiarli (…) L’acqua da bere era molto sporca, per bere quella di qualità bisogna avere i soldi. Noi bevevamo acqua sporca… e ti vengono malattie ai reni, calcoli. Il denaro che ho guadagnato l’ho speso all’ospedale» racconta un lavoratore nepalese, reduce da un lungo periodo in Qatar, intervistato nel suo paese da “La Media Inglesa” nel documentario “Qatar: el mundial a sus pies”. «Trasportavo, da solo, 300 o 400 sacchi ogni giorno. Non potevamo mai riposare, le guardie non ce lo permettevano» racconta un altro manovale. Questo anche per 12 ore al giorno, esposti a temperature che arrivano sovente a 50°.
Sportwashing
Lavoro forzato, caldo, morti sul lavoro, maltrattamenti: i racconti dei lavoratori e delle lavoratrici straniere sono spesso una fotocopia l’uno dell’altro. E i rapporti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani riportano in maniera unanime una situazione caratterizzata da una violazione sistematica.
Eppure, il 20 novembre nel piccolo emirato si aprirà la ventiduesima edizione della Coppa del Mondo di calcio maschile. Per quanto, dopo anni di parziali silenzi, i media di tutto il mondo stiano finalmente rivelando il contesto in cui 32 squadre si sfideranno per la conquista del più ambito dei trofei, i timidi tentativi di boicottaggiodella competizione non hanno sortito gli effetti sperati e la kermesse andrà in onda per un mese, catalizzando l’attenzione di miliardi di persone.
Un’enorme vetrina internazionale per la petromonarchia qatariota, che sull’evento ha investito – non sempre in maniera limpida e legale – miliardi di euro al fine di rendere possibile una formidabile occasione di sportwashing che accrediti Doha come potenza mondiale dello sport e non solo.
Da quando nel 2010 riuscì ad aggiudicarsi il ballottaggio contro gli Stati Uniti – 16 dei 22 grandi elettori della Fifa, nel frattempo, hanno o hanno avuto a che fare con la giustizia per vicende di corruzione – ottenendo la possibilità di ospitare la prestigiosissima competizione, il piccolo ma incredibilmente ricco Qatar ha fatto molta strada.
Con soli 3 milioni di abitanti, Doha occupa il 55esimo posto nella classifica del FMI con un Pil di 221 miliardi di dollari. Sempre secondo il Fondo Monetario, i cittadini possono contare su un reddito pro capite di quasi 83 mila dollari, il decimo più alto al mondo (in classifica è tra le Isole Caiman e Singapore). Questa grande ricchezza è in gran parte dovuta al fatto che il paese detiene il 15% delle riserve mondiali di gas naturale, terzo al mondo alle spalle di Russia e Iran.
Dal 2017 l’emirato ha dovuto subire un certo isolamento da parte dei suoi soci del Consiglio di Cooperazione del Golfo che, guidati dall’Arabia Saudita, lo hanno sottoposto ad un duro embargo commerciale, accusando la tv satellitare Al Jazeera di fomentare il terrorismo e spingere i popoli del Medio Oriente alla rivolta contro i propri regimi. Dopo che Doha si è legata a doppio filo ad Ankara in nome della comune adesione alla Fratellanza Musulmana – un contingente militare turco è incaricato della sicurezza del piccolo petrostato – Riad e soci hanno deciso di concludere l’assedio e il Qatar arriva all’appuntamento dei mondiali al massimo della sua influenza.
Per dotarsi delle infrastrutture necessarie ad ospitare i Mondiali di Calcio il Qatar ha speso l’esorbitante cifra di 229 miliardi di dollari, un valore equivalente al proprio Pil annuale.
Un sistema basato sull’apartheid
Il sistema sociale e politico della petromonarchia, governata col pugno di ferro dall’emiro Cheikh Tamim bin Hamad Al Thani (la cui dinastia regna ininterrottamente dalla metà del XIX secolo) si fonda su una netta separazione tra i cittadini autoctoni e gli immigrati, che costituiscono il 95% circa della forza lavoro complessiva, e sulla discriminazione totale di questi ultimi.
Il 79,6% della popolazione attuale del paese (alcune fonti parlano addirittura dell’85%) è costituita da immigrati provenienti dall’India (la comunità più grande con 700 mila membri), dal Bangladesh, dall’Indonesia, dal Nepal, dal Pakistan, dalle Filippine, dallo Sri Lanka e da alcuni paesi africani come il Kenya.
Ovviamente sono stati centinaia di migliaia di migranti a costruire le mirabolanti infrastrutture di cui il Qatar si è dotato negli ultimi 12 anni: 7 stadi (climatizzati!), un nuovo aeroporto, una rete ferroviaria ad hoc, grattacieli, strade, autostrade, hotel e Lusail, una città costruita dal nulla nel deserto sulla costa orientale.
Prima dell’assegnazione dei Mondiali, il Qatar contava meno di un milione di abitanti. Dal 2010, attratti dal miraggio di uno stipendio – 7-800 euro – in grado di consentirgli di sfamare le proprie famiglie, milioni di lavoratori sono arrivati in Qatar da vari paesi per scoprire che le condizioni di lavoro e le retribuzioni non erano affatto quelle promesse.
La kafala
Centinaia di migliaia di immigrati – manovali, operai, vigilantes, inservienti, domestici – sono caduti nella rete della kafala, un sistema di “patrocinio” – vigente in molti paesi della Penisola Arabica e del Medio Oriente – da parte delle imprese che permette ai lavoratori stranieri di accedere al paese, ottenere il permesso di residenza temporanea e quello di lavoro. Il sistema della kafala, affermatosi negli ultimi 50 anni, assogetta i lavoratori stranieri ad una condizione semi-schiavile, privandoli dei più elementari diritti: al loro arrivo gli viene confiscato il passaporto in modo che non possano cambiare lavoro né tantomeno allontanarsi dal paese, se non dopo aver ottenuto l’approvazione del padrone. In questa condizione le aziende impongono condizioni di lavoro disumane, contando anche sul fatto che i cittadini stranieri in Qatar non possono affiliarsi ai sindacati. I reportage di numerosi media e i rapporti delle organizzazioni umanitarie internazionali hanno documentato orari di lavoro anche di 14-16 ore al giorno per retribuzioni medie di 200 euro – che spesso non vengono corrisposte affatto o lo sono con mesi di ritardo; turni di lavoro di sette giorni a settimana senza giorno di riposo; lavoratori alloggiati in tuguri sporchi e striminziti; maltrattamenti; licenziamenti e rimpatri arbitrari; aggressioni; violenze sessuali.
Nel 2020, dopo anni di pressioni e denunce e quando comunque la maggior parte delle infrastrutture per il mondiale erano state completate, il Qatar ha approvato due leggi per “umanizzare” questa moderna forma di schiavitù, permettendo in alcune condizioni ai lavoratori migranti di cambiare lavoro o di abbandonare il paese senza il consenso dell’azienda, fissando un salario minimo (circa 250 euro) e regolamentando in maniera più precisa gli orari di lavoro. La legislazione ha anche inasprito le regole per evitare l’esposizione dei lavoratori a temperature troppo elevate e teoricamente dal primo giugno al 15 settembre è vietato lavorare all’aperto.
Se applicate capillarmente, le nuove leggi potrebbero contrastare efficacamente il sistema della kafala, ma nonostante le rassicurazioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (agenzia dell’Onu basata proprio a Doha) Amnesty International e Human Rights Watch continuano a documentare abusi sistematici contro i lavoratori stranieri.
I cantieri, un bagno di sangue
La realizzazione delle strabilianti infrastrutture del Mondiale è costata un vero e proprio bagno di sangue. Le autorità qatariote forniscono un bilancio di pochi morti sul lavoro certificati, ma la realtà è ben diversa. Nel febbraio del 2021 un reportage del Guardian parlò di 6500 morti considerando solo alcune delle comunità immigrate nella petromonarchia. Altre fonti azzardano addirittura cifre ancora più spaventose, come Amnesty che dal 2010 al 2019 documenta 15 mila decessi. Si tratta ovviamente di stime, non suffragate da documenti ufficiali che Doha si guarda bene dal fornire. E a chi tenta di indagare le autorità del petrostato non rendono le cose facili: nel novembre del 2021 due giornalisti norvegesi che realizzavano un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nei cantieri dei mondiali sono stati arrestati per 30 ore e tutto il girato è stato cancellato prima della loro espulsione.
Secondo il Guardian, «un documento proveniente dal servizio legale del governo qatariota raccomandava di commissionare uno studio sulle numerose morti per arresto cardiaco dei lavoratori migranti, e di varare una legge che permettesse di fare autopsie in tutti i casi di morti improvvise o inaspettate sul lavoro, ma nessuno di questi provvedimenti è stato adottato».
A queste già drammatiche cifre vanno aggiunte quelle riguardanti gli infortuni, i suicidi e le migliaia di lavoratori stranieri tornati a casa con gravi patologie sviluppate a causa delle condizioni di lavoro alle quali sono stati sottoposti.
Una monarchia assoluta fondata sulla discriminazione
Non sono solo i lavoratori stranieri a subire la violenza del sistema. La monarchia assoluta, che non ammette l’esistenza di partiti politici ed esercita una ferrea censura sulla stampa, secondo un rapporto di Human Rights Watch «applica un sistema discriminatorio di tutela maschile che nega alle donne il diritto a prendere decisioni fondamentali sulle proprie vite».
Tempo fa Nasser Al-Khater, l’amministratore delegato del Mondiale, ha minacciato nel corso di una conferenza stampa: «chiunque sventoli una bandiera del movimento LGBTIQ+ potrà essere condannato a pena tra i 7 e gli 11 anni di carcere» salvo poi affermare che in Qatar «tutti sono ben accolti, ma devono rispettare la cultura e le tradizioni del paese». Ma poi l’ambasciatore dell’evento, Khalid Salman, nel corso di un’intervista alla tv tedesca Zdf ha definito l’omosessualità «un danno psichico».
Anche tralasciando le preoccupazioni sull’impatto ambientale della kermesse calcistica qatariota (ben documentate ad esempio in questo articolo), la definizione di “mondiali della vergogna” è più che giustificata. Vergogna per le autorità del Qatar, che respingono le accuse e le denunce parlando di una campagna di calunnie contro il Qatar. Ma vergogna anche per un sistema sportivo, mediatico ed economico internazionale che nasconde la polvere sotto il tappeto in nome dell’enorme occasione di business e di legittimazione politica che il Mondiale di Calcio rappresenta. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.
LINK E APPROFONDIMENTI:
amnesty.it/qatar-lavoratori-mi…
hrw.org/es/news/2021/03/29/qat…
indianexpress.com/article/expr…
theguardian.com/global-develop…
apnews.com/article/world-cup-s…
L'articolo Qatar, i Mondiali della vergogna proviene da Pagine Esteri.
I social network sono morti. Come si crea un'alternativa vera? L'articolo di di Edward Ongweso Jr su Vice
Segnaliamo a tutta la comunità de @Le Alternative questo articolo molto interessante comparso su Vice e segnalato su mastodon da @Chiara [Ainur] [Айнұр]
La "crisi di Twitter" ha infatti messo in ombra la crisi di Facebook, i suoi licenziamenti, il mancato ROI sul Metaverso, la sua irrilevanza per le elezioni di mid term e il Vietnam globale che i suoi prodotti di punta (Whatsapp e Instagram) stanno subendo da Telegram e soprattutto da TikTok.
Ma la crisi dei social è una realtà.
I cosiddetti “social media” sono pensati per consumo e pubblicità, non per le persone. Ora che stanno crollando, come si crea un’alternativa vera?
Articolo di Edward #Ongweso Jr, Trad. Di Giacomo Stefanini e Giulia Trincardi, su #Vice
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#uncaffèconLuigiEinaudi – Ma il basso giuoco è stato troppe volte ripetuto e più non serve.
Ma il basso giuoco è stato troppe volte ripetuto e più non serve. Gli italiani vogliono fatti e non promesse.
da Corriere della Sera, 6 giugno 1919
L'articolo #uncaffèconLuigiEinaudi – Ma il basso giuoco è stato troppe volte ripetuto e più non serve. proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Mondiali: ambiguità e razzismo … non solo qatarioti
Come all'epoca delle piramidi e alle latitudini europee: migranti morti in tanti, pagati poco, ma, si dice per nettarsi la coscienza, per quanto mal pagati, per loro è molto, e quando tornano a casa sono ricchi per gli standard locali
L'articolo Mondiali: ambiguità e razzismo … non solo qatarioti proviene da L'Indro.
Condanne a morte, arresti, omicidi: così Teheran silenzia le proteste
Le ultime vittime del regime: due attrici finite in manette per i video senza velo
Immaginate di leggere una notizia come questa: Monica Bellucci arrestata per i post provocatori contro il governo pubblicati sui suoi canali social rischia una condanna a morte. Immaginate la reazione. Ora traslate la notizia e spostatela qualcosa come tremilacinquecento chilometri verso Est (la distanza tra Roma e Teheran) e cercate di avere la stessa reazione. Sussultate. Indignatevi. Gridate che la libertà è un valore da difendere anche a costo della vita. No, non ci riusciamo. Ma non è colpa nostra. A parte pochi attivisti (penso al partito radicale che ostinatamente cerca di mantenere viva l’attenzione sulla rivolta dei giovani iraniani con prove di manifestazioni e scioperi della fame) la maggioranza di noi tutti pensa all’Iran come a qualcosa di troppo distante e si accalora più per una maglietta idiota indossata in un programma tv.
Ma in Iran si continua a morire, per difendere la libertà. E ogni famiglia, ogni madre e ogni padre, sa che la sera il figlio e la figlia potrebbero non rientrare a casa. Più di 500 morti e di questi 58 sarebbero minorenni o addirittura bambini. E ieri sì, hanno anche arrestato due attrici famose, Hengameh Ghaziani e Katayoun Riahi – che si sono mostrate senza il velo obbligatorio e hanno espresso solidarietà con le proteste che da oltre due mesi scuotono la Repubblica islamica, dal 16 settembre in cui è morta Mahsa Amini, la vittima numero zero, uccisa dalla polizia morale perché portava male il jihab.
Hengameh Ghaziani e Katayoun Riahi, chi sono costoro? Sono volti noti del piccolo e grande schermo, vincitrici di premi e molto popolari. Ma non solo. Non nascono come modelle o influencer per poi tentare la carriera artistica, sono donne che hanno studiato, attive nei movimenti per la difesa dei diritti umani, impegnate in associazioni caritatevoli. Per questo fanno ancora più paura al regime. Le ho cercate su Google, perché per chiunque nel mondo occidentale, sono nomi sconosciuti.
Hengameh Ghanziani, 52 anni, si è laureata in Geografia umana ed economica presso l’Università Islamica Azad di Mashhad e Shahre-Rey, e ha anche studiato Filosofia occidentale presso l’Università di San Francisco. Ha tradotto un saggio storico sullo status dei nativi americani e nel 2015 ha fondato un gruppo musicale dove canta lei stessa. Sabato ha postato un video su Instagram, dove prima si rivolge alla telecamera senza parlare, poi si gira e si lega i capelli in una coda di cavallo e fa sapere di essere stata convocata dalla magistratura: «Forse questo sarà il mio ultimo post, da questo momento in poi, qualsiasi cosa mi accada, sappiate che come sempre sono con il popolo iraniano fino all’ultimo respiro». È stata arrestata per incitamento e sostegno ai «disordini» e per aver comunicato con i media di opposizione, riferisce l’agenzia di stampa ufficiale Irna. La settimana scorsa, aveva accusato il regime di aver «assassinato» oltre 50 minori.
Katayoun Riahi, 60 anni, è stata arrestata nell’ambito della stessa indagine: nota anche per le sue opere di beneficenza, apparsa in film pluripremiati e conosciuta a livello internazionale per la serie tv Prophet Joseph, a settembre aveva rilasciato un’intervista – a testa scoperta – all’Iran International Tv emittente invisa al regime con sede a Londra, durante la quale aveva espresso solidarietà alle proteste scaturite dalla morte di Mahsa Amini e si era opposta all’obbligo del jihab.
Intanto sugli account social degli attivisti e delle associazioni umanitarie che riescono a diffondere i post in arrivo dall’Iran, dove Internet è bloccato, scorrono video e scene di orrore. Scontri a fuoco per le strade, maree di giovani in jeans e senza velo che cercando di scappare alle rappresaglie delle milizie del regime, corpi di ragazzi e ragazze riversi a terra in pozze di sangue, corpi avvolti nelle lenzuola bianche della morte, parenti e famiglie che piangono le vittime. Difficile capire il numero dei morti. Per il gruppo Iran Human Rights la repressione statale ha provocato almeno 378 morti, tra cui 47 bambini. Secondo Amnesty International almeno 21 persone sono state accusate di reati che potrebbero portare alla pena di morte mentre le autorità hanno già emesso condanne a morte per sei persone che protestavano in piazza.
Ma come sempre, sono i bambini a colpire di più, anche il nostro distante immaginario. Secondo Hra sono 46 i ragazzi e 12 le ragazze sotto i 18 anni uccise dall’inizio delle proteste. Solo nell’ultima settimana le forze di sicurezza avrebbero ucciso 5 bambini.
L’ultimo numero dell’Observer ha raccolto le testimonianze strazianti delle famiglie che raccontano la morte dei figli, uccisi dalle forze governative. Kian Pirfalak aveva 9 anni, è stato colpito mentre viaggiava nell’auto di famiglia accanto al padre. Kumar Daroftadeh voleva diventare un «grande uomo» ma è stato colpito a distanza ravvicinata a sangue freddo. Il video del padre che piange sulla tomba del bambino è diventato virale sui social. Mohammad Eghbal, 17 anni, è stato colpito alla schiena mentre si recava alla preghiera del venerdì, in quello che è diventato il «venerdì di sangue» (93 persone uccise in tutto l’Iran). Secondo Amnesty nello stesso giorno sono stati uccisi altri 10 bambini. Abolfazl Adinehzadeh, 17 anni, era sceso in piazza per amore delle sue tre sorelle. L’hanno sepolto con ancora 50 pallini di piombo in corpo. «Era un vero femminista che voleva pari diritti per uomini e donne», ha raccontato uno dei parenti all’Observer.
I servizi di sicurezza iraniani negano ogni responsabilità, dando la colpa ai terroristi, con formule di rito che le famiglie delle vittime hanno imparato a conoscere. Le morti, secondo le autorità, hanno sempre cause esterne: malattie pregresse, attacchi di cuore, suicidi, terroristi, fantomatici «stranieri». Ma i giovani continuano a scendere in piazza e il loro messaggio è chiaro. Potete uccidere noi, ma non ucciderete il nostro messaggio. E più li uccidono, più il loro messaggio diventa virale e difficile da fermare.
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Non perdetevi l'incontro di #attiviamoenergiepositive su #mastodon #twitter e il #fediverso!
Oggi martedì 22 novembre alle 17 🐘
Con Paolo Melchiorre, Francesco Macchia e Angelo Rindone
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La violenza digitale, invasiva e nascosta degli stalkerware che colpisce le donne. | Altreconomia
"Presentate come soluzioni antifurto o per controllo parentale, queste app alla portata di tutti possono essere installate per monitorare i dispositivi all’insaputa dei proprietari, scandagliando email, telefonate e account social. Una prassi illegale che si inserisce nell’ampia galassia della cyberviolenza."
In difesa del reddito di cittadinanza | La Fionda
«La vera fotografia del mondo del lavoro in Italia è, dunque, questa: o si è disoccupati involontari (o inattivi) oppure, in alternativa, si ha la “fortuna” di essere, spesso e volentieri, sfruttati. E questa fotografia, come visto, interessa direttamente la quotidianità anche dei percettori occupabili del RdC.
Il RdC può essere concepito come un dispositivo istituzionale che fornisce un minimo di protezione, seppur condizionata, ovvero a breve termine, in primis, contro la povertà assoluta estrema e, secondariamente, contro lo sfruttamento e forme moderne di schiavitù lavorativa. Non si può pensare che, in un tale contesto di diffuse e laceranti ingiustizie e barbarie sociali, il problema sia rappresentato da un sussidio pari lo scorso anno a 548 euro medi mensili e che, per giunta, è divenuto e diverrà sempre più violentemente condizionato. Se un sussidio di 548 euro fa concorrenza ai salari, soprattutto in settori e sotto-settori con produzioni a più basso valore aggiunto come proprio l’agricoltura, il turismo e la ristorazione, allora il problema è dato dal livello troppo basso dei salari e degli stipendi!»
Costi ambientali dei dispositivi di IA
L’immagine di Internet come cloud lo rende un ambiente apparentemente intangibile, quasi post-fisico. Tale percezione contribuisce a creare un’ingenua fiducia nel suo scarso impatto ecologico. A ciò si aggiungono le dichiarazioni del settore tecnologico, apparentemente a favore della sostenibilità ambientale, che fanno in realtà parte della creazione di un’immagine pubblica opaca e non veritiera.
Digital Service Package: come regolare le piattaforme digitali?
Il 5 luglio 2022, al termine della sessione plenaria del Parlamento Europeo, è stato approvato il Digital Services Package, il primo set normativo composto dal Digital Service Act (DSA) e dal Digital Markets Act (DMA), volto a regolare rispettivamente i servizi e il mercato digitali al fine di creare uno spazio online più sicuro e aperto, fondato sul rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini.
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Diritti Digitali per la Comunità Queer
L’intelligenza artificiale (IA) pervade le nostre vite tramite app di varia tipologia, assistenti digitali, sistemi di rating, dispositivi smart. Diversamente dalla prospettiva che la presenta come strategia oggettiva ed equa per la gestione di determinati compiti, l’IA è intrinsecamente priva di neutralità, in quanto potenzialmente soggetta ad un uso duale. Infatti certi algoritmi...
Safe Cities e Colonialismo Digitale in Sudafrica
La sorveglianza biometrica costituisce un framework di tecnologie invasive che ricercano negli individui specifiche caratteristiche identitarie, al fine non dichiarato di attuare una profilazione di massa. Nel caso specifico del Sudafrica questo si inserisce in un ecosistema più ampio creatosi attorno al progetto Safe Cities del gigante cinese Huawei. Guidato dall’idea che la tecnologia sia la...
Il tracciamento dei contatti nei luoghi di lavoro in Italia
Parte 1: Tracciamento dei contatti, le origini Parte 2: Il contact-tracing nel XXI secolo: dalla MERS al COVID-19 Parte 3: L’approccio europeo e italiano al tracciamento dei contatti Parte 4: Il tracciamento dei contatti fuori dall’Italia Parte 5: Il tracciamento dei contatti: questioni etiche Se l’osservazione delle iniziative sviluppate dai vari Paesi europei aiuta a chiarire il quadro delle...
Oggi, #22novembre, è la Giornata nazionale per la sicurezza nelle scuole, istituita dal Parlamento italiano il 13 luglio 2015.
Qui la lettera alle scuole del Ministro Giuseppe Valditara ▶️ miur.gov.
Ministero dell'Istruzione
Oggi, #22novembre, è la Giornata nazionale per la sicurezza nelle scuole, istituita dal Parlamento italiano il 13 luglio 2015. Qui la lettera alle scuole del Ministro Giuseppe Valditara ▶️ https://www.miur.gov.Telegram
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È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione.
🔸 MIM-Regioni, sbloccati 500 milioni per il potenziamento dei laboratori degli ITS
🔸 Accordo con le Province su #PNRR e scuole superiori
🔸 …
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione. 🔸 MIM-Regioni, sbloccati 500 milioni per il potenziamento dei laboratori degli ITS 🔸 Accordo con le Province su #PNRR e scuole superiori 🔸 …Telegram
Non esiste democrazia senza lavoro
"In definitiva, oggi, mentre leggete queste parole, in Italia è tollerato il furto di lavoro, il furto di ciò che serve ovviamente per guadagnarsi da vivere, ma non solo: serve per guadagnarsi la propria stessa libertà e la propria dignità (l’art. 36 della Costituzione infatti recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»). Un contesto di questo tipo, assai intuibilmente, rende praticamente impossibile la partecipazione democratica delle persone con gravi ricadute in termini di democrazia costituzionale. Non solo, per inciso è bene precisare che questo contesto rende praticamente inattuabili molte altre regole in materia di lavoro, prime fra tutte quelle relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro."
Ho cercato informazioni su wiki ma con scarsi risultati: è stato acquistato e reso "chiuso" anche il protocollo?
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Pensavo che sarebbe interessante (e forse esiste già, ma non l'ho trovato) sviluppare un servizio che funga da proxy aggregatore per i diversi account del fediverso che un utente può possedere.
Provo a spiegarmi. Esistono numerosi social network decentralizzati che utilizzano il protocollo ActivityPub, tramite il quale sono tra loro interoperabili. Così un utente Mastodon può ricevere i video pubblicati da un amico su un'istanza PeerTube. Come utente del Fediverso, potrei aprire un account Pixelfed per pubblicare le mie foto, PeerTube per i video, Friendica per il microblogging ecc. Ognuno di questi account avrà il proprio handle, i propri follower e i propri seguiti, il che può diventare scomodo da gestire.
Invece, mi piacerebbe esporre verso l'esterno un unico handle aggregato, ad esempio @c64@luca.it, e "agganciare" a questo handle i numerosi account del fediverso di cui dispongo, per esempio
- @c64@mastodon.uno per Mastodon,
- @c64@poliverso.it per Friendica, ecc.
Come funzionerebbe dunque l'handle aggregato? Tutti i messaggi in entrata verrebbero aggregati dal proxy, e replicati verso tutti gli account personali. In questo modo, per esempio, avrei la possibilità di leggere lo stream dei post dei seguiti tramite Mastodon, che ha un'interfaccia più comoda e matura rispetto a Friendica, oppure utilizzare proprio Friendica. Anche i messaggi in uscita (post, video ecc.) sarebbero mediati dal proxy, in modo tale che i miei follower vedrebbero tutti i messaggi che pubblico, indipendentemente dal social che ho utilizzato per la pubblicazione per ogni singolo messaggio.
Infine, l'handle aggregato potrebbe essere permanente: così potrei modificare l'istanza dei miei social in modo trasparente, senza dover chiedere ai follower di modificare l'handle seguito.
Silvia Barbero likes this.
#PNRR, decreto di approvazione delle graduatorie dell’investimento per asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia.
Info ▶️ miur.gov.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola #PNRR, decreto di approvazione delle graduatorie dell’investimento per asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia. Info ▶️ https://www.miur.gov.Telegram
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“A Scuola di OpenCoesione": online l’elenco delle scuole ammesse a partecipare al progetto per l’anno scolastico 2022/2023.
Info ▶️ miur.gov.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola “A Scuola di OpenCoesione": online l’elenco delle scuole ammesse a partecipare al progetto per l’anno scolastico 2022/2023. Info ▶️ https://www.miur.gov.Telegram
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0ut1°°k
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Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂
in reply to 0ut1°°k • •@0ut1°°k intanto ti ringrazio perché solo grazie alla tua segnalazione mi sono accorto che non avevo scritto la chiocciola prima del nickname @Xab :archlinux: che avevo usato nel testo del messaggio friendica!
Quanto al nickname che vedi nel messaggio, ti spiego due cose che solo alcuni utenti conoscono:
1) quello che ti vedi come messaggio è in realtà il titolo di un post #Friendica. Friendica ti dà la possibilità di scrivere post con il titolo o senza titolo. Se li scrivi senza titolo gli utenti mastodon li vedranno normalmente, anche se sono più lunghi di 500 caratteri; se li scrivi con il titolo invece gli utenti mastodon vedranno "Testo del titolo + Link con il resto del messaggio"; se però da Friendica voglio aprire un nuovo post su Lemmy (una specie di Reddit) allora sarò costretto a scrivere un titolo... Ed è quello che ho fatto
2) I thread aperti su feddit.it vengono rilanciati automaticamente su Twitter. Se scrivo i nickname twitter degli utenti citati nel post, allora essi verranno menzionati anche su twitter.., Ecco perché ho scritto il nickname di Andrea in quel modo. Quando la pubblicazione su twitter sarà avvenuta, posso anche modificare il titolo inserendo il nome giusto.
@Xab
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in reply to 0ut1°°k • •(e tra qualche minuto potrete vedere le modifiche anche voi #povery microbloggerz che siete su mastodon 🤣🤣🤣)
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0ut1°°k
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •@xabacadabra questo è bullismo degli utenti friendica verso gli utenti mastodon!
Adesso segnalo il tuo messaggio al tuo amministratore... Ah no. Ora che ci penso non posso farlo, perché Friendica poverina non ha ancora un sistema per gestire le segnalazioni 😈😈😈🤣🤣🤣
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Xab
Unknown parent • • •@unruhe perché non avevo abbastanza autostima per trovarmi un editore ed era l'autoproduzione più conveniente ahimè (non ne vado fiero confesso)
Prima o poi mi piacerebbe fare la versione ebook, appena ho un po' di tempo ci ragiono anche per gestire immagini e grafici
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