MIGRANTI. Ong: “Rispettare la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia”
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Pagine Esteri, 5 ottobre 2023. Chiunque abbia meno di 18 anni è un minorenne e ha diritto a vivere e ad essere protetto e accolto come tale, difeso dai rischi di abusi, sostenuto nel proprio sviluppo. Senza condizioni e senza distinzioni. La Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza non fa alcun distinguo: siano italiani o stranieri, maschi o femmine, con o senza documenti, i minorenni sono tutti uguali davanti al diritto internazionale, come per la nostra Costituzione e il nostro diritto interno.
Per tutti i bambini, le bambine e gli adolescenti che abbiano meno di 18 anni, nessuno escluso, la stessa Convenzione, la più firmata al mondo e parte integrante del nostro diritto pubblico inviolabile di rango costituzionale, prevede un’accoglienza in affidamento in famiglia o in strutture loro dedicate, mai in promiscuità con adulti e certamente non in sezioni di centri destinati a questi ultimi, dei quali peraltro è nota la realtà di profonda inadeguatezza per un minorenne. Ogni trattamento differenziato di chi “ad una prima analisi appaia di età superiore ai sedici anni” come affermato dal Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri che il 27 settembre scorso ha approvato il Decreto-legge immigrazione e sicurezza, va incontro al fortissimo rischio di produrre discriminazioni tra minorenni italiani e stranieri e di porsi in drammatico contrasto con il principio del rispetto del superiore interesse del minore.
La determinazione dell’età, sulla quale il dibattito pubblico, spesso in maniera imprecisa e sommaria, si è soffermato nelle scorse settimane, ha tra i suoi scopi quello fondamentale di scongiurare il rischio che un/a minorenne venga per errore considerato/a un adulto/a. A questo tendono le procedure previste dalla L. 47/2017, attivabili soltanto in caso di fondato dubbio delle autorità sulle dichiarazioni dell’interessato, e i principi fondamentali su cui esse si basano: la presunzione di minore età, il margine di errore e l’applicazione di metodologie multidisciplinari che possono essere applicate, con gradualità e la minore invasività possibile e sempre in seguito a una puntuale, necessariamente preventiva, autorizzazione scritta e motivata della magistratura minorile. Lo scopo è scongiurare un nefando errore che possa portare un minorenne ad essere espulso o detenuto in spregio alle norme italiane, europee e internazionali.
Il testo delle norme adottate dal Consiglio dei Ministri non è ancora disponibile, né è stato condiviso con chi, nella società civile, da decenni si occupa dei migranti bambini, bambine e adolescenti che arrivano in Italia. Tali norme, stando a quanto descritto dal comunicato stampa e illustrato in conferenza stampa dal Governo, vanno in senso nettamente opposto rispetto ai principi enunciati e rischiano di minare alle fondamenta le norme esemplari della L. 47, adottate nel 2017 ad ampia maggioranza parlamentare. Se il testo confermerà l’approccio espresso nelle dichiarazioni, aspetti quali il mancato riferimento al fondato dubbio, la mancanza di previa autorizzazione scritta della magistratura minorile e del tutore, e l’applicazione di “rilievi antropometrici o di altri accertamenti sanitari, anche radiografici” disposti direttamente dalle forze di pubblica sicurezza, con successiva espulsione di chi, secondo questa procedura, fosse dichiarato erroneamente maggiorenne, aprono le porte a un destino rischioso e di possibili gravi violazioni dei diritti fondamentali di migliaia di potenziali minorenni, in particolare se provenienti da paesi cosiddetti “sicuri” e quindi destinati a essere sottoposti a procedure accelerate in frontiera laddove erroneamente considerati adulti.
Questo, per chiunque abbia a cuore la cura e la tutela di bambini e adolescenti, è inaccettabile.
L’Italia si è più volte distinta per l’attenzione ai minorenni, al centro della nostra civiltà e cultura giuridica, e per un generale approccio di tutela verso i piccoli e più giovani migranti, testimoniato ogni giorno da migliaia di tutori e tutrici volontarie, da famiglie affidatarie, attivisti, associazioni e da altre piccole e grandi comunità che più volte si sono strette a incoraggiare, supportare e proteggere i minori non accompagnati nei momenti più difficili.
Per la prima volta dalla sua adozione nel 2017, un Governo della Repubblica ha deciso di intaccare lo scrigno di protezione rappresentato dalla L. 47, senza peraltro chiarire quali siano i dati reali del presunto allarme, che a nessuna delle Organizzazioni firmatarie risulta, rispetto ad abusi diffusi della dichiarazione di minore età. Questo avviene, sorprendentemente, nonostante l’Italia sia stata condannata più volte dalla Corte Europea dei Diritti Umani per aver collocato minorenni migranti in centri per adulti e aver condotto procedure di accertamento dell’età senza garanzie procedurali sufficienti.
Tutto questo ci rattrista profondamente, ci lascia attoniti. Tuttora la nostra fiducia nei principi costituzionali ci impedisce di credere che avremo a breve un testo di legge che consenta a un minore ultra16enne di permanere in un centro per adulti solo perché non italiano. E che sottoponga ragazzini e ragazzine, loro malgrado senza documenti, a esami non caratterizzati da quel rigore e da quelle garanzie che il nostro ordinamento e tutte le norme e gli standard europei e internazionali vigenti riservano a ogni minorenne in qualsiasi procedura lo riguardi.
Poiché il nostro lavoro è improntato alla fiducia e alla determinazione, ci impegneremo, in dialogo con tutte le istituzioni coinvolte, affinché ciò non avvenga. Non ne va soltanto del destino concreto di migliaia di adolescenti che già molto hanno sofferto, ma dello stesso concetto di protezione del minorenne in quanto tale nel nostro ordinamento, e quindi della tutela complessiva di chi rappresenta il futuro del paese.
Ai.Bi.
Amnesty International Italia
ASGI – Associazioni per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione
Caritas Italiana
Centro Astalli
CeSPI ETS
Cir Onlus – Consiglio Italiano per i rifugiati
CNCA – Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza
CISMAI
Cooperativa CIDAS
Cooperativa CivicoZero
Defence for Children International Italia
Emergency ONG
Oxfam Italia
INTERSOS
Salesiani per il Sociale APS
Save the Children Italia
SOS Villaggi dei Bambini
Terre des Hommes Italia
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Attentato suicida in Turchia. Esplosione vicino al parlamento
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Pagine Esteri, 1 ottobre 2023. Nella mattinata di domenica, intorno alle 9.30 locali, una forte esplosione è stata avvertita nei pressi del parlamento turco, ad Ankara, vicino alla sede del Ministero dell’interno.
Proprio il ministro dell’interno, Ali Yerlikaya, ha dichiarato che due persone hanno tentato di compiere un attentato facendo esplodere un ordigno portato con un furgone all’interno dell’area che ospita diversi edifici e sedi governative. L’esplosione, effettivamente avvenuta, ha causato la morte di uno degli attentatori. L’altra persona coinvolta nell’attacco sarebbe poi stata uccisa dalle forze di sicurezza. Colpi di arma da fuoco sono stati uditi subito dopo l’esplosione.
Due agenti di polizia sono stati feriti e trasportati in ospedale. Le loro condizioni non sembrano gravi.
Nel primo pomeriggio di oggi il parlamento si sarebbe dovuto riunire per una seduta alla quale avrebbe dovuto partecipare anche il presidente Recep Tayyip Erdogan.
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Etiopia, la normalizzazione dell’ingiustizia per il Tigray
L’Europa ha preso la decisione ben porecisa secondo volontà politiche, di soprassedere, di non tutelare i diritti umani e la giustizia per le centinaia di migliaia di vittime che ha creato la guerra genocida in Tigray, Etiopia.
La guerra (4 novembre 2020, 2 novembre 2022) ha portato a stimare 800.000 morti, 120.000 stupri come vendetta sul popolo tigrino, attività di pulizia etnica, morti per fame come conseguenza del blocco alimentare umanitario prima e dopo la fine della guerra (le persone stanno morendo ancora oggi, il Tigray è ancora occupato dalla presenza amhara ed eritrea, gli abusi e le violenze sono in atto e sono presenti più di 1 milione di sfollati interni.Il sistema sanitario ancora oggi in grave crisi, è stato distrutto fin dal’inizio per l’80% a livello regionale. Campi, bestiame e raccolti, bruciati, distrutti e saccheggiati per affamare i civili.
Se tali numeri li paragoniamo ai poco più di 6 milioni di persone in Tigray (tra cui Irob e Kunama, minoranze etniche a ricschio) si può comprendere che la guerra di 2 anni è stata talmente micidiale per il popolo tigrino che si potrebbe categorizzare in un vera e propria volontà di sterminio della popolazione civile, genocidio.
Approfondimento: Etiopia, USA ed Europa hanno già scelto le sorti per la giustizia e le vittime della guerra genocida in Tigray
Il team di esperti di diritti umani delle Nazioni Unite è stato istituito nel dicembre 2021 (1 anno dopo che era iniziata la guerra in Tigray) per indagare i crimini di guerra e contro l’umanità in cui sono coinvolte tutte le forze. Da allora il team ICHREE, ha pubblicato 2 rapporti.
Nel primo report ha concluso che tutte le forze avevano commesso abusi durante la guerra in Tigray, alcuni come crimini di guerra. Il documento sentenziava anche che il governo etiope ha usato la fame come arma di guerra limitando l’accesso umanitario alla regione di oltre 6 milioni di persone, mentre erano in conflitto contro le forze tigrine.
Il secondo report, pubblicato nel settembre 2023 è stato affermato che il processo nazionale etiope per la giustizia di transizione (come punto fondante dell’accordo di tregua firmato a Pretoria il 2 novembre 2022) “è ben al di sotto” degli standard africani e nazionali.
Esistono lacune a livello normativo e di legge etiope che non permettono di giudicare crimini gravi come quelli di guerra e contro l’umanità e cosa non meno importante: nel contempo è da sottolineare che è lo stesso governo implicato nei crimini ada aver creato e a gestire il processo di giustizia di transizione.
Approfondimento: Etiopia, Perseguire Crimini Contro l’Umanità: Dov’é La Legge?
La commissione ONU verteva proprio sul fatto di una indipendenza nel processo di indagine per scongiurare proprio questi conflitti d’interessi: il team ha subìto vari tentativi da parte del governo etiope di essere fermato, dal blocco all’accesso alle aree di guerra a tentativi più formali in sedi internazionali tramite il voto anche degli alleati, come l’Eritrea.
Queste indagini sostenute dalle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani in Etiopia è destinata a scadere dopo che nessun Paese si è fatto avanti per chiedere una proroga, nonostante i ripetuti avvertimenti che gravi violazioni continuano a quasi un anno da quando il cessate il fuoco ha posto fine a una sanguinosa guerra civile. nel paese dell’Africa orientale.
Mentre l’Unione Europea conduceva i colloqui sulla questione, alla fine, non è stata presentata alcuna risoluzione per estendere il mandato della Commissione internazionale indipendente di esperti sui diritti umani sull’Etiopia – ICHREE, prima della scadenza del termine mercoledì al Consiglio dei diritti umani a Ginevra.
L’indagine verrà quindi sciolta alla scadenza del suo mandato questo mese.
Martedì 3 ottobre 2023 gli esperti della commissione hanno quasi implorato il consiglio di estendere l’indagine, avvertendo che le atrocità continuano nel Tigray, la provincia più settentrionale dell’Etiopia martoriata dalla guerra.
Tirana Hassan, direttore esecutivo di HRW – Human Rights Watch, ha affermato che:
“I membri dell’Unione Europea hanno abdicato alla loro responsabilità di garantire un controllo internazionale sui gravi abusi in Etiopia non rinnovando la commissione di esperti.Per le numerose vittime delle atrocità commesse in Etiopia che riponevano le loro speranze nella Commissione, questo è un colpo devastante.”
Un diplomatico di un paese dell’UE, come riporta AP – Associated Press, ha riconosciuto che il blocco ha accettato di non presentare una risoluzione e ha invitato il governo etiope a istituire meccanismi “robusti, indipendenti, imparziali e trasparenti” per promuovere la giustizia di transizione alla luce dell’“estrema gravità dei crimini”. ” e violazioni dei diritti in Etiopia.
Secondo AP, il diplomatico ha aggiuto in condizione di anonimato:
“Ci aspettiamo progressi rapidi e tangibili nei prossimi mesi. La mancanza di progressi potrebbe mettere a repentaglio la graduale normalizzazione delle relazioni tra l’UE e l’Etiopia”.
Di tutt’altro parere e approccio alla luce del sole l’Europa, visto che i leader europei si sono ben mossi per salvaguardare la tutela delle proprie risorse e status quo in e con l’Etiopia grazie al rafforzamento di quelli che dai politicanti e governanti vengono definiti “rapporti di cooperazione internazionale” per “stabilità” e “sviluppo economico”.
Basti ricordare che martedì 3 ottobre 2023 l’Unione Europea ha annunciato un pacchetto di aiuti da 650 milioni di euro (680 milioni di dollari) per l’Etiopia, il primo passo del blocco verso la normalizzazione delle relazioni con il paese, nonostante le precedenti richieste di responsabilità sui crimini di guerra e contro l’umanità.
La stessa Italia per dichiarazione pubblica del Min. Esteri Antonio Tajani, ha dichiarato volontà politica di rafforzamento cooperazione con governi dell’ Etiopia e dell’ Eritrea.Antonio Tajani, Ai Ministri degli Esteri Etiopia Eritrea Somalia ho confermato l’impegno del Governo a rafforzare cooperazione con i Paesi del Corno d’Africa
Volontà politiche globali precise dedite al rafforzamento per perseguire il capitalismo a discapito di tutto il resto, anche della tutela della giustizia e delle vittime.
I critici hanno denunciato l’inazione del consiglio dei 47 paesi membri.
L’indagine delle Nazioni Unite è stata l’ultima grande indagine indipendente sulla guerra del Tigray, che ha ucciso centinaia di migliaia di persone ed è stata segnata da massacri, stupri di massa e torture.
Come la commissione ICHREE, anche a giugno 2023, l’Unione Africana ha abbandonato la propria indagine sulle atrocità e crimini della guerra in Tigray, dopo ampie pressioni da parte dell’Etiopia.
Laetitia Bader, direttrice del Corno d’Africa presso Human Rights Watch, ha affermato che il mancato rinnovo del mandato consente in sostanza all’Etiopia di abbandonare l’agenda del Consiglio e equivale a:
“Un feroce atto d’accusa contro l’impegno dichiarato dell’UE nei confronti della giustizia.È l’ennesimo duro colpo per le innumerevoli vittime di crimini atroci che hanno riposto la loro fiducia in questi processi.”
La stabilità a lungo termine di una società e di un Paese si ottiene tutelando i diritti fondamentali degli individui e la giustizia. Senza le persone la società non esiste. La stabilità economica è un castello di carte e le persone non mangiano soldi.
Da non dimenticare una questione ancora aperta
Una questione ancora aperta, ma per la quale c’è già chi indaga per trasparenza e giustizia, è che accordi e in che termini il premier etiope Abiy Ahmed Ali ha preso con l’occidente per riuscire a bloccare le investigazioni sulle violazioni e abusi dei diritti umani in Etiopia.
Approfondimenti:
- Etiopia, 182 milioni di euro siglati tra la Presidente Giorgia Meloni e il Primo Ministro etiope in visita in Italia
- Etiopia, 6 milioni di euro italiani per l’ospedale di Adwa mentre gli sfollati in Tigray muoiono di fame
- Etiopia, la crisi umanitaria in Tigray continua, ma per l’Italia si è risolto tutto con l’accordo di Pretoria
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Turchia e Azerbaigian vogliono un pezzo di Armenia
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 5 ottobre 2023 – Russia e occidente continuano a rimpallarsi le responsabilità per l’ennesima tragedia nel Caucaso.
Per Mosca, la colpa della disfatta degli armeni sarebbe da addebitare al governo armeno guidato da Nikol Pashinyan, che avrebbe tradito la Russia per cercare il sostegno della Nato e dell’UE, che ovviamente non è arrivato. Gli USA nella regione non hanno voce in capitolo, e gli europei sono troppo interessati al gas azero per fare la voce grossa con il dittatore Ilham Aliyev.
É oggettivo che Erevan si sia avvicinata all’Alleanza Atlantica e a Bruxelles, ma non solo in ossequio all’orientamento filoccidentale del primo ministro eletto dopo la “rivoluzione di velluto” del 2018. Se Pashinyan ha cercato nuove sponde a occidente (ma anche in Iran e in India) è anche perché era ormai chiaro che Mosca non aveva alcuna intenzione di spendersi per la difesa degli armeni. Nonostante un patto di mutua assistenza militare con Erevan, Putin non si è mosso neanche quando gli azeri hanno aggredito lo stato sovrano armeno nel settembre 2022, e non più solo l’autoproclamata – ma non riconosciuta da nessuno – Repubblica di Artsakh creata dagli armeni dell’Azerbaigian nel 1991.
Specularmente, per europei e statunitensi la responsabile unica della catastrofe sarebbe Mosca, che cinicamente ha mollato gli armeni per proteggere le consistenti relazioni avviate con il regime di Baku e con la Turchia, paese che importa ingenti quantità di petrolio e gas dalla Russia e che con Mosca ha sviluppato un rapporto di alleanza/competizione distanziandosi dagli interessi di Washington.
La Repubblica dell’Artsakh non esiste più
Paradossalmente sono vere entrambe le versioni: tutte le potenze attive nel Caucaso, per un motivo o per l’altro, hanno lasciato mano libera all’esercito azero, provocando una catastrofe umanitaria e culturale la cui gravità, forse, la comunità internazionale comprenderà nei prossimi anni.
In neanche due settimane, man mano che le truppe azere prendevano possesso del territorio dell’Artsakh, più di centomila armeni – il 90% o forse più della popolazione totale dell’enclave – hanno abbandonato le loro case e le loro terre per rifugiarsi in Armenia, incolonnati per giorni su quel “corridoio di Lachin” che i 2000 peacekeeper russi schierati nel 2020 avrebbero dovuto difendere e che invece militari e funzionari azeri, travestiti da attivisti ecologisti, hanno completamente bloccato dando vita ad un assedio medievale.
Al termine di 10 mesi di assedio – che hanno causato fame ed estrema penuria di medicine e di carburante – la comunità armena del Nagorno-Karabakh era così stremata che quando a settembre le truppe azere hanno sferrato l’ennesimo attacco, il governo di Stepanakert ha resistito poche ore, dichiarando poi la resa totale.
Il 28 settembre il presidente dell’Artsakh Samvel Sergeyi Shahramanyan ha firmato il decreto che pone fine all’esistenza dell’entità dal primo gennaio del 2024. Le strade e le case di Stepanakerte delle altre città dell’enclave sono già deserte e presto la patria ancestrale degli armeni verrà ripopolata da profughi azeri (cacciati dagli armeni negli anni ’90) e da nuovi coloni inviati da Baku per assimilare le province riconquistate.
La Turchia approfitta della miopia di Mosca
I peacekeeper russi non si sono mossi e neanche le truppe di Mosca di stanza nella base che la Federazione possiede in Armenia. «Putin non poteva certo rischiare di entrare in conflitto con l’Azerbaigian e la Turchia per difendere un paese il cui governo flirta con la Nato voltando le spalle a Mosca» ripetono i media controllati dal Cremlino. In realtà se forse intervenuta per bloccare l’aggressione azera all’Armenia del 2022 e per evitare il blocco del corridoio di Lachin nei mesi scorsi, Mosca avrebbe potuto utilizzare la sua influenza e il suo peso militare e politico per convincere Aliyev a non forzare la mano senza sparare un colpo. Anche solo cristallizzando lo status quo venutosi a creare dopo l’aggressione azera del 2020, grazie alla quale Baku ha recuperato le 7 province contigue all’Artsakh occupate dagli armeni durante la guerra che ha insanguinato la regione dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90, Putin avrebbe evitato il precipitare degli eventi riuscendo senza scontentare troppo né Erevan né Baku.
Ma a furia di tollerare l’iniziativa dell’asse azero-turco, la presa di Mosca sull’area è notevolmente diminuita e si è affermata l’egemonia turca.
La Nato sfruttando la disillusione armena nei confronti della Russia per stringere accordi militari, economici e politici con Erevan, al solo scopo di indebolire il ruolo russo nel Caucaso. Martedì il parlamento armeno ha approvato l’adesione del paese alla Corte Penale dell’Aja; la mossa ha enormemente contrariato il Cremlino, sul cui inquilino pesa da mesi un mandato internazionale di cattura per crimini di guerra in Ucraina. D’altronde, i partiti e gli ambienti filorussi attivi in Armenia – protagonisti insieme ad altre forze di grandi manifestazioni per le dimissioni di Pashinyan, reo di aver abbandonato a se stessi gli armeni dell’Artsakh – hanno perso ogni credibilità di fronte all’opinione pubblica che considera Mosca non meno colpevole della catastrofe dell’occidente. Le minacce russe di un regime change a Erevan per togliere di mezzo Pashinyan (ma queste cose non le faceva solo il perfido occidente?) non aiutano.
All’UE interessa il gas azero
Anche le promesse di sostegno da parte dei paesi europei e di Washington si sono rivelate inconsistenti. Qualche mese prima dell’aggressione sul confine armeno era arrivata una pattuglia di inviati dell’Unione Europea, senza poteri e senza il sostegno dei propri governi. Durante lo scorso fine settimana, poi – quando l’Artsakh si era ormai svuotato dei suoi abitanti in fuga dalla repressione e dall’assimilazione azera – le Nazioni Unite hanno inviato una missione per “valutare le necessità umanitarie della situazione” nella regione interdetta da Baku ai giornalisti stranieri, mentre decine di leader politici e militari dell’enclave sono stati arrestati dagli occupanti.
Delle sanzioni all’Azerbaigian richieste da una settantina di parlamentari europei – Baku è governata da un regime autocratico spietato con gli armeni quanto con i dissidenti interni – neanche a parlarne: il gas e il petrolio estratti nel Mar Caspio sono troppo preziosi per l’Unione Europea, e soprattutto per Roma, alla ricerca di fonti alternative con cui rimpiazzare le forniture russe boicottate dopo l’invasione dell’Ucraina. Per non parlare dei miliardi in gioco nella ricostruzione delle province azere ripulite dagli armeni, molti dei quali finiscono nelle casse di aziende italiane ed europee.
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Lo schiaffo dell’Azerbaigian a Russia e Ue
Ma il vile comportamento delle varie potenze nei confronti degli armeni non è dettato esclusivamente dal cinismo.
La verità è che tanto a occidente quanto a Mosca i diversi governi hanno subito l’ennesima offensiva dell’asse azero-turco dimostrando una consistente miopia e scarsa lungimiranza.
Ieri l’edizione europea del giornale “Politico” ha informato che alcuni rappresentanti diplomatici di Stati Uniti, Unione Europea e Russia si sono incontrati a metà settembre in Turchia per una riunione diretta a sventare un peggioramento della situazione in Nagorno-Karabakh. L’incontro si sarebbe svolto il 17 settembre a Istanbul con la partecipazione di Louis Bono, consigliere senior di Washington per i negoziati nel Caucaso, di Toivo Klaar, rappresentante speciale dell’UE per la regione, e di Igor Khovaev, inviato speciale di Putin in Armenia e Azerbaigian. I tre paesi avrebbero chiesto e teoricamente ottenuto da Baku un allentamento dell’assedio agli armeni dell’Artsakh e la promessa di un rilancio dei colloqui di pace con Erevan. In quelle ore il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, si è più volte vantato dei presunti risultati ottenuti grazie alle pressioni europee sull’Azerbaigian.
Solo due giorni dopo l’incontro di Istanbul, il 19 settembre, le forze armate di Baku hanno attaccato i 10 mila miliziani dell’Artsakh, male armati e deperiti, in barba alle rassicurazioni offerte poche ore prima ai rappresentanti delle grandi potenze. Il regime azero ha giustificato “l’operazione antiterrorismo” come la necessaria risposta ad una imboscata armena ai propri militari, ma da settimane Baku stava ammassando truppe ai confini dell’Artsakh all’interno di un piano d’invasione evidentemente preordinato.
Durante l’offensiva le truppe azere hanno preso di mira una pattuglia di militari russi, uccidendone 5, compreso il vicecomandante del contingente russo Ivan Kovgan, e hanno bersagliato alcune postazioni dei peacekeeper russi. Solo degli errori, si sono giustificati a Baku; segnali della prepotenza dei soldati azeri che ormai si sentono padroni del Caucaso e non temono neanche il gigante russo, affermano altri.
Sulla base della stessa sensazione di onnipotenza, ieri le autorità azere hanno respinto l’invito a partecipare ad un incontro previsto per oggi a Granada, in Spagna, con i rappresentanti di Armenia, Unione Europea, Francia e Germania, per discutere il futuro della regione di cui Baku è rientrata in possesso dopo 30 anni e siglare un trattato di pace. Gli emissari di Aliyev hanno chiesto che alla riunione prendesse parte anche la Turchia, condizione respinta dai promotori dell’iniziativa, ed espresso forti riserve sulla partecipazione francese. Riconquistato l’Artsakh, Baku non ha alcuna reale necessità di negoziare con Erevan e anzi punta a nuove vittorie.
Le aspirazioni egemoniche della Turchia, le rivendicazioni azere sull’Armenia e il ruolo di Israele
È inoltre evidente sin dall’inizio della crisi che dietro le pretese dell’Azerbaigian – ormai potenza energetica di primo livello – c’è proprio la Turchia. Ankara considera la repubblica turcofona una parte del grande popolo turco (“un popolo, due stati”) ma anche uno strumento per far valere le proprie aspirazioni da grande potenza in Asia centrale. Per questo in tutti questi anni Erdogan ha armato, addestrato e sostenuto con consiglieri e mercenari le truppe di Baku che contemporaneamente hanno potuto contare anche sul pieno sostegno di Israele. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, tra il 2016 e il 2020 quasi il 70% delle armi acquistate dall’Azerbaigian grazie ai proventi dell’industria petrolifera provenivano proprio dallo “stato ebraico”, incuneatosi così in un’area dove non aveva in precedenza alcuna influenza. Anche pochi giorni prima dell’ultimo blitz contro l’Artsakh di settembre a Baku sarebbero atterrati vari cargo pieni di armi israeliane.
Forse Mosca e le cancellerie europee pensavano di contenere le ambizioni azere e turche tollerando la riconquista dell’Artsakh da parte di Baku, ma appare evidente che Azerbaigian e Turchia nutrono ben altre aspirazioni.
A pochi giorni dalla fulminante vittoria azera contro ciò che rimaneva dell’Artsakh, Aliyev ha incontrato il suo omologo turco Erdogan nella Repubblica del Nakhchivan, una exclave azera separata dal resto del paese da una regione dell’Armenia meridionale. Baku pretende la realizzazione di un corridoio stradale e ferroviario in territorio armeno che colleghi le due parti del paese, esistente fino all’inizio degli anni ’90 e poi saltato dopo l’inizio del conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche. Per Erdogan il progetto è ancora più rilevante, perché concederebbe all’economia e alle aspirazioni imperiali turche una proiezione verso l’Asia centrale, le altre repubbliche turcofone ex sovietiche e la Cina, aggirando sia la Russia sia l’Iran.
Lunedì Erdogan e Aliyev hanno già inaugurato i lavori di realizzazione di un nuovo gasdotto che collegherà il Nakhchivan con la regione turca di Igdir, in attesa di poterlo prolungare fino a Baku passando nel corridoio di Zangezur.
Aliyev ha spesso chiarito che se non dovesse ottenere il corridoio di Zangezur con le buone – sul confine meridionale armeno e alle porte dell’Iran, che osserva con preoccupazione il precipitare della situazione a nord della sua frontiera e su è detto disponibile a inviare osservatori al confine tra Armenia e Azerbaigian – lo farebbe con la forza, prendendosi anche i territori dell’Armenia meridionale che d’altronde il “presidente a vita” azero ha definito ancora recentemente “Azerbaigian occidentale”. Senza un consistente sostegno esterno, economico e militare, l’Armenia non avrebbe alcuna chance di fermare le truppe azere e di impedire l’occupazione della provincia di Syunik, dove tra l’altro si trovano degli importanti giacimenti di rame e molibdeno.
A quel punto la Russia, il cui ruolo di paciere è già compromesso, si troverebbe a fronteggiare uno scenario alquanto spiacevale, dovendo decidere se fronteggiare anche militarmente l’iniziativa turco-azera, con tutte le conseguenze del caso, o se tollerare un’ulteriore ascesa di Ankara in un quadrante tradizionalmente di sua competenza.
La Francia offre protezione a Erevan
La difficoltà di Mosca nel Caucaso è tale che nei giorni scorsi la Francia – tradizionale protettore degli armeni e potenza energetica nucleare assai meno dipendente dal gas azero rispetto ai propri partner europei – ha deciso di entrare in scena con maggiore determinazione.
In visita a Erevan la Ministra degli Esteri di Parigi, Catherine Colonna, ha informato che Parigi ha accettato di consegnare non meglio precisati equipaggiamenti militari alla piccola nazione del Caucaso meridionale per garantire una migliore difesa del paese. Segno che l’ipotesi di un’aggressione militare azera all’Armenia è tutt’altro che remota.
Nel frattempo la moneta armena si è svalutata del 15% in un solo giorno e il piccolo e povero paese deve ora pensare a come sistemare i 100 mila profughi dell’Artsakh che nei giorni scorsi hanno varcato la sua frontiera. – Pagine Esteri
Leggi anche: L’Azerbaigian piega gli armeni, abbandonati da Russia e Nato
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Oggi è la Giornata Mondiale degli Insegnanti 📚
In occasione di questa ricorrenza si celebra la sottoscrizione delle Raccomandazioni dell'UNESCO sullo status di insegnante, la principale struttura di riferimento per i diritti e le responsabilità de…
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Chat control gate: EU Home Affairs Commissioner Johansson fails to credibly dispel lobbying revelations
Following reports from several European media outlets about the close involvement of foreign tech and law enforcement lobbyists in the preparation of the controversial Child Sexual Abuse or Chat Control Regulation [1], the European Parliament’s Civil Liberties Committee (LIBE) last week demanded “clarifications and explanations on the allegations” by EU Home Affairs Commissioner Ylva Johansson. In her response, Johansson attempts to dispel the affair.
[2]Patrick Breyer (Pirate Party), member of the Civil Liberties Committee and co-negotiator of the proposed regulation, comments:
“It was only to be expected that Johansson would reply to our letter with her usual propaganda, including citing a biased and suggestive Eurobarometer poll that violates the rules of good public opinion research. Other polls found overwhelming opposition.
[3]Contrary to the appearance she tries to create, only Thorn was provided with access to top Commissioners and President von der Leyen, certainly not civil society.
The opposition to the bill does not come mainly from Big Tech, but from IT security experts, human rights activists, journalists, and child welfare associations, including victims of child sexual abuse. [4] Big Tech in reality prompted the Chatcontrol 1 regulation, and collaborated in Johansson’s backdooring encryption working group. They are also involved in the lobby network WeProtect.
As independent fact-checkers have confirmed, Johansson’s words cannot be trusted.
[5]To be able to really hold her accountable for her foreign-interfered legislative proposal and lobbying in office, we need full access to all correspondence of DG Home with stakeholders, to see for ourselves the reality .”
[1] balkaninsight.com/2023/09/25/w…
[2] patrick-breyer.de/wp-content/u…
[3] patrick-breyer.de/en/poll-72-o… patrick-breyer.de/en/chatcontr…
[4] edri.org/our-work/most-critici…
[5] euractiv.com/section/platforms…
Famiglie e carrello
La discordia innescata da un pomo è non soltanto un classico, ma anche un trastullo diversivo. Non privo di momenti epici e comici, con a declamare le magnifiche doti della famiglia ‘tradizionale’ quelli che poco la frequentano o troppo la moltiplicano e tutti pronti a difendere bimbi che poco si mettono al mondo. Inutile cercare dietro quelle parole, perché c’è il nulla. Ma è molto significativo che si cerchi affannosamente di dividersi sull’immaginario, laddove si potrebbe festeggiare la convergenza sostanziale, l’afflato unitario, il ritrovarsi giulivo.
Il 32,1% dei nuclei familiari è composto da genitori con figli (la grande maggioranza, che pesa il 23,4%, con un solo figlio), mentre quanti vivono da soli quotano il 33,3%. I primi sono oggi 8,2 milioni di persone, i secondi 8,4 milioni. Seguendo l’attuale andazzo, l’Istat calcola che nel 2040 (domani mattina) i primi si saranno ridotti a 6,4 milioni, mentre i secondi saranno cresciuti a 10,1 milioni.
Il mercato se n’è già accorto, regolando le confezioni: si possono prendere pomodori pelati in confezioni che un tempo sarebbero state considerate ridicolmente micragnose, ma che ben rispondono al doverci condire gli spaghetti per uno o due persone. La politica non se n’è accorta e continua a vivere di miti. Anche perché accorgersene significa dovere rivedere le politiche previdenziali e sanitarie, non soltanto quelle sentimentali. Ed è qui che il pomo torna utile.
Nel mentre ci si dilaniava attorno alla fenomenologia della pesca, sono successe due cose: la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza e il carrello tricolore. Entrambe retoricamente riconducibili alle politiche per le famiglie. Ma se sul pomo il cielo è scuro e squarciato da lambi, sul resto si fa sereno e d’augelli popolato. Difatti, mi è sfuggita l’indignata reazione dell’opposizione per l’aumento del deficit e il rallentamento (si spera, perché quello è un blocco) della riduzione del debito. Partito democratico e 5 Stelle non mancheranno di farci giungere la loro diversa e convergente indignazione per sgravi fiscali troppo bassi e contributi effimeri o benefici omeopatici, ma saranno note inserite nello spartito della solita musica: ci vorrebbe più spesa pubblica. A parti invertite sarebbe – sicuramente – la stessa cosa e la destra non farebbe mancare la sua uguale e rovesciata indignazione; e cos’è, questa, se non convergenza? Il rissoso mondo politico italiano ritrova la pace nel chiedere al bilancio pubblico quel che al bilancio pubblico non andrebbe chiesto. Poi, certo, a chi tocca redigerlo tocca anche cadere in contraddizione. Sono inconvenienti del mestiere.
Così come mi è sfuggito lo sdegno per il carrello tricolore. Anzi, l’unità d’intenti e di stenti ha preso corpo in intere paginate di pubblicità pro governativa comperate da Coop, che il senso comune e la tradizione economica annettono alla sinistra. Mentre l’opposizione – capace di sostenere che a far scendere i prezzi non siano gli accordi di cartello e carrello per gli sconti mascherati da altruismo, bensì la concorrenza che propone la convenienza del disertare il falso scontatore – è lasciata a qualche residuato di scolarizzazione, presto sbeffeggiato per idolatria libbberista.
Non è un caso che menti fini si siano dedicate alla ricerca di cosa distingua la destra dalla sinistra, taluni riuscendo a tracciare le suggestioni che da una parte traslocano nell’altra. Ci vuole mestiere e impegno, giacché il nostro guaio nazionale è la difficoltà nel distinguerle.
La Ragione
L'articolo Famiglie e carrello proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Quali priorità per la Nato dopo Vilnius? Il dibattito alla Farnesina
Il vertice di Vilnius si è concluso con l’annuncio di un considerevole incremento negli sforzi di deterrenza, difesa comune e cooperazione di sicurezza con i Paesi partner nell’Indo-Pacifico e nel Medio oriente. Allo stesso modo, le crescenti incognite nello scenario internazionale hanno comportato una profonda revisione strategica nella Nato, così come delle importanti riflessioni sul futuro dell’Alleanza. Questi i temi che verranno trattati dagli specialisti internazionali presenti alla conferenza “Nato 2023. Balancing priorities after the Vilnius Summit”, presso la sala delle Conferenze internazionali della Farnesina, venerdì 6 ottobre, dalle ore 14:50. Agli interventi di apertura prenderanno parte Alessandro Minuto-Rizzo, presidente Ndcf, Riccardo Guariglia, segretario generale del Maeci, Florence Gaub, direttrice della Divisione ricerca del Nato Defense college e Nicolò Russo-Perez, responsabile delle Relazioni internazionali per la Compagnia di San Paolo.
Il primo panel, moderato da Oana Lungescu, già portavoce della Nato, analizzerà nel dettaglio il tema cruciale della ripartizione delle responsabilità e dei costi tra gli alleati. In particolare, si tratterà la questione degli investimenti in emerging e disruptive technologies e il ruolo del Defence innovation accelerator for the North Atlantic (Diana) per accrescere il budget destinato al tema. Alla discussione si aggiungeranno gli approfondimenti di esponenti di rilievo dell’industria della Difesa quali Stefano Pontecorvo (presidente di Leonardo) e Giovanni Soccodato (managing director di MBDA Italia).
Il secondo panel sarà introdotto da Marco Peronaci, rappresentante permanente italiano presso la Nato, che condividerà una riflessione sulla funzione dell’Italia in seno all’Alleanza Atlantica. Il panel si concentrerà sulla rivitalizzazione della partnership con i Paesi Mena e dell’Indo-Pacifico, sulla cooperazione tra Nato e Gulf cooperation council e sul contrasto alle minacce esterne nella fascia tra Siria e Sahel, moderato dal direttore di Airpress e Formiche, Flavia Giacobbe.
La conferenza verrà poi conclusa dal presidente della commissione del Senato Politiche dell’Unione europea, l’ambasciatore e senatore Giulio Terzi di Sant’Agata.
“AI addestrate con i dati personali ecco le responsabilità “
Sottrarre (o almeno provarci) i dati personali che si pubblicano online all’addestramento degli algoritmi è un obbligo o solo un diritto dell’editore, del gestire del sito o del social? Vale forse la pena di ragionarne | Qui il l’articolo completo agendadigitale.eu/mercati-digi…
“Automotive Campus “
È stato un piacere partecipare all’automotive campus e ragionare con centinaia di addetti ai lavori (costruttori e fornitori di servizi) di quanto i dati personali siano ormai protagonisti anche nel mercato automobilistico e di quanto occorra essere prudenti
Realizzato da Leonardo, è ufficialmente operativo il primo centro paneuropeo per la gestione dinamica in tempo reale dei rischi cyber
Di Alessandro Patella su Wired Italia
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
Leonardo lancia il primo centro europeo di cyber analisi
Analizza terabyte di dati per monitorare i rischi di attacchi informatici e garantire maggiore sicurezza a livello europeoAlessandro Patella (Wired Italia)
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Cosa sappiamo del sottomarino nucleare cinese (forse) affondato
Un sottomarino d’attacco a propulsione nucleare Type 093 (denominazione Nato “Shang”) della Marina militare dell’Esercito popolare di liberazione cinese avrebbe subito un gravissimo incidente lo scorso agosto, portando alla morte 55 membri dell’equipaggio. Lo scrive in esclusiva il quotidiano britannico Daily Mail, che cita un rapporto dell’intelligence britannica.
Secondo il rapporto, il sottomarino, impegnato in una missione imprecisata nelle acque del Mar Giallo, è rimasto impigliato il 21 agosto scorso in una trappola per sottomarini precedentemente posizionata proprio dalle forze cinesi contro eventuali intrusioni di sottomarini statunitensi e dei Paesi loro alleati. L’urto con l’ostacolo avrebbe “causato guasti ai sistemi che hanno richiesto sei ore per riparare e riportare in superficie il vascello”. In quel lasso di tempo, un “guasto catastrofico” del sistema di rigenerazione dell’aria avrebbe causato la morte per ipossia di 17 marinai e 22 ufficiali, incluso il comandante del sottomarino, Xue Yong-Peng.
Ufficialmente, la Cina nega che l’incidente sia mai avvenuto, e ha bollato come “completamente false” le indiscrezioni in proposito. Ufficiosamente, Pechino avrebbe respinto dopo l’incidente diverse offerte di assistenza internazionale. Quanto alla sorte del sottomarino, non è chiaro se l’unità sia stata recuperata o se sia andata definitivamente perduta a seguito dell’incidente.
“C’erano rumor” ad agosto, alimentati soprattutto dai media taiwanesi, “è plausibile”, risponde su X uno dei maggiori esperti di questi temi, H I Sutton.
There were rumors at the time, it’s plausible t.co/OVRhtP09na— H I Sutton (@CovertShores) October 3, 2023
Lo storico Phil Weir ha fatto notare che non sembrano essere state registrate attività insolite da parte delle navi cinesi di supporto/salvataggio sottomarini.
I’d have thought a key marker would be some unusual activity from their submarine support/rescue ships. The North Sea Fleet has at least four, & PLAN has at least three DSRVs, including an LR-7 they bought from Britain.
I’ve not heard anything, but haven’t been closely watching— Dr Phil Weir (@navalhistorian) October 3, 2023
EU Committee: Home Affairs Commissioner Johansson needs to explain lobbying links
The pressure on Ylva Johansson is mounting: Following the reports of several European media on the close involvement of lobbyists in the preparation of the controversial Child Sexual Abuse Regulation, the European Parliament’s Civil Liberties Committee (LIBE) is now asking her for „clarifications and explanations concerning the allegations“. The Committee Chair’s letter sent yesterday points to a potential „conflicts of interest“ and „possible undue influence in the drafting of the proposal“ for a Child Sexual Abuse Regulation, including by tech stakeholders that have „economic interests“ in the legislation.
Research published this week by several European media outlets has revealed that an international campaign involved in the drafting and supporting of the EU’s proposed child sexual abuse regulation is being largely orchestrated and financed by a network of organisations with links to the tech industry and security services. Today it was revealed additionally that two Europol staff have started working for Thorn, a company lobbying for the proposal. The controversial “chat control” regulation would require providers to indiscriminately scan and potentially disclose all private electronic messages and photos using error-prone technology and „artificial intelligence“.
Member of the Civil Liberties Committee and co-negotiator on the proposed regulation Patrick Breyer (Pirate Party) calls for further steps:
„Johansson will reply to our letter with her usual propaganda on the alleged urgency of her proposal – an argument which we now know has been scripted by a PR agency paid with money of a foreign foundation with ties to US law enforcement. As independent fact-checkers have confirmed, her words cannot be trusted.
To be able to really hold her accountable for her foreign-interfered legislative proposal and lobbying in office, we need full access to all correspondence of DG Home with stakeholders.“
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Finalmente in italiano l'inchiesta di Giacomo Zandonini che fa tremare la Commissione Europea «Il pericolo della “porta sul retro” imposta dal regolamento europeo anti-pedopornografia»
Gli appetiti dei privati – profit e non profit – sui sistemi di detection delle immagini, l’approccio “lasco” agli ordini di ricerca e le richieste aggiuntive di Europol in termini di possibilità d’indagine sono alcune delle rappresentazioni concrete del Rubicone da non varcare citato dal Garante europeo Wojciech Wiewiórowski: costringere ogni app, sito o piattaforma a mantenere una “porta sul retro” espone chiunque al rischio di essere spiato all’interno di una piazza virtuale, sia da agenti, sia da criminali. Mentre la Commissaria Johansson e la rete di lobby con cui ha stretto rapporti nell’ultimo biennio spingono per chiudere l’iter legislativo al più presto, con la fine dell’estate i negoziati sembrano bloccati.
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In Cina e Asia – De-risking, l’Ue lancia una nuova strategia di sicurezza che guarda alla Cina
I titoli di oggi: De-risking, l’Ue lancia una nuova strategia di sicurezza che guarda alla Cina Ucraina, tre aziende petrolifere cinesi “sponsor della guerra” India, raid della Polizia contro redazione online: “È propaganda cinese” Banca mondiale, nel 2024 tassi di crescita al ribasso per la Cina Pacifico, le Marshall non rinnovano il patto siglato con gli Usa Mar Cinese Meridionale: ...
L'articolo In Cina e Asia – De-risking, l’Ue lancia una nuova strategia di sicurezza che guarda alla Cina proviene da China Files.
“Summit internazionale sulla protezione dell’infanzia”
Domani 5 ottobre sarà un piacere e un onore intervenire al Summit internazionale sulla protezione dell’infanzia. Grazie a ICMEC per l’invito. Dobbiamo trovare un equilibrio tra protezione dei minori e della privacy.
LIBANO. Nel Cimitero della Palestina riposa il sogno della rivoluzione araba
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testo e foto di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 4 ottobre 2023 – «Ecco, questa qui è la tomba di una donna francese e lì c’è quella di Ghassan Kanafani». Mahmoud Safadi di questo luogo sa tutto, conosce la storia di ogni singola persona seppellita nel cimitero. È il custode e vive giorno e notte tra queste tombe che cura per conto dell’Olp. «Ghassan (Kanafani) – ci dice – è stato uno dei più grandi intellettuali e scrittori palestinesi. Fu ucciso dal Mossad (israeliano) nel 1972, assieme alla nipote di 17 anni, Lamis. Un bomba fece saltare in aria la sua automobile». Ci invita a seguirlo. Sciorina nomi a ripetizione: Ali Hasan Salameh (il principe rosso), Shafik al Hout, Salah Ibrahim Said e così via. È la storia del movimento di liberazione palestinese e di un’era del Medio Oriente ormai dimenticata o forse ignorata di proposito dalla narrazione «autorizzata».
Siamo a Beirut, nel Cimitero dei Martiri della Palestina o come, più giustamente, lo chiamano alcuni, il cimitero dei martiri della rivoluzione palestinese. Non lontano da qui c’è un altro cimitero, quello delle migliaia di vittime palestinesi del massacro di Sabra e Shatila del 1982, un luogo dovrebbero esserci anche due giornalisti italiani, Stefano Chiarini e Maurizio Musolino, che avevano dedicato una buona parte della loro vita a tenere accesi i riflettori sulla questione palestinese.
In Israele definirebbero questo luogo, al quale Mahmoud riserva tutta la cura possibile, un «cimitero di terroristi» considerando che una parte di coloro che vi sono seppelliti hanno partecipato ad attacchi armati tra gli anni Settanta e Ottanta o sono stati leader e militanti di organizzazioni combattenti dell’Olp. Ma forse nello Stato ebraico lo ricorderebbero solo come il luogo dove giace l’odiato mufti di Gerusalemme, Hajj el Amin Hussein.
È qualcosa di ben diverso. Il Cimitero dei Martiri della Palestina è la rappresentazione del sogno di uomini e donne, di ogni angolo del mondo, di diversi orientamenti ed ideologie, di una rivoluzione, quella palestinese, che non aveva come obiettivo solo quello di realizzare i diritti di un popolo scacciato dalla sua terra ma anche di scardinare le fondamenta politiche e sociali del Medio Oriente. Una rivoluzione che voleva abbattere le barriere religiose e la struttura tribale del mondo arabo sulla base di un’idea: la liberazione da tutte le oppressioni.
Il Cimitero dei Martiri della Palestina è l’unico del Medio Oriente dove uomini e donne sono stati sepolti assieme senza tenere conto della loro religione, origine, ceto sociale.
«Qui sono sepolti sunniti e anche alcuni sciiti, cristiani, arabi, curdi, europei, nordafricani, un russo, diversi asiatici, anche Balqis al Rawi, moglie del celebre poeta siriano Nizar Qabbani, morta in un attentato all’ambasciata dell’Iraq a Beirut nel 1981. Persone che avevano una visione comune del mondo e che credevano in una rivoluzione che doveva liberare i palestinesi e tutti gli arabi», ci dice Sari Hanafi, docente dell’Università americana di Beirut, esperto di profughi palestinesi in Libano. «Oggi che il mondo, non sono quello arabo, è dilaniato dal settarismo religioso, dal conflitto tra musulmani sunniti e sciiti, dalle tensioni tra fedi diverse, questo cimitero ha un valore che va oltre quello simbolico. Ci spinge a pensare di nuovo a un mondo senza differenze tra gli esseri umani, che punta al progresso. Ci aiuta a capire che le lotte del passato non sono state vane», aggiunge Hanafi.
Mahmoud ci guida ancora tra le lapidi. Sotto un poster enorme con l’immagine del presidente palestinese Yasser Arafat, morto nel 2004 e sepolto a Ramallah, in Cisgiordania, accanto alle tombe di due giapponesi, c’è una lapide con inciso il nome di Kamal Mustafa Ali, uomo del Bangladesh. Non vi è alcuna menzione di chi fosse e nemmeno una data di nascita. Sulla lastra di marmo oltre al nome e al giorno della morte, 22 luglio 1982, c’è solo un versetto del Corano. Mahmoud dimostra di sapere tutto anche in questo caso. «Ali – ci dice – fu colpito a morte durante la battaglia al Castello di Beaufort, vicino Nabatiyeh, l’ultima disperata resistenza dei combattenti dell’Olp contro le truppe israeliane che avevano invaso il Libano e che presto sarebbero arrivate qui a Beirut». Dal Bangladesh furono decine, o forse di più, coloro che si unirono ai ranghi di Fatah, del Fplp e delle altre formazioni dell’Olp, convinti che la lotta dei palestinesi avrebbe spinto alla sollevazione le popolazioni asiatiche contro le oppressioni sociali ed economiche. Di loro si sa pochissimo, come di Kamal Mustafa Ali. Mahmoud non ricorda di aver mai accolto famiglie di quel Paese.
Varcano l’ingresso del cimitero due signore. Non portano il velo. Ci avviciamoci incuriositi, facciamo qualche domanda. All’inizio la nostra invadenza non è gradita. «Siamo qui per pregare sulla tomba di nostra madre», ci risponde secca una di loro per tenerci a distanza. Qualche attimo dopo l’altra, forse temendo di essere stata scortese, accetta di risponderci. Ci confida di essere la sorella di un importante esponente dell’Olp di cui però non vuole fare il nome. «Mia madre non era una combattente, non faceva parte di alcuna organizzazione politica, ma ha sempre creduto in certi ideali e ci aveva chiesto di essere sepolta qui, per trascorrere, come diceva lei, il suo sonno eterno con il resto del mondo».
La signora, che si presenta come Nisrin, nome forse inventato al momento per non rivelarci quello vero, ora è meno diffidente e inizia a spiegarci il presente più che raccontarci il passato scandito dalle lapidi intorno a noi. «Non è facile vivere in una regione nella quale non ci si ritrova più», afferma. «Il Libamo, la Palestina, il Medio Oriente sono sempre state terre di sofferenza e lutti, che troppe volte ci sono stati portati da voi occidentali. Ora però – prosegue – abbiamo raggiunto le profondità più nere dell’animo umano. La fede che avevamo chiuso nell’ambito spirituale, delle convinzioni personali, è diventata lo strumento che certi leader religiosi e politici usano per spaccare le loro stesse popolazioni e portare morte e distruzione ovunque. In questo cimitero perciò ci vengo per pregare sulla tomba di mia madre e per ritrovare un po’ di serenità».
Mahmoud è intento a lucidare una lapide. Si sposta verso la tomba di Ghassan Kanafani, rimuove qualche fiore secco, sistema meglio quelli ancora freschi. Da lontano lo ringraziamo. Lui ci saluta con un timido gesto della mano, poi torna al suo lavoro strofinando forte con un panno la lastra di marmo. Pagine Esteri
Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto
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PRIVACYDAILY
Le fakenews della commissaria agli affari interni Ylva Johansson su chatcontrol nella newsletter di Privacy Chronicles di Matteo Navacci
"nessuno ci ha ancora spiegato in che modo un regime di sorveglianza di massa totalitario sulle comunicazioni (chat, email, ecc.) di 500 milioni di persone possa in qualche modo evitare che un bambino venga violentato nella sua stanzetta"
Sei sicuro di volerlo sapere?
Clicca per aprire/chiudere
Forse inoculando un malware "buono" nei dispositivi di acquisizione audio e video presenti in ogni cameretta di ogni bimbo? 🙄like this
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Weekly Chronicles #48
Dimmi con cosa ti scaldi, e ti dirò chi sei
La Regione Toscana ha deciso di imporre ai suoi cittadini un obbligo di “accatastamento” degli impianti a biomassa presenti nelle loro case. Entro il 30 settembre i toscani dovranno dichiarare alla Regione se possiedono un camino, una stufa a legna o una stufa a pellet nelle loro abitazioni.
Insomma un censimento obbligatorio con tanto di sanzioni pecuniarie per chi cercherà di nascondere i suoi camini alle squadre di ricognizione dell’Arpat, l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Toscana.
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Lo scopo è, citando il sito della Regione1: “mettere in relazione la diffusione di questi impianti e i fenomeni di inquinamento da PM10, al fine di migliorare le politiche per il contrasto dell'inquinamento atmosferico.”
Come fa una pubblica amministrazione a contrastare l’inquinamento atmosferico? Con gli incentivi economici. O meglio: con le tasse. Che poi è esattamente ciò
L’obiettivo è modificare il comportamento delle persone e valutare l’impatto ambientale della vita di ognuno di noi. Una volta fatto questo, saranno introdotte delle quote CO2 personali attraverso i nuovi strumenti d’identità digitale. Che poi è quello che prevedono anche le raccomandazioni del World Economic Forum (ne ho parlato qua, se non l’hai letto ti consiglio di farlo…).
La schedatura è il primo passo.
La breve storia triste di un’anziana signora e il suo T-RED
Oggi voglio condividere con voi questo bell’articolo scritto da Carlo Blengino (che se non sbaglio è un lettore) che parla delle tristi disavventure di una signora e un temibile T-RED, il macchinario automatizzato che rileva le infrazioni semaforiche.
«Per almeno 12 volte il T-RED ha rilevato una Fiat Tipo proveniente dal centro della città che poco prima delle 23 supera lentamente la linea semaforica nonostante la luce rossa. Quando la signora capisce la ragione della convocazione sembra sollevata, salvo vacillare appena intuisce l’importo complessivo della sanzione e che la decurtazione dei punti dalla patente le impedirà di guidare nei prossimi mesi»
È una storia che ancora una volta ci fa ben comprendere l’inutilità della sorveglianza cittadina, promossa dai sindaci-feudatari come strumento di civiltà e sicurezza urbana, ma niente più che un modo di far cassa con la vita delle persone — anche e soprattutto quando la condotta della persona, pur essendo tecnicamente in violazione di legge, non pone nessuno in pericolo.
È una storia che ci ricorda che le leggi e le sanzioni, qualsiasi esse siano, se applicate meccanicamente e sistematicamente ad ogni infrazione, sono per definizione tiranniche. Il futuro che ci aspetta, nelle nostre belle città intelligenti, è proprio questo: una spietata tirannia della legge applicata sistematicamente e senza eccezione alcuna dalle macchine.
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I bambini — qualcuno salvi i bambini!
La cara YIva Johansson, commissaria della Commissione Europea responsabile per la proposta di regolamento chiamata Chatcontrol (non lo conosci? Dai ne ho parlato tantissimo…) oggi ha voluto esporsi su X con un breve video per spiegare le ragioni di questa legge.
Ci sono dei tentativi di creare confusione di questo regolamento, dice Yiva nel video. Non è come pensate! La proposta è lì per proteggere i bambini dalla violenza sessuale. È lì per proteggere le vittime di questi crimini. Oggi un bambino su cinque viene violentato, continua la cara YIva.
Tutto molto bello, se non fosse che nessuno ci ha ancora spiegato in che modo un regime di sorveglianza di massa totalitario sulle comunicazioni (chat, email, ecc.) di 500 milioni di persone possa in qualche modo evitare che un bambino venga violentato nella sua stanzetta.
Certo — magari su milioni di intercettazioni le forze dell’ordine potranno catturare qualche pedofilo o limitare la diffusione di alcuni contenuti, ma il bambino ormai avrà comunque la vita rovinata. Che protezione è mai questa? E non dimentichiamo che tale sorveglianza di massa non lascerà scampo neanche ai bambini che dicono di voler proteggere. Tutte le chat, foto e video dei vostri figli saranno sotto l’occhio vigile di algoritmi e persone assunte proprio per spiarli.
Fortunatamente le Community Notes di questo splendido social che fa tanto schiumare gli amici di sinistra non si sono fatte attendere, rimettendo al suo posto la cara YIva e mostrandola per quello che è: una propagatrice di disinformazione, propaganda e terrorismo psicologico.
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Weekly memes
Weekly quote
“Everything we hear is an opinion, not a fact. Everything we see is a perspective, not the truth.”
Marcus Aurelius
siert.regione.toscana.it/cit_a…
Missili ipersonici. Rischi e opportunità secondo lo Iai
L’importanza delle tecnologie ipersoniche è ben nota. Data la loro imprevedibilità, il loro carattere destabilizzante e la loro capacità di trasportare testate nucleari, possedere missili ipersonici comporta un notevole vantaggio strategico. Tali tecnologie si inseriscono in un contesto di crescente complessità: la guerra in Ucraina ha infatti, dimostrato quanto sia importante un giusto equilibrio tra capacità offensive e difensive, in ottica di deterrenza. Mosca e Pechino, poi, possono vantare un sistema missilistico ipersonico a livello avanzato, mentre il paradigma difensivo dei Paesi Nato è oggi in discussione. Questi i temi principali discussi all’Istituto affari internazionali in occasione della presentazione della ricerca curata da Karolina Muti con Alessandro Marrone e Michelangelo Freyrie “Le capacità missilistiche ipersoniche stato dell’arte e implicazioni per l’Italia”, alla presenza dell’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dello Iai, moderato dal vice presidente Michele Nones.
Tra offesa e difesa
“In passato era semplice tracciare una linea che distinguesse le tecnologie offensive da quelle difensive, oggi il compito è arduo”, ha detto Luciano Bozzo, professore del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’università di Firenze, che ha altresì sottolineato l’importanza del bilanciamento economico-strategico tra offesa e difesa, dialettica caratteristica delle relazioni tra potenze. In un sistema internazionale “caotico”, l’ha definito Bozzo, i missili ipersonici costituiscono un importante vantaggio, rischiando una corsa agli armamenti. Diventa pertanto essenziale conciliare deterrenza e collaborazione internazionale.
Approccio multidominio
Le armi ipersoniche sono vere e proprie tecnologie disruptive che cambiano gli equilibri strategici globali. Pertanto, ha detto il generale Carmine Masiello, sottocapo di Stato maggiore della Difesa, l’approccio multidominio “deve diventare la nostra forma mentis nello sviluppo degli strumenti della difesa”. In particolare, il generale ha ricordato l’incidenza dei domini spaziale e cyber, essenziali nel contrasto alle minacce ipersoniche. Masiello ha, inoltre, segnalato la necessità di accrescere la cooperazione europea, così da aumentarne l’autonomia strategica, e di rafforzare la preparazione scientifica e umanistica del capitale umano.
Come affrontare la sfida?
“È un obbligo della Difesa trovare soluzioni non solo per difenderci, ma anche per la deterrenza”, queste le parole del generale Luca Goretti, capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, che ha anche ribadito la necessità di superare il gap strutturale tra sviluppo tecnologico e tempi di produzione degli armamenti. La velocità della tecnologia ipersonica ci interroga su come difenderci in caso di attacco. L’intelligence e i meta-dati diventano dunque essenziali per ottenere un vantaggio strategico ed è indispensabile un dialogo tra la Difesa e i diversi interlocutori civili, dagli analisti ai cyber-esperti.
Il ruolo della Nato
Come sostenuto dal ministro plenipotenziario Alessandro Cattaneo, consigliere diplomatico aggiunto del presidente del Consiglio, le tecnologie ipersoniche “hanno la potenzialità di dimostrarsi un game changer” strategico, chiamando in causa anche il rapporto tra pubblico e privato. Come ricordato da Cattaneo, la rapidità di risposta a un attacco ipersonico è un tema su cui la Nato dovrà riflettere: la catena di comando e controllo dovrà essere più rapida, anche per quanto riguarda la sua parte civile.
L’integrazione in Europa
Così come affermato da Giovanni Soccodato, amministratore delegato di MBDA Italia, “la componente tecnologica industriale è fondamentale”. Il ruolo del settore come catalizzatore della cooperazione europea è di cruciale rilevanza, perché, come affermato dall’ad, “sulla fascia alta dell’atmosfera non si può prescindere dalla collaborazione internazionale”. Infatti, il peso del dominio spaziale nello sviluppare capacità di early warning, e la necessità di aggregare le industrie del Vecchio continente, rendono necessaria la cooperazione.
Uno sguardo tecnico
Come affermato dall’ingegnere Stefania Sperandei, direttore Software engineering di MBDA, “la precisione dell’informazione, l’accuratezza dei sensori e la capacità di manovrare gli intercettori in tempi e con le capacità necessarie è una sfida tecnologica”, dove la capacità industriale diventa cruciale. Due i temi principali da affrontare. Il primo riguarda la produzione dei sistemi ipersonici. Il secondo tema, invece, riguarda il controllo e la necessità di manovrare il missile.
Ricerca e sviluppo
“L’Italia è un piccolo Paese che deve fare una sola cosa: investire in ricerca e sviluppo”, ne è sicuro il sottosegretario alla Difesa, Matteo Perego di Cremnago. Ciò è necessario per garantire il benessere e la qualità delle democrazie occidentali. La certezza della supremazia tecnologica è adesso messa in discussione, come dimostrato dall’arretratezza sulle tecnologie ipersoniche. Per risolvere questo problema, ha concluso Perego, è fondamentale incrementare le spese nel settore della Difesa, un impegno a cui le forze politiche non possono sottrarsi.
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Quale ruolo per l’Italia nel Gcap? Cingolani (Leonardo) punta in alto
Il programma congiunto tra Roma, Londra e Tokyo per il caccia di sesta generazione Global combat air programme (Gcap) continua a procedere a ritmo sostenuto, anzi accelerato, e l’Italia dovrebbe cogliere l’occasione per rivedere “al rialzo” la propria posizione all’interno del consorzio. A dirlo è stato l’amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani, a margine della Cybertech Europe 2023, la piattaforma mondiale di networking dedicata all’industria della sicurezza informatica, organizzata in partnership proprio con il gruppo di Piazza Monte Grappa. “È una fase di lavoro molto intenso”, ha detto l’ad, aggiungendo come a novembre sarà “in Giappone mentre a ottobre ci sono diversi incontri soprattutto con gli inglesi”.
L’INTELLIGENZA DI SCIAME
La nuova posizione italiana, infatti, potrebbe avvantaggiarsi dall’expertise dimostrata dalle proprie realtà che partecipano all’iniziativa, di cui Leonardo è capofila, soprattutto in alcune tecnologie-chiave del prossimo caccia. Per l’ad, infatti, il gruppo ha “un arsenale tecnico molto forte”, in particolare per quello che riguarda la swarm intelligence, una intelligenza di sciame che sarà alla base di una delle componenti più innovative del nuovo caccia. Il Gcap, infatti, vedrà l’aero vero e proprio essere accompagnato da uno sciame di droni più o meno autonomi, per controllare i quali il pilota dovrà essere assistito da un avanzato sistema di intelligenza artificiale.
L’ESPERIENZA DI LEONARDO
Proprio qui Leonardo può far valere il suo ruolo fin dalla fase di progettazione. “non è che ci sia un modello indentificato – ha spiegato Cingolani – sarà un aereo supersonico con 40 droni? Ma partono attaccati sotto le ali o partono da aeroporti vicini? C’è proprio da fare il concept, stabilire che cosa sarà”. L’unica cosa sicura, ha confermato l’ad, è che il mezzo “deve controllare trenta o quaranta droni, più o meno capaci e intelligenti, alcuni da ricognizione, alcuni da attacco, altri sacrificali”. Dunque, per Cingolani, “chi ha in mano le competenze deve mettersi al tavolo a dire: vediamo chi sa fare cosa: il ruolo forte lo misuri in base alle competenze”. Per questo Leonardo sente di avere le carte giuste per giocare alla pari al tavolo del Gcap: “Giappone e Uk sono bravi, però è un consorzio costruttivo, quindi c’è ampio margine”.
LE PROSSIME MINISTERIALI
L’aereo da combattimento, che fonderà il progetto anglo-italiano Tempest con il giapponese Mitsubishi F-X, dovrebbe essere sviluppato entro il 2035. L’obiettivo per i tre Paesi è ora quello di passare alla fase operativa, chiudendo entro fine anno gli accordi sulla partecipazione. Nelle prossime settimane sono previste due nuove riunioni ministeriali, una a Roma e l’altra probabilmente in Giappone. Potrebbe essere la prima volta per i due nuovi ministro della Difesa di Regno Unito e Giappone, rispettivamente Grant Shapps (con cui l’italiano Guido Crosetto ha avuto un colloquio conoscitivo la scorsa settimana) e Minoru Kihara.
IL NODO SAUDITA
Sul tavolo c’è anche l’ipotesi di allargamento del progetto all’Arabia Saudita. Su questo il Regno Unito è aperturista mentre il Giappone è fortemente contrario. Nelle scorse settimane si è espresso anche Cingolani, chiudendo la porta: “Il programma è Uk, Giappone e Italia. Punto”, aveva detto a margine dell’assemblea di Confindustria.
IL GCAP
Il progetto del Global combat air programme prevede lo sviluppo di un sistema di combattimento aereo integrato, nel quale la piattaforma principale, l’aereo più propriamente inteso, provvisto di pilota umano, è al centro di una rete di velivoli a pilotaggio remoto con ruoli e compiti diversi, dalla ricognizione, al sostegno al combattimento, controllati dal nodo centrale e inseriti in un ecosistema capace di moltiplicare l’efficacia del sistema stesso. L’intero pacchetto capacitivo è poi inserito all’intero nella dimensione all-domain, in grado, cioè di comunicare efficacemente e in tempo reale con gli altri dispositivi militari di terra, mare, aria, spazio e cyber. Questa integrazione consentirà al Tempest di essere fin dalla sua concezione progettato per coordinarsi con tutti gli altri assetti militari schierabili, consentendo ai decisori di possedere un’immagine completa e costantemente aggiornata dell’area di operazioni, con un effetto moltiplicatore delle capacità di analisi dello scenario e sulle opzioni decisionali in risposta al mutare degli eventi.
IL PROGRAMMA CONGIUNTO
L’avvio del programma risale a dicembre del 2022, quando i governi di Roma, Londra e Tokyo hanno concordato di sviluppare insieme una piattaforma di combattimento aerea di nuova generazione entro il 2035. Nella nota comune, i capi del governo dei tre Paesi sottolinearono in particolare il rispettivo impegno a sostenere l’ordine internazionale libero e aperto basato sulle regole, a difesa della democrazia. Grazie al progetto, Roma, Londra e Tokyo puntano ad accelerare le proprie capacità militari avanzate e il vantaggio tecnologico.
L’Italia potenzia la cyber-difesa Ue. Ecco il centro di cyber-analisi di Leonardo
È operativo il primo centro paneuropeo di analisi e gestione dei rischi cyber in tempo reale, realizzato da Leonardo e Indra per la Commissione europea per le politiche digitali (DG Connect). Il progetto da diciotto milioni di euro è stato finanziato dalla direzione generale Ue e mira a raggiungere una piena situational awareness nel cyber-spazio. Il centro analizza i dati provenienti da tutto il web, compresi social media, deep e dark web, e si avvale del supporto di oltre cinque milioni di indicatori di compromissione – tracce digitali di incidenti informatici – gestiti direttamente dal gruppo di piazza Monte Grappa anche attraverso infrastrutture di supercalcolo.
Tramite attività di previsione del rischio e analisi di scenario, l’innovativo istituto permette alla Commissione europea di riconoscere potenziali attacchi cyber, la loro probabilità e modalità, contribuendo all’individuazione delle infrastrutture digitali europee a rischio e degli eventuali attori malevoli. Il centro, oggi virtuale, sarà realizzato anche in forma fisica a Bruxelles, dove verrà supportato dal centro regionale di Leonardo, in modo da consentire alla Commissione di operare direttamente sulle minacce cyber.
Il dominio cibernetico si dimostra un crescente vantaggio strategico e, come annunciato dall’amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani, a Cybertech Europe – la conferenza sul cyber-spazio più grande d’Europa – la cyber-security sarà uno dei due pilastri del piano industriale 2024 del colosso italiano. È quindi chiara la volontà dell’azienda di aumentare e sfruttare la propria competitività anche attraverso massicci investimenti nella digitalizzazione e nella sicurezza dei server. L’innovativo progetto ha anche ricevuto il plauso della Commissione europea, per voce del vice presidente della Commissione, Margaritis Schinas, intervenuto sempre al Cybertech Europe, che ha ringraziato l’Italia per il suo impegno, invitando anche gli altri Paesi dell’Unione a seguirne l’esempio.
La creazione del nuovo centro si colloca all’interno del più ampio impegno europeo – e italiano – di proteggere le infrastrutture critiche da attacchi cibernetici. La questione, tra l’altro, è stata di recente analizzata all’evento “Resilienza e infrastrutture critiche. L’Europa, l’Italia e l’interesse nazionale”. La resilienza del settore cibernetico europeo è di fondamentale importanza. La stessa azienda italiana ha riscontrato nel 2022 un incremento del 180%, rispetto al 2021, delle tecniche offensive, in particolare ransomware, Ddos, wipers, phishing e campagne di disinformazione. Queste, combinate all’insicurezza dettata dalla guerra in Ucraina, hanno reso l’Europa soggetta ad un numero maggiore di minacce cibernetiche.
Al via l'undicesima edizione del premio letterario internazionale "Eugenia Bruzzi Tantucci" per l’anno scolastico 2023/2024. Gli studenti partecipanti potranno presentare i lavori entro e non oltre il 27 ottobre 2023.
Ministero dell'Istruzione
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Domani alle 11.45 parteciperò al 6° Automotive Campus organizzato da Duessegi Editore per discutere della raccolta dei dati e della privacy nel settore automotive. Qui tutte le informazioni relative all’evento duessegi.com
Émile Zola – Thérèse Raquin
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Media freedom: Pirates call for protection of journalists from spyware without exceptions
Strasbourg, 03/10/2023 – Today, the European Parliament will decide its position on the ‘Media Freedom Act’, the new law for freedom of press in the EU. The rules are designed to better protect journalists from arbitrary content removal on platforms such as Facebook and Twitter and from spyware attacks, such as the Pegasus software. While Pirates support the bill, they demand a complete ban on spying on journalists. Their group has accordingly tabled amendments.
Patrick Breyer, Member of the European Parliament for the German Pirate Party, comments:
“The media freedom law is a milestone in the protection of journalists in Europe and I am proud that Pirates have contributed to the success of the text. With the new rules, not only media representatives but also their sources, such as whistleblowers, will be better protected. However, it is now necessary to eliminate loopholes that would justify spyware attacks. That is why we Pirates, via our parliamentary group, have tabled amendments to ban spyware attacks without loopholes. Freedom of press is one of the highest values in liberal democracies and requires special protection. We must not allow politically motivated autocratic surveillance attacks to undermine it.”
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“Fermate il Regolamento chatcontrol”: la lettera di Privacy Pride al Governo Meloni
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Il Vega di nuovo in orbita. Tutto pronto al lancio
È iniziato il countdown per il lancio della prossima missione del vettore Vega, il razzo europeo realizzato in Italia presso gli stabilimenti Avio di Colleferro a Roma, che nella notte del 6 ottobre raggiungerà l’orbita terrestre dallo spazioporto europeo di Korou in Guiana Francese. La missione, denominata VV23, collocherà in orbita eliosincrona due satelliti principali e dieci ausiliari. Il primo è il satellite thailandese Theos-2 (Thailand earth observation system 2) specializzato nell’osservazione della Terra con una risoluzione delle immagini al suolo di 0,5 metri. La Thailandia ha intenzione di usare i dati del satellite per supportare le politiche di sviluppo del Paese. Il secondo satellite, Formosat-7R/Triton, è realizzato dall’Agenzia spaziale taiwanese ed è dotato di un sistema satellitare di navigazione globale che riflette i segnali per studiare i venti oceanici e fornire dati per prevedere l’intensità e la traiettoria dei tifoni.
Il contributo italiano
Avio, azienda di Colleferro specializzata in sistemi di propulsione e lanciatori spaziali, produce il vettore europeo Vega, un gioiello tutto made in Italy. Ma l’azienda guarda già al futuro essendo attualmente impegnata nella fase di sviluppo del lanciatore Vega-E. Il progetto è sviluppato in ambito Esa e portato avanti tramite la collaborazione tra Avio e l’Agenzia spaziale italiana, che prevede l’uso di un motore alimentato da ossigeno e metano liquidi. Il vettore è pensato per trasportare satelliti leggeri ed il primo lancio è previsto per il 2026.
Il futuro del Vega-C
Dopo l’anomalia riscontrata durante il lancio del Vega-C, accaduta nel giugno scorso, la Commissione d’inchiesta indipendente (Iec) istituita dall’Agenzia spaziale europea (Esa) per esaminare l’anomalia verificatasi durante il test del motore Zefiro 40 di Vega-C, ha recentemente completato i suoi lavori. La Commissione ha concluso che nell’attuale progettazione dell’ugello, la combinazione della geometria dell’inserto di gola e delle diverse proprietà termomeccaniche del nuovo materiale Carbon-Carbon utilizzato per questo test ha causato un danneggiamento progressivo di altre parti adiacenti l’ugello e un progressivo degrado che ha portato all’anomalia dell’ugello. Questo fenomeno non è legato a quelli osservati sulla missione VV22 con il precedente materiale Carbon-Carbon. È stata, quindi, istituita una task force guidata dall’Esa e da Avio che inizierà immediatamente a implementare le raccomandazioni proposte dalla Iec. L’Esa supporterà tale programma, attingendo dalle risorse già disponibili. Vega-C tornerà a volare nel quarto trimestre del 2024, mentre un altro volo Vega avrà luogo nel secondo trimestre del 2024.
BRASILE. Bahia, la città della musica nelle mani della criminalità
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di Pasquale Pugliese*
Pagine Esteri, 3 ottobre 2023, Bahia – Tutti conoscono Salvador da Bahia, la prima capitale storica del Brasile, città del mare e della musica che ha dato i natali ad artisti di caratura internazionale come Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa. Anch’essa è palcoscenico del celebre Carnevale brasiliano: la festa di strada più grande del pianeta. Ma Bahia è anche una tra le città più violente del Brasile.
Il tema della sicurezza pubblica è un problema storico nello Stato di Bahia, uno dei più grandi e popolosi del Brasile, con tassi elevati di disoccupazione e salari più bassi della media nazionale. Un fenomeno che negli ultimi tempi sta assumendo proporzioni mai viste. Nel mese di settembre sono stati uccisi 51 presunti appartenenti a fazioni criminose in conflitti a fuoco con le forze dell’ordine, secondo i dati ufficiali della polizia. Fonti non ufficiali parlano di un bilancio sensibilmente più alto con morti sepolti in zone abbandonate della matagal, la foresta.
Nella quotidianità dello Stato di Bahia si va dalla microcriminalità che prende di mira lavoratori e persone di umili condizioni – rapine di cellulari e di denaro ai danni di negozi o malcapitati, una vera e propria guerra tra poveri – alle facçoes, organizzazioni che hanno il dominio su vari quartieri di Salvador per la vendita di stupefacenti: maconha, cocaina, crack. In questo secondo caso siamo di fronte a criminali professionisti ben organizzati ed armati con mitragliatori, fucili, lanciagranate tenuti in arsenali nascosti.
Alla fine di settembre si è tenuta una riunione al vertice nel ben noto Gran Hotel Stella Maris alla quale hanno partecipato il segretario nazionale alla sicurezza e i comandanti della polizia militare allo scopo di trovare le contromisure a questa ondata di sparatorie e sangue. Ma la situazione a Salvador continua a peggiorare poiché due organizzazioni criminali di livello nazionale stanno tentando di prendere il controllo di alcuni quartieri della città. I continui scontri a fuoco tra tali organizzazioni e la polizia, oltre a provocare morti sul campo producono anche vittime innocenti per le balas perdidas, le pallottole vaganti sparate da poliziotti e criminali. Può capitarci chiunque: un padre di famiglia che si reca al lavoro, una madre che accompagna i figli a scuola, un bambino che gioca tra le mura di casa. La vita quotidiana del bahiano medio è peggiorata per queste sparatorie. Gli autobus pubblici non passano nei quartieri oggetto di conflitti a fuoco, i centri della sanità pubblica (ambulatori, cliniche, ecc) e le scuole chiudono per lo stesso motivo.
Le favelas sono i posti preferiti dagli uomini delle fazioni criminali per reclutare nuove leve, di solito giovani poco più che ventenni, spesso senza lavoro e attratti da facili guadagni, che vengono impiegati in azioni di sorveglianza delle vie di accesso al quartiere. Sono armati e muniti di cellulare: entrare in una boca de fumo, i rioni dove si vendono stupefacenti, non è consigliabile per chi non vi abita. A ciò si aggiunge il fatto che in Brasile la legge sul possesso di armi in Brasile non è restrittiva. Tanti cittadini posseggono pistole e la vendita delle armi negli ultimi anni è aumentata sulla scorta dell’intenzione di molti di “farsi giustizia con le proprie mani”. Un Far West brasiliano che rischia di rivelarsi peggiore di quello americano. Pagine Esteri
*Risiede da anni in Brasile, di cui è un osservatore della realtà politica e sociale.
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Meta (Facebook / Instagram) passa all'approccio "Paga per i tuoi diritti" Per aggirare il GDPR, Meta sembra intenzionata a passare a un approccio "Pay for your Rights" (paga per i tuoi diritti)