Cosa ci dice la telefonata tra Xi e Zelensky?
Prima la mediazione tra Iran e Arabia Saudita, poi il corteggiamento dei leader europei: dove possibile, la Cina ha cercato in ogni modo di ripristinare la propria reputazione internazionale in risposta al rapido deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti. Ora non è escluso che anche la guerra in Ucraina venga sfruttata come palcoscenico per promuovere l’immagine di una Cina superpotenza responsabile.
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Le cinque poesie di Pasolini pubblicate su Paese Sera il 5 gennaio 1974
Il significato del rimpianto
Poesia popolare
Appunto per una poesia lappone
La recessione
Appunto per una poesia in terrone
Pier Paolo Pasolini, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Torino, Einaudi, 1975
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( Gli Struzzi) Pier Paolo Pasolini La Nuova Gioventu Poesie Friulane 1941 1974 Einaudi ( 1975) : Pier Paolo Pasolini : Free Download, Borrow, and Streaming : Internet Archive
La nuova gioventù: poesie friulane 1941-1974, Turin: Einaudi, 1975.Description:La nuova gioventù è l’ultimo libro pubblicato in vita da Pier Paolo...Internet Archive
La lettera di Pasolini a Calvino, intitolata “Quello che rimpiango”
Caro Calvino,
Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un’«età dell’oro», tu dici che rimpiango l’«Italietta»: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio.
Ciò che io rimpiango (se si può parlare di rimpianto) l’ho detto chiaramente, sia pure in versi («Paese sera», 5-1-1974). Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo). Io rimpiangere l’«Italietta»? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di Calderón, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei films, non sai niente di me! Perché tutto ciò che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l’Italietta. A meno che tu non mi consideri radicalmente cambiato: cosa che fa parte della psicologia miracolistica degli italiani, ma che appunto per questo non mi par degna di te.
L’«Italietta» è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane può non saperlo. Ma tu no. Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l’angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l’arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose sulla sua persona. Ma se tutto questo posso dimenticarlo io, non devi però dimenticarlo tu…
D’altra parte questa «Italietta», per quel che mi riguarda, non è finita. Il linciaggio continua. Magari adesso a organizzarlo sarà l’«Espresso», vedi la noterella introduttiva («Espresso», 23-6-1974) ad alcuni interventi sulla mia tesi («Corriere della Sera», 10-6-1974): noterella in cui si ghigna per un titolo non dato da me, si estrapola lepidamente dal mio testo, naturalmente travisandolo orrendamente, e infine si getta su me il sospetto che io sia una specie di nuovo Plebe: operazione di cui finora avrei creduto capaci solo i teppisti del «Borghese».
Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa questo era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata. Era solo per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del territorio dell’Italietta. Al di fuori di questa pura e semplice formalità, tale mondo non coincideva affatto con l’Italia. L’universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie – ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel ’17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici (per un lucano – penso a De Martino – la nazione a lui estranea, è stato prima il Regno Borbonico, poi l’Italia piemontese, poi l’Italia fascista, poi l’Italia attuale: senza soluzione di continuità).
È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo).
Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento).
Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi, tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci.
Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe più in grado, per esempio, di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare l’annesso glossario come un buon borghese del Nord!
Naturalmente questa mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze.
Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. So benissimo che ci sono dei giovani che si distinguono. Ma si tratta di giovani appartenenti alla nostra stessa élite, e condannati a essere ancora più infelici di noi: e quindi probabilmente anche migliori. Questo lo dico per una allusione («Paese sera», 21-6-1974) di Tullio De Mauro, che, dopo essersi dimenticato di invitarmi a un convegno linguistico di Bressanone, mi rimprovera di non esservi stato presente: là, egli dice, avrei visto alcune decine di giovani che avrebbero contraddetto le mie tesi. Cioè come a dire che se alcune decine di giovani usano il termine «euristica» ciò significa che l’uso di tale termine è praticato da cinquanta milioni di italiani.
Tu dirai: gli uomini sono sempre stati conformisti (tutti uguali uno all’altro) e ci sono sempre state delle élites. Io ti rispondo: sì, gli uomini sono sempre stati conformisti e il più possibile uguali l’uno all’altro, ma secondo la loro classe sociale. E, all’interno di tale distinzione di classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui cade la «mutazione» antropologica) gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all’altro secondo un codice interclassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud): almeno potenzialmente, nell’ansiosa volontà di uniformarsi.
Infine, caro Calvino, vorrei farti notare una cosa. Non da moralista, ma da analista. Nella tua affrettata risposta alle mie tesi, sul «Messaggero», (18 giugno 1974) ti è scappata una frase doppiamente infelice. Si tratta della frase: «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli.» Ma: 1) certamente non avrai mai tale occasione, anche perché se nello scompartimento di un treno, nella coda a un negozio, per strada, in un salotto, tu dovessi incontrare dei giovani fascisti, non li riconosceresti; 2) augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità – ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso.
8 luglio 1974
Calvino e Pasolini. Una polemica letteraria.
Calvino e Pasolini. Una polemica letteraria.
Calvino e Pasolini. Una polemica letteraria. Città PasoliniCittà Pasolini (Pier Paolo Pasolini)
PRIVACY DAILY 104/2023
La vera partita comincia adesso, per una innovazione sana
Su Agenda Digitale il mio punto di vista su quello che credo debba essere letto come il calcio di inizio di una partita lunga e importante nella quale perderà solo chi sarà convinto di avere la risposta giusta in tasca Se vuoi leggere il mio pezzo lo trovi qui agendadigitale.eu/sicurezza/pr…
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L'euro digitale è quasi pronto
È ufficiale: i lavori per l’euro digitale sono quasi terminati, e da ottobre si inizia a fare sul serio. Così ci dice Fabio Panetta, membro del Board della Banca Centrale Europea, in un comunicato stampa rilasciato il 24 aprile.
“Stiamo entrando nelle fasi finali del processo investigativo. Il Consiglio della BCE ha da poco approvato il terzo set di opzioni di design per l’euro digitale”
Panetta prosegue recitando quasi come un mantra i motivi “ufficiali” che hanno portato la Banca Centrale a voler iniziare un processo di sviluppo per un euro digitale: la rapida digitalizzazione dell’economia ci richiede di evolvere i contanti nella sfera digitale e di fornire uno strumento europeo unico per i pagamenti digitali, universalmente accettato in tutta l’euro-zona.
Vero, ma non proprio. Nessuno infatti sente la mancanza di un euro digitale. Gli strumenti di pagamento attuali, offerti da banche e intermediari, sono più che sufficienti per sopperire alle necessità dell’era dell’informazione. E poi, molte persone sono ancora affezionate ai contanti per diversi motivi.
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Un complesso di inferiorità
Il motivo che haspinto la BCE verso l’euro digitale non è certo la voglia di svecchiarsi. E infatti la Presidente Lagarde sconfessa la facile retorica di Panetta, spiegando in un recente video la verità dietro a tutta questa fretta di evoluzione digitale: “I dont want euro to be dependent on unfriendly country currency or dependent on a friendly currency that is activated by a private company like Facebook or Google.1”
La Banca Centrale Europea ha davvero una gran paura di perdere il suo monopolio monetario a favore di soggetti come Meta, Google o AWS. La paura, più che fondata, nasce nel 2018, quando Facebook (ora Meta) per la prima volta annuncia al mondo di voler creare il suo "stablecoin”: Libra. Il progetto fu presto messo da parte a causa delle immense pressioni politiche, ma nel frattempo altre istituzioni come Tether e numerosi altri stablecoin hanno risposto alla domanda di mercato per questa nuova forma di moneta.
I complessi di inferiorità rispetto agli stablecoin, che sono comunque ancora una nicchia per nerd, diventano in verità palesi anche nella retorica di Panetta: People should be able to pay and be paid in digital euro anywhere in the euro area, no matter which intermediary they are using to access the digital euro or which country they are in.
È chiaro infatti che strumenti come Tether — o anche Bitcoin — offrano già soluzioni universali e native digitali per scambiare valore ovunque nel mondo in modo standardizzato, mentre non è possibile dire lo stesso per le monete FIAT come l’euro.
Gli strumenti di pagamento elettronici a cui siamo abituati sono infatti servizi privati senza alcun valore legale (inteso come legal tender) e tutt’altro che standardizzati. I commercianti non sono obbligati ad accettare pagamenti con PayPal o con determinati circuiti di carte di credito, né è detto che la diffusione e accettazione di questi strumenti sia omogenea in tutto il mondo. L’unica garanzia, ad oggi, rimane il buon vecchio contante.
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Come funzionerà, nella pratica
L’euro digitale sarà l’equivalente digitale dell’euro fisico. Ciò significa che tra ottobre 2023 e il prossimo anno ci sarà una proposta di legge da parte della Commissione Europea per rendere l’euro digitale legal tender, cioè moneta a corso legale, all’interno dell’Unione Europea. I commercianti saranno così obbligati ad accettare euro digitale come se fossero contanti.
I vari rapporti tecnici usciti finora (tre in totale) spiegano in modo dettagliato le scelte che sono state fatte dalla Banca Centrale e il futuro funzionamento dell’euro digitale. Prima di tutto: l’euro digitale sarà una liability della BCE, esattamente come i contanti. Gli intermediari finanziari, come le banche commerciali, saranno invece incaricati della distribuzione, della gestione dei pagamenti e del processo di onboarding degli utenti.
Passando dagli intermediari le persone potranno quindi convertire i loro euro tradizionali con euro digitale e viceversa. È possibile che il processo sarà facilitato da applicazioni accessibile tramite homebanking fornite direttamente dalla Banca Centrale per standardizzare i processi in tutta UE. Sembra però che le persone potranno detenere solo un quantitativo limitato di euro digitale. Non è chiaro se questo sia un limite temporaneo o se invece una funzione permanente, né è chiaro ancora a quanto ammonti questo limite.
L’ultimo report2 sconfessa invece la possibilità di programmare l’euro digitale. Ci sarà la possibilità di creare dei pagamenti condizionati, ma non sarà invece possibile definire specifiche modalità d’uso per le “monete” digitali, ad esempio limitando le possibilità di spesa solo per specifici beni o servizi, o magari al di fuori del territorio europeo.
Questa sembra una buona notizia, considerando che la programmabilità della moneta creerebbe diversi rischi di abuso, ma non sono ancora del tutto convinto. Altri report precedenti suggerivano diversamente, ad esempio per limitarne l’uso e diffusione al di fuori dei confini geografici europei o per incentivare comportamenti ecosostenibili nella popolazione. Staremo a vedere.
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Privacy e anonimato con l’euro digitale
Il primo3 dei tre report sul design dell’euro digitale affronta nello specifico il tema della privacy dei pagamenti, che come saprete è uno degli elementi più critici di tutto lo schema dell’euro digitale.
La prima brutta notizia è che la Banca Centrale Europea sembra aver categoricamente eliminato la possibilità di pagamenti anonimi, nonostante negli scorsi mesi avessero sommessamente accennato a una possibile soglia di esclusione della sorveglianza.
“Full anonymity is not considered a viable option from a public policy perspective. It would raise concerns about the digital euro potentially being used for illicit purposes (e.g. money laundering and the financing of terrorism). In addition, it would make it virtually impossible to limit the use of the digital euro as a form of investment – a limitation that is essential from a financial stability perspective.”
Non si può essere anonimi perché l’euro digitasle potrebbe essere usato per scopi illeciti, come riciclaggio di denaro e finanziamento al terrorismo. Okay, prendiamola per buona. E poi, proseguono, sarebbe virtualmente impossibile limitare l’uso dell’euro digitale come forma d’investimento - una limitazione essenziale per avere stabilità finanziaria. In soldoni: niente anonimato perché dobbiamo controllare come lo usate e quanto ne usate.
Un passaggio importante ci spiega poi che dall’euro digitale potremo aspettarci lo stesso livello di privacy degli attuali sistemi di pagamento elettronici, che in effetti non è granché.
“A digital euro would provide a level of privacy equal to that of current private sector digital solutions. Users would need to identify themselves when they start using the digital euro, and intermediaries would perform customer checks during onboarding. Personal and transaction data would only be accessible to intermediaries for the purpose of ensuring compliance with anti-money laundering and combating the financing of terrorism (AML / CFT) requirements and relevant provisions under EU law.
L’attuale scenario scelto dalla BCE prevede l’identificazione del cliente attraverso procedure KYC e la piena trasparenza delle transazioni verso l’intermediario, come accade già oggi per i pagamenti elettronici. Le transazioni saranno inoltre monitorate per anti riciclaggio e anti terrorismo, a prescindere dagli importi.
Pare poi che i dati saranno principalmente detenuti dagli intermediari e non anche dalla Banca Centrale, salvo che la condivisione di questi dati non sia prevista per legge o che sia necessaria a svolgere attività legate all’euro digitale (qualsiasi cosa voglia dire). Che in effetti rischia di tradursi in: sì, saranno disponibili anche alla BCE.
“One euro is one euro, whatever form it takes”, dice Panetta. Eppure, comprare il pane con l’euro digitale invece che con una moneta da due euro farà scattare una serie di misure di sorveglianza e monitoraggio che fanno accapponare la pelle. Siamo proprio sicuri che tutti gli euro nascano uguali?
E sì, è vero: anche gli attuali intermediari di pagamento sono pessimi dal punto di vista della privacy. E sì, ne ho già parlato male. Euro digitale e mezzi di pagamento elettronici come Paypal o Satispay non sono però sullo stesso piano.
Da una parte abbiamo infatti un monopolista che afferma candidamente che nel bilanciamento tra interesse pubblico e privacy prevarrà sempre il primo; dall’altro abbiamo invece attori di mercato in competizione tra loro che hanno incentivi economici a offrire soluzioni privacy-friendly ai loro clienti.
Inoltre, è evidente che la BCE e i governi hanno interessi politici oltre che economici, e si faranno presto ingolosire da questa nuova miniera d’oro di dati. Se non ora, magari fra qualche anno. La Presidente Lagarde, in una video intervista4 ha affermato che il controllo delle transazioni sarà uno degli obiettivi dell’euro digitale.
Non c’è alcun motivo di preferire l’euro digitale
E poi rimane aperta la questione cryptovalute e stablecoin, che certo non spariranno. Grazie al movimento cypherpunk nel mondo crypto c’è già grande attenzione a privacy e anonimato, che non potrà che crescere ancora nel prossimo futuro.
La competizione, prima ancora che sulla comodità e diffusione dello strumento, sarà proprio sulla privacy. Perché mai preferire l’euro digitale se il nostro panettiere accetta contanti, Bitcoin, Monero o perfino Tether? Non c’è alcun motivo razionale per farlo.
I governi e le Banche Centrali lo sanno bene, ed è per questo che oltre che nello sviluppo dell’euro digitale si stanno affrettando per ingabbiare crypto e stablecoin nelle maglie delle leggi KYC e anti riciclaggio. È sempre per questo che persone come Panetta chiedono al legislatore di vietare la diffusione di “crypto-asset energivori”5.
Nonostante la competizione sleale e la violenza politica, non vinceranno, ma sarà una lunga maratona.
In questa intervista Lagarde pensava genuinamente di parlare con Zelensky, ed ha affermato il reale motivo dietro alla spinta verso l’euro digitale: non farsi fregare il monopolio.
In questo report viene descritto lo schema di funzionamento dell’euro digitale
Questo è il report in cui si affronta il tema della privacy
In questa intervista Lagarde pensava genuinamente di parlare con Zelensky, e si è lasciata andare, affermando che l’euro digitale avrà delle forme di controllo delle transazioni: “they will be controlled, you’re right, you’re completely right.”
“Crypto assets deemed to have an excessive ecological footprint should also be banned,” he said, in a likely reference to platforms like Bitcoin that use an energy-intensive mechanism known as "proof-of-work" to validate transactions and secure their network.
Eppur si condivide
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Staccò la foto di Khamenei dal muro della classe, l’hanno ridotta allo stato vegetativo
Hasti, ha 16 anni, è curda e vive su una sedia a rotelle in stato semi vegetativo perché l’unico desiderio di Khamenei è quello di sedere per sempre sul suo trono di potere, esercitare la sua spietata misoginia e inasprire il regime di apartheid di genere.
Hasti Hossein Panahi vive nella circoscrizione di Dehgolan, a est di Sanandaj, cuore del Kurdistan iraniano. Era un’adolescente intraprendente, una ribelle assieme alle sue compagne di Liceo con le quali esprimeva il rifiuto dell’obbligo dell’hijab irridendo la guida suprema Ali Khamenei e il grande ayatollah, Ruhollah Khomeini, facendosi fotografare mostrando il dito medio accanto ai ritratti dei mullah appesi alle pareti della loro classe. Sfidano così apertamente la regola dell’hijab le giovani donne iraniane e pubblicano in Rete le foto e i video delle loro performance per incoraggiare le loro coetanee alla ribellione.
Quel giorno di novembre del 2022, Hasti strappò dalla parete della sua classe le foto degli ayatollah. In quel momento irruppero nella scuola le forze paramilitari basij dei volontari dei pasdaran che aveva visionati i filmati delle telecamere di sorveglianza. Tutte le studentesse della scuola furono tradotte in un luogo sconosciuto e lì furono duramente picchiate da agenti in borghese e poi furono riportate a scuola.
Il 9 novembre 2022, fu convocata dal Dipartimento dell’Istruzione della città di Dehgolan e le fu detto che se non avesse collaborato con le forze di polizia facendo da delatrice avrebbero reso pubblico il video in cui lei strappava dalla parete della scuola le foto di Khomeini e di Khamenei e che ciò avrebbe determinato la sua espulsione dalla scuola.
Poco dopo la ragazza sarebbe entrata in coma. La polizia sostiene che avrebbe tentato il suicidio gettandosi da un’auto delle basij in movimento dopo aver lasciato il Dipartimento dell’Educazione. Lo stress mentale causato dalle richieste di cooperazione delle forze di sicurezza e dalla minaccia di espulsione dalla scuola, avrebbe spinto la giovane al suicidio e per questo sarebbe entrata in coma.
Hasti fu trasportata in elicottero all’ospedale Kausar di Sanandaj. Da allora non si è più completamente ripresa, il suo livello di coscienza è estremamente basso ed è costretta su una sedia a rotelle.
Solo da poco, in occasione della festività del Nowruz, il capodanno persiano appena trascorso, Hasti è stata dimessa dall’unità di terapia intensiva dell’ospedale di Sanandaj.
La famiglia della ragazza, così come un’insegnante ed altri testimoni oculari sostengono invece che Hasti sarebbe entrata in come subito dopo essere stata picchiata violentemente e che non sarebbe mai stata portata nel Dipartimento dell’Educazione delle basij. Sarebbe stata invece colpita più volte alla testa con un manganello subito dopo essere stata prelevata dalla scuola e portata in un luogo sconosciuto.
Simili atti che destano un profondo orrore non sono inusuali per le autorità pasdaran iraniane. Nei centri di detenzioni vi sono anche minori sottoposti a fustigazione, scosse elettriche e a violenza sessuale. Lo riferiscono nei loro rapporto molto dettagliati e documentati le organizzazioni umanitarie come quella curda Hengaw e Amnesty International.
Nei loro report denunciano che l’intelligence e le forze di sicurezza iraniane hanno commesso orribili atti di tortura con pestaggi, fustigazioni, scosse elettriche, stupri e altre violenze sessuali su minori manifestanti di appena 12 anni per reprimere il loro coinvolgimento nelle proteste in corso a livello nazionale.
Amnesty in uno dei suoi ultimi rapporto descrive la violenza inflitta ai bambini arrestati durante e dopo le proteste. La ricerca parla di metodi di tortura che le guardie rivoluzionarie, i basij, le milizie della cosiddetta di pubblica Sicurezza e altre milizie al servizio di Khamenei e delle forze di intelligence, usano contro ragazzi e ragazze in custodia per punirli e umiliarli ed estorcere loro “confessioni” forzate.
Gli agenti statali iraniani strappano i minori alle loro famiglie e li sottopongono a indescrivibili crudeltà, infliggendo gravi sofferenze e angoscia a loro e ai loro genitori, provocando su di loro gravi cicatrici fisiche e mentali.
La violenza contro i minori rivela una efferata e ben precisa e deliberata strategia per schiacciare lo spirito vibrante dei giovani del paese e impedire loro di chiedere libertà e diritti umani.
Il 70% della popolazione iraniana ha una età inferiore ai 30 anni e dunque per stroncare la rivoluzione l’obiettivo da colpire è rappresentato dai giovanissimi.
Minori con gli occhi bendati vengono trasferiti in centri di detenzione gestiti dalle guardie rivoluzionarie e dal Ministero dell’Intelligence. Dopo giorni o settimane di detenzione in isolamento i minori vengono trasferiti nei vari penitenziari.
Come avvengono i rapimenti dei manifestanti? Agenti in borghese con furgoni bianchi rapiscono i manifestanti che protestano per le strade, compresi i minori. Li traducono in luoghi non istituzionali, in genere in magazzini, dove li torturano prima di abbandonarli in luoghi remoti.
Non sono veri e propri arresti. Sono appunto rapimenti con lo scopo di punire il manifestante, di intimidirlo e dissuaderlo dal partecipare alle proteste. La tecnica è mutuata dalla organizzazioni criminali, dalla mafia o da organizzazioni terroristiche. Molti minori vengono trattenuti insieme ad adulti, contrariamente agli standard internazionali, e sottoposti agli stessi schemi di tortura e ad altri maltrattamenti.
Un ex detenuto ha raccontato ad Amnesty International che, in una provincia iraniana, miliziani Basij, hanno costretto diversi minori a stare in fila con le gambe divaricate accanto a detenuti adulti e hanno inferto loro scosse elettriche nelle zona genitale con dissuasori Taser.
La maggior parte dei minori arrestati negli ultimi sei mesi di proteste è stata rilasciata su cauzione in attesa di rinvii a giudizio. È un modo questo anche per finanziare la giustizia criminale iraniana.
Molti manifestanti, anche minori, vengono rilasciati solo dopo essere stati costretti a firmare lettere di “pentimento” e solo dopo aver promesso di astenersi da “attività politiche” e dal partecipare a manifestazioni filogovernative.
Prima di rilasciarli, gli agenti minacciato i minori dicendo loro che se avessero sporto denuncia sarebbero finiti impiccati e i loro parenti sarebbero stati arrestati.
Ma alcuni familiari, nonostante le minacce, hanno presentato denunce ufficiali alle autorità giudiziarie, ma nessuna di esse finora ha fatto adeguate indagini.
Una madre ha raccontato all’associazione per i diritti umani Hengaw che agenti basij avevano stuprato suo figlio con un tubo dopo che era stato rapito. Il ragazzo ha raccontato alla mamma: “Mamma, mi hanno sospeso per le braccia fin a quasi strapparmele e mi hanno violentato con un tubo costringendomi a confessare quello che volevano loro”.
Altri metodi di tortura consistono nella somministrazione forzata di pillole per alterare l’equilibrio psicologico della vittima e l’immersione in acqua della testa delle vittime. Diverse adolescenti sono state rapite solo per aver scritto su un muro lo slogan motto delle proteste, “Donna, vita, libertà”.
Le famiglie delle vittime hanno raccontato ad Amnesty International i metodi di tortura praticati dagli agenti della sicurezza tra i quali quello di sospendere per le braccia nel vuoto i malcapitati, costingendoli a subire atti umilianti. Giovani prigioniere vengono rinchiuse in celle senza servizi igienici e lavabi, senza cibo, senza acqua, esposti al freddo e in isolamento prolungato. Ai feriti spesso vengono negate le cure mediche necessarie.
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La prima vittima. Pace, guerra e poteri segreti. Il 4 maggio h.15, c/o l'Unipisa, avrà luogo il convegno con Stefania Maurizi e Nico Piro (grazie a M.C. Pievatolo e Daniela Tafani per la segnalazione)
A partire dal detto secondo cui la verità è la prima vittima della guerra, il convegno si propone di analizzare le strategie di controllo del discorso pubblico che accompagnano le guerre contemporanee.
I relatori sono Stefania Maurizi @stefania maurizi e Nico Piro @Nico Piro , due giornalisti di fama internazionale che hanno dedicato le loro inchieste e i loro libri a questi temi.
Ricordiamo, in particolare
- Stefania Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks (Chiarelettere, 2021)
- Nico Piro, Maledetti pacifisti. Come difendersi dal marketing della guerra (People, 2022).
È richiesta la prenotazione per partecipare. Prenota
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Quella sera, al Raphael, iniziò l’inverno della politica
In piena Tangentopoli, l’Italia si ribellò a una classe politica. Il 30 aprile 1993, il primo a pagare il conto della piazza fu il segretario del Psi. «Ero lì, dentro quella macchina bersagliata da una grandinata di odio». L’assalto delle “monetine” raccontato, per la prima volta, da chi era accanto al suo leader
La storia, quando decide di farsi, mica ti avverte. E spesso, manco te ne accorgi; soprattutto se ci sei dentro. Così è stato per quel 30 aprile del 1993: la sera delle “monetine al Raphaël”. Per anni, ben 30, ho letto racconti e testimonianze di quell’evento. Alcune precise e attente – tra tutte 30 aprile 1993 di Filippo Facci – e altre decisamente liriche e romanzate o semplicemente cialtrone. Come faccio a sostenerlo? Ero lì, dentro quella macchina bersagliata da una grandinata di odio; seduto alla sinistra di Craxi. Perché? Ero il segretario dei Giovani Socialisti; avevo 26 anni e oggi sono, probabilmente, il più giovane fossile vivente della “Prima Repubblica”.
Andiamo per ordine. Cosa stava accadendo? L’Italia, dimentica degli anni Settanta, quelli di piombo, voleva cancellare gli anni Ottanta, quelli dell’edonismo reaganiano, per ribellarsi a una classe politica che, si sosteneva, avesse impoverito e distrutto il Paese. In realtà, l’Italia era uscita da una drammatica crisi economica, passando, col Governo Craxi, dal 17° al 5° posto nel mondo. Aveva abbattuto l’inflazione a due cifre obbligando il futuro del suo esecutivo al successo del referendum sulla Scala mobile. Ma, si sostiene, il debito lievitò. In realtà, il Paese aveva in corpo tre metastasi: il terrorismo, l’inflazione e il debito. Si decise di aggredire le prime due confidando sul fatto che l’Italia, a differenza per esempio degli Usa, aveva il 90 per cento del proprio debito contratto con i suoi cittadini (padroni negli anni Ottanta, per il 70 per cento, delle loro case).
Ma torniamo all’insurrezione della “società civile”. Quest’ondata rivoluzionaria, in verità, non esplodeva solo in Italia, ma in Francia, Germania, Spagna, Belgio, Portogallo, Grecia; insomma, alla fine della Guerra Fredda venivano mandate a casa intere classi dirigenti con una modalità che il libro di Daniel Soulez Larivière chiamerà il «Circo mediatico giudiziario» (in Russia, per esempio, la si spiegava così: “Lo sai che differenza c’è tra un politico e una mosca? Nessuna, si ammazzano entrambi con un giornale”). Il clima non era dei migliori. Gianfranco Funari, nel 1992, su Italia Uno, faceva spot dal tono “Vai avanti Di Pietro!” – poi verrà con me ad Hammamet, ricredutosi su quella stagione, per incontrare Craxi – e ancora, negli anni successivi il più diffuso settimanale del tempo, TV Sorrisi e Canzoni, usciva con la copertina dedicata all’idolatria del magistrato di Montenero di Bisaccia (11 luglio 1992: Di Pietro facci sognare; 12 febbraio 1994: Di Pietro Bis). Silvio Berlusconi, editore del settimanale, intervistato in quei giorni sulle accuse rivolte a Craxi, se la cavò con un diplomatico «Ci saranno i processi», frase alla quale Craxi rispose, puntando il ditone verso il televisore di fronte a noi: «E i prossimi saranno i tuoi!» (in realtà gli voleva molto bene, ma non serviva Nostradamus per capire che sarebbe andata a finire proprio così).
Tangentopoli nasce per fatti consumatisi tra l’89 e il ’92 (dall’amnistia che aveva cancellato tutti i precedenti reati di finanziamento verificatisi prima del crollo del muro di Berlino fino alla caduta della “Prima Repubblica”). Con questo artificio, il finanziamento veniva definito lecito o illecito a seconda dell’epoca e nella stessa epoca a seconda dei partiti: oltre 4mila arresti, 42 suicidi, 25mila avvisi di garanzia, 1.069 parlamentari e uomini politici coinvolti. Questa è stata Tangentopoli. Non una guerra. Ma nemmeno una bella pace. Per questo Craxi, unico dei leader della politica italiana, andò a fissare alcuni concetti nel luogo deputato: alla Camera. In realtà lo fece in più appuntamenti tra il ’92 e quel ’93. Disse cose laceranti per i partiti che «hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale».
Attenzione non è il “tutti colpevoli, nessun colpevole”. No, è il tutti colpevoli e basta. Incassò un silenzio assordante. Sarebbe bastato che si fosse alzato uno dei presenti per fare, che so, una pernacchietta. Niente. Tutto costa, anche organizzare il proprio funerale, figuriamoci costruire e gestire un movimento politico. Il finanziamento illecito è drammaticamente sempre esistito. Per questo, in politica, chi è senza peccato s’informi dal proprio cassiere. O faccia leggi per scongiurare questo ricatto. E così, trent’anni dopo, ci ritroviamo tra contenziosi per scontrini, leader politici consulenti di sceicchi e combattive brigate per la difesa dell’indennità non riversata al partito. Ma se vi rileggete o ascoltate gli interventi di Craxi e poi li confrontate con quelli dei leader che sono seguiti, il sentimento più naturale da cui sarete pervasi è lo sconforto. Craxi, va riconosciuto, era assai odiato. Sarà per quella “x” sparata in mezzo al cognome, sarà per l’altezza e “quel suo guardarti
dall’alto in basso” (ma se era più di un metro e novanta che avrebbe dovuto fare? Accucciarsi?), sarà per quella vocazione a decidere in un Paese notoriamente indeciso a tutto, ma così era.
E c’è una parte di quelle sue denunce, dentro il Parlamento, che produsse mutismi ancora più rumorosi (o per chi è suggestionabile, inquietanti). Leggete qui cosa dirà, sempre in Parlamento, nel 1993, sui fatti più clamorosi di quei mesi: «Chi sono i criminali che hanno messo le bombe di fronte ai monumenti d’arte, basiliche, luoghi storici e che probabilmente tenteranno di metterne ancora? Chi sono gli assassini che hanno provocato stragi di cittadini innocenti e di servitori dello Stato? (…) C’è una strategia, una tempistica, degli obiettivi che vengono perseguiti con una violenta determinazione. Ritengo che, non da oggi, agisca nella crisi italiana una “mano invisibile”, che punta a esasperare tutti i fattori di rottura e per ottenere questo scopo non esita a ricorrere al classico metodo criminale del terrorismo. Terrorismo mercenario e professionista, non terrorismo ideologico».
Ma di che parlava quest’uomo, tutt’altro che suggestionabile, già presidente del Consiglio e incaricato per l’Onu per le politiche del debito? Il clima rimosso e mai esplorato di trent’anni fa annotava decine di strani furti in case di parlamentari, ministri e leader politici. Il 3 gennaio del 1990 venivano rubate al capo della Polizia, Vincenzo Parisi, le pistole di ordinanza dalla sua auto. Seguiranno sue denunce alla Commissioni stragi il 9 gennaio del 1991 («Vorrebbero fare dell’Italia una terra di nessuno») e una sua circolare, “Riservata”, ai Prefetti, datata 16marzo 1992 in merito a un piano per «destabilizzare l’Italia ». È incredibile che di quegli anni, per esempio, sia stato dimenticato il blackout di Palazzo Chigi seguito, immediatamente dopo, alle bombe di via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro a Roma nella notte tra martedì 27 luglio e mercoledì 28. Il Palazzo del Governo non venne isolato per un guasto della centralina interna, ma per un blackout indotto dall’esterno.
Torniamo alla vigilia di quel 30 aprile. Si votava l’autorizzazione a processare. Craxi e noi sapevamo che saremmo stati sconfitti (io ero seduto sulle tribune della Camera, alle sue spalle, non essendo parlamentare). Ma la votazione andò diversamente. I miracoli sono una cosa seria, e non si scomodano certo per vicende così mondane. Accadde solamente che diverse forze politiche, che avrebbero voluto gridare allo scandalo, votarono nel segreto dell’urna per salvare Craxi in aula. E poi scannarlo in piazza. E così andò. Siamo al 30 aprile. Con Craxi dividevamo un ufficio in via Boezio (il partito, come l’intera classe politica, si stava “onestizzando” e quindi non c’era più spazio in via del Corso per lui, e il sottoscritto, nella sede del Psi). L’ufficio verrà soprannominato dalla stampa “il covo di via Boezio” in ragione dei segretissimi dossier lì contenuti: per la maggior parte le cartelline dei miei articoli ritagliati (in verità molto ordinati). Si trovava nel palazzo accanto allo stabile in cui vivevano l’ex presidente Francesco Cossiga e l’allora sindaco di Roma, Francesco Rutelli, in via Quirino Visconti; sotto di noi, uno dei primi centri massaggi dalle prospettive equivoche (una volta, fuori Roma, vidi la notizia sul Televideo: «S’incendia l’ufficio di Craxi», ma in realtà, fortunatamente, era il centro massaggi, probabilmente in ragione dell’escandescenza di qualche focoso cliente). Quella mattina Serenella Carloni, la storica segretaria di Bettino, mi aveva confermato che lui non si sarebbe affacciato da noi.
Craxi decise quel giorno di non lasciare l’albergo. Viveva al Raphaël, di proprietà del suo fraterno amico, Spartaco Vannoni, ex comunista, mancato qualche anno prima. La sua stanza era un monolocale in cui tutto sembrava arredato con la cura dello studio di Geppetto nella balena di Collodi: libri, cimeli garibaldini, carte, quotidiani, riviste e poi ancora libri (e se cercavate gli anni Ottanta trovavate quelli del secolo precedente). Arredamento: ordinario disordinato. Il Raphaël si affaccia su Largo Febo; Febo, probabilmente, sta per Apollo, dio adottato da Augusto come difensore delle tecniche, scienze, bellezza e della luce. E qui il mito diventa strabico: Largo Febo è stretto e buio. Si trova a pochi metri da PiazzaNavona, ma non la vede (un po’ come stare al Louvre, a qualche metro dalla Gioconda, e avere la vista sui bagni). A spanne misurerà, a vantarsi, 200 metri quadri. Per ospitare coloro che giurano, in una sorta di proiezione isterica collettiva, di essersi ritrovati quella sera in quel luogo, a urlare o semplicemente a guardare, sarebbe servita una piazza un poco più grande di piazza Tienanmen. La facciata dell’albergo è la quinta scenica di questo teatrino e il nome rimanda, forse, a Raffaello che ha affrescato l’arco della cappella Chigi a Santa Maria della Pace alle sue spalle.
Intanto il tormentone, quotidiano, della mia risposta alla prima telefonata di Craxi: «Cosa bolle in pentola?» «Noi», quel giorno suonava meno ironico. La stampa strillava allo scandalo e alcuni quotidiani erano usciti in formato manganello etico (il giornale che, ripiegato più volte, offriva per tutta la lunghezza la scritta “Vergogna!” a caratteri cubitali, maiuscoli e in grassetto). L’unico appuntamento della giornata era l’intervista in diretta, in prima serata, con Giuliano Ferrara (presso gli studi di Canale 5). Di ora in ora, le forze dell’ordine modificavano il loro assetto con alternanza di corpi e mezzi; all’interno del Raphael molti i poliziotti; quelli in borghese si riconoscevano dal tintinnio delle manette appese alla cintura. Perché le manette? Per l’intera giornata feci la spola tra via Boezio e il Raphaël per incontrare quegli amici e collaboratori ancora storditi dall’imprevista notizia del giorno prima; in realtà ero furibondo per non essere riuscito ad armare un manipolo sufficiente a reagire a quel clima (il mio spirito cristiano si ferma a porgere la seconda guancia; oltre si può reagire).
Mi muovevo con lamia “moto blu”: un Peugeot Metropolis di terza mano, appunto blu, privo di diversi elementi funzionali e decorativi, così da renderlo, almeno fino al 1997, resistente al furto. Il rumore di quelle ore si era apparecchiato attraverso numerose giornate di silenzi; silenzi a pranzo, silenzi a cena. Non c’era nessuno, perché lui non voleva più vedere nessuno e perché molti avevano paura a farsi vedere con lui. Meno male che qualcuno veniva a trovarci nelle nostre case e nei nostri uffici. Solo che avveniva quando noi non c’eravamo. Craxi, la sua famiglia e il sottoscritto ricevemmo in quel periodo, in quelle abitazioni, 11 perquisizioni vestite da furti. Forse era per toglierci qualcosa, forse era permettercelo. Ma almeno ci tenevano vivi regalandoci un po’ di attenzione. Il Pds aveva deciso di organizzare a Piazza Navona, per il pomeriggio inoltrato, la manifestazione del suo popolo, così da urlare la sua indignazione e poi farla confluire nella piazzetta alle spalle. Per l’intera mattinata, le agenzie, radio e telegiornali avevano soffiato sul clima di rivolta nel Paese: fax, proteste, mancavano le processioni, ma il Paese “civile” stava reagendo (Gianfranco Fini, per esempio, annunciò iniziative esemplari e il Secolo d’Italia pubblicò il numero del Quirinale, così che i cittadini «potessero far pervenire alla Presidenza della Repubblica il loro sdegno»). A Roma si dice che «l’inventore della forca ci morì impiccato», conseguenza del «c’è sempre un puro più puro che ti epura», ma la predestinazione di zona era incline alla tipologia di spettacolo: Mastro Titta, il boia di Roma, esercitava la sua apprezzata professione qualche via più a nord, mentre poco più a sud fu arso vivo Giordano Bruno e un po’ più a sud ovest fu squartato Cola di Rienzo.
Insomma, quando Craxi, in Tunisia, mi ripeteva «in fondo, nella lotta politica, morire nel proprio letto è un privilegio», penso focalizzasse questi esercizi della creatività umana. Verso le otto della sera mi avverte che sta per scendere. Mi allontano dal poliziotto che mi marcava
per invitarmi a suggerire a Craxi un’uscita sul retro (decisamente allarmati per il disastro tattico che aveva consentito il crearsi di quell’assembramento di fronte all’albergo). Sceso nella hall, tutto si consumò velocemente. Craxi rivolse delle premurose scuse agli ospiti dello hotel, involontari spettatori di quel disordine, e quando il poliziotto mi pregò con gli occhi di anticipare la proposta di dipartita tattica, fu facile anticiparlo: «Glielo dica lei». Non credo che Craxi abbia nemmeno ascoltato l’invito. Continuò a marciare verso la porta principale e, controllato che ci fossimo tutti, sibilò: «Andiamo!». “Tutti” eravamo tre: Nicola Mansi, il fido “orso biondo”, la gigantesca ombra, autista e guardia del corpo, di Craxi; Umberto Cicconi, suo fotografo, una faccia da Hollywood pronta a farsi esplodere per Craxi, e il sottoscritto. E quindi andammo incontro all’onda. E la sera diventò giorno di flash. E non fu un disegno mediatico. Infatti, il giorno dopo nessun quotidiano racconterà quel fatto in prima pagina e quelle immagini, ripetute all’inverosimile, saranno il frutto della casuale presenza di una troupe (idem per quei pochi scatti fotografici rimasti).
L’auto blindata, una Thema, un cassone inguidabile e impacciato, veniva battuta da caschi e da ogni tipo di oggetto disponibile alla calca umana che usava la macchina come un tamburo. Nonostante la palese assurdità dell’accerchiamento – in quella stagione di bombe e attentati – non celebrai il rito scaramantico che si compiva a ogni entrata in auto: girare la mezzaluna interna alla carrozzeria blindata per infilare la canna della mia Colt Calibro 38. Avevo 26 anni, appunto, ma giravo armato – con regolare licenza – dopo la terza visita alla mia abitazione
nella quale mi era stato lasciato un proiettile sulla scrivania; io da quel giorno ricambiai i sopralluoghi indesiderati preparando una selezione
di carte che volevo i miei interlocutori approfondissero, insieme a un bicchiere d’acqua e un cioccolatino. Lassativo. Sul lunotto di quell’auto guardavamo intanto i volti stravolti da una ferocia e da un’eccitazione invasata. Capivamo che si stava consumando un rito espiatorio: il problema è che il capro eravamo noi. Quindi, in quella sera illuminata a forca, la macchina avanzò lentamente; sia Umberto che il sottoscritto eravamo stati feriti da qualche oggetto, ma l’imperativo che Craxi ripeteva, controllato e senza tradire emozione, era: sorridete. Non era un gesto provocatorio, ma l’ultima arma che ti rimane quando sei circondato dai fumi dell’irrazionale: ridergli addosso. L’inverno della politica stava sfumando, lasciando spazio alla primavera dell’antipolitica. Ovvero, la politica di qualcun altro.
Oggi
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Ecco i risultati degli investimenti Ue in Difesa. Il punto di Braghini
La Corte dei Conti europea (European court of auditors – Eca) ha emesso, come da prassi per tutte le iniziative finanziarie Ue, il primo rapporto speciale di monitoraggio sulla Azione preparatoria per la ricerca nella Difesa (Padr).
Si tratta del primo programma finanziato dal bilancio Ue a supporto dell’industria della Difesa e la politica per la Ricerca e sviluppo militari (90 milioni di euro per il periodo 2017-2019). Tale programma ha aperto la strada come precursore del Programma europeo di sviluppo industriale della difesa (Edidp) e del Fondo europeo di Difesa (Edf), e oggi del Rafforzamento dell’industria europea della difesa attraverso la legge sugli appalti pubblici (Edirpa).
L’analisi fornisce considerazioni e raccomandazioni che comprendono anche altri programmi di Difesa europei.
La Padr è considerata come un test circa la fattibilità e l’interesse degli stakeholders a cooperare in Ricerca e sviluppo militare. Un campo nuovo e sensibile per l’Unione europea e i Paesi membri, come dimostrato anche dalle difficoltà iniziali ad accettare la base legale – a fronte delle note restrizioni del Trattato Ue circa la Difesa – che fa riferimento alla promozione dell’industria, ma non ancora alle capacità militari europee.
L‘Ue si è trovata così ad affrontare, senza esperienza pregressa, un’area nuova con caratteristiche specifiche rispetto al settore civile. Perciò è andata avanti con la cosiddetta “ambiguità costruttiva” per trovare i giusti compromessi all’interno della complessa architettura, delle sue interrelazioni e dei meccanismi europei.
Le lezioni apprese del testbed Padr mostrano risultati limitati e una tempistica eccessivamente ridotta.
È interessante notare che le criticità individuate riguardano sì aspetti amministrativi e gestionali, con l’adozione ritardata di strumenti di analisi e pianificazione e tempi realizzativi eccessivi, ma anche la ridotta disponibilità di risorse umane qualificate dedicate ai programmi di Difesa.
Viene sottolineata la mancanza di una strategia di lungo termine, che la Commissione europea intende sviluppare per preparare il prossimo bilancio pluriennale Ue del 2027-2034.
Le osservazioni dell’Eca segnalano quindi che se la Padr ha consentito alla Commissione europea di testare diversi tipi di processi, è ora necessario un percorso per conseguire coerenza tra strumenti e tempistiche, e l’efficientamento dei meccanismi tra i diversi fondi per la Difesa.
Le osservazioni, unitamente alla sottolineatura che manca una politica di lungo termine, hanno il merito di fornire raccomandazioni per gli operatori e una spinta per i Governi affinché l’Edf realizzi una dinamica con obiettivi coerenti e di lungo termine che incentivi la tecnologia e rafforzi la Difesa europea.
ConDivisioni
Se si guardasse di più alla sostanza ci si accorgerebbe di essere meno divisi di quel che si racconta. Se ci si occupasse di più della sostanza ci si accorgerebbe che condividere gli obiettivi non impedisce di dividersi fra maggioranza e opposizione, ma spinge a farlo con attenzione alle scelte anziché alle sceneggiate. Eppure la sostanza viene accuratamente evitata. Perché è imbarazzante, comporta approfondimento e la si considera noiosa. Per addetti ai lavori. Mentre gli addetti ai livori sembrano non accorgersi che se cresce il numero di quelli che non vanno a votare è anche perché non si sentono votati a partecipare alla zuffa sul nulla.
Prendiamo debiti e investimenti, due temi da cui dipende il futuro. E prendiamo il governo attuale, guidato dalla sola forza che si oppose al precedente, nonché il citato precedente, che comprendeva le forze che oggi si oppongono. In questo modo sarà facile vedere che, almeno a parole, tutti condividono la necessità di far diminuire il peso percentuale del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo. Che è una condivisione estendibile a molti altri governi del recente passato, a prescindere dal loro esserci riusciti e dalla coerenza fra proclami e azioni. La sola eccezione è il governo Conte 1, che fece garrire la bandiera del fare più debito per mostrarsi più sovrani, così riuscendo a far una figura sovranamente di palta e doversi rimpiattare dietro illusionismi contabili.
Sul lato investimenti – che il bilancio pubblico italiano ha praticamente cancellato da decenni, con governi di diverso colore e uguale dedizione alla spesa corrente – il ministro Fitto ha detto in Parlamento due cose: a. il governo intende spendere tutti i fondi europei di cui si dispone;
b. le modifiche delle quali si parla non sono relative alle mete ma alle tappe.
Sommando le forze che sostenevano Draghi a quelle che sostengono Meloni, convergenti sul medesimo Pnrr, si totalizza l’unanimità sulle mete.
Lo scopo di quegli investimenti non è quello di rendere moderna e competitiva la produzione industriale italiana, perché lo è di già (interessanti le considerazioni del professor Marco Fortis, su “Il Sole 24 Ore” di ieri); lo scopo è sanare gli squilibri strutturali (scuola, sanità, digitale, mobilità, pubblica amministrazione) e territoriali (Nord-Sud, ma anche i diversi Nord e i diversi Sud). L’Italia produttiva corre che è una bellezza, difatti facciamo numeri importanti nelle esportazioni; ma c’è un’Italia a rimorchio, addormentata dall’assistenzialismo, che va svegliata e vitalizzata nella dignità del lavoro.
Condividere queste cose non è affatto poco. Mettiamoci anche la condivisione – sempre con lo stesso metodo di calcolo e al netto delle incoerenze – della scelta occidentale, atlantica, Nato, europea nonché a favore dell’Ucraina e il quadro diventa fin troppo confortante.
Dopo di che, ovviamente e giustamente, ci si divide. Ma perché la cosa abbia un senso sarebbe sano dividersi fra chi governa e pensa di far bene le cose a modo proprio e chi si oppone, tallona e critica chi governa perché non riesce a far le cose che si erano condivise. Ed è qui che casca l’asino. Dal governo giungono voci diverse e a ruota libera sui piani Pnrr e sui fondi Ngeu, mentre il ministro della Giustizia va da una parte e i decreti sulla giustizia dall’altra. Dall’opposizione non si capisce se sono per la legge concorrenza senza la deprimente manfrina sui balneari, se ritengono giuste le parole di Nordio, quindi attaccando per l’incoerenza e così via. Anziché discutere di come far crescere il Pil per far scendere il debito e del nuovo (ipotizzato) patto di stabilità, si apre la gara sciocca fra chi indica gli ‘schiaffi’ europei e chi millanta di battere i ‘pugni’. Così declassando la politica a rissa alticcia. Cui la metà degli italiani si rifiuta di partecipare, con tristi ragioni, mentre i partiti puntano a chi prende più voti nell’altra metà, con meste conseguenze. La sostanza sarà pure noiosa, ma questa roba è mefitica.
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#laFLEalMassimo-episodio90- BTP e Sovranità Limitata
youtube.com/embed/Edaplchg2FQ?…
In apertura ribadisco la condanna da parte di questa rubrica dell’invasione operata dalla Russia ai danni del popolo Ucraino.
Si continua a parlare di rischi di un possibile downgrade da parte delle agenzie di rating per il nostro paese, tuttavia i segnali sono contrastanti perché se Goldman sachs raccomanda posizioni corte, Standards & Poors ha recentemente confermato il giudizio sul nostro paese.
La verità è che è abbastanza indifferente il colore del governo in carica o il carattere più o meno populista del partito di maggioranza, contano il rispetto della disciplina di bilancio e il rispetto di impegni presi quali il PNRR e piani di sostenibilità
Questo non è edificante per la classe politica del paese, che oltre che poco credibile finisce per scadere nell’irrilevanza, ma può essere rassicurante per i risparmiatori e i cittadini del nostro paese
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A scuola non bevo quasi mai, quindi riempiendo una volta la borraccia (di metallo) posso potenzialmente finire con il non riempirla di nuovo per delle settimane intere, perché non la finisco nel frattempo...
Eh, forse ogni tanto però l'acqua sarebbe buona cosa cambiarla, volevo bere stamattina ma ho dovuto rinunciare, il sapore era terrificante (che significa: stavolta lo era molto molto di più di altre volte) e probabilmente ci stanno pure batteri sussati lì dentro 💀
SUDAN. Epidemie e infezioni dilagano, occupato laboratorio con agenti patogeni ad alto potenziale
di Alessandra Mincone –
Pagine Esteri, 28 aprile 2023. Le 72 ore di cessate il fuoco tra l’esercito regolare e i miliziani in Sudan sta garantendo l’evacuazione alle centinaia di migliaia di persone dalla doppia nazionalità o già profughi di altre guerre, ma per i civili sudanesi non esiste ancora una nave che traghetti verso un destino migliore. L’Organizzazione mondiale della sanità ha gridato il suo allarme grave per la pericolosa occupazione del laboratorio di salute pubblica dove vi sarebbero conservati gli agenti patogeni isolati di malattie ad alto potenziale di contagio e di mortalità. Si parla di campioni di virus come il morbillo, la malaria, la poliomielite e il colera ed esiste l’alto rischio di un disastro biologico.
Solo all’inizio del marzo 2023, il Ministero della Salute di Khartoum denunciava la crescente infezione di malaria nella capitale. Dalla fine del mese di febbraio, l’indicatore dei vettori di infezione era aumentato di oltre il 7%, tant’è che si contano più di cinquemila nuovi casi solo nelle ultime settimane. Con un milione di persone infette da malaria, il servizio sanitario sudanese denunciava, dal 2021 al 2022, un aumento del 12% di contrazione del virus.
Ai casi di malaria si sono aggiunti contemporaneamente casi di febbre dengue, una febbre emorragica che, secondo le statistiche dell’OMS, risulta letale per almeno il 50% dei soggetti che la contraggono. Il direttore del dipartimento per le emergenze del ministero della salute sudanese, Mohamed el Tijani, a novembre 2022 dichiarava di osservare una delle peggiori epidemie di dengue dell’ultimo decennio. Mentre nel primo semestre del 2020 il virus aveva colpito quasi tremila persone, adesso i casi di dengue sembrano aumentare di diverse centinaia per settimana, con un aumento dell’incidenza emorragica che nelle ultime settimane ha provocato anche due morti.
Malattie come la malaria, la febbre di dengue e la chikungunya trovano in Sudan il terreno fertile per la diffusione del contagio di regione in regione in breve tempo. La vulnerabilità climatica del paese, attraverso un’alternanza di periodi di desertificazione e siccità con inondazioni e violente alluvioni, oltre a mettere in crisi le popolazioni provocando migliaia di sfollati interni e conseguenze disastrose per le risorse alimentari degli abitanti, riproduce un habitat perfetto per l’esacerbazione di ovuli di insetti i quali facilmente veicolano i virus ad alto tasso di contagio.
Il laboratorio di salute pubblica di Khartoum è attualmente occupato da combattenti armati che non permettono l’ingresso del personale tecnico. Le continue interruzioni di corrente mettono seriamente a rischio la conservazione dei campioni di materiale. Tutto ciò rappresenta una minaccia biologica dalle importanti ricadute sul tessuto sociale sudanese. Basti pensare che durante la pandemia di covid-19 i costi dell’assistenza sanitaria sudanese hanno subìto aumenti del 90% a causa dell’inflazione e che l’acquisto di medicinali e protezioni individuali era limitato a meno del 50% rispetto alle richieste della popolazione. Sempre nel 2020, secondo l’agenzia italiana di cooperazione allo sviluppo con sede a Khartoum, nel merito del programma di emergenza in favore delle popolazioni del Sudan colpite da disastri naturali e conflitti, le somministrazioni di vaccini per malattie come il morbillo erano drasticamente calate, lasciando oltre centomila bambini senza un’adeguata immunizzazione e con il consequenziale aumento della mortalità infantile.
In Sudan sono più di due milioni i bambini che soffrono di malnutrizione, e che nel 50% dei casi sono affetti da forme di diarrea contratte tramite infezioni per le degradanti condizioni igienico-sanitarie come l’impossibilità di accedere ad acqua potabile, specie per i minori immigrati che risiedono negli accampamenti transitori, come quelli che sono riusciti a fuggire per la guerra nel vicino Sud Sudan.
Save the children ha segnalato che dall’inizio del conflitto sono stati colpiti 32 siti di vaccinazione tra quelli finanziati direttamente, visto che l’interruzione di corrente ha inficiato le scorte di vaccini, insulina e diversi antibiotici riposti in strutture a basse temperature. L’associazione ha denunciato anche l’evacuazione di un ospedale pediatrico, notizia che fotografa nitidamente la guerra in corso tra due fazioni militari, ambedue lontane anche solo dall’immaginario di una “transizione per una democrazia” nascente.
Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore dell’Oms, definisce ormai deteriorate anche le scorte di sangue conservate in laboratorio, a fronte di un bilancio dello scontro che supera i quattromila feriti. Ma nonostante la drammaticità dei risvolti del conflitto, e di una crisi economica e sociale di certo non proprio recente, le Nazioni Unite hanno annunciato la sospensione temporanea dei programmi per il controllo e la trasmissione di malattie come dengue e malaria, e del Programma alimentare globale che, secondo le stime pianificate per il 2023, avrebbe dovuto sostenere 7,6 milioni di persone di cui cinquantamila bambini, mirando la destinazione degli aiuti verso le scuole, anche in funzione di un coinvolgimento di minori per il diritto all’istruzione. Ad ogni modo il numero di vittime di malnutrizione acuta in età infantile è di gran lunga superiore considerata la presenza di bambini e adolescenti nei campi profughi.
L’interruzione degli aiuti umanitari si prevede una scelta che probabilmente acuirà le violenze tra le fazioni militari e contro i civili per il saccheggio dei beni a disposizione. Nel frattempo è fresco di stampa il comunicato di otto organizzazioni sanitarie e per i diritti umani, scritto per invitare le forze militari del governo di transizione e le RSF “a impegnarsi per una cessazione immediata e permanente delle ostilità; la protezione dei civili; e un passaggio sicuro per il personale medico, le ambulanze e gli ospedali per garantire che i civili possano accedere ai servizi sanitari critici”.
Il Comitato preliminare del sindacato dei medici sudanesi riporta lo stato di salute in guerra al 26 aprile 2023: evacuazione di 19 ospedali tra la capitale e le aree limitrofe; 59 ospedali su 82 non più operativi; 6 ambulanze colpite dai bombardamenti; 12 operatori e studenti di medicina uccisi; tanti altri sono stati sequestrati o hanno visto i propri mezzi sequestrati, con l’impedimento di trasportare i feriti anche gravi.
Nel frattempo, su qualche sito web occidentale si scorge timidamente la domanda di un sudanese: “Se tutti scappano, perché non possiamo fuggire anche noi?” titola euronews, e riporta una nota di Othman Taj el-Dein, direttore del dipartimento che si occupa di insufficienza renale: “I pazienti dovrebbero fare la dialisi una volta ogni due giorni, ma ci sono alcuni pazienti che non l’hanno fatta per dieci giorni. Se non fa la dialisi ogni due o tre giorni, il paziente ha una probabilità dell’80% di morire”.
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Fonti:
dabangasudan.org/en/all-news/a…
wfp.org/news/wfp-warns-sudan-f…
reliefweb.int/report/sudan/sud…
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Perché quello tra privacy e informazione online è sempre un rapporto tanto difficile
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