“Premio Lagrange-Fondazione CR”
Lunedì 10 luglio avrò il piacere di partecipare al Premio Lagrange-Fondazione CRT a partire dalle ore 18, presso il Binario 3 delle OGR Torino. Qui le informazioni complete all’evento fondazionecrt.it/premio-lagran…
Bombe a grappolo all’Ucraina? Jean spiega la controversa decisione Usa
Gli Usa forniranno all’Ucraina proiettili a grappolo per obici da 155 mm e forse per lanciarazzi multipli HIMARS. Le bombe a grappolo (cluster bomb), sviluppate dalla Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, sono armi areali, lanciabili da vettori terrestri o aerei. Gli Usa forniranno all’Ucraina quelle per artiglieri da 155 mm, considerate fondamentali per neutralizzare le fanterie russe trincerate nel Sud-Est dell’Ucraina, al fine di guadagnare il tempo necessario allo sminamento indispensabile per la creazione di brecce nel dispositivo russo, potentemente fortificato, senza far subire perdite eccessive alle truppe d’assalto ucraine. L’artiglieria costituisce il mezzo indispensabile per la controffensiva di Kiev, che si trova a corto di munizioni, dati i ritardi che subisce la mobilitazione industriale occidentale e l’esaurimento delle scorte Nato.
Le bombe a grappolo modello M 864 – che costituiscono almeno in un primo tempo la massa di quelle che saranno fornite dagli Usa – contengono, a seconda dell’anno di fabbricazione, da 72 a 86 sub-munizioni o bombette, che si disperdono in un’area delle dimensioni di un campo di calcio. Entrano nelle trincee, rendendole impercorribili. Un numero ridotto dei tipi più recenti è programmato per autodistruggersi entro 48 ore dall’arrivo sul terreno, in modo da non costituire per anni, come le mine antiuomo, un pericolo per la popolazione e obbligare a difficili e costose operazioni di bonifica. Particolarmente vulnerabili sono i bambini attirati dal fatto che le bombette sono simili a palline. Si è rinunciato a colorarle per facilitare la bonifica, dato che la cosa ne faciliterebbe la neutralizzazione da parte del nemico.
La percentuale dei mancati funzionamenti (dud rate) delle M 864 è discussa: varia dall’1,2 al 5% (mediamente 2,35% secondo il Pentagono). Raggiunge il 20% secondo le organizzazioni umanitarie, portate a sottolinearne la pericolosità nel post-conflitto.
Sono condannate dalla “Convenzione di Dublino” del 2008 le cluster bomb, 111 Stati l’hanno firmata, rinunciando al loro uso, stoccaggio, trasferimento e costruzione. Gli Usa, come la Russia, la Cina l’India, ecc. non vi hanno aderito. Allora il Pentagono affermò che non poteva rinunciarvi, data la loro efficacia e il fatto che Stati potenzialmente ostili agli Usa le mantenevano nei loro arsenali. Le organizzazioni umanitarie assimilano le bombe a grappolo alle mine antiuomo e le condanno con l’eccezione di quelle utilizzate per lanciare fili metallici per creare cortocircuiti alle reti elettriche, impiegate dalla Nato nel 1999 nella guerra del Kosovo. Gli Stati europei – incluso l’UK – hanno firmato la Convenzione e si sono dichiarati contrari alla decisione Usa di consegnare all’Ucraina di “bombe a grappolo”.
Di fatto, sia Kiev che Mosca hanno impiegato consistenti quantità di bombe a grappolo attingendo ai depositi ex-sovietici. La decisione di Biden è stata contestata anche da parte di taluni parlamentari democratici, preoccupati non solo della reazione avversa degli alleati (anche dell’Italia, con qualche “distinguo” da parte di Londra), ma anche dalla preoccupazione di perdere la “verginità morale” nel sostegno all’Ucraina. Interessante è perciò esaminare i motivi che hanno indotto Biden a prendere tale decisione, da tempo sollecitata da Zelensky.
Dell’efficacia militare contro le linee fortificate russe, si è già parlato, unitamente alla preoccupazione di Kiev di ridurre le perdite dei propri soldati e di accelerare la controffensiva, in modo anche da consolidare il sostegno occidentale all’Ucraina. Sono fatti più importanti delle critiche rivolte all’uso di armi tanto odiose per le opinioni pubbliche. Il loro trasferimento a Kiev mobiliterà non solo “gli utili idioti di Putin” ma anche le organizzazioni umanitarie. A poco vale la promessa di Zelensky di utilizzarle solo sul territorio ucraino, in aree non abitate. In caso di successo, le forze ucraine nella loro avanzata dovranno attraversare le aree contaminate da bombette inesplose, subendo perdite, come quelle Usa che in Iraq nel 2003 persero 21 soldati.
Oltre che per la loro efficacia contro i trinceramenti, il motivo essenziale che ha indotto Biden a decidere di fornire bombe a grappolo all’Ucraina consiste nella carenza delle scorte di munizionamento convenzionale, a cui fanno riscontro i grandi “stocks” di quelli di bombe a grappolo (si parla di 4,7 milioni di proietti, di cui mezzo milione di M 864) e nel fatto che la controffensiva ucraina, sta proseguendo con consistenti perdite e a velocità inferiore a quanto desiderabile per neutralizzare il punto più debole della resistenza ucraina: la saldezza della coalizione che appoggia Kiev. È probabile che l’argomento entrerà nel dibattito politico italiano, con le solite accuse di un’Europa asservita agli Usa.
In ogni caso, la sofferta decisione di Biden non verrà mutata. Verrà sicuramente discussa al Summit Atlantico. Ma si troverà qualche giustificazione per confermarla. L’unica possibilità di una sua modifica sta nel rafforzarsi dell’opposizione della sinistra dei democratici americani. Il costo di una rinuncia sarebbe comunque molto pesante per gli ucraini. Pagherebbero con un aumento di caduti per la mancanza di adeguati rifornimenti di munizioni e i “pudori” delle opinioni pubbliche occidentali.
Etiopia, manifestazione delle donne in Tigray per chiedere giustizia e rispetto dell’accordo di tregua per le vittime
Le donne a Maychew, Tigray meridionale, hanno tenuto una dimostrazione venerdì 7 luglio 2023
Le manifestanti hanno chiesto che le donne ei bambini del Tigray non vengano puniti per quello che hanno definito “l’errore degli altri”, come recitava lo striscione durante la manifestazione.
Le donne hanno anche fatto appello alla giustizia e alla responsabilità tempestive e la piena attuazione dell’accordo di Pretoria.
Rehmet Ayana e Mehret Redie, tra coloro che si sono riuniti per esprimere la loro frustrazione, hanno affermato che le donne sfollate sono in miseria mentre implorano l’amministrazione regionale ad interim del Tigrai e il governo federale a compiere uno sforzo concertato per affrontare i loro problemi secondo il patto di pace.
Anche la rappresentante dell’Associazione delle donne del Tigray meridionale, Tsega Gebremariam, ha affermato che la situazione delle donne sfollate sta peggiorando anche dopo l’accordo sulla cessazione delle ostilità (CoHA).
Ha aggiunto, durante la guerra genocida, 7000 famiglie sono state sfollate, di cui il 50% erano donne.
Domenica 9 luglio 2023 le donne del Tigrai si sono radunate nuovamente in diverse parti della regione, compresa la capitale Mekelle.
Manifestazioni per 3 richieste fondamentali:
- il ritorno degli sfollati nelle loro case,
- la ripresa degli aiuti alla popolazione del Tigray, stato regionale etiope
- la giustizia per le vittime di violenze sessuali, come arma di guerra.
Centinaia di migliaiai di donne di ogni età e ceto sociale stuprate durante la guerra genocida iniziata il novembre 2020 e durata 2 anni. Oggi crisi umanitaria per milioni di persone.
Secondo il reporter Solomon Berhe di Tigrai TV la manifestazione ad Adigudem, nel sud-est del Tigray, chiede l’urgente ripresa degli aiuti umanitari sospesi, nonché giustizia e responsabilità in tempi utili.
Le donne manifestanti ad Adigudem dichiarano di sostenere pienamente l’accordo di cessazione ostilità, firmato a Pretoria il 2 novembre 2020, affermando la loro disponibilità per la sua piena attuazione, condannando quelli che hanno definito spoiler del patto.
Su uno degli striscioni della manifestazione ad Adigudem si legge:
“Ci opponiamo fermamente a chi ostacola l’attuazione dell’accordo di Pretoria”
Dimostrazioni anche a Shire, Tigrai nord occidentale e Mokoni, Tigrai meridionale.
Abeba Haileslassie, capo della Tigrai Women Association, come indica Tigrai TV, denuncia che le donne stanno fuggendo da Zalambessa, Irob woreda [distretto], Tigray orientale, e dalle parti meridionali della regione per paura di violenze sessuali da parte delle forze eritree e amhara. Due gruppi che sull’accordo di Pretoria sono definite implicitamente “forze straniere” che devono obbligatoriamente ritirarsi, ma sono ancora presenti ed occupanti varie aree dello staot regionale del Tigray. Sono passati 8 mesi dal rilascio dell’accordo e gli obblighi di quel patto di tregua quindi sono ancora disattesi.
Le donne in Tigray hanno anche espresso la loro frustrazione per la mancanza di farmaci che sta causando la morte di innumerevoli madri.
youtube.com/embed/YCH_b2RaMFY?…
Axum, nel Tigrai centrale, e Adigrat nel Tigrai orientale, lunedì saranno testimoni di un’altra coraggiosa manifestazione per rivendicare i loro diritti come individui, come popolo oppresso da una guerra dai risvolti genocidi, per cui oggi quelle stesse donne, vittime, come tutti i civili coinvolti, ne stanno pagando le catastrofiche conseguenze.
FONTE:
Gli Usa e il fianco Sud. Il vertice Nato visto dall’amb. Julianne Smith
A Vilnius la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina sarà al centro delle riflessioni dei Paesi alleati, ma si affronteranno anche le sfide del futuro con una visione a 360 gradi. Saranno annunciate diverse iniziative legate alla missione principale della Nato – la deterrenza e la difesa – e vedremo anche proposte legate alle nuove questioni della competizione globale, dalla sicurezza informatica e dal clima ai problemi economici e sanitari globali. Questa è la forza della Nato: continuare a evolversi, creare nuovi partenariati e rafforzare quelli esistenti, rimanendo impegnati fornire ai nostri amici ucraini tutto il sostegno di cui hanno bisogno.
I partenariati saranno preziosi, soprattutto perché la Nato è intenzionata ad allargare il suo sguardo a livello globale. Per la prima volta l’Alleanza transatlantica ha incluso la Cina come competitor nel suo Concetto strategico, lanciato al vertice di Madrid dello scorso anno. Per la prima volta gli alleati hanno convenuto che Pechino rappresenta una sfida sistemica. Riteniamo, infatti, che i cinesi stiano cercando di erodere l’attuale sistema internazionale basato sulle regole, creato più di settant’anni fa. Di conseguenza, l’Alleanza sta cercando di rafforzare le sue relazioni con alcuni Paesi dell’Indo-Pacifico. Al vertice di Vilnius parteciperanno i leader di quattro di questi partner: Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone. Insieme, potremo affrontare le sfide comuni. Inoltre, l’Alleanza sta cercando di creare una serie di strumenti per proteggere la Nato da alcune delle sfide che la Cina potrebbe porre nell’area euroatlantica. Su questo punto, alcuni ritengono che la Nato stia cercando di espandersi nella regione indo-pacifica. Non è così. La Nato è un’alleanza difensiva nella regione europea e nordatlantica, ma la sua missione è proteggere i Paesi membri dalle sfide che si profilano all’orizzonte anche da altri quadranti.
Quindi il nostro obiettivo non è l’eventuale adesione di questi Paesi partner alla Nato, ma piuttosto lavorare insieme su grandi questioni globali come la sicurezza informatica, la disinformazione e altre sfide comuni. Oltre all’Indo-Pacifico, inoltre, l’Alleanza ha obiettivi chiari anche per il fianco meridionale. La Nato ha attualmente più di quaranta Paesi partner in tutto il mondo, molti dei quali si trovano proprio nella regione meridionale della Nato, nel Mediterraneo, in Africa e in Medio Oriente. Gli alleati hanno numerosi programmi in queste regioni e molti di questi Stati hanno espresso interesse a rafforzare i loro partenariati con l’Alleanza in varie forme. Alcuni desiderano avere maggiori input dalla Nato nella riforma dei loro sistemi di sicurezza interna; altri vorrebbero la partecipazione degli Alleati per migliorare la loro sicurezza informatica; altri ancora chiedono aiuto per contrastare le campagne di disinformazione che Cina e Russia stanno portando avanti nelle loro regioni. Su tutti questi partenariati incombe tuttavia una minaccia comune: l’instabilità.
Diversi partner vorrebbero rafforzare il loro rapporto con la Nato proprio per garantire una maggiore stabilità ai loro vicini e alle loro regioni. Questo ruolo è fondamentale per l’Alleanza e al vertice si cercheranno nuove iniziative da mettere in atto ora e nei prossimi anni. Su questi temi gli Stati Uniti e l’Italia possono dare un grande contributo lavorando insieme. I nostri due Paesi condividono relazioni bilaterali molto forti, abbiamo una lunga storia di lavoro e collaborazione in sfide sia nella zona euroatlantica sia in altre regioni del mondo. L’Italia ospita 30mila soldati statunitensi con le loro famiglie e svolge un ruolo cruciale di leadership all’interno dell’Alleanza, continuando a sostenere l’Ucraina con assistenza economica, umanitaria e di sicurezza, oltre a essere leader in diverse operazioni e missioni della Nato. Per quanto riguarda il futuro, ci sarà sicuramente una maggiore cooperazione, anche nel G7, nelle relazioni tra Stati Uniti e Unione europea e nelle Nazioni Unite. Insieme, Washington e Roma continueranno a lavorare sulle sfide globali come il cambiamento climatico, la migrazione o le questioni sanitarie ed economiche.
Articolo apparso sul numero 144 della rivista Airpress
Dialogo e partenariati, la ricetta dell’amb. Peronaci per il summit di Vilnius
Ci troviamo in un momento di preparazione del prossimo vertice Nato a Vilnius, un appuntamento importante, che servirà a riaffermare l’unità tra alleati e la determinazione a contrastare la guerra di aggressione all’Ucraina. In Lituania, l’Alleanza prenderà delle decisioni strategiche che porteranno non solo al rafforzamento degli assetti, ma a una riorganizzazione complessiva con uno sguardo di medio-lungo periodo. Come ribadito anche nel corso del recente tour europeo del presidente ucraino Zelensky, il messaggio che la Nato vuole mandare è chiaro: “Siamo più forti di quando la guerra è iniziata”.
Il secondo messaggio che i Paesi alleati intendono veicolare è quello di una Nato aperta e interessata a dialogare a 360 gradi attraverso l’attivazione di diversi partenariati politici, secondo una direttiva illustrata anche dal Concetto strategico di Madrid.
Non è un caso che al summit lituano saranno presenti anche i partner dell’Asia-Pacifico, i cosiddetti Paesi AP4 (Australia, Giappone, Repubblica di Corea e Nuova Zelanda), in una visione della sicurezza globale concretamente integrata. Non mancheranno, del resto, decisioni rispetto al rafforzamento delle partnership con i Paesi del fianco sud, dall’Africa del nord al Golfo. Un’azione che la Nato sta portando avanti da diversi anni attraverso programmi come i Dialoghi mediterranei e l’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Progetti importanti, che prevedono anche lo sviluppo di missioni operative. Ne è un esempio la missione Nato in Iraq, che si sta evolvendo da una presenza puramente difensiva a un’attività di partenariato per la riforma della sicurezza interna con una piena ownership degli iracheni.
La Nato, dunque, può offrire un contributo concreto a quella che nel Concetto strategico è stata definita la sicurezza cooperativa. Un contributo reso più importante, in questo momento, dalla necessità di rispondere a una guerra ma che ci deve veder lavorare anche, e forse soprattutto, prima e dopo i conflitti, attraverso quelle attività di prevenzione e stabilizzazione che rappresentano uno dei core task identificati dal documento redatto a Madrid nel 2022.
Il Concetto strategico, infatti, individua due minacce principali; la Russia e il terrorismo. La prima è concentrata sul fianco est, la seconda a sud. Ma il punto centrale è la consapevolezza di come tutte queste minacce siano integrate tra loro. Atlantico e Mediterraneo, del resto, sono collegati attraverso il Golfo all’oceano Indiano e al Pacifico. Uno degli obiettivi di Vilnius, allora, sarà approfondire tutti i partenariati politici. Dobbiamo essere consapevoli, infatti, che senza una presenza forte di Paesi che si basano sui valori democratici e sullo stato di diritto, in molte regioni del mondo altri attori, come Russia e Cina, stanno occupando spazi che un domani sarà molto difficile recuperare.
Di fronte a questo scenario, fondamentale sarà ribadire l’unità di intenti tra gli alleati, e in particolare la relazione che lega l’Italia e gli Stati Uniti. Gli Usa, infatti, sanno di trovare nel nostro Paese oltre che un alleato, un amico. Gli italiani hanno una tradizionale presenza degli Stati Uniti e una profonda gratitudine per il loro ruolo dopo la Seconda guerra mondiale nel percorso che ha portato alla Nato e a questo sistema internazionale che riteniamo sia da difendere. Una comprensione che va al di là dei semplici rapporti tra governi e che lega le due comunità di cittadini. L’Italia, inoltre, può dare agli Stati Uniti una presenza nelle organizzazioni internazionali, a partire dall’Unione europea, aperta alla continua cooperazione transatlantica.
Con l’ingresso della Finlandia, e presto della Svezia, ci sarà anche molta più Europa nella Nato, e sarà di conseguenza ancora più importante costruire un rapporto forte tra le due sponde dell’Atlantico. Il supporto degli alleati americani potrà anche aiutare i Paesi membri dell’Ue a costruire il progetto della Difesa comune. Nel Vecchio continente, infatti, spendiamo molto per la nostra sicurezza, ma se continueremo a spendere divisi, lo faremo male. La collaborazione transatlantica potrebbe invece aiutare a investire meglio le risorse europee. Una necessità che caratterizza anche l’Italia, che a Vilnius riconfermerà in pieno l’impegno al necessario incremento delle spese per la Difesa fino a raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil.
Abbiamo un percorso di avvicinamento a questo traguardo, rafforzato dalla consapevolezza che, come indicano i dati economici, l’Italia è il Paese che in Europa crescerà di più, a 1,2%. Ma oltre a quanto spendere, è importante come spendere. L’Italia fornisce all’alleanza anche capacità e contributi effettivi. Il nostro Paese partecipa ai battlegroup che vanno dalla Lettonia fino alla Bulgaria e fornisce assetti aerei pregiati per le attività di air policing dell’Alleanza lungo tutto il fianco settentrionale e orientale. A Vilnius, dunque, verranno gettate le basi per il futuro dell’Alleanza, un futuro che dipende dalla capacità della Nato di adattarsi alle nuove realtà. Il prossimo anno, a Washington, festeggeremo i 75 anni della fondazione del Patto atlantico, e come italiani, e soprattutto come alleati, avremo davvero qualcosa di cui essere orgogliosi.
Articolo apparso sul numero 144 della rivista Airpress
Dall’Italia servono proposte concrete per il Sud della Nato. I consigli di Minuto-Rizzo
Quello di Vilnius è un vertice molto atteso, anche perché si trova proprio ai confini con la Russia mentre perdura la sua invasione dell’Ucraina. Si tratterà quindi di un evento dalla grande valenza simbolica. Sarà importante anche perché, almeno nelle previsioni, dovrebbe essere scelto il prossimo segretario generale della Nato, con il mandato di Jens Stoltenberg che scade a settembre. Un tema tutt’altro che scontato, anche perché al momento l’unico candidato in qualche modo ufficializzato è il ministro della Difesa britannico, mentre c’è meno chiarezza su eventuali altri nomi. Naturalmente tra i molti temi sul tavolo delle discussioni, al centro ci sarà l’andamento della guerra in Ucraina. Fare previsioni in questo senso è molto difficile, perché si corre sempre il rischio di essere smentiti da come evolve la situazione sul campo. Quello che tuttavia sembra emergere è che in occidente ci sia una certa aria di vittoria. L’impressione generale, insomma, è quella che la Russia si stia dimostrando più debole di quello che si pensava all’inizio, e che in qualche modo i russi siano arrivati al massimo della loro penetrazione all’interno dell’Ucraina invasa.
Questo fa emergere due elementi importanti. Primo, la riconferma degli aiuti per Kiev. Qui si inserisce un tema che riguarda gli Stati Uniti, dal momento che l’indebitamento complessivo americano impatterà sulle spese future degli Usa, e l’aiuto americano potrebbe quindi rallentare. L’aiuto americano potrebbe quindi rallentare, per evitare lo sfondamento del tetto del deficit. Sul tema sono in corso i negoziati a Washington per vedere come estendere tale termine, ma nel frattempo questo elemento caratterizzerà di certo il dibattito tra gli alleati. Il secondo elemento rilevante è il possibile allargamento della Nato anche alla Svezia. Il vertice avviene dopo la rielezione di Erdogan in Turchia, ed è una questione che non può ulteriormente essere rinviata. A luglio, allora, potremmo assistere all’adesione formale anche di Stoccolma. Questo porta a un cambiamento forte dell’Alleanza, con la dimensione nordica che diventa molto più preponderante rispetto a prima.
Altra questione, invece, è l’ipotesi di un ingresso ucraino nella Nato, che per ora resta molto improbabile, almeno nei termini di una membership ufficiale. Quello che più probabilmente avverrà, in linea con quanto già è in atto, è un avvicinamento ucraino al Patto atlantico per quanto riguarda l’operatività e altre forme di sostegno alla sicurezza. Accanto a questi temi centrali, l’agenda Nato dovrà affrontare anche la sfida sistemica posta dalla Cina: non è un caso che al summit siano stati invitati quattro Paesi amici della Nato dell’indo-pacifico, com’era già successo a Madrid. Tuttavia, per quanto l’Asia sia assolutamente un tema centrale, esistono anche sfide sistemiche che arrivano dal sud, dal Mediterraneo, dal Medio Oriente, dal Sahel e dalla regione dei grandi laghi africani. Sono contesti molto fragili, in cui si intrecciano temi come la migrazione, la sicurezza e il terrorismo, che è tutt’altro che scomparso. Tuttavia non possiamo aspettarci, come Paese, che siano i lituani (solo per fare un esempio) a portare al tavolo delle discussioni il fianco sud. C’è una sensibilità nordico-orientale che vede come minaccia esistenziale la Russia, nei cui confronti è necessario vincere (nonostante i termini di questa ricercata vittoria rimangano poco chiari) e che al vertice avrà sicuramente enfasi.
L’Italia, allora, dovrebbe farsi portatrice di un’attenzione più specifica nei confronti del Mare nostrum, se possibile alleandosi con gli altri Paesi mediterranei a partire dalla Spagna, il Portogallo, la Grecia e magari la Francia, anche perché non si può parlare genericamente di una “attenzione verso il Mediterraneo”. Certo molte iniziative sono già state prese: la Nato ha già avviato diversi partenariati in tutta la regione, dal Medio Oriente, al Golfo, fino al Maghreb, basati su azioni concrete per rafforzare i contatti, creare una cultura comune, fornire assistenza tecnica perché questi Paesi possano costruire istituzioni di sicurezza moderne. È quella che la Nato chiama “cooperative security”. E l’Alleanza Atlantica ha due iniziative che si citano ormai troppo poco, e che andrebbero recuperate: il Dialogo mediterraneo e l’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Due progetti multilaterali, cui partecipano in totale undici Paesi, che dovrebbero essere rivitalizzati. Sembra invece che la Nato si sia un po’ dimenticata di tali questioni, con la maggioranza degli alleati che guarda ad altro. Ne è un esempio il fatto che a Madrid siano state invitate solo Giordania e Mauritania. Sono allora i Paesi Nato del sud che hanno interesse a cercare di creare un consenso intorno a questi temi.
I partenariati, del resto, sono fondamentali per un’alleanza nata per difendere i Paesi dell’Europa occidentale (oggi allargata anche a quella centrorientale) e del Nord America dalla minaccia dell’allora Unione Sovietica. Oggi l’Alleanza Atlantica si è trasformata, dopo la fine della Guerra fredda e le crisi in Jugoslavia, in un’organizzazione di sicurezza, il cui compito è quello di proiettare stabilità anche a livello regionale e globale. Questo si traduce nella necessità di creare legami, condividere idee e coltivare una rete di Paesi che la pensa, più o meno, allo stesso modo. Nel nostro Paese non c’è storicamente una grande cultura tecnica sulla sicurezza. Ci sono certamente alcuni grandi obiettivi di carattere generale, ma non basta. Questo governo in realtà parte bene, a livello dei principi. Vediamo il presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e quello della Difesa tutti orientati nello stesso senso su questi temi. Ora, però, bisogna formulare proposte specifiche, anche recuperando i partenariati già avviati. Troppo spesso l’opinione pubblica dimentica che l’Italia è un membro fondatore della Nato, che ha partecipato e partecipa da protagonista a tutte le operazioni dell’Alleanza, assumendone talvolta anche il comando. È stata per vent’anni in Afghanistan ed è il quinto contributore dell’Alleanza. Anche di recente il nostro Paese ha dislocato le sue Forze armate per la protezione aerea dei Paesi baltici, oltre a schierare truppe in battlegroup nell’Europa dell’est.
La situazione attuale è caratterizzata naturalmente dalla guerra in Ucraina, con tutte le incognite sul quando e come finirà, al netto di un indebolimento russo i cui effetti sono ancora da comprendere. Quindi, come si è detto, l’attenzione è fortemente spostata verso oriente e, in prospettiva, a settentrione. Di fronte a questa evoluzione c’è dunque bisogno di azioni e proposte. E l’Italia ha tutte le carte in regola per farsi sentire.
Articolo apparso sul numero 144 della rivista Airpress
“Mediamare – Mediazione e I.A”
Lunedì 10 di luglio a partire dalle 16.00 parteciperò alla 7a edizione di Mediamare – Mediazione e I.A.per parlare di quali impatti avrà la AI nelle dinamiche negoziali e come si potrà governare il cambiamento. Un incontro promosso da ANF e UNAM Per informazioni dettagliate ordineavvocatiascolipiceno.it/…
“Dati, salute, digitale. Sbloccare il potenziale, proteggere la privacy”
Martedì 11 luglio avrò il piacere di partecipare con Diletta Huyskes, CEO di Immanence, alla Recordati Lectures “Dati, salute, digitale. Sbloccare il potenziale, proteggere la privacy” organizzato a Milano a partire dalle 14.30 da Casa Recordati e trasmesso in streaming Qui potete trovale le informazioni complete healthverse.recordati.it/edito… Qui il link per iscriversi healthverse.recordati.it/recor…
Feddit: come può un utente #Mastodon seguire una comunità #Lemmy? Quali sono le comunità italiane nate dopo l'esplosione della redditmigration? Quali sono quelle nate prima? Si può aprire un nuovo thread da Mastodon?
Tutte le risposte nel post linkato (qui leggibile su feddit)
Basta un Patto nord-atlantico o la sfida si è allargata? Risponde Benedikt Franke
Il prossimo vertice Nato di Vilnius sarà un’importante occasione per fare il punto sulla guerra in corso in Europa e sulle sue conseguenze per la futura posizione dell’Alleanza. Oltre all’integrazione della Finlandia e, si spera, della Svezia, il futuro rapporto con l’Ucraina sarà in primo piano nelle discussioni. Sebbene un’adesione immediata alla Nato sia altamente improbabile, potremmo finalmente assistere a un piano d’azione per l’adesione di Kiev chiaramente definito, che delinei i passi da compiere e le condizioni da soddisfare. Sarebbe un grande miglioramento rispetto alla continua ripetizione del memorandum di Budapest ai vertici precedenti. Come minimo, dovremmo sperare in alcune concrete garanzie di sicurezza. Il vertice sarà anche un momento cruciale per pensare al di là dell’Ucraina e allinearsi ulteriormente sulle sfide più ampie che dobbiamo affrontare.
La brutale invasione della Russia è solo il segno più evidente del tentativo delle potenze revisioniste di erodere l’ordine internazionale basato sulle regole, ma non è certo l’unico. Che si tratti delle ambizioni sfrenate della Cina nel mar Cinese meridionale o della disintegrazione in corso del Sudan, del conflitto persistente in Medio Oriente o del crescente malcontento nel sud globale, le sfide agli interessi fondamentali dell’Alleanza sono numerose. La Nato dovrà farci i conti, e non solo con queste. Se a ciò si aggiungono pressanti meta-sfide come il cambiamento climatico, la competizione tecnologica o il non allineamento, si arriva al vertice più geopolitico di sempre.
Ciò pone la questione di quanto “nord-atlantica” possa e debba rimanere la Nato alla luce di sfide così globali. Possiamo davvero blindare la nostra stanza e permetterci di ignorare ciò che accade nel resto della casa? Oppure dobbiamo aprirci ad altre regioni e alleanze, coinvolgere altri alleati ed elaborare una strategia in cui la forza della Nato aiuti la più ampia comunità liberaldemocratica a prevalere contro coloro che cercano di eroderla, minarla e, infine, sconfiggerla? La Nato ha già dato la risposta e credo che sia quella giusta. Il raggiungimento e il contemporaneo rafforzamento del nucleo principale sono stati al centro della strategia della Nato per decenni, ma ciò che abbiamo visto in preparazione del vertice di Vilnius ha una marcia in più. Avendo accettato l’imperativo di alzare il tiro di fronte a quella che noi tedeschi chiamiamo affettuosamente zeitenwende (cioè un punto di inflessione nella geopolitica), gli alleati stanno spingendo molto in patria e, a quanto pare, ancora di più all’estero.
L’intensificarsi delle relazioni tra Nato e Giappone ne è un esempio. Il Giappone si è recentemente dotato di una nuova strategia di sicurezza nazionale che privilegia la cooperazione con Paesi e alleanze affini. La Nato è un alleato naturale per quel Paese. Non solo condivide gli stessi valori fondamentali, ma la sua esperienza nel dissuadere (con successo) un rivale espansionistico chiaramente definito per decenni contiene molti insegnamenti preziosi per lo Stato asiatico, sempre più preoccupato per le ambizioni incontrollate della Cina. Per sottolineare questa crescente amicizia, la Nato ha annunciato l’apertura di un ufficio a Tokyo e il primo ministro giapponese parteciperà al vertice di Vilnius. Alcuni sperano addirittura che questo sia il primo passo verso un’eventuale adesione del Giappone – e anche dell’Australia e della Nuova Zelanda – all’Alleanza.
Sebbene un’alleanza regionale basata sul modello della Nato (e in definitiva sugli stessi standard operativi e militari) sia probabilmente quanto di più lontano si possa (e si debba) sognare, il passaggio a una maggiore cooperazione è sotto gli occhi di tutti. Non è necessario guardare fino all’Indo-Pacifico per riconoscere la necessità e l’utilità che la Nato si spinga oltre l’Atlantico settentrionale. Che si tratti del Mediterraneo meridionale, del mar Nero o del golfo di Guinea, la difesa del territorio e dei valori Nato non inizia dai confini dell’Alleanza. Difesa e deterrenza globali non sono certo un approccio inedito per la Nato, ma le crescenti ambizioni illiberali e revisioniste obbligano l’Alleanza a riempirlo rapidamente di contenuti. È importante sottolineare che questo non deve essere visto (e definito) come “espansione”.
La Nato non si sta spostando verso est o verso sud, ma i Paesi dell’est e del sud si stanno spostando verso nord e verso ovest. Questi Stati si rendono sempre più conto degli enormi vantaggi che derivano da relazioni più strette con l’alleanza di maggior successo al mondo. In qualsiasi modo la si guardi, la Nato ha mantenuto tutti i suoi membri al sicuro in un lungo periodo di cambiamenti senza precedenti. È quindi il potere di attrazione (non di spinta) della Nato che gli illiberali di questo mondo dovrebbero temere di più. Dovremmo mantenerlo tale!
Articolo apparso sul numero 144 della rivista Airpress
Verso il summit. Il ruolo italiano nella Nato spiegato da Cesa
In prospettiva del prossimo vertice Nato che si terrà a Vilnius a luglio, vorrei innanzitutto esprimere un auspicio: ovvero che si arrivi a un completamento degli iter previsti per gli ingressi dei nuovi Paesi nell’Alleanza Atlantica, tra cui la Svezia, secondo quanto previsto al precedente summit Madrid. Proprio di recente abbiamo infatti assistito all’ingresso della Finlandia che, tra l’altro, ha appena partecipato a pieno titolo per la prima volta ai lavori dell’Assemblea parlamentare della Nato, in Lussemburgo. Durante la quattro giorni della sessione primaverile della Nato ha partecipato anche l’Italia, che in quell’occasione ha preso parte a un incontro bilaterale con la delegazione dell’Ucraina, che ha ringraziato il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il governo italiano per il sostegno profuso del nostro Paese durante gli ultimi oltre dodici mesi di guerra. Oltre a ribadire la volontà ucraina di aderire all’Alleanza Atlantica ma con molto realismo, il presidente Volodymyr Zelensky è infatti consapevole che sarà possibile farlo solo al termine del conflitto con la Russia.
Come Paesi membri della Nato, a Vilnius, ci focalizzeremo su come contribuire alla discussione sul rafforzamento della postura dell’Alleanza Atlantica lungo i sui confini, aumentando così le potenzialità di difesa come elemento di deterrenza nei confronti di Paesi come la Russia. Uno degli obiettivi principali del vertice di luglio, come previsto dal Documento sottoscritto in Lussemburgo, sarà l’adeguamento delle spese militari, concordando nuovi impegni e investimenti per la Difesa anche oltre il 2024, superando il livello minimo del 2% del Pil già richiesto dalla Nato. Su questo tema, come delegazione italiana, abbiamo tra l’altro sollevato un’importante questione: specificare quali siano le voci che rientrano nel 2%, come ad esempio gli investimenti in cyber-security, il contrasto al terrorismo, le crisi alimentari, e così via. Inoltre, siamo convinti che si debba lavorare per far passare un messaggio-chiave, e cioè che investire sugli armamenti significa investire sulla Difesa e sulla libertà dei nostri popoli e delle nostre democrazie, che rappresentano valori fondanti dell’Alleanza euroatlantica.
La delegazione parlamentare italiana in Lussemburgo, sia durante i lavori in Assemblea sia all’interno del Comitato permanente, ha sottolineato anche la necessità di porre maggiore attenzione nei confronti del Dialogo Mediterraneo. Si tratta di un’iniziativa avviata nel 1994, che attualmente coinvolge sette Paesi non-Nato: Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Mauritania, Marocco e Tunisia. Come delegazione italiana, dopo una serie di incontri con la presidente dell’Assemblea, Joëlle Garriaud-Maylam, e con il Comitato permanente, abbiamo ottenuto in tale quadro un importante risultato. Nella primavera del 2024, si svolgerà infatti in Italia una conferenza sul Dialogo Mediterraneo che pensiamo possa avere come sfondo le città di Roma, Napoli e Palermo, con l’obiettivo di allargare questo dialogo anche ad altri Paesi dell’Unione africana e del Medio Oriente.
L’Italia, lo ricordiamo, è infatti uno dei Paesi fondatori dell’Alleanza Atlantica, nonché il secondo Paese per numero di truppe impegnate in missioni Nato e il quinto contributore del Patto Atlantico. Il nostro Paese ha dunque sempre avuto un ruolo cruciale, anche in una prospettiva storica. Basti pensare al Gruppo speciale Mediterraneo e Medio Oriente, nato proprio su iniziativa italiana. Nell’attuale scenario geopolitico è importante quindi rilanciare questo gruppo e questo tema, anche alla luce dell’attuale politica estera italiana che la presidente Meloni e il governo stanno promuovendo, in cui il Mediterraneo allargato rappresenta una regione prioritaria. L’esperienza dell’Ucraina ci insegna infatti che non si può sottovalutare nulla. Penso al quadro di instabilità che interessa Paesi-chiave del Mare nostrum come, ad esempio, la Tunisia o, ancora, il Libano. Sono situazioni che come Italia devono interessarci da molto vicino.
La chiave potrà dunque davvero essere, come viene di recente ribadito in più occasioni, di spingere sui partenariati con i Paesi del Mediterraneo. Il Dialogo Mediterraneo della Nato si basa infatti su due pilastri: stimolare un dialogo politico e incentivare la cooperazione pratica. Sono sempre più centrali, dunque, il ruolo del Comitato politico e la forma stessa del partenariato, che è responsabile di tutte le partnership. Questo tema è fondamentale: noi italiani torneremo ad essere protagonisti nell’area mediterranea e siamo pronti per farlo.
Articolo apparso sul numero 144 della rivista Airpress
Yellen in Cina: la tempesta del «disaccoppiamento»
La segretaria del Tesoro degli Stati uniti accusa Pechino di «pratiche economiche inique». E garantisce di non volere una separazione delle economie. La Cina non si fida
L'articolo Yellen in Cina: la tempesta del «disaccoppiamento» proviene da China Files.
PRIVACYDAILY
Uccisi tre palestinesi in Cisgiordania
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
della redazione
Pagine Esteri, 7 luglio 2023 – L’esercito israeliano ha ucciso due combattenti palestinesi nella città di Nablus, questa mattina, in un raid sfociato in scontri a fuoco che hanno provocato il ferimento altri di due giovani e l’arresto di altri tre. Khairy Shaheen e Hamza Maqbool sono stati circondati all’interno di una casa nella Città Vecchia e hanno detto di non volersi arrendere. Quindi sono stati uccisi quando le truppe israeliane hanno lanciato l’attacco all’edificio.
pagineesteri.it/wp-content/upl…
Secondo Israele, Shahee e Maqboul avevano attaccato a colpi di arma da fuoco una pattuglia della polizia sul Monte Gerizim due giorni fa.
Un terzo palestinese Abdel Jawad Saleh, colpito al petto durante proteste contro l’occupazione a Umm Safa (Ramallah), è morto poco dopo l’arrivo all’ospedale.
Con Abdel Jawad Saleh, sale a 201 il numero dei palestinesi uccisi da soldati e coloni dall’inizio del 2023, di cui 161 in Cisgiordania e a Gerusalemme, 37 a Gaza e tre nel territorio israeliano. Pagine Esteri
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo Uccisi tre palestinesi in Cisgiordania proviene da Pagine Esteri.
Kenya. Proteste contro l’aumento delle tasse, scontri e arresti
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Redazione
Pagine Esteri, 7 luglio 2023 – Scontri si sono verificati oggi in diverse città del Kenya tra la polizia e i sostenitori dell’opposizione che protestano contro una serie di aumenti delle tasse.
Alcuni manifestanti hanno bloccato temporaneamente le strade con pneumatici in fiamme che la polizia ha successivamente spento e hanno lanciato pietre contro gli agenti.
Solo nella capitale Nairobi la polizia avrebbe arrestato 17 manifestanti. Altri 11 attivisti sono stati arrestati in altre città.
I notiziari televisivi hanno mostrato filmati che mostravano la polizia che sparava gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti nella città portuale di Mombasa, nella città occidentale di Kisumu e nella città di Kisii, anch’essa a ovest.
«Abbiamo visto manifestanti trascinati a terra» hanno denunciato i leader dell’opposizione in una dichiarazione, chiedendo un’indagine sulla condotta della polizia contro le proteste.
Il leader dell’opposizione Raila Odinga ha convocato le proteste per opporsi agli aumenti delle tasse imposti dall’esecutivo in un momento in cui sulla popolazione già pesa una elevata inflazione determinata dall’automento dei prezzi di prodotti di base come la farina di mais.
L’Alta corte del Kenya ha ordinato la sospensione degli aumenti, ma il governo ha comunque elevato l’IVA sui carburanti portandola dall’8 al 16%. Da parte sua il senatore dell’opposizione che ha presentato il ricorso al massimo organismo giudiziario ha chiesto l’arresto, per oltraggio, del capo dell’autorità di regolamentazione del settore energetico. L’Alta corte dovrebbe pronunciarsi lunedì su questa richiesta.
Il governo afferma che gli aumenti delle tasse, che dovrebbero aumentare di 200 miliardi di scellini (1,42 miliardi di dollari) all’anno, sono necessari per aiutare a far fronte ai crescenti rimborsi del debito e per finanziare iniziative per la creazione di posti di lavoro in Kenya, la più grande economia dell’Africa orientale.
Rivolgendosi a circa 2.000 sostenitori, Odinga ha accusato però il presidente William Ruto di non essere riuscito a frenare l’aumento del costo della vita e di perseguitare i deputati dell’opposizione. «I membri del parlamento hanno tradito il popolo» ha accusato, aggiungendo che Ruto ha anche disatteso le sue stesse promesse.
Da quando i due uomini si sono affrontati in un’elezione ravvicinata vinta da Ruto lo scorso agosto, si sono scontrati su una serie di questioni relative all’alto costo della vita e alla gestione delle future elezioni.
Alla manifestazione, Odinga ha annunciato la sua intenzione di raccogliere 10 milioni di firme per rimuovere il suo rivale dall’incarico. – Pagine Esteri
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo Kenya. Proteste contro l’aumento delle tasse, scontri e arresti proviene da Pagine Esteri.
StatusSquatter 🍫 reshared this.
La “rivoluzione” garantista di Giorgia Meloni
Dopo Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, è il turno di Giorgia Meloni. Con una differenza, però. Mentre i primi due presidenti del Consiglio furono personalmente toccati dalle indagini giudiziarie, di cui denunciarono di conseguenza la regia “politica”, Giorgia Meloni non è direttamente parte in causa. Lo è, però, il suo inner circle.
Si cominciò con i fedelissimi lombardi Carlo Fidanza e Nicola Procaccini per arrivare oggi a Delmastro, alla Santanchè e, da ultimo, al figlio di quell’Ignazio La Russa che della Santanchè è il principale sponsor in Fratelli d’Italia. Casi diversissimi tra loro. Casi che Giorgia Meloni ha voluto drammatizzare facendo filtrare un’interpretazione tutta politica, accusando la magistratura di svolgere “un ruolo attivo di opposizione” così “inaugurando anzitempo la campagna elettorale per le Europee”.
Insomma, a differenza dei suoi predecessori, è stata la presidente del Consiglio a fare di sè il contraltare dell’eterno conflitto tra politica e magistratura. Un atteggiamento che polverizza la storia giustizialista di Fratelli d’Italia e che interrompe bruscamente la catena di richieste di dimissioni di cui in passato la stessa Meloni, dalla Guidi alla Boschi, si fece portavoce.
Se fosse una vera “rivoluzione culturale” Giorgia Meloni dovrebbe difendere le donne e gli uomini del proprio governo anche in caso di rinvio a giudizio. Ma, almeno per il ministro Santanchè, è opinione diffusa che ciò non accadrà. Vedremo l’atteggiamento che la premier assumerà nei confronti del sottosegretario Delmastro, oggetto di una evidente forzatura giudiziaria del Gip, che l’ha inquisito coattivamente per rivelazione di segreto d’ufficio contro il parere della Procura che per quel reato aveva chiesto l’archiviazione.
La drammatizzazione meloniana si regge su un teorema nient’affatto forzato: la magistratura aggredisce FdI per bloccare la riforma della Giustizia annunciata, e solo in parte avviata, dal ministro Nordio. A sostenere la tesi non sono solo i giornali riconducibili al governo. Lo ha fatto anche Marcello Sorgi sulla Stampa. “L’annuncio della riforma – ha scritto oggi Sorgi – è considerato un tradimento ed ha messo in allarme le correnti togate” che prima hanno cercato di depotenziare le misure care a Nordio facendo pressioni sul sottosegretario a palazzo Chigi Alfredo Mantovano, un ex magistrato, “e poi, a mali estremi, l’estremo rimedio delle inchieste”.
Si misureranno nei prossimi giorni la reale portata delle inchieste giudiziarie e la tempra del garantismo di Giorgia Meloni. Certo è che, con l’Italia calata, sia pure da non belligerante, in un contesto bellico, col Pnrr da gestire, la crisi migratoria da fronteggiare e le riforme da avviare, appare sconfortante doversi occupare anziché di alta politica di bassa cucina giudiziaria. È la maledizione italiana. Una condizione che dai primi anni Novanta vede la poltica subornata da una magistratura incline ad incarnare una certa idea di etica pubblica piuttosto che ad applicare le leggi nel rispetto dei principi fondamentali dello Stato di diritto.
L'articolo La “rivoluzione” garantista di Giorgia Meloni proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Grecale
Con coraggio leonino, anziché affrontare la questione del Meccanismo europeo di stabilità hanno preferito rimandare tutto. Una furbata ottusa, che prolunga lo strazio. Almeno si utilizzi il tempo per fiutare l’aria che tira: in particolare il Grecale, vento che soffia dalla Grecia.
La leggenda vuole che la Grecia sia stata sderenata dall’austerità, imposta dall’Unione europea, per salvare le banche tedesche. I greci sono stati affamati, lasciati senza soldi, costretti a vendere tutto, senza sanità. Una leggenda che va fortissimo presso tutti quelli che non sono greci e la cui fondatezza è ben rappresentata dalla bizzarra tesi secondo cui il Mes non va ratificato perché s’è ben visto gli effetti che ha avuto in Grecia. Peccato il Mes manco esistesse, all’epoca. E comunque è già stato ratificato. La Grecia ha anche ratificato la riforma (manca soltanto l’Italia), lo ha pure usato e con soddisfazione. La leggenda, insomma, si diffonde presso i boccaloni. Veniamo alla realtà.
La Grecia paga un tasso d’interesse, sul suo enorme debito (168% del Pil), inferiore a quello che paga l’Italia (con un debito intorno al 142% del Pil); lo vede scendere più rapidamente (nel 2027 sarà inferiore al nostro); ha un avanzo primario superiore al nostro. La sua economia cresce più velocemente della nostra (le previsioni dicono: +2,3% nel 2023; +3% nel 2024; + 1,3% nel 2025 e + 1,1% nel 2026). Eppure nel 2009 la Grecia era in ginocchio. Allora fu Giorgos Papandreou a comunicare ufficialmente quanto l’Istituto greco di statistica aveva appurato: i bilanci trasmessi dai precedenti governi erano falsi. Fu una tempesta violentissima e la Grecia fu salvata dall’intervento degli altri Paesi europei. Che pasticciarono all’inizio (proprio perché non esisteva il Mes) ma intervennero.
L’attuale capo del governo Kyriakos Mitsotakis – trionfalmente rieletto e che dispone della maggioranza assoluta, leader di Nuova Democrazia (partito conservatore che aderisce al Partito popolare europeo) – fu allora favorevole alle misure europee. Era già membro del governo di Antonis Samaras, dopo la drammatica crisi, e si distinse per la riforma della pubblica amministrazione, la riduzione della spesa pubblica e il licenziamento di circa 10mila dipendenti pubblici inutili. Poi le elezioni le vinse il partito Syriza, guidato da Alexis Tsipras, che prima raccolse il dissenso dal governo Samaras, cavalcando l’opposizione alle misure di risanamento, ma poi ebbe il merito di attuarle e di rompere con il suo ministro tanto caro ai populisti di sinistra: Gianis Varoufakis. Per capirsi: i seguaci della leggenda che vuole la Grecia sderenata pendono dalle labbra di Varoufakis, ma fanno fatica a capire che i greci manco un seggio gli hanno dato. Niente voti, conta un piffero. I greci, quelli veri, badano ai loro interessi e a crescere, non alle leggende farlocche.
Ora Mitsotakis annuncia che non soltanto ridurrà il debito riducendo la spesa (il che gli consentirà di fare ulteriormente scendere la pressione fiscale), ma i debiti bilaterali con alcuni Paesi Ue, per un valore di 5,3 miliardi, li rimborsa ora e se ne libera. Il che rende la Grecia ancora più credibile sui mercati e favorisce i finanziamenti. Il tutto non nascondendolo agli elettori e men che meno prendendo i voti raccontando cose opposte a quelle che sarà poi necessario fare, ma dicendo papale papale che il solo modo per lasciarsi alle spalle il falso in bilancio è pubblicare dati affidabili e il solo per rimediare al crollo patito è crescere. Dentro l’Ue, anche ratificando il Mes.
Visto che si sono presi quattro inutilissimi mesi per pensarci prima di fare l’ovvio, ovvero ratificare la riforma del Mes, provino a usarli anche per studiare il caso greco. Possibilmente quello vero, lasciando la fuffa a quanti si ritrovano uniti dall’antieuropeismo, all’estrema destra come all’estrema sinistra. Fiutino il Grecale, non perché il governo greco sia perfetto, ma perché ha trovato una via conservatrice che porta da qualche parte.
L'articolo Grecale proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
“Un diritto virtuale? La regolamentazione giuridica del Metaverso”
E’ stato un piacere poter partecipare al convegno “Un diritto virtuale? La regolamentazione giuridica del Metaverso” organizzato oggi presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche dell’Università di Messina.
Ministero dell'Istruzione
#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta la Scuola primaria “Padre Pio da Pietrelcina” di Valmontone, a pochi chilometri dalla Capitale.Telegram
Godflesh - Purge
@Musica Agorà iyezine.com/godflesh-purge
Taiwan, nel G7 studiano altre sanzioni alla Cina: avranno un impatto devastante sull’economia globale
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Michelangelo Cocco*
Pagine Esteri, 7 luglio 2023– Almeno 3.000 miliardi di dollari andrebbero subito in fumo se i paesi del G7 sanzionassero la Cina in caso di crisi su Taiwan. L’economia globale perderebbe una cifra equivalente al Pil del Regno Unito nel 2022. Il dato è al centro di una ricerca congiunta pubblicata da Atlantic Council e Rhodium Group, Sanctioning China in a Taiwan Crisis, Scenarios and Risks. Lo studio del think tank con sede a Washington che si occupa di «stimolare la leadership degli Stati Uniti nel mondo» e del centro di ricerca con focus sul settore privato in Cina muove da un confronto in corso tra policymaker e aziende dei sette paesi pesi più avanzati (ufficialmente non se ne parla all’interno dei governi). Tuttavia queste discussioni rivelano che un’ennesima crisi dello Stretto (sarebbe la quarta, dopo quelle del 1954-55, 1958 e 1995-96) rappresenta uno scenario tutt’altro che fantapolitico.
Secondo il rapporto, il coordinamento costante tra funzionari statunitensi ed europei ha evidenziato che «l’invasione russa dell’Ucraina ha rimodellato i contorni di ciò che era possibile nel regno della politica economica».
Quando parliamo di “crisi” intendiamo non solo uno scontro militare, ma anche altri due scenari, che a Taipei ritengono più probabili: un blocco dell’Isola da parte della marina e dell’aviazione cinese, e/o un grande attacco informatico contro le sue infrastrutture. Entrambi metterebbero in ginocchio l’economia di Taiwan, fortemente dipendente dall’export.
Prima di esaminare i risultati del paper, è importante riflettere sulle sue conclusioni. Secondo Atlantic Council e Rhodium Group, contro queste eventuali mosse di Pechino le contromisure economiche non basterebbero: esse sono «complementari, piuttosto che sostitutive, degli strumenti militari e diplomatici per mantenere la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan». Tuttavia a chi abbia analizzato l’ascesa di Xi Jinping e la riorganizzazione alla quale ha sottoposto negli ultimi dieci anni il partito e l’esercito appare evidente che nella “Nuova era” proclamata dal presidente cinese la questione taiwanese ha assunto una rinnovata centralità. In questo quadro, nessuna pressione militare e diplomatica potranno far recedere Pechino dalla “riunificazione” del territorio che considera una provincia ribelle. Pertanto, ciò che servirebbe con urgenza è una soluzione politica, basata su un nuovo accordo complessivo tra la potenza egemone e quella in ascesa.
Al contrario, si studiano le sanzioni, che colpirebbero tre ambiti principali: le banche (divieto di utilizzare il sistema SWIFT; limitazioni delle transazioni; mercato internazionale precluso ai titoli di debito cinesi); le élite politiche e militari (blocco dei beni e restrizioni ai visti); le compagnie legate all’esercito (restrizioni al commercio e agli investimenti; su obbligazioni e azioni; controlli sull’export).
Tuttavia, date le dimensioni (dieci volte quella russa) e i legami dell’economia cinese, per i governi del G7 sarebbe molto più difficile approvarle rispetto alle punizioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina. I due think tank evidenziano «gli interessi nazionali differenti, la diversa disponibilità a sopportare le ripercussioni economiche e le sfaccettature uniche delle loro relazioni con Washington». In effetti, se al Congresso Usa è già stato introdotto (il 29 marzo scorso) un progetto di legge ad hoc (lo “STAND with Taiwan Act”) per sanzionare la Cina se «l’Esercito popolare di liberazione avvia un’invasione di Taiwan», il presidente francese, Emmanuel Macron, pochi giorni dopo (il 9 aprile), ha avvertito in un’intervista a Politico che «la cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei su questa questione (Taiwan, ndr) dobbiamo seguire l’agenda degli Stati Uniti e una reazione eccessiva cinese». Per Washington Taiwan rappresenta una questione di sicurezza nazionale, per le capitali europee no. Le divergenze politiche riflettono quelle dell’opinione pubblica, con l’83 per cento degli statunitensi che ha un’idea “negativa” della Cina (Pew Research Center, aprile 2023), mentre il 62 per cento degli europei vorrebbe rimanere neurale in caso di conflitto tra Cina e Stati Uniti su Taiwan (European Council on Foreign Relations, giugno 2023).
Shanghai
Anche se l’ultimo vertice, a Hiroshima, ha ostentato unità sulla Cina, raggiungere un accordo tra i paesi del G7 per applicare eventuali sanzioni contro Pechino richiederebbe tempo e difficili compromessi. Un embargo contro la Cina equivarrebbe secondo alcuni alla “distruzione reciproca assicurata” immaginata in caso di impiego in guerra degli ordigni nucleari. Si tratta certamente di un’iperbole: in realtà quella delle punizioni e delle rappresaglie è una strada che Stati Uniti, Unione Europea e Cina hanno imboccato già da qualche tempo. Con il dialogo politico che si è fatto difficile e intermittente, avanzano le sanzioni. Come, ad esempio, quelle varate il 22 marzo 2021 da Bruxelles (in base al nuovo EU Global Human Rights Sanctions Regime) contro quattro funzionari e un’entità cinese per la repressione dei musulmani nella provincia del Xinjiang, reciprocate il giorno stesso da Pechino – uno scontro che ha contribuito alla sospensione del Comprehensive Agreement on Investiment (Cai) negoziato per sette anni tra la Cina e l’Ue. Oppure le tre compagnie cinesi (di Hong Kong) colpite, per la prima volta, da un pacchetto di sanzioni dell’Ue sulla guerra in Ucraina, l’undicesimo, approvato il 21 giugno scorso (Asia Pacific Links Ltd; Tordan Industry Limited; Alpha Trading Investments Limited) per il loro contributo finanziario o tecnologico allo sforzo bellico russoL’esposizione del sistema finanziario globale nei confronti di quello cinese è relativa soprattutto ai flussi commerciali internazionali: le banche cinesi mantengono conti (in dollari e in euro) presso istituti di credito internazionali per facilitare i pagamenti cross border. Stando così le cose, il G7 avrebbe due opzioni: sanzionare solo alcune banche con legami con il settore militare e tecnologico, senza alcun impatto sostanziale sui flussi finanziari complessivi del paese, oppure colpire le grandi banche di stato, causando i succitati 3.000 miliardi di ammanco al commercio e agli investimenti globali.
Punire alti funzionari del governo e dell’Esercito popolare di liberazione rappresenta invece un’eventualità alla quale i soggetti presi di mira si sono già preparati, rendendo molto complicato identificare i loro patrimoni detenuti all’estero.
C’è infine il controllo sulle esportazioni di componenti chiave, che potrebbe avere anch’esso un effetto boomerang sui paesi del G7. Prendiamo ad esempio il settore aerospaziale, predestinato alle sanzioni in caso di scontro su Taiwan. Sarebbero interessati 2,2 miliardi di dollari di export dei paesi del G7 verso la Cina, la quale potrebbe mettere in campo una rappresaglia da 33 miliardi di dollari, attraverso il blocco dell’acquisto di aerei e componenti dai paesi più avanzati.
Col ricorso sempre maggiore alle sanzioni contro la Cina, il governo di Pechino ha iniziato ad affinare gli strumenti per contrastarle. Anzitutto spingendo i paesi amici a utilizzare la sua divisa, in luogo del dollaro, nei commerci bilaterali. Lo yuan – che rappresenta tuttora una percentuale trascurabile delle riserve valutarie internazionali, il 2,7% – è sempre più utilizzato da paesi come Argentina, Brasile, oltre alla Russia, che hanno firmato con Pechino accordi ad hoc per regolare in yuan i loro commerci con la Cina.
In conseguenza di questo cambiamento, a marzo le banconote con l’effigie di Mao (48,4 per cento) hanno superato il biglietto verde (46,7 per cento), diventando la valuta più utilizzata dalla seconda economia del pianeta nei suoi scambi con l’estero. Non solo, a Pechino ritengono che in futuro lo yuan potrà essere impiegato sempre di più nelle transazioni tra paesi terzi, proprio in risposta a quella che stigmatizzano come l’“utilizzo del dollaro come arma” da parte degli Stati Uniti che i paesi non allineati stanno osservando contro la Russia (espulsa dal sistema interbancario SWIFT) e la Cina.
In secondo luogo Pechino sta spingendo per la promozione a livello globale del CIPS. L’alternativa “made in China” allo SWIFT, lanciata nel 2015 dalla Banca centrale, nel 2022 ha “processato” transazioni pari a 96.700 miliardi di yuan (oltre 14.000 miliardi di dollari) con 1.420 istituzioni finanziarie connesse in 109 paesi e regioni del mondo. Il sud del mondo ha iniziato a vedere sempre più il CIPS come una alternativa al CHIPS (utilizzato per le grandi transazioni, in dollari) proprio in seguito alle sanzioni imposte contro la Russia. Infine, la Cina sta sperimentando anche lo yuan digitale (e-CNY), che l’anno scorso è stato il gettone digitale (token) più utilizzato nelle transazioni internazionali. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato in origine da Rassegna Cina, del Centro Studi sulla Cina Contemporanea
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo Taiwan, nel G7 studiano altre sanzioni alla Cina: avranno un impatto devastante sull’economia globale proviene da Pagine Esteri.
In Cina e Asia – Yellen chiede a Pechino riforme economiche
Yellen chiede riforme economiche
Xi visita il comando militare responsabile per Taiwan
Fukushima: la Cina limita ulteriormente le importazioni dal Giappone
Le fregate russe attraccano a Shanghai
BYD apre stabilimento in Brasile, è il primo fuori dall'Asia
Hong Kong: approvata controversa riforma delle elezioni distrettuali
Funzionari del Tesoro a Hong Kong per fermare il flusso di tecnologia in Russia
Vietnam: l'industria culturale inciampa nel Mar cinese meridionale
L'articolo In Cina e Asia – Yellen chiede a Pechino riforme economiche proviene da China Files.
Tra i tagli di Scholz la Difesa fa eccezione. Ecco la proposta tedesca
La Difesa è l’eccezione e non la regola. Questo il risultato del Consiglio dei ministri della Germania, che proprio questa settimana ha approvato una bozza di bilancio per il prossimo anno che prevede una generale riduzione delle spese, ma non per il settore della Difesa.
L’eccezione non fa la regola
Il piano del governo del cancelliere Olaf Scholz prevede infatti una spesa di circa 445,7 miliardi di euro per il 2024, in diminuzione del 7% rispetto ai 476,3 miliardi di euro preventivati per il 2023; a fronte però di una spesa per la Difesa che aumenterà di 1,7 miliardi di euro rispetto a quest’anno, raggiungendo così quota 51,8 miliardi di euro nel 2024. Un dato che, seppur in controtendenza rispetto ai diversi tagli, è inferiore alle aspettative auspicate dal ministro della Difesa, Boris Pistorius, e dall’ambizioso piano dei “100 miliardi” annunciato lo scorso anno per modernizzare la Bundeswehr, l’esercito tedesco con la più grande operazione di riarmo degli ultimi 70 anni di storia tedesca.
Il budget per la Difesa
Alla luce dello scoppio della guerra in Ucraina, Berlino si era detta volenterosa a rivedere la propria filosofia militare per perseguire l’obiettivo di raggiungere la soglia del 2% del Pil da destinare alla Difesa, così come richiesto dalla Nato a partire dal vertice del 2014 in Galles. Un obiettivo ambizioso che la Germania punta a raggiungere entro la fine del decennio. Il prossimo step per stabilire con certezza quanti saranno i fondi da destinare alla Difesa, avverrà a dicembre, quando il Parlamento tedesco sarà chiamato ad approvare la versione finale del bilancio.
La proposta di Berlino
A giugno scorso il Bundesrat aveva dato il via libera definitivo al fondo speciale da 100 miliardi di euro per il potenziamento e la modernizzazione della Bundeswehr, che dalla sua formazione nel 1955 non ha mai subito un rinnovamento di tale portata. Una somma talmente consistente da comportare una modifica stessa della Costituzione. Per anni infatti dopo la fine della Guerra fredda, la Germania era stata nel mirino delle critiche per la sua parsimonia nelle spese militari. Ancor prima della celebre frase dell’ex presidente Usa, Donald Trump, “Angela, devi pagare”. L’obiettivo del 2% fissato dalla Nato, tuttavia, è finora rimasto lettera morta, nonostante dal 2015 – in seguito all’annessione russa della Crimea – la spesa militare tedesca sia aumentata, ma senza però mai superare l’1,5% del Pil. In un’intervista rilasciata a fine gennaio al quotidiano Sueddeutsche zeitung, il ministro Pistorius aveva dichiarato che i 100 miliardi “non sarebbero bastati” ” a raggiungere gli obiettivi per cui è stato istituito a seguito della guerra mossa dalla Russia contro l’Ucraina.
PRIVACYDAILY
La governance aziendale: una nuova sfida tra manager e azionisti attivisti.
La settimana scorsa il mondo delle corporation americane ha vissuto un po’ di turbamento. Infatti, si sono svolte le elezioni per il consiglio di amministrazione di Masimo, una società che produce apparecchi e soluzioni tecnologiche per il settore sanitario ed ha una capitalizzazione di borsa di 8,5 md di dollari (per dare il senso delle proporzioni, Telecom, Leonardo o Unipol in borsa valgono meno di così).
Ebbene, dopo una lunga battaglia per assicurarsi le deleghe, il fondo attivista Politan ha ottenuto ben 2 dei 5 membri del board. Hanno votato a suo favore la maggioranza dei 20 azionisti più rilevanti di Masimo anche a seguito delle raccomandazioni delle società di consulenza specializzate Institutional Shareholders Services e Glass Lewis.
Il fondo, che detiene il 9% della società, si è avvalso di una recente norma approvata dalla Securities Exchange Commission (SEC, l’autorità dei mercati finanziari statunitense) che consente di votare singoli candidati nel CdA, un po’ come mettere le preferenze alle elezioni politiche.
Questa nuova regola ha molto incoraggiato le iniziative dei soci attivisti che potremmo sinteticamente definire come chi utilizza la sua partecipazione in una società quotata in borsa per esercitare pressioni sul management affinché adotti un determinato approccio. Invero, prendendo come esempio l’elezione di candidati indipendenti e alternativi a quelli della lista di maggioranza o presentata dal consiglio uscente, dall’1 giugno 2022 al 31 maggio di quest’anno essi sono stati ben 88 contro i 77 dell’anno passato.
L’approvazione della norma da parte della SEC aveva peraltro creato numerose preoccupazioni da parte di chi paventava il disturbo nelle assemblee societarie da parte di azionisti poco interessati al buon funzionamento e alla redditività dell’impresa ma a loro particolari fini, sia di lucro che politico-sociali.
Le grandi società quotate hanno pertanto cominciato a cambiare gli statuti per rendere più difficile la vita ai “disturbatori” ma questo non li ha scoraggiati. E, in effetti, gli attivisti raramente sono sognatori che combattono le battaglie per la pace nel mondo o la foca monaca, ma piuttosto fondi pensione, hedge fund, investitori individuali come il famoso Carl Icahn, fondi di investimento o di private equity.
Le risoluzioni che vengono approvate dall’assemblea hanno spesso a che fare con una migliore governance del gruppo, sia a livello assembleare che di consiglio (81% dei casi, secondo la Harvard Law School), compenso degli amministratori (un argomento particolarmente sensibile negli USA dove i CEO sono strapagati rispetto al resto del mondo), contributi politici e solo nel 32% dei casi riguardano il cambiamento climatico.
In Italia il potere dell’assemblea e degli azionisti è lievemente superiore a quello che si registra negli Stati Uniti. Le liste di minoranza sono in vigore da lustri e -salvo alcuni casi particolari- in genere rappresentano “il mercato”, vale a dire gli investitori istituzionali. I soci hanno soglie basse per far inserire argomenti all’ordine del giorno, votano il bilancio, eleggono i sindaci, mentre quelli di minoranza hanno più difficoltà che negli USA per far causa agli amministratori.
La domanda che dobbiamo tuttavia porci è la seguente: la presenza di azionisti attivisti rappresenta un bene o un fardello per le imprese quotate?
Orbene, in questi anni è stata vivace la dialettica tra chi propugna lo shareholder value e la visione contrattualistica della società il cui scopo dovrebbe essere aumentare il benessere degli azionisti e chi invece ritiene che l’impresa debba rispondere anche agli stakeholders (dipendenti, creditori, clienti, comunità locali, fornitori). Ci sono infine i cosiddetti istituzionalisti per i quali l’impresa ha interessi e valori propri che non necessariamente coincidono con quelli dei soci né, d’altra parte, con quelli degli stakeholder.
Ebbene, l’esperienza fin qui fatta sembra dimostrare che quando hanno i giusti strumenti giuridici a disposizione, i soci di minoranza mirano a massimizzare il valore a lungo termine della società. Possono essere molesti o aggressivi o motivati principalmente dal loro self-interest ma, come avrebbe detto Adam Smith, l’azionista “perseguendo il proprio interesse frequentemente promuove quello della società [civile] più efficacemente di quando intende realmente promuoverlo”. Persino quando vengono votate risoluzioni relative ai principi ESG, l’ottica assembleare è che la mancanza di trasparenza da parte della società sui rischi legati al cambiamento climatico o pratiche inadeguate per la salute o sicurezza sul lavoro siano comportamenti pericolosi innanzitutto per il valore e la sostenibilità della società, per lo shareholder value, insomma.
Gli studi più recenti notano un declino della performance societaria immediatamente dopo una campagna di soci attivisti, seguita da una ripresa, specialmente quando si richiede una rappresentanza all’interno dei CdA o il rispetto dei diritti degli azionisti (Barros, Guedes et alii 2023); meno efficaci sono le campagne che cercano di influire su singole operazioni e strategie.
Questa dovrebbe essere la direzione da prendere: laddove una maggiore vigilanza stimola l’efficienza dei manager, pretendere di governare l’impresa al loro posto dall’ assise assembleare è invece illusorio.
L'articolo La governance aziendale: una nuova sfida tra manager e azionisti attivisti. proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Conoscere ADHD
Conoscere ADHD è importante, in particolare per gli insegnanti, e la sanità pubblica deve essere dalla parte delle famiglie rilasciando le certificazioni in tempi brevi
Aiuta Alberto Vallortigara a far crescere questa petizione! 🚀
Certi bambini non dovrebbero neanche nascereChange.org
“Un diritto virtuale? La regolamentazione giuridica del Metaverso”
Il 7 di luglio a partire dalle ore 9.30 avrò il piacere di partecipare, presso l’Aula “O. Buccisano” del Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche dell’Università di Messina, al convegno “Un diritto virtuale? La regolamentazione giuridica del Metaverso” Qui le informazioni complete unime.it/eventi/convegno-un-di…
Pubblicata la ricerca INDIRE su libri di testo e contenuti didattici digitali.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Pubblicata la ricerca INDIRE su libri di testo e contenuti didattici digitali.Telegram
Poliverso & Poliversity reshared this.
Presentazione del libro “La nuova disciplina dei contratti pubblici. Commento al D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36″ di Brunella Bruno, Marco Mariani, Emilio Toma
Martedì 11 luglio alle ore 17:30 presso l’AulaMalagodi, la Fondazione Luigi Einaudi vi invita al convegno dal titolo “La nuova disciplina dei contratti pubblici” (Giappichelli editore), a margine del quale verrà presentato il libro “La nuova disciplina dei contratti pubblici. Commento al D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36″ di Brunella Bruno, Marco Mariani, Emilio Toma
Saluti introduttivi
Giuseppe Benedetto, Presidente della Fondazione Luigi Einaudi
Modera
Marco Mariani, Direttore Affari europei Fondazione Luigi Einaudi
Inverventi
Massimiliano Annetta, Docente di diritto penale
Brunella Bruno, Consigliere di Stato
Emilio Toma, Avvocato amministrativista
Conclusioni
Tommaso Miele, Presidente aggiunto della Corte dei Conti
L'articolo Presentazione del libro “La nuova disciplina dei contratti pubblici. Commento al D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36″ di Brunella Bruno, Marco Mariani, Emilio Toma proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Mazzoni (Prc-S.E.): L’assesora Alfonsi non si presenta. L’amministrazione Capitolina teme le motivazioni limpide e le proposte sostenibili di chi è contrario al mega bruciatore
Ad aspettarla c'erano tutti. Gli organizzatori, che su sua precisa indicazione avevano stabilito data ed orario. Il segretario della CGIL Roma e Lazio, NataleRifondazione Comunista
Open landmark court proceedings up to public debate and participation!
EU lawmakers René Repasi (Socialists and Democrats) and Patrick Breyer (Pirate Party) today submitted amendments to the reform of the EU Court of Justice Statute, aimed at opening proceedings before the EU’s highest court to more public debate and participation. Specifically the public, civil society and the media would be given a right to access documents, positions and arguments submitted in court proceedings, subject to some exeptions. Civil society organisations would also be allowed to submit „amicus curiae“ comments to the Court in procedures initiated by national courts.
Breyer explains: „In landmark cases with far-reaching implications, the public has a right to know and debate our governments’ and institutions’ positions. In a democracy and where press freedom reigns the powerful can be held accountable. Transparency builds trust in times of the EU and the Court experiencing a crisis of acceptance. In the same vein civil society representing general interests needs to have a say before landmark decisions are made.“
Background:
The European Court on Human Rights already grants public access to documents submitted to the court. Regarding the EU Court of Justice, however, insights can so far only be obtained indirectly by requesting the Commission to grant access to copies of documents it holds, with the Commission being very reluctant to do so.
The EU is currently in the process of revising the EU Court of Justice Statute. The overloaded Court of Justice proposes to delegate some proceedings to the General Court of first instance.
The EU Court of Justice decides on the interpretation and validity of European law, including its compliance with fundamental rights. Landmark court rulings have, for example, concerned communications data retention, upload filters, the right to be forgotten or the purchase of government bonds by the European Central Bank (“euro bailout”).
In light of the increasing non-application of Court of Justice rulings by some national courts for ‘ultra vires’ reasons, Breyer additionally proposes introducing a dialogue between the EU Court of Justice and national courts where needed.
I have a plan to fix social media
POLITICO’s weekly transatlantic tech newsletter uncovers the digital relationship between critical power-centers through exclusive insights and breaking news for global technology elites and political influencers.
By MARK SCOTT
Send tips here | Subscribe for free | View in your browser
SALUT DE PARIS.This is Digital Bridge, and I’m Mark Scott, POLITICO’s chief technology correspondent. This week’s newsletter comes from the City of Light, where I’m on a panel this afternoon (4:30 p.m. CET / 10:30 a.m. ET) on the global race to create AI rules. You can watch along here.
Logistics note: I’m away for the next two weeks, and my POLITICO colleagues will be quarterbacking Digital Bridge. Be gentle with them.
Ready? Let’s do this:
— If we want social media to be more accountable, we first need to create the right tools to know what’s going on.
— The United Nations wants to wade into the thorny issue of artificial intelligence. We should all be very wary.
— Canada is the latest skirmish between platforms and publishers over online content. It won’t be the last.
A ‘CLEARINGHOUSE’ FOR SOCIAL MEDIA
I’M GOING TO CHANNEL MY INNER GEN-Z INFLUENCER and say that everyone needs a side hustle. Mine — since last September — has been as a visiting fellow at Brown University’s Information Futures Lab, where I’ve focused on how to turn Europe’s new online content rulebook into something that people can actually use. Specifically, my research, based on more than 50 interviews with regulators, academics, public health officials and others around the world, relates to how best to give outsiders better access to social media companies’ data for improved transparency, accountability and, inevitably, better policymaking.
But data access is boring, I hear you say. Yes, it is. But what the last seven years, dating back to the 2016 election cycle, clearly demonstrate is that we still have a very blurry understanding of how social media really works. There are limited ways to see what’s happening on these platforms, at scale. To fix that, the European Union wrote mandatory data access provisions into its Digital Services Act — the first, and currently only, legislation to legally force companies like Facebook, Google and TikTok to open themselves up to outside scrutiny. For me, it’s the first step to improving everyone’s social media feeds. You can’t fix what you don’t know, amirite?
What became quickly apparent via my fellowship, though, was the current data access ecosystem is seriously flawed. Regulators — which have their own enforcement powers to review social media data — don’t know where to start. Academics, who currently have the best access to these platforms, often compete with each other for resources and/or are beholden to ad hoc relationships with the companies. Civil society groups either lack the funding to do this work or the technical expertise to do it well. Journalists mostly scramble around in the dark, whipsawing between one-off projects that don’t really move the needle. Platforms themselves struggle with internal power dynamics that have thwarted engagement with outsiders.
What’s needed, then, is a way to do social media data access work at scale and make it available to as many people as possible. That would democratize who can do this by removing barriers that currently stifle accountability; reduce costs as people don’t have to replicate existing data collection practices already carried out by others; and allow better analysis across multiple social media networks (where the real dangers lie) by providing a one-stop-shop for those in need of data access. It goes without saying this work must uphold people’s privacy rights; protest proprietary corporate information; and avoid capture by commercial/government interests seeking to track people online.
So that’s the problem — one that Europe’s new content rulebook (albeit flawed) is uniquely placed to solve. That goes for both those within the 27-country bloc and those elsewhere, given the Digital Services Act’s data access provisions can apply to non-EU groups. The answer, for me, is what I’m calling a “social media clearinghouse,” an underlying digital infrastructure that would bring together platforms’ accessible data into a universal database available to vetted researchers, civil society groups and others. It would take care of the technical layer of this work, so organizations can get on with what they do best: providing a level of accountability and transparency to what happens on social media.
I can already hear you shouting: “You want to create a global database to track everyone’s social media activities? Hard pass.” I get that. The clearinghouse would have to run in conjunction with a strict, independent vetting procedure — one already being created via the European Digital Media Observatory (more on that here) — to limit who can access such infrastructure. This isn’t about creating a global surveillance regime. Think about it more like a CrowdTangle 2.0, a replacement for the cross-platform social media analytics tool owned by Meta that’s indispensable for existing social media accountability work, but which is falling apart, mostly out of neglect.
What my Brown fellowship made clear to me is the current work in this area represents less than the sum of its parts. The limited resources available for social media transparency work is balkanized in a million ways. Brussels has, uniquely, laid out the ability to force greater access to platform data with its new content rulebook, potentially for a global network of organizations. But policymakers have done little, if any, work to turn these rules into a reality for anyone beyond their own enforcement investigatory work.
A social media clearinghouse would fill a much-needed gap by providing the underlying digital data infrastructure to jumpstart a wider array of organizations’ work on unpicking the black box that social media still remains. It’s not going to fix the dumpster fire that parts of this online world have become. But it can provide a universal foundation for what policymakers keep telling me is their goal: to make social media a better experience for all.
THE UNITED NATIONS AND AI
TO MISQUOTE RONALD REAGAN, “The 13 most terrifying words in the English language are: ‘I’m from the United Nations, and I’m here to help (on artificial intelligence).'” Yes, that’s a pretty hamfisted metaphor. But I am incredibly skeptical of any U.N. effort to wade into international digital policymaking. Mostly, that’s because such efforts give authoritarian governments like China, Russia and Saudi Arabia a seat at the table in how things like AI, online content rules and cybersecurity are shaped. Call me an elitist, but let’s work it out between democracies first.
Still, Thursday marks the sixth installment of the U.N.’s AI for Good summit in Geneva. Overseen by the International Telecommunications Union, a Swiss-based UN agency, the two-day gathering is aimed at harnessing the emerging tech to help meet the international organization’s sustainable-development goals. It includes panels on everything from the technical challenges around regulating generative AI to using the technology to fight climate change. Given the summit started years before AI became the over-hyped beast it is today, it would be hard to claim the U.N. is merely jumping on the bandwagon of the latest hot policy area.
“I’m hopeful,” Doreen Bogdan-Martin, the International Telecommunication Union’s American head, told me when I asked her how optimistic she was the U.N. could successfully bash international policymakers’ heads together, given the litany of failed global digital initiatives that pot mark the internet superhighway. “We sort of don’t have a choice. We have to try to make this work.” I’m not sure if the “What else can we do?” argument is a strong one. But Bogdan-Martin is right in that global cooperation on all facets of AI is needed, and needed now.
Luckily, the U.N. isn’t starting from scratch. Back in 2021, UNESCO — another U.N. agency — published its AI Principles, underlying ethics guidelines around things like upholding people’s right to privacy; the proportionate use of AI to carry out specific tasks; and a need for accountability and transparency baked into how these opaque systems are developed. All of UNESCO’s 193 members (but, pointedly, not the United States, which is about to rejoin the group) backed the proposals, including countries like China.
And that’s where things start to fall down. I have my personal views on allowing Beijing to participate in such global digital policymaking fora. But if countries agree to certain underlying AI ethical principles, how do you square that with China’s aggressive roll-out of the technology, especially around its controversial social credit system?
“Well, China signed (the principles),” Gabriela Ramos, UNESCO’s assistant director general for the social and human sciences who helped to negotiate the agency’s recommendations, said when I asked her if China would abide by UNESCO’s AI Principles. “We take it at face value that if countries sign up to the recommendations, we are expecting that they will implement them.”
Again, not exactly the strongest of statements. But Bogdan-Martin, the ITU boss, made it clear the era of self-regulation (looking at you, White House, and your ongoing meetings with industry about such efforts) is over. “Business, alone, can’t be self-regulating,” she said. “There’s a need to have governments engaged. There’s a really important role for the U.N., for academia, and for civil society.” I agree with her that governments need to roll up their sleeves and set some ground rules. I’m just not so sure the U.N. — with the inevitable complex geopolitics that comes with it — is the right place for those discussions to take place.
BY THE NUMBERS
PLATFORMS VS. PUBLISHERS, CANADA EDITION
TO OVER-GENERALIZE OUR COUSINS FROM THE NORTH, Canadians are typically pretty chilled-out people. So when Justin Trudeau and his officials attack the likes of Meta and Alphabet for threatening to take down news content from their platforms, you know something has gone wrong. This is all in response to local legislation, known as the Online News Act, that will force the tech giants to pay Canadian publishers when their content appears on their sites. The Canadian government estimates it may bolster national media outlets’ coffers, annually, by $250 million by mandating Facebook and Google to negotiate such commercial deals.
This follows separate (successful) efforts in Australiawhere local publishers are now pocketing an estimated $150 a year in similar platform payments. In Europe, national governments are now strong-arming tech companies to similarly hand over blockbuster fees via the bloc’s copyright directive, which allows outlets to charge whenever their content appears on these platforms. (Disclaimer: Axel Springer, POLITICO’s German owner, was a vocal supporter of those provisions.) In California, state lawmakers are considering a similar Canada/Australia-style model.
There’s a lot to be said about the lobbying efforts from cash-poor publishers seeking to tap wealthy platforms for additional revenues when their underlying advertising business is crumbling. But it’s also true tech giants gain massively from media outlets’ content that appears on their sites. Is that dynamic unsustainable? Probably. But it’s worth remembering both sides are hard-nosed lobbyists and the answer, inevitably, is somewhere between publishers charging platforms for their content and tech giants using this material for free.
WONK OF THE WEEK
NOW THE ENFORCEMENT POWERS OF CALIFORNIA’S privacy rules are in place (as of July 1), it’s time to focus on Michael Macko, who was just appointed the first deputy director of enforcement at the California Privacy Protection Agency.
The University of Pennsylvania law school graduate has a mix of public and private sector experience. Most recently, he was a senior lawyer at Amazon, and previously was both an assistant U.S. attorney at the U.S. Department of Justice and a trial attorney at the U.S. Securities and Exchange Commission.
Overnight, Macko will become one of the most powerful privacy enforcers in the U.S. (albeit his work will have to be done in conjunction with the state’s attorney general.) That includes a likely focus on how mobile apps are complying with the Golden State’s de facto national privacy standards, as well as how companies’ use of AI aligns with the new rules.
THEY SAID WHAT, NOW?
“The United States has fulfilled its commitments for implementing the EU-U.S. Data Privacy Framework announced by President Joe Biden and European Commission President Ursula von der Leyen in March 2022,” said Gina Raimondo, the U.S. commerce secretary, after the U.S. Department of Justice approved the surveillance practices of EU member countries and American intelligence agencies updated their own guidelines to comply with a 2020 decision from Europe’s highest court that U.S. data protection safeguards were not sufficient to uphold the bloc’s fundamental privacy rights.
Those steps mark the final stages required by Washington before Brussels approves a transatlantic data-transfer deal, which may come as early as Tuesday or Wednesday next week.
WHAT I’M READING
— The U.S. federal government is already using artificial intelligence in myriad ways. Luckily, the National Artificial Intelligence Initiative Office has brought them all into one place. Take a look here.
— The United Kingdom has its own regime to regulate “online safety.” The country’s regulator in charge of these efforts has outlined exactly what its plans are, and over what time period.
— Germany’s federal cartel office won its case against Meta over claims that it abused its dominant position to unfairly favor its own services via the collection of people’s online data. Read the decision here.
— A U.S. judge ordered vast parts of the federal government not to meet or coordinate with social media companies over allegations officials and tech executives were censoring or suppressing people’s protected speech online. Read the ruling here.
— Meta released Threads, a Twitter alternative, that had already signed up millions of users within its first hours. Unfortunately, it appears you can’t delete your Threads account without also removing your Instagram account. Awkward.
— China is moving ahead with its own efforts to regulate generative AI. Yirong Sun and Jingxian Zeng unpick the draft proposals for the Future of Privacy Forum.
SUBSCRIBE to the POLITICO newsletter family: Brussels Playbook | London Playbook | London Playbook PM | Playbook Paris | POLITICO Confidential | Sunday Crunch | EU Influence | London Influence | Digital Bridge | China Watcher | Berlin Bulletin | D.C. Playbook | D.C. Influence | Global Insider | All our POLITICO Pro policy morning newsletters
macfranc reshared this.
Congiunti
Il modo in cui si discute delle alleanze europee, di come ciascun partito si prepara alle prossime elezioni e di quali congiunti politici si circonda, racconta molto della nostra vita politica.
1. Lo scontro non è tanto fra destra e sinistra, ma fra europeisti e antieuropeisti. Un gruppo di destra, presieduto da Meloni, si chiama “Conservatori”, ma non è che i popolari siano dei rivoluzionari. Sono anch’essi dei conservatori e fra le loro file ci sono componenti oggettivamente di destra. Il problema è quello di trovare una maggioranza europeista che a sinistra si vorrebbe più marcatamente progressista e a destra più marcatamente conservatrice, ma comunque europeista. Non è che questo escluda l’estrema destra, ma si prende atto che tanto l’estrema destra quanto l’estrema sinistra sono antieuropeiste, sicché nessuna componente politica seria intende allearsi con loro.
2. Tale condizione ricorda che non si può e non si deve procedere come da noi si fa da troppo tempo, ovvero chiamando gli elettori a essere contro gli “altri”, sopportando per ciò stesso congiunti incompatibili. La politica non può essere solo negativa, non può consistere soltanto nella contrapposizione faziosa, perché così procedendo si finisce con lo sfilare sotto bandiere senza contenuto, come gli ignavi nell’Antinferno dantesco. Occorrono anche valori comuni e proposizioni. Quindi la maggioranza deve essere europeista, altrimenti non esiste. Poi si può essere europeisti di destra o di sinistra, ma non si può essere antieuropeisti nella maggioranza europea.
3. E questo ci porta a una delle cose più insopportabili del nostro modo di fare politica: non prendere e non prendersi mai sul serio. Chi propose di uscire dall’euro è antieuropeista. E ce ne sono a destra come a sinistra. Ma non è che prima proponi di uscire dall’euro, poi vai al governo e dici di volere usare tutti gli euro dei finanziamenti europei, perché è roba da biforcuti. Quanti fra i no-euro sostengono oggi di non procedere in coerenza con quel che dissero per “senso di responsabilità” nei confronti degli interessi italiani, stanno chiaramente dicendo d’essere stati degli irresponsabili contro gli interessi italiani. Ed è pure vero. Solo che da noi si pensa che quel che si disse non abbia valore, che il trasformismo rivergini anche i bordelli, mentre fra persone serie si riconosce il diritto di cambiare idea, ma dopo avere avvertito d’essersi sbagliati. Siccome, però, sono gli stessi che oggi impediscono l’ovvia e scontata ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità, il messaggio che se ne trae è: non ci siamo sbagliati, eravamo e siamo antieuropeisti, solo lo nascondiamo per potere governare. Brutta roba.
Quindi il problema non è affatto che Forza Italia indichi alla Lega con chi non deve allearsi né che la Lega rivendichi il diritto di fare quel che gli pare, ma che entrambi ammettano che si possa governare in Italia con chi è o comunque è alleato con gli antieuropeisti, continuando a dirsi europeista. E questo è trasformismo, inaffidabilità, furbizia stolta. In ogni caso non è un atteggiamento ammissibile al Parlamento europeo. Tutto qui.
Quel che sarebbe utile, all’intera Ue, è potere andare alle elezioni europee disponendo di liste europee. Non soltanto di affiliazioni nazionali di famiglie europee, ma di liste autenticamente europee. In mancanza di questo ci si riduce alle guerre dialettali, condotte nel girone fuori casa. Il che vale per la destra oggi al governo, ma anche per la sinistra che fu antieuropeista, si convertì all’europeismo per governare e non si capisce più da che parte stia neanche sulla dirimente questione ucraina (se il Pd si allea con chi è contro l’invio di armi si ritrova più anti che europeista). E vale anche per il così detto terzo polo, che sta concorrendo per la conquista della seconda elle: non si tratta di fare i macroniani de’ noantri, ma di presentarsi condividendo idee economiche e istituzionali, non soltanto sperare di superare il quorum.
L'articolo Congiunti proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Beat!
Ecco un altro libro di quelli che suonano - questo però oltre che suonare, urla pure, protesta e soprattutto cerca di difendersi.
Dentro ci sono "quei ragazzi e ragazze che nella metà degli anni Sessanta hanno desiderato la libertà totale al posto dell'ipocrisia e la dignità umana al posto dell'arrivismo". Quelli che hanno anticipato le grandi rivolte del Sessantotto, quelli che "hanno trovato l'anarchia sulla loro strada, spesso senza saperlo, spesso senza alcun filo diretto con quel movimento, pur parlando la stessa lingua senza che alcuno l'abbia insegnata".