IRAQ. Le prime impressioni all’arrivo a Baghdad dopo l’occupazione Usa
di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 21 marzo 2021 – Gli iracheni, o la maggior parte di essi, non amavano gli Usa e neppure ascoltavano le dichiarazioni da bravi padri della famiglia democratica globale che dispensavano in quei giorni George W. Bush e il suo segretario di stato Colin Powell. La guerra anglo-americana giunta dopo 12 anni di sanzioni economiche durissime li aveva sfiniti oltre ad aver reso più bambini orfani, più donne vedove, più giovani disabili.
Però erano felici che non ci fosse più Saddam Hussein al potere. Era odiato e temuto da milioni di iracheni, non solo dagli sciiti. Il suo potere immenso, la sua brutale determinazione a spegnere nel sangue ogni accenno di ribellione, apparivano a molti in quei giorni di venti anni fa come una storia passata per sempre.
Anche gli iracheni cristiani, ritenuti protetti dal regime, non amavano Saddam ma sapevano, come gli anni successivi avrebbero dimostrato, che il crollo del suo potere li avrebbe esposti a un magma incontenibile di fanatismo religioso. Furono queste le prime impressioni che ricavammo dopo l’arrivo a Baghdad, al termine di un viaggio di mille chilometri da Amman nel deserto a bordo di un furgone.
Pregavano ovunque gli sciiti, in quei giorni successivi alla caduta del regime. Le loro preghiere erano raduni immensi, i riti si trasformavano in comizi. I partiti, vecchi e nuovi, i comunisti come gli islamisti aprivano nuove sedi. Rinascevano le associazioni, si riunivano artisti e intellettuali, non poche volte si vedevano insieme chi era stato dalla parte del regime e chi lo aveva criticato.
Il Baath di Saddam Hussein invece si disintegrava sotto i colpi degli occupanti anglo-americani. Sarebbe rimasto in vita in clandestinità, assieme a formazioni jihadiste e ai resti delle forze armate sciolte dai nuovi padroni dell’Iraq. Gli effetti di quelle decisioni Usa si sarebbero rivelati devastanti qualche mese dopo per gli occupanti stranieri come per i civili iracheni costretti a fare i conti con attentati a raffica e all’inizio della lotta armata contro l’occupazione.
Moriva di fame l’Iraq. Tranne Baghdad e qualche città, il paese era in uno stato di immenso degrado e povertà, soprattutto il sud. Gli iracheni camminavano su enormi riserve di petrolio ma dovevano lottare ogni giorno per mangiare. La popolazione dipendeva dalle distribuzioni di beni di prima necessità. E il dinaro, la valuta nazionale, non valeva niente dopo l’invasione. Pochi dollari corrispondevano a una busta di plastica colma di centinaia di banconote da 500 dinari su cui era stampato il volto di Saddam. Ci volevano un bel po’ di quei pezzi di carta per comprare una birra tenuta sotto ghiaccio da ragazzini piazzati strategicamente all’ingresso del Palestine e degli altri malandati hotel di Baghdad pieni di giornalisti, operatori umanitari, politici, pacifisti e altri ancora.
I funzionari Usa già si sistemavano in quella che sarebbe presto diventata la Zona verde. Da quelle parti la notte si rischiava di fare brutti incontri ai checkpoint degli occupanti. I soldati americani, con i nervi a fior di pelle, ti puntavano subito i mitra contro, poi faccia al muro, mani sopra la testa, perquisizione e controllo documenti. Inutile invocare rispetto per la stampa. Un drammatico esempio delle loro «speciali» regole d’ingaggio – «prima sparo poi parlo» – si sarebbe reso evidente il 4 marzo di due anni dopo quando un militare americano aprì il fuoco contro l’auto che portava in salvo la nostra Giuliana Sgrena, sottratta appena qualche ora prima ai suoi sequestratori. I colpi uccisero Nicola Calipari.
Ahmad si offrì di farci da guida e fixer in quelle prime settimane dopo l’invasione dell’Iraq. Era stato un pilota di Mig e Sukhoi dell’aviazione militare. E aveva fatto parte degli equipaggi che all’inizio della prima guerra del Golfo nel 1991, su ordine di Saddam, a sorpresa portarono oltre 100 cacciabombardieri in tre basi iraniane. «Eravamo pronti a combattere gli americani e invece Saddam ci spedì in Iran. Non ho mai capito quella decisione. Nel 1992 fui congedato e per 11 anni ho ricevuto 50 dollari di pensione al mese, roba da morire di fame. Ho fatto molti lavori per tirare avanti», ci raccontò. Girando in auto quei giorni, ci passarono davanti agli occhi l’Iraq di quei giorni. E di quelli a venire.
La povertà estrema, le distruzioni e i lutti della guerra voluta dall’Occidente democratico, i palestinesi cacciati dalle loro case perché considerati amici di Saddam, l’astio tra sunniti e sciiti, il fiorire di una religiosità estrema che da decenni covava sotto la cenere. A Tikrit, la città di Saddam, la nostra auto fu circondata da una folla ostile che ci urlava «Vai via, qui non è casa tua». Accadde, scoprimmo, a tanti altri stranieri. Se solo gli occupanti avessero ascoltato e accolto subito quella minacciosa esortazione, l’Iraq e molte famiglie nel mondo avrebbe pianto meno morti. Difficile dare un bilancio certo: tra cause dirette e indirette si arrivano a stimare fino a un milione di morti. Pagine Esteri
*parte di un articolo pubblicato nell’inserto “Hanno fatto il deserto” del quotidiano Il Manifesto
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In Cina e Asia – Putin promette di "studiare con attenzione” la posizione cinese sull’Ucraina
I titoli di oggi:
Cina-Russia, al primo giorno di colloqui Putin promette di "studiare con attenzione" la posizione cinese sull'Ucraina
Cina, la campagna anticorruzione arriva nel mondo dei chip
Cina, il Consiglio di stato è sempre più legato al Pcc
India, la visita premier giapponese Kishida
Thailandia: il primo ministro Prayut scioglie il parlamento, elezioni entro maggio
Sri Lanka, il Fmi approva un salvataggio da 3 miliardi di dollari
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PRIVACY DAILY 73/2023
"Trattare con Putin”. La via cinese alla "sicurezza globale”
Xi Jinping arriva a Mosca e manda subito un messaggio all'esterno. Come si inserisce la visita nelle relazioni con la Russia e nella postura in politica estera della Cina, ma anche nella sua visione di sicurezza che ha in testa il Sud globale. Intanto Fumio Kishida va a Nuova Delhi da Modi: Giappone e India più vicine. E l'escalation sulla penisola coreana si inserisce nella contesa tra Washington e Pechino
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Political microtargeting on Facebook: an election promise just for you!
Microtargeting politico su Facebook: una promessa elettorale solo per voi! noyb ha presentato una serie di reclami contro diversi partiti politici tedeschi. I partiti avevano utilizzato il microtargeting su Facebook durante le elezioni federali del 2021 e avevano preso di mi
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Da Golda Meir a Bezalel Smotrich: «I palestinesi non esistono»
di Michele Giorgio
(nella foto il ministro israeliano delle finanze Bezalel Smotrich)
Pagine Esteri, 21 marzo 2023 – Settantacinque anni dopo la fondazione dello Stato di Israele e ben oltre cento dall’inizio dell’impresa sionista in Palestina, riemerge l’antico quanto ridicolo mito della «non esistenza del popolo palestinese». A rispolverarlo è stato, durante una cerimonia in Francia, il ministro israeliano delle finanze Bezalel Smotrich, leader del partito ultranazionalista Sionismo religioso, che, appena qualche settimana fa aveva esortato a «spazzare via» il villaggio palestinese di Huwara, teatro lo scorso 26 febbraio di una spedizione punitiva di coloni israeliani (decine auto e di edifici dati alle fiamme). Con il suo negazionismo antipalestinese, Smotrich è riuscito anche ad aprire una mezza crisi diplomatica con la Giordania. Il ministro ha pronunciato la sua «lezione di storia» avendo alle spalle una mappa della Grande Israele con la Giordania parte del territorio dello Stato ebraico, proprio come appariva sulla bandiera dell’Irgun, l’organizzazione clandestina ebraica fondata nel 1931 responsabile di attacchi e attentati contro palestinesi e britannici.
«Non si può parlare di ‘palestinesi’ perché non esiste un ‘popolo palestinese’», ha detto Smotrich e stretto alleato del premier Netanyahu, intervenendo a Parigi a una cerimonia commemorativa per Jacques Kupfer, un esponente della destra israeliana. Il popolo palestinese, ha spiegato, «è una finzione» elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista. «Sapete chi è palestinese? Io sono palestinese», ha esclamato rivolgendosi all’uditorio «Mia nonna, nata a Metulla oltre 100 anni fa in una famiglia di pionieri che ha creato insediamenti in Galilea, lei era palestinese. Mio nonno, la tredicesima generazione della sua famiglia a Gerusalemme, era un vero palestinese». Qualcuno ieri ha sorriso di fronte a queste dichiarazioni propagandistiche. Non i palestinesi però. «Le parole di Smotrich sono prove inconfutabili dell’ideologia estremista, razzista, sionista che governa l’attuale governo israeliano», ha protestato il primo ministro dell’Autorità Nazionale, Muhammad Shtayyeh. «Siamo noi – ha aggiunto – che abbiamo dato alla Palestina il suo nome e la terra, il suo valore e il suo status. Questa terra è nostra e Israele è uno Stato coloniale fondato dai colonialisti e dai coloni e si è espanso come qualsiasi colonialismo nel corso della storia».
Sarebbe ingiusto puntare il dito solo contro il ministro ultranazionalista Smotrich. La nozione della «non esistenza» dei Palestinesi e del popolo palestinese è stata inventata dai sionisti «progressisti» giunti dall’Europa. E il Sionismo, specie nei primi decenni, ha fatto della negazione del popolo indigeno palestinese l’arma principale della sua legittimazione: gli ebrei, grazie ai sionisti, «tornavano dopo duemila anni di esilio nella loro terra» mentre i palestinesi erano stati creati a tavolino. Teoria che spesso ancora si accompagna, soprattutto a destra, alla deumanizzazione dei palestinesi e alla loro descrizione come tutti dei terroristi veri o potenziali. Golda Meir, celebrata premier donna e icona dell’Israele laburista, nel 1969 dichiarò in una intervista al The Sunday Times che «Non esiste qualcosa come un popolo palestinese. Non è che siamo venuti, li abbiamo buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Essi non esistevano». Un punto che avrebbe ribadito l’anno successivo a Thames TV e nel 1972 al New York Times. E nel 2023, a decenni di distanza da quell’intervista, una bella fetta di israeliani ebrei crede sempre che i palestinesi – tra cui un milione e mezzo con passaporto israeliano – non abbiano alcun diritto perché «inventati». Pagine Esteri
Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto
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Quando il ‘fascismo’ se la prende con i bambini
«Coppie gay spacciano per propri figli bambini avuti con la maternità surrogata»; « Auguri a tutti i papà consapevoli di non poterlo essere senza una mamma»; «Non c’è destra e sinistra, i diritti civili sono di tutti, anche di Giorgia Meloni e di sua figlia». Le prime due frasi sono di un noto violento esponente […]
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Se nella vita o per lavoro hai a che fare con adolescenti, non puoi perdere la puntata di Presadiretta andata in onda ieri su Rai3: "La scatola nera", ora reperibile su Raiplay.
"Gli algoritmi e le piattaforme si stanno prendendo la vita dei nostri figli? Adolescenti e perfino bambini con patologie sempre più diffuse, si tratta ormai di un problema di salute pubblica. In che modo recuperare i danni già fatti, a partire dalla scuola? PresaDiretta è andata a Tulsa in Oklahoma, in uno dei centri di ricerca del più grande studio al mondo per capire quale sia l'impatto sul cervello di bambini e ragazzi delle tante ore passate sui cellulari e social. Ha visitato i centri d'eccellenza italiani e ha intervistato in giro per il mondo i medici e gli scienziati che da anni studiano e denunciano che la lunga esposizione dei ragazzi sulle piattaforme provoca variazioni fisiologiche nel cervello sul piano cognitivo ed emozionale. Sono 10 anni, da quando i social sono esplosi, che gli esperti accusano l'aumento del disagio tra i più giovani: ansia, stress, disturbi dell'attenzione e del linguaggio, anoressia, depressione, autolesionismo. I nostri ragazzi stanno sempre più male."
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Le iniziative delle altre Autorità
Filippine sonnambule in un campo minato economico e geopolitico?
Nel mezzo della peggiore volatilità globale dal 1945, le Filippine potrebbero allineare il proprio futuro con l’erosione secolare, le divisioni politiche, la militarizzazione e i rischi nucleari Solo circa sei anni fa, l’amministrazione Duterte stava ancora ricalibrando la sua politica estera per bilanciare lo sviluppo cinese e la cooperazione militare statunitense. Le Filippine, infine, avrebbero […]
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Le valute digitali della banca centrale porterebbero l’iperinflazione
Ci sono molte scuse spesso usate per spiegare l’inflazione. Tuttavia, il fatto è che non esiste “inflazione spinta dai costi” o “inflazione delle materie prime”. L’inflazione non è un aumento dei prezzi, è la distruzione del potere d’acquisto della moneta. L’inflazione spinta dai costi è più unità di valuta che vanno a beni reali relativamente […]
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“Neuroverso” – Recensione autopromozionale 😉
GARANTISMI – FIFA è Gioco d’Azzardo? Il problema Loot Boxes dei Videogiochi
In questa nuova puntata di #Garantismi insieme a Matteo Flora parliamo della recente sentenza austriaca che ha scosso il mondo dei videogiochi: FIFA e le sue loot boxes e il dibattito che ne è nato sulla protezione dei più giovani. .
Lo Statuto del contribuente, serve un accordo con le opposizioni
Sarà un processo graduale e lungo che impegnerà l’intera legislatura. Lo ha detto il viceministro alle Finanze Maurizio Leo e lo suggerisce il buonsenso. La riforma del fisco tratteggiata con decreto dal governo Meloni è una riforma “di sistema”, l’inizio di un nuovo corso nel rapporto tra lo Stato e il cittadino contribuente come lo fu la riforma Vanoni nei primi anni Settanta.
Il governo ha costruito la cornice, per i contenuti ha delegato il Parlamento. Soglie, procedure e coperture saranno il frutto di un lungo e complesso lavoro delle commissioni parlamentari competenti. Per la Politica e per il Parlamento sarà una grande occasione di riscatto e di concretezza; per lo Stato potrebbe essere una rara occasione di unità.
Un terreno comune già c’è. Diversi punti della delega fiscale varata dal governo Meloni recepiscono, infatti, parte della delega fiscale concordata tra i partiti che sostenevano il governo Draghi sul finire della scorsa legislatura. Pensare che la riforma del fisco possa avere un via libera bipartisan sarebbe ingenuo. La polarizzazione politica è forte e la materia è identitaria, perciò divisiva. Tuttavia, una parziale condivisione delle norme sarebbe auspicabile, non foss’altro perché, come accadde in parte anche con la riforma Visentini, il rischio è quello di una normativa-Penelope: fatta e disfatta nel tempo dalle diverse maggioranze di governo con conseguente disorientamento dei contribuenti, dei ceti produttivi e dei professionisti che li assistono.
Ebbene, c’è una prescrizione politica, nel disegno di legge delega Meloni, che dal punto di vista simbolico ha valore costituente: dare vita allo Statuto del contribuente. Qualcosa di più di una carta dei valori e qualcosa di meno di una norma costituzionale. Una sorta di sovranorma ai cui principi la politica tributaria dovrebbe conformarsi. Sarà materia di dibattito parlamentare. Sarebbe interessante se diventasse anche l’occasione di un confronto serio prima all’interno dei partiti e poi tra i gruppi parlamentari di maggioranza e quelli di opposizione a cominciare dal Terzo Polo. Non sarebbe male se, trattandosi di un’enunciazioni di principi generali che secondo molti avrebbe dovuto avere caratura costituzionale, lo Statuto del contribuente fosse approvato con la più ampia maggioranza possibile.
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La politica estera del Regno Unito ha bisogno di una strategia, non di slogan
L’ex ministro degli Esteri conservatore Douglas Hurd affermò negli anni ’90 che il Regno Unito era stato in grado di “superare il proprio peso” nel dopoguerra, nonostante non fosse più una grande potenza. Questa affermazione potrebbe essere stata vera anche per gran parte dei decenni successivi, ma è sotto crescente controllo negli anni ’20. Questo […]
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Rinnovo biennale per Irini. Ecco la sfida dell’Ue in Libia
Il Consiglio dell’Unione europea ha deciso di prorogare ulteriormente il mandato della missione militare navale europea nel Mediterraneo centrale, Eunavfor Med Irini, fino al 31 marzo 2025. Non è la prima volta che tale mandato viene prolungato. Già nel marzo 2021 il Consiglio aveva preso la decisione di rinnovare la durata dell’incarico di altri due anni. In prossimità della nuova scadenza, la decisione del rinnovo biennale è seguita alla revisione strategica dell’operazione effettuata dal Comitato politico e di sicurezza, che ha portato anche alla delibera del Consiglio circa la necessità di facilitare ulteriormente lo smaltimento delle armi e del materiale sequestrato dall’operazione. Non solo, la proroga del mandato è stata accompagnata dalla decisione circa l’importo di riferimento per i costi comuni dell’operazione, che vengono stimati intorno a circa 16,9 milioni di euro per il periodo compreso tra inizio aprile 2023 e fine marzo 2025.
I compiti principali
La missione Eunavfor Med Irini, il cui nome deriva dal greco “pace”, è stata lanciata il 31 marzo 2020 e rappresenta ad oggi il massimo sforzo militare espresso dall’Unione europea per la stabilizzazione e la pacificazione della Libia. E rientra nella politica di sicurezza e difesa comune dell’Ue (Psdc). Il contributo della missione punta innanzitutto a far rispettare l’embargo delle Nazioni Unite sulle armi in Libia attraverso l’uso di mezzi militari, definito soprattutto nella risoluzione 2292 del 2016 del Consiglio di sicurezza. A tal fine, la missione ha il compito di effettuare ispezioni di navi in alto mare, al largo delle coste libiche, qualora queste siano sospettate di trasportare armi o materiale correlato da e verso la Libia. Inoltre, tra i compiti della missione rientra anche il monitoraggio delle violazioni perpetrate per via aerea e terrestre e la loro condivisione con le Nazioni Unite. Così, per garantire la riuscita di Irini, si sono mobilitati per la missione assetti aerei, satellitari e marittimi, con una buona dose dunque di capacità Isr, acronimo per Intelligence, sorveglianza e riconoscimento. Il rispetto dell’embargo è infatti considerato dagli osservatori, in primis dalla missione onusiana Unsmil, l’elemento centrale per giungere a una pacificazione.
Ulteriori mansioni
Tra i compiti secondari di Irini, rientrano invece le attività di monitoraggio e raccolta delle informazioni sulle esportazioni illecite dalla Libia di petrolio, greggio e prodotti petroliferi raffinati. In tale quadro, la missione contribuisce inoltre a contrastare le reti di contrabbando e traffico di esseri umani attraverso la raccolta di informazioni e il pattugliamento aereo. Infine, sono rilevanti anche le risorse stanziate nell’ambito della missione Irini per favorire il rafforzamento delle capacità e della formazione della Guardia Costiera e della Marina libiche. Così la missione navale punta a fornire un contributo tangibile all’interruzione del modello di business delle reti di traffico.
La guida italiana
A capo della missione troviamo oggi il contrammiraglio Stefano Turchetto, in qualità di comandante dell’operazione dell’Ue. Il contrammiraglio ha preso il posto del collega Fabio Agostini, precedentemente al comando dell’operazione Irini, nell’ottobre 2021. Una decisione logica, viste le strutture già presenti nella base romane (la sede di Centocelle), nonché l’esperienza acquisita dal personale multinazionale, ma non per questo facile, vista l’agguerrita concorrenza francese e spagnola manifestatasi all’inizio della missione.
(Foto: Operation Eunavfor Med Irini)
EU Parliament Committee: Majority wants chat control
According to the meanwhile published amendments of the Internal Market Committee (IMCO) of the European Parliament on the planned chat control regulation[1], a majority supports the bulk screening of private messages and photos of non-suspects for allegedly suspicious content. The European parliamentary groups of Social Democrats (S&D), Liberals (Renew), Christian Democrats (EPP), National Conservatives (ECR) and Far Right (ID) support the plan – with some reservations. Only the Greens/European Free Alliance and the Left reject the bulk screening of private messages and photos of non-suspects.
With the exception of the Liberals, all parliamentary groups want to exempt end-to-end encrypted messages from screening, thus excluding client-side scanning. However, the Christian Democrats want to make the analysis of metadata mandatory to search for known illegal material – how this is supposed to work without content analysis is not explained. Social Democrats and National Conservatives want to limit chat controls to known material, while the proposal also provides for searching for unknown depictions and attempts of solicitation by using “artificial intelligence”. Christian Democrats and Far Right MEPs want chat controls to be ordered by a judge, contrary to the proposal which would also allow orders by “independent administrative authorities”.
Liberals, Christian Democrats and Far Right conservatives want to go even further than the EU Commission’s chat control proposal by allowing providers to carry out chat controls on their own initiative without any judicial or administrative review or order. A lawsuit is pending against this type of “voluntary chat control” currently practised by US providers, and the EU Commission actually wanted to replace it with its proposal.
Like the Socialist IMCO Rapporteur Saliba, Pirate MEP Kolaja (Greens/EFA) wants to tame other rogue ideas from the draft regulation besides chat control: With regard to age verification, Kolaja tables that no mandatory age check or verification should be introduced, neither for communication services nor for app stores. In effect making the anonymous sending of emails, messenger and chat messages virtually impossible could make anonymous tips and police reports, for example by whistleblowers, impossible. Kolaja also wants to delete the proposed ban on app stores from allowing minors to install communication apps such as Whatsapp to protect them from adults initiating sexual contacts.
Pirate Party MEP Patrick Breyer, shadow rapporteur for his group in the lead Committee on Civil Liberties (LIBE), comments:
“Now that a broad majority for mass message and chat controls of non-suspects is emerging even in the tech-savvy Internal Market Committee of the European Parliament, alarm bells must be ringing for all those who want to stop total surveillance of private and intimate messages and photos. Only a Europe-wide wave of protests can now prevent the destruction of the digital privacy of correspondence. We Pirates are fighting for this side by side with the civil liberties movement!
The proposed cuts in chat control do not change the substance of the unprecedented plan for mass searches of the contents of private communication of law-abiding citizens: an exception for encrypted communication via messenger services would continue to expose the vast majority of emails and chats to chat control. The proposal by Christian Democrats to reserve chat control orders to the judiciary is of little value because judges remain legally obliged to issue these orders.
Limiting scanning to ‘known’ material also does not change the fact that in precisely this procedure 80-90% of the flagged messages and photos turn out to be entirely legal and end up in the wrong hands for no reason. It is precisely these chat controls that leave child porn rings completely unchallenged while criminalising young people en masse. Abuse victims also warn of an end to digital privacy of correspondence – not to mention its incompatibility with fundamental rights. At the same time, abuse material that law enforcement officials have long found on the darknet inexplicably remains unreported and continues to circulate.
It will probably be decided in 2023 whether the EU will introduce a mandatory general monitoring scheme so extreme that it doesn’t exist anywhere else in the free world. Now it is important that everyone helps to defend the digital privacy of correspondence – with petitions, by creating awareness for the issue and protesting.”
In the lead committee, LIBE, the draft report by Spanish conservative rapporteur Zachalejos is expected in mid-April.
[1] Amendments: europarl.europa.eu/doceo/docum… and europarl.europa.eu/doceo/docum… , draft report: europarl.europa.eu/doceo/docum…
Breyer’s information website on chat control
Il Massacro di Batoh (1652): I Cosacchi Uccidono 5.000 Prigionieri Polacchi
Il massacro di Batoh, avvenuto il 3-4 giugno 1652 vicino a Ladyzhyn, in Ucraina, rappresenta uno dei peggiori atti di violenza perpetrati durante la Rivolta di Khmelnytsky del 1648-1657. La Battaglia di Berestechko e laContinue reading
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Il mandato d’arresto per crimini di guerra di Putin aggraverà l’isolamento della Russia
Il 17 marzo, la Corte penale internazionale (ICC) dell’Aia ha incriminato il Presidente russo Vladimir Putin e ha emesso un mandato di cattura. È probabile che questa accusa abbia conseguenze di vasta portata per Putin personalmente e per la Russia. Il mandato afferma che Putin “è presumibilmente responsabile del crimine di guerra di deportazione illegale […]
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La trappola incombente di Biden in Ucraina
Sono in atto tre grandi fattori che daranno forma alle prospettive della guerra in Ucraina. Ognuno di questi influenza gli altri in modi potenzialmente rinforzanti. Insieme, potrebbero presto creare una dinamica che potrebbe limitare notevolmente la capacità dell’amministrazione Biden di guidare gli eventi verso i risultati desiderati. Il primo è il corso degli sviluppi sul […]
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L’America continua il dominio dello spazio con le sue imprese private
Può darsi che non stia andando proprio bene alle ultime missioni spaziali di Elon Musk. Può succedere. A fine mese scorso, una batteria di 21 satelliti per le connessioni telefoniche dirette lanciata con un Falcon 9 potrebbe avere avuto qualche problema. Non certo allo stadio recuperabile B1076 al suo terzo volo, tornato sulla piattaforma semovente […]
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Dopo i Rafale, gli F-35. La decisione greca e quel viaggio in Italia
La visita italiana del capo della forze armate greche, generale Kostantinos Floros, ricevuto dal Capo di Stato Maggiore della Difesa Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone porta in dote una serie di riflessioni tecniche tarate sul Mediterraneo, che potrebbero avere anche un altro filo comune: gli F-35. A breve si terrà la riunione finale al ministero della Difesa greco dove si deciderà se Atene proporrà a Lockheed Martin di calcolare nella sua risposta l’inclusione di programmi di sicurezza, approvvigionamento e informazioni (SSI – Security, Supply, Information) e infrastrutture con la partecipazione dell’industria della difesa greca. È questa l’anticamera per ricevere gli F-35 entro il 2028. E l’Italia (con Cameri) rientrerebbe nel cerchio che si dovesse chiudere tra Washington e Atene.
F-35
Al centro dell’incontro ci sono state una serie di riflessioni sia sull’interesse congiunto della sicurezza in quegli spazi geostrategici condivisi, sia le rispettive posizioni sui dossier militari maggiormente significativi in proiezione Ue e Nato. La visita è proseguita presso il Comando Operativo di Vertice Interforze (Covi) ove, accolto dal Generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo, e presso il quartier generale dell’ Eunavfor Med – Irini, operazione a guida Europea alla quale partecipano 23 Stati Membri dell’Ue e nell’ambito della quale la Grecia svolge un ruolo particolarmente attivo.
Sulla quasi certezza relativamente all’arrivo di venti F-35 in Grecia il governo ellenico pare non nutrire più dubbi, come osservato dal ministro della Difesa, Nikos Panagiotopoulos, secondo cui almeno una flotta di F-35 opererà nell’area balcanica ma il Paese che li acquisirà non sarà la Turchia. Il ministro, pochi giorni fa, ha dichiarato che il primo caccia del primo lotto di F-35 per la Grecia arriverà nel 2028. Lo scorso 8 febbraio il presidente della commissione per le relazioni estere del Senato degli Stati Uniti, Bob Menendez, aveva approvato la vendita degli aerei alla Grecia, aprendo le porte al conseguente iter burocratico, compresa la ratifica del trattato di difesa.
La Grecia ha già acquistato dalla Francia 18 caccia Rafale per sostituire progressivamente i vecchi Mirage, al contempo sta terminando l’aggiornamento in modalità Viper dei suoi F-16.
Anfibi
Nel frattempo dal Dipartimento di Stato arriva il via libera alla possibile vendita alla Grecia di veicoli d’assalto anfibi (Aav), attraverso il programma Foreign Military Sales (Fms): è un contratto del valore di 268 milioni di dollari. Il Dipartimento di Stato ha definito la Grecia un alleato critico della Nato che svolge un ruolo importante per la stabilità politica e il progresso economico in Europa. Nello specifico si tratta di sessantatré veicoli anfibi d’assalto per il personale (AAVP-7A1), nove veicoli anfibi per il comando d’assalto (AAVC-7A1), quattro veicoli anfibi per il recupero d’assalto (AAVR-7A1) e sessantatré mitragliatrici. Sono inclusi anche i lanciagranate MK-19, i sistemi di osservazione termica M36E T1 (Tss), il supporto per la fornitura (ricambi), le attrezzature di supporto (inclusi kit speciali/strumenti/kit migliorati (Eaak), manuali tecnici, dati tecnici, (Cets), strumenti integrati Accounting Support Management Services (Ils), Riparazione di componenti obsoleti, Servizi di calibrazione, Follow Up Support (Fos).
La nuova fornitura americana permetterà alla Grecia di far fronte alle nuove minacce attuali e future, fornendo un’effettiva capacità di proteggere gli interessi e le infrastrutture marittime a sostegno della sua posizione strategica sul fianco meridionale della Nato.
Triplice
A suggellare questa nuova veste ellenica si registra anche il rafforzamento della partnership militare tra Grecia, Israele e Cipro che puntano a rafforzare la cooperazione e i legami tra le loro forze armate, poiché è convinzione dei tre Paesi che le nuove sfide si affronteranno solo con un’azione multilaterale tra Paesi che condividono il diritto internazionale. In particolare Tel Aviv e Nicosia hanno siglato un programma bilaterale di cooperazione per la difesa tra la guardia nazionale e le forze armate israeliane (Idf) a Tel Aviv, nonché un corrispondente programma tripartito con le forze di difesa greche per il 2023. I tre Paesi si definiscono come fattori di stabilità e sicurezza nel Mediterraneo orientale e oltre.
Il riferimento è principalmente al tema della sicurezza energetica, delle infrastrutture esistenti (Tap), di quelle future (EastMed) e dei giacimenti nel Mediterraneo orientale in cui operano primari players mondiali, come Exxon ed Eni.
Per i giudici austriaci il videogioco Fifa è gioco d’azzardo. Vero o falso, salvaguardiamo i più piccoli
FuoriLegge
Non c’è nessuno che sostenga la giustizia italiana funzioni bene. Ci si può ben spingere a parlare di bancarotta. Ma le cose possono andare peggio, fino a giungere alla bancarotta culturale che si coglie nelle parole di chi crede che se non funziona la giustizia giudicante si possa rimediare applicando le pene senza giudizio. Sembra severità, ma è solo severamente fuori dalla civiltà del diritto.
Dice il procuratore aggiunto di Napoli che quanti vengono arrestati, ad esempio dopo le violenze dei giorni scorsi, sta in carcere pochi giorni e non teme la pena, perché il processo ha tempi lunghi, sicché servono misure cautelari più severe. No, servono giudizi più celeri. Aggiunge: <<Il principio della presunzione di innocenza, che capisco e rispetto, presuppone tempi rapidi per il processo. Paesi con ricorso limitato al carcere preventivo arrivano a sentenza in 6 mesi, non in 5 anni>>. Fa piacere che capisca e rispetti un principio iscritto nella Costituzione e in un paio di fondamentali trattati internazionali, è incoraggiante, ma gli sfugge un dettaglio: senza quel principio non c’è giustizia possibile, senza quello i tribunali possono pure chiudere e si passa ai guardiani della morale, esecutori invasati, per ideologia o misticismo, del dispotismo. Senza si è fuori legge.
Il punto, comunque, è far funzionare la giustizia in tempi ragionevoli. Per ottenere questo risultato, possibile da agguantare anche perché considerato normale fra i Paesi civilizzati, non è che si debbano fare leggi settoriali o stringere qualche bullone, ma agire sul modo stesso in cui la macchina penale è concepita:
1. a processo deve arrivare la minoranza dei casi, non la pressoché totalità, in che significa rendere convenienti riti e pene alternative;
2. la procura non deve essere obbligata a procedere anche quando sa che sarà una perdita di tempo, quindi via l’obbligatorietà dell’azione penale;
3. le carriere, di accusatori e giudici, devono essere separate non per un puntiglio culturale, ma perché è il solo modo per valutare l’efficienza di ciascuno, senza che la cosa vada a finire sul tavolo di un Csm che eleggono uniti, dividendosi in correnti, cordate e camarille.
Il che ci porta nel campo della politica. Se si prendono le cose scritte da Carlo Nordio, nel corso di molti anni, si trova tanto di quel che serve. Molto bene. Se si prendono le scelte, in materia penale, fin qui fatte dal governo di cui Nordio fa parte si trova l’esatto contrario. Molto male. Naturale che non sarebbe stato neanche immaginabile trovare lo scrittore in tutti gli atti, lo è meno che si debba fare affidamento alla speranza nel cercarcelo. Ma questa è la logica della politica, dove Nordio arriva forte di un invidiabile bagaglio culturale, ma privo di forza propria. Siamo solo all’inizio, entro maggio è promesso l’arrivo, in Consiglio dei ministri, di un pacchetto di riforme. Attenderemo che venga fuori la legge. Ma è onesto avvisare subito: una cosa sono i testi licenziati dai ministri, altra il risultato dei lavori parlamentari. Vero che la politica è l’arte del compromesso, ma conta il risultato, altrimenti ci si è solo compromessi.
Basta avere chiaro che tutto dipende da un solo punto: la separazione delle carriere. Ci si può incaponire sulla disciplina delle intercettazioni telefoniche e ambientali, ad esempio, ma il momento della verità consiste nel far dipendere il successo (e la carriera) di un procuratore non dalla conferenza stampa a fine indagini, ma dal verdetto. Scritto da non colleghi. Idem per la ricorribilità delle assoluzioni: Nordio ha ragione, è illogico volere riprocessare un assolto, ma l’assurdo si estingue quando le procure smetteranno di ricorrere in automatico, non rispondendone, e cominceranno ad essere responsabili dei risultati. Senza il cardine della separazione le ruote delle riforme correranno senza meta in direzioni diverse.
Meno processi, più responsabilità di ciascuno, tempi ridotti, certezza della pena. L’alternativa è la certezza del penoso.
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PODCAST. L’Iraq 20 anni dopo l’invasione Usa : “Devastato da corruzione e povertà”
di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 20 marzo 2023 – Venti anni fa gli Stati uniti, con l’aiuto della Gran Bretagna, lanciarono l’attacco contro l’Iraq che provocò la caduta di Saddam Hussein e diede inizio a una lunga e sanguinosa occupazione militare che causò centinaia di migliaia di morti e feriti e distruzioni immense. Nel 2023 le condizioni di vita nel paese arabo sono molto difficili. Gran parte della popolazione è povera nonostante l’Iraq sia tra i maggiori esportatori di petrolio. Mancano i servizi pubblici. La corruzione dilaga e regna l’instabilità politica. I giovani non hanno fiducia nello Stato. Ne abbiamo parlato con la giornalista Paola Nurnberg* in questi giorni a Baghdad.
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*Paola Nurnberg è una giornalista della radio/tv Svizzera. E’ stata inviata in molti paesi del mondo e scenari di guerra.
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Stranieri, o meglio detenuti
Il Giappone è in continuo calo demografico e ha bisogno di attrarre cittadini stranieri. Ma le regole per gli irregolari (compresi coloro a cui è scaduto il visto) sono durissime. E nei centri di detenzione dedicati non sono rare le tragedie. Tratto dal nuovo ebook di China Files: "Demografia asiatica"
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In Cina e Asia – Prima della visita, Xi riafferma la partnership con la Russia
Huawei ha sostituito migliaia di componenti vietate dagli Usa
Scoperto DNA animale a Wuhan. L'Oms chiede spiegazioni
Il disaccoppiamento dalla Cina mette a rischio i brevetti congiunti
La Cina introduce linee guida contro le molestie sul lavoro
Tik Tok: possibile spionaggio di giornalisti, gli Usa indagano
Corea del Nord: nuovi lanci di missili balistici e "800 mila nuove reclute nell'esercito"
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L’Iraq vent’anni dopo
di Joost Hiltermann – International Crisis Group –
Traduzione di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 19 marzo 2023 – Alimentata da un gruppo di ideologi noti come i “neoconservatori”, l’invasione statunitense dell’Iraq del 2003 fu la prima mossa dell’amministrazione Bush per riprogettare il Medio Oriente. Benché fosse giustificata come la risposta al supposto coinvolgimento del leader iracheno Saddam Hussein nell’attacco agli Stati Uniti dell’11 settembre e alla sua presunta capacità di produrre armi biologiche o altre armi di distruzione di massa, le sue finalità poi documentate erano più ampie. Gli “architetti della guerra” desideravano farne una regione più amichevole nei confronti degli interessi statunitensi, isolare l’Iran, e, facendo fuori uno dei membri del fronte arabo “del rifiuto”, rifilare una “Pax israeliana” ai Palestinesi – che avevano cercato un’altra volta, con una seconda Intifada iniziata nel 2000, di ribellarsi alla legge militare israeliana. C’erano anche altri motivi in gioco: dimostrare il potere statunitense dopo l’attacco dell’11 settembre esercitando la sua forza bruta e, secondo alcuni neoconservatori, provare che una missione di “democraticizzazione” poteva contrastare il fascino dei movimenti islamisti nella regione.
Se l’impresa iniziò con tracotanza e ambizione, finì tra le lacrime. Gli obiettivi irreali dei suoi fautori combinati con la legge delle conseguenze indesiderate finirono per mettere in luce la loro ignoranza e la loro arroganza. Piuttosto che far germogliare la democrazia in Medio Oriente, l’invasione provocò un vuoto di sicurezza nel cuore della regione. Scatenò un Iran intenzionato a vendicarsi del sostegno di Washington allo Shah e alla “guerra imposta” dal regime di Hussein, lanciata nel 1980 per spegnere la Rivoluzione Islamica. Infiammò l’ascesa del dibattito settario, che contribuì a trasformare la polarizzazione politica irachena in tre anni di brutale guerra civile. Ridusse in brandelli il mito della potenza militare degli Stati Uniti e la sua reputazione, dopo la Guerra Fredda, di unica superpotenza, la sola capace di imporre la sua volontà ben oltre le proprie coste. Generò una nuova ondata di gruppi jihadisti, culminata nella nascita dello Stato Islamico di Iraq e Siria, l’Isis, che non solo sfruttò il caos che si era creato sulla scia dell’invasione americana ma successivamente lo rese ancora più drammatico. L’offensiva dell’Isis nel 2014 ha riportato le truppe statunitensi in Iraq anni dopo che Washington aveva cercato di lavarsi le mani dei disordini che aveva creato nella regione. Ultimo ma sicuramente non meno importante, l’invasione del 2003 si concluse con la beffa delle due motivazioni che Bush aveva addotto per giustificarla pubblicamente: gli investigatori non trovarono né le armi di distruzione di massa in Iraq né le prove di una connessione tra il regime di Saddam Hussein e gli attacchi dell’11 settembre.
Anatomia di un fallimento
L’Iraq sotto il regime dell’apparato brutale del partito baathista di Saddam Hussein e le sue agenzie di sicurezza non era un posto piacevole, eppure la gioia che la sua caduta provocò in molti Iracheni – curdi e sciiti in particolare – svanì ben presto. L’ambivalenza della situazione diventò palese molto presto dopo la “liberazione” del 2003, quando durante una visita a Baghdad mi venne chiesto da alcuni speranzosi abitanti, che avevano bene accolto l’arrivo delle truppe statunitensi, perché i soldati non avessero ripristinato l’ordine pubblico, lasciando, invece, che le bande saccheggiassero i palazzi governativi e rubassero beni inestimabili dai musei e dalla libreria nazionale. Questi Iracheni trovavano incomprensibile che l’esercito degli Stati Uniti potesse permettere un tale caos; lo interpretavano come un segnale di cattive intenzioni – un tentativo di estendere i domini dell’impero mediante la distruzione. Il parere del Segretario americano alla Difesa Donald Rumsfeld che “la libertà porta disordine” non li tranquillizzava. Erano piuttosto infuriati dai frequenti riferimenti dei media occidentali alla “caduta di Baghdad”, che inevitabilmente portava alla memoria il sacco della città nel 1258 da parte dei Mongoli, quando questa era il centro dell’impero degli Abbassidi e del fermento culturale dell’epoca, una cosa ben diversa rispetto alla “caduta del regime”. I loro sentimenti anti-invasione di stampo nazionalista arabo erano molto diffusi in Medio Oriente, dove il regime deposto aveva goduto di un supporto popolare significativo per la sua resistenza all’agenda statunitense. (Molti erano inconsapevoli o chiudevano gli occhi davanti a quanto avveniva nelle prigioni di Saddam Hussein).
Vent’anni dopo, è chiaro come l’invasione fu un fallimento terribile sotto molti punti di vista, non solo per la mancanza di pianificazione dell’impresa ma anche per la serie di conseguenti disastri che la segnarono. Gli Stati Uniti, quasi dal “partenza-via”, persero i cuori e le menti di molte delle persone che erano venuti a liberare. Queste ultime finirono per appoggiare, con vari gradi di entusiasmo, le azioni di una piccola minoranza che gravitava intorno a forme di resistenza molto più violenta verso quella che, giustamente, definivano una “occupazione” – uno status confermato dalla Croce Rossa Internazionale, garante delle Convenzioni di Ginevra del 1949, e dagli stessi Stati Uniti. Qualsiasi protezione internazionale la presenza americana potesse offrire ai civili iracheni, essa determinò anche un livello di dominazione straniera che finì per andare male alla maggior parte di loro.
Nel giro di poche settimane, molti errori furono commessi. Iniziarono con l’instaurazione di un proconsole americano, L. Paul “Jerry” Bremer, dotato di ampi poteri e limitata conoscenza del Paese. Poi venne lo smantellamento dell’esercito da parte sua, anche se di tutta la miriade di apparati di sicurezza iracheni, l’esercito era quello che aveva mostrato meno di tutti lealtà al vecchio regime e aveva un corpo di ufficiali che avrebbe potuto essere riformato per offrire sicurezza a tutto il Paese.
Un altro sbaglio madornale fu la purga degli ex membri del partito baathista dallo Stato, una mossa spinta dal desiderio di vendetta dei partiti sciiti, che cercavano di ottenere il potere. Per come la portarono avanti gli Stati Uniti, la de-baathificazione fu indiscriminata, con la rimozione di tutti gli ufficiali degli alti livelli del partito; ma finì per essere selettiva, visto che i partiti islamisti successivamente perdonarono molti dei baathisti sciiti (tranne alcuni che erano stati gli scagnozzi del regime) e diedero loro alcune posizioni di potere nel nuovo ordine, ma non i baathisti sunniti.
A coronare il tutto, la creazione di una struttura di governo sul modello del sistema della muhasasa libanese, con la rappresentazione politica delle comunità etnico-confessionali sulla base della loro presunta proporzione demografica. Una tale risoluzione potrebbe incoraggiare una politica guidata dal consenso popolare, ma contrasta una governance effettiva: chiunque ha una poltrona, ma nessuno può prendere decisioni. Questo genera ogni forma di corruzione, poiché i politici elargiscono protezione ai loro elettori, e le loro controparti non possono opporsi, per paura che crolli tutto il sistema. Insieme al fallimento nel fermare il saccheggio del Paese, queste azioni furono i peccati originali dell’occupazione.
Un racconto di due temi
I due temi principali degli ultimi due decenni, comunque, sono stati: primo, come gli Stati Uniti, di concerto con gli esuli di ritorno, definirono sempre l’Iraq come comprendente tre comunità principali – i curdi, gli arabi sciiti e gli arabi sunniti – e relegarono quest’ultimo gruppo, in un unico conglomerato indifferenziato, ad essere quello degli sconfitti ufficiali. L’Iraq divenne un caso emblematico di come l’esclusione – in questo caso dei sunniti privati di potere sotto quello che emerse come il dominio sciita islamista – generi rancore, che accumulandosi può provocare violenza.
Con i Sunniti allontanati dal potere, nel disordine prosperò una ribellione guidata dal movimento di Al-Qaeda in Iraq (AQI), che gli Stati Uniti non furono in grado di contenere e, probabilmente, poco interessati a fermare. Non volendo restare impantanata in quella regione un giorno di più, Washington aveva portato buona parte delle sue truppe fuori dal Paese entro la fine del 2011, per tornarci appena tre anni più tardi quando l’Isis (che derivava dall’AQI), conquistò territori in Siria e in Iraq. Oggi, l’Isis può essere stato soppresso con mezzi militari, ma si continua a covare rancore, alimentato da una governance negligente, scarsa rappresentazione politica e scarsa protezione. Gli abitanti di Falluja, Ramadi, di quello che resta di Mosul e una miriade di altre piccole città a ovest e nord-ovest sono stati, in effetti, incolpati di tutte le depredazioni del vecchio regime. I membri rimanenti dell’Isis, intanto, nascondendosi in terreni accidentati, portano avanti operazioni locali aspettando il giorno in cui il potere di Baghdad si risveglierà di nuovo.
Il secondo leitmotif è come l’occupazione statunitense abbia permesso all’Iran di diffondere la sua influenza in Iraq – attraverso leader politici simpatizzanti e milizie per procura – fino ai confini con l’Arabia Saudita, la Giordania e la Siria, suggerendo una vittoria tardiva dell’Iran nella Guerra del 1980-88. Il destino dell’Iran in quel conflitto gli offre oggi il pretesto per usare l’Iraq come profondità strategica davanti a un mondo arabo ostile, e gli regala anche l’occasione di un regolamento di conti. Teheran aveva avvertito che i limiti al suo potere sulla regione erano già stati allentati dopo che l’invasione statunitense dell’ottobre 2001 in Afghanistan aveva allontanato I talebani, un altro dei suoi rivali.
L’ascesa dell’Iran in Iraq e in maniera più estesa in tutto il Medio Oriente è spesso attribuita a un’aspirazione all’egemonia regionale. Potrebbe effettivamente nutrire simili ambizioni. E si potrebbe a ragione replicare che l’Iran ha provato una spiccata capacità di sfruttare le condizioni favorevoli che gli si sono presentate. Ha aiutato Hezbollah a insediarsi in Libano in risposta all’invasione israeliana del Paese nel 1982, cosa che non danneggiò soltanto i rifugiati palestinesi ma anche la popolazione in maggioranza sciita. Ha esteso la sua influenza in Iraq grazie all’invasione statunitense. E’ venuto in soccorso dell’alleato siriano Bashar al-Assad quando il suo regime ha vacillato davanti alle proteste popolari e all’insurrezione armata nel 2011. Infine, ha dato man forte ai ribelli houthi in Yemen in seguito al fallimentare ma duraturo intervento militare dei sauditi nel 2015. In Iraq, Libano e Yemen, l’Iran ha beneficiato anche della presenza di gruppi islamisti sciiti desiderosi di approdare al potere nazionale grazie al suo aiuto.
Per contenere l’Iran sarà necessario farlo confrontare con una serie di condizioni locali “sfavorevoli”. La ricostruzione degli stati arabi basata sulla legittimazione popolare, incluso l’Iraq, potrebbe essere il cambiamento più significativo in questo senso. Nel 2011, otto anni dopo l’invasione dell’Iraq, Tunisini, Egiziani, Libanesi, Siriani, Yemeniti, Bahreiniti e altri hanno mostrato come può essere la restaurazione dell’ordine politico regionale quando viene realizzata dal basso. I regimi minacciati, tuttavia, hanno represso con la forza i manifestanti nelle piazze, mentre i poteri regionali come l’Iran, i Paesi del Golfo Arabo e la Turchia hanno stravolto i loro sforzi, specialmente in Siria. Questi cambiamenti hanno reso gli esiti di quella stagione di speranza nella regione tanto tragici quanto quelli vissuti dagli Iracheni dopo il 2003, se non di più. Eppure, dei modi per raggiungere una governance più promettente che non preveda un intervento esterno né un’insurrezione interna si possono immaginare, e l’Iraq, che ha mantenuto una certa coerenza nazionale a vent’anni dall’invasione, può essere capace di proporre delle idee realizzabili, perché almeno ha goduto di qualche sviluppo positivo anche come risultato dell’invasione degli Stati Uniti.
Ancora qui
Al contrario delle previsioni di alcuni osservatori (e, in qualche caso, anche dei loro desideri), l’invasione non ha comportato la fine dell’Iraq. I confini si sono dimostrati stabili e il nazionalismo iracheno si è ripreso nonostante un’iniziale esplosione di sentimenti anti-nazionali. (I curdi sono riusciti a ottenere una maggiore autonomia, ma non la completa indipendenza alla quale ambiscono da tempo.) La società irachena è arrivata a godere di una modica libertà. Il Paese ha un sistema multipartitico per la prima volta nella sua storia, elezioni parlamentari ripetute e relativamente trasparenti, e una stampa libera (ma facilmente soggetta a intimidazioni). Nell’attuale sistema politico iracheno, nessun leader autoritario può agire senza restrizioni. Ma proprio la debolezza del centro, guidato da una classe politica corrotta incapace di dare anche solo una parvenza di buon governo, se da una parte ha reso possibili queste importanti caratteristiche ha anche permesso l’ascesa di milizie predatorie e di intrusioni ripetute dei vicini Iran e Turchia.
In che modo questi risultati equivalgano a un vantaggio per gli Stati Uniti, nonostante la grande spesa in termini di sangue e denaro, nessuno sa dirlo, con le uniche eccezioni ben immaginabili dell’industria delle armi e di altri interessi corporativi. C’è chi sosteneva già prima della guerra che la spedizione proposta dall’amministrazione Bush fosse mal concepita, basata sulla cattive informazioni fornite da un piccolo gruppo di esuli iracheni, con le loro agende molto ristrette. In quanto tale, non avrebbe mai potuto avere successo, anche se la forza occupante fosse stata meno disastrosamente incompetente di quanto si sia nei fatti rivelata.
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PRIVACY DAILY 72/2023
Guerra in Ucraina: l’incriminazione di Putin è solo propaganda?
La gran parte della stampa italiana, e non solo, si occupa con estrema ampiezza della cosiddetta «incriminazione» di Putin. Si tratta indubbiamente di una notizia abbastanza clamorosa e unica nel suo genere anche se, a ben vedere, non poi così inattesa e nemmeno così imprevedibile. Per capirci, la Corte penale internazionale dell’Aja è stata istituita […]
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Schlein e Landini sfidano Meloni
Incassa il 94,2 per cento dei voti, Maurizio Landini. Con questa votazione quasi bulgara il 19° congresso nazionale della CGIL conferma per altri quattro anni Landini alla guida del sindacato tradizionalmente schierato a sinistra. Ed è subito un segnale chiaro, inequivocabile quello che arriva da Rimini. Prevedibile, anche. All’attuale inquilino di palazzo Chigi Landini […]
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Non solo #Mastodon, ma anche #PeerTube #PixelFed #Friendica e #Funkwhale: i social media decentralizzati aumentano mentre Twitter si scioglie. @Matt_on_tech intervista @tchambers
Mastodon è solo l'inizio: il Fediverso sta arrivando con PeerTube, PixelFed, Friendica e Funkwhale
la maggior parte delle aziende che cercano di supportare i social media decentralizzati stanno aggiungendo il supporto per #ActivityPub o, in alcuni casi, costruendo nuove piattaforme per un futuro decentralizzato. Si dice che Meta stia lavorando sul proprio social network decentralizzato, nome in codice P92 , che si dice includa il supporto ActivityPub. WordPress , Flipboard e Mozilla hanno tutte funzionalità annunciate che si integrano con il Fediverso.
Qui è disponibile l'intervista di @Matthew S. Smith a @Tim Chambers
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skariko@feddit.it purtroppo @tchambers@indieweb.social l'ha tralasciato. Non so se perché non lo conosce, perché non lo ritiene meritevole di una menzione o semplicemente perché non gli piace. Ma sta di fatto che ora, stando dentro a questa conversazione, anche lui è finito su Lemmy 😂
@fediverso@feddit.it
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Che succede nel Fediverso? reshared this.
Marco Bresciani
in reply to The Privacy Post • • •@eticadigitale @eventilinux @informapirata
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Unknown parent • •@nicolaottomano🇮🇹🇪🇺🇺🇦🇮🇷 l'aula TBD è la più frequentata in tutti gli eventi italiani, universitari e non... 😁
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The Privacy Post
Unknown parent • •@nicolaottomano🇮🇹🇪🇺🇺🇦🇮🇷 forse solo perché al "poli" che hai frequentato tu, il personale amministrativo sapeva parlare italiano e l'aula oggi intitolata a mr. "TBD" era ancora dedicata al sig. "Da def." 😂
@informapirata :privacypride: @Franc Mac @Marco Bresciani
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