Etiopia, legittimata da USA ed Europa, ostacola la giustizia per le vittime di guerra in Tigray
Dopo 2 anni di guerra genocida iniziata il 4 novembre 2020 in Tigray, stato regionale settentrionale dell’ Etiopia, ancora oggi, dopo quasi 9 mesi dalla firma dell’ accordo di cessazione ostilità firmato a Pretoria, continuano abusi, violenze e violazioni.
Continuano le morti per fame di adulti e bambini.
Da marzo 2023 in Tigray e da giugno 2023 nel resto d’Etiopia, le agenzie umanitarie WFP e USAID hanno fatto la scelta politicizzata di bloccare la fornitura alimentare per 20 milioni di persone bisognose di supporto alimentare.
Approfondimenti:
- Scandalo della deviazione del materiale di supporto alimentare per il Tigray
- Archivio di 2 anni di aggiornamenti sulla guerra genocida in Tigray dimenticata dla resto del mondo
Diversi punti dell’accordo di Pretoria (CoHA) ancora oggi sono disattesi.
Il ritiro dell’occupazione amhara dall’area aoccidentale del Tigray: le forze amhara hanno perpetrato, anche dopo l’accordo di tregua, attività di pulizia etnica verso i civili etiopi di etnia tigrina.
Il ritiro delle forze eritree, che anche durante e dopo i tavoli di negoziato del 2 novembre 2022, hanno continuato con abusi, saccheggi e repressione, uccisioni di civili tigrini. Oggi i soldati dell’esercito eritreo risultano parzialmente ritirati, perché nelle zone del Tigray dell’estremo nord est, nella woreda (distretto) di Irob sono ancora presenti.
L’accesso incondizionato al supporto umanitario come vuole l’accordo di Pretoria, proprio per la presenza di queste “forze esterne” (come sono state implicitamente nominate nel “contratto di tregua” le forze amhara ed eritree) hanno condizionato i movimenti umanitari nella regione del Tigray.
Il sistema sanitario distrutto per il 90% durante 2 anni di guerra genocida combattuta in totale blackout comunicativo ed elettrico, ha tenuto in scacco quasi 7 milioni di civili. Ancora oggi molte zone rurali, la maggior parte dello staot regionale, sono in balia degli eventi, come le loro comunità. Ancora oggi anche grossi centri sanitari, ospedali come ad Adwa, a Mekelle, nonostante siano passati quasi 8 mesi dall’accordo che ha impartito dei punti fondamentali per la ricostruzione e la rinascita di una popolazione distrutta, massacrata e martoriata da una guerra non loro, non arrivano a risollevarsi, non hanno il giusto supporto di materiale per poter curare vecchi e nuovi pazienti. Gli aiuti che arrivano oggi sono doverosi, ma ancora unagoccia di acqua in mezzo al deserto.
L’accordo però è una raccolta di linee guida che non può essere fine a se stesso, ma deve considerarsi strumentale a salvare milioni di persone e tutelarne i diritti come individui e parte della società.
Quelle persone in Tigray che oggi continuano a soffrire per il mancato rispetto di vari punti di quel stesso accordo che invece dovrebbe tutelarle.
La catastrofe umanitaria continua in Tigray
In data di scrittura di questo articolo (19 luglio 2023) sono passati 112 giorni dall’inizio della sospensione di materiale umanitario da parte del WFP e USAID rivolto a milioni di persone in Tigray.Grazie a Duke Burbridge per la condivisione di questo grafico.
La fame artificiosamente indotta dal’uomo e da scelte politiche, porta alla luce atrocemente casi come quello di Tsige Shishay.
Il maglione rosa che indossa riporta tragicamente la scritta “bello” sul davanti.
Tsige Shishay ha 10 anni, ma pesa appena 10 kg. Il suo medico a Mekelle dice che sta morendo, una nuova vittima di una grave carenza di cibo in una regione devastata da due anni di guerra e lotta contro gli stenti: siccità e cambiamenti climatici sono solo fattori complementari che aggravano la vita di milioni di persone oggi.
Il personale dell’Ayder Hospital a Mekelle ha detto che otto bambini sono morti lo scorso maggio.Tsige Shishay, il cui maglione rosa dice “bello” sul davanti, ha 10 anni ma pesa appena 10 kg – Ayder hospital Mekelle – Tigray
- Nella zona centrale del Tigray, viene denunciato che la mancanza di trasporti verso le strutture sanitarie aggrava la situazione dei pazienti.
- Mentre a Samre la fame e la mancanza di cibo ogni giorno continua a far aumentre il numero di morti tra i bambini.
- Pazienti diabetici e bambini a Gijet soffrono per l’assenza di medicine.
- I malati di cancro ai reni nel Tigrai continuano a soffrire a causa della scarsità di cure mediche essenziali.
- Gli agricoltori di Dogua Temben affermano che la loro produttività agricola (proprio nel periodo delle piogge idoneo alla coltivazione) è minacciata dalla scarsità di fertilizzanti.
- Le malattie precedentemente monitorate e tenute sotto controllo hanno ripreso a circolare come epidemie.
- La sospensione degli aiuti da parte di WFP e USAID sta peggiorando le condizioni di vita degli IDP, degli sfollati disabili con malattie croniche.
- In tutto questo catastrofico contesto di crisi umanitaria, le forze Amhara continuano a rappresentare una minaccia per la sicurezza nelle zone di confine, sottraendo fertilizzanti agli agricoltori dle Tigray.
- Il 15 luglio a Shire le decine di campi IDP che accolgono migliaiai di sfollati, sono stati sommersi da acqua e fango a causa delle alluvioni del periodo. Ironia tragica e drammatica, non è solo la mancanza d’acqua ad uccidere le persone, ma alle volte è la troppa acqua che può ammazzare.
Alluvione campi IDP Shire, Tigray Etiopia 15 luglio 2023
Anche la repressione a sfondo etnico continua: un caso eclatante e recente subìto da Aba Serekebirhan Weldesamuel che una volta atterrato in Etiopia all’areoporto di Bole, Addis Ababa, voleva continuare il viaggio verso Mekelle per rivedere la proria famiglia. E’ stato detenuto al’areoporto dalle forze di polizia per 3 giorni senza motivo ed estradato senza foglio di via verso Nuova Delhi, India come scalo prima di tornare in Australia.
L’Etiopia ostacola la giustizia per le vittime in Tigray
Nell’accordo di tregua un altro punto fondamentale è quello della giustizia di transizione.
In base all’accordo di cessazioni ostilità – CoHA, firmato congiuntamente al TPLF – Tigray People’s Liberation Front, l’Etiopia si è impegnata ad attuare una “politica nazionale di giustizia transitoria globale volta alla responsabilità, all’accertamento della verità, al risarcimento delle vittime, alla riconciliazione e alla guarigione”.
Il processo manca di trasparenza ed è conseguenza di una strategia nota ben prima della stipula dell’accordo negoziato a Pretoria e mediato dall’ African Union.
Un fatto eclatante che conferma tale strategia, sono le parole esclusive dell’ex ministro delle donne e della gioventù Filsan Abdi che al Washington Post aveva denunciato:
“La guerra ha polarizzato il paese così profondamente che so che molte persone mi etichetteranno come bugiarda semplicemente perché dico che anche il governo ha fatto cose dolorose e orribili”, ha detto Filsan. “Non sto dicendo che erano solo loro. Ma io c’ero. Ero alle riunioni di gabinetto e sono andata a incontrare le vittime. Chi può dirmi cosa ho fatto e cosa non ho visto?”
Era stata incaricata dal governo etiope di creare una task force investigativa in Tigray per indagare sulle diffuse denunce di stupro e sul reclutamento di bambini soldato.
“Abbiamo riportato le storie più dolorose e ogni parte era implicata”
Sottolineando:
“Ma quando ho voluto pubblicare le nostre scoperte, mi è stato detto che stavo oltrepassando il limite. “Non puoi farlo”, mi ha chiamato e mi ha detto un funzionario molto in alto nell’ufficio di Abiy. E ho detto: ‘Mi hai chiesto di trovare la verità, non di fare un’operazione di propaganda. Non sto cercando di far cadere il governo: c’è un’enorme crisi di stupri per l’amor di Dio. I bambini soldato vengono reclutati da entrambe le parti. Ho le prove sulla scrivania davanti a me.”
Il governo etiope è anche stato sempre ostile verso l’ingerenza straniera e sulle molteplici richieste ed appelli per indagini indipendenti per la giustizia delle vittime di guerra. Fin dall’inizio ha ostacolato l’accesso al Tigray a media, umanitari e funzionari di diritti umani legittimando la propria posizione con il detto “soluzioni africane ai problemi africani”.
Il governo etiope è implicato, come tutte le altre forze coinvolte nella guerra genocida in Tigray, in crimini di guerra. Nello specifico il governo ha intenzionalmente fatto ostruzionismo bloccando di fatto l’accesso ed il supporto umanitario nello stato regionale del Tigrai verso milioni di civili bisognosi di supporto.
USA ed Europa perseguendo il sistema capitalistico legittimano la strategia dell’Etiopia
I 6 milioni di persone in Tigray che hanno subìto crimini di guerra non vedranno alcuna responsabilità perché in gran parte è consrguenza legittimata da USA ed Europa che continuano a ripristinare e normalizzare le relazioni economiche con il governo etiope.
Una evidente dimostrazione di doppi standard da parte della così detta comunità internazionale se accostata al contesto ucraino. Milioni di rifugiati scappati dalla guerra e dall’invasione russa in patria ed accolti in Italia in pochi mesi. Il governo ha predisposto agevolazioni fiscali per tutti gli italiani che avessero dato disponibilità di accoglienza. Non si può dire che lo stesso furgone (#LoStessoFurgone come hashtag su Twitter) per andare a recuperare gli ucraini su linea di confine per portarli in salvo in Italia sia utilizzato come mezzo (metafora di scelte politiche non discriminanti e in tutela dei diritti universali di ogni individuo, nessuno escluso) anche per tutte quelle persone che scappano dalle guerre come per esempio quella genocida in Tigray.
Approfondimenti:
- Etiopia, guerra economica tra USA e Russia sulla pelle di milioni di persone in Tigray [BRICS e G7]
- Etiopia, 182 milioni di euro siglati tra la Presidente Giorgia Meloni e il Primo Ministro etiope in visita in Italia
- An indifferent world looks on as Ethiopia obstructs justice for Tigray
“In un mondo consumato dal conflitto in Ucraina e intrappolato in un tiro alla fune tra superpotenze, la responsabilità per le atrocità nel Tigray rimane una prospettiva lontana. Considerazioni strategiche si riflettono nei tentativi di rafforzare i legami [economici USA ed Europa] con il governo [etiope] piuttosto che rimproverarlo.Ma restituire il pieno sostegno all’Etiopia senza passi concreti per porre fine all’impunità destabilizzerà ulteriormente un paese sempre più fragile. I tigrini continuano a essere soggetti a violazioni dei diritti umani mentre il conflitto ribolle in Amhara e Oromia, con il potenziale per inghiottire il paese nella violenza.”
Aaron Maasho & Martin Witteveen
Aaron Maasho ha lavorato come direttore delle comunicazioni dell’EHRC da luglio 2020 a novembre 2021.
Martin Witteveen, un esperto di diritto penale internazionale, ha prestato servizio presso EHRC fino a febbraio 2022 per sviluppare una strategia di risposta rapida per situazioni di emergenza in materia di diritti umani
Le iniziative delle altre Autorità
I nomi per il dopo-Wallace alla Difesa britannica
Nei giorni scorsi Ben Wallace ha annunciato la decisione di lasciare dopo oltre quattro anni, un record dall’epoca di Winston Churchill, l’incarico di segretario alla Difesa del Regno Unito. Il passo indietro, ha spiegato al Sunday Times, si consumerà in occasione di un prossimo rimpasto a cui il primo ministro Rishi Sunak, dovrebbe metter mano a settembre.
Nel colloquio, Wallace ha espresso il suo forte disappunto per il mancato sostegno del presidente statunitense Joe Biden alla sua candidatura come segretario generale della Nato. “Perché non sostieni il tuo più stretto alleato quando presenta un candidato? Penso che sia una domanda giusta”, ha dichiarato. Ma sulla vicenda rimangono diversi interrogativi. Due in particolare, che riguardano gli equilibri interni al Partito conservatore e le ambizioni del ministro uscente. Davvero Sunak appoggiava la candidatura di Wallace? Davvero Wallace credeva alla sua candidatura ben sapendo che ormai per quel ruolo gli alleati puntano ormai a un livello minimo di ex capi di governo?
Intanto, Wallace resterà deputato sino alla fine della legislatura, ma poi non si ricandiderà in Parlamento lasciando la politica attiva per dedicarsi di più “alla famiglia”. Sarà vero? Forse. Nel ambienti tory però c’è chi sospetta che voglia prendersi soltanto una pausa, lasciare in vista delle elezioni del 2024 che si preannunciano disastrose per il Partito conservatore e tornare per puntare alla leadership della destra britannica.
Per il successore è già partito il toto-scommesse, come da tradizione londinese. Il favorito è, secondo quanto riportato dal Telegraph, Tom Tugendhat, oggi viceministro per la Sicurezza al ministero dell’Interno. È ex militare di carriera esattamente come Wallace. Ha combattuto in Iraq e in Afghanistan. Come Wallace è un ferreo sostenitore dell’Ucraina. È stato presidente della commissione Esteri della Camera dei Comuni e in quel ruolo si è distinto per le sue posizioni fortemente critiche verso la Russia e la Cina.
Due le alternative a Tugendhat, riferisce ancora il Telegraph. La prima è la ministra Penny Mordaunt, attuale leader della Camera ai Comuni (responsabile cioè per i rapporti del governo con il parlamento) e prima e unica donna britannica alla guida della Difesa per un breve periodo nel governo guidata da Theresa May. Ma tra lei e Sunak il rapporto è pessimo. La seconda è il veterano Brandon Lewis, ex ministro fra l’altro della Giustizia, uscito temporaneamente dalle file del governo con l’ascesa di Sunak dopo averne fatto parte sotto May, Boris Johnson e Liz Truss.
Anne-Marie Trevelyan, viceministra all’Indo-Pacifico al ministero degli Esteri e già ministra per lo Sviluppo internazionale, si è autocandidata: “Sarebbe un privilegio”, ha scritto su Twitter. Ma lei potrebbe salire al livello più alto del Foreign Office nel caso in cui a guidare la Difesa dovrebbe essere James Cleverly, attuale ministro degli Esteri, un altro ex militare e convinto sostenitore dell’Ucraina. A fare il suo nome come favorito è stato il Times. Tra gli outsider ci sono James Heappey, oggi viceministro alle Forze armate, e John Glen, numero due del Tesoro.
Con la Global Britain che guarda all’Indo-Pacifico più che all’Europa risvegliata dall’invasione russa in Europa, con le elezioni alle porte, il lavoro per il successore di Wallace si preannuncia complicato. È stato lo stesso ministro uscente a indicare il tema più critico annunciando di essere pronto ad alzare la voce dai banchi della Camera dei Comuni se il primo ministro Sunak e il cancelliere Jeremy Hunt, due politici molto attenti al rigore dei conti, non manterranno la promessa di aumentare la spesa militare dall’attuale 2,16% al 2,5% del prodotto interno lordo al 2,5%.
C’è poi il tema Global combat air programme (Gcap), il progetto che vede i tre Regno Unito, Italia e Giappone collaborare per la realizzazione del velivolo da combattimento del futuro destinato a sostituire i circa 90 caccia F-2 giapponesi e gli oltre 200 Eurofighter britannici e italiani. Dopo i passi avanti dell’incontro a Roma di fine giugno, è previsto un nuovo incontro tra i ministri in autunno, probabilmente a Londra, con l’italiano Guido Crosetto e il viceministro giapponese Atsuo Suzuki (visto che Yasukazu Hamada viaggia all’estero). Potrebbe essere uno dei primi incontri del nuovo ministro della Difesa britannico.
Perquisita la sede della testata di alimentazione Gift Great Italy Food Trade e la casa dell'avvocato giornalista Dario Dongo della testata online
@Giornalismo e disordine informativo
Milano - "Cinque funzionari della squadra mobile di Pescara si sono presentati presso la sede del sito di informazione indipendente Gift (greatitalianfoodtrade.it) su ordine del sostituto procuratore incaricato e del procuratore capo della Procura di Pescara, per perquisire la sede operativa del sito web. Al termine dell'azione, protrattasi per 6 ore, sono stati sequestrati tutti i dispositivi (cellulare, tablet, computer portatile) del fondatore, Dario Dongo, giornalista, tra i massimi esperti di diritto alimentare europeo". Lo ha reso noto l'ufficio stampa milanese di Gift e del Fatto Alimentare, due media specializzati sull'alimentazione e l'industria alimentare, al centro anche di inchieste di rilievo giudiziario.
Protesta dei sindacati dei Cronisti per tutela delle fonti giornalistiche un secco NO a qualsiasi forma di intimidazione e limiti alla libertà di stampa.
PS: Gift ItalyFoodTrade è un media online specializzato sull'alimentazione e l'industria alimentare, al centro anche di inchieste giornalistiche di rilievo giudiziario.
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“Il GDPR in ambito assicurativo” (Giuffrè Editore) di Rudi Floreani e Stefano Petrussi
GAZA. Hamas paga gli stipendi ai dipendenti. Ma critiche e polemiche non cessano
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di Michele Giorgio*
(foto di gloucester2gaza)
Pagine Esteri, 19 luglio 2023 – Da forza di opposizione Hamas conquista consensi tra i palestinesi in Cisgiordania, a danno dell’Anp di Abu Mazen che, al contrario, continua a perdere sostegni. Eppure nella sua roccaforte Gaza dove è anche un apparato di governo, il movimento islamico è oggetto di critiche e contestazioni crescenti. Nonostante il ministero delle finanze di Hamas abbia annunciato che oggi pagherà 50mila dipendenti pubblici, superando il ritardo nell’erogazione del sussidio mensile di circa 30 milioni di dollari che riceve dal Qatar, la diminuzione delle entrate fiscali e l’aumento delle spese, a Gaza le polemiche non si spengono per i continui ritardi nel pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici. Decine di migliaia di famiglie sono costrette da anni a ricevere mediamente solo 1200 shekel (circa 300 euro), ossia metà dello stipendio.
Non è la prima crisi salariale che si registra a Gaza, lembo di terra senza una economia a causa dell’occupazione, dal 2006 soggetto a un blocco rigido da parte di Israele e teatro di offensive militari devastanti e sanguinose. Quest’ultima crisi però ha scatenato una quantità insolita di polemiche e critiche sui social media, espresse in alcuni casi anche da militanti di Hamas. Ammar Q. sul suo account Facebook ha commentato che «Se le autorità responsabili non sono in grado di erogare gli stipendi regolarmente, allora devono riconsiderare le loro politiche e il numero alto dei posti di lavoro nella pubblica amministrazione». Per l’insegnante Hussam S., il ritardo degli stipendi sarebbe «una manovra del governo per negare i diritti dei lavoratori». Muhammad S. facendo riferimento alle analoghe difficoltà dell’Anp in Cisgiordania, ha scritto che la crisi è «Il risultato di 16 anni di divisione (tra Gaza e Cisgiordania): due governi di incapaci che non sono in grado di pagare stipendi pieni o puntuali ai propri dipendenti».
La maggior parte dei 2,3 milioni degli abitanti di Gaza vive in povertà. Il Qatar ha erogato centinaia di milioni di dollari dal 2014 per progetti infrastrutturali e oltre ai 30 milioni di dollari per il lavoro pubblico, inoltre copre con suoi fondi anche l’acquisto (in Israele) del carburante per la centrale elettrica. Secondo alcune voci il ritardo della donazione è frutto di pressioni qatariote su Hamas. Doha intenderebbe ricordare ad Hamas che dipende dai suoi fondi e che pertanto deve restare calmo.
Vero o falso che sia, dall’inizio del 2023 è iniziato il ritardo nel pagamento degli stipendi a Gaza. Non solo. Il debito di Hamas con le banche è cresciuto dopo l’ottenimento di un prestito da circa dieci milioni di dollari ricevuto dalla Banca nazionale islamica, mentre sale il prezzo della benzina egiziana che sino ad oggi ha permesso di tenere basso il costo dei trasporti a Gaza. Di recente il governo di Hamas ha anche dovuto acquistare medicinali e saldare debiti con aziende farmaceutiche per 50 milioni di shekel (oltre 12 milioni di euro). Il viceministro Awni Al Bashar ha invitato la comunità internazionale a cessare il boicottaggio.
La popolazione intanto non è convinta che la crisi sia frutto solo del blocco israeliano e del ritardo delle donazioni qatariote. «Ogni mese decidono una nuova tassa» si lamenta Sabri K., un commerciante «paghiamo anche l’aria, dove finiscono tutti questi soldi?».
*Questo articolo è la versione aggiornata dell’originale pubblicato dal quotidiano il Manifesto il 18 luglio 2023 ilmanifesto.it/hamas-non-paga-…
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L'articolo GAZA. Hamas paga gli stipendi ai dipendenti. Ma critiche e polemiche non cessano proviene da Pagine Esteri.
In Cina e Asia -Bangladesh, un morto e centinaia di feriti nelle manifestazioni contro il governo
I titoli di oggi:
Bangladesh, un morto e centinaia di feriti nelle manifestazioni di massa contro il governo
Soldato Usa diserta in Corea del Nord
Big tech: 200 milioni di cinesi impiegati nel settore
India, nasce la coalizione anti Bjp
Cina, Henry Kissinger incontra il ministro della Difesa cinese a Pechino
Prove di rimozione dell' hukou in Zhejiang
Funerali in Cina, dopo il Covid si preferisce la cremazione
L'articolo In Cina e Asia -Bangladesh, un morto e centinaia di feriti nelle manifestazioni contro il governo proviene da China Files.
PRIVACYDAILY
#39 / Di cacche di cane e privacy
Il piccolo comune di Béziers invaso dalle cacche di cane - oppure no
Robert Ménard è il sindaco di Béziers, un piccolo comune sulla costa della Francia meridionale. Robert Ménard ha un problema: le cacche di cane lasciate in giro per strada.
Cosa farebbe una persona normale per affrontare questa grave piaga sociale? Magari cercherebbe di sensibilizzare i cittadini; o forse potrebbe distribuire “gratuitamente” bustine per raccogliere la cacca dei cani. O magari, non farebbe proprio nulla e penserebbe a risolvere questioni più importanti di qualche cacca per terra.
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E invece no. Il caro Robert non è certo una persona qualunque e non si farà intimorire da qualche cacca di cane. La soluzione è tanto semplice quanto grottesca: obbligare tutti i residenti a schedare il DNA del loro cane, cosicché attraverso i campioni dalle feci lasciate in terra si possa scovare il colpevole a quattro zampe e — di riflesso — il suo padrone.
“È necessario punire i cittadini per farli comportare meglio”, afferma Robert France Bleu Radio.
Hey Robert, ma siamo sicuri che punire i cittadini per modificare il loro comportamento sia il ruolo di un sindaco?
Anche Alto Adige, Genova e Roma sommerse dalla cacca di cane - oppure no
Robert Ménard non è però solo nel suo dramma. Ho infatti scoperto che anche in Alto Adige sarà obbligatoria dal 31 dicembre 2023 la profilazione genetica di tutti i cani residenti1. Lo scopo, a dire dell’assessore provinciale Arnold Schuler è identificare gli escrementi dei cani e sanzionare i proprietari che non raccolgono. Accidenti, non pensavo che anche in Alto Adige fosse così pieno di cacche di cane da richiedere tali interventi.
Pare che diverse città e regioni siano interessate al “progetto pilota” dell’Alto Adige. Ad esempio gli assessori del comune di Genova hanno incontrato Schuler per valutare la possibilità di rendere obbligatoria questa profilazione genetica. E dire che a Genova ci vado spesso e non ho mai pestato una cacca di cane. Evidentemente sono molto fortunato.
Anche a Roma qualcuno è impegnato nell’arduo compito di mitigare il flagello delle deiezioni canine. Il consigliere del XV municipio Max Petrassi (Italia Viva)2 ha però avuto un’idea originale e innovativa: obbligare i cittadini romani a schedare geneticamente i loro cani e poi effettuare test sulle cacche per scovare i malfattori e multarli. Aspetta… dove l’ho già sentita questa?
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Il business delle cacche di cane
Okay qui c’è qualcosa che puzza. Possibile che tutte queste menti illuminate siano improvvisamente arrivate alla stessa conclusione? Mah. Più probabile invece che ci sia qualche azienda, come PooPrints — che fattura più di 7 milioni di euro l’anno — che ha inventato questa articolata soluzione per risolvere un non-problema.
Più probabile che sindaci, consiglieri e assessori, ben poco illuminati, vogliano far bella figura emulando altri che prima di loro sono cascati nelle braccia del dipartimento marketing di qualche azienda con troppa fuffa da vendere.
In effetti basta googlare per vedere molti esempi di altre città che hanno adottato soluzioni tecnologiche uguali a quelle proposte in Francia e Italia: Tel Aviv3, Denver4, Mallorca5…
Esiste davvero un problema globale di cacche non raccolte, o questi politici stanno invece usando soldi estorti ai cittadini per inventare complessi schemi di sorveglianza e tassazione occulta?
Sì, perchè schedare geneticamente il cane significa anche sorvegliare indirettamente il proprietario. Come dichiarato anche dall’azienda PooPrints6, una volta schedato il DNA del cane sarà possibile tracciarlo ovunque nel mondo, e con lui il suo padrone.
Qualcuno potrebbe dire che ci sono modi migliori per sorvegliare le persone. Certo, ma non per questo bisogna sottovalutare e accettare un ulteriore ingerenza dello Stato nella nostra vita.
Per quanto riguarda la tassazione occulta invece non c’è molto da dire: queste schedature genetiche si pagano (circa €65). Chi non lo fa, sarà sanzionato. Un buon modo per far cassa, anche senza raccogliere cacche in giro. In Alto Adige si stimano 45.000 cani registrati, che equivale a un’entrata di quasi 3 milioni di euro. Così, de botto.
Le grandi cose arrivano dalle piccole cose
La questione, abbastanza ridicola, dovrebbe farci riflettere sul potenziale distruttivo della tecnologia nelle mani di politici che non vedono l’ora di spendere i nostri soldi per inventarsi fantasiosi modi per renderci la vita più difficile.
A qualcuno potrà sembrare una piccola cosa; perfino una misura ragionevole per insegnare una lezione agli incivili. Se non fosse che, dato il copia-incolla di questa incredibile “soluzione” è molto probabile che la cacca del cane non sia altro che un pretesto, e che gli incivili siano in verità ben pochi.
In ogni caso: grandi cose vengono costruite a partire dalle piccole. Ieri era l’obbligo di microchip, oggi è la schedatura genetica. Domani sarà un collare GPS collegato alle forze dell’ordine. O qualche altra diavoleria che inevitabilmente finirà per intaccare quel poco di privacy che ci rimane, pure quando interagiamo col nostro cane.
Ma parliamo anche della questione ontologica. È evidente che l’oggetto dell’intervento non è il cane, ma il padrone. Il cane, in quanto avente una relazione diretta col padrone, è uno strumento attraverso cui estrarre risorse e punire i cittadini; d’altronde sono loro ad essere responsabili del comportamento del cane, no?
Perché allora non fare lo stesso coi bambini? Perché non obbligare ogni genitore a legare un braccialetto elettronico con GPS alla caviglia dei figli? Qual è la differenza tra un cane che caga davanti alla porta di casa del sindaco e un ragazzino che gli disegna un pisello sul muro? Entrambi sono soggetti all’autorità e alla responsabilità del padrone/genitore.
Meme del giorno
Citazione del giorno
“It's only because of their stupidity that they're able to be so sure of themselves.”
Franz Kafka
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news.provincia.bz.it/it/news/p…
roma.repubblica.it/cronaca/202…
timesofisrael.com/tel-aviv-wil…
denverpost.com/2019/12/07/denv…
theolivepress.es/spain-news/20…
cnbc.com/2018/12/19/pooprints-…
Una grave lesione dello stato di diritto. Un passo verso la democrazia illiberale. Non in Polonia, né in Ungheria ma in Italia. Il post di Marco Taradash
@Politica interna, europea e internazionale
Riproponiamo il post di Marco Taradash su quella che è a tutti gli effetti una forzatura dell'esecutivo sul terzo potere. Questo l'episodio cui si fa riferimento.
«La presidente del Consiglio Meloni ha annunciato ieri un prossimo decreto legge per correggere una interpretazione delle norme sui reati di criminalità organizzata contenuta in una sentenza della Corte di Cassazione, interpretazione che, a suo dire, indebolisce la lotta alla mafia.
Nella sentenza, che riguarda un episodio minore della criminalità camorristica, vengono riconfermate tuttavia le precedenti sentenze della Cassazione a sezioni Unite, a partire dal 2005. Ma il governo intende fornire, con decreto legge, una “interpretazione autentica” delle norme.
I giuristi potranno approfondire gli aspetti tecnici, ma il senso politico è devastante.
La sentenza richiamata è del marzo 2022. Un anno e mezzo fa. Come mai Meloni ritiene oggi di intervenire per “necessità e urgenza”?
Forse per dare l’ennesima sberla al suo ministro della Giustizia, sperando magari che le sue verificate doti di incassatore finiscano per esaurirsi e Nordio tolga il disturbo?
O forse per presentarsi alla cerimonia in onore di Paolo Borsellino con la scimitarra fra i denti e non subire le contestazioni che le considerazioni di Nordio sul concorso esterno le avrebbero potuto procurare?
Entrambe le cose, a mio parere.
Ma ciò che mi preoccupa è il precedente che si verrebbe a creare. Il Governo Meloni intende intervenire sulle sentenze dei tribunali correggendo di volta in volta attraverso decreti legge l’ermeneutica consolidata? Non siamo di fronte a un primo passo verso l’eversione costituzionale che potrebbe essere richiamato in futuro ogni volta che il governo né sentisse la necessità?
Guardate che ciò che oggi fa Meloni in Italia è ciò che i suoi alleati europei hanno già fatto nelle loro “nazioni”. Paludare una lesione al principio della separazione dei poteri del mantello corrusco della “lotta alla mafia”, ammantare un abuso di potere delle vesti insanguinate delle vittime della mafia, suscita repulsione e inquietudine.»
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#39 / Di cacche di cane e privacy
Il piccolo comune di Béziers invaso dalle cacche di cane - oppure no
Robert Ménard è il sindaco di Béziers, un piccolo comune sulla costa della Francia meridionale. Robert Ménard ha un problema: le cacche di cane lasciate in giro per strada.
Cosa farebbe una persona normale per affrontare questa grave piaga sociale? Magari cercherebbe di sensibilizzare i cittadini; o forse potrebbe distribuire “gratuitamente” bustine per raccogliere la cacca dei cani. O magari, non farebbe proprio nulla e penserebbe a risolvere questioni più importanti di qualche cacca per terra.
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E invece no. Il caro Robert non è certo una persona qualunque e non si farà intimorire da qualche cacca di cane. La soluzione è tanto semplice quanto grottesca: obbligare tutti i residenti a schedare il DNA del loro cane, cosicché attraverso i campioni dalle feci lasciate in terra si possa scovare il colpevole a quattro zampe e — di riflesso — il suo padrone.
“È necessario punire i cittadini per farli comportare meglio”, afferma Robert France Bleu Radio.
Hey Robert, ma siamo sicuri che punire i cittadini per modificare il loro comportamento sia il ruolo di un sindaco?
Anche Alto Adige, Genova e Roma sommerse dalla cacca di cane - oppure no
Robert Ménard non è però solo nel suo dramma. Ho infatti scoperto che anche in Alto Adige sarà obbligatoria dal 31 dicembre 2023 la profilazione genetica di tutti i cani residenti1. Lo scopo, a dire dell’assessore provinciale Arnold Schuler è identificare gli escrementi dei cani e sanzionare i proprietari che non raccolgono. Accidenti, non pensavo che anche in Alto Adige fosse così pieno di cacche di cane da richiedere tali interventi.
Pare che diverse città e regioni siano interessate al “progetto pilota” dell’Alto Adige. Ad esempio gli assessori del comune di Genova hanno incontrato Schuler per valutare la possibilità di rendere obbligatoria questa profilazione genetica. E dire che a Genova ci vado spesso e non ho mai pestato una cacca di cane. Evidentemente sono molto fortunato.
Anche a Roma qualcuno è impegnato nell’arduo compito di mitigare il flagello delle deiezioni canine. Il consigliere del XV municipio Max Petrassi (Italia Viva)2 ha però avuto un’idea originale e innovativa: obbligare i cittadini romani a schedare geneticamente i loro cani e poi effettuare test sulle cacche per scovare i malfattori e multarli. Aspetta… dove l’ho già sentita questa?
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Il business delle cacche di cane
Okay qui c’è qualcosa che puzza. Possibile che tutte queste menti illuminate siano improvvisamente arrivate alla stessa conclusione? Mah. Più probabile invece che ci sia qualche azienda, come PooPrints — che fattura più di 7 milioni di euro l’anno — che ha inventato questa articolata soluzione per risolvere un non-problema.
Più probabile che sindaci, consiglieri e assessori, ben poco illuminati, vogliano far bella figura emulando altri che prima di loro sono cascati nelle braccia del dipartimento marketing di qualche azienda con troppa fuffa da vendere.
In effetti basta googlare per vedere molti esempi di altre città che hanno adottato soluzioni tecnologiche uguali a quelle proposte in Francia e Italia: Tel Aviv3, Denver4, Mallorca5…
Esiste davvero un problema globale di cacche non raccolte, o questi politici stanno invece usando soldi estorti ai cittadini per inventare complessi schemi di sorveglianza e tassazione occulta?
Sì, perchè schedare geneticamente il cane significa anche sorvegliare indirettamente il proprietario. Come dichiarato anche dall’azienda PooPrints6, una volta schedato il DNA del cane sarà possibile tracciarlo ovunque nel mondo, e con lui il suo padrone.
Qualcuno potrebbe dire che ci sono modi migliori per sorvegliare le persone. Certo, ma non per questo bisogna sottovalutare e accettare un ulteriore ingerenza dello Stato nella nostra vita.
Per quanto riguarda la tassazione occulta invece non c’è molto da dire: queste schedature genetiche si pagano (circa €65). Chi non lo fa, sarà sanzionato. Un buon modo per far cassa, anche senza raccogliere cacche in giro. In Alto Adige si stimano 45.000 cani registrati, che equivale a un’entrata di quasi 3 milioni di euro. Così, de botto.
Le grandi cose arrivano dalle piccole cose
La questione, abbastanza ridicola, dovrebbe farci riflettere sul potenziale distruttivo della tecnologia nelle mani di politici che non vedono l’ora di spendere i nostri soldi per inventarsi fantasiosi modi per renderci la vita più difficile.
A qualcuno potrà sembrare una piccola cosa; perfino una misura ragionevole per insegnare una lezione agli incivili. Se non fosse che, dato il copia-incolla di questa incredibile “soluzione” è molto probabile che la cacca del cane non sia altro che un pretesto, e che gli incivili siano in verità ben pochi.
In ogni caso: grandi cose vengono costruite a partire dalle piccole. Ieri era l’obbligo di microchip, oggi è la schedatura genetica. Domani sarà un collare GPS collegato alle forze dell’ordine. O qualche altra diavoleria che inevitabilmente finirà per intaccare quel poco di privacy che ci rimane, pure quando interagiamo col nostro cane.
Ma parliamo anche della questione ontologica. È evidente che l’oggetto dell’intervento non è il cane, ma il padrone. Il cane, in quanto avente una relazione diretta col padrone, è uno strumento attraverso cui estrarre risorse e punire i cittadini; d’altronde sono loro ad essere responsabili del comportamento del cane, no?
Perché allora non fare lo stesso coi bambini? Perché non obbligare ogni genitore a legare un braccialetto elettronico con GPS alla caviglia dei figli? Qual è la differenza tra un cane che caga davanti alla porta di casa del sindaco e un ragazzino che gli disegna un pisello sul muro? Entrambi sono soggetti all’autorità e alla responsabilità del padrone/genitore.
Meme del giorno
Citazione del giorno
“It's only because of their stupidity that they're able to be so sure of themselves.”
Franz Kafka
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news.provincia.bz.it/it/news/p…
roma.repubblica.it/cronaca/202…
timesofisrael.com/tel-aviv-wil…
denverpost.com/2019/12/07/denv…
theolivepress.es/spain-news/20…
cnbc.com/2018/12/19/pooprints-…
La DPA belga ha permesso alle testate giornalistiche di comprarsi l'esenzione dalla conformità al GDPR Oggi la noyb presenta un reclamo contro 15 siti di notizie belgi che utilizzano banner cookie illegali. Tra questi ci sono testate giornalistiche come RTL Belgio, Het Laatste Nieuws e L'Avenir
Italia in prima linea nel sostegno all’Ucraina. Il grazie di Stoltenberg a Meloni
Sfide dell’Alleanza e ruolo dell’Italia in Ucraina. Sono stati questi i principali punti affrontati nel corso dell’incontro che ha coinvolto il segretario generale della Nato – da poco riconfermato alla guida dell’Alleanza – e la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, reduce dal Vertice di Vilnius tenutosi la scorsa settimana. Il faccia a faccia si è tenuto a Bruxelles, proprio nella residenza di Stoltenberg, ed è stato l’occasione non solo per fare un punto sul Vertice lituano appena conclusosi, ma anche per ribadire il ruolo dell’Italia non solo nell’assistenza alla sicurezza dell’Ucraina ma anche nel presidiare i confini della Nato.
L’incontro
Secondo quanto ha riportato Palazzo Chigi, a margine del faccia a faccia si è tenuto un incontro tra Meloni e Stoltenberg che ha visto la partecipazione anche di altre personalità-chiave per la postura italiana in seno all’Alleanza, tra cui il consigliere diplomatico della premier, Francesco Talò (già rappresentante permanente d’Italia al quartier generale della Nato), e il rappresentante permanente presso la Nato, Marco Peronaci.
Sostegno all’Ucraina
“È stato bello incontrare di nuovo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni dopo il summit della Nato della scorsa settimana”, ha esordito Stoltenberg, “l’ho ringraziata per i contributi-chiave dell’Italia alla Nato e per il sostegno incrollabile all’Ucraina”. Il nostro Paese è infatti stato in prima fila fin da febbraio scorso nel fornire supporto e sostegno a Kiev, anche grazie Ma al centro del colloquio non si è parlato soltanto di Ucraina, e si è “discusso della risposta della Nato alle sfide provenienti da tutte le direzioni, compreso il terrorismo e l’instabilità nel sud”, ha aggiunto poi il numero dell’Alleanza atlantica.
Ruolo italiano al vertice di Vilnius
La premier è stata proprio la scorsa settimana nella capitale lituana per lo storico vertice Nato, in quell’occasione aveva posto l’accento su un passaggio nevralgico: la rivendicazione da parte italiana del ruolo all’interno dell’Alleanza dopo le “incertezze” pro Cina dei governi Conte e il voler assumere decisioni all’altezza in tema di deterrenza e difesa in un momento eccezionale come l’attuale. E proprio qui si inseriva l’elemento legato all’impegno sul 2% di Pil per la difesa, che secondo la premier deve tenere conto della progressione, della sostenibilità e della responsabilità e della partecipazione al funzionamento dell’Alleanza che ogni alleato assume. La considerazione italiana è che occorra fare il meglio per rafforzare autonomia, indipendenza e capacità di difesa.
Valditara: l’eccellente Studio della Fondazione Luigi Einaudi dimostra l’imprescindibilità di carta e penna
“La rete non può né deve spazzare via la carta e la penna perché lettura su carta e scrittura a mano sono insostituibili. L’apprendimento attraverso i libri non è rimuovibile dal sistema dell’istruzione”. A dirlo è il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, nel corso del convegno “Scuola digitale: il valore imprescindibile di carta e penna”, organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi, che si è svolto questa mattina nella Sala Zuccari del Senato. “La conoscenza, soprattutto nei primi anni di vita, passa attraverso la sollecitazione di tutti e cinque i sensi”, ha detto il ministro, “sollecitare solo la vista, come avviene con il digitale, impedirebbe lo sviluppo armonico e completo della persona. Il digitale non è rinunciabile, ma va governato”, chiarisce Valditara e aggiunge “alla logica dell’aut-aut preferisco la logica dell’et-et: valorizzare al massimo entrambe le opportunità”.
Al convegno hanno partecipato Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research che ha presentato un sondaggio sul tema, Maria Teresa Morasso, grafologa, Massimo Ammaniti, psicoanalista, Sergio Russo, insegnante, Martina Colasante, public policy manager di Google.
Durante l’incontro il Segretario generale della Fondazione Luigi Einaudi, Andrea Cangini, ha presentato il paper “Il valore imprescindibile di carta e penna”, promosso dalla fondazione, che dà conto delle principali ricerche internazionali sull’argomento, da cui emerge un dato incontrovertibile: eliminare carta e penna dal sistema scolastico danneggerebbe le capacità cognitive dei giovani.
“Cuore del pensiero einaudiano è la centralità della persona: la politica deve limitarsi a creare le condizioni affinché ciascuna persona possa sviluppare al massimo le proprie potenzialità”, ha detto Cangini. “Far sparire carta e penna dall’orizzonte umano, e soprattutto dal perimetro dell’Istruzione, significherebbe comprimere le potenzialità dell’individuo. La nostra ricerca – sottolinea – dimostra inequivocabilmente che la scrittura a mano e la lettura su carta stimolano il cervello e mettono in moto meccanismi neurologici che gli strumenti digitali non sollecitano: farne a meno significherebbe arrecare un danno irreparabile a ciascun singolo individuo, e dunque alla società nel suo complesso”, ha concluso.
Il Rapporto, promosso da Comieco e Federazione Carta e Grafica, mette in luce inoltre gli aspetti di sostenibilità di due diversi prodotti editoriali: e-book e libri cartacei.
IL SONDAGGIO DI EUROMEDIA RESEARCH
I dati emersi dal sondaggio danno un quadro chiaro riguardo all’importante funzione che ancora oggi svolgono la carta e la penna nei processi di apprendimento. L’87,1% degli intervistati è d’accordo sull’idea di preservare e valorizzare nella scuola, soprattutto primaria, la lettura su carta e la scrittura a mano. Solo il 14,3% ritiene sia importante che un bambino, nel corso degli anni scolastici, impari prevalentemente a leggere e scrivere utilizzando strumenti digitali. È bene sottolineare però che il 64,5% condivide l’utilizzo di strumenti digitali in ambito scolastico. E riguardo alle abitudini di scrittura, l’85,1% ricorda e capisce meglio prendendo appunti a mano.
Dal sondaggio inoltre emerge un buon rapporto personale degli insegnanti con gli strumenti tecnologici e digitali. Riescono a governare l’uso di questi strumenti nell’insegnamento e si sentono adeguatamente formati, oltre a riconoscerne una certa importanza. Ma il problema, in questo contesto, è che spesso la formazione e l’aggiornamento sull’utilizzo di questi strumenti è stata a carico degli insegnanti stessi, senza un supporto a livello istituzionale. I docenti, stando a quanto si legge, hanno quindi imparato in autonomia e grazie al loro interesse l’utilizzo delle nuove tecnologie digitali.
IL VALORE IMPRESCINDIBILE DI CARTA E PENNA NEI PROCESSI DI APPRENDIMENTO: IL PAPER DELLA FONDAZIONE LUIGI EINAUDI
Con questo lavoro la Fondazione Luigi Einaudi ha messo assieme le principali ricerche scientifiche internazionali prodotte finora sull’argomento. Di seguito vengono riportati tre studi tra i tanti analizzati.
Una ricerca realizzata dalla professoressa Virginia Berninger dell’Università di Washington ha dimostrato che “in termini di costruzione del pensiero e delle idee, c’è un rapporto importante tra cervello e mano”. È la mano che plasma il cervello e “sarebbe un errore derubricare a mera questione di gusto la scelta di scrivere digitando le lettere su una tastiera rispetto al gesto grafico della mano su carta”.
Nel 2016 Susan Payne Carter, Kyle Greenberg e Michael S. Walker hanno condotto uno studio dal titolo “The Impact of Computer Usage on Academic Performance: Evidence from a Randomized Trial at the United States Military Academy”, che ha prodotto esiti notevoli. Nell’Accademia militare di West Point, su un campione di 50 classi di studenti, è stato dato in uso ad alcune solo device digitali mentre ad altre soltanto carta e penna. Al termine del semestre i dati emersi hanno dimostrato che gli studenti che non hanno lavorato con i mezzi digitali sono risultati del 20% migliori rispetto agli altri.
Il progetto di ricerca finanziato dal programma europeo COST, E-READ- Evolution of Reading in the Age of Digitalization – ha restituito dati significativi: tra il 2014 e il 2018, circa 200 studiosi europei hanno indagato, su un campione di 170mila partecipanti, l’impatto della digitalizzazione sulle pratiche di lettura. Risultato? La carta rimane il medium da preferire nella lettura di testi, soprattutto se lunghi. La lettura su carta sviluppa attività cognitive, come la concentrazione, la costruzione del vocabolario e la memoria.
L'articolo Valditara: l’eccellente Studio della Fondazione Luigi Einaudi dimostra l’imprescindibilità di carta e penna proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
“Smart Bus Huawei – Parole O_stili”
Oggi a partire dalle 18.00 avrò il piacere di partecipare all’evento Smart Bus Huawei – Parole O_stili nella Sala Caduti di Nassirya, Senato della Repubblica, Palazzo Madama per sensibilizzare i ragazzi sul tema dei pericoli del digitale e della privacy e per fornirgli degli strumenti di protezione, prima di tutto culturali.
ConDono
Proprio perché si tratta di una questione con forti risvolti morali, va affrontata senza moralismi. La “pace fiscale” è quella che chiede il contribuente onesto, cui vengono chiesti troppi soldi e con le entrate che inseguono le uscite, anziché le uscite che si adeguano alle entrate. La “pace fiscale” la desidera chi partecipa a una guerra fiscale continua e ossessiva, che al prelievo eccessivo unisce regole, ostacoli, complicazioni e astrusità che rendono infernale la vita delle persone per bene. L’evasione fiscale “per necessità” è una scusa elaborata per giustificare gli evasori, ma non esiste in un sistema appena appena accettabile. Se la necessità è reale, la causa sta in norme fiscali che fanno schifo, quindi si cambiano. Se invece ho speso diversamente i soldi che non mi ritrovo quando si tratta di versare al fisco, la sola necessità esistente è che questa condotta venga sanzionata e non premiata. I favoreggiatori dell’evasione fiscale provano e riprovano a corrompere anche il vocabolario.
I condoni, perché così si chiamano, hanno tutti i possibili aspetti negativi ma anche due positivi: 1. sono utili a chiudere i contenziosi passati una volta cambiate le regole; 2. servono a prendere soldi a chi non li ha versati, anziché continuare a rivolgersi soltanto a chi li versa.
Il dramma è che si sono fatti condoni – e ora li si propongono – senza che ricorra nessuna delle due condizioni. La legge delega sulla riforma fiscale si trova al Senato. Se tutto dovesse andare secondo i piani del governo potrebbe essere approvata prima della pausa estiva, il che comporta la possibilità di mettere mano ai decreti attuativi e sperare (sperare) di avere operatività all’inizio del 2024. Tenendo presente che quella legge prevede una gradualità molto estesa, fino al 2027, il che esclude la piena operatività immediata. Se si comincia ora a parlare di condoni va a finire che smettono di pagare pure i timorati del fisco.
E siccome nessuno crede più al fatto che il condono in arrivo sia l’ultimo, salta anche la seconda condizione, come dimostrano i 4 condoni fatti in 7 anni, denominati “rottamazioni” e il cui gettito è stato largamente al di sotto del previsto. A questo aggiungete che il fisco vanta crediti verso evasori per 1.153,38 miliardi, ma conta, se tutto va bene, di poterne incassare 114. Meno del 10%. Significa che il 90% dell’evaso non lo si vedrà mai più. Ecco perché i condoni non raccolgono i soldi che promettono, giacché la minaccia di andarseli a prendere con le brutte non ha credibilità.
A parte che tutti i giorni dell’anno hanno la loro ricorrenza fiscale, questa settimana noi partite Iva, alias “autonomi”, versiamo il nostro consistente obolo. Per chi onora le regole una quota enorme di quanto incassato. Ma entro la fine dell’anno arriva l’altra botta. Proprio perché paghiamo e paghiamo moltissimo, ci va la mosca al naso quando sentiamo dire una cosa vera, cioè che parte consistente dell’evasione fiscale si annida nel lavoro autonomo. Ci arrabbiamo, perché l’incapacità fiscale dello Stato finisce con il dilapidare i nostri soldi e pure con il farci aggregare agli evasori. Il millesimo condono lo prendiamo come una pernacchia in faccia e se anche sarà chiesto tutto il dovuto una cosa è pagare questa settimana, un’altra l’anno prossimo. Avrete fatto caso all’inflazione?
Dice Matteo Salvini che il condono dev’essere fatto per i bisognosi, non per «gli evasori totali, completamente ignoti al fisco, che per me possono andare in galera buttando la chiave». Non è la prima volta che si trova al governo: che fine fece la chiave? A proposito del catasto, manco chi ha una casa intera non dichiarata volevano scovare!
Dunque, senza moralismi: gli evasori non credono più alla minaccia fiscale. E non hanno torto, visto che i voti li si raccatta non promettendo di far pagare il dovuto a tutti, non annunciando meno prelievi in ragione di meno spesa, ma promettendo di favorire chi evade, assicurando che la spesa sarà sostenuta a debito. Un (con)dono avvelenato.
L'articolo ConDono proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Zes
Di Zes (Zona economica speciale) nel Meridione ne esistono già 8: 6 regionali e 2 interregionali. Buona l’idea di farne una sola per l’intera area (comprendente Abruzzo, Campania, Puglia, Basilicata, Molise, Calabria, Sicilia e Sardegna), ma non è ancora stata varata. Il ministro Raffaele Fitto ne ha parlato con il commissario europeo Margrethe Vestager: c’è un accordo di massima ma la Commissione Ue deve esaminare lo specifico progetto, che ancora non c’è. Quindi ancora non sappiamo in cosa effettivamente consisterà. Il solo paletto già posto è che non si devono infrangere le regole europee sugli aiuti di Stato. Il che rende curiosi su quali altre misure saranno previste.
Per capirsi: già da tempo nelle 8 Zes esistenti sono in vigore una riduzione del 50% dell’imposta sul reddito d’impresa e agevolazioni per contratti di sviluppo (con un valore previsto di 250 milioni di euro) ma non è successo granché, non c’è stata alcuna corsa a investire né dall’estero né da altre zone d’Italia. Come mai? E cosa lascia credere che l’unificazione ottenga risultati migliori?
Alla seconda domanda è più facile rispondere: perché creare 8 zone significa generare 8 commissari, 8 tipologie di regole diverse (magari simili, ma diverse) e 8 uffici cui ci si deve rivolgere qualora si sia interessati a investire in più di un’area. Ma cosa dovrebbe spingere a farlo? L’idea nacque negli Stati Uniti, all’inizio del secolo scorso, per superare difficoltà e diseconomie che rendevano meno conveniente investire in determinate parti dello Stato federale. Oggi i Paesi che utilizzano Zes sono 130 (Italia compresa), per all’incirca 4.300 aree interessate. La logica di una Zes è: si deroga a norme fiscali o regolamentari del Paese in cui ci si trova, in questo modo attirando investitori che altrimenti se ne starebbero lontani. Ma con il blasone Zes non ci fai nulla – come dimostrano le 8 già esistenti nel Mezzogiorno – se non si è in grado di superare le diseconomie e gli svantaggi che allontanano gli investimenti.
Ed è qui che si resta perplessi. Pare che un’idea sarebbe quella di sottoporre a un’unica autorizzazione, con il meccanismo del “silenzio assenso”, le iniziative imprenditoriali che saranno avanzate. Giusto, ma si potrebbe ben farlo in tutta Italia, tanto più che lo “sportello unico” fu già varato e vantato in passato, salvo il fatto di non essersi mai visto. Quando si parla di agevolazioni previdenziali si tratta di capire se ne saranno modificati anche gli effetti oppure si metterà la differenza in conto agli altri lavoratori o al contribuente. Quando ci s’incammina sul terreno delle agevolazioni fiscali si tratta di capire se il loro benefico effetto sugli investimenti e le produzioni trascina poi con sé una diminuzione (non meno benefica) della spesa pubblica corrente oppure un maggiore trasferimento fiscale da altre zone. In questo secondo caso non si tratterebbe di un ‘contrappeso’ al regionalismo differenziato, ma di un controsenso che cammina in direzione opposta. Essendo le due cose a cura del medesimo governo, sarebbe interessante saperlo.
Il successo di molte Zes nel mondo è dovuto anche a un diverso costo del lavoro. Il che, da noi, produce una immediata levata di scudi sindacali e la frase fatta delle “gabbie salariali”. Che fuori dalle gabbie viva liberamente una quota maggiore di lavoro nero – quindi di produzione in evasione fiscale – sembra essere considerato irrilevante. Il fallimento di altre Zes si è accompagnato alla mancanza di infrastrutture di trasporto: serve a poco sapere che produrre da una parte è più conveniente, se poi per trasportare i prodotti devo metterci troppi soldi e troppo tempo. Senza contare che nessuna Zes civile vive fuori da un rigido rispetto del diritto, il che presuppone uno Stato funzionante nell’amministrare giustizia e nel mantenere ordine pubblico. Come nel formare i cittadini, a scuola. E nel Meridione abbiamo la peggiore prova di Stato che sappia far lo Stato.
Viva le Zes. Meglio sapendo di che si sta parlando.
L'articolo Zes proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Calimero
Il Quirinale non è il luogo delle reprimende. Definire “moniti” le parole del Presidente della Repubblica è una forma di pigrizia mentale, mentre sperarci perché siano redarguiti i governanti è l’ultima sponda del naufragio oppositorio. Ciascun Presidente ha il proprio stile e quello di Sergio Mattarella non s’ispira né alla loquacità né all’interventismo manovratore di qualche suo predecessore. Il vaglio presidenziale – in occasione di disegni di legge o decreti così come di Dpr, vale a dire Decreti del Presidente della Repubblica (che non sono suoi capricci e originano dal governo) – è infine ispirato a criteri e ha finalità assai precise. Viaggia tutto sui binari della Costituzione. Che non vieta, questo il punto, qualche riservato consiglio, restando nella responsabilità del governo stabilire se accoglierlo o meno.
La visita di Giorgia Meloni ieri al Quirinale rientra in queste regole: veniva da importanti incontri internazionali, vale a dire il vertice Nato di Vilnius, e si è recata a “riferire”. La materia era assai comoda, perché in politica estera la presidente del Consiglio è oggi la continuatrice della politica atlantica che fu del governo Draghi (cui soltanto il suo partito si opponeva) nonché della tradizione che stette (e sta) in gran antipatia alla sinistra ideologica, alla destra nazionalista e al cattolicesimo a vocazione mediterranea e terzaforzista. Non è per niente un caso che la sinistra ideologica e la destra nazionalista si siano ritrovate nel guardare verso Mosca con straziante languore. Mannaggia alla storia, che puntualmente li mette fuori gioco.
Ma è ragionevole supporre che fra il Quirinale e Palazzo Chigi non vi sia da discutere soltanto questo comodo tema. Fatte salve le prerogative costituzionali, non credo il Colle intenda entrare nel parapiglia di talune questioni aperte. Ma alla presidente del Consiglio è facile abbia fatto osservare il controsenso di scegliere un magistrato quale ministro della Giustizia, per poi ritrovarsi a far la parte di quanti intendono bastonare i magistrati. Non ha senso. E la trappola scatta quando si commette l’errore di entrare con i piedi istituzionali sbagliati nelle scarpe di vicende giudiziarie specifiche. Quando poi la seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, si mette a dire che ha interrogato un figlio e appurato come stanno le cose, pendente una denuncia, le scarpe si sfondano e si rimane a piedi ignudi sull’asfalto rovente. Difatti Meloni ha dovuto prendere nettamente le distanze. Posto che essere indagati non intacca manco per niente la propria innocenza e, semmai, sarebbe una buona occasione per evolvere la destra dicendo: ebbene sì, sostenemmo il contrario, oltraggiammo degli innocenti, ma avevamo torto; posto ciò, sarà pure vero, forse, chissà, ma ci credo poco, che quelle indagini sono delle provocazioni, ma non un buon motivo per cascarci con tutte le scarpe già prematuramente usurate.
Sull’attuazione del regionalismo differenziato – la cui responsabilità ricade su una sinistra irresponsabile – aveva un senso coinvolgere una figura come il professor Sabino Cassese, circondandolo di anziane saggezze di plurima provenienza, ma la frittata non è riuscita. Cosa intendono fare? Soprattutto – si legge negli occhi del Presidente della Repubblica, che dalla bocca non se lo fa uscire – l’unità dell’esecutivo regge alla presenza di contrapposizioni interne piuttosto vivaci? Ed è bello che chi guida il governo e il ministro competente dicano che sul Pnrr è tutto a posto e siamo in anticipo, ma non altrettanto i ministri che poi arrivano in ordine sparso ad avvisare della necessità di cambiare per non arenarsi.
Insomma, temi ce ne sono diversi. Da svolgersi nella riservatezza. Sicuro è che il governo non può cavarsela con una specie di sindrome Calimero (che oggi compie 60 anni, auguri!), talché a ogni successo tende a descriversi come dominus del mondo e a ogni insuccesso lamenta l’avversione a chi è «piccolo e nero». È ora di abbandonare tutto intero il guscio.
L'articolo Calimero proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
How to create and protect an anonymous identity
Have you ever thought of creating an anonymous identity online with which to interact or spread your ideas without fear of repercussions?
Easier said that done.
Technology is seldom enough to keep an identity anonymous. Being truly anonimous takes a lot of effort, planning and risk assessment — based on who you are, where you live and what you want to do with your anonymous identity.
“Even a poor plan is better than no plan at all.”
Mikhail Chigorin
Today I’d like to offer you a glimpse of what you should keep in mind to protect your real identity. Before starting, however, we should clarify one issue: privacy and anonymity are not the same thing. They shouldn't be confused, and they cannot be protected in the same way.
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Differences between privacy and anonymity
Privacy is many things.
However, as far as we are concerned here, we can say that it’s also the power to keep certain information confidential with respect to the outside world. For example, you might want to keep your communications or transactions confidential towards certain people or organisations. Privacy is therefore something that belongs to content: what we say or what we do.
Anonymity, on the other hand, belongs to identity.
Being anonymous means not being identifiable. Anonymity is often used as a way to give up privacy safely. For example, you may decide that you need an anonymous identity precisely to spread your thoughts publicly without fear of backlashes.
And then, there is pseudonymity: a “soft” form of anonymity. It’s the ability to create a digital identity recognizable by the public, but not immediately and easily referable to you.
This is the main difference: if you’re truly anonymous, your what you do or write cannot be referable to you, ever. If you’re pseudoanonimous, someone with a lot of resources (e.g. an intelligence agency) might be able to re-identify you. The simplest, and least secure example of a pseudoanonimous identity is being registered to a social network such as Twitter or Reddit using a nickname instead of your real name. You’re still quite easily identifiable though, since they keep track of IP addresses and other metadata.
Pseudonymity is therefore not anonymity.
But above all, always remember that privacy, as well as anonymity, are dynamic states of information that will change according to the context: between full identifiability and absolute anonymity (which does not exist, except in specific contexts) there are infinite gradations.
Our digital identities
Most of us have at least two digital identities: a private one and a work one.
In addition to these two identities, some people may need to create other identities to protect themselves: whistleblowers, journalists, political dissidents, researchers or anyone who wants to express their opinion without being prosecuted or discriminated against — like dangerous libertarian extremists that believe in the Non Aggression Principle. In these cases it might be useful to create an anonymous identity that can mitigate the risk of identification.
But being anonymous online isn't easy. To hope to be so, you need the right tools, but above all a plan that will allow you to have an adequate level of security.
Ten rules of thumb
Now that we have made the necessary introductions, we can move on to seeing how to create and protect our anonymous identity, thanks to a few principles borrowed from the world of OPSEC (Operations security). The following rules, to be understood more as "general principles" are designed to help you protect your online identity and to increase your level of anonymity:
1. Like Fight Club
The first rule is… don't talk about your anonymous identity or your plan. Never reveal the details of your security system or the tools you use to anyone. Not even to close friends or family members.
Basically: Shut the Fuck Up.
2. Start from scratch
If you already have an identity, make sure it's not tainted. If you are not able to assess the risk of contamination (see rule n. 3) and the various vulnerabilities, better create an identity from scratch.
The identities and tools used (e.g. means of communication) can also change on a regular basis to mitigate the risk over time. That way, if an identity is discovered or surveilled, the compromise will be less severe.
Fun fact: this site allows you to create fictitious identities full of realistic details.
3. Don't taint your identities
Having one or more anonymous identities is useless if you don't pay attention to contaminations. Anonymity is a delicate balance that is easily broken.
Don't ever use the same email, account, browser, or login credentials. Separate as much as possible the devices, operating systems, and wi-fi networks with which you access the Internet. Don't communicate with the same people through different identities.
The level of identity segmentation should increase depending on your risk profile. The higher the risk, the more the identities must remain separate.
4. Stay in character
Create a background and stay in character. Avoid creating over-the-top identities that lack credibility or identities that you can't handle easily. If you are a 40 year old man who doesn’t speak French, don't try to pass yourself off as a french female teenager.
5. Trust no one
The zero-trust approach is a good habit in many aspects of life. Don't trust anyone, and especially don't trust anyone who says you can trust them.
Reducing the required level of trust automatically decreases the risk of exposure as well. Don't give anyone the power to blackmail or expose you. The oldest intelligence trick is to buy (or coerce) information from people.
6. Don't expose yourself unnecessarily
Don't brag about your security protocols and avoid any behavior that may ring an alarm somewhere. Do not draw too much attention to particularly sensitive issues and avoid getting reported for any kind of violation.
7. Recognize your limits
Don't overcomplicate things and only do what you 100% understand. If you don't understand a tool or the full implications of what you're doing, don't do it. Keep it easy!
8. Leave no traces
Store only the essential information you need, and securely delete everything else. Delete or better yet — do not record any information, documents, logs that are not strictly necessary. If you can't help it, use encrypted documents (and adequately protect private keys). Avoid storing documents and encryption keys on public clouds.
9. No personal details
Avoid giving real personal details when interacting with people from your anonymous identity. Do not give information about your real gender/age/ethnicity. Avoid talking about your interests, hobbies, or any other information that can help identify you. Avoid posting photos and identification marks. Giving out personal details can lead to being identified.
10. Watch out for anomalies
Being anonymous is very difficult, and it is even more difficult if you surround yourself with anomalies that can be exploited to profile you and track your real-life identity. For example, writing weird coded messages that make no sense on Twitter is an anomaly. The best thing is to blend in and be as normal as possible, to stay in the background noise.
In summary
- Shut the f*ck up
- Do not trust anybody
- Compartmentalize identities and means of communication
- Leave no traces
- Remember that intelligence and law enforcement also follow the same rules:
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IX edizione del Concorso Internazionale “Poesis-Vietri sul Mare”, aperto agli studenti degli Istituti secondari di II grado italiani e all’estero.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola IX edizione del Concorso Internazionale “Poesis-Vietri sul Mare”, aperto agli studenti degli Istituti secondari di II grado italiani e all’estero.Telegram
Paper dello studio “Il valore imprescindibile di carta e penna nei processi di apprendimento”
In Cina e Asia – John Kerry a Pechino chiede di "agire con urgenza” per il clima
I titoli di oggi:
Clima, John Kerry in Cina: "Agire con urgenza"
Cina, le multinazionali accelerano il decoupling
Giappone, Kishida colleziona accordi con il Medio Oriente sugli approvvigionamenti critici
Taiwan, la Cina invia "proteste formali" per la visita di Lai negli Usa
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“Privacy Framework: liberi tutti?”
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Pechino annuncia nuove misure per domare l’IA
Mentre molti paesi stanno studiando come regolamentare il settore, secondo gli esperti, quelle di Pechino sono le disposizioni sull’IA più complete a livello mondiale. Questo nonostante siano sparite alcune delle restrizioni previste nella prima bozza divulgata ad aprile.
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PRIVACYDAILY
Necessario arrivare alla separazione delle carriere dei magistrati
Il costituzionalista loda l’attivismo del guardasigilli: «Dividere pm e giudici garanzia di indipendenza
E che ci sia un “abuso” dell’abuso d’ufficio lo ha detto persino la Corte costituzionale nel 2022»
Giovanni Guzzetta, ordinario di Diritto Pubblico e costituzionalista di cultura liberale, è da anni in prima fila tra coloro che chiedono la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri e altre riforme della giustizia a tutela delle libertà individuali. «Bene che ci siano delle proposte da parte del guardasigilli, che ci mette la faccia, e bene che se ne discuta», dice a Libero commentando l’iniziativa di Carlo Nordio. «Il dibattito sulla giustizia si trascina da decenni senza che si riesca a fare una discussione laica, perché tutte le parti lucranoi vantaggi della contrapposizione ideologica. Ma i problemi vanno risolti pragmaticamente e con equilibrio».
Equilibrio, almeno in certe dichiarazioni, se ne vede poco. Per il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, la separazione delle carriere condurrebbe all’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che diventerebbe discrezionale e sottoposta al controllo del potere politico. «Una cosa molto pericolosa per la democrazia», dice.
«Ho un po’ di difficoltà a comprendere il nesso tra separazione delle carriere e rischio di un’azione penale soggiogata dal controllo politico. Perché la prima questione riguarda una distinzione strutturale. La seconda una modalità di garanzia dell’indipendenza del pm. C’è un salto logico, l’azione penale può essere discrezionale o obbligatoria indipendentemente dalla circostanza che il pm faccia parte dello stesso corpo dei giudici. Mi sembra un modo di agitare fantasmi eludendo il nodo dei problemi»
Qual è questo nodo?
«Sulla separazione delle carriere mi pare difficile mettere in dubbio che l’appartenere allo stesso corpo e alla stessa carriera non possa, almeno astrattamente, indurre ad un atteggiamento di benevolenza verso il collega con cui si è condiviso magari per anni il medesimo ufficio. Né mi ha mai convinto l’affermazione che separando le carriere si priverebbe il pm della cosiddetta “cultura della giurisdizione”, a garanzia di legalità. È un argomento che prova troppo ed è anche un po’ offensivo verso i pubblici ministeri».
Perché “prova troppo”?
«Prova troppo perché, così come tenere unite le carriere può favorire la condivisione di una cultura garantista pressoi pm, può anche favorire la diffusione di una cultura inquisitrice presso i giudici. L’argomento vale in entrambe le direzioni. Poi non capisco perché un funzionario qualificato, come dovrebbe essere un pubblico ministero indipendente, debba essere sospettato per ciò stesso di trasformarsi in un Torquemada solo perché la sua carriera è distinta. Purtroppo la mentalità inquisitrice può esistere – ed esiste, come molti episodi dimostrano – anche in un sistema come l’attuale. Il rischio di abuso si cura in altri modi, innanzitutto con i controlli e con la responsabilità, spezzando la chiusura corporativa che i costituenti temevano e che l’unificazione delle carriere certamente non frena»
Resta il fatto che di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale se ne parla da anni.
«Ma tutti sanno che il problema non è abolire l’obbligatorietà dell’azione penale sul piano giuridico, ma trovare soluzioni per la sua inattuazione in via di fatto. Nessuno oggi può dire, con onestà intellettuale, che tutti i reati vengono perseguiti. Allora la domanda è un’altra. Là dove non si riesce a perseguire tutti i reati chi decide la priorità nell’azione? I pm? I capi degli uffici? Il governo? Il parlamento? Questo è il vero quesito».
E lei come risponde?
«Piero Calamandrei pensava che a decidere dovesse essere un “procuratore generale commissario della giustizia”, nominato tra i procuratori generali dal presidente della repubblica su voto delle Camere, componente di diritto del Consiglio dei ministri e passibile di sfiducia da parte delle Camere. E Calamandrei non era cero vittima di tentazioni autoritarie».
Nordio ha presentato il suo primo disegno di legge di riforma del sistema penale. Sull’abuso d’ufficio ha scelto la strada più netta: l’abrogazione della fattispecie. È la scelta giusta?
«L’abuso d’ufficio è forse uno dei reati su cui più si è intervenuti. Perché è un reato “di chiusura” rispetto a quelli più tipici come la corruzione o la concussione. E dunque i suoi contorni finiscono per essere sfuggenti, malgrado gli sforzi per tipizzare la fattispecie. Che ci sia stato un abuso dell’abuso d’ufficio nell’interpretazione e nell’applicazione giurisdizionale lo ha detto persino la Corte costituzionale nella
sentenza 8/2022. E questo ha generato quel fenomeno di amministrazione difensiva e di “paura della firma” che ormai paralizza l’intero Paese. Tutte le riforme tese a limitarlo sono state eluse. Immagino sia per questo motivo che il ministro ha deciso perla via radicale dell’abrogazione».
L’accusa al disegno di Nordio è la solita: abolendo il reato d’abuso d’ufficio si fa un favore a corrotti e corruttori.
«I cittadini dovrebbero sapere che, al di là dell’abuso d’ufficio, il nostro ordinamento è tra quelli in cui esistono più norme repressive, penali, amministrative, disciplinari, civilistiche contro la corruzione. Il problema è che forse la corruzione non si combatte solo con la repressione, ma anche con incentivi a comportamenti virtuosi. Ancora una volta una cultura eccessivamente inquisitrice rischia di determinare effetti
inintenzionali molto dannosi. L’eccesso di legislazione repressiva rischia di condurci alle gride manzoniane o alla cultura da colonna infame».
Il ddl Nordio prevede anche che il pm non possa appellare le sentenze di proscioglimento, salvo che per i reati più gravi. Il guardasigilli usa
un argomento interessante: se l’imputato, per essere condannato, deve essere colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio», basta che il giudice di primo grado l’abbia assolto per creare questo dubbio. La convince?
«Da costituzionalista, non mi avventuro a commentare considerazioni di chi ha un’esperienza specialistica sul campo e conosce ogni sfumatura dell’ordinamento penale. Quel che posso dire è che, soprattutto se limitato ai reati minori, non vedo scandaloso che un proscioglimento sia sufficiente per destinare le risorse che i pm dedicherebbero all’appello verso il perseguimento di altri reati, magari più gravi. Il potenziale repressivo dello Stato è anch’esso una risorsa scarsa».
Dopo quanto avvenuto al sottosegretario Andrea Delmastro, il governo ha deciso di intervenire sul potere del gip di ordinare l’imputazione coatta al pm che vorrebbe archiviare la posizione dell’indagato. Al di là della tempistica, che può far storcere il naso, se il pm ha il monopolio dell’azione penale, come può il gip surrogarlo e costringerlo a fare una cosa in cui non crede?
«A mio parere non si può sostenere che la Costituzione imponga il monopolio dell’azione penale in capo al pm. E aggiungo che, se l’azione penale dev’essere obbligatoria, ci vuole qualcuno che controlli che il pm non rimanga inerte o non chiuda un occhio, magari per una qualche interesse personale. Non mi scandalizza, quindi, che ci siano controlli. Il punto è che, se abbiamo accolto la prospettiva del modello accusatorio, non può essere un giudice a sostituirsi al pm e fare il pm al suo posto. Occorre trovare altre soluzioni».
I divieti di pubblicare le intercettazioni relative alle inchieste giudiziarie sinora sono serviti a nulla. Il ddl del governo dà un giro di vite: giusto farlo o si comprime la libertà d’informazione?
«Non so se sia un giro di vite o il tentativo di arginare un fenomeno che, nelle sue manifestazioni patologiche, rappresenta una violenza alla civiltà giuridica. Soprattutto se, oltre che agli indagati, comunque presunti non
colpevoli fino a condanna definitiva, colpisce tutte le persone che, senza nemmeno entrare nelle indagini, vengono sbattute nelle intercettazioni pubblicate per soddisfare i peggiori istinti voyeuristici».
Altro ragionamento di Nordio: il concetto di concorso esterno in associazione mafiosa «è un ossimoro: o si è esterni, e allora non si è concorrenti, o si è concorrenti, e allora non si è esterni». E dunque occorre tipizzarlo con una norma ad hoc, che oggi non c’è.
«Non sono un penalista e mi muovo con rispetto di fronte a un dibattito che ha una lunga storia e un alto tasso di tecnicità. Non vi sono dubbi sul fatto che il reato di concorso esterno rappresenta una creazione della giurisprudenza, sul quale il legislatore non è mai intervenuto. Fa un po’ riflettere l’idea di concorrere in un reato che consiste nell’associarsi, senza però… associarsi ed essere associati».
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La coppia Ariete-Leopard funziona. Il gen. Farina spiega perché
Il tema della componente carri per il nostro Esercito è giunto a una svolta decisiva. Il sottosegretario alla Difesa Isabella Rauti, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare sull’argomento, ha annunciato la decisione del ministro Guido Crosetto di inserire nel Documento di programmazione pluriennale, Dpp 2023-25, il programma di acquisizione di nuovi carri Leopard di ultima generazione con risorse allocate di quattro miliardi di euro su un’esigenza complessiva di circa otto miliardi. Nella stessa sede la senatrice Rauti ha confermato l’iter di ammodernamento di 125 carri italiani Ariete. In totale l’Esercito potrà disporre di 256 sistemi Main battle tank (Mbt) idonei a equipaggiare quattro reggimenti carri più i centri addestramento, cui si aggiungono altri 140 carri Leopard pioniere e gettaponte necessari al supporto della manovra. Questa linea d’azione è per molteplici aspetti la scelta più giusta e ben armonizzata che produrrà vantaggi operativi e ricadute positive per l’industria nazionale e per il complesso di cooperazioni in campo europeo. Vediamo perché.
Innanzitutto l’esigenza operativa: i carri armati e le unità corazzate/meccanizzate sono una componente fondamentale di ogni strumento militare. A fronte di un progressivo deterioramento del quadro di sicurezza nel continente europeo nell’ultimo decennio, l’Esercito italiano ha urgenza di colmare un gap crescente nella sua componente pesante costituita da una brigata corazzata (con due reggimenti carri) e due brigate meccanizzate (con un reggimento carri ciascuna). Il carro Ariete C1, interamente realizzato in Italia e introdotto a fine anni Novanta (di penultima generazione), presenta carenze nella propulsione, protezione e sensoristica. Inoltre, i livelli di efficienza si vanno via via riducendo e consentono di disporre solo di poche decine di carri armati pronti all’impiego, in progressiva diminuzione, su un totale di duecento inizialmente in dotazione. Ecco perché già nel 2018 lo Stato maggiore dell’Esercito, in mancanza di nuovi carri in produzione da parte di Paesi alleati (Usa, Germania, Francia, Uk), si orientò all’ammodernamento dell’Ariete in funzione di gap filler. Scelta ritenuta obbligata, in attesa della realizzazione del nuovo Main battle tank europeo previsto allora agli inizi degli anni Trenta. L’ottima rispondenza dei tre prototipi operativi realizzati dal 2019 al 2022 dal Cio (consorzio Iveco-Oto Melara), ha confermato la fattibilità dell’ammodernamento dell’Ariete, nella versione C2, deciso poi a fine novembre 2022 per 125 esemplari, per un costo totale di circa un miliardo di euro. L’invasione russa in Ucraina ha acuito questa esigenza e reso più urgente per il nostro Paese dotarsi di una componente carri quantitativamente più consistente e basata su standard tecnologici di altissimo livello al pari dei principali Paesi alleati. Al tempo stesso il ritorno della guerra sul nostro continente ha generato la riapertura delle linee di produzione dei carri Leopard da parte tedesca. Una importante opportunità da cogliere per acquisire il Leopard ultima versione (2/A8). Il progetto del nuovo carro europeo cosiddetto Main ground combat system franco-tedesco (per il quale l’Italia ha sino a oggi solo un ruolo di osservatore) continua invece a subire ritardi, e potrebbe entrare in servizio non prima del 2040 anche per far tesoro dei molti ammaestramenti derivanti dalla guerra in Ucraina.
Sorge spontanea a questo punto la domanda: perché non ci si è orientati ad acquisire un’unica linea di nuovi Leopard, ottimizzando la logistica, l’addestramento e il complessivo livello tecnologico? Risposta: soprattutto per questioni di tempi, ma anche di ricadute tecnologiche per l’industria nazionale. Infatti, per il nostro Ariete ammodernato è possibile avere già dalla fine del 2024 un numero di circa 25 esemplari/anno e quindi disporre entro fine 2028 di due reggimenti che garantiscono una brigata corazzata con importanti capacità già dal 2026. Per contro, per i nuovi Leopard, tenendo conto dell’iter parlamentare, degli adempimenti amministrativi e dei tempi per inizio produzione (stimati in 36 mesi dalla firma del contratto) si prevede l’introduzione dei primi esemplari solo a partire dal 2028. In sintesi l’Italia non può permettersi di restare per diversi anni senza una linea carri in un periodo segnato da crescenti minacce e tensioni. Se è vero che l’Ariete ammodernato (C2) non potrà essere all’altezza del Leopard 2/A-8, è altrettanto vero che i miglioramenti alla protezione passiva, al sistema di propulsione e soprattutto all’optronica, navigazione e comando e controllo lo rendono idoneo a fronteggiare situazioni operative complesse. Il nuovo carro tedesco costituisce senza dubbio un notevole salto di qualità soprattutto per il sistema di protezione attiva del tipo Eurotrophy e per le migliori performance relative alla potenza di fuoco e alla mobilità e sarà destinato ad equipaggiare i reggimenti della brigata Ariete, unità di punta corazzata del nostro Esercito.
Questa linea d’azione proposta dal capo di Stato maggiore dell’Esercito, approvata dal capo di Stato maggiore della Difesa e decisa, come detto, dal ministro Crosetto, apre la strada per future positive ricadute in termini tecnologici per la nostra industria terrestre e di collaborazioni in campo europeo che vanno assolutamente ricercate. Si tratta ora di valorizzare nel tempo questa scelta.
È assodato infatti che l’ammodernamento dell’Ariete consentirà al comparto industriale nazionale di adeguarsi agli standard tecnologici nel campo del sistema di propulsione, e soprattutto dei sensori, dell’optronica, del comando e controllo, della navigazione e dell’integrazione nei contesti interforze e multidominio. Si tratta ora di corredare l’acquisizione della nuova linea Leopard con parametri di cooperazione che prevedano preferibilmente anche la produzione e la grande manutenzione in Italia. Il tutto supportato da accordi anche in prospettiva che potranno includere joint ventures per il futuro meccanizzato per la fanteria (Aics- Armoured infantry combat system) che sostituirà il Dardo, altra stringente esigenza per il nostro esercito, per il quale sono già previsti nel Dpp circa ottocento milioni di euro per i prossimi sei anni al fine di sviluppare una famiglia di cingolati concepiti col criterio system of systems. Come risultato aggiuntivo una tale visione produrrebbe ulteriori ampie collaborazioni in campo europeo dove l’Italia otterrebbe una posizione di guida comune, senza andare a traino delle altrui scelte. Ciò anche con respiro di lungo termine con il futuro Mgcs europeo.
In definitiva, il salto quantitativo e tecnologico generato dall’accoppiata Ariete C2 più Leopard 2/A8 e derivati costituisce una risposta rapida e lungimirante per la nostra difesa nel settore dei corazzati. A ciò dovrà far seguito una celere decisione per in nuovo meccanizzato (AICS) e anch’esso dovrà essere frutto di collaborazioni internazionali, anche a vantaggio del pilastro europeo della difesa.
La coppia Ariete-Leopard funziona. Il gen. Farina spiega perché
Il tema della componente carri per il nostro Esercito è giunto a una svolta decisiva. Il sottosegretario alla Difesa Isabella Rauti, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare sull’argomento, ha annunciato la decisione del ministro Guido Crosetto di inserire nel Documento di programmazione pluriennale, Dpp 2023-25, il programma di acquisizione di nuovi carri Leopard di ultima generazione con risorse allocate di quattro miliardi di euro su un’esigenza complessiva di circa otto miliardi. Nella stessa sede la senatrice Rauti ha confermato l’iter di ammodernamento di 125 carri italiani Ariete. In totale l’Esercito potrà disporre di 256 sistemi Main battle tank (Mbt) idonei a equipaggiare quattro reggimenti carri più i centri addestramento, cui si aggiungono altri 140 carri Leopard pioniere e gettaponte necessari al supporto della manovra. Questa linea d’azione è per molteplici aspetti la scelta più giusta e ben armonizzata che produrrà vantaggi operativi e ricadute positive per l’industria nazionale e per il complesso di cooperazioni in campo europeo. Vediamo perché.
Innanzitutto l’esigenza operativa: i carri armati e le unità corazzate/meccanizzate sono una componente fondamentale di ogni strumento militare. A fronte di un progressivo deterioramento del quadro di sicurezza nel continente europeo nell’ultimo decennio, l’Esercito italiano ha urgenza di colmare un gap crescente nella sua componente pesante costituita da una brigata corazzata (con due reggimenti carri) e due brigate meccanizzate (con un reggimento carri ciascuna). Il carro Ariete C1, interamente realizzato in Italia e introdotto a fine anni Novanta (di penultima generazione), presenta carenze nella propulsione, protezione e sensoristica. Inoltre, i livelli di efficienza si vanno via via riducendo e consentono di disporre solo di poche decine di carri armati pronti all’impiego, in progressiva diminuzione, su un totale di duecento inizialmente in dotazione. Ecco perché già nel 2018 lo Stato maggiore dell’Esercito, in mancanza di nuovi carri in produzione da parte di Paesi alleati (Usa, Germania, Francia, Uk), si orientò all’ammodernamento dell’Ariete in funzione di gap filler. Scelta ritenuta obbligata, in attesa della realizzazione del nuovo Main battle tank europeo previsto allora agli inizi degli anni Trenta. L’ottima rispondenza dei tre prototipi operativi realizzati dal 2019 al 2022 dal Cio (consorzio Iveco-Oto Melara), ha confermato la fattibilità dell’ammodernamento dell’Ariete, nella versione C2, deciso poi a fine novembre 2022 per 125 esemplari, per un costo totale di circa un miliardo di euro. L’invasione russa in Ucraina ha acuito questa esigenza e reso più urgente per il nostro Paese dotarsi di una componente carri quantitativamente più consistente e basata su standard tecnologici di altissimo livello al pari dei principali Paesi alleati. Al tempo stesso il ritorno della guerra sul nostro continente ha generato la riapertura delle linee di produzione dei carri Leopard da parte tedesca. Una importante opportunità da cogliere per acquisire il Leopard ultima versione (2/A8). Il progetto del nuovo carro europeo cosiddetto Main ground combat system franco-tedesco (per il quale l’Italia ha sino a oggi solo un ruolo di osservatore) continua invece a subire ritardi, e potrebbe entrare in servizio non prima del 2040 anche per far tesoro dei molti ammaestramenti derivanti dalla guerra in Ucraina.
Sorge spontanea a questo punto la domanda: perché non ci si è orientati ad acquisire un’unica linea di nuovi Leopard, ottimizzando la logistica, l’addestramento e il complessivo livello tecnologico? Risposta: soprattutto per questioni di tempi, ma anche di ricadute tecnologiche per l’industria nazionale. Infatti, per il nostro Ariete ammodernato è possibile avere già dalla fine del 2024 un numero di circa 25 esemplari/anno e quindi disporre entro fine 2028 di due reggimenti che garantiscono una brigata corazzata con importanti capacità già dal 2026. Per contro, per i nuovi Leopard, tenendo conto dell’iter parlamentare, degli adempimenti amministrativi e dei tempi per inizio produzione (stimati in 36 mesi dalla firma del contratto) si prevede l’introduzione dei primi esemplari solo a partire dal 2028. In sintesi l’Italia non può permettersi di restare per diversi anni senza una linea carri in un periodo segnato da crescenti minacce e tensioni. Se è vero che l’Ariete ammodernato (C2) non potrà essere all’altezza del Leopard 2/A-8, è altrettanto vero che i miglioramenti alla protezione passiva, al sistema di propulsione e soprattutto all’optronica, navigazione e comando e controllo lo rendono idoneo a fronteggiare situazioni operative complesse. Il nuovo carro tedesco costituisce senza dubbio un notevole salto di qualità soprattutto per il sistema di protezione attiva del tipo Eurotrophy e per le migliori performance relative alla potenza di fuoco e alla mobilità e sarà destinato ad equipaggiare i reggimenti della brigata Ariete, unità di punta corazzata del nostro Esercito.
Questa linea d’azione proposta dal capo di Stato maggiore dell’Esercito, approvata dal capo di Stato maggiore della Difesa e decisa, come detto, dal ministro Crosetto, apre la strada per future positive ricadute in termini tecnologici per la nostra industria terrestre e di collaborazioni in campo europeo che vanno assolutamente ricercate. Si tratta ora di valorizzare nel tempo questa scelta.
È assodato infatti che l’ammodernamento dell’Ariete consentirà al comparto industriale nazionale di adeguarsi agli standard tecnologici nel campo del sistema di propulsione, e soprattutto dei sensori, dell’optronica, del comando e controllo, della navigazione e dell’integrazione nei contesti interforze e multidominio. Si tratta ora di corredare l’acquisizione della nuova linea Leopard con parametri di cooperazione che prevedano preferibilmente anche la produzione e la grande manutenzione in Italia. Il tutto supportato da accordi anche in prospettiva che potranno includere joint ventures per il futuro meccanizzato per la fanteria (Aics- Armoured infantry combat system) che sostituirà il Dardo, altra stringente esigenza per il nostro esercito, per il quale sono già previsti nel Dpp circa ottocento milioni di euro per i prossimi sei anni al fine di sviluppare una famiglia di cingolati concepiti col criterio system of systems. Come risultato aggiuntivo una tale visione produrrebbe ulteriori ampie collaborazioni in campo europeo dove l’Italia otterrebbe una posizione di guida comune, senza andare a traino delle altrui scelte. Ciò anche con respiro di lungo termine con il futuro Mgcs europeo.
In definitiva, il salto quantitativo e tecnologico generato dall’accoppiata Ariete C2 più Leopard 2/A8 e derivati costituisce una risposta rapida e lungimirante per la nostra difesa nel settore dei corazzati. A ciò dovrà far seguito una celere decisione per in nuovo meccanizzato (AICS) e anch’esso dovrà essere frutto di collaborazioni internazionali, anche a vantaggio del pilastro europeo della difesa.
La DPA norvegese vieta temporaneamente la pubblicità comportamentale su Facebook e Instagram La DPA norvegese è la prima autorità nazionale per la protezione dei dati che dichiara illegale la pubblicità comportamentale sulle piattaforme Meta. noyb accoglie con favore questa decisione
“Se posti le foto di tuo figlio fai un grosso guaio. Te lo spiega Ella”
Ne scrivo oggi su HuffingtonPost Italia nella rubrica Governare il Futuro Qui il testo completo huffingtonpost.it/rubriche/gov…
Hari Seldon
in reply to Informa Pirata • • •La destra italiana si è sempre considerata sotto assedio della magistratura, quindi non mi stupiscono questi loro attacchi. D'altronde ne parlavano sempre anche prima.
Che poi, forse è corretto dire che la destra italiana è sotto assedio della magistratura, ma bisogna anche ricordare che quell'area politica è piena di politici xhe hanno commesso reati o azioni ambigue che sono meritevoli di indagini.
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in reply to Hari Seldon • •@Hari Seldon il vittimismo sempre e comunque è sempre stato la cifra politica dei movimenti politici identitari e incapaci. È il fatto di mostrarsi sempre sotto assedio, in un'emergenza continua non è altro che il modo più evidente con cui si esprime questo vittimismo programmatico
@Informa Pirata
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